lunedì 11 ottobre 2010

Ansa 9.10.10
Libri: Lombardi e il fenicottero" presentato a Parma


E' stato presentato anche a Parma il libro 'Lombardi e il fenicottero', edizioni 'L'Asino d'oro' giunto alla seconda ristampa, quasi 4.000 copie, scritto dal giornalista dell'Agi Carlo Patrignani in onore di Riccardo Lombardi e della donna che gli fu accanto per 52 anni, 'il fenicottero' Ena Viatto. Un libro su cui si era discusso a luglio alla Festa Democratica del Pd a Roma, il 3 settembre a quella nazionale di Torino e il 16 settembre, alla Festa dell'Avanti del Psi a Ravalle. Lombardi ''e' stato per noi un maestro, ci ha insegnato la politica con la P Maiuscola'', ha detto dello storico dirigente socialista Franco Benaglia, della direzione nazionale Psi, che ha Parma ha dialogato con Roberto Garbi, segretario provinciale del Pd e consigliere regionale (''nel Pd, che sara' pure nato male e che con Bersani vuole tener assieme il popolo delle primarie ed i movimenti presenti nella societa', c'e' posto per Lombardi e la sua progettualita' perche' noi abbiamo bisogno di un progetto di societa' nuovo''), e Elvio Ubaldi, ex sindaco della citta' emiliana fino al 2008 ed attuale presidente del Consiglio comunale (''un politico scomodo ed inquieto, un grande innovatore: se a suo tempo non ci fosse stata la nazionalizzazione dell'energia elettrica, oggi non si parlarebbe di liberalizzazioni''). (ANSA).

Repubblica 11.10.10
Dalla “Fiera di Francoforte
Voglio parlare della pace"
di David Grossman


Pubblichiamo il discorso che ha tenuto ieri in occasione del conferimento de "Il premio della pace" dell´Associazione degli editori e dei librai tedeschi alla Fiera del libro di Francoforte

"Non posso dire cosa si aspettino i palestinesi: non ho diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro che conoscano un´esistenza di libertà e sovranità"
"La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano e rinnega anche il nostro comune destino"
"La letteratura è la stupefazione per l´uomo e per la sua complessità La scrittura dà il piacere di immaginare Per questo mi auguro che il mio Paese trovi la forza di riscrivere la sua storia"
"Solo la fine dello scontro darà a Israele una casa, un domani, generazioni future E darà la possibilità di vivere una sensazione mai provata: quella di un´esistenza stabile"

Quando ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore sapevo di voler raccontare la storia di Israele che da più di cento anni – ancor prima che diventasse una nazione – si trova in uno stato di guerra. E sapevo che l´avrei raccontata attraverso la storia privata, intima, di una famiglia.
Sarete forse d´accordo con me che il vero grande dramma dell´umanità è quello della famiglia. E ognuno di noi è un personaggio di questo dramma in quanto in una famiglia è nato. Ai miei occhi i momenti più significativi della storia non sono avvenuti sui campi di battaglia, in sale di palazzi o di parlamenti bensì in cucine, in camere da letto matrimoniali o in quelle dei bambini.
In A un cerbiatto somiglia il mio amore ho cercato di mostrare come il conflitto mediorientale proietti sé stesso, la sua brutalità, sulla fragile e delicata sfera familiare e come, inevitabilmente, ne modifichi il tessuto.
Ho cercato di descrivere la lotta che persone intrappolate in questo conflitto, o in un qualunque scontro violento e protratto, devono sostenere.
È la lotta per mantenere il sottile e complesso intreccio dei rapporti umani e sentimenti di tenerezza, di sensibilità, di compassione, in una situazione di durezza e di indifferenza nella quale il volto del singolo viene cancellato. A volte paragono il tentativo di preservare questi sentimenti nel pieno di una guerra a quello di camminare con una candela in mano durante una violenta tempesta.
Concedetemi ora di condurvi, con una candela in mano, in mezzo a questa violenta tempesta.
Se mi chiedeste cosa mi auguro per il conflitto israelo-palestinese la mia risposta, ovviamente, sarebbe che finisse al più presto, si risolvesse e regnasse la pace. Ma forse allora insistereste a chiedere: «E se le ostilità dovessero andare avanti ancora a lungo, quale sarebbe il tuo più grande desiderio?». Dopo aver provato una punta di dolore per questa domanda risponderei che in quel caso vorrei imparare a essere il più possibile esposto alle atrocità e alle ingiustizie, grandi e piccole, che il conflitto crea e ci presenta ogni giorno, e non chiudermi in me stesso o cercare di proteggermi.
Per me essere uomo in uno scontro tanto prolungato significa soprattutto osservare, tenere gli occhi aperti, sempre, per quanto io riesca (e non sempre ci riesco, non sempre ho la forza di farlo). Però so di dovere almeno insistere, per sapere ciò che succede, cosa viene fatto a nome mio, a quali cose collaboro malgrado io le disapprovi nella maniera più assoluta. So di dovere osservare gli eventi per reagire, per dire a me stesso e agli altri ciò che provo. Chiamare quegli eventi con parole e nomi miei, senza farmi tentare da definizioni e da termini che il governo, l´esercito, le mie paure, o persino il nemico, cercano di dettarmi.
E vorrei ricordare – e spesso è questa la cosa più difficile – che anche chi mi sta di fronte, il nemico che mi odia e vede in me una minaccia alla sua esistenza, è un essere umano con una famiglia, dei figli, un proprio concetto di giustizia, speranze, disperazioni, paure e limitatezze.
Signore e signori, oggi mi conferite questo prestigioso "Premio della pace", e della pace voglio parlare. È indispensabile parlarne, insistere a parlarne, soprattutto in una realtà come la nostra. È importante praticare una rianimazione costante e intensa alla coscienza terrorizzata e paralizzata di israeliani e palestinesi per i quali la parola "pace" è quasi sinonimo di illusione, di miraggio, se non addirittura di trappola di morte.
Dopo cento anni di guerre e decenni di occupazione e di terrorismo la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi non crede infatti più nella possibilità di una vera pace. Non osa nemmeno immaginare una situazione di pace. È ormai rassegnata al fatto di essere probabilmente costretta a vivere in una spirale infinita di violenza e di morte. Ma chi non crede nella possibilità della pace è già sconfitto, si è autocondannato a una guerra continua. Talvolta occorre ricordare – e di certo su questo autorevole palcoscenico – ciò che è ovvio: le due parti, israeliani e palestinesi, hanno il diritto di vivere in pace, liberi da occupazioni, dal terrorismo, dall´odio; di vivere con dignità, sia a livello del singolo che come popoli indipendenti in un loro stato sovrano, di guarire dalle ferite provocate da un secolo di guerre. E non solo entrambe le parti hanno questo diritto, hanno anche un estremo bisogno della pace, un bisogno vitale.
Non posso parlare di cosa si aspettino i palestinesi dalla pace. Non ho il diritto di fare i loro sogni. Posso solo augurare loro, dal profondo del cuore, che conoscano al più presto un´esistenza di libertà e di sovranità dopo anni di schiavitù e di occupazione sotto turchi, inglesi, egiziani, giordani e israeliani; che costruiscano la loro nazione, uno stato democratico, in cui crescere i figli senza paura, godere di una vita normale, di pace, e di quanto essa può offrire a qualunque essere umano. Posso però parlare dei miei desideri e delle mie speranze di israeliano e di ebreo.
Ai miei occhi la parola "pace" non definisce soltanto una situazione in cui finalmente la guerra, con tutte le sue paure, sarà finita e Israele manterrà buoni rapporti con i suoi vicini. La vera pace, per Israele, significherà un nuovo modo di essere nel mondo, la possibilità di guarire lentamente da distorsioni causate da duemila anni di diaspora, di persecuzioni, di antisemitismo e di demonizzazione. E forse, fra molti anni, se questa fragile pace resisterà, se Israele rafforzerà le basi della propria esistenza e potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale umano, spirituale e culturale, anche la sensazione di estraneità esistenziale, di isolamento, che l´uomo ebreo, che il popolo ebreo, prova in mezzo ad altri popoli, svanirà.
Con la pace Israele avrà finalmente dei confini, cosa non da poco, soprattutto per un popolo che per gran parte della sua storia è stato disperso in altre nazioni e molte sue tragedie sono derivate proprio da questo. Pensate: ormai da 62 anni Israele non ha confini definitivi. Le sue frontiere sono instabili, vengono modificate, allargate o ristrette, a ogni decennio. Nel nostro mondo chi non possiede dei confini chiari è paragonabile a chi vive in una casa i cui muri ondeggiano e la terra trema costantemente sotto i suoi piedi. A chi non possiede una vera casa.
Nonostante la sua grande forza militare Israele non è ancora riuscito a infondere nei suoi cittadini il senso di naturale serenità di chi si trova al sicuro nel proprio paese. Non è riuscito – ed è questa la cosa tragica – a guarire gli ebrei da un´amara sensazione di fondo: il disagio di chi non si sente quasi mai a casa nel mondo.
E dopo tutto Israele è stato creato per essere rifugio degli ebrei e del popolo ebreo. Era questo il sogno che ha portato alla sua creazione. Ma fintanto che non ci saranno la pace, dei confini definitivi e concordati e un vero senso di sicurezza noi israeliani non avremo la casa di cui siamo degni e di cui abbiamo bisogno. Non ci sentiremo a casa nel mondo.
Di sicuro ve ne rendete conto: certe parole, pronunciate da un ebreo israeliano in Germania, hanno una cassa di risonanza come in nessun´altra parte del mondo. Ciò di cui parlo, i termini che uso, i palpiti della memoria che questi risvegliano, provengono dalla ferita della Shoà e a essa fanno ritorno. Molto di quanto avviene in Israele, sia in ambito privato (nei rapporti di un uomo con sé stesso, con la sua famiglia, con i suoi amici), sia in quello pubblico, politico e militare, intrattiene un discorso complesso con la Shoà, con il modo in cui questa ha forgiato la coscienza ebraica e israeliana. Anche le cose che dico qui, nella Paulskirche, sede del primo parlamento tedesco democraticamente eletto nel 1848, le mie parole, come un colombo viaggiatore della Shoà, tornano sempre "laggiù", a quei giorni.
Ma al tempo stesso, e senza fare paragoni inaccettabili tra situazioni storiche completamente diverse, io rammento a me stesso che qui, in Germania, si può anche vedere come un popolo è in grado di risollevarsi non solo dalla distruzione fisica ma dal superamento di ogni limite e freno, dallo sgretolamento di ogni senso di umanità, e di impegnarsi a rispettare i valori dell´etica e della democrazia e di educare i giovani all´idea della pace.
Ma torniamo alla realtà del Medio Oriente: solo la pace potrà curare Israele dalla profonda paura che palpita nei cuori dei suoi cittadini riguardo al futuro del loro paese e dei loro figli. Credo che non ci sia al mondo un altro stato che viva una tale angoscia esistenziale. Quando leggete sul giornale che la Germania ha grandi progetti per il 2030 la cosa vi sembra logica e naturale, ma nessun israeliano farebbe progetti così a lungo termine. Quando penso a Israele nel 2030 provo una stretta al cuore, come se avessi profanato un qualche tabù concedendomi di immaginare un futuro tanto lontano….
Solo la pace darà a Israele una casa, un domani, generazioni future. E solo la pace permetterà a noi israeliani di vivere una situazione, o sensazione, mai provata prima: quella di un´esistenza stabile.
Chi è stato esiliato, deportato, perseguitato, cacciato ripetutamente per gran parte della sua storia, chi ha errato sospeso tra la vita e la morte per migliaia di anni, può solo aspirare a un´esistenza stabile e sicura nella propria patria. Aspirare a sentirsi un popolo radicato nella propria terra, con confini protetti e riconosciuti dalla comunità internazionale, accettato dai vicini, in buoni rapporti con loro e integrato nel tessuto delle loro vite, con un futuro davanti e finalmente a casa nel mondo.
Eccomi qui a parlarvi della pace. È strano. Io che non mai conosciuto un solo istante di vera pace in vita mia, vengo a parlarne a voi? Eppure ritengo che proprio ciò che so della guerra mi dia il diritto di farlo.
Già da molti anni la mia vita, i miei libri, si dipanano in un questo miscuglio di guerra, di paura delle sue conseguenze, di ansia per Israele e per i miei cari che ci vivono, di lotta per il diritto ad avere una vita privata, intima, non eroica, in una situazione spesso monopolizzata dal conflitto, dalla tempesta, dalla candela.
E quanto più conosco profondamente la distruzione e la devastazione di una vita in uno stato di guerra, più sento il bisogno di scrivere, di creare, come se questo fosse un modo di rivendicare il mio diritto all´individualità, di dire "io" anziché "noi".
La guerra, per sua natura, annulla le sfumature che rendono unico un individuo e la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega anche la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino.
La letteratura, non solo scrivere libri ma anche leggerli, è l´opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all´individuo, al suo diritto di essere tale e al destino che condivide con l´intera umanità. La letteratura è lo stupefazione per l´uomo, per la sua complessità, la sua ricchezza, le sue ombre.
Quando scrivo cerco di redimere con tutte le mie forze ogni personaggio dalla morsa dell´estraneità, della banalità, degli stereotipi, dei cliché, dei pregiudizi. Quando scrivo lotto, talvolta per anni, per cercare di capire ogni aspetto di una figura umana, per essere lei.
C´è un che di tenero, quasi materno, nel modo in cui uno scrittore cerca di percepire con tutti i suoi sensi i sentimenti e le emozioni del personaggio che crea. C´è un che di vulnerabile e di sprovveduto nella sua disponibilità a dedicarsi senza difese ai personaggi di cui scrive. È forse questo ciò che di grande può offrire la letteratura a chi vive in uno stato di guerra, di alienazione, di discriminazione, di povertà, di esilio, di sensazione che il suo "io" venga continuamente calpestato: la capacità di restituirci un volto umano.
Signore e signori, ho aperto questo discorso parlando di come ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore. Forse sapete che il romanzo narra di un soldato israeliano che parte per la guerra e la madre, in ansia per il figlio, fugge di casa perché un´eventuale brutta notizia non la raggiunga.
Tre anni e tre mesi dopo avere cominciato a scrivere il libro è scoppiata la seconda guerra del Libano in seguito a un improvviso attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana in ricognizione entro i confini di Israele. La sera di sabato 12 agosto 2006, poche ore prima del cessate il fuoco, mio figlio Uri è stato ucciso insieme a suoi tre compagni, l´equipaggio di un carro armato, da un razzo lanciato da Hezbollah.
Dirò solo questo: pensate a un ragazzo sulla soglia della vita, con tutte le speranze, l´entusiasmo, la gioia di vivere, l´ingenuità, l´umorismo e i desideri di un giovane uomo. Così era Uri e così erano migliaia di israeliani, palestinesi, libanesi, siriani, giordani ed egiziani che hanno perso, e continuano a perdere, la vita in questo conflitto.
Al termine della settimana del lutto ho ripreso a scrivere.
Quando a un uomo capita una tragedia una delle sensazioni più forti che prova è quella di essere esiliato da tutto ciò in cui credeva, di cui era certo, dalla storia di tutta la sua vita. All´improvviso niente è più scontato.
Per me, tornare a scrivere dopo la tragedia è stato un atto istintivo. Avevo la sensazione che così facendo avrei potuto, in un certo senso, tornare dall´esilio.
Ho ripreso a scrivere. Sono tornato alla storia che, stranamente, era uno dei pochi luoghi della mia vita che ancora potevo capire. Mi sono seduto alla scrivania e ho cominciato a riannodare i fili lacerati della trama. Dopo qualche settimana ho sentito per la prima volta, con un certo stupore, il piacere di scrivere. Mi sono ritrovato a cercare per ore una parola che descrivesse con esattezza un preciso sentimento. Mi sono reso conto di non potermi accontentare di un termine che non rispecchiasse fedelmente quel sentimento. A tratti mi stupivo che qualcosa di tanto piccolo accentrasse a tal punto la mia attenzione quando il mondo intorno a me era crollato. Ma non appena trovavo la parola giusta avvertivo una soddisfazione che pensavo non avrei più provato in vita mia: quella di fare qualcosa come si deve in un mondo tanto caotico. Talvolta mi sentivo come chi, dopo un terremoto, esce dalle macerie di casa, si guarda intorno, e comincia a impilare un mattone sull´altro.
E mentre scrivevo a poco a poco riaffiorava in me il piacere di immaginare, di inventare, lo stimolo del gioco e della scoperta che palpitano in ogni creazione. Inventavo personaggi, soffiavo in loro la vita, il calore e la fantasia che non credevo più ci fossero in me. Davo loro una realtà, una quotidianità. Ritrovavo dentro di me il desiderio di toccare tutte le sfumature di un sentimento, di una situazione, di un rapporto. E non temevo il dolore che talvolta questo contatto provoca. Riscoprivo che scrivere è per me il miglior modo di combattere l´arbitrarietà – qualsiasi arbitrarietà – e la sensazione di essere una vittima impotente dinanzi a essa. E ho imparato che in certe situazioni l´unica libertà che un uomo ha è quella di descrivere con parole sue il proprio destino. Talvolta questo è un modo per non essere più una vittima.
E questo è vero sia per il singolo che per le comunità, i popoli. Mi auguro che il mio paese, Israele, trovi la forza di riscrivere la sua storia. Di porsi in maniera nuova e coraggiosa dinanzi al suo tragico passato e ricrearsi da esso. Mi auguro che tutti noi troveremo la forza necessaria per distinguere i veri pericoli dai potenti echi delle sciagure e delle tragedie che ci hanno colpito in passato, per non essere più vittime dei nostri nemici o delle nostre angosce e per arrivare, finalmente, a casa.
Grazie e shalom
(Traduzione di Alessandra Shomroni)

