mercoledì 20 ottobre 2010

l’Unità 20.10.10
Bersani accusa: «Un mostro giuridico. E da Futuro e libertà un grosso deficit di coerenza»
Il Pd insorge: «Vergogna Faremo le barricate»
Dure le reazioni di Pd e Idv al voto del Senato sul Lodo Alfano retroattivo. Bersani: «Una vergogna. Faremo le barricate». Di Pietro: «Pronti per un referendum». Casini annuncia che l’Udc si asterrà dal voto in Aula.
di Maria Zegarelli


Un «mostro giuridico», un altro tra i tanti figlio di un Parlamento nominato dall’alto, che deve rendere conto del proprio operato non agli italiani ma a quelli giuridici del Presidente del Consiglio. È durissima la reazione di Pd e Idv all’approvazione del Lodo Alfano retroattivo approvato ieri dalla Commissione Affari costituzionali del Senato con il voto di Fli. Pier Luigi Bersani annuncia le «barricate» e definisce «vergognosa» la retroattività. «Viaggiamo ai limiti dell’assurdo commenta con i giornalisti a Montecitorio -. Credo che sia indecoroso e vergognoso pensare di procedere alla soluzione per via parlamentare e costituzionale. Daremo battaglia con tutte le nostre forze».
COERENZE
Quanto al voto dei finiani, Bersani lo definisce, «un grosso deficit di coerenza», perché «una norma del genere fatta nel bel mezzo di una vicenda processuale che riguarda una persona, è una legge ad personam. Evidentemente Fli non ha fatto questa valutazione e a me sembra un elemento di incoerenza». Non va per il sottile Antonio Di Pietro, secondo cui il voto di ieri «smaschera il finto ritorno alla legalità di Fli. È squallido continua l’ex pm non ciò che ha fatto la maggioranza berlusconiana ma l’apprezzamento della maggioranza finiania», quella stessa che a Mirabello «aveva detto di non poter più seguire Berlusconi sui temi della moralità». Di Pietro ritira fuori anche il milione di firme raccolte la scorsa estate per il referendum e, dice, stavolta saranno gli italiani «ad assumersi la responsabilità» di vivere in una democrazia «o in un regime».
Più misurato Pierferdinando Casini, Udc, che definisce «una scelta sbagliata» il voto in Commissione, ma aggiunge anche che il suo partito non si metterà di traverso sulla strada del Lodo, «al Senato ci asterremo». Seguendo il filo logico dei suoi pensieri l’ex presidente della Camera parte da una constatazione: l’«anomalia italiana», cioè un premier che nel cassetto ha diversi procedimenti a suo carico, e tira le somme le somme: «Si tratta appunto di un’anomalia e quindi la retroattività è un errore, ma non metteremo veti sul Lodo Alfano, perché la nostra intenzione è di dare un segnale di stabilità e tentare di rimuovere il macigno dei processi del premier una volta per tutte».
Dice «no» Pino Pisicchio, dell’Api, secondo il quale discutere di «uno scudo processuale per i vertici dello Stato», non può tradursi di fatto in un’«immunità sempiterna». L’emendamento approvato ieri Pisicchio lo legge come «un grazioso cadeau nella lunga serie dei provvedimenti “berlusconiani”», mentre per la presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, «è l’ennesimo schiaffo alla giustizia del nostro paese».
Il portavoce Idv Leoluca Orlando, chiama in causa il presidente Napolitano: «Trovi il modo per non coinvolgere la presidenza della Repubblica in questa immorale proposta. Credia-
mo e chiediamo che Napolitano sappia trovare le forme più opportune per tenere il Quirinale fuori da questa norma scellerata». Dal Colle parte una nota nella quale tra l’altro si ribadisce che «la Presidenza della Repubblica resta sempre rigorosamente estranea alla discussione» di qualunque proposta di legge o di una sua norma. Giulia Bongiorno, fedelissima di Fini, respinge le accuse, non è cambiato nulla nel Lodo, era già decisa la linea di Fli. Sarà anche così, ma oggi il suo gruppo è nella bufera.

l’Unità 20.10.10
Bersani chiama le parti sociali «E l’anno prossimo saremo al governo»
Mentre cala la fiducia degli italiani nel premier, ormai al 37%, Bersani convoca le parti sociali per illustrare le proposte del Pd per far ripartire il Paese. E brinda:«Il prossimo compleanno a Palazzo Chigi».
di Maria Zegarelli


