venerdì 15 ottobre 2010

il Fatto 15.10.10
Università in ginocchio per i tagli. Proteste in tutta Italia
Tremonti: “Fondi a fine anno”. Ma non dice quanti
di Caterina Perniconi


“Berlusconi, se hai i capelli è solo grazie alla ricerca”. Provano a scherzarci sopra con uno striscione irriverente gli studenti e i ricercatori scesi in piazza Montecitorio per protestare contro la riforma del ministro Mariastella Gelmini. Ma non hanno molta voglia di ridere: “Questi tagli distruggono l’Università pubblica e la legge la renderà sempre più privata” spiegano i manifestanti, che nonostante lo slittamento del ddl, che non verrà discusso prima della sessione di bilancio della Camera, continuano la loro lotta contro il provve-
dimento. Ieri, mentre il governo varava la manovra Finanziaria, studenti e ricercatori hanno sfilato fianco a fianco in molte città e occupato la sede della Conferenza dei rettori a Roma. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in conferenza stampa non ha fatto assolutamente nessuna cifra. Ha promesso di “mettere più soldi possibile” per la riforma dell’Università, ma ciò avverrà “a fine anno”. Il che significa che gli anni accademici dovrebbero partire senza sapere su quanti soldi potranno contare gli atenei.
Dimenticati i precari
A QUESTE condizioni i ricercatori non ci stanno e continuano lo “sciopero” della didattica, che poi un vero sciopero non è, trattandosi solo del rispetto delle loro formule contrattuali. I precari, completamente dimenticati dal governo, accettano con difficoltà la
protesta di una fascia docente già assunta che chiede diritti, maforsequestotipodicontestazione sarà il primo che dimostrerà realmente cosa sta succedendo nelle Università. Perché l’offerta formativa sarà ridotta, e senza soldi non si potranno rimettere insieme i pezzi.
Dopo i presidi del Politecnico di Torino anche la preside di Scienze Matematiche dell’Università di Milano, Paola Campadelli, è stata costretta ad avvertire gli studenti e le famiglie dei disagi che la riforma in itinere e i tagli previsti dal governo porteranno alla riforma: “L’Università si trova in grave disagio – spiega la preside – a causa delle recenti manovre finanziarie (giugno 2008 e giugno 2010) e dei problemi che il disegno di legge di riforma dell’Università, in discussione in questi giorni alla Camera, potrebbe provocare se non opportunamente finanziato ed emendato”. Nella lettera viene spiegato che lamediadispesaperognistudente è molto inferiore rispetto alla media europea (8.500 euro contro 13.000), si fa riferimento al taglio del 18% del fondo di finanziamento ordinario e a quello per i progetti d’interesse nazionale.
“Il ministro Gelmini ritiri la sua polpetta avvelenata e ridia futuro al Paese” ha dichiarato il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro. “I ministri Gelmini e Tremonti – ha denunciato Di Pietro – hanno tolto 8 miliardi di euro alla scuola pubblica, 1,2 miliardi all’università e hanno mandato 140 mila insegnanti per strada. Altro che riforma, queste scelte nascondono soltanto un disegno ben preciso: far trionfare l’ignoranza, cancellare la meritocrazia agevolando così solo gli istituti privati”. Mentre per il leader della Lega umberto Bossi, il
problema non esiste: “I soldi si troveranno, ci penserà Tremonti”.
Manifestazioni da nord a sud
EPPURE nella “padana” Milano le proteste continuano, eccome. Ieri i ricercatori hanno fatto lezione in piazza e hanno sfilato in corteo insieme agli studenti. A Torino il Politecnico è occupato. A Trieste sono state fermate tutte le attività per mezz’ora, dalle 11.30 alle 12.00 . A Firenze lezioni “aperte” all’ospedale Carreggi. A tenerle i docenti della facoltà di medicina. In segno di protesta è stato esposto uno striscione con la scritta “il ddl Gelmini e la Finanziaria uccidono l’università. Non lasciamola morire!”. Mentre nel corso di una manifestazione i ricercatori dell’Università di Bari hanno bruciato i loro curricula in piazza. “Si tratta di un atto simbolico importante – hanno spiegato – perchè i curricula sono il nostro bene più prezioso, che rischia di essere negato, mortificato, ignorato nel nuovo modello di Università voluto dal governo dato che il provvedimento governativo non fa altro che aumentare il precariato nelle università pubbliche”.

l’Unità 15.10.10
Epifani: va fermata l’offensiva
contro i diritti dei lavoratori
Il segretario Cgil: la situazione di molte persone è drammatica e il governo è allo sbando Maroni faccia quel che gli compete per mantenere la sicurezza, ma perché parla ora?
di Oreste Pivetta


Domani la grande manifestazione di Roma e ieri sera il ministro Maroni va in scena a Porta a Porta, con Bruno Vespa, per annunciare «elevato rischio» e possibilità di «infiltrazione di gruppi violenti». Guglielmo Epifani, che chiuderà la giornata romana, commenta: «Strano che il ministro esprima le sue preoccupazioni in televisione e solo dopo con il sindacato. Non capisco le sue dichiarazioni all’ultimo momento, se sia un modo per scaricare responsabilità o altro. Gli chiedo solo di lavorare al massimo, per quanto gli compete, per prevenire incidenti e garantire l’ordine pubblico». Comunque, chiediamo a Guglielmo Epifani, come vi sentite? Sotto osservazione?
«Diciamo intanto che la manifestazione è una manifestazione sindacale e che sindacale resta, pur sapendo della forte presenza di movimenti. Ho già detto: se succedesse qualcosa sarebbe una giornata persa per far valere le nostre ragioni. Il nostro impegno, perché violenze non ci siano sarà assoluto, perché sappiamo bene che esistono limiti invalicabili: non si scagliano candelotti, non si invadono le sedi degli altri. Non si può essere ‘non violenti’ e poi giustificare certi atti, che rappresentano l’opposto del confronto che noi ricerchiamo sempre. Non esistono due verità. Di verità ce n’è una sola: la nostra dice che è inaccettabile la violenza». Veniamo ai contenuti. Su che cosa punterà nel suo discorso, che sarà probabilmente il suo ultimo da segretario della Cgil?
«Al cuore del discorso deve stare ancora la denuncia della grave crisi che stiamo attraversando e dell’uso che se ne sta facendo per colpire i diritti dei lavoratori, deve stare la denuncia dell’assenza di una politica che dia risposte alle necessità di tante persone, in condizioni drammaticamente pesanti. Basterebbe rileggere i dati della cassa integrazione, della disoccupazione, i numeri del precariato, rileggere le storie di tante aziende a rischio chiusura, ascoltare le proteste di contadini come in Sardegna e di operai un po’ ovunque, riflettere sui rapporti della Caritas a proposito di povertà. Mentre il governo appare allo sbando, da un lato incapace di affrontare i nodi di una politica che aiuti le famiglie, che sostenga il lavoro, che dia stimolo agli investimenti, dall’altra dominato nelle sue strategie da due obiettivi: un ferocissimo controllo del bilancio pubblico e l’attacco sistematico ai diritti dei lavoratori. Di fronte a questa alternativa, mi pare che si sia rotto, in parte almeno, quel patto che l’impresa aveva stipulato con il governo. Si cominciano ad avvertire scricchiolii, che la Marcegaglia cerca con cautela di rappresentare e che sono in realtà ben più numerosi. Come se l’impresa avesse dapprima considerata giusta una linea di grande rigore, che la mettesse al riparo dalla tempesta finanziaria, contando poi su una ripresa più rapida e sostenuta. Invece cresciamo pochissimo e si avverte al tempo stesso la divaricazione tra la spinta alle attività produttive decisa negli altri paesi e il nulla o quasi proposto dal nostro governo».
La vicenda dell’università è emblematica di un governo diviso... «Siamo al paradosso perché il minimo del minimo che il governo aveva promesso per sistemare un po’ di ricercatori e garantire un filo di prospettiva viene bloccato dalla rigidità della manovra di Tremonti».
In compenso ci hanno regalato il federalismo... «Il federalismo è una impresa a grande rischio, perché con una politica così rigida di bilancio anche le risorse necessarie per un federalismo solidale non sembrano alla portata. Ne parlerò e parlerò naturalmente della vicenda dei precari, in particolare della pubblica amministrazione, dell’attacco al contratto nazionale, dell’attacco ai diritti dei lavoratori...».
Lei lascia, mentre appaiono assai difficili i rapporti tra la Cgil e la Cisl e tra la Cgil e la stessa Fiom.
«Con la Fiom non direi, perché per quanto riguarda il contratto nazionale la strada imboccata dalla Fiom sia giusta e che la scelta di Federmeccanica sia inaccettabile oltre che assai delicata. A proposito di Pomigliano, anch’io penso che non ci fossero le condizioni per firmare, ma non perché ci chiedessero di lavorare di più, ma perché pretendevano di mettere sotto controllo i comportamenti delle persone in un modo che va al di là di diritti indisponibili anche per il sindacato. Siamo convinti però che per superare questa situazione serva una proposta che ci consenta di rientrare nel gioco di una revisione della riforma contrattuale. Con una nostra proposta saremmo tutti più forti, sarebbe più forte la Fiom». Qualcuno accusa: protesta debole, serve lo sciopero generale.
«Ne abbiamo appena fatto uno. E poi ricordo la manifestazione della Cgil di novembre. C‘è un’altra necessità, quella di tenere unito il fronte rivendicativo. Dobbiamo tenere temi e obiettivi come il rinnovo della cassa integrazione, la crisi industriale, la condizione dei precari, la richiesta di politiche industriali, la questione del peso fiscale per i lavoratori indipendenti e per i pensionati, il rispetto dei diritti contrattuali, contro le deroghe e l’accordo di Pomigliano... Non siamo come nel 2001, quando l’attacco fu su un punto soltanto, sull’articolo 18. Siamo di fronte a una politica che rischia di far precipitare le condizioni dei lavoratori».
Rischiando di trovarvi senza interlocutori. «Siamo in una fase di assoluta incertezza nell’azione del governo... Ma non è che possiamo fermarci, perché comunque il governo procede: vedi il collegato sul lavoro con l’arbitrato che potrebbe diventare nella sostanza quasi obbligatorio».
Il suo personale bilancio?
«Sono diventato segretario in una fase di divisione, ho lavorato per ricomporre l’unità. Mi ritrovo a fare i conti con un’altra forte divisione. E questa è la cosa che più mi rammarica. Siamo di fronte a una profonda lacerazione sul ruolo del sindacato. Anche se esistono altri segnali: in fondo sono stati firmati unitariamente cinquanta contratti e si fanno ancora scioperi insieme. Certo che iniziative come di sabato scorso della Cisl non aiutano. Quando c’erano tutti i presupposti perché in piazza sul fisco si scendesse assieme».
Che cosa manca?
«Mancano momenti di confronto con i lavoratori. La paura di confrontarsi nei luoghi di lavoro fa male alla ripresa dell’unità».

Corriere della Sera 15.10.10
L’imbarazzo del Pd anche con gli alleati per la manifestazione
di Maria Teresa Meli


ROMA — L'allarme lanciato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni divide un Pd già diviso. Rafforza le perplessità — che in alcuni casi sono vere e proprie ostilità — nei confronti della manifestazione della Fiom, da una parte, mentre dall'altra suscita lo sdegno di quanti domani scenderanno in piazza. Pier Luigi Bersani, che non parteciperà al corteo, era stato già avvisato della possibilità di provocazioni ed eventuali infiltrazioni.
Ma se il segretario domani non ci sarà, al fianco dei metalmeccanici della Fiom sfilerà invece uno dei suoi pupilli, il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, uno dei giovani su cui il leader punta molto. È stato proprio lui a tenere i rapporti con la Fiom in questi ultimi giorni e a rassicurare il sindacato, lasciando intendere che comunque il Pd non si defila.
Del resto, le divisioni dentro il Partito Democratico sono trasversali. Per un Fassina che partecipa convinto alla manifestazione, c'è un Enrico Letta che fa sapere che lui domani sarà in quel di Prato a un convegno della Confindustria. Divisioni anche tra i 75, la corrente di minoranza del partito. Per il veltroniano emergente Andrea Martella «il Pd farebbe bene a stare lontano dalle piazze». Martella è convinto che un partito riformista ha poco o nulla a che spartire con le battaglie della Fiom. Invece secondo il senatore Roberto Della Seta, della stessa componente, l'iniziativa della Fiom è sacrosanta: «È inaccettabile che la ripresa della nostra economia possa avvenire riducendo i diritti dei lavoratori».
Il partito di Bersani come tale non ha dato l'adesione ufficiale. Anche se in molti andranno. «Chi ci va, lo farà solo a titolo personale», spiega Sergio D'Antoni ex leader della Cisl, che aggiunge: «Se non siamo andati alla manifestazione di sabato scorso di Cisl e Uil, a maggior ragione non possiamo andare a quella della Fiom».
La linea è «né contro la manifestazione, né a favore». Ma non risolve i problemi del Pd. Tant'è vero che la tensione, dentro il partito, tra gli amici della Cisl e quelli della Cgil è ancora forte. E questa linea in realtà non risolve nemmeno i problemi che il partito ha con gli alleati del nuovo Ulivo che verrà. I Vendola, i Nencini, i Verdi, Di Pietro, saranno tutti in piazza, domani. E c'è da scommettere che saranno pronti a puntare il dito sul Pd che un po' manifesta e un po' no.
E ancora: molti centristi del partito sono in sofferenza. Marco Follini vede una deriva «che rischia di farci finire come i Progressisti del '94». Europa, il quotidiano dei «Democrats», avverte: «Il Pd eviti il collateralismo, sarebbe un colpo mortale». E auspica che, al contrario, il Pd abbia «una sua linea da contrapporre al conservatorismo sindacale».
Scatenatissimi gli ex ppi. Beppe Fioroni è contrario senza se e senza ma. Riferendosi agli assalti alla Cisl parla di «nuova strategia della tensione da non sottovalutare». A suo giudizio, se il Pd prendesse sotto gamba quanto sta avvenendo compirebbe «un grosso sbaglio», perché «non si possono mettere sullo stesso piano le vittime e i carnefici». Dove è chiaro chi per Fioroni, tra Cisl e Fiom, chi sia la vittima e chi il carnefice. Per il responsabile Welfare, che è uno dei leader dei 75, «non basta non andare al corteo come partito, bisogna prima di tutto condannare la violenza». E su questo punto, secondo Fioroni, il Pd non ha ancora fatto abbastanza: bisogna «compiere un altro passo», altrimenti il rischio è quello di comportarsi, «senza volerlo», da «fiancheggiatori».

l’Unità 15.10.10
Italia 2010. Il pensiero smarrito
L’analisi Le scienze sociali impantanate in questo nostro «tempo sospeso» tra l’autoreferenzialità, le identità in crisi e la sopraffazione del nuovo E per la politica la cultura appare sempre di più un ostacolo da abbattere...
di Stefano Rodotà


Da uno sguardo sulla situazione delle scienze sociali in Italia si ricava una sensazione diffusa di distanza e di autoreferenzialità. Distanza, o difficoltà di individuazione, per quel che riguarda il proprio oggetto una società fattasi sempre più instabile, liquida, del rischio, dell’incertezza, secondo le definizioni correnti. Autoreferenzialità, per la fatica di identificare modalità e fini che consentano loro di collocarsi in forme adeguate nell’epoca che viviamo. Sembra quasi di trovarsi in un tempo sospeso, nel quale ovviamente ricorre spesso il termine «crisi», il cui esito sembra ancora più cercato che intravisto. Lo stesso ruolo delle scienze sociali finisce così con l’apparire rimpicciolito, per la mancanza di tracce forti per quanto riguarda il metodo, per il rivelarsi di eccessi di dipendenza da fattori esterni che investono, insieme, il tipo di ricerche e lo status degli studiosi.
Al tempo stesso, però, si manifesta una non trascurabile capacità reattiva di fronte alle dinamiche più significative, si tratti della crisi finanziaria o del mutamento radicale indotto dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Considerando questo panorama, tuttavia, si ha piuttosto l’impressione di una agenda dettata dall’esterno, governata più dall’attualità che da un coerente progetto di analisi della società italiana. Ma il peso dell’attualità finisce col giocare un ruolo positivo, perché individua questioni ineludibili e che sollecitano l’attenzione di discipline diverse. Si delineano così anche campi di ricerca unificanti, che spingono ad un lavoro comune a diverse discipline, anzi sfidano le stesse partizioni disciplinari. Si tratta, ad esempio, di tutte le questioni volte a disegnare il perimetro stesso dell’azione individuale, a individuare il senso che assume il legame sociale, a cogliere le nuove antropologie. La persona e il corpo assumono rilevanza particolare, e da qui si sviluppa una riflessione che porta alla dimensione del soggetto e alle impervie questioni dell’identità, alla cui definizione contribuiscono antropologi e sociologi, psicologi e giuristi. Si giunge così, più che ad una generica interdisciplinarietà delle ricerche, ad una attenzione reciproca.
Le difficoltà si manifestano quando bisogna poi passare dalle molteplicità delle ricerche alla ricostruzione di contesti e categorie più generali. Trascinati recalcitranti in un’altra modernità, molti studiosi sembrano quasi sopraffatti dal nuovo e si fermano al racconto delle novità, senza indagarne il senso più profondo. Diminuiscono così l’elaborazione teorica, la capacità di connessione comparativa interculturale, la propensione alla generalizzazione.
Tutto questo incide sul ruolo sociale degli studiosi, sulla capacità di contribuire alla costruzione del discorso pubblico, sul rapporto con la politica. Quest’ultimo è fortemente segnato dal disinteresse sempre più marcato dei politici, che davvero sta incentivando una «cultura» tutta italiana, fatta di approssimazione mediatica e di avversione al sapere critico che, anzi, appare sempre più spesso come un ostacolo da abbattere, come l’ultima forma di controllo di cui una politica povera e prepotente vuole liberarsi.

l’Unità 15.10.10
Terapia di “soglia”. Tutti giù dal lettino
Nuovi “spazi” psicoanalitici crescono Per offrire a chi ne ha bisogno un orizzonte di speranza
di Marco Rossi-Doria


Oggi e domani si tiene a Roma un convegno dal significativo titolo Quando la psicanalisi scende dal lettino. Il tema è quello del superamento delle forme canoniche della psicoanalisi per dare luogo a una clinica, gratuita o a basso costo, per chi si trova intrappolato nelle molteplici forme dell’esclusione sociale. L’evento fa parte di un più largo e composito scenario di nuova attenzione alle sofferenze ma anche ai desideri delle persone escluse. Se, per esempio, si legge il rapporto della Caritas (http://www.caritasitaliana.it/home_page/pubblicazioni/00002032_In_caduta_libera. html), appena uscito, o quello della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (http://www. commissionepoverta-cies.eu/Archivio/rapporto2009.pdf) è evidente l’attenzione per i molti nessi tra la situazione sociale del Paese e le specifiche fragilità e sofferenze individuali. Il rapporto della Commissione, per esempio, ricostruisce alcune ricorrenti traiettorie individuali di impoverimento e il come vengono intaccate le capacità dei singoli di resistere e provare ad uscire dalla loro situazione. Certo, le diverse condizioni di povertà che riguardano quasi un italiano su quattro sono descritte come il portato della lunga crisi in atto, del mancato sviluppo del Mezzogiorno, della disoccupazione di massa, dell’analfabetismo delle famiglie, della mancanza di welfare, del progressivo restringimento delle reti di solidarietà comunitaria tradizionali. Ma vengono, al contempo, messe in relazione con fattori legati alle biografie dei
singoli. Tanto che entrano nel dibattito pubblico sul macro-sistema della povertà oggetti che sono al confine con lo studio della psiche: la trasmissione intergenerazionale del senso di «impossibilità ad uscirne», le diverse forme della cronicizzazione della propria condizione, la nozione di «cumulo di eventi negativi», il peso delle situazioni traumatiche precoci, ecc.
Forse si sta incrinando, in modo promettente, il muro tra chi studia i fenomeni sociali e le politiche pubbliche e chi si occupa del come le persone possono ricostruire la possibilità di scegliere. È un fatto non nuovo in assoluto. Da anni gli operatori sociali quando incontrano la madre sola e senza lavoro o il giovane costretto al lavoro nero o il bimbo quasi abbandonato a se stesso o l’operaio cinquantenne della fabbrica dismessa che è pericolosamente depresso si battono sì per ottenere dispositivi di sostegno materiali, oggi messi a repentaglio da un vero e proprio attacco ai poveri; ma, al contempo, si attivano per dare risposte anche alle sofferenze psicologiche sempre più frequenti: difficoltà relazionali, ansia, angoscia, fobie, stati depressivi, disturbi del comportamento o psico-somatici, dipendenze.
Il favorire l’attivizzazione diretta delle persone nel contrastare la loro condizione di esclusione è da anni ritenuto fattore indispensabile nella lotta alle povertà. Amartya Sen ha mostrato come i sistemi di welfare, per produrre efficacia, necessitano di autentica negoziazione con i soggetti in termini di risposte ai loro problemi e alle loro aspirazioni. E, appunto, la «capacità di aspirare a» è una componente decisiva di ogni riscatto – secondo Arjun Appadurai.
D’altro canto, è in campo psicologico e psicoanalitico che spesso ci si misura con molte delle condizioni che consentono di rimuovere gli impedimenti alle aspirazioni di riscatto. Anche su questo terreno esistono da anni moltissime commistioni tra pensiero psicanalitico e pratiche sociali. E alcune esperienze d’avanguardia già degli anni ottanta, riprese qui e lì, proponevano un accessibile «spazio» di terapia psicoanalitica a chi non poteva permettersi una psicanalisi pur manifestandone il bisogno. Oggi questo tipo di proposte si stanno moltiplicando. Anche da parte delle società psicoanalitiche. E stanno aumentando i cantieri di terapia cosiddetta «di soglia» – come vengono definiti nel libro Quando la psicanalisi scende dal lettino. Che provano a fornire l’occasione di separare il malessere dalle sue manifestazioni più distruttive, di non accentuare solitudine e abbandono, di non cadere per forza nella rottura dei legami, ecc. E di rimettersi in contatto con le proprie parole e forze interne. Per iniziare a darsi, per come possibile, un orizzonte di speranza.