Repubblica 11.10.10
Da Bala Murghab alla Zirko Valley la guerra nascosta dei soldati italiani
di Giampaolo Cadalanu


C´era ancora la neve in Afghanistan quando i soldati italiani hanno capito che il 2010 sarebbe stato un anno difficile: lo annunciava una battaglia che spazzava via il luogo comune della guerriglia abituata al riposo invernale.
La battaglia di Natale
A Bala Murghab la Brigata Sassari si è trovata a passare gli ultimi giorni del 2009 sotto i razzi e le granate Rpg: 72 ore di combattimento continuo e la "neutralizzazione della minaccia" solo dopo l´intervento delle forze aeree - soprattutto gli elicotteri d´assalto Mangusta - e l´uso massiccio dei mortai Thompson da 120 millimetri. Serviva a garantire l´allargamento della "bolla di sicurezza" nella valle, per consentire l´uso della ring road, l´unica strada che collega l´intero Paese. L´avevano battezzata "operazione Buongiorno", ma era la prima puntata di una stagione di agguati, bombe, granate, fucilate che arrivano dal nulla.
L´attacco al cotonificio
Dopo i dimonios della Sassari, è stata la Brigata Taurinense a scoprire che anche nel quadrante Ovest l´intensità dello scontro era salita. Negli ultimi sei mesi gli Alpini hanno sempre più difficoltà a chiamare "missione di pace" lo stillicidio di attentati e scontri. A maggio un ordigno stradale nascosto fra i tornanti di montagna sulla strada sterrata che porta a Bala Murghab ha ucciso due genieri e ne ha feriti altri due, compresa una soldatessa. La bomba contro il convoglio era anche un segnale che la guerriglia ormai conosce il blindato Vtlm e ha preso le misure necessarie per superarne le corazze: le cariche sono sempre più alte, nemmeno "San Lince" riesce più a fare miracoli. Ma la base avanzata dell´ex cotonificio sul fiume Murghab è uno dei fiori all´occhiello dell´intervento italiano: la zona garantita si allarga, almeno settemila sfollati sono tornati nei villaggi della valle. E credono nel futuro: lo dimostrano anche andando a votare numerosi, il 18 settembre.
La trappola di Herat
Non c´è modo di abbassare la guardia nemmeno a Herat, dove pure le truppe afgane sembrano avere il pieno controllo. A luglio una doppia trappola esplosiva strazia i due artificieri italiani intervenuti su richiesta della polizia per disinnescare un ordigno. Mauro Gigli, decano del mestiere, fiuta che qualcosa non va e riesce a far allontanare tutti prima che la seconda bomba esploda. Ma per lui e il collega non c´è niente da fare. Le bombe artigianali si confermano lo strumento più micidiale. Il bilancio dell´intero settore Ovest è impressionante: in sei mesi 98 ordigni esplosi, dieci con vittime, almeno 158 disinnescati prima che facessero danni, una ventina di arsenali di esplosivo scoperti e distrutti.
La casa degli insorti
Ci sono anche le truppe speciali, inquadrate nella semisegreta Task Force 45 sotto il diretto comando Nato, a svolgere incarichi difficili. A settembre un Predator partito da Herat vede un gruppo di persone nascondere una bomba sotto la strada. La base più vicina è quella di Farah, da lì gli elicotteri partono alla caccia dei guerriglieri. Ma la casa dove si rifugiano gli insorti si rivela una roccaforte armatissima, prima di averne ragione gli italiani perdono il tenente Alessandro Romani, raggiunto dai proiettili al torace.
Caccia all´uomo a Javand
Due uomini della "45" erano stati feriti anche in un´operazione nel distretto di Javand, nella provincia di Badghis. È la prova definitiva del coinvolgimento italiano in operazioni search and destroy, cioè nella caccia all´uomo con cui la Nato cerca di neutralizzare - catturare o più spesso uccidere - i personaggi di rilievo della guerriglia, leader e soprattutto esperti di esplosivo. Gli scontri delle unità d´élite probabilmente non sono compresi nel conteggio ufficiale dei "Tic", gli episodi di truppe in contatto, cioè i combattimenti diretti: sono oltre duecento, fra harassment fire, cioè fucilate di disturbo, e confronto faccia a faccia. La cifra riguarda tutti i contingenti e comprende dunque gli episodi segnalati dalle truppe afgane. Chiaramente, è una cifra approssimata per difetto.
L´inferno della Zirko Valley
La distribuzione dei compiti che voleva gli italiani lontani dai punti ad alta intensità è archiviata. Ne è un esempio la Zirko valley, zona di Shindand, infestata dagli Ied che nelle scorse settimane hanno colpito i Lince, per fortuna senza conseguenze. È considerata "la Korengal italiana", con riferimento alla valle sul confine pachistano da dove persino i marines del generale McChrystal hanno dovuto ripiegare. Lo stesso vale per zone appena passate alla responsabilità italiana: Bakwa, o, appunto, la valle del Gulistan. Prima erano controllate dai marines, e nessuno si sognava di considerarli in "missione di pace".

l’Unità 11.10.10
Bersani: breve governo di transizione poi si voterà
Il leader Pd in tv da Fazio: abbiamo sottovalutato Berlusconi, è un osso duro, non una macchietta
Il partito si prepara. «Nuovo Ulivo con Di Pietro e Vendola e alleanza con l’Udc»
«Prima il governo di transizione, poi il voto a primavera». Bersani da Fazio ribadisce lo schema delle alleanze: «Nuovo Ulivo con Vendola e Idv, poi accordo con l’Udc». «Per il premier faremo le primarie».
di Andrea Carugati

«Berlusconi è un osso duro, quando abbiamo detto che era una macchietta lo abbiamo sottovalutato». Pierluigi Bersani sceglie il salotto di Fabio Fazio su Raitre per una “confessione” inedita sul rapporto tra il suo partito e il Cavaliere. E tuttavia, accanto a questa autocritica, infila un moto d’orgoglio: «Io sono per guardare tutti i nostri limiti e correggerli, ma non sono per l’autolesionismo. La destra in tutta Europa vince perché è riuscita a gestire meglio i temi della globalizzazione. Ma noi non siamo stati delle meteore inutili, se siamo nell’Unione europea è per noi...». Bersani parla anche del futuro, a partire da una previsione sul voto: «C’è una buona probabilità che si vada votare in primavera, il deterioramento di questa maggioranza è evidente», spiega. «Andranno avanti a pajata e polenta, finché uno di loro non staccherà la spina...». Per questo il leader Pd continua a ragionare su «un breve governo di transizione, che faccia una nuova legge elettorale». «Tutti dimenticano che due anni fa fu proprio Berlusconi a dire in Parlamento che bisognava cambiare la legge elettorale. Se la maggioranza dei parlamentari vuole attuare la riforma, allora si può fare. Ancora non è in vigore la costituzione di Arcore...».
PROPOSTA ALL’UDC
Su come andare al voto, Bersani ha ribadito la sua ricetta dei “due cerchi”: un «nuovo Ulivo» con Vendola e Di Pietro, e una proposta di alleanza anche all’Udc. Sulla base di accordi chiari, «perché stavolta dobbiamo fare una cosa come si deve, altrimenti meglio che ci riposiamo...». Bersani difende il metodo delle primarie per scegliere il candidato premier, «sono una cosa bellissima». Massima disponibilità dunque al dialogo ma il segretario avverte: «Il Pd non è salmeria di nessuno, discute con tutti ma non ci sta a tutti i prezzi. Noi stiamo costruendo un progetto, ne discutiamo con tutti ma abbiamo bisogno di rispetto». «Se restiamo a pettinare le bambole, veniamo meno a un compito storico», avverte Bersani, ribadendo i rischi del secondo tempo del berlusconismo che rischia «lesionare i pilastri fondativi della Costituzione più bella del mondo». «Le regole vengono prima del consenso, non si può dire che siccome ho il consenso io forzo le regole. Chi direbbe in una democrazia “ghe pensi mi”? Berlusconi favorisce una deriva populista e plebiscitaria che rischia di portare l’Italia fuori dalle democrazie occidentali». «Il Cavaliere è arrivato in una fase di discredito della politica e il suo istinto porta verso una fase di grande discredito della politica. Oggi c’è un distacco tra società e politica paragonabile al ‘94. Bisogna sfondare il numero di gomma che si è creato...». Di qui la risposta alla “dolorosa” domanda: «Perché la crisi di Berlusconi non porta voti al Pd?». «Quando piove piove per tutti», dice Bersani.
E il “papa straniero” che dovrebbe salvare il centrosinistra? «Speriamo che non si liberi Obama risponde sorridendo lo spero per Stati Uniti...». Fazio cita Montezemolo, Draghi, Profumo, «nessuno di questi ha fatto il volontario alle feste del Pd...». «Per adesso divertiamoci leggendo i giornali. Poi quando sarà il momento vedremo», la risposta.
CHIARIMENTO SULL’AFGHANISTAN
Si parla anche del dramma afghano. «L’Italia chiarisca il proprio ruolo», spiega Bersani uscendo dagli studi Rai. Nessun commento sulle bombe proposte da La Russa. «Servirebbe un chiarimento sul futuro della missione italiana. Perché siamo andati li? Cosa succede? Quali sono le prospettive?». Una tappa fondamentale per mettere a fuoco la questione «è quella che coincide con l’inizio del ritiro delle truppe, a metà del prossimo anno». «I talebani non possono vincere questa partita, né l’Italia può venire meno ai patti e alle alleanze. Mi piacerebbe che l’Italia giocasse un ruolo decisivo per ottenere chiarezza su quello che sta succedendo, che facesse sentire la sua voce».

l’Unità 11.10.10
La sfida del programma
Scuola
«Posto nido per tutti i bimbi. Piano urgente per i precari»

Piano straordinario 0 6 anni
Trasformare l’asilo nido da servizio a domanda individuale a diritto educativo di ogni bambino e bambina. Assicurare a tutti i bambini un posto nella scuola dell’Infanzia.
Dare certezza di funzionamento alle scuole Ogni scuola deve poter contare su un triennio certo di programmazione. Assegnare un organico funzionale che includa, anche per reti di scuole, personale stabile per le supplenze brevi e professionalità specializzate a supporto dei ragazzi con bisogni speciali (autismo, dislessia, discalculia). Questo sistema comporta molti vantaggi a parità di spesa: il superamento del precariato scolastico; la programmazione certa dei fabbisogni di insegnanti e conseguente piano di reclutamento; la piena autonomia delle scuole nell’organizzazione della didattica.
Scuola primaria
Il Pd propone l’estensione a tutto il Paese del tempo pieno e del modulo a 30 ore con le compresenze.
Attuazione del Titolo V
Uffici scolastici regionali trasferiti dal ministero alle Regioni. Alle Regioni spetta definire il dimensionamento e il numero delle autonomie scolastiche, la distribuzione nel territorio delle scuole, le specializzazioni nella scuola superiore. Passare dai livelli essenziali delle prestazioni (Lep) ai livelli essenziali degli apprendimenti e delle competenze (Leac) per garantire l’unitarietà dell’ordinamento dell’istruzione: un ragioniere di Torino deve avere le stesse competenze di uno di Trapani, competenze utili a raggiungere gli obiettivi di Lisbona e gli standard internazionali.
Formare e reclutare gli insegnanti di domani Serve una terapia d’urgenza per il precariato immettendo in ruolo a tempo indeterminato i posti che ora sono coperti con incarichi annuali e che quindi già sono considerati nella spesa. Il personale scolastico deve restare in servizio per non meno di 3 anni nella stessa scuola per garantire la continuità didattica. No alla chiamata diretta. Introdurre la formazione in servizio obbligatoria e certificata.
Lotta alla dispersione
Il tasso più alto di dispersione scolastica si ha tra gli 11 e i 16 anni. Servono quindi dei raccordi tra medie e biennio delle superiori, un biennio che vogliamo unitario per aiutare i ragazzi a fare scelte più consapevoli. Obbligo di istruzione a 16 anni. Realizzare in tutta Italia le Anagrafi regionali degli studenti (a oggi ne abbiamo 11 su 20 Regioni)
Piano per l’edilizia scolastica
Due scuole su tre non sono a norma di legge. In Italia solo il 46 per cento delle scuole ha il certificato di agibilità statica, contro il 98 per cento della Germania, il 93 della Francia e il 92 per cento dell'Inghilterra.
Le risorse stanziate, anche dall’ultimo governo di centro sinistra, spesso non possono essere spese dagli enti locali per i vincoli imposti dal patto di stabilità interno: per questo chiediamo che dal patto vengano escluse le spese per l’edilizia scolastica.

l’Unità 11.10.10
La sfida del programma
Immigrazione
«Cittadinanza per i figli. Diritto di voto per gli adulti»

Selezione a punti?
La proposta lanciata all’assemblea di Varese dal gruppo dei 75 di Veltroni (un sistema di selezione a punti basato sulla qualità dell’immigrazione, come avviene in Paesi come Australia e Gran Bretagna), è stata discussa e inclusa nel documento finale approvato, in cui peraltro erano già contenuti concetti simili. Il Pd ha deciso di «aprire una discussione nel Paese» sul tema. Dunque non è ancora una proposta ufficiale del partito.
Accordi bilaterali
Gli accordi bilaterali avviati dai governi di centrosinistra (il 90% di quelli esistenti) hanno dimostrato di essere la strada più efficace per governare l’immigrazione. Bisogna estendere quegli accordi.
Chi nasce e cresce in Italia è italiano Sono 864.000 i figli degli immigrati che vivono in Italia; nel 1992 erano 50.000: in queste cifre è scritto il cambiamento che l’Italia ha vissuto nell’arco di 20 anni. Bisogna modificare la legge in vigore sulla cittadinanza e prevedere che i figli di genitori stranieri, da alcuni anni residenti nel nostro Paese, che nascono in Italia o che arrivano bambini in Italia, al momento della nascita o quando concludono il primo ciclo scolastico possono essere riconosciuti come cittadini italiani.
Piano contro la clandestinità
-utilizzare tutti gli strumenti già disponibili per l’emersione del lavoro irregolare;
-introduzione del reato di grave sfruttamento del lavoro (caporalato), aggravato quando interessa minori e migranti clandestini;
-estendere ai lavoratori immigrati gli ammortizzatori sociali previsti per i lavoratori italiani;
-ridurre i tempi per il rilascio ed il rinnovo dei permessi di soggiorno; -adottare forme di regolarizzazione ad personam per evitare il formarsi di periodiche “bolle” di irregolarità che poi comportano il ricorso alle periodiche sanatorie. Tali regolarizzazioni dovrebbero essere attuate sulla base di requisiti: il lavoro, la casa, il rispetto delle leggi, la buona integrazione. Potrebbe riguardare coloro che contribuiscono all’individuazione di fattispecie criminali legate all’immigrazione; per coloro che compiono atti di rilevanza umanitaria e sociale;
-riattivare le quote dell’ingresso regolare e semplificare le procedure;
-applicare l’articolo 18 del decreto legislativo 286/98 che prevede un permesso di soggiorno umanitario per le persone che denunciano i propri sfruttatori;
-applicare la direttiva del 18 giugno 2009 che impegna gli Stati membri dell’Unione Europea a sanzioni e provvedimenti nei confronti dei datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare;
-incentivare il rimpatrio volontario degli irregolari sulla base di quanto previsto dalla direttiva europea 2008/115/EC;
-prevedere l’inserimento dei rifugiati e delle persone vittime di tratta tra le categorie svantaggiate che possono essere inserite nella cooperazione sociale attraverso la modifica della legge 382/91;
-ingresso per ricerca di lavoro sponsorizzata e garantita da istituzioni ed organizzazioni certificate (sindacati, associazioni di imprenditori, istituzioni pubbliche);
-ingresso per ricerca di lavoro su domanda dei singoli, dietro prestazioni di garanzia da parte del richiedente entro tetti numerici;
Votare per partecipare
Il diritto di voto amministrativo per gli immigrati rientra dentro il processo di “manutenzione” della democrazia.
Moschee e burka
No al volto coperto, serve un’intesa tra le comunità musulmane e lo Stato che riguardi l’esercizio della religione musulmana, la seconda in Italia.
Respingimenti
Nel caso di riaccompagnamento o respingimento al paese, al migrante deve essere garantito il diritto di rivolgere domanda di asilo per il tramite dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Le domande devono essere esaminate con le garanzie giuridiche prescritte ed in tempi ragionevoli. Queste condizioni oggi non esistono. Per quanto riguarda il Trattato tra Italia e Libia il Governo italiano deve applicarlo in tutte le sue parti, a partire dagli articoli 1 e 6 che impegnano le parti ad adempiere agli obblighi “derivanti dai principi e dalle norme del Diritto Internazionale universalmente riconosciuti”; deve intervenire sul Governo libico perché sia riattivato l’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, gestito da una commissione mista libico-europea, per consentire l’attivazione della procedura del diritto d’asilo; deve inoltre rispettare l’ordine del giorno presentato dal Pd al Senato e accolto dal Governo per un coinvolgimento del Parlamento medesimo nella gestione dell’Accordo Italia-Libia.
Rom e Sinti
Dalle persone Rom bisogna esigere il rispetto delle regole. E al contempo offrire loro le opportunità di inserimento nella società. A partire dall’obbligo scolastico dei bambini e dal superamento dei campi rom. L’Ue ha messo a disposizione da anni risorse per l’integrazione della comunità Rom, che il governo italiano non ha usato