Silvio Berlusconi avrà fatto gli scongiuri quando gli hanno riferito di quel brindisi di ieri mattina al Nazareno. A stappare lo spumante italiano davanti ai suoi collaboratori, Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd che lavora all’alternativa ma anche al governo di transizione. «Il prossimo compleanno lo festeggeremo al governo», ha detto il leader Pd festeggiando con tre settimane di ritardo il suo compleanno perché il 29 settembre alla Camera si votava la fiducia al premier e certo non era aria.
SILVIO MAI COSI “SFIDUCIATO”
Ottimista Bersani, nel giorno in cui l’ultimo sondaggio Ipr marketing per «Repubblica.it» registra un ulteriore calo di fiducia nei confronti di Silvio Berlusconi, mai così in basso: 37%, due punti sotto rispetto ad un mese fa, una caduta vertiginosa rispetto al 53% del 2009. Male lui, male il Pdl, meno 5% e male il governo, gli italiani si fidano sempre meno. Stabile il Pd al 27, un po’ meno l’Idv.
Ma adesso il segretario deve fare un salto oltre le polemiche nate per la manifestazione di sabato scorso della Fiom che hanno coinvolto non solo il Pd al suo interno, ma ancora una volta i sindacati. Bersani è convinto l’unità sarà raggiungibili soltanto rimettendo al centro del dibattito i temi del paese reale: per questo ha convocato per il 16 novembre le parti sociali alle quali presenterà la piattaforma Pd su fisco e crisi. « Ai piani alti della politica non c’è idea di cosa sta succedendo. Arriverà un altro colpo all’occupazione e ai servizi pubblici, c’è una preoccupazione molto forte e bisogna dare concretezza alla politica», ha detto ieri dopo l’incontro con i segretari regionali. Il 16 ci saranno Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Abi, Rete Imprese Italia, Lega Coop, Confcooperative, Cia e Confagricoltura. «Noi siamo impegnati a fare ogni sforzo per riportare l’agenda politica sui temi reali, altrimenti lo scollamento tra politica e società si allarga», spiega Bersani, che continua a sperare nella riunificazione del mondo del lavoro e del sindacato e della rigidità che arriva dalla Cisl. Ieri Beppe Fioroni è andato con una trentina di parlamentari a portare la solidarietà a Raffaele Bonanni, il sindacalista ha apprezzato molto, «è stato un sasso nello stagno», ma non ha risparmiato critiche.
Parlando da Chianciano, ha anche rincarato la dose, verso il segretario Pd: «Qualcuno che è stato molto indulgente con la piazza di sabato è lo stesso che ha fatto liberalizzazioni con le Ferrovie, con le Autostrade, con la telefonia, che non hanno mai tenuto conto dell’universalità dei servizi e quindi dei diritti dei lavoratori. Mi meravigliano i riformisti della domenica, coloro che sono democratici e riformisti, che danno un colpo al cerchio e uno alla botte». Nessuna risposta dal Nazareno, la linea di Bersani resta quella di non fomentare le polemiche, ma in segreteria ha ricordato che compito di un partito non è quello di aderire o meno alle manifestazioni sindacali, il Pd è partito di governo e si definisce per il patto sociale che propone.

l’Unità 20.10.10
Le ricette della sinistra? Sono scadute da un secolo
La gestione delle economie non è più in mano ai governi nazionali: per questo non ha senso oggi proporre soluzioni che andavano bene nel Novecento. La crisi globale impone risposte nuove
di Vincenzo Visco


Delusione globale
Le politiche delle sinistre negli anni
Novanta erano basate sull’ipotesi che
la globalizzazione fosse un processo
vantaggioso. Purtroppo le cose sono
andate in maniera diversa

Combattere la paura
Rimettere al centro la questione del
lavoro e dell’occupazione. E parlare
con la gente per evitare una ulteriore
regressione nella paura. Le forze per
farlo ci sono: sta a noi attivarle