il Fatto 15.10.10
Giudici, l’antidoto ai veleni
di Gian Carlo Caselli


Di un libro come Giustizia la parola ai magistrati (curato da Livio Pepino ed edito da Laterza pagg. 225, euro 16) c’era proprio un gran bisogno per una boccata d’aria fresca contro i miasmi di certe strumentali polemiche. Viviamo infatti una stagione che vede ogni dibattito sui temi della giustizia fortemente condizionato dall’ossessione del premier di scrollarsi di dosso le inchieste e i processi che lo riguardano. Un’esclusiva del nostro paese, ignota a ogni altra democrazia. Com’è sconosciuto a qualunque cielo del mondo un premier che riesce a cancellare il signor Charles de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (quello diventato famoso per la teorizzazione della necessaria divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario), avanzando la pretesa di sottoporre a una commissione parlamentare d’inchiesta i magistrati istituzionalmente titolari del potere-dovere di accusa, compresi ( se non soprattutto) quelli che tale potere hanno doverosamente esercitato
nei suoi confronti.
QUESTA SITUAZIONE
non rispettosa dell’ordine costituzionale e dell’equilibrio dei vari poteri è indubbiamente favorita dal fatto – rilevato da Pepino nell’introduzione del libro – che “si assiste a un crescente smarrimento di senso delle parole e a un uso marcatamente e impudicamente strumentale delle stesse”. Sicchè “la fonte del potere si sposta dalla conoscenza delle parole alla capacità di manipolarle e al possesso dei mezzi per diffonderle e amplificarle (rendendo vero, con l’ossessiva ripetizione, anche ciò che è macroscopicamente falso)”. Un fatto che è particolarmente evidente quando si tratta di le-
galità e di giustizia, per cui proprio la difficoltà della stagione politica richiede ai magistrati qui ed oggi – di intervenire, esercitando da un lato un diritto personalissimo incontestabile e nel contempo fornendo un contributo professionale utile alla chiarezza e alla realizzazione di una giustizia migliore (contributo, oltre che utile, per certi profili indispensabile, essendo il nostro un paese in cui tutti parlano di giustizia, ma spessissimo – anche in “alto loco” – con toni da bar dello sport).
Per tutti questi motivi, di un libro come La parola ai magistrati c’era proprio – ripeto – un gran bisogno. Ad esso hanno collaborato non solo giudici che con il curatore Livio Pepino hanno in comune l’esperienza di Magistratura democratica, ma anche altri magistrati, spesso assai diversi per idee, sensibilità e cultura. Lo evidenzia l’elenco degli autori, mentre i titoli degli argomenti trattati sono testimonianza di un impegno molto articolato ai cui risultati potrà attingere chiunque voglia discutere di giustizia senza abbeverarsi a luoghi comuni o frasi fatte che – se vanno bene per urlare in qualche comizio – fanno rischiare derive illiberali e disgreganti: perché se la giustizia viene pregiudizialmente e patologicamente sfiduciata anche da pulpiti istituzionali onnipresenti sui media (di solito senza adeguato contraddittorio), alla fine si incrina un elemento che in democrazia, lungi dall’esse-
re un “optional”, è strutturale. Compongono il libro Giustizia La parola ai magistrati i seguenti interventi: Difesa (Paolo Borgna); Errore (Giuseppe Santalucia); Garantismo (Raffaello Magi); Giudici (Matilde Brancaccio); Indipendenza (Rita Sanlorenzo); Giustizia e informazione (Giancarlo De Cataldo); Intercettazioni (Antonio Ingroia); Legittimazione e consenso (Pier Luigi Zanchetta); Libertà personale e custodia cautelare (Andrea Natale); Obbligatorietà dell’azione penale (Armando Spataro); Pena e carcere (Carlo Renoldi); Politicizzazione (Livio Pepino); Prescrizione (Margherita Cassano); Separazione delle carriere (Letizio Magliaro); Tempo (Luigi Marini); Uguaglianza (Carla Ponterio).
NEL COMPLESSO , un’analisi argomentata e approfondita, sempre agganciata a dirette esperienze di lavoro di notevole rilievo nei vari settori volta volta interessati, mai viziata da visioni corporative od “autoreferenziali”, capace anzi di guardare al proprio interno senza intenti meramente “difensivistici” ma razionalmente critici. Una base di conoscenza e riflessione davvero seria. In grado – si spera – di funzionare da antidoto contro le parole malate usate per denigrare i magistrati definendoli cancro da estirpare, disturbati mentali, antropologicamente diversi dal resto della razza umana... O contro le parole false, tipo persecuzione giudiziaria, uso distorto della giustizia per fini golpisti, partito dei giudici, giustizialismo... Parole false perché basate sul nulla (se mai divenisse operativa la minaccia di una commissione d’inchiesta, parlerebbero finalmente gli atti e i documenti contro le bufale propagandistiche), ma buone per frenare i magistrati che ricercano la verità con coraggio e determinazione (requisiti, un altro segno dei tempi, divenuti ormai indispensabili al pari dell’onestà e della preparazione): sia rendendo esilissima la linea di confine fra attacco e intimidazione; sia consolidando sempre più il “teorema” secondo cui giustizia giusta – quando si tratta di imputati che contano – è quella che assolve; mentre quella che osa indagare o addirittura (a volte capita) condannare è giustizia per definizione ingiusta, da bollare con campagne mediatiche feroci.

il Fatto 15.10.10
Karl Marx, un contemporaneo
Due pubblicazioni rivisitano il pensiero del filosofo tedesco Ma davvero
la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella da lui descritta?
di Vladimiro Giacché


Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Germania Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, pp. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero. Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi.
QUESTO utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale. Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata, che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva).
LA PECULIARITÀ del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro – cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”. Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma ...in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
SECONDO questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione” capitalistica. Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”. La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.

Corriere della Sera 15.10.10
Murdoch-De Benedetti, prove di asse anti-Mediaset
Sky punta all’affitto delle frequenze di Espresso per sei canali sul digitale terrestre
di Federico De Rosa


Dopo l’accordo su Cielo, si rafforza l’intesa tra i due rivali del Cavaliere per lo sbarco in forze sulla nuova piattaforma

MILANO — Un primo accordo c’è già stato. Per portare Cielo, la tv in chiaro di Sky, sul digitale terrestre. I contenuti li ha messi Rupert Murdoch, le frequenze Carlo De Benedetti, firmando un’inedita alleanza che molti hanno letto come una mossa anti-Mediaset. Non tanto per il coinvolgimento dell’Ingegnere quanto per «l’invasione di campo» di Sky in un segmento del mercato televisivo in cui il Biscione sta puntando forte. I colloqui non si sarebbero però fermati lì e secondo diversi osservatori presto potrebbero portare a un nuovo accordo tra i due. Ben più ampio del primo.
Murdoch starebbe puntando a prendere in affitto le frequenze che il gruppo Espresso avrà a disposizione via via che le trasmissioni saranno convertite dall’analogico al digitale. Cinque o sei canali, che verrebbero creati attraverso la digitalizzazione delle frequenze attualmente utilizzate da De Benedetti per diffondere Deejay Tv in analogico. Si parla anche di cifre. Secondo alcune voci Murdoch avrebbe offerto 25 milioni di euro l’anno, con un’opzione per acquistare il multiplex una volta che cadranno i vincoli per Sky alla trasmissione in digitale della pay per view. Una fonte vicina al Gruppo Espresso conferma che «ci sono colloqui in corso, ma con tutti quelli che sono interessati ad andare sul digitale». Quindi non solo con Sky. Che da parte sua «smentisce accordi per l’acquisto di multiplex nel digitale terrestre».
Posizioni ufficiali, a cui fanno da contorno però molte voci che parlano di una possibile alleanza più stretta tra lo Squalo australiano e l’Ingegnere, in grado di creare non solo grandi suggestioni ma anche uno scenario inedito per il mercato televisivo. Rendendo più difficile la vita a Mediaset, che in attesa dell’assegnazione delle nuove frequenze sta accumulando terreno sulla nuova piattaforma. Sky al momento ha le mani legate: l’Antitrust le ha vietato di sbarcare nel digitale a pagamento prima del 2012. Ma affitta ndo un c a nal e dal g r uppo Espresso è riuscita ad aggirare l’ostacolo e ottenere il via libera per trasmettere Cielo, in chiaro però, ossia gratis. Ora gli uomini di Murdoch stanno parlando con Dalhia, la tv digitale della famiglia Wallemberg. Insomma il patron di NewsCorp ci crede. E in De Benedetti potrebbe aver trovato l’alleato perfetto per rispondere all’avanzata del Biscione, aspettando la gara per le nuove frequenze prevista per il 2011.
Le malelingue diranno che la comune antipatia per Silvio Berlusconi ha spianato la strada. Ma la verità è che a Murdoch più della politica interessa il business. Anche all’Ingegnere, ma nell’ordine inverso. E poiché per crescere nella nuova tv l’Espresso ha bisogno di investire i due potrebbero aver trovato un buon compromesso. Per mettere in difficoltà il nemico e tentare quello che nessuno è riuscito a fare sull’analogico, ossia il terzo polo.
I tempi di un possibile accordo tuttavia non sarebbero brevi. Intanto De Benedetti non ha ancora a disposizione l’intero multiplex da affittare a Sky. E’ vero che Rete A, controllata dall’Espresso, ne ha due, ma il primo è saturo e l’altro nascerà con lo switch-off che sarà completato entro il 2012. De Benedetti non è mai sembrato particolarmente interessato a fare concorrenza diretta ai broadcaster, ma a valorizzare le sue frequenze sì. E Murdoch potrebbe fare quegli investimenti necessari a migliorare la qualità di banda e ad ampliare la copertura. Soprattutto se l’intenzione, come dicono le voci, è quella di comprare le frequenze. Una possibilità che tuttavia De Benedetti al momento non avrebbe preso in considerazione. Dal gruppo che fa capo all’Ingegnere spiegano infatti che la via maestra è quella dell’affitto, ma che a un’offerta d’acquisto certo non direbbero di no senza averla esaminata. Se così fosse Murdoch e De Benedetti metterebbero solide basi per fare concorrenza a Mediaset, aggiungendo alle frequenze già a disposizione quelle nuove che potrebbero essere assegnate a Sky. La quale potrebbe così replicare, su scala ridotta, ma non di molto, il modello satellitare con bouquet tematici e canali specializzati. Che entrerebbero nelle case di tutti e non più solo in quelle dotate di parabola.


l’Unità 15.10.10
L’università scende in piazza «Avete commissariato il sapere»
Domani con la Fiom. Gli studenti saranno con i metalmeccanici della Cgil a Roma
Da Roma a Bari, da Pavia a Firenze la protesta di studenti, ricercatori e dottorandi. Sott’attacco la coppia Gelmini e Tremonti. Pier Luigi Bersani: «La riforma dell’istruzione umilia gli atenei»


Di un contentino nel milleproroghe non si accontentano. Vogliono che il ministro dell’Istruzione, con tutto il governo, vada a casa, perché «questa riforma Gelminator non l’ha scritta da sola». Hanno facce giovani, magliette con su disegnati mattoni, caschi gialli da cantiere in testa, catene di carta stagnola al collo: simboli del muro dell’ignoranza da abbattere, dell’università-cantiere di sapere, dell’università distrutta dai tagli. Del ministro Tremonti non si fidano neppure quando dice, mentre anche Lega e pezzi del Pdl premono, che «per l’università ci sarà il massimo dei fondi possibili nel decreto di fine anno». Contestano il metodo: «non vogliamo gli avanzi, l’istruzione pubblica deve essere priorità». «Soldi all’università non alle bombe» è uno dei leit motiv di una lunga giornata di contestazione universitaria, con tanto di blocchi del traffico a Roma centro per un corteo non autorizzato e lanci d’uova contro la sede della conferenza dei rettori (Crui) da parte di un manipolo di collettivi. Ieri tremila studenti, ricercatori e dottorandi sono giunti da tutta Italia in piazza Montecitorio a Roma, aderendo al sit-in indetto da Udu e Flc Cgil a cui hanno partecipato anche i Giovani Democratici, per protestare contro la riforma dell’università e chiedere le dimissioni della Gelmini. Non fa niente se il ddl, che ieri doveva andare in Aula, arriverà solo dopo la Finanziaria: lo stop di Tremonti al ddl per assenza di copertura galvanizza la piazza: «È un chiaro segno dell’incapacità di questo governo», dicono gli universitari. «La Gelmini è commissariata da Tremonti, ora va aperto un confronto sui mali dell’università e un percorso fatto di assemblee per scrivere una riforma tutta diversa. Una riforma che prima di tutto tenga fuori i privati dall’università pubblica», dice Giorgio Paterna, coordinatore nazionale dell’Udu. È tra i primi ad arrivare in piazza insieme ai colleghi di Torino, «Sai che in Piemonte l’Edisu rischia di diventare un ente inutile tra un anno?». È l’ente regionale per il diritto allo studio del Piemonte, punta d’eccellenza nel settore, noto per erogare copertura totale delle tasse universitarie agli studenti con Isee fino a 18mila euro; inoltre finanzia case per studenti e mense universitarie che rischiano di chiudere per via di un taglio che riduce i fondi da 22 milioni a 7: la presidente si è già dimessa. Il Politecnico a Torino è occupato come Ingegneria a La Sapienza, la rabbia è tanta nelle facoltà scientifiche. E poi ci sono gli studenti di Pavia e Urbino «disposti a fare sacrifici, ma il governo deve garantire fondi a ciò che è importante sia pubblico: la sanità e l’istruzione»; ci sono i sardi arrivati in aereo e gli aspiranti architetti de La Sapienza, i più fantasiosi. Nel pomeriggio mettono all’asta una ricercatrice: si va a ribasso, dai 500 euro del bando iniziale viene aggiudicata per «un rimborso spese». Speranze nel futuro poche e non si può neppure andare all’estero: a Daniele tre università londinesi hanno bocciato la richiesta di master. La motivazione? La laurea triennale che avrà in mano non gli darà adeguati strumenti tecnici, non attesta la capacità di uso dei programmi di progettazione, a Londra è carta straccia.
A fine giornata si rilanciano assemblee in tutto il paese e i due cortei studenteschi di domani a Roma, dove i ragazzi saranno accanto agli operai della Fiom. Arriveranno da tutta Italia, si dice, e anche ieri la mobilitazione è stata nazionale. A Bari i ricercatori hanno bruciato in piazza i loro curriculum, a Pavia corteo per le vie del centro, a Firenze lezioni di medicina davanti all’ospedale Careggi, a Pisa occupato il Rettorato. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che ieri ha incontrato una delegazione di universitari e ricercatori, non ha dubbi: «La riforma degli atenei viene vissuta come fumo negli occhi dalle forze vive dell’università. Volerla approvare è fuori dal mondo». Poi rilancia la proposta affidata alle colonne del Corriere della Sera e propone al governo la vendita delle frequenze digitali libere per finanziare gli atenei.

giovedì 14 ottobre 2010

Apcom e Virgilio Notizie 7.10.10
Editoria/ Asino d'oro e Stroemfeld pubblicano Fagioli in tedesco
L'edizione per la Germania verrà presentata a marzo 2011 a Lipsia
Milano, 7 ott. (Apcom) - La casa editrice Asino d'oro e l'editore Stroemfeld pubblicano un'edizione in tedesco di "Istinto di morte e conoscenza", opera prima dello psichiatra Massimo Fagioli. La casa editrice romana presente alla "Buchmesse" del libro di Francoforte, presenterà il libro di Fagioli alla fiera di Lipsia, che si terrà il marzo prossimo.
Dal 2009 a oggi l'Asino d'Oro ha pubblicato libri sul tema della bioetica come "Ru 486, non tutte le streghe sono state bruciate" e "La pillola del giorno dopo" di Carlo Flamigni, altri di tema filosofico-psicologico come l'identità umana" di Livia Profeti o "Il ritorno di Lilith" di Joumana Haddad. Entro la fine del 2010 è prevista l'uscita di "Chiesa e Pedofilia", inchiesta del giornalista Federico Tulli. Nel 2011 verranno inaugurate le collane di psichiatria, letteratura,cultura araba e una di saggistica cinese intitolata "Cina".

Adnkronos 7.10.10
Fiera Francoforte: In Germania L’Asino d’oro con “Istinto di morte e conoscenza”: L’opera di Massimo Fagioli esce a Marzo 2011


Francoforte, 7 ott. (Adnkronos) - La casa editrice romana l'Asino d'oro approda alla Fiera del libro di Francoforte con undici titoli pubblicati nell'ultimo anno e mezzo. E annuncia l'uscita in Germania, nei primi mesi del nuovo anno, con lo storico editore Stroemfeld, della traduzione in lingua tedesca di 'Istinto di morte e conoscenza', prima e fondamentale opera di Massimo Fagioli. Il volume verra' presentato nel marzo 2011 alla Fiera di Lipsia. Nel 2011, inoltre, L'Asino d'oro inaugurera' una nuova collana di letteratura ed una nuova collana di psichiatria.
La giovane casa editrice fondata a Roma nel 2009, che deve il suo nome alle 'Metamorfosi' di Apuleio del II secolo d. C., presenta come asse portante i libri di dello psichiatra dell'Analisi Collettiva Massimo Fagioli, ai quali si affiancano nel catalogo un'ampia collana di saggistica (storia, politica, societa'), una collana di poesia letteratura e saggistica cinese, intitolata ''Cina'' ed un'altra dedicata alla cultura araba.
'Istinto di morte e conoscenza', scritto dallo psichiatra romano quaranta anni fa e pubblicato in una nuova edizione italiana da L'Asino d'oro nel 2010, contiene i fondamenti della teoria della nascita, nota ormai a livello internazionale ed espressione di un nuovo movimento culturale, scientifico e umanistico. Oltre ai nuovi libro di Fagioli ('Fantasia di sparizione', 'Left 2006' e 'Left 2007'), dal marzo 2009 ad oggi, L'Asino d'oro ha gia' pubblicato: 'Il ritorno di Lilith' di Joumana Haddad, 'Lombardi e il Fenicottero' di Carlo Patrignani, 'L'identita' umana' di Livia Profeti, 'RU 486, non tutte le streghe sono state bruciate' e 'La pillola del giorno dopo' di Carlo Flamigni e Corrado Melega, 'La rosa e la peonia' di Valentina Pedone, 'Italia a lume di candela' di Marzio Bellacci.

Agi 7.10.10
Buchmesse: L’Asino d’oro, “Istinto di morte e conoscenza in tedesco


Roma, 7 ott. - 'Istinto di morte e conoscenza' l'opera fondamentale dello psichiatra Massimo Fagioli uscira' anche in Germania, quindi in tedesco, per l'editore Stroemfeld: e verra' presentato alla Fiera di Lipsia di marzo 2011. Lo si legge in una nota della casa editrice 'L'Asino d'oro' - undici i titoli pubblicati nell'ultimo anno e mezzo - presente alla Buchmesse di Francoforte e che di recente ha ristampato Istinto in una nuova edizione a 40 anni da quando e' stato scritto. Nel 2010 la casa editrice, fondata nel 2009 da Matteo Fago e Lorenzo Fagioli, prevede una nuova collana di letteratura ed un'altra di psichiatria. "L'asse portante - precisa la nota della casa editrice italiana, che deve il suo nome alle Metamorfosi di Apuleio, romanzo del II secolo d. C., che a sua volta contiene la favola di 'Amore e Psiche' - sono i libri dello psichiatra dell'Analisi Collettiva Massimo Fagioli, ai quali si affiancano nel catalogo un'ampia collana di saggistica (storia, politica, societa'), una collana di poesia letteratura e saggistica cinese, intitolata "Cina" ed un'altra dedicata alla cultura araba. "Istinto di morte e conoscenza", che reca in effige sulla copertina rossa l'immagine di "Amore e Psiche", contiene i fondamenti della teoria della nascita, nota ormai a livello internazionale ed espressione di un nuovo movimento culturale, scientifico e umanistico. Oltre ai nuovi libri del professore Fagioli ("Fantasia di sparizione", "Left 2006" e "Left 2007"), dal marzo 2009 ad oggi, L'Asino d'oro - prosegue la nota - ha gia' pubblicato: "Il ritorno di Lilith" di Joumana Haddad, "Lombardi e il Fenicottero" di Carlo Patrignani, "L'identita' umana" di Livia Profeti, "RU 486, non tutte le streghe sono state bruciate" e "La pillola del giorno dopo" di Carlo Flamigni e Corrado Melega, "La rosa e la peonia" di Valentina Pedone, "Italia a lume di candela" di Marzio Bellacci. Entro la fine del 2010, e' prevista l'uscita di "Chiesa e Pedofilia", sconvolgente saggio- inchiesta del giornalista Federico Tulli e una raccolta delle Storie di Amore e Psiche, sull'origine e diffusione della favola "in ogni parte del mondo", dall'India al Mediterraneo, fino ai mari del Nord, di Annamaria Zesi". In fase di pubblicazione, conclude la nota, "L'Asino d'oro ha una serie di biografie parallele tra figure di letterati, pensatori e artisti vissuti nella stessa epoca (Dante e Cavalcanti, di Noemi Ghetti; Caravaggio e Giordano Bruno, di Annamaria Panzera), la cui vita ed opera hanno avuto sviluppi e fortuna completamente diversi".