Repubblica 11.10.10
Le due agende etiche
di Stefano Rodotà


Due "agende etiche" sono comparse all´orizzonte politico, e vale la pena di metterle a confronto. La prima è stata presentata dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere, e contempla temi noti, nell´abituale cornice limitativa dei diritti delle persone – procreazione assistita, aborto, testamento biologico, ricerca scientifica. La seconda nasce dall´ordinanza con la quale il Tribunale di Firenze ha rinviato alla Corte costituzionale la legge sulla procreazione assistita perché vieta la cosiddetta fecondazione eterologa, così violando l´eguaglianza tra le persone. Qui l´impostazione è completamente rovesciata. Si vuole restituire a tutti la libertà di scelta nelle questioni di vita, come ha già fatto la Corte dichiarando incostituzionali alcune norme della stessa legge e come ha indicato la Corte europea dei diritti dell´uomo affermando l´illegittimità del divieto contenuto nella legge austriaca.
Prevedibili le reazioni critiche di governo e Vaticano, fondate tuttavia su sgrammaticature istituzionali e falsificazioni della realtà. Non è vero che la legge sulla procreazione assistita sia inattaccabile perché confermata da un referendum: nel 2005 semplicemente non fu raggiunto il quorum necessario per l´abrogazione per l´invito all´astensione venuto dalla Chiesa, dunque non vi è un risultato giuridicamente vincolante. E non è vero che una dichiarazione di incostituzionalità provocherebbe "un far west procreativo": questo, invece, è stato l´effetto dei divieti legislativi, che obbligano le donne italiane a chiedere una sorta di provvisorio "asilo politico" in altri paesi europei per soddisfare il desiderio di maternità.
Ma torniamo all´agenda governativa e a quel che ha detto uno dei ministri che l´ha preparata: «La biopolitica è oggettivamente all´ordine del giorno». Mai parola è stata più rivelatrice. Consapevole o no, quel ministro ha usato un termine, «biopolitica», che descrive proprio il modo in cui il potere si impadronisce della vita delle persone, sottomettendole, espropriandole della loro libertà. Un progetto autoritario, destinato a creare scontri su un terreno dove la misura dovrebbe essere la regola, dove il rispetto delle scelte della persona dovrebbe essere massimo, dove la ricerca scientifica dovrebbe essere libera da ipoteche ideologiche.
Considerando tempi e difficoltà della politica, vi è la ragionevole speranza che questa agenda non sia approvata dal Parlamento. Ma il suo annuncio rivela un intento strumentale. Usare i temi "eticamente sensibili" per mettere in difficoltà i finiani, già critici verso la legge sulla procreazione e ostili alla proposta di testamento biologico approvata dal Senato, per allettare l´Udc e creare divisioni all´interno del Pd. Soprattutto, però, la mossa ha un destinatario privilegiato, le gerarchie vaticane, alle quali Berlusconi cercò di mandare un segnale di fedeltà proprio su quei temi al tempo dell´affare delle escort. E Berlusconi fece recapitare una lettera alle suore che avevano ospitato Eluana Englaro, addolorato «per non aver potuto evitare la sua morte».
Non era il rammarico di un Re Taumaturgo al quale era stato impedito di imporre le sue mani per una guarigione altrimenti impossibile. Era la rivendicazione di un potere sulla vita, di cui il politico vuole tornare a essere l´unico depositario. Era pure il tentativo di mantenere una traballante alleanza tra Trono e Altare, con una agenda bioetica e dichiarazioni governative che rispecchiano quasi alla lettera parole di Benedetto XVI.
Ma il Parlamento deve essere sempre guidato dai principi costituzionali, chiariti assai bene dalla Corte costituzionale in sentenze su salute, autodeterminazione, procreazione (e si potrebbe aggiungere quella sulle unioni omosessuali, per mettere ancor più in evidenza quanto la logica costituzionale sia lontana dalla linea dell´attuale maggioranza). Nel dicembre 2008 la Corte ha ribadito che le decisioni sulla vita sono affidate al consenso informato dell´interessato e che vi sono «due diritti fondamentali della persona: quello all´autodeterminazione e quello alla salute». Pochi mesi dopo, nel maggio 2009, dichiarando incostituzionali proprio alcune norme della legge sulla procreazione assistita, la Corte ha sottolineato che «in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l´autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Il quadro costituzionale è così definito senza possibilità di equivoci. Il potere di decidere sulla vita appartiene alla persona, titolare del diritto fondamentale all´autodeterminazione. Al suo consenso è subordinato l´intervento del medico, il quale tuttavia non può essere espropriato delle sue competenze professionali. No, dunque, al legislatore-medico e al legislatore-scienziato (che, ad esempio, stabilisce se idratazione e alimentazione forzata siano o no trattamenti medici).
I contenuti dell´agenda etica rovesciano questa linea, si allontanano dalla retta via costituzionale. La sostanziale cancellazione della volontà della persona nel disegno di legge sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento", dunque sulle decisioni di fine vita e sulla dignità del morire, è in contrasto palese con il diritto fondamentale all´autodeterminazione e vuol far divenire le persone prigioniere di un´etica di Stato invece d´essere titolari dei diritti riconosciuti dalla Costituzione.
Poiché, tuttavia, il tema del governo della vita rimane cruciale nel tempo della tecnoscienza, è indispensabile una riflessione più generale sul ruolo del diritto e i limiti dell´intervento dello stesso Parlamento. Ancora una volta è la Costituzione a indicarci nitidamente il cammino, con le parole che chiudono l´art. 32 sul diritto alla salute: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l´Assemblea costituente, promette ai cittadini che non "metterà la mano" su di loro, sulla loro vita. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato. Una riflessione indispensabile in un tempo segnato dalla presenza pervasiva del diritto, sulla quale ha richiamato recentemente l´attenzione anche il cardinale Angelo Scola.
Mentre discutiamo di questioni generali, però, troviamo il tempo per gettare uno sguardo su una piccola e devastante agenda etica che si vuole imporre nella Regione Lazio, che vuol riscrivere le norme sui consultori familiari, modificare sostanzialmente la legge sull´aborto, costringere le donne a fare i conti con le associazioni private antiabortiste. Né la Costituzione, né il rispetto della persona consentono prepotenze come questa.

l’Unità 11.10.10
Vienna
Calo socialdemocratico. L’estrema destra fa il pieno e sale al 27%

Vienna la «rossa» si tinge di blu, il colore della destra xenofoba in Austria. Per la città-stato si conferma il trend in atto Europa di forte avanzata dei partiti estremisti sull'onda di problemi e paure degli elettori legati all'immigrazione. Superando tutti i pronostici, il leader della Fpoe di estrema destra, Heinz-Christian Strache, ex braccio destro di Joerg Haider, è il vero vincitore delle regionali ieri a Vienna, ha strappato il 27,05 aumentando i voti del 12%. Il partito socialdemocratico Spoe del sindaco Michael Haeupl ha difeso il primo posto ma ha perso la maggioranza assoluta che aveva finora, ha ottenuto il 44,12 perdedo il 4, 9%

Repubblica 11.10.10
Il vento di destra su Vienna la rossa
Austria, lo xenofobo Strache al 27%: "Non siamo estremisti ma basta immigrati"
La gente vota per noi perché è insoddisfatta e stanca dell´arroganza e della prepotenza dei socialisti
di Andrea Tarquini


VIENNA - «È un giorno storico». Abbronzato, elegante, il leader della Fpoe, la destra radicale austriaca, è raggiante di gioia parlando con Repubblica. Dopo Geert Wilders in Olanda, dopo i "Democratici di Svezia" a Stoccolma, ora in Austria è Heinz-Christian Strache il vincitore, il protagonista. Alle elezioni nella Vienna "rossa" dai tempi di Francesco Giuseppe (elezioni di valenza nazionale, perché la capitale è uno Stato federale), il suo partito ha quasi raddoppiato i consensi, volando al 27 per cento. Per i socialdemocratici del borgomastro-governatore Michael Haeupl e del cancelliere federale Werner Faymann, la disfatta è gravissima: calano dal 49,1 al 44,1. Peggio ancora va ai cristianopopolari alleati di Faymann nel governo nazionale, e degradati a terza forza nella capitale, e ai Verdi. Mancano 120mila schede di voto per posta, ma comunque dopo Paesi Bassi e Scandinavia, il nuovo vento di destra sconvolge gli equilibri politici anche in Austria, e si conferma come trend europeo.
«Cinque anni fa, quando assunsi la guida del mio partito, eravamo macerie, al 3 per cento», dice Strache. Fuori, nella tenda elettorale della Fpoe, i suoi esultano, ballano a ritmi rock e brindano alla grande. Li galvanizza la bruna, giovane Barbara Kappel, un´altra loro star. «È il miglior risultato della nostra storia, ha un peso nazionale», continua. Difficile dargli torto: poche centinaia di metri lontano, tra i musi lunghi al quartier generale della Spoe, la socialdemocrazia sconfitta, il cancelliere Werner Faymann ammette: «Speravo in un risultato migliore». Adesso, sottolinea Strache, «non potranno più isolarci diffamandoci con etichette di estremismo. La gente vota per noi perché è insoddisfatta, e stanca dell´arroganza e della prepotenza dei socialisti».
Difesa dei valori nazionali contro l´islamizzazione, chiesta anche con una durissima campagna online, severità sull´immigrazione, più ordine pubblico e sicurezza sociale, sono le proposte con cui Strache ha trionfato. Ora chiede il pieno sdoganamento. «Gli elettori hanno scelto noi, non gli altri partiti come alternativa ai socialisti. I tentativi di criminalizzarci e diffamarci non funzionano, siamo veri democratici, rispettiamo ogni persona, di qualsiasi origine e religione. Ma abbiamo il coraggio di parlare di problemi reali».
Nella tenda dei "blu", il colore della Fpoe, il party alza il volume. Tra socialisti, cristianopopolari e verdi, il clima è funebre. Strache, come Wilders, è votato dal Centro della società. «Novità in luoghi che sono cuore d´Europa e della sua cultura», sottolinea. Col nuovo trend, è il messaggio, tutti dovranno fare i conti. «Wilders, o io, abbiamo avuto il coraggio di parlare di sviluppi pericolosi, della formazione di società parallele, di trend islamisti, fondamentalisti. È un grave pericolo di cui occorre parlare, non sono discorsi da estremisti».
Vincitore a Vienna, rossa fino a ieri, Strache espone un disegno di dimensioni europee. «Su questi temi ci capiamo benissimo anche con la Lega Nord». Il messaggio è chiaro: «o l´Europa si rassegna al suo tramonto, o la salviamo insieme. I partiti dell´establishment rifiutano il dibattito: guardi a Sarkozy, per le sue misure di confronto con la verità viene trattato dalla Ue come un criminale. Quando Berlusconi dice la verità media, establishment, e certi cosiddetti intellettuali, gli sparano addosso». Un forte vento di nuova destra soffia sulla ricca Austria. La sfida alle sinistre e ai conservatori tradizionali, con quelli tedeschi di Angela Merkel in testa, sull´idea di Europa del futuro, dopo il voto di ieri a Vienna diventa ancora più forte.
(Ha collaborato Luca Faccio)

«Giuro d’essere fedele allo Stato d’Israele in quanto Stato ebraico e democratico, e di rispettarne le leggi»
Corriere della Sera 11.10.10
Fedeltà allo Stato ebraico, sì alla legge della discordia
Netanyahu accontenta l’estrema destra. I laburisti: deriva fascista
Il giuramento obbligatorio per arabi e stranieri
 La nuova legge sulla «fedeltà» è rivolta solo ai non ebrei
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — «Giuro d’essere fedele allo Stato d’Israele in quanto Stato ebraico e democratico, e di rispettarne le leggi». Tre anni fa Yariv Levin, deputato Likud, presentò una nuova la legge sulla cittadinanza: non basta giurare fedeltà a Israele, diceva, bisogna giurarla anche alla sua «ebraicità». Poiché un israeliano su 5 è arabo, la proposta parve provocatoria: fu stoppata in commissione e il governo, chiamato a discuterne, per cinque volte accampò scuse. Finché la leggina non finì dimenticata. Tre mesi fa, d’improvviso, Bibi Netanyahu ha accolto la richiesta del suo alleato Lieberman, l’estrema destra determinante nell’eventuale voto sul congelamento delle colonie, e ha rispolverato il giuramento. Rivisto e corretto, ieri mattina è stato presentato al consiglio dei ministri ed è diventato legge, 22 a favore, 8 contrari: tutti i palestinesi che sposano arabi israeliani, tutti i non ebrei che sposano israeliani, tutti gli stranieri che vogliono restare qui, tutti quanti dovranno promettere fedeltà eterna allo Stato, ebraico prim’ancora che democratico.
Non giuri, non sei. Lo slogan è passato. E se il Parlamento lo ratificherà, migliaia di palestinesi dovranno adeguarsi. L’ultradestra religiosa dello Shas vorrebbe anche la possibilità di revocare la cittadinanza a chi sostenga organizzazioni terroristiche come Hamas, laddove il sostegno appare un concetto molto elastico: si cita perfino il caso della deputata araba che in maggio partecipò alla Freedom Flotilla, per rompere il blocco di Gaza. Su Netanyahu piovono critiche: dagli alleati laburisti, «qui si sconfina pericolosa mentene lfasci -smo » ; dal presidentede lla Knesset, Reuven Rivlin, «diamo armi ai nemici del sionismo»; da tre ministri del Likud che temono nuove tensioni con gli arabi («che c’importa se arabi o gentili dicono di sentirsi fedeli ai nostri valori?»). Le statistiche, ogni anno, dicono che metà dei nuovi cittadini israeliani sono palestinesi. E siccome il governo esclude dall ’ obbli go di gi uramento gl i ebrei della diaspora, che acquistano la cittadinanza con la «legge del ritorno», l’accusa di razzismo è dietro l’angolo: «Si crea uno status di cittadini di seconda classe», protesta Ahmed Tibi, deputato arabo. «E’ molto meno di quanto esigono in Olanda o Danimarca — ribatte Aviad Hacohen, opinionista di destra —: noi non chiediamo d’imparare l’ebraico o di studiare la nostra storia». Il premier difende la scelta: «Questo principio è l’essenza del sionismo. Nessuno ci faccia prediche sulla democrazia: non ci sono in Medio Oriente altre democrazie, né al mondo altri stati ebraici. Questa è la particolarità d’Israele: essere la casa nazionale del popolo ebraico. Chi vuole farne parte, deve riconoscerla».
Chi già ne fa parte, non sempre si riconosce. Un gruppo di scrittori, d’artisti, d’intellet tualiieriha manifestatoa Tel Aviv, davanti alla casa di Ben Gurion: «Non vogliamo essere cittadini d’uno Stato che forza le coscienze individuali — commenta Sefi Rachlevsky, scrittrice —, lo punisce se ha opinioni diverse da quelle della maggioranza, tradisce i principi che l’hanno fondato 62 anni fa». Bibi, si sa, ha pronte altre sorprese: per esempio, una legge che renda obbligatorio il referendum popolare, prima che sia firmata qualsiasi cessione di territori nel Golan o a Gerusalemme. «Uno scudo per le tempeste prossime venture», dicono gli sherpa del premier. «Un altro regaloa Lieberman » , scuotono la testa davanti alla casa di Ben Gurion.

Repubblica 11.10.10
"Pas d´ennemis à droite" l´ultimo slogan del Cav
di Mario Pirani


«Marciare per non marcire» scandisce sulla scia della fraseologia vetero-fascista il sito "La destra per Milano", dando seguito alle espressioni di plauso dei giorni scorsi per gli slogan antisemiti del senatore Ciarrapico (PdL). E poi, quasi compiaciuto di essere stato oggetto (vedi ultima "Linea di confine") dell´attenzione di "Repubblica" aggiunge: «Quando i nostri nemici parlano male di noi, mentre lodano gli infami traditori finiani, è solo un buon segno, vuol dire che siamo nel giusto, che dobbiamo continuare a marciare sulla strada intrapresa».
Se, quindi, torniamo a parlarne è solo per segnalare qualche ulteriore nefandezza. In primo luogo l´abitudine di questi figuri di mascherare le espressioni antiebraiche con una specie di post scriptum afferente alla loro presunta ammirazione per Israele, con ciò aggiungendo offesa ad offesa. Come, infatti ha ribadito Gianfranco Fini chi giustifica le ingiurie agli ebrei sbandierando l´amicizia per lo Stato ebraico «vuol dire che non ha capito nulla e considera ancora gli ebrei italiani, meno italiani degli altri». In secondo luogo scorrendo i vari siti che inalberano fiamme tricolori, fasci e persino forche (vedi il sito di "Patria e Libertà" che rivendica la pena di morte) colpisce il fatto che dopo il riavvicinamento di Storace a Berlusconi tutti questi gruppi estremistici ed esplicitamente filo-repubblichini accompagnino i loro singoli stemmi con quello del PdL, quale bollo di libera circolazione all´interno della maggioranza di governo. Una libera circolazione che da un lato reimmette nel profilo informe del PdL i veleni di cui An si era in gran parte liberata; dall´altro autorizza alla diffusione del peggio dell´ideologia razzista del fascismo. Tutto ciò non è casuale ma il frutto di un disegno politico tipico di Berlusconi: "Pas d´ennemis à droite" (nessun nemico a destra), speculare al "Pas d´ennemis à gauche" della sinistra antiriformista.
D´ora in poi l´ideologia della maggioranza non troverà le sorgenti solo nel verbo di Bossi ma anche nei veleni non dissolti dei nostalgici di Salò. Ne sortirà il brand che dovrebbe permettere a Berlusconi di non competere ma di assorbire i movimenti dell´estrema destra europea in rimonta ovunque. Qualcuno comincia ad accorgersene. Segnalo tra i pochi l´editoriale di Giovanni Sabatucci sul "Messaggero" (6 ottobre) che sottolinea come quei movimenti razzisti nel resto del Continente «sono tenuti fuori dall´area della legittimità e non hanno alcuna possibilità di coalizzarsi. Perché allora in Italia questi filtri non funzionano, perché la strategia della inclusione è così estesa e indiscriminata?... È prima di tutto necessario che le forze politiche maggiori… ricordino che in ogni democrazia esiste un confine che non può essere varcato a cuor leggero, un patrimonio originario di valori che non può essere svenduto in cambio di un pugno di voti».
Dedico quest´ultima citazione, presa tra altre analoghe dal sito ufficiale de "La Destra" storacian-berlusconista, a quanti, anche nella Comunità ebraica, mostrano di non accorgersi di quel che avviene: «Accumulazione satanica è quella che non attribuisce importanza ai soldi ma che ottiene soddisfazione dall´impoverimento di interi Stati, ad es. quello che accadde qualche anno fa all´Italia quando il finanziere ebraico–ungherese Soros (nato Schwartz) mosse uno straordinario attacco finanziario al nostro Paese e la lira si svalutò impoverendoci di colpo; o quello dei famosi subprime che hanno impoverito migliaia di investitori, azione per cui l´ebreo americano sta scontando decine di ergastoli; attualmente anche in Cina si inizia a temere un attacco da parte della cricca bancaria ebraica… Alla luce di quanto abbiamo detto si può ipotizzare… il futuro attacco all´Europa: maggiore povertà, tensioni sociali, violenza, sfiducia, tendenze autoritarie e il solito tentativo insurrezionale bolscevico». Chissà se Berlusconi valuterà queste farneticazioni dei suoi nuovi alleati una barzelletta?