Non sembra proprio che le sinistre riformiste – il centrosinistra – godano di buona salute nei Paesi avanzati dell’occidente. Peraltro neanche le sinistre più radicali stanno molto meglio, né sembrano aver molto da dire. Il processo dura da alcuni anni e ha trovato il suo culmine nelle crescenti difficoltà della amministrazione Obama e nella esplosione di movimenti populisti radicali in tutti i Paesi. Anche le difficoltà del Pd vanno iscritte in questo contesto. Il dibattito interno ai diversi partiti mostra il tentativo di aggiustare il tiro rispetto alle politiche tradizionali che hanno prevalso negli ultimi dieci anni: in questa direzione vanno l’annunciato abbandono di Summers negli Stati Uniti e la vittoria di Ed Miliband nella contesa per la leadership del partito laburista inglese, ma le stesse tematiche sono in discussione in Francia, in Germania e, forse in modo meno esplicito e consapevole, anche nel Pd italiano. L’orientamento che oggi prevale – a fatica – indica quello che secondo definizioni tradizionali potrebbe essere definito un leggero spostamento “a sinistra”.
All’origine di tale evoluzione vi è il fatto che la crisi finanziaria, la recessione, i problemi posti dalla immigrazione, la disoccupazione, la delocalizzazione crescente di imprese e produzioni, hanno messo in discussione i fondamenti delle politiche delle sinistre degli anni ’90 che, piaccia o no, erano basate sull’ipotesi che la globalizzazione fosse un processo, non solo inarrestabile, ma potenzialmente vantaggioso per tutti: un gioco a somma positiva, insomma; e che la costruzione di società multietniche e pacifiche fosse possibile, anzi a portata di mano. Le sinistre hanno quindi adottato in quel periodo politiche di risanamento finanziario, di liberalizzazione dei mercati, di privatizzazioni, nella convinzione che la globalizzazione potesse essere governata e portare benefici consistenti e generalizzati.
E non è un caso che l’esempio più importante di un processo di integrazione economica regolata, “virtuosa”, l’Unione Europea e l’euro, fu sostenuto fortemente dalle classi dirigenti, dai governi (di centrosinistra) e dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi europei.
Purtroppo le cose sono andate in modo del tutto diverso: l’integrazione politica dell’Europa si è arrestata per l’opposizione di Blair e Aznar, e per il nazionalismo dei Paesi ex-socialisti, ammessi con troppa rapidità nell’Unione. La gestione economica di Bush ha accentuato la crescita di enormi interessi finanziari che hanno condizionato la politica degli Stati Uniti all’interno e all’estero prima di sfociare nella catastrofe del 2007-2008. Ma l’incapacità delle sinistre di cogliere per tempo la direzione effettiva dei processi e i rischi connessi è stata evidente, e in qualche modo persiste tuttora.
La conseguenza all’interno dei singoli Paesi sviluppati è stata che, a fronte della crescita economica dei cosiddetti “BRICS” (effetto positivo della globalizzazione), le disuguaglianze interne sono aumentate, le classi medie sono state drasticamente ridimensionate, i salari e le retribuzioni sono cresciuti poco o hanno stagnato, i lavori precari si sono diffusi, i sindacati hanno perso peso e funzione, e i tradizionali spazi democratici si sono ridotti. Il tutto è l’effetto della illusione, frutto della cultura economica prevalente, che i mercati potessero fare il lavoro da soli e che non vi fosse bisogno di una direzione politica di un processo così complesso e contraddittorio, a cominciare da un nuovo sistema monetario internazionale, e dalla regolamentazione delle grandi banche.
Siamo così passati da una bolla ad un’altra, da una crisi finanziaria all’altra, fino al recente crollo, mente l’incertezza e la paura si diffondevano nei nostri Paesi, creando reazioni irrazionali, localismi inconcludenti e lo sfarinamento delle forze politiche tradizionali.
È tutto questo che sta dietro la crisi della sinistra. Con un rischio ulteriore: quello di regredire sulle posizioni tradizionali delle sinistre (ma anche dei partiti di ispirazione cristiana) del ‘900, posizioni e soluzioni che andavamo bene allora, ma che non possono essere replicate oggi, proprio perché la gestione delle economie non è più in mano ai governi nazionali. Siamo quindi in una empasse politico-culturale evidente, che fa sì che alcuni ripropongano anche oggi i precetti e i paradigmi del blairismo, della terza via, del liberismo economico, del superamento del binomio destra/sinistra, come se queste posizioni non dovessero fare i conti con quanto accaduto negli ultimi tre anni. Dall’altra parte, viceversa, l’elaborazione è tuttora limitata e carente: negli anni ’30 del secolo scorso c’erano Keynes e le sue teorie, oggi frammenti di pensiero e di proposte. Qui sta la difficoltà che si riflette anche nella faticosa ed incerta ricerca di alleanze sociali e politiche.
Al tempo stesso le autorità economiche e finanziarie del Fondo monetario internazionale alla Commissione Europea, continuano ad avanzare proposte e ipotesi iper-ortodosse che potrebbero portare le economie dell’occidente a un lungo periodo di stagnazione, al riemergere di posizioni protezionistiche, e a svalutazioni competitive. A tutto ciò in Italia si devono aggiungere i nostri problemi strutturali specifici che si trascinano senza soluzione ormai da 30 anni, e che hanno prodotto il berlusconismo e la crisi della nostra democrazia.
Si tratta quindi di fare i conti con una situazione molto complessa. Tuttavia l’attuale afasia della sinistra non può far dormire sonni tranquilli alle destre che si trovano a dover affrontare una situazione molto seria con strumenti e ricette datati e di più che dubbia efficacia. È necessario un forte impegno di studio ed elaborazione, senza nostalgia delle ricette passate, ma guardando avanti, cercando di dare un contributo al dibattito sugli assetti economici internazionali per facilitare una sua evoluzione positiva. È giusto rimettere al centro la questione del lavoro, e dell’occupazione. Al tempo stesso bisogna anche saper parlare con la gente non solo per capirne i bisogni reali, ma anche per evitare una ulteriore regressione nella paura e nella chiusura. Le forze disponibili per questo lavoro ci sono: sta a noi attivarle.