Ansa 8.10.10
Buchmesse: Boardwalk Empire e Diario dei compagni di Anna Frank

ROMA, 8 OTT - 'Boardwalk Empire', il romanzo di Nelson Johnson da cui e' tratta la nuova serie prodotta da Martin Scorsese, di cui verra' presentato un pilot il 7 novembre alla Festa del Cinema di Roma. Il diario collettivo dei compagni di classe di Anna Frank sui pochi mesi trascorsi insieme al liceo ebraico di Amsterdam, raccolto dall'olandese Theo Coster, e l'originale esordio dell'americana Erin Morgenstern. Sono alcune delle acquisizioni degli editori italiani alla Fiera del Libro di Francoforte, che si concludera' il 10 ottobre. 'Boardwalk Empire' e' stato acquistato dalla Newton Compton. L'edizione italiana del romanzo sara' in libreria a gennaio 2011, in concomitanza con la messa in onda tv che in Italia sara' a febbraio. Ambientata nella torbida Atlantic City degli anni '20, la serie vede alla sceneggiatura Terence Winter (I Sopranos) e nel cast Michael Pitt e Steve Buscemi. Il primo episodio, costato 20 milioni di dollari e gia' trasmesso negli States, e' stato un successo. Nelson Johnson, che ha lavorato per molto tempo ad Atlantic City come avvocato, racconta la citta' del New Jersey come un calderone proibizionista nel quale politica, criminalita' e fanatismo religioso ribollono e si mescolano. In questa cornice spicca la figura del boss e leader politico repubblicano Enoch ''Nucky'' Thompson (Steve Buscemi), attorno al quale si dipana la vera storia di Atlantic City, che non manca di includere pezzi da novanta del crimine organizzato quali Al Capone e Lucky Luciano. Tra le acquisizioni Rizzoli a Francoforte spicca il diario collettivo dei compagni di classe di Anna Frank sopravvissuti all'Olocausto, raccolto dall'olandese Theo Coster in 'Klasgenoten van Anne Frank'. Il libro restituisce una testimonianza commovente sui pochi mesi trascorsi insieme al liceo ebraico di Amsterdam e raccontano un'Anna inedita, viva, simile a tante ragazzine di oggi. C'e' poi l'esordiente di rango, l'americana Erin Morgenstern, autrice di Night Circus, un romanzo storico-fantastico, ambientato tra fine Ottocento e inizio Novecento, su un circo misterioso, popolato di straordinari personaggi, che appare solo di notte. Al centro della vicenda, l'amore tra la figlia di un famoso illusionista e un ragazzo naturalmente dotato per la magia. In primo piano alla Fiera, non senza polemiche, la nuova frontiera dell'ebook nel cui settore Rizzoli propone alcune novita' pre-natalizie come 'La manomissione delle parole' di Gianrico Carofiglio, 'La pancia degli italiani' di Beppe Severgnini, 'La seduzione dell'altrove' di Dacia Maraini, 'I vinti non dimenticano' di Giampaolo Pansa e 'Solo se avrai coraggio' di Nicholas Evans, subito disponibili anche in formato digitale. De Agostini ha siglato invece un accordo di partnership con la Chicco per la realizzazione di una nuova collana di libri a marchio congiunto, che accompagna il bambino dai 6 mesi fino ai 3 anni, suddivisa in cinque fasce d'eta'. I nuovi prodotti saranno in vendita dalla prossima primavera non solo nelle librerie, ma anche nei negozi Chicco in tutta Italia e saranno lanciati anche sul mercato estero. E', la ''linea cosi' ambiziosa avra' presto anche uno sviluppo nelle applicazioni digitali'' ha annunciato Gian Luca Pulvirenti, amministratore delegato di De Agostini Cultura. De Agostini ha anche siglato alla Fiera di Francoforte cinque contratti con editori esteri per la pubblicazione della nuova saga fantasy di Unika, firmata dal misterioso autore che si cela dietro allo pseudonimo di E. J. Allibis, dal titolo 'La Fiamma della Vita', nei giorni in cui il volume esce nelle librerie italiane e in contemporanea in versione e-book. Scalagroup International, brand internazionale con il quale il Gruppo Scala, leader nell'editoria multimediale e nella distribuzione di immagini d'arte, con base a Firenze, sta sviluppando Apps, e-books ed enhanced books per iPhone, iPad e le altre piattaforme, ha siglato un accordo con Amanagroup, gruppo nipponico specializzato in servizi e soluzioni per la comunicazione e l'immagine visiva, per l'ingresso nel mercato giapponese. L'Asino d'oro edizioni approdata a Francoforte annuncia invece l'uscita in Germania, nei primi mesi del nuovo anno, con lo storico editore Stroemfeld di 'Istinto di morte e conoscenza' dello psichiatra Massimo Fagioli, in lingua tedesca. (ANSA)

l’Unità 14.10.10
È arrivata all’Ansa di Bari Indaga la Digos. È scritta a mano libera, in stampatello, inchiostro blu
L’allarme di Emiliano
Il sindaco di Bari: grave che la lettera sia arrivata proprio qui
Solidarietà da tutto il mondo politico Tace solo Berlusconi. Il Pd: «Intimidazione ignobile»
Lettera minatoria a Bersani «Deve morire, la sua auto esploderà»
Una lettera minatoria recapitata ieri nella sede Ansa di Bari: «Bersani deve morire. La sua macchina esploderà». Allarme del mondo politico, unanime condanna della grave minaccia.
di Maria Zegarelli


Un biglietto infilato in una busta da lettera recapitata dal postino ieri mattina presso la sede dell’Ansa di Bari. Dentro, una frase, scritta in stampatello, «a mano libera», con una banale penna dall’inchiostro blu. «Bersani deve morire. La sua macchina esploderà». Bari e il segretario Pier Luigi Bersani, il giorno dopo l’incontro a Roma con Nichi Vendola, il giorno in cui il segretario incontra a Roma il sindaco Michele Emiliano. Una minaccia di morte, su cui ora indaga la Digos che ha sequestrato la missiva sulla quale si allunga l’ombra di mesi avvelenati da un clima irrespirabile nel Paese e non soltanto per l’inquinamento atmosferico. Il gesto di un folle o un avvertimento di altra natura? Gli inquirenti non sottovalutano, non lo fanno mai, soprattutto ora.
ALFANO PROMETTE
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha espresso «vicinanza e solidarietà» al leader pd e ha condannato «con fermezza questo atto vile e ignobile che, purtroppo, trova spazio nell'attuale clima di violenza. Sono certo che il segretario del Pd non si lascerà condizionare da questo tentativo di intimidazione e che sarà fatta luce sull’episodio individuando al più presto i responsabili». È al clima che tutti pensano, alla tensione sociale e politica che mai è stata così acuta negli ultimi anni. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, si appella a tutte le forze politiche e sociali del Paese che «sono chiamate ad impegnarsi affinché il clima nazionale non sia avvelenato dal ritorno della violenza politica». Tante le attestazioni di solidarietà a Bersani che ieri, dopo aver partecipato ai lavori parlamentari è tornato a casa, dove è rimasto per tutto il pomeriggio. Renato Schifani, presidente del Senato, gli ha telefonato non appena saputo della lettera minatoria, per esprimergli «la sua più profonda solidarietà», così come Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, Pdl, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, la presidente del Lazio, Renata Polverini e il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti.
L’ALLARME
La presidente del Pd, Rosy Bindi, definisce la missiva per un «grave messaggio intimidatorio» e la legge come un «nuovo segnale di un clima di veleni e intimidazioni che sta montando, che ci preoccupa e che richiede una attenta vigilanza democratica». È indignato il primo cittadino di Bari, Emiliano, che si augura « che
Bari non sia stata scelta come luogo della minaccia a causa dalla volontà espressa proprio in questi giorni da Pierluigi di dare valore nazionale all' esperienza di Governo del centro sinistra della Puglia», mentre Francesco Boccia, che sfidò l’attuale sindaco alle primarie, sottolinea come «dietro queste vigliaccate c'è sempre una testa e una regia non banale, certamente folle ma non banale». Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, non nasconde la sua preoccupazione, «per l'ennesimo atto di una serie di violente intimidazioni che da troppi giorni si stanno susseguendo nei confronti di politici di maggioranza e opposizione, sindacalisti e amministratori locali». Che si spezzi «questa ignobile catena», dice l’esponente Pd, «perché intende macchiare in modo preoccupante non soltanto il convivere civile, ma soprattutto il confronto democratico e la libertà d'opinione ed espressione». Abbassare i toni, spegnere le polemiche, dice Nicola Latorre, senatore pugliese del Pd, mentre Vendola, nel definirlo «un atto odioso», sottolinea «l'aria irrespirabile» che si respira da un po’ di tempo a questa parte e «non è cosa buona. Bisogna dire basta».
IL SILENZIO DI B.
Solidarietà da tutto il Pd, da David Sassoli anche a nome dei parlamentari europei, da tutto il mondo politico. Quasi. Infatti, forse a causa della sua convalescenza, Silvio Berlusconi, che l’altro ieri aveva lanciato l’ultimo attacco alla Costituzione (nonché oggetto nei mesi scorsi di analoga lettera minatoria nella stessa sede Ansa) ieri non ha affidato ad alcun messaggio pubblico la solidarietà al leader del maggiore partito di opposizione.

l’Unità 14.10.10
AAA carisma cercasi
di Lidia Ravera


Diceva Scalfari, discutendo delle “metamorfosi” nel corso del Festival dei Corti a Capalbio, domenica scorsa: «Il carisma o ce l’hai o non ce l’hai, puoi scoprire, a un certo punto della vita, di averlo e decidere di farlo pesare sul tavolo della politica, ma non puoi ottenerlo, apprenderlo». Infatti: il carisma è come la bellezza, un dono di natura. La differenza è che la bellezza, ormai, puoi acquisirla correggendo le imperfezioni con la chirurgia, il carisma no, non è a portata di bisturi (quanti ne vedresti, se così non fosse, in attesa davanti alla sala operatoria!). Nella teologia cristiana è una dote soprannaturale concessa da Dio a un fedele per il bene della comunità, fuori dalla teologia è la “forza di persuasione, l’ascendente innato di chi possiede grandi o indiscusse qualità personali”. Da quando il centrodestra traballa e il centrosinistra cerca un leader capace di unificare tutte le sue anime e trarre vantaggio dal tracollo prossimo venturo, si è aperta la caccia al “carisma”. Ci si chiede ininterrottamente chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Si accavallano conversazioni affannose: Bersani è tanto bravo ma non ce l’ha. Vendola forse ce l’ha ma chissà poi che uso ne fa. Luca di Montezemolo ce l’ha? Soldi + presenza + alterigia uguale carisma? Ma no! Semmai soldi + potere + demagogia. Quello è Berlusconi: non possiamo mica candidarlo contro se stesso! Allora Fini: il carisma pare che non ce l’abbia, ma siamo d’accordo su tante cose. Fini? Mai! E se provassimo una donna? Ce n’è un sacco che il carisma ce l’hanno ma non l’hanno mai fatto vedere oppure l’hanno fatto vedere ma nessuno guardava. La Rosibindi, per esempio, così irreprensibile, la Finocchiaro, così autorevole. No. Piuttosto, un prete! Don Gallo? Don Ciotti? Un giovane! Un prete! Una donna! Un industriale! Sai che, secondo
me, Bersani, in fondo...

l’Unità 14.10.10
La proposta di Vetroni
Immigrati a punti: perché dico no
di Rosario Crocetta


La proposta di Veltroni di visti “a punti” per gli immigrati, pur presentandosi come un tentativo moderno per regolare i flussi immigratori, finisce in realtà per proporre il totale blocco delle autorizzazioni agli ingressi nel nostro Paese. Il modello di Veltroni favorisce l’immigrazione di coloro che per età, sesso, stato civile, istruzione, risultino più funzionali alle esigenze produttive del Paese. Naturalmente guadagneranno ulteriori punti coloro che conoscono la nostra lingua, la nostra cultura, il nostro ordinamento, che sono quasi sconosciuti nel pianeta.
Il modello Veltroni è troppo mutuato dalle esperienze anglosassoni per essere credibile e applicabile in Italia. Un modello, fra l’altro, nato per gestire l’immigrazione proveniente dai territori delle ex colonie inglesi. Quali potenziali cittadini del mondo in attesa di visto hanno infatti le caratteristiche proposte da Veltroni per entrare nel nostro Paese? Pochissimi. E quei pochi o sono già stati nel nostro Paese, magari da clandestini, o sono forza lavoro fortemente professionalizzata di cui il nostro Paese non ha bisogno, a causa di una disoccupazione intellettuale diffusa, contrariamente agli altri Paesi industriali occidentali. L’immigrazione, infatti, verso l’Italia è prevalentemente povera e si rivolge alle quote più marginali del mercato del lavoro. Credo che la proposta di Veltroni sugli “immigrati a punti” non abbia utenti anche per il fatto che la lingua italiana non la conosce e non la studia quasi nessuno. Quali immigrati vuole autorizzare Veltroni a venire in Italia? Credo nessuno.
Come parlamentare europeo, poi, membro della commissione europea che si occupa dei problemi dell’immigrazione, esprimo la difficoltà a rappresentare in Europa la linea Veltroni sull’immigrazione, se essa dovesse divenire la linea ufficiale del Pd. Socialisti, democratici e liberali europei, anche inglesi, sono contrari a sistemi interdittivi della libertà di circolazione delle persone. Ciò non significa affatto che non bisogna regolare i flussi immigratori. Solo che quando lo si fa occorre tenere di vista il rapporto di rapina esistente fra paesi ricchi e paesi poveri. Che i paesi ricchi non possono considerare quelli poveri solo come mercati per le loro merci. La politiche europee sui flussi debbono, dunque, tenere conto dei rapporti economici e sociali più complessivi che esistono fra Nord e Sud del mondo. Regolare, dunque, l’immigrazione, ma favorire lo sviluppo dei paesi poveri e le politiche di scambio eguale. Se si perdono di vista le ingiustizie del mondo, si possono fare anche proposte politiche che ricevono cori di consenso che, però, fanno perdere la bussola. E fanno chiedere a uno come me che nella sua vita spesso di bussole ne ha smarrite tante, se per caso, non debba anche perdere l’unica bussola che veramente conta: la difesa degli ultimi, dei poveri e degli emarginati.

Agenzia Radicale 10.10.10
Immigrazione e punteggi: verso l'abisso culturale
di Flore Murard-Yovanovitch


"Avremo gli immigrati (leggere "utili, docili e italianizzati", ndr.) di cui la nostra economia ha bisogno". Parola di Walter Veltroni a Busto Arsizio, durante la presentazione di un documento della minoranza Pd sugli ingressi selettivi nel Paese: lo stesso Veltroni che si "pavoneggiava" nelle baraccopoli d'Africa insieme a bambini con la pancia gonfia, forse senza vederli.
"Piegare" l'essere umano ai bisogni dell'economia, rinchiudere la sua vita in performance e punteggi, echeggiare la pericolosa idea di "selezione" (la tragica "eugenetica sociale") di altri esseri umani, pensavamo fosse un pensiero superato; ora è ufficialmente di sinistra. Oltre a denotare una cecità assoluta e una grave misconoscenza delle migrazioni. Il nostro non è buonismo, ma solo elementare rapporto alla realtà mondiale.
Questa proposta sugli ingressi selettivi è criticabile e indifendibile, perché non tiene in nessun conto che i migranti, oltre che in buona parte rifugiati politici, sono migranti "economici" e "ambientali": fuggono cioè dalle guerre civili, ma anche da desertificazione, povertà, disastri naturali e non.
I migranti in crescita sono solo l'altra faccia di un Occidente predatore, schiavista e neo-colonialista, che oggi ancora schiaccia ogni iniziativa nazionale verso una vera indipendenza da parte degli Stati del Sud, impone ingiuste regole sul commercio mondiale, distrugge a colpi di multinazionali e dumping interi mercati africani, invade di biocarburanti i terreni tradizionalmente coltivati per l'alimentazione, precipita popolazioni rurali verso un esodo massiccio senza nessun cuscinetto sociale: la lista delle "nostre" responsabilità è lunga...
Come diceva il geniale e purtroppo sconosciuto Jaime Semprun, di recente deceduto nel silenzio totale dei media, i flussi di profughi che battono alle nostre porte, sono "il rinculo della distruzione inflitta al pianeta", "ci portano la notizia dello scoppio di una specie di guerra civile mondiale, senza fronti precisi, né terreni di battaglia definiti" (L'abîme se repeuple, EdN, Parigi).
Se non si guarda alle radici della questione migratoria in modo olistico, si rischia di capire poco o niente dei complessi e intrecciati problemi Nord-Sud. Non solo economici ma anche culturali: l'imposizione per decenni del nostro modello di vita come unico referente, con la conseguente colonializzazione mentale di un eldorado eretto a forza di tv show, dritto nei loro sogni.L'Occidente ipocrita si risveglia oggi, con l'idea di frenare il "boomerang"-flussi che essa stessa ha lanciato... Quando l'Europa vorrà, invece di slogan xenofobi, affrontare l'interconnessione dei problemi e delle responsabilità, facendo un salto coraggioso verso un'economia verde (no oil), equosolidale, in decrescita e non distruttiva delle altre economie?
L'unica vera e sostenibile "politica migratoria" parte da un nostro cambiamento di sistema. Invece di delirante e anacronistica fortezza, diventare un mare di fantasia. Una nuova società interumana innovatrice. Senza una "rivoluzione interna europea", ogni presa di posizione verso il contenimento poliziesco del fenomeno migratorio, oltre che essere il sintomo della malattia terminale della sinistra (che sceglie di rincorrere leghisti e fascisti), segna la sua drammatica complicità verso l'abisso culturale di un'Europa senza diversi.

l’Unità 14.10.10
La manifestazione di sabato a Roma
Un’altra Italia è possibile
di Paolo Beni, presidente nazionale dell’Arci


Ci sono tutte le condizioni perché la manifestazione nazionale del 16 ottobre promossa dalla Fiom diventi un grande appuntamento unitario dell’intera opposizione sociale. Le tantissime adesioni non provengono solo dal mondo del lavoro. Associazioni, studenti, movimenti sociali, intellettuali e artisti hanno capito che ̆è davvero un appuntamento cruciale per dare visibilità e forza allo schieramento ampio e plurale che non rinuncia a battersi per il cambiamento.  ̆Nel nostro Paese esiste ormai una vera emergenza sociale che le bugie del governo non riescono più a nascondere. Le disuguaglianze sono cresciute, il valore reale dei salari è diminuito, dilaga l’impoverimento e la precarietà di strati sociali sempre più ampi, con un arretramento generale dei diritti.
Non è questo il Paese disegnato dai nostri costituenti, che alla ̆ base della cittadinanza posero l’uguaglianza. Eppure l’Italia avrebbe risorse sufficienti per resistere alla crisi e uscirne migliorata, impostando su basi più eque, innovative e sostenibili produzione, consumo, diritti individuali e relazioni sociali. La crisi avrebbe potuto rappresentare l’opportunità per una svolta. Invece, di fronte al vuoto di proposte, diventa egemone il modello imposto dalla Fiat a Pomigliano col sostegno del governo: smantellare i diritti in cambio di nuovi investimenti, rifondare le relazioni sindacali sulla subalternità alle scelte dell’impresa, abolire i contratti collettivi per disporre di lavoratori più soli e ricattabili.
È un disegno irresponsabile e pericoloso, che ci riguarda tutti, perché mette in discussione il principio costituzionale del valore sociale del lavoro come base del patto di cittadinanza e della dignità della persona. Alimentare le disuguaglianze e annullare le conquiste sociali fa arretrare la civiltà intera di un paese già impoverito culturalmente, in cui lo spazio di partecipazione e controllo democratico si è ristretto ̆aprendo pericolosi varchi al populismo autoritario. Ad essere minacciati oggi non sono solo i diritti di una categoria di lavoratori, ma quelli di tutti, insieme ai principi fondamentali che stanno alla base della nostra democrazia costituzionale. Come uomini e donne impegnati per il bene comune crediamo di doverci assumere delle responsabilità e vogliamo farci parte attiva nella costruzione di un’ampia alleanza per resistere, anzitutto sul piano culturale e sociale, a questa preoccupante deriva.
Per questo siamo stati il 29 settembre a Bruxelles, in occasione della mobilitazione europea dei sindacati contro i tagli allo stato sociale. Per questo saremo il 16 ottobre a Roma in piazza con la Fiom, per difendere i diritti dentro e fuori i luoghi di lavoro, la legalità democratica e la Costituzione.

l’Unità 14.10.10
Sabato a Roma la manifestazione nazionale per la democrazia, contro la derogabilità del contratto
Epifani: «Se succedesse qualcosa, sarebbe una giornata persa». Landini: «Partecipazione pacifica»
La Fiom chiama in piazza l’Italia del lavoro e dei diritti
Metalmeccanici, e poi precari, studenti, pensionati, politici, intellettuali, associazioni, movimenti: moltissime le adesioni alla manifestazione della Fiom «Sì ai diritti, no ai ricatti. Il lavoro è un bene comune».
di Laura Matteucci