Repubblica 11.10.10
La cronaca nera è il traino dei tg. Una tendenza che fa dell´Italia un caso unico in Europa
Cara Tv, dacci la nostra ansia quotidiana
di Ilvo Diamanti


Nei notiziari domina il romanzo criminale in diretta. Da Cogne ad Avetrana è un serial infinito che intreccia lo show del dolore e la caccia al colpevole dal divano di casa. Storie che rischiano di farci sprofondare nell´angoscia. A beneficio di chi?
Noi detective, magistrati, giurati. La tragedia ci sfiora, ma in realtà tocca gli altri

La tragedia privata di Sarah Scazzi, esibita in pubblico in tv da "Chi l´ha visto?" e proseguita su "Linea notte", mercoledì scorso, ha sbancato l´auditel. Oltre 4 milioni di spettatori. Un trionfo di pubblico e di critica. Nonostante le polemiche violente.
Il delitto della giovane Sarah Scazzi ha suscitato sgomento. Per come è stato consumato. Ma anche per come è stato scoperto e comunicato. In diretta tv, presenti - e protagoniste - la madre, la zia e la cugina (di Sarah). Rispettivamente: moglie e figlia dell´assassino. A casa dell´assassino. La novità è che lo spettacolo del dolore, stavolta, non solo è avvenuto in diretta. Ma è stato predisposto prima - per quanto in modo inconsapevole. I protagonisti della tragedia erano presenti sulla scena del crimine, davanti alle telecamere. "Prima" del colpo di scena.
Così questa tragedia privata, esibita in pubblico, trasmessa da "Chi l´ha visto?" e proseguita su "Linea notte", mercoledì scorso, fino a notte inoltrata, ha sbancato l´auditel. Oltre 4 milioni di spettatori. Facendo balzare lo share, in pochi minuti, dal 10% al 33%. Un trionfo di pubblico e di critica. Nonostante le polemiche violente. Perché, comunque, si sono marcati nuovi limiti nella corsa al "reality show" senza limiti. Recitato da attori involontari, che avrebbero rinunciato volentieri alla parte e, soprattutto, al soggetto. Ma proprio per questo più gradito al pubblico. Alla ricerca costante di emozioni forti. Di tragedie consumate in ambito familiare, amicale, locale. In Italia più che altrove. Perché da noi la criminalità costituisce un genere televisivo di successo, che occupa uno spazio specifico e ampio - anzitutto nei notiziari.
Lo confermano i dati dell´Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (di Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis). Visto che, nel primo semestre del 2010, il Tg1 ha dedicato ai "fatti criminali" 431 notizie: circa l´11% di quelle presentate nell´edizione di prima serata. Uno spazio maggiore rispetto a quello riservato allo stesso tipo di notizie dagli altri principali notiziari (pubblici) europei. In dettaglio: l´8% la BBC, il 4% TVE (Spagna) e France 2, il 2% ARD (Germania). Va precisato, per chiarezza, che il tasso di crimini in Italia non è superiore a quello degli altri Paesi europei considerati. Semmai, un po´ più basso. E aggiungiamo, per correttezza, che il TG5 mostra un andamento pressoché identico al TG1. Da ciò l´impressione - e anche qualcosa di più - che il crimine costituisca una passione mediatica nazionale. D´altronde, come abbiamo già mostrato altre volte, in queste pagine, c´è un legame stretto, in Italia, tra la percezione sociale e la rappresentazione mediale. Occorre, peraltro, evitare di ricondurre alla politica la responsabilità intera - comunque, prevalente - di questa tendenza. La politica, sicuramente, c´entra, visto l´intreccio inestricabile che la lega ai media e soprattutto alla televisione, pubblica e privata. (E l´enfasi sulla criminalità aiuta, certamente, a contenere la crescente preoccupazione sollevata da altri problemi. Per primo: la disoccupazione).
Tuttavia, vi sono altre importanti ragioni dietro all´irresistibile attrazione esercitata dai fatti criminali nella società italiana.
In primo luogo: le logiche "autonome" che regolano la comunicazione. In particolare, la televisione. Che, in Italia, affronta questa materia in modo diverso rispetto agli altri Paesi europei. Basta vedere la densità e la frequenza di questi avvenimenti. In Italia, i fatti criminali occupano uno spazio quotidiano sui telegiornali. Anzi, ogni giorno, in ogni edizione, vengono loro dedicate numerose notizie. Nulla di simile a quanto si osserva nelle altre principali reti europee. Le quali, peraltro, affrontano questi eventi in modo "puntuale" e "contestuale". E, dove è possibile, li tematizzano. In altri termini: l´informazione televisiva, nelle altre reti europee, è limitata, nel tempo, all´evento e ai suoi effetti. Inoltre, se possibile e utile, diviene occasione per affrontare problemi sociali più ampi. L´integrazione degli stranieri, la violenza nelle scuole, l´intolleranza interreligiosa. In Italia ciò avviene raramente. Soprattutto nel caso degli immigrati o di altri gruppi marginali, come i Rom. Con l´effetto (non involontario) di confermare il pregiudizio nei loro confronti. Invece, la regola, nella comunicazione e nei media italiani, è la "serializzazione". Oltre alla "drammatizzazione".
I crimini, cioè, non solo hanno uno spazio quotidiano, ma vengono trattati - e sceneggiati - come fiction. Da un lato, i "serial tematici" associano delitti e violenze simili: per ambiente, responsabilità, reato. Così, periodicamente, assistiamo a sciami di stupri, cani assassini, chirurghi criminali. Che all´improvviso, come sono arrivati, scompaiono. D´altro canto, e soprattutto, l´Italia è il Paese dei "grandi casi criminali" che non finiscono mai. Seguiti dai media che indagano, celebrano e riaprono i processi, sentenziano. Durano anni e anni. Dal 2005 ad oggi, i 7 telegiornali nazionali, in prima serata, hanno dedicato: 941 notizie al delitto di Meredith Kercher Perugia, 759 a quello di Garlasco, 538 all´omicidio del piccolo Tommaso Onofri, 499 alla strage di Erba. Avvenuti 3-4 anni fa. E, ancora, 508 notizie all´omicidio di Cogne, che risale a dicembre 2002.
Otto anni dopo, nel primo semestre del 2010, i telegiornali di prima serata gli hanno dedicato oltre 20 notizie. Si tratta di casi accomunati da alcuni elementi. Maturano in contesti familiari. Figli che uccidono i genitori. E viceversa. Oppure: si verificano nell´ambito del vicinato (come a Erba), delle relazioni amicali e di coppia (come a Garlasco), tra giovani. In ambiente universitario (Perugia). Insomma: si tratta di "casi comuni". Che ci coinvolgono tutti. Come se i fatti avvenuti potessero capitare anche a noi. O, comunque, a persone amiche e conosciute. È il voyeurismo che contrassegna una società locale e localista. Questo Paese di paesi e di compaesani (come lo definisce Paolo Segatti), dove la tv contribuisce a perpetuare l´immagine della "comunità". D´altronde, questi eventi tracimano oltre i telegiornali. Invadono i programmi di infotainment. I contenitori pomeridiani. I salotti di tarda serata. Primo - e più importante - "Porta a Porta". Dove Bruno Vespa allestisce, periodicamente, la sua corte, affollata di avvocati, criminologi, psicologi, psichiatri, vittime, parenti delle vittime e, talora, (presunti) assassini. Questa attrazione per il "crimine" costituisce, appunto, uno specifico italiano. Una "passione" che ha radici lontane: nella letteratura, nel teatro, nel cinema. (A cui, non per caso, l´Università Sorbonne Nouvelle - Paris 3, la prossima settimana, dedicherà un seminario).
Il "fatto criminale", in Italia, sui media non è guardato come "esemplare" rispetto ai problemi della società e delle istituzioni. Ma come "caso in sé". "Singolare". Il che ci fa sentire coinvolti eppure distaccati. Noi: detective, magistrati, giurati. E, in fondo, vittime e assassini. Ciò spiega lo spazio dedicato in tivù alle grandi tragedie quotidiane e ai delitti di ogni giorno. Ma anche il successo di pubblico che ottengono. Perché generano angoscia ma, al tempo stesso, rassicurano. Ci sfiorano: ma toccano gli "altri". È come sporgersi sull´orlo del precipizio e ritrarsi all´ultimo momento. Per reazione. Si prova senso di vertigine. Angoscia. Ma anche sollievo. E un sottile piacere.

Repubblica 11.10.10
L’indagine dell´Osservatorio europeo sulla sicurezza di Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis
I tg italiani voyeur del delitto in Europa non abbiamo rivali
di Paola Barretta e Fabio Bordignon


Serialità e pervasività: sono questi gli elementi che caratterizzano la trattazione dei casi criminali nei tg italiani, e che ne determinano la specificità a livello europeo. Episodi di criminalità violenta esistono in tutta Europa e, inevitabilmente, entrano nell´agenda dei notiziari televisivi. Due aspetti sembrano però distanziare, in modo netto, il caso italiano: lo spazio assegnato a questo tipo di notizie e le modalità di narrazione utilizzate dall´informazione televisiva di casa nostra.
La trattazione della cronaca nera è diventata, in Italia, un vero e proprio "genere". La ricostruzione della scena del crimine e del contesto sociale, la ricerca del colpevole attraverso interviste a protagonisti e comprimari: un´insistenza quasi "voyeuristica" che mantiene gli occhi delle telecamere puntati sull´evento per periodi molto lunghi.
La "serie" che vanta il maggior numero di episodi si lega al delitto di Perugia, che dal 2007 ad oggi ha visto 941 notizie nei tg Rai e Mediaset. Ma possiamo citare molti altri esempi di "romanzo criminale" catalogati dall´Osservatorio europeo sulla sicurezza: il delitto di Garlasco (759 notizie, tra il 2005 e il primo semestre 2010), l´omicidio del piccolo Tommaso Onofri (538), il delitto di Cogne (508) e la strage di Erba (499). Casi eclatanti, proposti a più riprese e a grande distanza di tempo, anche quando la fase processuale ha superato il primo grado o si è addirittura conclusa.
Negli altri paesi europei ci si ferma molto prima: in Gran Bretagna, la strage di 12 vittime compiuta da un ex-tassista ha occupato l´agenda della Bbc per due settimane, salvo poi scomparire. Una simile dinamica si osserva, in Spagna, per un omicidio dalle tinte fosche (il caso Marta del Castillo), oppure in Francia per l´uccisione di una giovane poliziotta.
Un´ulteriore peculiarità del caso italiano si lega alla "densità", nell´informazione tv, delle notizie sulla criminalità. Notizie spot, diffuse su tutto il territorio, eterogenee e pervasive (scarsamente tematizzate e contestualizzate, peraltro, rispetto a quanto avviene in altri Paesi europei). Nel primo semestre del 2010, il numero di episodi di criminalità proposti dal Tg1 - ben 431: l´11% sul totale delle notizie date - supera nettamente i valori registrati per i tg del servizio pubblico monitorati in altre cinque realtà del continente.
All´estremo opposto troviamo il tg tedesco, per il quale, nello stesso periodo, si rilevano solo 34 notizie di criminalità (meno del 2% sul totale). Ma anche Francia (113: 4%), Spagna (267: 4%) e Gran Bretagna (159: 8%) i livelli sono nettamente inferiori a quello italiano.


l’Unità 11.10.10
Il caso Una delle «pagine più oscure della storia della medicina»
Gli esperimenti condotti dal ‘46 al 48 in Guatemala con soldi pubblici
Il Mengele d’America che infettò innocenti per studiare la sifilide
Una vicenda terribile, scoperta dalla storica Susan Reverby: per anni il dottor John Cutler tra il ‘46 e il 48 aveva infettato di proposito persone ignare per studiare le sifilide. Oggi è un caso internazionale.
di Pietro Greco

Hillary Clinton, Segretario di Stato e dunque responsabile della politica estera degli Stati Uniti, l’ha definita un’azione «chiaramente non etica» e «orrenda». Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health (NIH), l’agenzia federale che finanzia la ricerca medica negli Usa, è andato oltre e l’ha definita
«una pagina scura nella storia della medicina». L’azione non etica che segna una pagina nera nella storia della medicina è stata consumata oltre 60 anni fa, tra il 1946 e il 1948. Proprio nelle settimane in cui a Norimberga era in corso il «Processo ai dottori» e venivano giudicati i medici nazisti colpevoli di un crimine contro l’umanità per aver usato come cavie i prigionieri dei campi di concentramento, un gruppo di medici americani con fondi NIH è andato in Guatemala, ha reclutato un gruppo di prostitute, le ha infettate, ha fatto in modo che contaminassero centinaia di ignari prigionieri, soldati e malati mentali per studiare i modi di prevenire e di curare la sifilide e altre malattie trasmesse sessualmente.
I risultati di quello studio «chiaramente non etico», non sono mai stati pubblicati. E la vicenda è rimasta a lungo segreta. Finché una storica della medicina, Susan Reverby, è venuta in possesso di alcuni documenti che il dottor John G. Cutler, un esperto di malattie sessuali, aveva lasciato in eredità all’Università di Pittsburgh al momento della sua morte, nel 2003. Reverby stava, in realtà, studiando un altro caso «chiaramente non etico» consumato in Alabama tra il 1932 e il 1972 che aveva visto protagonista lo stesso Cutler insieme a un gruppo di ricercatori del U.S. Public Health Service. In questo caso – chiamato Tuskegee experiment – un gruppo di afro-americani con la sifilide era stato lasciato deliberatamente senza cura per studiare il decorso della malattia.
DOPPIA INCHIESTA
Studiando le carte del disinvolto medico americano, Susan Reverby ha scoperto la vicenda del Guatemala. Cutler era andato in Guatemala per realizzare un esperimento ancora più crudele: infettare di proposito persone ignare per studiare la sifilide. Un crimine contro l’umanità. Così «scioccante» che, anche se a 64 anni di distanza, ha indotto il Segretario di Stato Usa a chiedere pubblicamente scusa al Guatemala. In un comunicato congiunto con il Segretario alla Sanità, Hillary Clinton hanno riconosciuto che: «L’azione di contagio di malattie trasmissibili sessualmente avvenuto in Guatemala nel 1946-48 è stato chiaramente non etico, e nonostante si tratti di eventi occorsi 64 anni fa siamo scioccati che una ricerca simile sia potuta avvenire sotto la guida della sanità pubblica. Ci scusiamo con tutte le persone che sono state colpite da una simile orrenda pratica di ricerca».
La vicenda non è chiusa. Le autorità politiche e scientifiche degli Stati Uniti hanno aperto una doppia inchiesta sui quella «pagina scura nella storia della medicina». Appare opportuna l’iniziativa di Francis Collins di promuovere la costituzione di una commissione internazionale che assicuri che tutte le ricerche mediche realizzate sul pianeta raggiungano gli standard etici minimi e rispettino i diritti umani.