l’Unità 20.10.10
Il delitto di Maricica e i ragazzi del muretto figli dei pregiudizi


Poche ore dopo la morte di Maricica Hahaianu, il sindaco di Roma Alemanno annunciava l’intenzione del Comune di Roma di costituirsi parte civile, aggiungendo che si deve superare «ogni pregiudizio» verso la comunità rumena. Nel vicino quartiere di Cinecittà, gli amici di Alessio Burtone, l’aggressore di Maricica, esprimevano solidarietà ricorrendo a maldestre difese, come quelle riportate da questo giornale: «che dovremmo dire noi che i mariti delle romene stuprano le nostre ragazze” oppure “quella poteva avere nella borsa un ombrello”. Intendiamoci: bene ha fatto il sindaco di Roma a offrire solidarietà; così come appaiono per quello che sono le parole dei giovani di Cinecittà: pregiudizi, talmente inefficaci come attenuanti da rivelarsi paradossalmente aggravanti, qualora assunti come difesa. Quello che colpisce è, piuttosto, il richiamo all’ombrello, vale a dire alla vicenda di Doina Matei, la giovane rumena responsabile – di nuovo la scena è il metrò di Roma – della morte di un’altra giovane, Vanessa Russo. Nello spazio temporale (2007-2010) tra i due episodi, accomunati da evidenti somiglianze (l’irreparabilità della morte, la rovina dei due responsabili “preterintenzionali”) ci sono le tante parole pronunciate da istituzioni, autorità pubbliche, esponenti della politica, compreso il sindaco di Roma. Un tempo durante il quale l’intera comunità rumena (o buona parte di essa) è stata dipinta come causa di degrado, insicurezza, pericolosità sociale. Così come insicura e aggressiva è stata dichiarata la città nella quale sono avvenuti i due episodi. Difficile, poi, far capire ai ragazzi del muretto di Cinecittà, quanto poco quei pregiudizi possano aiutare Alessio Bur-
tone.

il Fatto 20.10.10
Maricica? “Colpa dei romeni”
Il giorno dopo l’arresto di Burtone il quartierecontinua a difenderlo
La stampa di Bucarest: “Gli italiani applaudono un assassino che per giunta rideva”
di Luca De Carolis