«Sarà una grandissima manifestazione, che vuole essere partecipata, democratica, pacifica, non violenta. Per contrastare le politiche del governo e la pratica degli accordi separati, serve una nuova fase», dice il segretario della Fiom Maurizio Landini. Diritti, democrazia, legalità, lavoro e contratto: sono queste le parole chiave della manifestazione nazionale che i metalmeccanici della Cgil hanno organizzato per sabato prossimo a Roma, con lo slogan «Sì ai diritti, no ai ricatti. Il lavoro è un bene comune». Landini ribadisce ancora una volta «la più netta contrarietà a tutti gli episodi di intolleranza sbagliati e inaccettabili di questi giorni, che contrastano con le regole democratiche del nostro Paese». «L’accettazione e la condivisione di questo punto di vista è il discrimine per partecipare. Chi non si riconosce in questi valori si mette fuori e contro la manifestazione continua Landini Non permettiamo a nessuno di poter oscurare una giornata così importante», aggiungendo che «se c’è qualcuno che ha intenzioni diverse, sappia che non è quella la manifestazione a cui deve partecipare». Parole cui fanno eco quelle del leader Cgil, Guglielmo Epifani: «Se succedesse qualcosa sarebbe una giornata persa per far valere le nostre ragioni». Con un nuovo invito, dopo le ultime uova contro le sedi Cisl e Uil di Terni e Teramo, ad abbassare i toni: «Non si può portare anche solo verbalmente la violenza nelle sedi sindacali perché queste non sono del segretario di turno, ma delle persone e delle generazioni che le compongono. Sono presidi di libertà». Interviene anche il ministro Sacconi: «È nell’interesse di tutti, a partire dagli organizzatori che la manifestazione si svolga tranquillamente», dice chiedendo «un’attenta gestione».
OBIETTIVI COMUNI
Scartata anche l’ipotesi che Epifani venga contestato nel corso del suo intervento conclusivo in piazza San Giovanni: «È una manifestazione della Fiom e della Cgil ricorda Landini contro gli accordi separati, contro la derogabilità del contratto nazionale, il ddl lavoro e il piano triennale del ministro Sacconi, che prevede di cambiare lo statuto dei lavoratori. C’è un obiettivo comune della Fiom e della Cgil per cambiare la situazione». Landini comunque chiede ancora una volta lo sciopero generale: «Dopo il 16 e oltre alla manifestazione già programmata dalla Cgil per il 27 novembre, è necessario mettere in campo anche ulteriori iniziative di mobilitazione», dice.
Sui numeri Landini e Francesca Re David, responsabile dell’organizzazione, sottolineano che «ci saranno livelli di partecipazione superiori ad ogni altra manifestazione fatta a Roma», grazie anche ai sette treni speciali ai 700 pullman in partenza da tutta Italia. Due i cortei, da piazzale Ostiense e da piazza della Repubblica, in partenza nel pomeriggio per confluire in piazza San Giovanni.
Continua Landini: «Vogliamo uscire dalla crisi modificando il modello di sviluppo che l’ha prodotta. Non si può oscurare la scelta di procedere sempre con accordi separati: tutto è cominciato dalla riforma del modello contrattuale, fino alla cancellazione del contratto nazionale». E questo «si realizza impedendo ai lavoratori di contare e decidere continua è un fatto grave, è uno strappo democratico inaccettabile».
Moltissime le adesioni, da parte di singoli, partiti e movimenti dell’opposizione politica e sociale, alla manifestazione che sarà anche ecologica: niente camion e mezzi inquinanti, il palco sarà alimentato da energie alternative. Quanto al Pd, «non aderisce in quanto partito», precisa una nota, ma «saranno presenti dirigenti e militanti».

il Fatto 14.10.10
I democratici possono andare a titolo personale
di Salvatore Cannavò


La manifestazione Fiom del 16 ottobre a Roma sarà più grande delle ultime già organizzate dal sindacato metalmeccanico. Ne è sicuro Maurizio Landini, il segretario, e la responsabile organizzazione, Francesca Re David, che ieri l'hanno presentata. Sarà una manifestazione tranquilla perché, ha detto Landini, “non permetteremo a nessuno di offuscare una giornata così importante”. Un messaggio al segretario della Cgil, Gugliemo Epifani, che farà il discorso conclusivo in piazza San Giovanni che ieri, in un'intervista al Corriere della Sera, paventava di nuovo possibili contestazioni. Che non ci saranno, assicura la Fiom.
LANDINI, QUINDI, sgombra il tavolo dal fumo degli ultimi giorni, dalle polemiche sulla violenza, le uova, le contestazioni che anche ieri hanno occupato la giornata delle dichiarazioni. Una scritta contro la sede Cisl del quartiere Garbatella di Roma – “meglio un uovo oggi che meno diritti domani” firmato da “quelli della R moscia” – ha scatenato l'ennesimo putiferio. La Fiom vuole tenere tutto questo fuori dalla manifestazione che sarà soltanto sindacale “è stata lanciata dopo Pomigliano”, dice la Fiom – e “non intende sostituirsi alla politica”. Sta alla politica, invece, decidere come comportarsi sulle questioni del lavoro, a partire dal Pd che ieri è riuscito a dichiarare ufficialmente di “non aderire in quanto partito” ma che alla manifestazione “dirigenti e militanti del Pd saranno presenti sulla base della piattaforma del partito in materia di lavoro e di riforme. Una piattaforma che ha nel suo punto centrale l'esigenza di favorire l'unità di tutto il mondo del lavoro di fronte ad una crisi economica e sociale senza precedenti”. La politica, quindi, non avrà un peso decisivo. La Fiom va orgogliosa della quantità di adesioni, ci saranno intere categorie della Cgil, come lo Spi (pensionati) o la Flc (lavoratori della conoscenza), gli studenti, i precari della scuola, i comitati per l'acqua pubblica, le associazioni e i movimenti. Dal Popolo Viola alla composita sinistra radicale. “E’ una manifestazione che unisce, che riunifica e che dice che nessuno deve restare solo”, riassume Landini. La Fiom lavorerà a una continuità dopo il 16 proponendo luoghi unitari a livello locale in cui le varie forze possano ritrovarsi insieme. Se non ci saranno contestazioni a Epifani, ci sarà però una divergenza di vedute. La Fiom rilancerà la proposta dello sciopero generale perché le deroghe al contratto metalmeccanico sono un attacco a tutti. E quindi non si accontenterà solo della manifestazione già convocata dalla Cgil per il 27 novembre. Epifani, invece, ancora ieri sul Corriere ribadiva che non intende chiedere lo sciopero e che, anzi, il sindacato si farà portatore di una sua proposta di riforma contrattuale. Insomma: due linee diverse.
PER LA PRIMA VOLTA si tratterà di una manifestazione eco-compatibile: un palco fotovoltaico verrà montato a San Giovanni mentre lungo il corteo non ci saranno motori e generatori a petrolio ma, eventualmente, solo camion ecologici. I treni previsti da tutta Italia sono 7 e i pullman 700, uno sforzo rilevante, costato molto alla Fiom che però, precisa, “ha pagato tutto con fondi propri, senza nessun contributo esterno”.
L'arrivo del corteo a San Giovanni è previsto per le 15,30. Sul palco si alterneranno i delegati sindacali con testimonianze da Pomigliano a Melfi alla Fincantieri. Ma anche gli studenti, i precari della scuola, Libera di don Ciotti e Gino Strada, presidente di Emergency e membro onorario della Fiom. “La sua presenza – spiega Landini – serve a ricordare che restiamo ancora per il ritiro delle truppe dall'Afghanistan e per il rispetto dell'articolo 11 della Costituzione”. La Cgil garantirà la diretta tv sul web. La richiesta della diretta televisiva rivolta a Rai, Sky e La7 finora non ha ricevuto risposta. Ci sarà anche un network di radio e tv web indipendenti.

il Fatto 14.10.10
Cofferati: sto con la Fiom. Il Pd? Spero che capisca
“Ignoriamo i poveri, come se ci vergognassimo. C’è una percezione pigra della realtà sociale”
di Giorgio Meletti


 Onorevole Cofferati, il suo Pd ha finalmente preso posizione: potete andare alla manifestazione della Fiom di sabato prossimo, ma a titolo personale. Lei ci andrà? Sicuramente, sarò in piazza a Roma.
Perché ci va?
Il fatto stesso che lei mi faccia questa domanda vuol dire che con il dibattito politico siamo andati, come dire, molto lontani.
E’ vero, lo stato attuale del dibattito politico ci costringe a domande come questa. Ci vado perché condivido la piattaforma della Fiom, una piattaforma puramente sindacale. E aggiungo: una moderatissima piattaforma sindacale. Una vicenda sindacale che ha assunto un grande significato politico.
Il sindacato deve difendere i diritti dei lavoratori. Poi è chiaro che il tema dei diritti entra per forza di cose nel discorso politico, ma in modo autonomo e legittimo.
Vede minacciati i diritti fondamentali dei lavoratori? Sì. E’ in gioco un diritto individuale come quello di sciopero. E si attacca il contratto nazionale di lavoro. Rendere evanescente il contratto nazionale attraverso il meccanismo delle deroghe è sbagliato. Il contratto nazionale è uno strumento di coesione e serve anche alle imprese.
Perché alle imprese?
Per la semplice ragione che se le deroghe vengono generalizzate non sono più deroghe ma l’azzeramento del contratto. Se invece vengono utilizzate solo da alcune aziende diventano un mezzo di concorrenza sleale. Io penso addirittura che bisognerebbe puntare al contratto unico dell’industria. Oggi, rispetto al passato, le attività manifatturiere tendono a somigliarsi sempre di più.
La Fiom è accusata di essere una minoranza rumorosa che perde i referendum, come alla Piaggio di Pontedera o alla Fiat di Pomigliano d’Arco, e rovescia il tavolo. Accuse fuori luogo. E tutto nasce dalla mancanza della legge sulla rappresentanza sindacale, prevista dalla Costituzione: ne parliamo da anni e non si riesce ad avere. La Fiom perde alla Piaggio e si adegua. Perde a Pomigliano e deve adeguarsi. Però date le le regole sulla rappresentanza. E anche qui, le regole sulla rappresentanza valgano anche per le imprese. Io non ho capito chi rappresenta la piccole e media impresa: la Confindustria, gli artigiani? Ormai tutte le associazioni datoriali parlano a nome della piccola impresa, e non si sa chi rappresenta chi.
Dover sfilare dietro gli striscioni della Fiom per difendere i diritti dei lavoratori non dipende dal fatto che il centro-sinistra non dà rappresentanza a queste istane?
Più che altro c’è un po’ di distrazione. Nessuno si occupa de lavoro. La piattaforma della Fiom dice cose ovvie, non capisco perché non sia condivisa da tutti, almeno nel mio partito.
Forse perché i metalmeccanici della Cgil ormai hanno l’immagine dei parenti sconclusionati che si siedono a tavola senza saper tenere in mano le posate. Senta, io sono stato segretario dei chimici, ai tempi, ed eravamo il contrario dei meccanici, avevamo linee e stili sindacali opposti. Ma era una dialettica normale, che non scandalizzava nessuno. Adesso invece si chiede tutti i giorni alla Cgil di liberarsi della Fiom, come se non facesse parte della sua storia, e anche del suo presente. Richiesta che arriva anche dal Pd?
Richiesta che arriva da vari punti, da vari luoghi. Il Pd sembra distratto anche su altri temi della crisi. Ci sono tante cose su cui dovremmo discutere molto di più: se contiamo i cassintegrati che in realtà non hanno più un posto di lavoro dove tornare, in Italia siamo verso i tre milioni di disoccupati. Gli effetti peggiori della crisi devono ancora arrivare. E con una crescita che se va bene è dell’1 per cento – e vedo gente che festeggia se è l’1,1 – non si crea occupazione aggiuntiva. Questa società non crea lavoro per le nuove generazioni, e intanto molte aziende come la Fiat stanno sul mercato globale pensando solo a tagliare i costi anziché a investire sull’innovazione dei prodotti e dei processi produttivi.
E perché il Pd non si occupa di queste cose? Alterazione della percezione, pigrizia intellettuale, difficoltà a guardare al Paese reale. Si fa addirittura fatica a guardare al dramma della povertà crescente, quasi ci si vergognasse di indugiare in simili occupazioni. Dovremmo recuperare il valore sociale del lavoro, che va creato, remunerato e garantito con diritti e dignità.
Più banalmente, non crede che un iscritto al Pd avrebbe il diritto di sapere se il suo partito sta con la Fiom o con Marchionne?
Sì, ne ha diritto. Il Pd deve dare il proprio giudizio autonomo, senza preoccuparsi di non dare fastidio a questo o a quello. Lei da che parte sta?
E con chi devo stare secondo lei? Quello di Pomigliano è un brutto accordo, limita il diritto di sciopero e intacca il contratto nazionale di lavoro. Ha fatto leva sulla paura di perdere il lavoro. Ma chi lo ha difeso come un’accettabile eccezione adesso si sta accorgendo della
voglia di esportarlo dappertutto. Marchionne è uno che parla chiaro: vuole cambiare l’Italia, e lo ha detto chiaramente.

il Fatto 14.10.10
Ottobrata sindacale
risponde Furio Colombo


Caro Colombo, lo stesso giorno due notizie di oggi che ricordano ieri. Il 9 ottobre il leader sindacale della Cisl ha gridato in piazza ai suoi iscritti “Dieci, cento, mille Pomigliano”. L’ovazione che è seguita è la più strana nella storia sindacale del mondo. Pomigliano vuol dire più ore di lavoro, meno paga, niente diritti. Però il grido è sessantottino. Poco dopo sui muri di Milano scritte minacciose contro Cisl e Uil, i due sindacati “buoni” (come dice il ministro Sacconi) e la stella delle BR. Quasi certamente uno stupido scherzo ma con la stessa intenzione di Bonanni, tornare indietro, tornare al conflitto. Ci crediamo o lasciamo perdere?
Maria Teresa
NON POSSIAMO lasciar perdere perché i due segnali sono allarmanti e per giunta collegati. Il caso Bonnani è il più singolare, la scritta è più pericolosa. Ma vediamo. Bonnani compie un doppio salto mortale non privo di immaginazione . Ripete la frase di tante manifestazioni giovani contro la guerra in Vietnam. Ma inaspettatamente ne rovescia il senso perché mentre la parola “Vietnam”voleva dire rivoluzione, la parola “Pomigliano” sta per sostegno e saluto a regole di lavoro più rigide e a punizioni esemplari contro chi si ribella. Chi si ribella? Il sindacato rivale, la Fiom. Dunque il grido rivoluzionario è il  contrario del contrario. Come quegli atleti che riescono nel prodigio di due salti nell’aria prima di toccare terra, Bonnani allo stesso tempo accetta ( le nuove regole padronali) e si rivolta ( contro l’altro sindacato, la Fiom), segno che lo spazio si restringe e, nel campo sindacale, è diventato necessario lottare per la sopravvivenza, contrapponendo la politica del “meglio poco che niente” all’altra, “se dai una mano ti prendono il braccio”, due disperati tentativi di continuare a esistere. La scritta in apparenza è dello stesso tipo, un richiamo ad un passato tutt’altro che lieto. Quella scritta è finta e volutamente carica di echi minacciosi tanto per attrarre attenzione o è un messaggio di vero pericolo? In questo secondo caso sarebbe la conferma di un’ansia che ha sempre tormentato i grandi sindacalisti del dopo guerra. Rompere l’unità sindacale è una brutta strategia che apre la strada a brutti giochi.

il Fatto 14.10.10
Torna la Busi: “Articolotré sarà uno sportello dei diritti negati”


Torna non a caso con Articolotre Maria Luisa Busi. Torna sul piccolo schermo dopo che, in polemica con il direttore del Tg1 Augusto Minzolini, aveva lasciato il posto di anchorwoman: con un nuovo programma in onda su Raitre dal 15 ottobre, tutti i venerdì in prima in serata. Il nuovo programma che va a sostituire Mi manda Raitre si ispira all’articolo 3 della Costituzione che sancisce l'uguaglianza formale e sostanziale tra tutti i cittadini. “Torno prima di tutto perchè mi piace lavorare e ormai non riuscivo più a farlo, in secondo luogo perchè amo il contatto con la gente e con le piccole storie ‘senza importanza’. Il nostro compito sarà proprio quello di verificare, attraverso le storie vere della gente, se
l’Articolo 3 della nostra costituzione è rispettato”. Articolotre funzionerà come un vero e proprio sportello televisivo a cui chiunque abbia visto i propri diritti calpestati oppure si sia sentito “meno uguale” agli altri potrà segnalare la propria storia telefonando in diretta alla redazione al numero verde 800 550213 o scrivendo a: articolo3@rai.it. Non ha mancato di commentare anche la vicenda Santoro, la Busi: “Considero il provvedimento contro di lui profondamente ingiusto. Da parte sua non c’è stata volgarità: abbiamo visto e assistito a volgarità ben peggiori ma non mi pare che in quei casi siano stati presi alcun tipo di provvedimenti”. Secondo la Busi “Santoro fa con la sua trasmissione servizio pubblico garantendo il contraddittorio: in studio c’è sempre sia un esponente del centrosinistra che del centrodestra inoltre Annozero ha degli ottimi ascolti, sarebbe veramente uno spreco per la Rai privarsene”.

Repubblica 14.10.10
Sindacato. Il passato glorioso, i problemi attuali
Dal trionfo al declino
di Giorgio Ruffolo


Gli inizi sono segnati da lotte impetuose e da repressioni cruente. Poi, con le leggi sociali e lo stato del benessere, diventano una delle grandi istituzioni della democrazia moderna

Nella Roma imperiale i Collegia erano una specie di sindacato nato per proteggere categorie proletarie esposte al rischio di malattie invalidità povertà. Nel Medioevo queste funzioni furono assunte dalle Corporazioni di arti e mestieri. Ma è con la rivoluzione industriale e con i suoi tremendi traumi sociali che sorge, insieme con i partiti politici della sinistra proletaria, il sindacato, parte integrante del movimento operaio, per proteggere la vita la salute e la dignità dei lavoratori.
Ispirandosi al socialismo, ma anche al cristianesimo sociale, il sindacato percorre in poco più di due secoli una triplice grandiosa vicenda storica: l´epoca eroica, quella del potere, quella del declino.
La prima è segnata da lotte impetuose e cruente, nelle condizioni talora terrificanti delle fabbriche e delle miniere descritte in Inghilterra da una Commissione governativa: donne e fanciulli che lavorano da 12 a 15 ore al giorno in condizioni igienicamente spaventose; bacini carboniferi come inferni, la disciplina di una prigione, i bambini picchiati se si addormentano. Le prime leghe operaie sono represse col carcere. I primi scioperi sono stroncati col sangue. Il sindacato nasce nel martirio e cresce con l´ardimento, sfidando la violenza e l´ipocrisia (come quella della pia liberale Henriette Martineau che dichiara: ogni intervento di assistenza pubblica è una violazione dei diritti del popolo).
La seconda è l´epoca del suo trionfo. Attraverso i grandi scioperi, le leggi sociali, lo Stato del benessere il sindacato diventa tra la metà del XIX e la metà del XX secolo una delle grandi istituzioni della democrazia moderna. E anche delle più potenti. Potenza della quale talvolta abusa generando privilegi burocratici e suscitando tensioni inflazionistiche.
La terza è l´epoca del declino, aperta da una controffensiva capitalistica scatenata dalla liberazione dei movimenti internazionali di capitale che rovesciano i rapporti di forza tra le grandi imprese multinazionali e gli Stati nazionali e tra capitale e lavoro.
In Italia, dove l´unità sindacale, raggiunta nel giugno 1944 col Patto di Roma, era stata rotta nell´ottobre 1948 con la scissione della Lcgil (poi Cisl) il sindacato registra le ripercussioni del nuovo corso politico di centro-destra. Si ribadisce la separazione tra Cgil da una parte, Cisl e Uil dall´altra, la prima a intransigente difesa della contrattazione collettiva, le altre alla ricerca di un compromesso tra diritti sociali e pretese capitalistiche motivate dalla pressione della competizione economica. Svanisce la pratica della concertazione tra Governo e sindacati, sostituita da un dialogo che culmina con il Patto per l´Italia del luglio 2002, sottoscritto da Cisl e Uil ma non dalla Cgil, e che segna il massimo di conflittualità tra i sindacati. Una conflittualità poi parzialmente stemperata, sia per senso di responsabilità da parte dei sindacati, sia anche per l´incapacità di un governo più confuso che reazionario, di trarre profitto dal vantaggio acquisito sviluppando una politica delle relazioni industriali degna di questo nome. Conflittualità parzialmente stemperata, dunque, ma sempre latente e pericolosamente riemersa in questi giorni.
Il sindacato, col suo passato glorioso, vive oggi una condizione di ansiosa incertezza in un mondo del lavoro che minaccia di spaccarsi tra precari e protetti, in un mondo economico esposto ai venti della finanza speculativa, in un mondo politico insidiato dall´inconsistenza.