Corriere della Sera 11.10.10
Israele Stato ebraico, i rischi della demografia
risponde Sergio Romano


Mi è rimasto un dubbio. Israele chiede di essere riconosciuto come Paese ebreo, praticamente come uno Stato confessionale. Come potrà essere un Paese in cui i palestinesi abbiano gli stessi diritti? Infatti, mi sembra che i palestinesi attualmente in Israele non siano totalmente sullo stesso piano degli ebrei. Le sarei grato se volesse chiarire questo aspetto che rende alquanto dubbia tutta la ricerca di una soluzione del problema del Medio Oriente che, poi, è anche la causa dell’instabilità dell’intera regione.
Gabriele Guzzetti

Caro Guzzetti,
L’influenza della componente ortodossa della società israeliana è molto più forte di quanto fosse sessant’anni fa, quando l’ideologia dominante era quella del sionismo laico dell’Europa centro-orientale. Ma non è possibile sostenere che Israele sia uno Stato confessionale. All’ebreo che giunge nel Paese e si avvale della legge del ritorno per ottenere la cittadinanza israeliana non si chiede una dichiarazione di fede ma l’appartenenza a una stirpe. Nel caso di Israele converrebbe piuttosto parlare di «Volkstaat», vale a dire di uno Stato costruito per un popolo, come fu la Germania, sia pure con diverse accentuazioni, sino a quando il governo del cancelliere Schröder fece approvare dal Parlamento una nuova legge, più liberale, sul conferimento della cittadinanza tedesca agli immigrati. Quando il primo ministro Netanyahu chiede ai palestinesi di riconoscere Israele come «Stato ebraico» e una legge inserisce tale denominazione nel giuramento di fedeltà dei nuovi cittadini, viene chiesto ciò che la comunità internazionale ha riconosciuto, di fatto, sin dal 1948. È probabile che le richieste, in questo momento, siano motivate tra l’altro dal desiderio di sgomberare il campo da qualsiasi discussione sulla possibilità di uno Stato binazionale di cui arabi ed ebrei sarebbero cittadini con gli stessi diritti. Netanyahu sa che in un tale Stato la crescita demografica della componente araba ridurrebbe gli ebrei a minoranza.
Il guaio, caro Guzzetti, è che a questa richiesta di Netanyahu corrisponde una politica che va nella direzione opposta. Se il primo ministro volesse davvero evitare questa prospettiva, il suo governo dovrebbe vietare gli insediamenti nei territori occupati, raggruppare quelli esistenti nelle aree destinate a restare parte integrante dello Stato israeliano, riconoscere l’esistenza di uno Stato palestinese, scambiare le aree annesse con il Triangolo, una parte della Galilea dove già vivono 250 mila arabi israeliani. È la soluzione di cui parla Sergio Della Pergola in una intervista a Ugo Tramballi ( Il Sole 24 Ore del 2 ottobre). Della Pergola, nato a Trieste ma i mmigratoin Israel enel 1966, insegna all’Università ebraica di Gerusalemme, è il maggiore studioso della popolazione ebraica nel mondo e fu consigliere di Ariel Sharon all’epoca del ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza. Ma nella realtà tutti i governi israeliani, anche quando si dichiaravano favorevoli alla formula dei due Stati, hanno permesso che il partito dei coloni dettasse la linea e bloccasse questa soluzione con una serie interminabile di fatti compiuti. Se Netanyahu vuole davvero che il mondo arabo riconosca Israele come lo «Stato degli ebrei», questa non è la strada per arrivarci.

domenica 10 ottobre 2010

l’Unità 10.10.10
La sfida del programma
Bersani: «È il Pd l’alternativa Rischio di derive autoritarie»
 Il leader democratico incassa il sì sulla «svolta» del programma: «D’ora in poi si parla dei problemi»
Papa straniero? «Abbiamo un nostro progetto e non faremo gli utili idioti per qualcun altro»
Bersani incassa il sì unanime sul programma e rilancia l’allarme sul «secondo tempo» del berlusconismo: «Rischio di deriva plebiscitaria». Rivendica: «Senza il Pd non c’è alternativa e il premier non va a casa».
di Simone Collini

Ai compagni di partito che storcono la bocca sul nome di Casini o di Fini dice di non fare troppo i «sofistici» perché di fronte al rischio di «una deriva plebiscitaria» bisogna dar vita a una «alleanza per la democrazia» quanto più larga possibile. Agli alleati o aspiranti tali dice invece di smetterla con infide punzecchiature o plateali attacchi, perché «chi maltratta il Pd deve riflettere sul fatto che senza di noi Berlusconi non va a casa, senza il Pd non c’è alternativa». E se poi ci sono alcuni che pensano che per battere il centrodestra sia meglio affidarsi a un “papa straniero”, magari da reclutare tra gli imprenditori invece che tra i politici, ecco, anche per questi Pier Luigi Bersani ha un messaggio piuttosto preciso, e cioè che i Democratici hanno un loro «progetto per l’Italia» e non faranno i portatori d’acqua (di voti) per altri: «Spero che sia chiaro agli altri e anche in casa nostra, il Pd discute con tutti ma non fa la salmeria di nessuno dice tra gli applausi dei mille raccolti al Malpensafiere di Busto Arsizio, in provincia di Varese e nessuno pensi che possiamo fare gli utili idioti di qualcos’altro. Avremo il fisico per essere il traino dell’alternativa».
LA SVOLTA DI VARESE
L’Assemblea nazionale di Varese si chiude con quella che Bersani definisce una «svolta» per il suo partito, per via delle proposte su fisco, federalismo, immigrazione, piccole e medie imprese, ma anche per la discussione che c’è stata in questi due giorni di lavori, diversa da quella delle settimane passate. «Le gazzette sono ancora troppo piene di un partito che parla di sé e non dei problemi, che sono tanti. Non possiamo permetterci scarti su questo, perché i tempi stringono», dice il leader del Pd facendo anche notare che se il partito oggi «non viene rispettato abbastanza né dagli avversari né dagli amici» le cose cambieranno, ma a una condizione: «Che ci rispettiamo noi. E qui ci siamo rispettati».
SFIDA SULLA RIFORMA FISCALE
Non mancano i distinguo, qualche lamentela da parte di chi si aspettava di più su alcuni punti specifici, ma la discussione e poi l’approvazione all’unanimità dei documenti programmatici dà ai vertici del Pd la sensazione di ripartire da Varese con gli strumenti giusti per interloquire con la società. «Il problema oggi è la disaffezione nei confronti della politica, e qui abbiamo riavvicinato la politica ai cittadini, alle persone che lavorano», dice Bersani sfidando la destra a discutere il pacchetto di proposte fiscali lanciato dal Pd a sostegno dei redditi medio-bassi e in favore di chi reinveste nella propria azienda: «La riforma fiscale è un’urgenza in una fase di crisi come questa, e dal governo finora sono venuti solo balbettii e promesse mentre le tasse sono aumentate, per chi le paga».
SANSONE E I FILISTEI
Le proposte programmatiche lanciate a Varese in questo «Nord tradito dalla destra, preso in ostaggio da un interesse politico», sono per Bersani «materiali per un combattimento» che non sarà facile: «Non siamo oltre ma nel secondo tempo di Berlusconi, ed è la fase più pericolosa. La fine del berlusconismo non sarà un pranzo di gala, Berlusconi non se ne andrà bevendo una tazza di thè, preferirà il “muoia Sansone con tutti i filistei”». Quello che si è visto nelle ultime settimane, dice i leader del Pd, potrebbe non essere che l’inizio: «Se ci siano dossier in giro non lo so, però c’è paura in giro. Io no, io no eh ripete due volte ma c’è paura in giro, e non solo a Roma».
GOVERNO PER LA LEGGE ELETTORALE
Il rischio è che anche qualche «pilastro costituzionale» venga buttato giù dalla crisi della destra. Per questo è meglio evitare «sofismi» e cercare «tutte le possibili convergenze» per arginare il rischio di una «deriva plebiscitaria» e anzi «mettere in sicurezza la democrazia». E questo vuol dire non solo lavorare «con chi ci sta» per un governo tecnico che cambi la legge elettorale. Ma anche, nella prospettiva del voto, dar vita a un Nuovo Ulivo con le «forze di centrosinistra che abbiano attitudine di governo», e anche, pur senza ripetere l’errore dell’Unione, «ricercare un patto di governo con tutte le forze di opposizione», Udc compresa.
Un discorso condiviso dalla platea, che risponde con applausi ai passaggi sulla sfida alla destra e agli appelli all’unità. E da Dario Franceschini: «Siamo in una situazione di emergenza a cui si risponde con strumenti di emergenza, e cioè un appello a tutti quelli che ci stanno per cambiare questa legge elettorale e poi tornare alla normalità del bipolarismo». Applaude alla fine anche Walter Veltroni, che pure nelle settimane scorse aveva messo in guardia circa i rischi insiti nelle “sante alleanze”. Oggi l’ex segretario dice però di aver «apprezzato» il discorso di Bersani: «Ha ascoltato ed ha tenuto conto e risposto positivamente a molte delle osservazioni che erano state fatte. È proprio il metodo giusto per rafforzare il partito e il suo profilo riformista».

Repubblica 10.10.10
Bersani: "Berlusconi è pericoloso serve un governo di transizione"
Il leader Pd: dal governo balbettii sul fisco. Stretta sugli immigrati
Il segretario agli alleati: "Non maltrattate il mio partito, senza di noi non c´è alternativa"
Anche Franceschini rilancia l´Alleanza costituzionale: "È il momento dell´emergenza"
di Giovanna Casadio

Busto Arsizio - «Non se ne andrà, quest´uomo, sorseggiando il thè. Siamo in un secondo tempo di Berlusconi ed è la fase più pericolosa». Pier Luigi Bersani lancia l´allarme sulla fine del governo Berlusconi. Maniche rimboccate (come da slogan «Rimbocchiamoci le maniche»), il segretario del Pd denuncia un clima di paura: mentre l´Italia di certi tg di regime sembra «alla Gozzano», ossia senza problemi. Invece crisi economica e sociale si stanno avvitando e qui occorrono «ricette concrete». Rilancia: «Siamo pronti a un breve governo di transizione per la legge elettorale. Per questo progetto ci rivolgiamo a tutte le forze che vogliono mettere in sicurezza la democrazia». Stessa identità di vedute con Dario Franceschini, che poco prima ha detto: «A emergenza democratica si danno risposte di emergenza». Non è «tempo di sofismi, ma di far comprendere la posta in gioco - insiste Bersani -. Se diffondiamo l´idea che c´è voglia di inciucio facciamo solo danni». Mentre qui c´è una legge elettorale che è una «stra-vergogna», che con il 35% dei consensi consente di prendersi tutto «compresa la maggioranza delle Camere riunite per eleggere il capo dello Stato».
Il catino del Malpensafiera, dove si tiene l´Assemblea nazionale dei Democratici - nella tana della Lega - applaude a lungo. «Da qui», dal varesotto laborioso, delle piccole e medie imprese, delle partite Iva, degli artigian,i «deve partire la svolta». Sul fisco. Altro che «i balbettii, la riforma fiscale è un´urgenza. Sono due grandi messaggi: alleggeriamo il lavoro e l´impresa, la famiglia con i figli che ha difficoltà. Non lasciamoli a Bossi che fa solo promesse. Non è vero che siamo stranieri al nord, il sogno e il progetto di Bossi e Berlusconi sono falliti. Il Nord tradito, l´Italia tradita. Dov´è il federalismo? Chiacchiere. Si parlava di fisco, infrastrutture, burocrazia. non c´è un miglioramento in nessuno di questi campi». Lo dice tutto d´un fiato Bersani in un´ora circa di intervento, che piace anche a Veltroni («Giusto il metodo per rafforzare il partito «) e ai «75» movimentisti. Sull´immigrazione, che è stato in questa due giorni varesina il punto di massima distanza tra maggioranza e minoranza del Pd, si lascia la palla ancora in campo.
Veltroni ha fatto una proposta (gli ingressi a punti) che al ministro dell´Interno, Roberto Maroni piace. Bersani media: «Sull´immigrazione noi dobbiamo trovare un´idea che non oscilli tra modelli securitari e modelli buonisti, bisogna essere razionali». A condurre l´attacco contro Veltroni è soprattutto Franceschini. La disfida tra i due è aperta su immigrazione, "buonismo" e integrazione. Il capogruppo alla Camera rivendica: «Sì alle regole certe per l´immigrazione ma io sto dalla parte del cardinale Tettamanzi, coniugare accoglienza e integrazione». E i delegati democratici s´infiammano. Poi un altro affondo: «No alle ipocrisie, per cui si va d´accordo nelle riunioni ufficiali, di partito mentre si fa la guerra sui giornali». Fioroni, Veltroni e Gentiloni giudicano l´attacco «un errore». D´altra parte, Bersani invita a «rispettarsi anche dentro il partito per farsi rispettare, siamo un bel partito». Si rivolge anche a Vendola: «Senza il Pd Berlusconi non va a casa, non siamo utili idioti, non faremo la salmeria a nessuno. Chi maltratta il Pd rischia di tenersi Berlusconi». Apre il capitolo alleanze. «Mai più l´Unione - assicura - in cui mentre il governo faceva le uniche cose per il Nord come il cuneo fiscale e le infrastrutture, qualche tuo alleato metteva le dita negli occhi. Noi vogliamo bene agli artigiani, alle piccole imprese, a chi lavora per bene». Sette i documenti programmatici votati per far decollare la sfida al Nord. Bersani ringrazia i «democratici lumbàrd». Daniele Marantelli, il pd varesino che si è speso per organizzare la kermesse, incassa i complimenti. Tra un mese appuntamento a Napoli.


Repubblica 10.10.10
Il documento dell’ex segretario sull´immigrazione divide i democratici. La Turco: "Dobbiamo essere alternativi al Pdl"
L’ultimo affondo dei dalemiani "Ormai Veltroni parla come la destra"
di Goffredo De Marchis

Sempre più netta la divisione tra Walter e Franceschini. L´ex sindaco: "Dario fuori luogo"
Il documento approvato è stato apprezzato dal ministro degli Interni Maroni

Busto Arsizio - Una lunga mediazione notturna. E un testo approvato all´unanimità perché alla fine lascia in piedi tutte le posizioni: immigrazione selettiva sì, ma attraverso le quote o i punti? C´è una bella differenza e se ne riparlerà più avanti. Ma il sasso è lanciato, Veltroni impugna, con il tema extracomunitari, la bandiera dell´innovazione che secondo lui tanto manca nel Partito democratico. E non ha intenzione di mollarla se è vero che nei prossimi giorni la materia-chiave su cui si giocano i voti del Nord sarà oggetto di un confronto tra lui e il ministro dell´Interno Maroni a Porta a porta. Sull´«immigrato doc», più integrabile se ha la laurea e conosce un po´ di italiano come semplificano nella sala di MalpensaFiere alcuni delegati del Pd non proprio veltroniani, finiscono per misurarsi anche gli schieramenti interni. Il dalemiano più alto in grado presente a Busto Arsizio, stante l´assenza di D´Alema, è Nicola Latorre. Non usa mezzi termini: «Un´iniziativa, quella dell´ammissione a punti, da partito di destra. Non la condivido e penso che inseguire la Lega sul suo terreno non sia né utile né giusto». Il franceschiniano David Sassoli, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo, tira fuori un po´ di fogli dalla sua cartella: «Ecco qua. La proposta di Walter è identica a quella dei partiti conservatori. L´idea delle forze progressiste nella Ue muove dall´integrazione».
Si dice in sala che Maroni sia attento al documento dei veltroniani. L´attenzione dei leghisti naturalmente diventa un tema scivoloso dentro il Pd, tanto più dopo le ferite dei recenti scambi di accuse sull´intelligenza con il nemico. Ecco perché l´ex segretario Veltroni fa sapere che quando vedrà Maroni in tv l´argomento sarà la lotta alla criminalità. Si sono consumati sulla serissima questione anche alcuni duelli che riguardano le dinamiche interne, soprattutto nell´area della vecchia minoranza. Jean Leonard Touadì, il deputato di colore già assessore nella giunta Veltroni, ha trovato la sua firma in cima all´elenco del documento sui punti. «Ma io non l´ho mai firmato», ha chiarito e alcuni suoi colleghi hanno fatto notare la strumentalità della mossa. Livia Turco ha precisato che l´ipotesi dei punti era anche nel suo documento iniziale. Certo non con quella chiarezza. Prima di chiudere i battenti dell´assemblea nazionale ci tiene a dire: «Noi siamo alternativi al centrodestra su queste politiche». Come dire: altri lo sono meno. Ma il cattolico Andrea Sarubbi difende il documento veltroniano: «Vedo il mio blog. Si sente la necessità di un approccio diverso».
Veltroni, seduto in prima fila, raccoglie i dubbi, discute senza polemica con la Turco. È infastidito dall´intervento di Dario Franceschini. Per l´attacco diretto a chi predica unità negli organismi del partito e poi sui giornali il giorno successivo alimenta divisioni. «È fuori luogo. Le interviste ai giornali le facciamo tutti, anche lui», commenta l´ex segretario. Anche le parole sull´immigrazione sembrano rivolte agli ex amici della minoranza. «Noi abbiamo un´idea diversa dalla destra. Sto con il cardinale Tettamanzi: accoglienza e integrazione», dice il capogruppo. Dal palco il segretario Pier Luigi Bersani media: «Non dobbiamo essere buoni con il fenomeno. Ma razionali. E soprattutto dobbiamo trovare il modo per cui non deve pagare un povero italiano l´arrivo di un altro povero straniero». Prima che si spengano le luci di MalpensaFiere, Veltroni elogia il segretario per il suo discorso: «Usciamo meglio di come siamo entrati. Il Pd ora è più aperto, più plurale». Ma anche l´asse Franceschini-Bersani sembra solidissimo. Sono due minoranze o ex tali che cercano un rapporto diretto con il leader del partito. Un vantaggio per Bersani.


il Fatto 10.10.10
Il Pd va al Nord ma fa autoanalisi collettiva
L’Assemblea nazionale vuole riconquistare le roccaforti leghiste
di Ferruccio Sansa