Quartiere Don Bosco, il giorno dopo. Sono passate solo poche ore da quando il 20enne Alessio Burtone è stato coperto di applausi all’uscita del suo palazzo mentre i carabinieri lo portavano nel carcere romano di Regina Coeli (dove è in isolamento), perché reo di aver sferrato un pugno all’infermiera romena Maricica Hahaianu, morta venerdì scorso. Poche ore che sembrano un mese, perché in questo pezzo di periferia est di Roma il tempo scorre molto più veloce. La gente ha voglia di lasciarsi alle spalle una brutta storia e chi si ostina a raccontarla. “Abbiamo già detto tutto, lunedì voi giornalisti eravate un esercito e c’avete stressato” ti rispondono le signore con la sporta e l’aria di chi ha altro a cui pensare.
CINECITTÀ, con il suo nome che evoca il film di Fellini e sogni in produzione industriale, è a pochi passi. Ma nei quartieri popolari il tempo per fantasticare non abbonda. E i giri di parole sono materia sconosciuta. Un gruppo di ragazzi, radunato in un bar vicino alla basilica di Don Bosco, mette subito le cose in chiaro: “Lunedì siete venuti in tanti e poi avete scritto tutte cose false. Come facciamo a fidarci di te?”. Uno sibila: “Voi giornalisti siete solo degli infami”. Ma dietro agli insulti c’è la voglia di parlare e di non essere traditi. E allora raccontano: “Noi siamo amici di Alessio, lunedì siamo andati ad applaudirlo per fargli capire che gli siamo vicini. Lui non voleva uccidere quella donna, ne siamo sicuri, è stato sfortunato. Quello non era un pugno, le ha dato solo una manata. E poi lei l’aveva provocato e gli aveva sputato, lo dicono pure i testimoni. Eppure a prendere Alessio sono venute cinque volanti: sembrava che venissero ad arrestare Totò Riina”.
Si informano, i ragazzi di Don Bosco. Citano i giornali da cui si sentono ingannati. Precisano: “Hanno scritto che gridavamo ad Alessio ‘ammazzane un’altra’, ma non è vero, non l’ha detto nessuno”. Il ragazzo però sorrideva, sotto il cappuccio della felpa. Replica in coro: “Non rideva perché è cattivo, rideva perché ci ha sentito, ha visto i suoi amici. A te non farebbe piacere?”. E la donna romena? “Non siamo contenti, ma i romeni che stuprano le ragazze escono di galera dopo due mesi. Ti pare giusto?”.
La casa dei Burtone è poco più avanti. Il palazzo ha l’intonaco scrostato e tante scale, da classico “alveare”. Al citofono, diversi cognomi stranieri. Il bar all’angolo, Dolcitalia, è gestito da un egiziano, Esam. “Io conosco bene Alessio, l’ho visto crescere, è un bravissimo ragazzo e la sua è una buona famiglia” assicura, per poi aggiungere: “Lui e quella donna sono stati sfortunati. Mi dispiace per la signora, ma è stata una lite, Alessio non voleva uccidere”. Pochi attimi, ed Esam si sfoga: “Gli applausi? Non so che dire, ma so che i romeni qui si comportano come i padroni. Non sono civili: quando entrano nel mio bar non dicono neanche buongiorno”.
ALLA FINE, l’ostilità contro gli immigrati dalla Romania è il filo conduttore che tiene assieme i commenti di giovani e signore, di immigrati e padri di famiglia. “Ti danno una botta in autobus e manco chiedono scusa” si accalora una donna. L’ennesima conferma che i romeni sono ancora sinonimo di minaccia, nella Roma multietnica. Casi come quello di Vanessa Russo, la ragazza uccisa con un ombrello in metropolitana da una romena, o di Giovanna Reggiani, violentata e uccisa dal rom Nicolae Mailat a Tor di Quinto, hanno scavato un altissimo muro di rancori e sospetti. Il presidente del X Municipio, Sandro Medici, giornalista, sospira: “Gli applausi a Burtone mi hanno sorpreso. Non tanto quelli dei ragazzini, che hanno un immaginario da stadio, ma quelli degli adulti. Il messaggio era: il ragazzo avrà anche fatto un grande errore, ma lei era pur sempre una romena. Trabocca un razzismo latente, quasi ossificato”. Domani Medici e la maggioranza di centrosinistra proporranno in Consiglio di dedicare a Maricica il piazzale dell’Anagnina, a pochi metri da dove è crollata a terra. Il capogruppo del Pdl in Municipio, Pino Antipasqua, non è contrario: “Ma preferirei un luogo più educativo, come un parco o una scuola. Gli applausi? Sono il segno della mancanza di valori, qualcosa su cui riflettere a lungo”. Intanto dalla Romania rimbalza la rabbia di giornali e blog: “Gli italiani applaudono un assassino, che per giunta rideva”. C’è chi fa notare come “dopo ogni delitto attribuito ai romeni le loro foto sono ovunque, mentre nel caso di Maricica non è successo”. Alcuni parlamentari del Pd hanno presentato un’interrogazione sugli applausi. Telegrafico il sindaco di Roma, Alemanno: “Comprendo che ci sia una solidarietà che prevale su considerazioni oggettive, ma il ragazzo è in carcere e non c’è nulla da dire”.