Repubblica 14.10.10
Il divorzio dai partiti
Perché si è allentato il legame con la politica
di Marc Lazar


La svolta storica è avvenuta tra gli anni ´70 e ´80 Le mutazioni del capitalismo, il cambiamento dell´organizzazione del lavoro, l´offensiva liberista hanno drasticamente ridotto il loro potere negoziale

I sindacati proclamano la loro indipendenza, ma hanno sempre intrattenuto rapporti con la politica. Legami forti, organizzativi, organici, umani, univano i sindacati ai grandi partiti socialdemocratici, ad esempio nella Repubblica federale tedesca, nella Svezia o nell´Inghilterra del dopoguerra. Questi stessi sindacati erano gli interlocutori privilegiati dei poteri pubblici per distribuire i frutti – abbondanti – della crescita secondo due modelli principali. In Nordeuropa, la negoziazione e il compromesso erano largamente praticati, senza escludere le azioni collettive. La zona "eurolatina", come nel caso della Francia e dell´Italia, era caratterizzata da una grande frammentazione sindacale e da una forte conflittualità sociale.
Gli anni ´70 e ´80 rappresentano una cesura storica. Le mutazioni del capitalismo, il cambiamento dell´organizzazione del lavoro, le mutazioni delle strutture di produzione, la spinta dell´individualismo, l´offensiva liberista, le nuove forme di gestione delle risorse umane, la rapida accelerazione della globalizzazione e l´unificazione dell´Europa hanno colpito i sindacati. Le iscrizioni sono diminuite, il loro potere si è ridotto, le loro capacità di negoziazione e di mobilitazione si sono assottigliate. Di conseguenza, sono cambiati anche i rapporti con la politica.
I legami tra i partiti socialdemocratici e i sindacati si sono allentati. I partiti, in Svezia, in Germania o in Inghilterra con il New Labour di Tony Blair, hanno voluto emanciparsi dai sindacati per potersi rivolgere agli elettori borghesi di centro. Le loro politiche di austerità e modernizzazione del welfare, la loro volontà di introdurre nuovi temi, ad esempio l´ecologia, il loro tentativo di adattarsi ai comportamenti dell´epoca, più individualistici e consumistici, hanno provocato delle tensioni con i sindacati. Da parte loro, questi ultimi hanno cercato di adattarsi offrendo dei servizi, formulando proposte costruttive, aprendo trattative sia dentro le imprese che con i governi, coordinando le loro azioni a livello europeo e interessandosi ad altri argomenti. Sindacati e partiti ormai sono molto più autonomi. Ma dopo la crisi del 2008 e le ripetute sconfitte della sinistra europea, i secondi, constatando la disaffezione dei ceti popolari, tornano ad avvicinarsi ai primi. Ed Milliband ha vinto la sua battaglia all´interno del Labour grazie ai sindacati.
Questa autonomizzazione e questa maggiore responsabilità dei sindacati sono stati oggetto di contestazione ed è iniziato un processo di radicalizzazione politica. In Germania, una parte della Dgb e il sindacato del settore dei servizi Ver.di sono molto legati alla Linke, mentre in Francia il sindacato Sud, comparso nel 1981, è vicino a tutti i partiti collocati alla sinistra del Partito socialista.
Indeboliti, invecchiati, ripiegati sul settore pubblico, i sindacati continuano ad assolvere a un ruolo di difesa e di protezione sociale e a esercitare un´influenza indiretta sulla politica. Dopo il 2008 hanno ritrovato il sostegno di una parte degli europei, che pure non aderiscono ai loro appelli allo sciopero. È quello che succede attualmente in Francia rispetto alle pensioni, dove Nicolas Sarkozy è deciso a imporre la sua riforma ma sembra aver perso la battaglia dell´opinione pubblica. Con il rischio di pagarne lo scotto alle presidenziali del 2012.
Traduzione di Fabio Galimberti

Repubblica 14.10.10
La difficile difesa del lavoratore globale
di Luciano Gallino


Divise e oggetto di attacchi estremistici le organizzazioni devono fronteggiare mutamenti sociali che mettono in questione il loro ruolo tradizionale
Nuove tecnologie mestieri inediti contratti atipici. La realtà di oggi sembra porre infiniti ostacoli
Quando le loro rappresentanze sono deboli, le condizioni di vita e le retribuzioni di operai e impiegati peggiorano ovunque

Relitto anacronistico della rivoluzione industriale. Superfluo come soggetto contrattuale: i contratti collettivi di lavoro sono superati. Incapace di rappresentare gli interessi dei lavoratori globali. Questo dicono del sindacato manager e politici, e anche non pochi operai e impiegati. A tutto ciò si aggiungono le divisioni interne e gli attacchi contro alcune organizzazioni. Vediamo allora qualche dato.
Nei paesi dell´Europa occidentale, tra il 1981 e il 2007 i sindacati, Pubblica Amministrazione esclusa, hanno perso in media oltre la metà degli iscritti. Nello stesso periodo la quota dei salari sul Pil è scesa in media di dieci punti. In Italia, dove un punto di Pil vale 16 miliardi, è scesa di dodici.
In Usa, grazie alle politiche antisindacali cominciate con la presidenza Reagan, i salari dei lavoratori dipendenti sono oggi al medesimo livello, in termini reali, del 1973.
In Germania, dove almeno sui grandi temi i sindacati procedono in modo unitario, ed hanno per legge un peso effettivo nel governo delle imprese, il salario netto superava nel 2008 i 20.000 euro. In Italia, dove i sindacati marciano disuniti e nel governo delle imprese contano zero, il salario netto era sotto i 15.000 euro.
Grandi imprese della Ue che intrattengono buone relazioni con i sindacati di casa, quando aprono uno stabilimento in Usa mettono in atto pratiche pesantemente antisindacali. Per dire, assumono stabilmente gli esterni che si sono prestati a lavorare al posto dei dipendenti in sciopero. Motivo? La legislazione sulla libertà di associazione sindacale è arretrata in Usa rispetto alla Ue; per di più molti giudici non la applicano.
Questi dati dicono che nei paesi sviluppati quando i sindacati sono deboli le retribuzioni, insieme con altri aspetti delle condizioni di lavoro, virano al ribasso. Ovviamente nei paesi emergenti va peggio. Qui i sindacati non esistono, o hanno scarso potere contrattuale. Risultato: a parità di produttività e di potere d´acquisto, i salari sono da due a cinque volte più bassi, gli orari assai più lunghi, i giorni di riposo e di ferie ridotti al minimo. Sono anche paesi dove chi sostiene il ruolo del sindacato rischia la vita. In Colombia, solo nel 2006 sono stati assassinati 72 sindacalisti. Nelle Filippine le vittime sono state 70 in quattro anni. Ancora nel luglio scorso, due fratelli, dirigenti del sindacato dei tessili, sono stati uccisi in Pakistan. Le colpe di tutti loro? Chiedevano condizioni di lavoro più decenti per i compagni.
Le cose sono un po´ diverse in tema di capacità del sindacato di rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori: quelli che flottano tra una quarantina di contratti atipici, fanno mestieri inesistenti dieci anni fa, o lavorano soltanto con l´immateriale che scorre sullo schermo del Pc. È vero che tale capacità appare carente. Ma non si può imputarla solo al ritardo dei sindacalisti nel comprendere le nuove realtà produttive. Il fatto è che dette realtà sembrano costruite appositamente per ostacolare il sindacato nel rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori.
Si prenda il caso – che qui si semplifica, ma è reale – di un piccolo elettrodomestico venduto nei supermercati. Le 50-60 parti di cui è composto sono fabbricate in una dozzina di siti posti in dieci paesi diversi, e controllati da multinazionali che hanno sede altrove. In ciascun sito gli addetti appartengono a molte nazionalità diverse. L´assemblaggio finale dell´apparecchio può avvenire in uno stabilimento sito in Umbria o in Puglia, per mano di lavoratori italiani, nigeriani, moldavi, magrebini. Essi fanno capo, pur lavorando insieme, a cinque o sei aziende differenti; inoltre tra di essi si contano una dozzina di tipi di contratti di lavoro diversi. La loro produttività dipende da componenti fabbricati a Taiwan o nel Kerala, e dalla puntualità di viaggio di innumeri aerei, navi container, tir e furgoncini, sui quali quei componenti hanno viaggiato per 30.000 chilometri. In presenza di un simile modo di produrre, per il sindacato "rappresentare gli interessi" dei lavoratori non è diventata soltanto una fatica erculea: non si capisce nemmeno che cosa voglia dire. Che è precisamente il risultato che gli architetti della globalizzazione volevano ottenere.
Quanto ai lavoratori della conoscenza, intesi come coloro che producono valore aggiunto trasformando informazioni in conoscenze e queste in altre informazioni mediante apposite tecnologie, si possono suddividere in due gruppi: quelli che di un sindacato non sentono il bisogno, e quelli che ne avrebbero un bisogno estremo, ma di mezzo ci sono, a impedirglielo, le leggi sul lavoro. Di un sindacato non sanno che farsene i traders, i negoziatori di titoli al computer che guadagnano da centomila euro all´anno in su. Non sentono la necessità di un sindacato le decine di migliaia di informatici che han messo in piedi un´efficiente azienda propria, magari individuale; né i data miners che trovano ogni genere di dato su qualsiasi persona e impresa scavando nei meandri della rete. Restano fuori gli operai del Pc, tipo molti addetti ai call center che l´azienda retribuisce in funzione di quanti secondi riescono a trattenere qualcuno al telefono. Questi avrebbero sì bisogno di un potente sindacato da lavoratori dipendenti, quali in realtà sono; ma il legislatore permette cortesemente all´azienda di applicare loro l´etichetta di lavoratori autonomi "a progetto", e la tutela del sindacato si fa più complicata e lontana.

l’Unità 14.10.10
Emendamenti congelati su borse di studio e precari, le università in ginocchio
Oggi la protesta «Assedio a Montecitorio» e appuntamenti in tutta Italia. Prime occupazioni
Tremonti stoppa la riforma Gelmini «Manca la copertura». E il voto slitta
Alta tensione nell maggioranza sul ddl Gelmini. I tecnici del ministero dell’Economia impongono lo stop agli emendamenti perché «manca copertura finanziaria». Finiani e Udc: «così non lo votiamo».
di Gioia Salvatori


«Gli emendamenti inseriti alla Camera alla riforma Gelmini sono tali da “pregiudicare la stabilità” dei conti di finanza pubblica». Lo hanno messo nero su bianco i tecnici del ministero dell’Economia e Finanze scatenando un putiferio all’interno della maggioranza proprio alla vigilia della discussione del ddl Gelmini prevista per oggi alla Camera e passata in cavalleria: il voto dopo la finanziaria e il milleproroghe. La nota è stata inviata alla commissione bilancio della Camera, il messaggio di Tremonti ai parlamentari è chiaro: gli emendamenti inseriti in commissione a Montecitorio per incrementare le borse di studio e stabilizzare novemila ricercatori precari in quattro anni costano troppo, non passeranno. Lo stop manda in confusione la maggioranza ed è braccio di ferro tra il titolare dell’Economia e il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, tra Tremonti e alcuni parlamentari incontrati insieme alla titolare di viale Trastevere in un vertice di maggioranza pomeridiano da cui la Gelmini esce rabbuiata. Lo stesso presidente del consiglio pare non abbia gradito lo stop di Tremonti e ribadito che la riforma che rischia di saltare è «tra le priorità del programma». Intanto i finiani con Fabio Granata fanno sapere che «se non c’è copertura per gli emendamenti la Gelmini deve ritirare il ddl» o loro non lo voteranno, così come l’Udc. Ma il voto della riforma ci sarà dopo il passaggio in Aula della finanziaria e del milleproroghe, quando si capirà se ci sarà copertura per il principale nodo del contendere: la stabilizzazione dei 9mila ricercatori per cui servono 1miliardo e 700milioni. I rettori che si erano schierati col governo dopo le aperture, traditi, vanno su tutte le furie e la Crui «ribadisce con forza l’esigenza di assicurare al più presto i finanziamenti indispensabili consentendo che l’iter legislativo al momento interrotto possa essere effettivamente ripreso e portato a conclusione». Per il Pd, si è scoperto un “bluff”, per la Flc Cgil «un gioco delle tre carte» e Manuela Ghizzoni, deputata, plaude al rinvio: «Darà la possibilità di verificare la certezza delle risorse e consentire a tutte le forze politiche di modificare, anche in profondità i punti più critici di questa riforma troppo centralistica».
La notizia arriva mentre l’università è in mobilitazione con due facoltà occupate a Trieste e alla Sapienza, un corteo ieri a Pisa a cui partecipa anche il neo-rettore. Ieri alla Sapienza si è tenuta un’assemblea studentesca a cui ha partecipato anche il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini. Prove generali di rete tra studenti e operai e restano, nonostante il rinvio del passaggio alla Camera del ddl Gelmini, “l’assedio” a Montecitorio da parte degli studenti e le manifestazioni previste in tanti atenei italiani per oggi.
Il sit in sotto la Camera «si trasformerà in una festa, abbiamo scoperto che il governo è precario quanto noi», hanno scritto a tarda sera gli studenti di Udu, Uds e Link. La mobilitazione oggi non sarà solo a Roma.
Assemblee di ateneo si terranno a Siena, Firenze, Pisa. A Bari manifestazione di studenti e ricercatori in piazza Umberto, a Torino assemblee di facoltà e cortei fino al rettorato. A Milano la compagnia teatrale degli Incauti, giovani attori professionisti della scuola del Piccolo, scenderà dal palco per sostenere la protesta dei precari dell’università, oggi alle 14.30, nella piazza dell’ateneo della Bicocca, a Padova sit-in di studenti e dottorandi davanti al Rettorato; anche a Salerno la protesta sarà sotto le finestre del rettore, mentre a Catania il sit-in sarà in piazza dell’Università.
Intanto Bossi, discutendo del finanziamento della missione Afghana fa sapere che «i soldi è meglio darli alla ricerca che spenderli per le bombe». Chissà se stavolta verrà ascoltato.

il Fatto 14.10.10
Educazione americana
Mentre infiamma la protesta contro la riforma Gelmini, Obama sta varando
un poderoso piano di rinnovamento dell’intero sistema educativo investendo 1,3 miliardi di dollari
di Roberto Faenza


Nonostante sia più conosciuto come regista, insegno da tempo all’università, prima in Usa poi a Pisa e ora alla Sapienza di Roma. Sto anche producendo un documentario sullo stato dell’università italiana, realizzato solo da studenti e giovani laureati, che si annuncia più che mai attuale. Da noi sta divampando la protesta contro la riforma Gelmini, mentre in queste stesse ore Obama sta varando un poderoso piano di rinnovamento dell’intero sistema educativo. Ha capito il presidente americano che l’educazione e la formazione sono il vero motore di un paese. Sua la definizione che rappresentano “la materia prima per l’economia dei nostri tempi”. Da loro dipende il futuro, lo sviluppo, il benessere di un popolo. I guai che incontrerà sul suo cammino la Gelmini derivano non tanto da una proposta riformatrice che non è tutta da buttare, ma dal fatto che non c’è un euro per poterla attuare. E’ una riforma fatta di tagli anziché di prospettive. Obama al contrario ha compreso che senza finanziamenti cospicui non si migliora la scuola e l’università.
Investimenti cospicui
PER QUESTO sta lavorando a un piano che non ha eguali dai tempi di Eisenhower: 1,3 miliardi di dollari per rinnovare un sistema educativo ridotto all’agonia dal menefreghismo dell’amministrazione Bush, interessato a pompare dollari nelle casse del Pentagono, ma non in quelle della scuola. Predecessori della Gelmini, i ministri Berlinguer e De Mauro hanno programmato una riforma universitaria basata essenzialmente sul cosiddetto 3+2, finalizzato ad arginare la morìa studentesca. Questa ci ha relegato agli ultimi posti della graduatoria europea con 7 studenti su 10 incapaci di arrivare alla laurea. Stando ai numeri, non sembra che la riforma attuata dai ministri di sinistra abbia migliorato di molto la situazione. Basti sapere che nonostante i cambiamenti introdotti, circa il 20% degli immatricolati già abbandona al primo anno. Per non parlare dei troppi che si accontentano del diploma triennale (quasi inutile sul piano della spendibilità), ma non arriveranno alla laurea vera e propria (un tempo specialistica, ora diventata “magistrale”). Inutile aggiungere che questo lassismo studentesco incide enormemente sui costi di gestione dell’università e sul suo endemico malfunzionamento. Ciò per dire che non tutti i guai dell’università dipendono dall’insipienza dei nostri politici, visto che il corpo studentesco mette un bel carico di suo. Di recente in USA ho visitato una serie di università, in particolare quelle aderenti alla prestigiosa Ivy League, dalla Columbia a Princeton. Chiedo quante sono le università americane e apprendo che una statistica precisa non c’è perché sbucano ogni anno come i funghi. Basti pensare che due anni fa in California è nata persino una università per imparare a coltivare la marjuana, la Oaksterdam University, messa in piedi da un ex pusher, tal Richard Lee, un tempo spacciatore in quel di San Francisco. Sembra una follia, eppure uno studio del governatore della California ha evidenziato che il bilancio dello stato sarebbe salvo se fosse introdotta la legalizzazione della cannabis. Provvedimento al quale si sta pensando seriamente. Un censimento del 2004 dichiarava 4236 istituti universitari sull’intero territorio. E’ certo che oggi sono molti di più. In ogni stato c’è almeno un’università pubblica che costa poco per i residenti. Mentre può costare molto per i non residenti e soprattutto per gli stranieri. Il costo minimo di una tuition annua per iscriversi a una università di ranking non eccelso è 18.000 dollari. Le università più prestigiose come Yale o Harvard fanno pagare agli studenti tuition non inferiori a 60.000 dollari. Sono però molto generose con gli studenti davvero meritevoli, che accettano gratuitamente, dopo esami di ammissione rigorosissimi. E’ il caso di uno degli interpreti del film che sto girando in America, Gilbert Onwo, che viene dal Kenia e ha conquistato una scolarship presso Yale per imparare recitazione. Quando lo dice tutti lo scrutano ammirati, come si guarda un genio, tanta è l’eccezionalità di poter entrare a Yale senza pagare. Gli studenti meno geniali di Onwo se vogliono iscriversi in una università privata e non hanno i soldi possono ottenere un loan. Si tratta di un prestito delle banche, che poi si portano dietro tutta la vita come un mutuo, finchè non lo restituiscono. Visitando i college mi stupisce il numero di corsi che si occupano di insegnare letteratura, cinema, televisione, teatro. Le università americane fanno gara a formare i talenti di domani.
Mutui e mance
E’ NATURALE in un paese dove l’industria dell’entertainment è dominante. Molto richiesti i corsi di tipo scientifico. Una ragazza che int e r v i s t o a N e w Yo r k v u o l e d i v e n t a r e biologa e sogna di lavorare per la Nasa. Ha appena acceso un mutuo di 20.000 dollari per frequentare un semestre di specializzazione alla NYU. Le chiedo quando crede di poterlo restituire. E’ ottimista: pensa di trovare lavoro entro due, tre anni. E se non riuscisse? E’ pronta a fare la cameriera in un ristorante, l’occupazione preferita da tanti giovani soprattutto stranieri. Nessuna paga, ma solo mance, che qui sono quasi obbligatorie (20% circa del conto). Consentono a molti di mantenersi agli studi, specie quando i genitori non possono o non vogliono farlo. Con le mance possono arrivare sino a 8.000 dollari al mese esentasse, che è parecchio. Ma se a quest somme aggiungi le rette universitarie e il costo della vita, resta ben poco. Del sistema americano molti sono gli aspetti criticabili e Obama ne è consapevole. Quello che si può apprezzare è che gli studi lì sono una cosa dannatamente seria, inadatti per chi non ha voglia di sgobbare, proprio perché così costosi. Ecco perché gli studenti americani sono più motivati e agguerriti dei nostri: sanno che studiare è un sacrificio estremamente oneroso. Se salti un giro vai fuori. So di dire una cosa impopolare, ma sono convinto che in Italia si dovrebbe introdurre qualcosa di simile per i fuori corso. La mia proposta è che se uno studente va fuori corso per pigrizia o perché non gli interessa studiare, gli anni aggiunti per completare gli studi dovrebbero essere a pagamento. Più tempo impieghi, più paghi. Non vedo perché la comunità intera debba pagare di tasca propria l’inedia degli asini. Basta questo dato appena sfornato dall’ISTAT relativo all’anno accademico 2007-2008: il 62,8% degli studenti giunge alla laurea oltre i termini previsti. Cara Gelmini, urge scovare in Italia qualcuno che la pensi come Obama.

il Fatto 14.10.10
Servizi
“Segreto di Stato fabbrica d’impunità”
Abu Omar, Telecom, Magdi Allam: come si ostacolano le indagini
Il Tribunale non ha potuto processare i 5 del Sismi: due governi hanno opposto la riservatezza
di Armando Spataro Procuratore aggiunto della Repubblica a Milano