Dal palco Bersani lancia allarmi sulla “seconda fase” di Berlusconi: “C'è il rischio di una deriva plebiscitaria, per fermarla dobbiamo essere pronti a un’alleanza per la democrazia con chi ci sta. Questa legge elettorale consente, con il 35 per cento dei voti, di prendersi tutto, compreso il capo dello Stato”. Intanto i gruppi di lavoro del Pd votano le proposte sul fisco: aliquota fissa del 20 per cento per prima fascia Irpef, redditi da piccola impresa e da capitale.
“Il Pd è venuto al Nord”. Lo ripetono una, dieci, cento volte. È il mantra dell’assemblea nazionale del Pd. Uno slogan che è un lapsus freudiano: “Macché venire, non siamo un partito romano. Al Nord ci siamo già”, sibila Pippo Civati, lombardo, 35 anni, una delle menti più aguzze del Pd.
È vero, il Pd nel Nord c’è già. Almeno, una volta c’era. Siamo alla Malpensa, nel cuore del Nord leghista. Qui, vent’anni fa, c’erano amministrazioni di sinistra. Oggi sono più rare dei panda. Per capire il crinale su cui cammina il Pd bisogna ascoltare ogni parola di questa due giorni. Si chiama assemblea nazionale, ma sembra una seduta di autoanalisi collettiva. Si ascoltano le proposte del Pd che vuole conquistare il Nord. Ma venire alla Malpensa aiuta soprattutto a capire che cosa il Pd pensi di sé.
“Siamo progressisti, ci vedono conservatori”
A COMINCIARE da quell’immagine folgorante di Enrico Letta che vale cento discorsi: “Noi siamo progressisti, ma ci percepiscono come conservatori”, dice il vice-segretario. E il suo sguardo si sposta verso il palco con Anna Finocchiaro, Dario Franceschini, Rosy Bindi. In prima fila Piero Fassino, Walter Veltroni e Nicola Latorre: gli stessi volti di vent’anni fa. Un’altra frase dai risvolti freudiani. Mentre Letta la pronuncia, ecco Civati, con quell’espressione tra l’intellettuale e il Pierino, che raccoglie le firme per limitare l’eleggibilità degli onorevoli a tre mandati (“già prevista nello statuto”). Sarebbe una strage: dei leader ne resterebbe una manciata. Così Nicola Latorre, che ha resistito imperturbabile alle intercettazioni Antoveneta, propone una versione tutta sua: “Idea saggia, ma bisogna prevedere deroghe per alcuni leader. Le deroghe fanno parte delle regole”. Ma qualcuno ironizza: “C’è gente eletta con Giolitti”. Davvero, più che un analista politico, qui ci vorrebbe un analista tout court. Annoterebbe le frasi in cui i vertici del Pd ripetono – a se stessi, prima che al pubblico – chi sono. “Noi siamo il cambiamento” (Letta). “Noi siamo le persone giuste per vincere” (Bindi). “Siamo un bel partito, non ci rispettano abbastanza” (Bersani). Dal lettino il paziente Pd rivela i propri incubi: “Tocca a noi, noi possiamo farlo, non Beppe Grillo” (Veltroni). Già, Grillo, Vendola e, ovviamente, la Lega, le “soluzioni rabbiose” (Bersani).
L’obiettivo dell’assemblea era, per dirla con il deputato Daniele Marantelli, “fare proposte concrete”. Poi, però, ecco soprattutto echeggiare quel nome: il Cavaliere. “Berlusconi rilancerà, forse fino a far traballare qualche pilastro costituzionale, non sarà un pranzo di gala. Non siamo oltre il berlusconismo, siamo al secondo tempo ed è la fase più pericolosa” (Bersani).
“Peccato”, allarga le braccia un delegato, “perché nei documenti presentati all’assemblea affrontavamo le questioni care al Nord. Facevamo proposte concrete”. Vero, se ne discute nei gruppi di lavoro, ma quando i rif lettori di tv e giornali sono spenti. I taccuini annotano piuttosto la sistemazione in sala, secondo schieramenti contrapposti. Misurano gli applausi tiepidi che le diverse correnti riservano agli avversari. E dire che in Lombardia l’anno prossimo si gioca la battaglia forse decisiva per la stessa sopravvivenza del Pd: si vota a Milano. Il centrosinistra, se non si divorerà da solo, potrebbe farcela nel regno di Berlusconi.
La curiosità degli imprenditori
ALLORA , alla fine, lo sbarco al Nord è riuscito? “Sì, siamo venuti per vedere le carte alla Lega e scoprire il bluff”, non ha dubbi il delegato lombardo Carlo Benetti. E il suo “amico” di partito (si chiamano così quelli che una volta erano “compagni”) Dario Terreni aggiunge: “Qui a Varese abbiamo 25 mila disoccupati, il 20 per cento sono giovani sotto i 25 anni. E la Lega mostra bilanci trionfanti”.
Ma per capire se le proposte del Pd siano davvero uscite fuori dalle grandi sale bianche della Fiera bisogna sentire loro, i piccoli imprenditori. Roberto Belloli, portavoce del movimento dei “Contadini del tessile” (industriali della zona di Busto Arsizio che si battono per la difesa dei prodotti italiani) scrolla la testa: “Sono messaggi lontanissimi dall’economia reale. Altro che aliquote, servono condizioni di reciprocità nei dazi per esempio con la Cina. Ecco, la Lega qualche interesse in questo senso l’ha dimostrato”. Porta chiuse al Pd? No. Basta sentire Alberto Vanzini, industriale metalmeccanico che con la sua protesta apartitica ha richiamato nel paese di Jerago colleghi da tutta Italia: “L’aliquota del 20 per cento mi incuriosisce”, commenta. Aggiunge: “Noi dobbiamo pagare fino al 60 per cento di tasse e altre gabelle. Finora abbiamo avuto qualche segnale solo a parole, ora servono interventi sostanziali”. Insomma, lo spazio per il Pd c’è. Le sue proposte interessano. Ma non basta “venire” al Nord per due giorni e poi prendere l’aereo per Roma appena finisce di parlare Bersani.

il Riformista 10.10.10
Governo di transizione Bersani lancia l’alleanza anti-Silvio
di Alessandro Da Rold
qui
http://www.scribd.com/doc/39035915

l’Unità 10.10.10
Contro l’attacco ai diritti sabato prossimo la piazza sarà della Fiom Cgil
Molte adesioni alla manifestazione del 16, indetta subito dopo l’accordo di Pomigliano contro lo smantellamento dei diritti. Domani il segretario Landini all’università Bicocca a Milano per un incontro con gli studenti.
di Laura Matteucci

E sabato prossimo la piazza di Roma sarà della Fiom Cgil. Con lo slogan «Il lavoro è un bene comune», a piazza San Giovanni, dove parleranno il segretario Maurizio Landini e il leader della Cgil Guglielmo Epifani, sono attese migliaia di persone da tutta Italia: «Contro l’attacco al lavoro e ai diritti, contro l’idea che uscire dalla crisi è possibile solo in modo regressivo e autoritario», spiega Francesca Re David, responsabile dell’ufficio organizzazione della Fiom, riferendosi al fatto che la crisi viene utilizzata da governo e imprese per ridisegnare il mondo del lavoro.
Infatti, la manifestazione del 16 ottobre, tappa del percorso che porterà alla manifestazione della Cgil del 27 novembre, è stata indetta subito dopo l’accordo alla Fiat di Pomigliano: se per Bonanni della Cisl ce ne vorrebbero «10, 100, 1000», per la Cgil è la prova generale dello smantellamento progressivo del contratto nazionale. Altre, più recenti conferme sono poi arrivate col ddl lavoro e con l’accordo di settembre tra Federmeccanica, Cisl e Uil sulle deroghe al contratto (solo il salario minimo è rimasto come punto fisso): «Nel mondo del lavoro l’unico punto di riferimento rimasto sono i profitti continua Re David Il lavoro è solo una merce, i diritti un costo. L’attacco più forte, infatti, è al diritto stesso a contrattare le condizioni dei lavoratori. Siamo alla fine della mediazione sociale, qui c’è solo un interesse prevalente, il profitto appunto. E nessuna democrazia». La parola chiave che tiene tutti in scacco è precarietà, collegata «con il modello di sviluppo che si vuole imporre: più si concorre sui costi, infatti, e meno si ha bisogno di innovare».
ADESIONI IN AUMENTO
Dal Piemonte arriveranno a Roma 3mila lavoratori, 1.200 dei quali da Torino. «Difenderemo la manifestazione dice Giogio Airaudo, segretario nazionale, responsabile del settore auto che sarà democratica, senza intolleranze e non violenta con
l’obiettivo di rimettere al centro il lavoro e la democrazia nel lavoro per il nostro Paese». E le richieste di adesione continuano ad aumentare, sia da parte di partiti e movimenti dell’opposizione (Sel, l’Italia dei valori hanno già aderito, in piazza esponenti del Pd e anche il movimento per l’acqua pubblica), sia da parte del mondo della scuola e dell’università, che sarà presente con centinaia di studenti e di docenti precari. A conferma di un legame che si sta saldando, tra l’altro, domani mattina Landini sarà a Milano, dove terrà insieme ad alcuni docenti un’assemblea pubblica all’Università Bicocca.
Perchè, come dice Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil: «L’opposizione all’idea di società che si vuole imporre, da parte del governo e delle imprese, basata sulla riduzione dei diritti sarà la questione centrale per unificare movimenti, associazioni e sindacato. C’è un nesso inscindibile tra diritti nel lavoro, saperi e libertà». Adesioni anche da parte di molti intellettuali, politici, scrittori, da Antonio Tabucchi ad Andrea Camilleri.
Due i cortei previsti, in partenza intorno alle 14 da piazzale Ostiense e da piazza della Repubblica, che convergeranno in piazza San Giovanni. Per saperne di più, si può anche visitare il sito www.fiom.cgil.it

il Fatto 10.10.10
“Io, schiavo di Stato”
La rabbia al corteo dei migranti per i soprusi dei caporali e per quelli della legge
di Vincenzo Iurillo

Arrivano in gruppi, scendono dai treni, dai pullman, si radunano nella piazza della stazione ferroviaria, punto di partenza del corteo. Sono il popolo degli immigrati africani, dei “senza diritti” che affollano le degradate periferie domiziane e della provincia casertana. Arrivano da Castel Volturno, da Casal di Principe, da Pianura, da Quarto, da Scampia, da Villa Literno. Dalle capitali del caporalato. Ognuno con la sua storia, col suo carico di povertà e di disagio, con una famiglia da mantenere in Africa o qui in Italia. Ognuno a combattere quotidianamente una guerra per la sopravvivenza e per strappare il permesso di soggiorno. E con esso la dignità di poter dire a testa alta “io esisto, io non devo nascondermi”.
Il giorno dopo lo sciopero delle rotonde stradali e dei cartelli “non lavoro per meno di 50 euro”, rieccoli, stavolta tutti insieme a Caserta, coordinati dal centro sociale dell’ex Canapificio e dai movimenti antirazzisti (i sindacati non hanno aderito alla manifestazione), per marciare pacificamente verso il palazzo della Prefettura, deve una delegazione verrà ricevuta dal prefetto.
Il sogno “permesso di soggiorno”
IN DUEMILA scandiscono slogan e ballano musica etnica per reclamare il rilascio dei permessi di soggiorno. Pratiche ferme anni tra pastoie burocratiche e leggi anti immigrazione. Insieme alla crisi e ai licenziamenti in atto al Nord, sono le cause di una quantità industriale di “irregolari di ritorno” che di nuovo affollano le campagne casertane. Immigrati col permesso scaduto e non rinnovabile senza contratto di lavoro, che in teoria dovrebbero prima tornare nel paese di origine. Il popolo colorato riceve la solidarietà del sindaco Nicodemo Petteruti (Pd): “Caserta vi dà il benvenuto, un Paese civile dovrebbe superare e risolvere le vostre difficoltà”. E del vescovo Raffaele Nogaro: “Gli immigrati sono miei fratelli, sono miei figli. La Curia è al loro fianco per proteggerli dalle insidie di questo territorio”. Nel corteo ci sono padre Alex Zanotelli, don Vitaliano della Sala, l’ex deputato “disobbediente” Francesco Caruso.
I volti mostrano i segni di storie dolorose. A reggere lo striscione dell’associazione “Jerry Masslo” (sudafricano rifugiatosi in Italia per sfuggire alle persecuzioni razziali, ucciso nel corso di una rapina da giovani balordi di Villa Literno nel 1989) di Castelvolturno, creata dall’ex sindaco comunista Renato Natali, c’è chi ha una storia incredibile da raccontare, il suo nome è Lamin.
Ventitré anni da “clandestno”
LAMIN ha 46 anni e un cognome impronunciabile che ci prega di non rivelare perché non ha il permesso di soggiorno. Eppure vive da 23 anni in Italia. Viene dal Senegal. Abita a Castelvolturno, in una casa insieme ad altri 4 immigrati, per un fitto di circa 100 euro a testa. Le bollette sono intestate a uno di loro che il permesso ce l’ha. Lamin ha conosciuto il carcere per spaccio di droga, poi il riscatto del lavoro nelle associazioni di volontariato per il recupero dei disabili. Ha una ex moglie in Africa, una ex compagna conosciuta nel Nord quando lavorava in fabbrica, una figlia che vive nel Continente Nero e che vede solo coi programmi di video-chiamate su Internet: “Arrivai a Villa Literno nel 1987, all’epoca ci chiamavano per la raccolta dei pomodori”. Poi l’emigrazione a Verona, l’impiego in fabbrica, i guai giudiziari, “perché ero giovane e volevo divertirmi”. E col carcere il permesso di soggiorno diventa un traguardo difficile. Cosi quando anche il lavoro viene a mancare, Lamin torna dagli amici neri del casertano. E si inventa una nuova vita con l’attivismo nella “Jerry Masslo”, in Libera e in una cooperativa convenzionata con l’Asl di Aversa, grazie alla quale guadagna circa 400 euro al mese lavorando 3 giorni alla settimana. Si impegna per strappare le prostitute nere dalla strada e per questo viene sequestrato e rapinato di tutti i suoi averi in casa da un clan di africani. Li denuncerà e ne farà arrestare otto. Così, ottiene un permesso di soggiorno per motivi di merito civile. Ma è scaduto, e non riesce a rinnovarlo. “Mi sento italiano e amo gli italiani – dice Lamin – e io come i miei amici africani potremmo dare tanto per questo Paese. Ma odio i politici e mi sento tradito. Non sono un buon esempio per noi, sono corrotti e ci istigano a fare il male. Hanno fatto leggi da Ku Klux Klan”.
Dalle finestre di una scuola dell’infanzia, i bambini salutano il corteo e vengono ricambiati. Sono cinque, ce n’è uno di colore. Un’operatrice ci spiega: “Siccome non hanno la documentazione a posto, i figli degli immigrati irregolari devono pagare mensa e scuolabus come se appartenessero alle fasce più ricche di reddito”. L’ennesima assurdità di uno Stato che scarica sui più deboli e indifesi le colpe degli altri.

Repubblica 10.10.10
Il quotidiano di Rifondazione è in grave crisi e numerosi artisti mettono in vendita 106 opere d´arte
Asta benefica per salvare "Liberazione"

ROMA - L´arte e le idee per impedire la chiusura di un giornale. Si chiama "Che cento fiori sboccino - Artisti per Liberazione". Ed è un´asta, ideata, per l´appunto, da un centinaio di artisti e intellettuali allo scopo di recuperare fondi e salvare una «voce libera» dell´informazione.
Il quotidiano è "Liberazione", la "voce" di Rifondazione comunista. Sigla, insieme con altre della galassia di sinistra, rimasta fuori dal Parlamento dopo le elezioni del 2008. I mesi di vita della redazione sono contati, è l´allarme lanciato dal Prc e dai vertici del giornale. Parte da qui l´iniziativa promossa dal centro per l´arte contemporanea La Nuova Pesa: sarà inaugurata domani la mostra di 106 opere di artisti italiani e stranieri che si concluderà lunedì 18 con un´asta. Il tutto presso la galleria del centro, in via del Corso 530 a Roma. Le opere sono già consultabili sul sito nuovapesa.it/eventi/catalogo.pdf. La mobilitazione degli artisti, che prende le mosse dal critico Roberto Gramiccia e dalla madrina dell´iniziativa Simona Marchini, nasce anche dall´attenzione che il quotidiano ha sempre mostrato nei confronti del mondo dell´arte. E il ricavato di quanto venduto all´asta sarà interamente devoluto a "Liberazione".
Settimana dedicata alla mostra, dunque, ma anche al dibattito per sensibilizzare l´opinione pubblica sul tema del pluralismo dell´informazione e sul rischio chiusura per molti organi di informazione, di partito e non solo, colpiti dalla stretta sui fondi per l´editoria e più in generale dalla crisi del mercato. Dal Manifesto a Europa, dal Secolo a Liberazione. Giovedì 14 è prevista dunque una tavola rotonda dal titolo "Alla democrazia serve una stampa libera, indipendente e plurale", con direttori ed editorialisti di alcuni giornali, coordinata dal direttore del tg3 Bianca Berlinguer, sempre nella sede della galleria La Nuova Pesa.