Corriere della Sera 20.10.10
«Eterni stranieri, quindi colpevoli»
Il sociologo polacco Zygmunt Bauman su diaspore e Stato contemporaneo
di Maria Serena Natale


Precarietà esistenziale, migrazioni incrociate, paura dello straniero. Zygmunt Bauman, l’eminente sociologo polacco teorico della «modernità liquida» nata dalla fine delle «grandi narrazioni», inquadra il caso rom nella riflessione sull’«età delle diaspore e il sentimento d’incertezza che caratterizza le nostre società, diventato fonte di legittimazione alternativa per lo Stato contemporaneo».
Professor Bauman, quali meccanismi vede dietro la linea dura di Sarkozy?
«Additare lo straniero come responsabile del malessere sociale sta diventando un’abitudine globale. Nel caso delle espulsioni è in gioco il conflitto inseriti-outsider esaminato mezzo secolo fa da Norbert Elias: più di amici e nemici, gli outsider sono imprevedibili, il senso d’impotenza che deriva dall’incapacità di intuire le loro risposte ci umilia». Con i rom la dinamica è amplificata? «Sì, perché sono percepiti come perpetui stranieri, colpevoli fino a prova contraria, preceduti da storie di criminalità più o meno accertate ma assenti dai luoghi deputati alla formazione delle opinioni, privi di élite capaci di promuovere le ragioni delle comunità».
Le ansie legate ai flussi migratori sono un tratto dominante di quella che lei descrive come una diaspora universale.
«Oggi assistiamo a ondate migratorie organizzate per arcipelaghi planetari e interconnessi di insediamenti etnici, religiosi, linguistici. Ogni Paese è virtualmente bacino di emigrazione e meta di immigrazione, le rotte non sono più determinate da legami imperial-coloniali: queste diaspore frammentate e trasversali ci impongono di ridefinire il rapporto tra identità e cittadinanza, individuo e luogo fisico, vicinato e appartenenza». Come risponde la politica? «Lo Stato contemporaneo proclama come primo compito del potere la rimozione dei vincoli alle attività orientate al profitto. Diventa così prioritario per i governi trovare al senso di vulnerabilità dei cittadini cause non riconducibili al libero mercato ma a rischi di altra natura. La priorità è la sicurezza, minacciata da pericoli per la persona fisica, la proprietà e l’ambiente che possono venire da pandemie, attività criminali, condotte anti-sociali di sottoclassi, terrorismo globale ma anche da gang giovanili, pedofili, stalker, mendicanti, regimi alimentari insani».
Uno stato d’allerta permanente. «Nel quale è impossibile sapere dove e quando le parole diventeranno carne. La mancata materializzazione di una catastrofe paventata è presentata come il trionfo della ragione governativa su un fato ostile, risultato di vigilanza e cura delle autorità».
Come va ridefinito il patto sociale?
«La migrazione universale porta in primo piano e per la prima volta nella storia l’arte del convivere con la differenza. Un’alterità non più concepita come transitoria richiede un ripensamento delle reti sociali, più tolleranza e solidarietà, nuove abilità e competenze».
E come s’innesta questa differenza radicale sul terreno del multiculturalismo?
«Forme di vita antagoniste si fondono e separano in una generale assenza di gerarchie: non valgono più ordini di valori consolidati né il principio di evoluzione culturale ma si sviluppano battaglie per il riconoscimento interminabili e non dirimenti». In che modo risponde la democrazia? «Ha abdicato alla funzione di scoraggiare il ritrarsi dei singoli nella sfera privata, rinunciato a proteggere il diritto delle minoranze a una vita dignitosa. La democrazia non può fondarsi sulla promessa dell’arricchimento. Il suo tratto distintivo è rendere servizio alla libertà di tutti. Ha di fronte una sfida senza precedenti: elevare i principi della coesistenza democratica dal livello degli Stati-nazione a quello dell’umanità planetaria».