Accade spesso in Italia, nei momenti di tensione politica o di “scontro” tra esecutivo e potere giudiziario, che l’attenzione si concentri sul ruolo dei nostri Servizi di informazione. C’è chi li ritiene sospettabili di attività illegali “a prescindere” da ogni prova, c’è chi invoca sempre e comunque una speciale immunità per loro sulla base di discutibili segreti di Stato e c’è pure chi ritualmente chiede che il Copasir eserciti i poteri di controllo conferitigli dalla legge. Da ultimo, ciò è avvenuto in relazione alle notizie acquisite all’estero sull’ormai nota casa di Montecarlo affittata al “cognato” del Presidente Fini e alla “sorveglianza” cui sarebbe stato sottoposto l’on. Bocchino. Può essere utile chiarire quali sono i Servizi, le loro competenze, i contenuti del segreto di Stato, come dovrebbe operare il Copasir e perché non funziona. La materia è regolata dalla legge di riforma n. 124 approvata a larghissima maggioranza nell’agosto 2007, in pieno caso Abu Omar, l’egiziano sequestrato a Milano nel febbraio 2003, illegalmente trasferito in Egitto e lì torturato per ottenere informazioni. Il Tribunale di Milano ha condannato 23 americani, ma ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di 5 italiani appartenenti al Sismi per il segreto di Stato apposto dai governi Prodi e Berlusconi. E’ in corso il processo d’appello che riguarda anche due ex appartenenti al Sismi condannati a 3 anni per favoreggiamento personale. La legge del 2007 (che ha cancellato la precedente vecchia di 30 anni), come ogni buona riforma italiana, ha modificato anzitutto le denominazioni dei due Servizi “segreti”: il Sismi (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare) ed il Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica) oggi si chiamano rispettivamente Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) e Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna). Il primo dipende dal ministro della Difesa, il secondo dall’Interno.
NEI SETTORI di rispettiva competenza, la ricerca ed elaborazione di tutte le informazioni utili è affidata all’Aise in vista della difesa dell’indipendenza, integrità e sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero e all’Aisi per difendere la sicurezza interna della Repubblica e le istituzioni democratiche...da ogni minaccia, attività eversiva e aggressione criminale o terroristica. Oltre ad altre funzioni, ad entrambi i servizi è poi affidato il compito di individuare e contrastare le attività di spionaggio contro l’Italia e gli interessi nazionali; ma, mentre l’Aise opera al di fuori del territorio nazionale, l’Aisi lo fa all’interno di esso. La legge prevede poi modalità di controllo politico sull’attività dei servizi affidato al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir),equivalente del vecchio Copaco. Ma qual è la materia che può essere coperta dal segreto di Stato? La legge 124/07 lo dice chiaramente all’art. 39: “Sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali; alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato”. Definizione che appare in linea coi principi fondanti di ogni democrazia, cui non è certo estranea la necessità di tutelare la sicurezza dello Stato.
Eppure l’utilizzo del segreto di Stato negli ultimi decenni – non solo in Italia – è stato spesso causa di tensione tra l’esecutivo, chiamato a tutelare l’integrità e ’indipendenza dello Stato, e il potere giudiziario, garante delle esigenze di giustizia. Ma, come si vedrà, il problema non è la definizione legislativa del segreto di Stato, ma la sua applicazione e finanche la sua dilatazione amministrativa con atti privi di forza di legge. Basti ricordare che il Presidente Prodi emanò nell’aprile 2008 un Dpr che prevede la possibile estensione del segreto alla “tutela di interessi economici, fin ri, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari e ambientali”, sebbene ciò fosse stato escluso nel dibattito parlamentare dal testo della legge poi approvata: ciò che era uscito dalla porta rientrò dalla finestra. Ecco allora la necessità di seri controlli sull’apposizione del segreto di Stato che spetta al Presidente del Consiglio per assicurare un punto di equilibrio tra interessi parimenti essenziali: la sicurezza dello Stato e la tutela giurisdizionale dei diritti. I controlli istituzionali sul segreto di Stato possono definirsi di due tipi: quello giudiziario-costituzionale e quello politico. Il primo riguarda la risoluzione dei contrasti tra Magistratura ed Esecutivo: se l’Autorità Giudiziaria ritiene che il segreto di Stato sia stato apposto dal Presidente del Consiglio fuori dai casi previsti dalla legge (ad esempio, è vietato apporlo su notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale nonché su altre materie) o al di fuori delle procedure previste o che esso non sussista sulle notizie e sugli atti che si intendono utilizzare, ricorre alla Corte Costituzionale sollevando conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Altrettanto può fare il Presidente del Consiglio quando ritenga che l’A.G. abbia violato le sue prerogative utilizzando notizie coperte dal segreto. La Corte Costituzionale, cui non può essere opposto il segreto, ne deciderà il fondamento o i limiti, risolvendo i conflitti e dando indicazioni all’A.G. per il prosieguo delle attività di competenza.
Il secondo tipo di controllo è quello politico e spetta al Parlamento attraverso il Copasir, presieduto per prassi da un membro dell’opposizione politica. E’ composto da 5 deputati e 5 senatori, nominati dai Presidenti dei due rami del Parlamento in proporzione al numero dei componenti dei gruppi parlamentari, garantendo comunque la rappresentanza paritaria di maggioranza e opposizioni.
E’ PREVISTO che i provvedimenti di conferma dell’opposizione del segreto di Stato all’Autorità Giudiziaria siano trasmessi dal Presidente del Consiglio al Copasir che valuterà le ragioni dell’opposizione e investirà il Parlamento ove la ritenga infondata. Il Parlamento potrà a sua volta valutare la responsabilità politica del Presidente del Consiglio, fino alla crisi di fiducia nei suoi confronti; ma in nessun caso la sua decisione originaria potrà essere revocata o modificata dal Comitato e neppure dallo stesso Parlamento, restando così impregiudicato il segreto .
Ma perchè l’attività di controllo del Copasir (e prima del CopaCo) sull’apposizione del segreto di Stato ha sin qui deluso le aspettative di molti commentatori? E’ utile ricordare qualche fatto recente. Ad esempio, a oltre quattro anni di distanza dall’opposizione del segreto di Stato nel caso Abu Omar da parte del Presidente Prodi, il Copasir presieduto dagli on. Rutelli (prima) e D’Alema (dopo) non ha ancora espresso le dovute valutazioni (al pari del precedente Copaco, all’epoca presieduto dall’on. Scajola), nonostante il clamore suscitato dalla vicenda a livello internazionale e l’invito rivolto al Governo italiano da Parlamento europeo e Consiglio d’Europa a rimuovere quel segreto apposto in un palese caso di violazione dei diritti umani. Forse quella vicenda non è stata ritenuta di grande interesse o di particolare urgenza, diversamente del caso (giugno 2009) delle fotografie di personalità di vario genere immortalate durante la loro permanenza a Villa Certosa, proprietà di Silvio Berlusconi. In questo caso il Copasir ha agito con immediatezza e zelo, sentendo a palazzo San Macuto, in rapida successione, i vertici dell’Aisi e dell’Aise e il sottosegretario Gianni Letta, anche per verificare l’ipotesi del possibile coinvolgimento nella vicenda di servizi deviati, italiani o stranieri. Sempre a proposito del caso Abu Omar, va sottolineato che il Copasir è stato presieduto negli ultimi due anni e mezzo, in successione, da due parlamentari – gli on. Rutelli e D’Alema che, entrambi da vicepremier del governo Prodi, avevano approvato la decisionedisollevareconflittodi attribuzione contro la Procura e il Gip di Milano per supposte violazioni del segreto di Stato. Una scelta che entrambi avevano pubblicamente condiviso, sicchè appare anomalo che potessero poi partecipare, in funzione di garanti delle prerogative politiche del Parlamento (così si può definire il ruolo di Presidente del Copasir), alla valutazione della correttezza dell’apposizione di quel segreto. Se ne sono meravigliati anche molti membri della Commissione Diritti Umani e Affari Legali del Consiglio d’Europa quando il 17 settembre, in un meeting a Tbilisi (Georgia), hanno appreso la circostanza esprimendo la convinzione che il controllo politico per evitare l’abuso del segreto di Stato deve ’essere affidato a una commissione sganciata dall’esecutivo. Per inciso, a quell’importante meeting era presente un solo componente italiano della Commissione, l’on. Renato Farina, mentre erano assenti sia il membro titolare che quello supplente del Pd.
MA ANCHE altri episodi suscitano le critiche degli accademici e degli osservatori più attenti. Sono forti le preoccupazioni circa la possibile estensione a macchia d’olio del segreto di Stato, già verificatasi in casi di reati comuni. Ci si vuol riferire al processo pendente a Perugia, a carico di due ex funzionari del Sismi, accusati di peculato all’esito di una perquisizione effettuata nel 2006 in una base romana del servizio; a quello pendente a Milano (“processo Telecom”) a carico di varie persone per associazione per delinquere, corruzione ed altro; e perfino al processo pendente a Milano a carico di Magdi Cristiano Allam, accusato di diffamazione nei confronti dell’imam di una moschea di Fermo. In questi casi, gli imputati e un testimone hanno opposto il segreto di Stato in sede di esame. Il Presidente del Consiglio, interpellato dal giudice, l’ha confermata e come la legge prevede deve averne sicuramente informato il comitato di controllo. Ma non risulta che il minazioni che gli competono . Si può affermare, in definitiva, che il problema dell’effettività del controllo parlamentare sulle questioni coinvolgenti il segreto di Stato non è in Italia un problema di qualità della legge, ma solo di prassi e volontà politica. Proprio per tale ragione, però, l’uso del segreto di Stato rischia di essere percepito dai cittadini non come strumento di tutela della sicurezza della nazione, ma come mezzo che oggettivamente finisce con l’ostacolare la giustizia e distribuire impunità. Le preoccupazioni aumentano ove si consideri la relazione presentata nella scorsa estate dalla Commissione Granata nominata nel 2008 dal Governo Berlusconi per studiare una nuova disciplina del segreto di Stato. La Commissione intanto s’è detta convinta che la legge 2007 permetta già ora al Presidente del Consiglio di autorizzare i Servizi a effettuare intercettazioni preventive “sotto l’usbergo delle garanzie funzionali”, malgrado l’art.15 della Costituzione preveda che la limitazione di ogni forma di comunicazione “può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Ma la relazione contiene anche un’interpretazione restrittiva di divieti di apporre il segreto di Stato su certe materie e proposte tali da favorirne ulteriori dilatazioni fino a coprire tutti gli accordi tra i servizi di informazione dei vari Stati, a prevedere che il segreto di Stato vincoli non solo, come ora dice la legge, pubblici ufficiali, pubblici impiegati e incaricati di pubblico servizio, ma “chiunque ne sia venuto a conoscenza”, e a estendere oltremisura la durata del segreto . Silenzio della Commissione, invece, su altre possibili modifiche legislative di cui si sente la necessità: come la previsione del divieto di un’apposizione tardiva del segreto di Stato (dopo, cioè, l’avvenuta pubblicità delle notizie che si intendano preservare), l’obbligo per il Copasir di riferire entro un termine breve alle Camere ove ritenga infondata l’opposizione del segreto e, per rendere effettivo il controllo politico, la “separazione” del Copasir dall’Esecutivo, vietando che ne possano far parte membri dei precedenti governi, integrandone la composizione con esperti nominati dal Capo dello Stato o affidandone la presidenza a personalità super partes. Diversamente, il Copasir continuerà a essere tirato in ballo non tanto per esigenze di sicurezza dello Stato, quanto come supposto arbitro di scontri politici ed espressione delle logiche di governo: di qui, in particolare, sembra trarre origine la richiesta del Pdl di sostituire come membro del Comitato l’on. Briguglio, come se la legge, anziché prevedere eguale rappresentanza a maggioranza e opposizione, prevedesse una presenza di politici

l’Unità 14.10.10
Il senso della tv per gli omicidi: sono meno ma se ne parla di più
Da vent’anni nel nostro paese gli assassinî sono in linea con la media europea. Eppure lo spazio dedicato dal Tg1 è due-tre volte quello di Spagna, Francia e Germania. Un vizio nostrano o una distorsione voluta?
di Vittorio Emiliani


Non c’è ora che dal nostro video non esca un rivolo o un fiotto di sangue, specie se ci sintonizziamo sul Tg1 e sul Tg5 o su Studio Aperto. Così si coprono meglio scandali e “cricche”. Si devia su altro l’attenzione. Su Repubblica uno specialista come Ilvo Diamanti ha parlato di “passione mediatica” tutta italiana per il crimine. Ma, a cominciare dagli omicidi volontari, le cose stanno davvero come ce le racconta il video insanguinato o sono le nostre tv a fornire una immagine fortemente distorta del Paese?
Nella realtà “reale”, e non in quella fatta “percepire” dalle tv in modo spesso strumentale, le cose stanno così: gli omicidi volontari risultano drasticamente calati, al di là del colore dei governi, il tasso ogni 100.000 abitanti si è più che dimezzato scendendo da 2,7 omicidi del 1990 all’1-1,1 di oggi. In cifra assoluta da oltre 1.200 omicidi ai 600 circa di oggi. Calo particolarmente vistoso nel Sud, nelle regioni dove ha più ramificazioni la malavita organizzata. Nei primi anni ’90 circa la metà dei delitti veniva attribuita a mafia-camorra-n’drangheta-sacra corona unita. Nel 2007 neppure il 20 per cento degli omicidi commessi era catalogato “di tipo mafioso”. Certo, nel Sud si concentra tuttora poco meno del 59 per cento degli ammazzamenti, contro il 12,5 del Centro e il 29,5 del Nord. E tuttavia la curva delle esecuzioni malavitose è precipitata, soprattutto in Sicilia (da 5,1 omicidi ogni 100.000 abitanti del 1990 agli attuali 1,3). I vertici mafiosi hanno subìto nell’ultimo ventennio colpi durissimi, ma nel contempo l’organizzazione criminosa si è dedicata assai più al business che non al mitra, conquistando sempre più “colletti bianchi” alla propria rete. In parte ciò è avvenuto anche in Campania e nella stessa Calabria dove però la malavita spara e uccide ancora molto. La Calabria presenta l’indice più elevato d’Italia, il triplo della media nazionale riferita agli abitanti.
Ma andiamo a qualche raffronto europeo: è più alto il tasso di omicidi volontari in Italia rispetto ad altri Paesi del vecchio continente? No, non lo è. Malgrado le profonde radici della nostra malavita, siamo nella media europea: presentano lo stesso indice di 1-1,1 omicidi ogni 100.000 abitanti Spagna, Irlanda, Grecia, Svezia, appena qualche frazione in meno Germania, Francia, Regno Unito e invece qualche frazione in più Belgio, Portogallo, Paesi Bassi, Finlandia soprattutto. Per non parlare degli Stati Uniti dove la media sale moltissimo.
Questo il quadro reale. Ma i tg degli altri Paesi europei come si comportano? Proiettano ogni giorno lo stesso panorama di delitti, oggi più privati (contro le donne, soprattutto) che mafiosi o criminali? No. Secondo lo studio citato di Ilvo Diamanti, nel primo semestre dell’anno in corso le televisioni pubbliche europee hanno tenuto questa linea: la tedesca Ard ha dedicato a fatti criminali l’1,8 per cento del proprio spazio, France 2 il 4 per cento, la Tve spagnola il 4,2, l‘inglese Bbc il 7,7 e RaiUno, invece, un picco del 10,8 per cento. Se poi si inserissero nella graduatoria Canale 5 e Italia 1, si volerebbe ben oltre quest’ultima vetta. Oltre tutto, da noi, vi sono regioni nelle quali il tasso omicida risulta bassissimo, il Trentino-Alto Adige, il Molise, l’Abruzzo, l’Umbria. Ma il delitto di Cogne (quante puntate da Bruno Vespa?) ha fatto pensare a chissà quale fioritura di infanticidi nella Vallée, o l’omicidio di Meredith ha proiettato e proietta Perugia e l’Umbria in un paesaggio fosco, lo stesso fa con Pavia e provincia il caso irrisolto di Garlasco.
Fra l’altro il Censis ci ripete che agli italiani il problema della sicurezza interessa assai meno dell’occupazione e di altri assilli più reali. Perché allora questo comportamento da parte dei media? Per pigrizia culturale: è più facile – e forse meno imbarazzante, viste certe collusioni insistere sul vecchio cliché dei morti ammazzati di lupara che non andare a scavare con inchieste serie sulle nuove mafie “pulite”, sul business internazionale. Per un malinteso sensazionalismo, lo stesso per il quale un caso di malasanità, se enfatizzato, riverbera sull’sanità pubblica (che ha tanti pregi e meriti, specie al Centro Nord) una luce sinistra, molto gradita ai signori delle cliniche private. Per una precisa volontà di distorcere i dati reali: se c’è un governo di centrosinistra, tutto serve per appannarne l’immagine. Se c’è un governo di centrodestra, l’insicurezza (contro l’immigrato/delinquente “naturale”) serve per attaccare le garanzie, la magistratura, i diritti, ecc. Magari per introdurre le “ronde”, o per armare i tassisti. E comunque si depista, si svia, si evita di parlare di lavoro, di sanità, di scuola, di urbanistica, di cultura e ricerca fatte a pezzi. Vi pare poco?

il Fatto 14.10.10
Germania. Uno su dieci vuole un Fuhrer

Oltre il 10% dei tedeschi sogna di avere un nuovo “fuhrer”, che sappia guidare la Germania con il “pugno duro”: è il risultato di un sondaggio della fondazione Friedrich-Ebert vicina agli ambienti della Spd che dimostra come la crescente deriva di estrema destra nel Paese stia condizionando le opinioni di milioni di cittadini. All’origine di questa ondata di razzismo, secondo gli autori dello studio, c'è la crisi finanziaria ed economica, che ha messo in difficoltà il mercato del lavoro.

l’Unità 14.10.10
Bellocchio racconta Vincere

Per la serie di incontri «Racconti di cinema» organizzati dall’Associazione 100autori, oggi è la volta di Marco Bellocchio e del «making off» del suo film, Vincere. A raccontarne genesi e lavorazione saranno la montatrice Francesca Calvelli, il produttore Mario Gianani e lo stesso regista. L’incontro si tiene alla Casa del cinema di Roma alle 16.

Corriere della Sera 14.10.10
In questura i familiari delle vittime
Convocati dallo Stato: perdonate i brigatisti?
Il no di Sabina Rossa: metodo sbagliato
di Giovanni Bianconi


Lo Stato bussa a casa dei parenti delle vittime delle Brigate rosse per chiedere se hanno intenzione di perdonare i killer che uccisero i loro cari. Motivo? La richiesta di liberazione condizionale di un ex dirigente di quella banda armata, Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Moro. ROMA — La convocazione è stata recapitata agli interessati a mezzo posta, come fosse l’invito a ritirare una multa o qualche altro atto giudiziario. Ma non c’erano infrazioni da contestare, né i destinatari avevano cause pendenti. Solo il destino di aver avuto un parente ammazzato, trent’anni fa o giù di lì. E adesso lo Stato bussa a casa loro per chiedere se hanno intenzione di perdonare uno degli assassini del proprio congiunto.
Come fosse una banale adempienza burocratica, mogli, figli e figlie di vittime delle Brigate rosse vengono chiamati in comissariato per rispondere a un quesito talmente intimo e complesso da suonare stonato. Tanto più se a porlo è un imbarazzato ispettore di polizia, su ordine di un magistrato. Il quale a sua volta dovrà decidere — anche in base alle risposte, evidentemente — se liberare o meno l’assassino.
È successo nei giorni scorsi, in diverse città d’Italia visto che le Br uccidevano un po’ ovunque. Il motivo è la richiesta di liberazione condizionale da parte di un ex dirigente di quella banda armata, Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Aldo Moro. Arrestato nel 1979, è stato condannato a diversi ergastoli, da alcuni anni è in detenzione domicidal codice, come l’eventuale sfavorevole impressione dei loro provvedimenti sull’opinione pubblica. Trovo insopportabile e profondamente ingiusto essere convocati a mezzo di avviso postale per essere sottoposti, senza alcuna informazione, a una generica e distratta domanda se si intenda perdonare questo o quel condannato». La figlia dell’operaio assassinato dalle Br difende la liberazione condizionale per gli ergastolani, perché «ha reso meno crudele l’esecuzione di una pena perpetua, e soprattutto non in contrasto con il principio rieducativo liare nella sua casa di Reggio Emilia, poiché il suo stato di salute è incompatibile con il carcere. Ha il permesso di andare a lavorare per qualche ora al giorno. Ora ha maturato i termini per chiedere la liberazione condizionale, prevista anche per i condannati a vita dopo 26 anni di reclusione. Gallinari ne ha scontati più di trenta e ha presentato al tribunale di sorveglianza di Bologna la domanda di tornare libero, come hanno già chiesto e ottenuto molti suoi compagni d’armi degli anni Settanta.
Prima di decidere il magistrato ha voluto interpellare i familiari delle vittime, per sapere se vogliono perdonare l’ex terrorista. Si tratta di decine di persone, giacché il carceriere di Moro è stato condannato non solo per gli omicidi materialmente commessi, ma anche per tutti quelli firmati dalle Br mentre lui faceva parte del comitato esecutivo o di altri organismi decisionali del gruppo, fra il 1977 e il 1979. A Genova, ad esempio, l’hanno giudicato colpevole delle uccisioni e dei ferimenti avvenuti in quel periodo. Compresa la morte dell’operaio e sindacalista comunista Guido Rossa, assassinato il 24 gennaio 1979 dopo aver denunciato un impiegato dell’Italsider sospettato di aver diffuso volantini brigatisti.
Per questo alla vedova ultraottantenne di Rossa, la signora Maria Silvia, è arrivata la convocazione in questura, per essere ascoltata in qualità di «parte lesa». Al suo posto è andata sua figlia Sabina, da due legislature parlamentare del Partito democratico. E ha riempito il «verbale di sommarie informazioni in relazione alla circostanza se intenda concedere il perdono a Gallinari Prospero». Un atto di poche righe, nel quale Sabina Rossa ha dettato: «Non intendo fornire dichiarazioni in merito, in quanto la richiesta in oggetto non è riferibile ad un preciso articolo del codice di procedura penale. Inoltre contesto nel metodo e nel merito la richiesta contenuta negli atti».
È un modo per respingere una procedura che al tribunale di Bologna definiscono «prassi» pur in assenza di specifici appigli nel codice. Dove, all’articolo 176, è prescritto solo che «il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento». A parte il coinvolgimento dei parenti delle vittime in una decisione che spetta al giudice, caricando su di loro l’onere di determinare il destino di chi trent’anni prima ha sparato a un familiare o ha contribuito a deciderne la morte, resta da capire che cosa farà il magistrato delle risposte. Sceglierà a seconda della prevalenza dei «sì» o dei più probabili «no»?
«Il perdono della persona offesa non è richiesto dalla legge — dice Sabina Rossa —. Credo che i magistrati debbano assumersi le loro responsabilità fino in fondo, senza tenere conto di elementi non previsti contenuto nella Costituzione», ma considera una distorsione ancorarla al giudizio dei parenti delle vittime. Due anni fa ha presentato un disegno di legge per vincolarla non più al difficilmente valutabile «ravvedimento» (per questo ci si rivolge ai familiari delle persone colpite, o si richiede ai condannati di stabilire un contatto con loro, anche solo epistolare) bensì a «un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il percorso rieducativo di cui all’articolo 27 comma della Costituzione».