Repubblica 10.10.10
Il presidente Usa rende omaggio all´uomo che liberò i neri dalla segregazione
Il mio maestro Mandela
di Barack Obama

Mentre il futuro presidente del Sudafrica era in prigione un giovane studente americano incominciava a fare politica Il passaggio di testimone nella nuova biografia del leader anti-apartheid
Uno era il prigioniero più famoso del mondo, leader della lotta all´apartheid, futuro presidente del Sudafrica L´altro uno studente universitario che scopriva la politica, futuro presidente degli Stati Uniti. Ora l´ex allievo rende omaggio al maestro nella nuova biografia dell´uomo che liberò i neri dalla segregazione. Ne anticipiamo un brano

Come tanti altri al mondo, ho conosciuto Nelson Mandela da lontano, quando era imprigionato a Robben Island. Per molti di noi lui era più di un uomo: era un simbolo della lotta per la giustizia, l´uguaglianza e la dignità in Sudafrica e in tutto il pianeta. Il suo sacrificio era così grande da incitare ovunque le persone a fare tutto ciò che era in loro potere per il progresso dell´umanità. Nel più modesto dei modi, sono stato uno di coloro che hanno cercato di rispondere al suo appello. Ho cominciato a interessarmi di politica negli anni del college, unendomi alla campagna di disinvestimento e per la fine dell´apartheid in Sudafrica. Nessuno degli ostacoli personali che mi trovavo ad affrontare come giovane uomo era paragonabile a quello che le vittime dell´apartheid vivevano ogni giorno.
E potevo solo immaginare il coraggio che aveva portato Mandela a rimanere in quella cella per così tanti anni. Ma il suo esempio contribuiva ad aumentare la mia consapevolezza del mondo e del dovere che tutti noi abbiamo di lottare per ciò che è giusto. Con le sue scelte, Mandela dimostrava che non dobbiamo accettare il mondo così com´è, che possiamo fare la nostra parte perché diventi come dovrebbe essere.
Nel corso degli anni ho continuato a guardare a Nelson Mandela con ammirazione e umiltà, ispirato dal senso di possibilità che la sua vita dimostrava e sgomento di fronte ai sacrifici necessari per coronare il suo sogno di giustizia e uguaglianza. Di fatto, la sua vita racconta una storia che si erge in netta opposizione al cinismo e alla rassegnazione che così spesso affliggono il nostro mondo. Un prigioniero è diventato un uomo libero; un simbolo di emancipazione è diventato una voce appassionata a favore della riconciliazione; un leader di partito è diventato un presidente che ha promosso la democrazia e lo sviluppo. Anche dopo avere lasciato gli incarichi ufficiali, Mandela continua a lavorare per l´uguaglianza, l´ampliamento delle opportunità e la dignità umana. Ha fatto così tanto per cambiare il proprio Paese, e il mondo, che è difficile riuscire a immaginare la storia degli ultimi decenni senza di lui.
Poco più di vent´anni dopo aver fatto il mio ingresso nella vita politica e nel movimento per il disinvestimento come studente di college in California, sono entrato in quella che era stata la cella di Mandela a Robben Island. Ero appena stato eletto senatore degli Stati Uniti. La cella era ormai stata trasformata da una prigione in un monumento al sacrificio compiuto da così tante persone per una trasformazione pacifica del Sudafrica. Mentre mi trovavo in quella cella, ho provato a tornare indietro nel tempo, ai giorni in cui il presidente Mandela era ancora il prigioniero 466/64, quando la vittoria nella sua battaglia era tutt´altro che una certezza. Ho cercato di immaginare Mandela - quella figura leggendaria che aveva cambiato la storia - come l´uomo Mandela, che aveva sacrificato così tanto per il cambiamento.
Io, Nelson Mandela offre uno straordinario contributo al mondo, restituendoci proprio l´immagine dell´uomo Mandela. [...] Mandela aveva intitolato la sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà. Ora, questo volume ci aiuta a ripercorrere i passi - e le deviazioni - che ha compiuto durante quel viaggio. Fornendoci questo ritratto a tutto tondo, Nelson Mandela ci ricorda di non essere stato un uomo perfetto. Anche lui, come tutti noi, ha i suoi difetti. Ma sono proprio queste imperfezioni che dovrebbero essere d´ispirazione per ciascuno di noi. Perché, se siamo onesti con noi stessi, sappiamo che affrontiamo battaglie piccole e grandi, personali e politiche, per superare la paura e il dubbio, per continuare a impegnarci anche quando l´esito della lotta è incerto, per perdonare gli altri e sfidare noi stessi. La storia raccontata da questo libro - e la storia della vita di Mandela - non è quella di esseri umani infallibili e di un inevitabile trionfo. È la storia di un uomo disposto a rischiare la vita per ciò in cui credeva e ha lavorato incessantemente per condurre quel genere di esistenza che avrebbe reso il mondo un posto migliore.
Alla fine, è questo il messaggio di Mandela a ognuno di noi. Per tutti ci sono giorni in cui sembra che cambiare sia impossibile, giorni in cui le avversità e le nostre imperfezioni possono indurci a desiderare di imboccare un sentiero più facile, che eviti le nostre responsabilità verso gli altri. Perfino Mandela ha vissuto giorni come questi. Ma anche quando soltanto un tenue raggio di sole penetrava in quella cella a Robben Island, riusciva a vedere un futuro migliore, degno del suo sacrificio. Anche quando ha dovuto fare i conti con la tentazione di cercare vendetta, ha visto la necessità di una riconciliazione e il trionfo dei principi sul mero potere. Anche quando ha raggiunto il meritato riposo, ha continuato a cercare - e continua tuttora - di ispirare i suoi compagni e le sue compagne a mettersi al servizio dell´umanità.
Prima di diventare presidente degli Stati Uniti ho avuto il grande privilegio di incontrare Mandela e dopo la mia elezione ho parlato in varie occasioni con lui al telefono. In genere sono conversazioni brevi: lui è ormai giunto al crepuscolo della sua vita e io devo affrontare il fitto programma di impegni che la mia carica mi impone. Ma sempre, durante queste conversazioni, ci sono momenti in cui traspaiono la gentilezza, la generosità la saggezza dell´uomo. Quei momenti mi ricordano che dietro la storia che è stata scritta c´è un essere umano che ha scelto di far vincere la speranza sulla paura e di guardare avanti, oltre le prigioni del passato. E mi rammentano che, per quanto sia diventato una leggenda, conoscere l´uomo - Nelson Mandela - significa rispettarlo ancora di più.
© 2010 by Barack Obama/ Agenzia Santachiara

Repubblica 10.10.10
Ma nonn volevo essere un santo
di Nelson Mandela

Gli uomini e le donne di tutto il mondo, nel corso dei secoli, vanno e vengono. Alcuni non si lasciano nulla alle spalle, nemmeno il proprio nome. Sembra che non siano nemmeno mai esistiti. Altri si lasciano dietro qualcosa: il ricordo ossessivo degli atti malvagi commessi contro gli altri, gravi violazioni dei diritti umani, che non si limitano all´oppressione e allo sfruttamento di minoranze etniche ma si spingono fino al genocidio per conservare intatte le proprie orrende politiche. Il decadimento morale di certe comunità in varie parti del mondo si rivela fra le altre cose nell´uso del nome di Dio per giustificare azioni condannate dal mondo intero come crimini contro l´umanità. Nella moltitudine di coloro che nel corso della storia si sono dedicati alla lotta per la giustizia in ogni sua forma, ci sono alcuni che hanno comandato invincibili eserciti liberatori.

Eserciti che hanno intrapreso operazioni entusiasmanti e hanno compiuto enormi sacrifici per liberare il loro popolo dal giogo dell´oppressione, per migliorare le condizioni di vita creando posti di lavoro, costruendo case, scuole, ospedali, introducendo l´elettricità e portando acqua pulita e potabile alle persone, soprattutto nelle zone rurali. Il loro scopo era eliminare il divario tra ricchi e poveri, istruiti e ignoranti, sani e malati, affetti da malattie che si potevano tranquillamente prevenire. In effetti, quando un regime reazionario veniva rovesciato, i liberatori cercavano di fare del proprio meglio, nei limiti delle risorse a loro disposizione, per portare a compimento questi nobili obiettivi e per introdurre un governo pulito, libero da ogni forma di corruzione. Quasi tutti i membri del gruppo oppresso traboccavano di speranza che i sogni tanto agognati potessero finalmente realizzarsi, che sarebbero riusciti a riacquistare una dignità umana ormai negata da decenni o addirittura secoli.
Ma la storia non smette mai di giocare brutti scherzi, anche a quei paladini della libertà famosi in tutto il mondo. Spesso i rivoluzionari del passato hanno ceduto facilmente all´avidità, e anche ultimamente la tendenza a dirottare le risorse pubbliche per l´arricchimento personale li ha sopraffatti. Accumulando grandi ricchezze e tradendo i nobili obiettivi che li avevano resi famosi, hanno virtualmente disertato le masse dei popoli e si sono alleati con gli ex oppressori, derubando senza pietà i più poveri solo per arricchirsi. Vige un rispetto universale e perfino una sorta di ammirazione per chi è umile e semplice per natura e per chi mostra assoluta fiducia in tutti gli esseri umani, indipendentemente dallo status sociale. Questi sono uomini e donne, celebri e sconosciuti, che hanno dichiarato guerra a ogni forma di grave violazione dei diritti umani in tutti i luoghi in cui tali eccessi si manifestano. Sono in genere ottimisti, convinti che in ogni comunità al mondo ci siano donne e uomini buoni che credono nella pace quale arma più potente nella ricerca di soluzioni durature.
La situazione attuale giustifica forse l´uso della violenza, che perfino quelle donne e quegli uomini buoni potrebbero avere difficoltà a evitare. Ma, anche in questi casi, l´uso della forza sarebbe una misura eccezionale, il cui scopo principale è creare le basi necessarie per soluzioni pacifiche. Sono proprio queste donne e questi uomini buoni la speranza del mondo. I loro sforzi e risultati sono riconosciuti al di là della morte, anche ben oltre i confini del loro Paese, rendendoli così immortali. La mia impressione generale, dopo avere letto diverse autobiografie, è che un´autobiografia non sia solo una raccolta di eventi e di esperienze in cui una persona è stata coinvolta, ma anche un modello su cui altri potrebbero basare la propria vita. Questo libro non ha tali pretese e non ha l´ambizione di lasciare tracce.
Da giovane […] ho vissuto le debolezze, gli errori e l´impulsività di un ragazzo di campagna, e il mio immaginario e le mie esperienze sono stati influenzati per lo più dagli avvenimenti del luogo in cui sono cresciuto e dei college in cui mi hanno mandato. Mi sono affidato all´arroganza per nascondere la debolezza. Da adulto, i miei compagni hanno tolto me e altri prigionieri, con alcune significative eccezioni, dall´oscurità del male o del mistero, anche se la leggenda secondo cui sono stato uno dei prigionieri militanti più longevo al mondo non è mai del tutto scomparsa.
Una questione che mi preoccupava molto in prigione era la falsa immagine che proiettavo involontariamente sul mondo esterno; di essere considerato un santo. Non lo sono mai stato, nemmeno sulla base della definizione terrena di santo come peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi.
© 2010 Sperling & Kupfer Editori S. p. A. Traduzione di Claudia Lionetti, Marilisa Santarone
e Cristina Volpi
Conversations by Myself © 2010 by Nelson R. Mandela and The Foundation/
Agenzia Santachiara © 2010 by PQ Blackwell Limited /Agenzia Santachiara

Repubblica 10.10.10
Il Nobel al dissidente anticipò la fine dell´Unione Sovietica: il partito ha paura di una nuova offensiva dell´Occidente
"Vogliono farci crollare come l´Urss" ora il regime teme "l´effetto Sakharov"
La confusione sul da farsi nasconde una frattura al vertice tra falchi e colombe
Ma l’ala conservatrice vicina a Hu Jintao ha chiesto il pugno di ferro

PECHINO - Sulla Cina cala lo spettro di un «effetto Sakharov». Il Nobel al dissidente sovietico annunciò l´implosione dell´Urss, sancita dai premi a Gorbaciov e Walesa. Le autorità di Pechino, sotto choc, temono ora che «un Nobel da Guerra Fredda punti a spaccare ideologicamente il Paese, per farlo crollare». A un giorno dal riconoscimento a Liu Xiaobo i leader tacciono. Il potere però è scosso e certo di essere al centro di «una campagna dell´imperialismo occidentale, deciso a imporre i suoi valori anche in Oriente».
I falchi del regime paragonano il Nobel al professore di Tienanmen all´invasione Usa dell´Iraq e premono per scatenare una campagna nazionalista all´interno, minacciando ritorsioni economiche contro America ed Europa. L´accusa, rilanciata dalla stampa del partito comunista, è di aver «comprato il Nobel della pace», trasformandolo «in una bomba ad orologeria anti-cinese». «Quando scoppia un contenzioso economico – dice un alto funzionario di Pechino – si sgancia un Nobel contro di noi. Prima il Dalai Lama, poi Obama, che un anno fa stava per compiere il suo primo viaggio in Asia, ora Liu Xiaobo, mentre infuria il braccio di ferro su yuan e protezionismo». Confusione ed imbarazzo nascondono, per la prima volta, una frattura del vertice. Il problema più urgente, discusso ieri in una riunione straordinaria del politburo, è cosa fare di Liu Xiaobo. Il rilascio immediato è stato escluso. «Equivarrebbe – dice a tarda sera il dirigente del partito – ad una resa all´attacco occidentale». Inimmaginabile però tenere un Nobel in prigione per altri dieci. A dicembre poi c´è la consegna del premio e anche su questo il potere è diviso. Impedire a Liu Xiaobo di presenziare alla cerimonia di Oslo scatenerà «un´altra campagna tesa a ridimensionarci». Concedergli un permesso però, offrendogli un palco mondiale, sarebbe peggio. Lo stesso vale per la moglie, Liu Xia. Se andasse a ritirare il premio del marito dovrebbe dire ciò che pensa e Pechino si vedrebbe costretta a negarle il permesso di rientrare in patria. Ma costringere un rappresentante del comitato norvegese ad entrare in carcere, farebbe precipitare l´immagine nazionale al livello di Birmania e Corea del Nord.
Un pasticcio, da cui il regime non sa come uscire e che esprime una leadership cinese furiosa, decisa a ritorsioni, ma spiazzata. Come vent´anni fa, alla vigilia del massacro di Tienanmen, emergono due linee. L´ala più conservatrice, riconducibile al presidente Hu Jintao e per ora maggioritaria, teme che il Nobel filo-dissidenti destabilizzi il potere in vista del cambio di leadership, già avviato e fissato tra poco più di un anno. Ieri ha chiesto «pugno di ferro», una nuova ondata di repressioni e una «forte campagna patriottica pianificata dalla propaganda». «Deve essere chiaro – dice il funzionario della capitale - che Liu è un collaborazionista traditore». I riformisti, più vicini al premier Wen Jiabao, premono invece per «sfruttare l´occasione Xiaobo». Quattro leader, messi in minoranza, hanno proposto di chiedere ai giudici una revisione della sentenza e di avviare «esperimenti circoscritti di rinnovamento politico». Il timore è interrompere la crescita economica e di perdere la fiducia della nuova classe media, più ricca e urbanizzata, ma pure «più arrogante e restìa all´obbedienza». Un solo punto in comune, in questo drammatico dopo-Nobel che fa vacillare il governo: insistere su «una via cinese del potere e dello sviluppo». Con un unico, drammatico dubbio: che il disprezzo dei diritti umani la renda oggi percorribile.
(gp.v)


Repubblica 10.10.10
Il sogno perduto del primo kibbutz
di Alberto Stabile

Nell´ottobre del 1910 otto uomini e tre donne salparono da Odessa e raggiunsero la Terra promessa per fondare una comune agricola, Degania: dal lavoro ai figli tutto doveva essere fatto per il bene della causa. Cent´anni dopo, ecco che cosa è rimasto di quell´utopia socialista che tanto contribuì alla costruzione dello Stato d´Israele