Corriere della Sera 14.10.10
Abusi su minori, sentenza record
di Alberto Berticelli Luigi Ferrarella


Cuoco condannato a 17 anni: 267 video sugli incontri in Thailandia

MILANO — Diciassette anni, nove mesi e sei giorni di carcere, più 206.000 euro di multa: la più alta condanna in Italia mai inflitta a un pedofilo italiano per turismo sessuale all’estero, peraltro a una pena che senza la riduzione automatica di un terzo per il rito abbreviato sarebbe arrivata addirittura a 26 anni, sanziona un cuoco di 50 anni autoritrattosi in 267 filmati dei propri incontri sessuali in Thailandia con bambini di meno di 14 anni o con ragazzi tra i 14 e i 16 anni. Ma tra le imputazioni, oltre a questa e alla realizzazione di materiale di pornografia minorile, ci sono la detenzione di altri 6.100 video e 167.000 immagini pedoporno sempre su minori in Asia, nonché gli abusi in Italia su due minorenni e su un ragazzino con handicap costretto a rapporti a tre.
La sentenza del giudice milanese Andrea Salemme, oltre a esser la più aspra, è tra le po-che registrate in Italia da quando una normativa apposita, in deroga al principio di territorialità della legge penale, consente di processare in Italia questo tipo di reati commessi all’estero da un italiano. Nel 2007 il Tribunale di Milano aveva condannato a 14 anni il guardiano di un campeggio sul lago di Garda (in possesso di 65.000 immagini pedopornografiche) che in telefonate a un suo conoscente si vantava d’avere avuto tra il 2001 e il 2005 rapporti sessuali con almeno 400-500 ragazzini di età compresa fra i7 ei 15 anni. Ed era invece scappato durante il processo il 49enne varesino condannato a 10 anni dal Tribunale di Roma in un’inchiesta nata dalla perquisizione di un frequente viaggiatore in Sudamerica, nella quale i carabinieri gli avevano trovato non la droga che immaginavano ma montagne di video pedoporno.
Nel caso del cuoco di Mortara (Pavia) arrestato il 30 ottobre 2009, invece, i 17 anni di condanna sono il prodotto di romanzesco e casuale connubio tra il fastidio di un’anziana per gli schiamazzi al telefonino di un bambino e lo scrupolo dei vigili urbani di Mortara chiamati dalla donna: incuriositi dal tipo di cellulare incompatibile con le disponibilità del ragazzino, avevano appreso che gli era stato regalato da un uomo. Da questo esile filo sono partite le indagini che, sviluppate dal pm del pool specializzato milanese Stefania Carlucci con la prima sezione del Nucleo investigativo dei carabinieri coordinato dal colonnello Antonino Bolognani, hanno scoperto la sconfinata «biblioteca» pedopornogra ficadi Mass i mo Mannari, spesso in Thailandia apparentemente per lavoro; l’hanno analizzata isolando i moltissimi casi di atti sessuali con minori asiatici non identificati ma di età inferiore ai 14 anni; hanno recuperato ulteriori quantità di filmati (3.778 e 2.400) e di immagini (99.000 e 68.000) rispettivamente su un hard disk esterno o su una pen drive. Tutto confessato dall’imputato, che nega invece gli abusi sessuali a casa propria a Mortara ai danni di due minorenni, nonché di un ragazzino con deficit cognitivi sotto posto a quella che per il codice è una violenza di gruppo e cioè a un rapporto con due adulti.

Corriere della Sera 14.10.10
Dai mendicanti agli sfruttatori: come i filosofi facevano soldi
Diogene povero, Aristotele strapagato, Voltaire negriero
di Armando Torno


Non è vero che i grandi filosofi imparati a scuola furono soltanto apostoli delle loro idee e vissero come se l’umanità non li riguardasse. Se qualcuno ebbe tali caratteristiche, fu un’eccezione. La maggioranza conobbe i problemi della gente comune, sovente lottò contro quelli economici. Il denaro, per dirla in termini semplici, è stato capriccioso con loro quanto lo è con i comuni mortali. Noi li studiamo sovente in biografie che ne edulcorano le difficoltà, ma alcuni di loro furono ricchi e nobili, come Platone, mentre altri faticarono a tirare la fine del mese, come Comte, che combinò il pasto con la cena facendo il ripetitore scolastico.
Se Aristotele fu strapagato da Alessandro Magno (talune fonti parlano di 800 talenti versati per la Storia degli animali, cifra con la quale avrebbe potuto comperare allora oltre un migliaio di abitazioni) e se Seneca — grazie alle sue frequentazioni, in particolare Nerone — diventò il più ricco pensatore di tutti i tempi, Nietzsche visse gli anni creativi con una pensione da professore e da essa doveva decurtare le spese per pubblicare i libri. Diogene di Sinope, il cinico, abitava in una botte e girava per Atene come un mendicante, privandosi di tutto il superfluo e chiedendo anche la carità. Con questo non si deve dedurre che la storia del pensiero sia piena di morti di fame — tranne ovviamente quelli che scelsero una simile fine, come taluni stoici quali Dionigi o Cleante — ma che le idee, vera ricchezza per l’umanità, non sempre hanno ripagato chi le ha avute. Certo, non mancarono attenti amministratori del loro patrimonio, come Schopenhauer (il quale, tra l’altro, non sopportava il prossimo) o Voltaire, che investì le numerose prebende di cui godeva anche nelle navi negriere.
Dinanzi a una nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica simili notizie corrono tra le voci e ci si accorge che le illustri vite, capaci di produrre sistemi e progetti per il bene del mondo, hanno ancora dettagli da rivelare. Marx, per fare un altro esempio, era sempre irritato e il problema dei soldi lo accompagnò tutta la vita. Era distratto: chiedeva prestiti, frequentava il banco dei pegni, spendeva senza riflettere e infine si infuriava quando giungeva il momento di onorare i debiti. L’eredità paterna gli portò una cospicua somma in oro (seimila franchi dell’epoca), ma egli la «investì» in buona parte per armare i lavoratori del Belgio; la madre, da parte sua, si rifiutò di pagargli i debiti. Per fortuna trovò Engels, la vera risorsa economica della sua esistenza. Condusse inoltre vita malsana: mangiava e fumava molto, era goloso dei cibi ben conditi, apprezzava la birra ad alta gradazione e soffrì — soprattutto durante la stesura de Il Capitale — di foruncoli. La dieta sregolata e l’igiene dell’epoca gli causarono questo genere di escrescenze, che lo innervosì in molteplici occasioni. In una lettera a Engels, scritta nei giorni di composizione della sua massima opera, Marx collega il protuberante fastidio alle lotte economiche: «Qualsiasi cosa succeda, spero che la borghesia si ricorderà per sempre dei miei foruncoli».
Jean-Jacques Rousseau, invece, nacque in una famiglia di Ginevra nella quale il denaro circolava senza problemi, ma dove non mancavano traumi, tanto che nel 1718 suo fratello maggiore fu spedito dal padre in riformatorio, a motivo di una «incorreggibile malvagità». Di lui si sa soltanto che nel 1723 riuscirà a fuggire e poi se ne perderanno le tracce. Nonostante Rousseau abbia scritto nell’Emilio «l’ambizione, l’avidità, la tirannia e la malintesa prudenza dei padri, la loro negligenza e brutale insensibilità» et similia, mise i suoi figli uno ad uno all’orfanotrofio. Che dire? Anche il papà di Hobbes, che era vicario anglicano di Westport, uomo di non eccelse qualità culturali e umane, dopo essere stato cacciato dalla sua parrocchia per un litigio con i superiori decise di abbandonare moglie e figli alla loro sorte. Oggi conosciamo l’autore del Leviatano perché uno zio benestante si prese cura della famigliola.
Per giungere in tempi vicini a noi, diremo che Bertrand, terzo conte di Russell, celebre per i suoi studi matematici ma soprattutto perché negli anni Sessanta gli fu attribuito lo slogan «fate l’amore, non fate la guerra», scrisse un’oceano di articoli e di libri su argomenti diversissimi — non escluso l’utilizzo del rossetto — per avidità. L’amico Miles Malleson (è in Rupert Crawshay-Williams, Russell Remembered, pubblicato a Oxford nel 1970) rivela che i suoi ingenti guadagni li registrava su un libriccino, nel quale elencava scrupolosamente i compensi ricevuti per pubblicazioni e trasmissioni radiofoniche. Nei rari momenti di inattività o di tristezza, lo estraeva e, leggendolo, ne ricavava «sempre grande conforto». Godeva, insomma, come Paperon de’ Paperoni.

Corriere della Sera 14.10.10
Pico: eros e violenze non solo memoria
di Cesare Segre


Spese folli per acquistare testi della Qabbalah e per contendere nobildonne ad altri

Giovanni Pico, conte della Mirandola (1463-1494), in provincia di Modena, era in grado di recitare a memoria, dalla prima all’ultima parola e dall’ultima alla prima, il testo di un libro appena letto. È il modo, un po’ da baraccone o da «Lascia o raddoppia?», in cui la fama popolare si rappresentava le qualità eccezionali di questo nobile studioso. Un nobile che era amico dei maggiori umanisti del tempo, da Angelo Poliziano a Marsilio Ficino, e impegnato in un’impresa mai tentata, quella di tradurre i testi della Qabbalah ebraica, per impossessarsi del loro sapere e destinarlo proprio alla conversione degli ebrei. Insomma, Pico della Mirandola è il primo cabalista cristiano.
La parola cabala (ebraico Qabbalah) indicaancora, sempre nella fantasia popolare, intrighi di difficile decifrazione, problemi matematici complessi o, proprio con ragionamenti numerici, un modo di prevedere il futuro: si pensi alle illusioni prodotte dalla «cabala del lotto». In verità si tratta di una filosofia d’ispirazione mistica, con elementi di origine greca, sviluppatasi dal secolo III dell’era volgare, e giunta al culmine nel secolo XIII, con il Libro dello Zohar. Parla dei rapporti di Dio, infinito e ineffabile, con il mondo, tramite mediatori come gli angeli o le «Sefirot», enti soprannaturali al suo servizio. Ha un impianto panteistico, e ammette l’esistenza della metempsicosi. Si è espressa in una fitta letteratura, anche con testi narrativi, che Kafka conosceva, e a cui in parte si ispirò.
Dell’opera di scoperta e traduzione di Pico, che spese capitali per acquistare testi della Qabbalah, rarissimi, si occupa da tempo Giulio Busi, che ha persino fondato una collana («The Kabbalistik Library of Giovanni Pico della Mirandola»), per far conoscere i testi raccolti dal principe e ora posseduti dalla Biblioteca Vaticana. E sono ben noti i volumi da lui dedicati a questa letteratura, come Mistica ebraica (con Elena Loewenthal, Einaudi, 1995), o come Qabbalah visiva (Einaudi, 2005), oltre che, su un piano più specialistico, L’enigma dell’ebraico nel Rinascimento (Aragno 2007). Ma il personaggio Giovanni Pico lo ha affascinato, e ora gli dedica un volume ( Vera relazione sulla vita e i fatti di Giovanni Pico conte della Mirandola, Aragno, pp. 216, € 15). Non si tratta proprio di una vita romanzata, perché ogni affermazione è corredata di note, che nel complesso occupano più di cinquanta pagine; ma certo la costruzione narrativa e lo stile hanno il respiro dell’invenzione.
Il libro mette in parallelo le vicende di Pico e quelle di Flavio Mitridate, l’ebreo rinnegato che fornì parte dei testi cabalistici a Pico, e gl’insegnò a tradurli, e in parte glieli tradusse. Personaggio ambiguo, anche sospettato, forse a ragione, di un omicidio, Mitridate ha conoscenze linguistiche eccezionali, e sa stuzzicare le curiosità del conte. Certo mostra di dominare davvero le lingue orientali, non solo l’ebraico ma anche l’arabo o l’etiopico. Viceversa, Pico è un giovane aristocratico orgoglioso e viziato dalla sorte: si confrontava lui stesso col camaleonte, sottolineando, di questo animale quasi da leggenda, la capacità di assumere una gran varietà di atteggiamenti e idee. Oltre all’intelligenza ha la bellezza e la forza, e ne fa uso anche nei suoi numerosi amori. Il libro narra per esempio, in un racconto molto movimentato, con che audacia rapì una donna che amava, e descrive il successivo scontro con gli armati che cercarono con successo di sottrargliela: Pico perdette diciotto uomini della sua scorta.
Ma l’avventura più avvincente, tra quelle narrate in questo libro, è quella intellettuale, dipanata in dibattiti, coraggiosi e antidogmatici, con umanisti e con ecclesiastici, e incappata a un certo punto nella censura a certe affermazioni teologiche; censura che costrinse Pico alla fuga e alla latitanza, sino a una risicata riabilitazione da parte del papa. Qui Busi ci dà un’idea delle dispute di quel tempo (vi aveva parte il problema del male, che continua ad assillarci) e ci fa capire come esse fossero minacciate dal sospetto di eresia e dai possibili processi ecclesiastici. La mente di Pico era troppo libera per quei tempi, e la morte per avvelenamento, a 31 anni, gli ha probabilmente risparmiato altre persecuzioni.

Corriere della Sera 14.10.10
Le recessioni? Colpa delle guerre
I conflitti in Vietnam e Iraq alle origini delle due crisi più gravi
di Michele Salvati


«Politica ed economia sono intimamente legate tra di loro. Gli economisti possono proporre i migliori modelli e le migliori soluzioni tecniche. Tali soluzioni, tuttavia, saranno largamente insufficienti ad evitare crisi sistemiche se il mondo continuerà ad essere in squilibrio e se questo squilibrio sarà il prodotto di azioni militari. Le guerre che si combattono non possono essere considerate solo come fatti accidentali che interferiscono con i problemi economici. Le guerre sono fatti economici che devono essere prese in considerazione dagli economisti, così come le crisi economiche sono fatti politici che devono essere tenute in considerazione dalla politica». Non potrei essere più d’accordo e consiglio a tutti — e in particolare a coloro che, non essendo politologi o economisti o esperti di relazioni internazionali, sentono il bisogno di raccapezzarsi nell’intricata storia economica e politica mondiale dal dopoguerra ad oggi — il recente libretto di Innocenzo Cipolletta ( Banchieri, politici e militari. Passato e futuro delle crisi globali, Laterza). È una lettura istruttiva, e la fantapolitica del quinto capitolo, divertente ma un po’ amara, serve a lanciare, nel sesto, il messaggio più personale dell’autore, le ragioni di una speranza.
La lettura è agevole non soltanto perché Cipolletta scrive in modo piano e fornendo al lettore le nozioni indispensabili per seguire il suo ragionamento, ma soprattutto perché segue uno schema logico, che espone sin dall’Introduzione e rielabora a più riprese nel corso del saggio. Il libro consiste nell’analisi di due crisi internazionali. Quella che concluse i trent’anni gloriosi del dopoguerra (così li chiamano i francesi), vide la quadruplicazione dei prezzi del petrolio nel 1973 e l’ulteriore raddoppio nel 1980-81, seguiti dal doloroso adattamento mondiale a questa violenta modificazione nei termini di scambio nel corso degli anni Ottanta. E quella nella quale siamo tuttora immersi, provocata dall’esplosione della bolla finanziaria dei mutui ipotecari americani, inasprita dal fallimento della Lehman Brothers e sfociata nella recessione economica dei Paesi di capitalismo avanzato.
Lo schema logico che sorregge l’analisi di entrambe le crisi è il seguente: «Le guerre hanno pesato sensibilmente sulle politiche di bilancio americane, con risvolti pesanti sui conti pubblici. Questi disavanzi hanno sostenuto l’economia e contribuito a produrre squilibri nei conti con l’estero. Tali squilibri hanno potuto protrarsi nel tempo grazie al ruolo di riserva del dollaro, che ha costituito un rifugio per l’eccesso di riserve dei Paesi esportatori. Il protrarsi degli squilibri ha generato forti afflussi di liquidità sul mercato finanziario internazionale e ciò ha prodotto bolle speculative. Lo scoppio delle bolle ha generato, a sua volta, crisi e recessioni».
Che le guerre sostenute dagli Stati Uniti abbiano avuto un notevole ruolo nel provocare situazioni di instabilità finanziaria, in alcuni casi esplose in crisi gravi, credo sia fuori discussione. Ma Cipolletta converrà che non si tratta di un ruolo unico e altri fattori hanno giocato. Si può anche capire che un Paese, autoinvestitosi della missione di difensore del mondo libero, ritenesse giusto sfruttare il privilegio di avere come moneta propria la principale moneta di riserva internazionale per far pagare le proprie guerre anche ai cittadini degli altri Paesi, in tal modo generando debito e instabilità finanziaria. Ma c’è modo e modo, misura e misura. Limitiamoci alla seconda guerra irachena, quella di Bush figlio: nel generare i disavanzi che sono all’origine delle turbolenze finanziarie successive non ha forse giocato, oltre alla guerra, quel forte taglio delle tasse per i ceti più abbienti che era parte integrante di un programma elettorale di natura esclusivamente interna? Non fare pagare interamente la guerra ai propri cittadini può anche essere giustificato, anche se sarebbe il caso di chiedere ai cittadini degli altri Paesi se vogliono farsi «difendere» in quel modo (in Vietnam, in Iraq?); rinunciare a risorse interne per tagliare le tasse ai ricchi mi sembra meno giustificabile. Più in generale, e come l’autore più volte ribadisce, esiste un ovvio conflitto di interessi quando la moneta di riserva internazionale è anche la moneta di un singolo Paese.
E converrà anche, Cipolletta, che il modo in cui nelle due crisi analizzate si è sviluppata la sequenza prima descritta, quella che va dalla guerra all’esplosione della crisi, è stato piuttosto diverso e non ha seguito il profilo indicato per entrambe nell’Introduzione. Nella seconda è vero che l’eccesso di liquidità interna e internazionale, gestita da un sistema finanziario in cui erano stati soppressi controlli seri, ha generato bolle speculative in successione, di cui l’ultima e la più grave, scoppiando, ha prodotto la grave crisi economica nella quale siamo tuttora impelagati. Ma faccio fatica a vedere bolle speculative vere e proprie all’origine della crisi del 1975. Vedo il crollo del sistema dei cambi fissi, vedo l’inflazione, finché un cartello quasi monopolistico di Paesi esportatori di petrolio — per recuperare la perdita del potere d’acquisto del dollaro — quadruplica il prezzo e poi lo raddoppia ancora sette anni dopo: è questo che affossa l’età dell’oro in cui i Paesi di capitalismo avanzato avevano vissuto per quasi trent’anni. Se ci si limita all’origine della crisi, alla presenza e al ruolo delle bolle, ci sono più analogie tra la crisi presente e quella del 1929 che non con quella del 1975, come tanti hanno notato.
Cipolletta converrà con queste osservazioni, o quantomeno vorrà discuterne, perché esse non intaccano il significato delle sue tesi, sia quella particolare sul ruolo delle guerre Usa nel creare condizioni di instabilità finanziaria, sia e soprattutto quella più generale, sul ruolo di fattori politici, internazionali e interni, nello spiegare fenomeni economici.
È per ribadire queste tesi che l’autore si lancia nel penultimo capitolo in un esercizio di fantapolitica: fa così anche Robert Reich in un bellissimo libro che l’editore Fazi tradurrà fra poco, Aftershock, e in entrambi i casi l’effetto è illuminante, in quello di Cipolletta anche amaramente comico. Dopo la seconda presidenza Obama, Sarah Palin vince le elezioni presidenziali. Alla fine del suo primo mandato, e alle soglie delle successive elezioni — siamo dunque nell’autunno del 2020 — Sarah espone la sua visione politica ed economica in una intervista che concede a Cipolletta ed è riportata nel quinto capitolo. Nel sesto e ultimo Cipolletta le contrappone la propria. Per un’opera di fiction, come per la recensione di un film, il finale non si racconta, non si anticipa chi è l’assassino. Per stuzzicare il lettore mi limito a dire che Cipolletta infarcisce il discorso di Sarah con numerose citazioni tratte dal libro La paura e la speranza di Giulio Tremonti, con effetti esilaranti del tutto intenzionali.

Corriere della Sera 14.10.10
Italiani, indicate all’Europa un nuovo Rinascimento
Marc Fumaroli: vi spetta un ruolo guida per uscire dal declino
di Stefano Montefiori


PARIGI — L’amore di Marc Fumaroli per l’Italia è profondo, tanto che il grande intellettuale francese non esita a investire il nostro Paese della responsabilità di un nuovo Rinascimento europeo: «Considerati il passato e l’immensità del suo patrimonio, sarebbe normale che fosse l’Italia oggi a mostrare al resto dell’Europa la via per uscire dalle sabbie mobili della cultura di massa. In fondo l’ha già fatto altre volte in passato: risollevarsi, rinascere dopo i periodi di declino. Un declino che oggi riguarda tutti gli europei».
Al critico e storico 78enne, accademico di Francia e professore al Collège de France, spetta il compito di parlare domani a Milano della percezione della nostra cultura al di fuori dei confini nazionali, nel primo convegno «Idee italiane. Un osservatorio sulla cultura del Paese». Nella sua accogliente ed elegante dimora parigina, Fumaroli non può che cominciare da una dichiarazione d’amore verso l’Italia: «Non credo esista un altro Paese che benefici di tanta simpatia nel mondo. Immagino dipenda dal fatto che l’Italia è sempre stata produttrice di gioia e bellezza, ha dato all’Europa i suoi splendidi autori, pittori, scultori, architetti, attori, cantanti, musicisti, nel secolo dei Lumi. Nel secondo e tristissimo Novecento, ci ha dato De Sica e Rossellini, e ci ha offerto il loro sguardo lucido e allo stesso tempo ironico sulla vita. Ci ha consolato dall’espressionismo tedesco. Da voi, non c’è mai stato disprezzo del mondo, ma un invito a gustarlo ancora, anche quando tutto sembra perduto e desolato. Nell’arte cosiddetta contemporanea, che io non amo particolarmente, si salva il francescanesimo dell’arte povera italiana. Quando scoprivo la letteratura, uno dei miei eroi fu Cesare Pavese, e poi ho scoperto Mario Praz, poi Roberto Calasso, Giorgio Manganelli, poi Pietro Citati...». Fumaroli prende un libro dal tavolino davanti al divano, Il mio museo immaginario, o i capolavori della pittura italiana, di Paul Veyne, collega al Collège de France: «Prendiamo questo stupendo volume che mi è appena arrivato. Per l’ateo e pagano Veyne, la pittura cristiana italiana continua Pompei, e celebra, come nessun’altra, tutti gli aspetti della bellezza del mondo..
Bene. Ma le opere e i nomi menzionati, tranne quelli di Calasso e Citati, si riferiscono al passato. Come il neorealismo del dopoguerra... «Roberto Benigni è qualcosa, no? Comunque la caduta del senso della qualità è evidente dappertutto, non nella sola Italia. Dipende dal fatto che la cultura generale, sia del pubblico, sia degli autori, è notevolmente diminuita, in tutto l’Occidente. Il patrimonio artistico italiano non occupa il rango che gli spetta, non è capito come una forza spirituale per l’oggi... Avrebbe il potere di educare, di rendere distaccati dalla cultura pop molti cittadini europei. Nel nostro mondo servono dei luoghi dove riposarsi, raccogliersi, volgere lo sguardo verso orizzonti che siano diversi da quelli proposti dal gran commercio culturale e dalla programmazione mediatica. In Italia il problema è stato posto bene da Salvatore Settis, ma non c’è stata ancora una risposta adeguata. Non ho niente contro la moda globale, ma se solo ci fossero luoghi che si sottraggono alle sue leggi, si vivrebbe più liberi ed anche meno infelici».
C’è qualche esempio positivo? Da dove si potrebbe cominciare? «La politica romana dei piccoli musei, che non richiedono lunghi soggiorni, ma offrono visite molto intense, mi pare un’ottima idea. Il palazzo Altemps, il restauro di Villa Borghese, di Palazzo Braschi... Altrettante stazioni non di turismo, ma di pellegrinaggio urbano.. E poi c’è l’utilizzo delle tecniche digitali. Usate da persone colte, le nuove tecnologie sono uno strumento meraviglioso di contemplazione. Ho visto una splendida mostra fotografica del Battistero di Firenze, era come esaminare i bassorilievi con la lente».
Marc Fumaroli proprio non riesce a mandar giù la commistione post-moderna tra «cultura alta» e «cultura bassa», dove tutto alla fine viene inglobato dal «pop» di matrice americana. «L’Europa, magari a cominciare dall’Italia, potrebbe riprendere coscienza della sua identità, senza lasciarsi americanizzare di più». Ma non crede che i capolavori contemporanei, nel cinema e nella letteratura, vengano proprio dall’America? «Altman, Philip Roth?...», sorride Fumaroli; «Loro sono d’accordo con me! È un fatto che la cultura di massa sia innanzitutto un prodotto americano o all’americana.. L’Europa aveva la tradizione di numerose culture popolari. Artigianali e genuine tanto quanto la cultura di massa è industriale e prefabbricata. La cultura popolare riposa su un’adesione spontanea del suo pubblico; la cultura di massa utilizza il bombardamento pubblicitario, dalla nascita alla morte, per imporsi. L’Europa aveva le sue canzoni, e non piccoli selvaggi che montano in scena urlando fino a rischiare di rompersi la vena della tempia, prendendosi per Dioniso o Rimbaud. La pretesa dei Rolling Stones di essere geni fino a cent’anni non mi pare nella tradizione di Rimbaud».
Cercare e trovare contrappesi alle mode, al consumismo para-culturale, al modello americano? Come realizzare un programma così ambizioso? «Usando bene i finanziamenti dei privati, senza lasciarsi travolgere dai marchi pubblicitari, e sotto la garanzia dello Stato». Ma non ha denunciato proprio lei, nel saggio Lo Stato culturale (Adelphi, 1991), l’invadenza del governo? «Mai stato ostile all’intervento dello Stato in questo campo, tutt’altro. Ho solo denunciato che lo Stato francese, sotto il ministero di Jack Lang, allargava la sua responsabilità patrimoniale a rock, rap, graffiti e altri prodotti commerciali. Lo Stato deve a mio parere preoccuparsi della Comédie Française e di restaurare le cattedrali, invece di rincorrere l’hip-hop ed simili pericolosi giocattoli. Si diffondono anche troppo bene da soli».
Da grande scettico dei tic contemporanei, Marc Fumaroli riserva il suo ultimo divertito fastidio alla moda degli studi utilitaristici, dell’«avvicinare il mondo della scuola al quotidiano». «Anche qui, il patrimonio italiano ci viene in aiuto. Nel 1708 Giambattista Vico pronunciò la celebre conferenza che ogni europeo dovrebbe conoscere a memoria, Sul metodo negli studi del nostro tempo. Dopo i successi della nuova scienza di Galileo e Cartesio, protestava Vico, ormai insegniamo ai bambini la matematica prima ancora della poesia e dell’arte. Un errore allora, ma quanto più grave e diverso oggi. Chi si occupa ora di formare la sensibilità, l’immaginazione, i sentimenti dei giovani? Più che la scuola, o la famiglia, spesso impotenti, temo che siano i videogiochi, la televisione, i reality show per iPod ed iPad. Strumenti in sé neutri, ma pericolosamente capaci di imprimere stereotipi invece di educare. Bisogna saperlo e reagire.

Repubblica 14.10.10
La neolingua del cavaliere
di Gustavo Zagrebelsky


Dietro molti termini c´è un´idea provvidenziale, di "salvezza della società"
"Amore" ha contagiato anche gli avversari, entrando nei manifesti del Pd
I tabù sono caduti: la bestemmia viene sdoganata contro il politicamente corretto

Le considerazioni che seguono sono sotto il segno di un celebre motto di Friedrich Schiller: «La lingua poeta e pensa per te». Nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro. Ciò può essere interpretato come un´intrusione nel nostro modo d´essere e di comunicare, oppure come un´emersione, che non crea nulla, ma solo dà voce.
In questo secondo caso, la radice sarebbe più profonda, la malattia più pervasiva. In ogni caso, l´uniformità della lingua, l´assenza di parole nuove, l´ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di decadenza senile, è tale certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma – molto più grave – è il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio kitsch, forse proprio per questo largamente diffuso e bene accolto.
«Scendere» (in politica) Qual è la via che conduce alla politica? O dal basso o dall´alto. Dal basso, vuol dire dall´interno di un´esperienza politica che, mano a mano si arricchisce e porta all´assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri. Ciò equivale a una carriera politica e corrisponde all´idea della politica come professione, nel senso classico di Max Weber. La legittimità dell´aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa, alle sue esperienze, alle sue procedure e ai suoi rituali. Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre e più alte sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione. La legittimità dell´aspirazione politica è esterna alla politica come professione, anzi sta proprio nel suo essere estranea, aliena. (....) Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle società, è la sempiterna figura della missione redentrice che un «salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù. Teologia politica allo stato puro, cioè trasposizione di schemi mentali e suggestioni dalla teologia alla politica.
C´è poco da ridere o anche solo da sorridere. È cosa seria. È una forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i salvatori che si accollano compiti provvidenziali. I «re nascosti», gli «unti del Signore» che gli uomini comuni devono riconoscere, fanno la loro apparizione nella storia dei popoli in ogni momento di difficoltà; gli «uomini della provvidenza», comunque li si denominino e quale che sia la forza provvidenziale che li manda e dalla quale sono «chiamati» (un Dio, la Storia, il Partito, la «Idea», la Libertà, il Sangue e la Terra, in generale il Bene dell´umanità) sono appena alle nostre spalle, anzi sono tra noi. La secolarizzazione del potere, premessa della democrazia, non li ha affatto scacciati. (....)
Quest´idea è pervasiva e va al di là degli schieramenti politici. L´invocazione di un «papa straniero», salvatore della Patria anch´esso, sia pure di segno provvidenziale opposto a quell´altro, è la dimostrazione che questa mentalità è penetrata profondamente ed estensivamente nel modo comune di considerare la politica e la salvezza politica. Certo, questa formula ha qualcosa d´ironico. Ma c´è da scommettere che, se un tale personaggio, dal mondo della finanza, dell´industria o dell´accademia, farà la sua apparizione, questa sarà circondata dagli stessi caratteri: anche lui «scenderà» in politica e il suo non sarà un «ingresso» ma una «discesa». Si renda o non si renda conto del significato di questo linguaggio che, ormai entrato nell´uso, gli sembrerà del tutto naturale, ovvio.
La parola-chiave è dunque «scendere». Scendere da dove? Da una vita superiore. Scendere dove? In una vita inferiore. Per quale ragione? Per rispondere a un dovere, al quale sacrificarsi. Quale dovere? Salvare un popolo avviato alla perdizione. Con quali mezzi? Mezzi politici. Dunque: «scendere in politica». Non con i mezzi corrotti del passato però, ma con mezzi inediti e con compagni d´avventura nuovi di zecca. Tutto dev´essere reso «nuovo», generato a un´altra vita. Ciò che è vecchio sa di corruzione. Per questo, si deve scendere dall´alto, dove c´è virtù, purezza, capacità di buone opere, e non dare l´impressione di salire dal basso, da dove nascono solo creature che si alimentano e vegetano nella putredine.
«Contratto» Da dove si scende, è ben detto fin dall´inizio, in quel volumetto del 2001, intitolato Una storia italiana, dove la vita del protagonista, prima della «discesa», è rappresentata come un idillio familiare, intriso di buoni sentimenti, di felicità nel suo rapporto con la natura, come una sequela di successi professionali, come una dedizione, già allora, al bene di tutti coloro che hanno a che fare con lui. Ma ora, c´è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata, sarebbe un atto d´egoismo. Noi miscredenti pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, da agevolare dunque. Resistere alla chiamata o opporsi al chiamato significa volere il male del bisognoso (...).
Questi concetti, ripetuti poi infinite volte, dovrebbero essere analizzati uno per uno. Non sono detti a caso. Ci deve essere una mente: la condizione beata di partenza, il sacrificio personale consacrato al paese infelice e bisognoso d´aiuto, il soccorso, la chiamata, l´altruismo, le armi. C´è già in nuce tutto quanto seguirà. Compreso il rito elettorale, inteso non come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo (vox populi, vox dei). Il programma elettorale diventa qualcosa di diverso da una proposta di governo. Diventa rivelazione della propria missione salvifica, «buona novella» che deve essere annunciata tramite «apostoli della libertà». L´investitura elettorale è la risposta all´annuncio. Il «contratto con gli Italiani» è cosa assai meno ingenua di quel che appare. È la sanzione dell´avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo. La funzione mistica attribuita a questo «contratto», presentato come tavola fondativa d´un patto indistruttibile e sacro, è completamente al di fuori della logica della democrazia rappresentativa. Si spiega nella logica del disvelamento e del riconoscimento, della discesa dall´alto che incontra un bisogno e un´invocazione dal basso.
«Amore» Nel discorso con il quale fu dato l´annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L´Italia è il Paese che io amo». Così anche l´amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l´Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell´imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d´amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L´Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali. L´Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l´amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt´altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d´amore, suona falsa perché è obbligata e l´amore obbligato che cosa è? Può essere un´adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt´altro modo, come un dono d´amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo?
E se non riama? Se l´amore non è corrisposto? Se non c´è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d´amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate». Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un´Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un´altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un´Italia che sa anche e soprattutto amare» (L´Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all´Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.
«Assolutamente» Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l´appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto. Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell´assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell´assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (...) Il predecessore dell´assoluto è il «categorico» d´un tempo, quando non c´era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell´agone politico. Ciò che l´assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L´assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l´assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c´è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (....)
«Fare-lavorare-decidere» La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch´essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell´elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L´idea che la vita politica si basi su un legame sociale che – certamente – implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l´esprime. L´Italia è «l´azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell´azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».
La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l´Italia. (.....) Ora, l´ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell´efficienza l´esigenza principale: efficienza per l´efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l´oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell´agire. (....)
Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell´espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d´opposizione (...) Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l´efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
«Politicamente corretto» (....) Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l´ha inaugurato e anzi, all´inizio, l´ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l´aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l´occultamento delle difficoltà, le promesse dell´impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d´amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l´orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.

Repubblica 14.10.10
La fine del sesso nell’era di Lady Gaga
di Camille Paglia


Non è nemmeno scandalosa: è il segno di una generazione che ha perduto il valore simbolico dell´eros
Non c´è niente di sexy nella cantante anche se mette in mostra metri quadri di pallida carne
La studiosa americana sulla pop star diventata icona: "È il segno di come sia fallita la carica eversiva della rivoluzione dei costumi Sa fare solo plagi"

Lady Gaga è la prima grande stella dell´era digitale. Da quando ha raggiunto il successo, è rimasta pressoché sempre in tournée. È dunque un obiettivo mobile, che finora ha eluso un´analisi approfondita. È spesso ripresa mentre cammina barcollando, con indosso un negligé assurdamente bizzarro e una parrucca orrenda.
Gran parte di ciò che ha raccontato di sé non è stato confermato in via indipendente. I suoi fan si bevono senza batter ciglio le sue affermazioni più strampalate e più volte ribadite: "La musica è falsità", "L´arte è falsità", "Gaga è falsità", per terminare con un "Io mento molto spesso".
Lady Gaga sbandiera il suo legame simbiotico con i suoi fan – i "piccoli mostri" li chiama – che lei incoraggia ad "amarsi", come se fossero oggetti danneggiati che necessitano del suo intervento terapeutico e riparatore. «Siete delle superstar! Non importa chi siete davvero!» urla loro dal palco, mentre i loro soldi vanno a finire nelle sue tasche. A una rivista ha confidato con fervore quasi messianico: «Adoro i miei fan più di qualsiasi artista mai vissuto». Dichiara di aver cambiato la vita dei disabili, rimasti elettrizzati dalla sua parodia con le grucce ricoperte di pietre preziose nel suo video Paparazzi.
Benché si presenti come la portavoce di tutti i personaggi più strani e disadattati della vita, vi sono poche prove che lo sia davvero. È cresciuta in una famiglia benestante, negli agi, e ha frequentato la stessa elegante scuola privata a Manhattan di Paris e Nicky Hilton. Vi è un divario abissale tra l´autoritratto melodrammatico che Gaga dà di sé come artista solitaria, ribelle ed emarginata e la potente macchina imprenditoriale che sovvenziona il suo look e il suo trucco e che ha fatto trasmettere le sue canzoni dalle emittenti radiofoniche in sequenza pressoché ininterrotta e pressoché ovunque.
Lady Gaga è un personaggio costruito a tavolino, e anche da poco. Alcune foto di Stefani Germanotta scattate pochi anni fa mostrano una spumeggiante brunetta dall´aspetto raggiante. La Gaga di fama mondiale, tuttavia – quella che indossa vistose parrucche e giganteschi occhiali da sole (indossati villanamente anche nelle interviste) – la si vede fare smorfiosamente la bambolina oppure cadere nel macabro, senza traccia alcuna di spontaneità. Ogni sua apparizione in pubblico, addirittura (che assurdità!) negli aeroporti – dove la maggior parte delle celebrità cerca invece di passare inosservata – è stata precedentemente studiata in ogni dettaglio, con tanto di completino sgargiante e vistoso, e i suoi capelli sono stati pettinati in modo bizzarro e quanto mai stravagante da un team invisibile di folletti.
Oltretutto, malgrado il fatto che metta in mostra interi metri quadri di pallida carne e indossi i classici orpelli dei feticisti e masochisti della prostituzione urbana, Gaga non è affatto sexy, essendo piuttosto simile a una marionetta spilungona o a un androide di plastica. Come è mai possibile che una figura così costruita a tavolino e artificiale, così morbosa e stranamente antisettica, così sprovvista di autentico erotismo, sia diventata l´icona della sua generazione? Può essere che Gaga incarni la fine ormai estenuata della rivoluzione sessuale? Con la maniacale parodia di Gaga di un personaggio dopo l´altro – esasperata, eccessivamente calcata e claustrofobica – potremmo aver raggiunto la fine di un´epoca…
Gaga ha preso in prestito così tanto e così intensamente da Madonna (come nel suo ultimo video intitolato Alejandro) che dovremmo chiederci a che punto l´omaggio si trasformi in plagio. In ogni caso, il fatto è che Madonna da giovane era tutta un fuoco, era davvero l´incontrastata erede di Marlene Dietrich. Per Gaga, invece, il sesso è più che altro decorazione, apparenza, e lei è come un falso mobile rococò realizzato in laminato. È inquietante tuttavia che la Generazione Gaga non riesca a coglierne la differenza. È la morte del sesso? Forse, lo status simbolico che il sesso ha rivestito per un secolo è andato perduto. Forse, la sua traiettoria innovatrice può dirsi conclusa…
Gaga assomiglia a una cometa, a una raffica stimolante di novità, quantunque di fatto si limiti a riciclare con determinazione e senza problemi il lavoro altrui. È la diva del déjà vu. Gaga si è facilmente impossessata di un po´ tutto, rubacchiandolo ad attori come Cher, Jane Fonda nel suo ruolo di Barbarella, Gwen Stefani e Pink, ma anche ad autentiche muse della moda come Isabella Blow e Daphne Guinnes. Le drag queen – che Gaga dichiara apertamente di ammirare – sono di gran lunga più sexy nei loro completini audaci di quanto sia lei.
Le espressioni facciali di Gaga si limitano a occhiate furtive e accigliate attraverso tutto quel ciarpame. Nei suoi filmati avvicina il suo lugubre e vacuo volto alla telecamera e a noi fa venire i brividi. È coatta. Marlene e Madonna davano quanto meno l´impressione, vera o finta che fosse, di essere pansessuali. A dispetto di tutto il suo dimenarsi e atteggiarsi, Gaga è asessuale. Andarsene in palestra in pieno giorno indossando un bustino nero, calze a rete e tacchi a spillo come ha fatto Gaga di recente non è affatto sexy, bensì sintomo di una sessualità disfunzionale.
Proviamo a confrontare le insipide canzoni di Gaga, con le loro sillabe insulse da filastrocca infantile, con il titolo e l´ipnotico ritornello della prima canzone e del video di Madonna studiati per attirare l´attenzione su Mtv, Burning Up, con tutto quel fondamentale immaginario di fuoco e la famosa proposta di fellatio, allora scandalosa. Al posto della valorosa forza vitale di Madonna, in Gaga riscontriamo soltanto un´inquietante tendenza alla mutilazione e alla morte…
Gaga tende a essere al di sopra delle sue stesse pretese di avanguardia… Vuole tutto e il contrario di tutto, essere hip e all´avanguardia ma anche popolare e universale, una che pratica lo show biz in modo fanatico. La maggior parte dei suoi devoti ammiratori pare avere scarsi rapporti o forse nessuno con personaggi travolgenti come Tina Turner o Janis Joplin, con le loro ricche personalità e la loro impetuosa passione.
La Generazione Gaga non si identifica con stili vocali potenti, perché le voci dei giovani che ne fanno parte si sono atrofizzate: comunicano senza parlare, con un flusso ininterrotto di telegrafici sms sparsi qua e là. La piatta affezione di Gaga non li affligge affatto, perché non sono sintonizzati sulle espressioni del volto.
I fan di Gaga sono isolati in una tecnocrazia globale fatta di gadget bizzarri, ma caratterizzati da una povertà di sentimenti. Le linee di demarcazione sfumano tra pubblico e privato: i reality show alla televisione si moltiplicano, le conversazioni al telefono cellulare si fanno ovunque, i segreti sono sventatamente spiattellati su Facebook o Twitter. Ed ecco, infatti, Gaga chiacchierare senza motivo alcuno della sua vagina…
© 2010 The Times
(Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 14.10.10
Cina, la rivolta dei veterani contro il regime
"Basta censura", protestano 23 funzionari vicini al potere: "Oscurato anche il premier"
di Giampaolo Visetti


La "grande muraglia" del potere cinese mostra sintomi di sgretolamento e Internet si conferma il nemico più pericoloso del partito comunista. A sei giorni dal Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo, 23 personalità del Paese hanno inviato una lettera aperta online in cui denunciano la censura e chiedono ai leader della Cina riforme, rispetto dei diritti e della Costituzione, libertà di stampa e di espressione. Era dai tempi di "Charta 08" che gli intellettuali cinesi non trovavano il coraggio di mettere sotto accusa «un partito che se non si riforma perde la sua vitalità e rischia di morire di morte naturale». Il documento è stato subito oscurato dalle autorità. Salvato su siti visibili aggirando le barriere, è rimbalzato in tutto il Paese e centinaia di persone hanno iniziato a sottoscriverlo. I promotori muovono anche una denuncia senza precedenti: censura di Stato contro Wen Jiabao.
Il premier cinese, nelle ultime settimane, ha ripetuto la necessità di «promuovere riforme politiche che garantiscano una crescita economica sostenibile». Ne ha parlato a Shenzhen, a inizio settembre, e poi all´Onu, a New York. Discorsi e interviste ai media Usa sono stati però ignorati dai media della nazione che lui stesso governa. È il segnale di una pericolosa frattura nel partito, affrontata oggi dall´annuale assemblea plenaria. A contrapporre conservatori e riformisti, il profilo dei 23 ribelli.
Non sono dissidenti, o reduci di Tienanmen, ma ex alti funzionari, giornalisti e accademici fedeli al governo. Tra essi Li Rui, ex segretario di Mao Zedong e già capo organizzativo del partito, Hu Jiwei, ex direttore del Quotidiano del popolo, Zhong Peizhang, ex responsabile della propaganda, ma pure i vecchi capi di giornali e agenzie di stampa di Stato, presidi e docenti universitari, direttori di teatri, musei e scuole del partito. Il potere osserva che «sono tutti ex, anziani e fuori dalla realtà», ma teme che «il cattivo esempio» ridia speranza a chi «vuole distruggere la Cina».
Definiscono l´oscuramento di Internet «uno scandalo nella storia mondiale della democrazia» e denunciano «la mano nera del dipartimento centrale della propaganda», definito un «potere occulto che viola la Costituzione, ponendosi al di sopra del comitato centrale del partito». In Cina però isolamento mediatico e propaganda si irrigidiscono e il potere mostra di non tollerare alcun dissenso. La repressione contro la moglie di Liu Xiaobo è un caso internazionale. Liu Xia, in arresto e isolata da venerdì, riesce solo a far filtrare qualche frase via Twitter. Ieri ha protestato contro «una detenzione illegale molto difficile da sopportare», rivelando che la madre di 77 anni è stata perquisita da uomini armati quando è andata a trovarla. A due diplomatici norvegesi è stato impedito di vederla. «Il mio nuovo telefono è stato disattivato dagli agenti teppisti - ha scritto - e la mia speranza di ritirare il Nobel di Xiaobo a Oslo si sta spegnendo».