Fra questi viali di eucalipti, su questi ciottoli arroventati dal caldo, quaranta gradi, aleggia lo spirito di Moshe Dayan, bambino. Fra i molti primati che il grande Dayan s´attribuì in vita c´era anche quello di essere stato «il primo bambino nato a Degania», da una coppia di giovani pionieri, Shmuel e Dvorah, approdati in Palestina dalla fredda Ucraina per realizzare il loro sogno sionista. In realtà, se è vero che Degania è il primo kibbutz della storia, e in questi giorni se ne celebra il centenario, Moshe fu soltanto il secondo neonato della comunità, essendo stato preceduto da Gideon Baratz, figlio di Yoseph e Miriam Baratz, venuto alla luce qualche mese prima all´Ospedale della Missione Scozzese, a Tiberiade.
Erano tempi di ferro, di fame, di malattie, d´insopportabili durezze e d´incredibili privazioni quelli in cui il kibbutz Degania venne fondato. La prima infanzia di Dayan fu un susseguirsi di malanni gravi: la malaria, la polmonite, il tracoma. Un continuo girovagare tra ospedali e residenze occasionali, presumibilmente più salubri, dove tentare guarigioni improbabili sempre con accanto la madre, una raffinata intellettuale russofila, grande ammiratrice di Tolstoj che, pur credendo profondamente nei suoi ideali, non si rassegnò mai alle asprezze della vita in quelle terre di conquista.
Nella "kvutza", letteralmente il "gruppo", l´antesignano del kibbutz, di Degania il lavoro era tutto, l´ideologia, la prassi e il programma politico, la ricchezza e l´onore, e tutto era pensato e fatto in funzione del lavoro. Il privato, il personale, non avevano spazio, nulla poteva e doveva sfuggire alle regole imposte dal gruppo che su ogni cosa, dal nome da imporre ai neonati al ricovero in ospedale di un membro della comune, aveva la parola definitiva. E questo, ovviamente, «per il bene della causa».
Nel piccolo museo di Degania, accanto alla casa di mattoni a due piani che ospitò il primo nucleo di undici pionieri, otto uomini e tre donne, ai quali un anno dopo si aggiunsero Shmuel e Dvorah Dayan, si respira una doppia, stridente sensazione: l´assoluta penuria di mezzi di cui disponevano i fondatori, mista ad un´illimitata fiducia in se stessi. Ritratti in una foto color seppia, i membri della kvutza, scesi dai paesi del grande freddo su una landa a duecento metri sotto il livello del mare, guardano stupefatti il mondo nuovo che gli si è appena spalancato davanti. Gli uomini vestono la classica rubacka dei contadini russi, con l´abbottonatura laterale e la cintura stretta in vita, le donne indossano gonne lunghe fino ai piedi e camicie chiuse fino al collo che ne esaltano la figura. Sono, definitivamente, dei giovani borghesi, le loro mani hanno lunghe dita delicate, ma nei loro occhi c´è la febbrile inquietudine dei rivoluzionari, dei visionari che hanno deciso di passare all´azione.
Cent´anni dopo quella foto scattata al loro arrivo ad Haifa, su una nave salpata da Odessa, si può dire che quei giovani venuti dalla Lituania, dall´Ucraina, dalla Russia per realizzare il sogno ebraico del riscatto capovolgendo, al tempo stesso, la piramide sociale, hanno vinto. Il loro esempio ha avuto molti seguaci. Nessuno, oggi, può mettere in dubbio il contributo dato dal movimento dei kibbutz al compimento dell´impresa sionista, avvenuto nel 1948 con la proclamazione dello Stato d´Israele.
Hanno vinto loro, si può dire di quei sionisti ante litteram in posa nel piccolo museo di Degania, ma il kibbutz, inteso come cellula sociale basata su un´ideologia egualitaria e una struttura economica collettivista, è morto per sempre. Travolto dai grandi movimenti della storia, come il crollo dell´ideologia comunista e l´irrompere dell´economia globale, ma anche da fattori specificatamente israeliani, come l´inesorabile scivolamento a destra della scena politica e la crescente influenza della componente religiosa.
Quando, nel 2004, il governo Sharon decise di privatizzare i kibbutz, secondo un disegno elaborato da Ehud Olmert, la crisi incubava da anni. In un paese che aveva decisamente imboccato la strada della new economy e degli start-up, sul modello della Silicon Valley americana, i vecchi kibbutz fondati sull´agricoltura e l´allevamento del bestiame non avrebbero avuto futuro, se non contando pesantemente, come è successo negli ultimi decenni, sugli aiuti dello Stato. Trasformarsi o sparire, questa è diventata la scelta obbligata. Eppure, per Shay Shoshany, il giovane presidente di Degania, una volta si sarebbe detto «segretario», il kibbutz in generale, e Degania in particolare, non hanno perso il loro fascino. Shay resta legato ad una certa cultura politica oggi fuori moda: «Sono orgoglioso di essere uno degli ultimi socialisti rimasti», dice sorridendo. Ricorda il ruolo rivoluzionario e «globale» avuto dal kibbutz nel propagare l´idea dell´uguaglianza, «ma non siamo tutti uguali», ammette.
Ci sono molte cose buone da conservare, assicura il segretario di Degania, nella filosofia del kibbutz. Innanzitutto, la solidarietà praticata in concreto dai membri della comune, il che oggi avviene attraverso una tassa interna che serve a limare le differenze fra i salari e a migliorare i servizi comuni (tra i quali, qui a Degania, c´è anche un parco macchine). Il rispetto reciproco. L´abitudine a frenare gli impulsi consumistici. La qualità della vita. E tuttavia certe imposizioni in nome del «bene comune» non hanno più senso. «Quello che non potevo sopportare era di dover andare a chiedere il permesso per qualsiasi cosa, fosse un viaggio o un vestito», racconta Nina Ben Moshe, settantadue anni, nata a Degania da genitori membri del kibbutz e sposata ad un kibbutzik a sua volta nato da una famiglia di kibbutzniki. Eppure, nessuno dei suoi quattro figli ha seguito l´esempio dei genitori. «Ho bei ricordi, ma direi che i ricordi sono sempre belli. Da ragazzi crescevamo in una libertà assoluta, mentre i genitori erano al lavoro. Da adulti, non sapevamo cosa erano i soldi, cos´era una carta di credito. Queste cose abbiamo dovuto impararle dopo il 2004. Fino ad allora non ne avevamo sentito il bisogno perché avevamo tutto quello che ci occorreva e, soprattutto, avevamo tutti le stesse cose». «Ma - aggiunge Nina - nessun essere umano può lavorare per un lungo periodo senza ricevere nessun compenso, a meno che non sia un idealista. Quindi per rispondere alla sua domanda se eravamo felici: sì eravamo felici, ma era una felicità, come dire?, assistita. Improvvisamente ho dovuto imparare che cos´era una banca, che occorreva risparmiare e che a me stessa dovevo pensarci io e non il kibbutz».
Ad attenuare l´amarezza di alcuni vecchi membri del kibbutz si starebbe producendo una realtà nuova, un ricambio di popolazione dovuto anche alle trasformazioni economiche imposte dalla crisi. «Oggi - assicura Shay - a Degania non vivono soltanto contadini ma anche liberi professionisti, un avvocato, un medico, che hanno deciso di tornare a vivere nel kibbutz pur lavorando fuori. Naturalmente contribuiscono in tutto alle spese comuni e questo cespite proveniente dalle attività esterne, o private, rappresenta il quarantacinque per cento delle nostre entrate, mentre il trentacinque è dato dall´agricoltura (banane e datteri) e il venti dalla fabbricazione di diamanti industriali».
Che i kibbutz si siano aperti al mondo esterno non c´è dubbio. Molti giovani, ad esempio, trovano nelle vecchie comuni agricole quelle condizioni di vita che le città, affogate nello smog e nel traffico, non possono offrire. Tuttavia non si può ancora parlare di un vero e proprio afflusso. In fin dei conti, la maggiore speranza dei dirigenti dei kibbutz di migliorare le finanze comuni è affidata al turismo.
Molti kibbutz della Galilea si sono trasformati in resort. E si vede che questa, nonostante il blasone, la ricca storia e il passato eroico, di cui è testimonianza il piccolo carro armato siriano esposto ai cancelli, residuato della guerra del ´48 e di una fortunata controffensiva dei kibbutziniki a colpi di bottiglie molotov, quella del turismo, dicevamo, è nonostante tutto anche la tentazione di Degania. Approfittando della privatizzazione del 2004 una famiglia del kibbutz ha aperto un piccolo ristorante proprio di fronte alla vecchia stalla dei pionieri, oggi trasformata in teatro e sala cinematografica. Pasta, insalate e cucina kasher, naturalmente, per compiacere il pubblico religioso. Questa è la culla del socialismo laico, ma non si sa mai.

Avvenire 10.10.10
Lenin architetto del Terrore
di Paolo Sensini


Omicidi, torture e clima del sospetto non furono eccessi dovuti alla guerra civile, ma piani preordinati per creare il nuovo «homo sovieticus»

IL LIBRO
Anticipiamo in queste colonne alcuni stralci dell’introduzione di Paolo Sensini a Il terrore rosso in Russia. 1918-1923 di Sergej Mel’gunov, in uscita per Jaca Book (pagine 336, euro 29,00), e un passo delle riflessioni dello stesso Mel’gunov. Lo storico russo, nato nel 1879, fu attivo in campo politico su posizioni socialiste durante l’ultima fase dell’Impero zarista e i convulsi anni delle rivoluzioni di Marzo e d’Ottobre.
Ripetutamente arrestato dai bolscevichi, condannato a morte ma salvato in extremis dall’intercessione di alcuni influenti amici, fu espulso dall’Urss nel 1922 e riparò a Praga, a Berlino e infine a Parigi. Il terrore rosso in Russia uscì in Germania nel 1923 e fu immediatamente tradotto in tedesco, inglese, francese e spagnolo – non in italiano, almeno fino a oggi. Mel’gunov morì nel 1956.
Nel nostro Paese questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere i contenuti

«Dell’uomo si può fare quel che si vuole! Io voglio che nel pensare e nel reagire le masse russe seguano uno schema comunista!». Con queste parole, pronunciate poco dopo il colpo di mano del 25 ottobre 1917, Vladimir Il’ic Ul’janov – in arte Lenin – si rivolgeva al fisiologo russo Ivan Pavlov per chiedergli se il suo lavoro di scienziato sui riflessi condizionati del cervello potesse aiutare il Partito a «controllare il comportamento umano». Ed è esattamente questa, al di là delle contingenze e dei diversivi tattici del momento, la posta in gioco che la hýbris leninista bramava fin dall’inizio: «raddrizzare il legno storto dell’umanità». Raddrizzarlo nel senso voluto da Lenin (ossia: «Costringeremo il genere umano a essere felice, costi quel che costi!»). Da questo punto di vista l’opera di Sergej Mel’gunov che viene presentata al pubblico italiano dopo quasi novant’anni dalla sua apparizione in lingua russa a Berlino – opera che va letta al tempo stesso come rigetto morale e messa in guardia intellettuale di un socialista deciso a far conoscere per la prima volta al mondo l’«abisso» in cui era sprofondata la Russia dopo la presa del potere dei bolscevichi – rappresenta un’occasione straordinaria per osservare in presa diretta, senza veli e senza distorsioni gli eventi per come si sono svolti, i primi decisivi atti di quell’immane tragedia che ha condizionato la storia europea e mondiale del XX secolo. In Italia questo libro, che è stato il primo a denunciare pubblicamente nel dicembre 1923 la realtà storica in cui si è affermato il potere bolscevico in Russia, non ha mai trovato nessun editore disposto a farne conoscere gli sconvolgenti contenuti. L’opera di Mel’gunov risulta un contributo imprescindibile per chiunque voglia capire a fondo la situazione che si è determinata in Russia negli anni successivi ai «dieci giorni che sconvolsero il mondo». Una delle cose più ardue da far rivivere oggi, di quella convulsa sequenza, risiede per esempio nella «furia rivoluzionaria» che i bolscevichi misero in campo per cancellare fin da subito qualsiasi traccia della cultura preesistente, fosse essa iconografica, ideografica o semplicemente letteraria, quasi a voler marcare col fuoco un «prima» e un «dopo» il loro avvento messianico nella stanza dei bottoni. Bisognava insomma «sparare sugli orologi del tempo alienato» per costituire il «nuovo calendario» della civiltà futura, cosa che appunto proponeva uno dei massimi esponenti del movimento Proletkul’t (acronimo di 'Cultura proletaria') per lumeggiare quale sarebbe stato l’apporto paracletico dei rivoluzionari finalmente giunti al potere: «In nome del nostro domani – si leggeva su un documento ufficiale del gruppo –, metteremo al rogo Raffaello, distruggeremo i musei, schiacceremo i fiori dell’Arte». Ovvio che, con una simile «rivoluzione totale» da portare a compimento, il Partito comunista e i suoi «ingegneri delle anime umane» (' inzenery celoveceskich duš') non si sarebbero più fermati fino a quando gli individui sottoposti al suo imperio non si fossero finalmente trasformati in «rotelle» (' vintiki ') impersonali e sostituibili di un «ingranaggio tecnico».
Oppure in una sorta di «robot umani» incapaci di pensiero individuale e perfettamente obbedienti a quel «demone della distruzione e demiurgo della creazione» che fu Lenin. Ma come riuscire ad imporre a un sesto del mondo un simile programma in così breve tempo?
Semplice, con il «Terrore rosso di massa». Un Terrore programmato, brutale e inesorabile che era stato architettato da Lenin molto prima della «rivoluzione», il quale si estese fin da subito all’insieme della popolazione e all’esercito. Il sistema era poi ulteriormente «integrato», come mezzo per indurre chiunque a sottomettersi alla «dittatura del proletario», dalla più completa licenza di saccheggio, rappresaglia e sterminio dei «nemici di classe». Fu dunque sotto il regime di Lenin, e non sotto quello di Stalin, che la Ceka creò un autentico Stato di polizia, e fu sempre Lenin a compiere la mostruosità giuridica di fondere in una sola struttura gli organi che conducevano l’istruttoria, quelli che emettevano i verdetti, spesso alla pena di morte, e infine quelli che eseguivano le condanne. Essa era stata organizzata in modo tale da poter disporre di proprie infrastrutture leviataniche, dai comitati di controllo insediati in ogni fabbrica fino ai «campi di rieducazione mediante il lavoro», nel cui ambito operavano oltre duecentocinquantamila addetti, la cui ferocia e arbitrio senza limiti potevano evocare, mutatis mutandis, gli omologhi opricniki, i detestati scherani di Ivan il Terribile. Durante la guerra civile erano costoro a garantire la sopravvivenza del regime sul cosiddetto «fronte interno», quando ormai il Terrore era la conditio sine qua non del sistema. Un’attività, quella delle «Commissioni istruttorie straordinarie, che costituisce un esempio forse unico nella storia dei popoli civili».
In aggiunta agli illimitati poteri di cui godeva, la Ceka, «il cui lavoro si svolge in condizioni particolarmente difficili», venne dichiarata «infallibile» e fu proibita ogni critica nei suoi riguardi. Nei primi mesi successivi all’Ottobre, attuando le idee di Lenin e sotto la sua personale direzione, si delineò quindi compiutamente uno Stato di tipo nuovo, uno Stato totalitario caratterizzato non dal rigore della legge, ma essenzialmente dall’arbitrio più totale. A tale riguardo un alto funzionario della Ceka, Iosif Unšlicht, nelle sue affettuose memorie su Lenin scritte nel 1934, osservava con malcelato orgoglio: «[Lenin] trattava con implacabile brutalità i gretti membri del partito che deprecavano la spietatezza della Ceka; egli derideva e sbeffeggiava l’“umanità” del mondo capitalista». Se il partito era l’ossatura dell’apparato statale, la Commissione straordinaria ne era la muscolatura. Il partito forniva l’Idea: «tutto è lecito, lavoriamo per la Storia». La Ceka invece, «questa meravigliosa macchina per distruggere l’essere umano», forniva il braccio che attuava l’arbitrio assoluto. È stato assai difficile raffigurarsi quanto avvenuto di fronte a una vulgata storiografica compiacente, fraudolenta, omertosa e quasi sempre mistificante, che aveva come sua precipua missione d’impedire la conoscenza di quel gigantesco esperimento d’ingegneria sociale per ciò che veramente ha rappresentato. Forse, a oggi, il più terrificante e grandioso dell’intera storia dell’umanità.

Avvenire 10.10.10
«Dai bolscevichi l’apoteosi dell’omicidio come strumento di dominio»
di Sergej Mel’gunov


Gli storici hanno dato e danno una spiegazione e perfino una giustificazione al Terrore dell’epoca della Rivoluzione francese; i politici trovano una spiegazione anche all’esecrabile realtà contemporanea. Non intendo, in questa sede, spiegare un fenomeno che, prima d’ogni spiegazione, può e deve anzitutto e urgentemente essere stigmatizzato da parte della morale della società, oggi come nel passato, bensì soltanto fornirne una veridica rappresentazione. Lascio ai sociologi e ai moralisti il compito di cercare spiegazioni all’attuale ferocia che dilania il consorzio umano, magari nel retaggio dei tempi andati e nel cruento delirio dell’ultima guerra europea, nella decadenza morale dell’umanità e nello stravolgimento dei fondamenti ideologici e riferimenti ideali della psiche e del pensiero umani. Compete agli psichiatri stabilirne il nesso con le manifestazioni patologiche del secolo; attribuiscano tutto ciò, se credono, all’influsso di una psicosi di massa. Quel che mi preme sopra ogni cosa è ristabilire il quadro reale del passato e del presente tanto travisato sia dal cesello della ricerca storica sia nella valutazione soggettiva, dettata da esigenze pratiche, del politico d’oggi. Non è possibile versare più sangue umano di quanto hanno fatto i bolscevichi; non è possibile immaginare forme più ciniche di quelle in cui s’è concretato il terrore bolscevico. È un sistema che ha trovato i suoi ideologi; è un sistema di metodica attuazione della violenza e dell’arbitrio, è l’apoteosi senza remore dell’omicidio inteso come strumento di dominio alla quale non era mai ancora arrivato nessun potere al mondo. Non si tratta di eccessi, per i quali si può cercare questa o quella spiegazione nella particolare psicosi indotta dalla guerra civile. L’atrocità morale del terrore, la sua azione disgregante sulla psiche umana, consistono più che nei singoli omicidi in sé, o nel loro numero più o meno consistente, proprio nel suo essere elevato a sistema. La debolezza del potere, gli eccessi, perfino la vendetta di classe da un lato e… l’apoteosi del terrore dall’altro sono fenomeni di ordine diverso. Non potremo sentirci a posto con la coscienza fino a quando non sarà eliminato questo cupo e anacronistico Medioevo del XX secolo che abbiamo avuto in sorte di testimoniare. Certamente, sarà la vita stessa a spazzarlo via, ma solo dopo che l’avremo definitivamente superato nelle nostre coscienze, quando la democrazia europea occidentale e in primo luogo i socialisti, accantonati i fantasmi della reazione, si affrancherà veramente dall’incantamento della «testa di Medusa» e le volterà le spalle con orrore; quando i rivoluzionari di ogni tendenza capiranno finalmente che il terrore governativo uccide la rivoluzione e propaga la reazione, che il bolscevismo non è la rivoluzione e che deve cadere con disonore e infamia «tra le maledizioni di tutto il proletariato in lotta per il proprio riscatto». Sono parole del noto capo della socialdemocrazia tedesca Kautsky, uno dei pochi ad aver assunto una posizione così netta e intransigente nei confronti dell’arbitrio e della violenza dei bolscevichi. E bisogna far sì che il mondo capisca e si renda conto dell’orrore di quei mari di sangue che hanno sommerso la coscienza dell’umanità…