Repubblica 20.10.10
Quell'applauso ad Alessio che ferisce i romeni
di Chiara Saraceno


Non ho dubbi che Alessio Burtone non intendesse uccidere l´infermiera romena quando le ha sferrato un pugno nel metrò di Roma. Ma lo stesso vale forse per la giovane romena che qualche anno fa colpì con l´ombrello un´altra giovane donna, italiana, perforandole un occhio e causando così un´emorragia violenta che provocò una morte quasi immediata.
Eppure, la reazione dell´opinione pubblica, dei politici, persino dei cosidetti "esperti" è stata molto diversa. Gli applausi ad Alessio Burtone quasi che fosse un eroe vendicatore e gli insulti ai carabinieri che lo portavano in carcere sono speculari al modo in cui fu invece trattata la giovane rumena diventata assassina per un gesto maldestro: accusata di essere una belva violenta e assetata di sangue. E l´episodio fu subito inquadrato come esempio della pericolosità dell´immigrazione, in particolare rumena, di "loro" contro "noi. Tantomeno ci fu chi, tra politici e penalisti, sollevò la questione della giovane età, della vita rovinata per un gesto inconsulto, nonostante la dura condanna della giovane donna a molti anni di carcere privasse una bambina della presenza della madre. Sono assolutamente d´accordo: un omicidio preterintenzionale va considerato diversamente da un omicidio intenzionale. E a chi è giovane deve essere lasciata aperta la via per recuperare, per non perdere del tutto la propria vita, specie se le conseguenze sono andate molto al di là delle intenzioni. Ma ciò deve valere per tutti. Nessuno invece ascoltò a suo tempo la giovane rumena. Nessuno prestò fede al suo sbalordimento e al suo pentimento. Perché era una rumena, per definizione pericolosa e soprattutto estranea: facile capro espiatorio di tutte le paure e insicurezze.
Sbaglia Fini a considerare l´episodio della solidarietà scomposta al giovane romano solo un esempio della violenza urbana, senza connotati etnico-razziali. Non si tratta solo dell´omertà con cui sono stati protetti gli aggressori del tassista milanese. La solidarietà qui è provocata innanzitutto dalla nazionalità della vittima: immigrata, rumena, che non sapeva stare al proprio posto. Più simile, nell´immaginario distorto continuamente alimentato da un discorso pubblico troppo spesso irresponsabile, alla giovane assassina preterintenzionale di qualche anno fa, che non alla sua vittima.
Questo discorso pubblico, che usa scientemente la paura e la stereotipizzazione dell´altro, che distingue vittime e carnefici a seconda della nazionalità, sta lentamente corrodendo il senso comune civile ed ha effetti devastanti su chi manca di adeguati strumenti di auto-controllo.

Repubblica 20.10.10
La proposta shock di un deputato: "Sono ostili allo Stato d´Israele" Polemiche e marcia indietro. Ma quella legge è soltanto congelata
"Fermate le guide arabe" e Gerusalemme si divide
di Alberto Stabile


Ma lui tenta di difendersi: "Presentano spesso posizioni anti-israeliane ai turisti che accompagnano"
Bufera sul primo firmatario, l´ex ministro dell´Interno Gideon Ezra. Le ong accusano: "È una discriminazione"

Col turismo in Città vecchia ci campano tutti, da sempre, amici e nemici, israeliani e palestinesi. Ma adesso sembra arrivato il momento che le guide arabe di Gerusalemme est debbano rinunciare alla loro fettina di torta turistica. Perché così ha deciso Gideon Ezra, deputato di Kadima, opposizione di centro, autore di una proposta di legge che vieta agli arabi di accompagnare i turisti in uno dei più bei "suq" del Medio Oriente. Forse che le guide arabe non sono qualificate? No. Semplicemente, opina Ezra, «sono ostili allo stato d´Israele».
Anche se ha già trovato numerose adesioni tra i deputati della Knesset, la proposta è di quelle destinate a suscitare polemiche e divisioni. È evidente il suo significato discriminatorio nei confronti di una categoria di cittadini che ha l´unico torto di essere nata nella parte sbagliata di Gerusalemme. Tuttavia, almeno nell´immediato futuro non diventerà una legge, dal momento che lo stesso Ezra, in un soprassalto di cautela, ha deciso di "congelarla" per non turbare il difficile, moribondo negoziato di pace tra israeliani e palestinesi.
Un ulteriore motivo oggettivamente a favore del "congelamento" della progetto di legge, sta nel fatto che oggi si apre a Gerusalemme il vertice dell´Organizzazione per la Cooperazione economica e lo Sviluppo (Ocse), cui lo Stato ebraico è stato ammesso a far parte soltanto dal maggio scorso. Guarda caso, il tema dell´incontro è centrato sul "turismo verde".
Forse anche il deputato di Kadima ed ex ministro dell´interno, s´è lasciato trascinare dal desiderio di protagonismo che sembra colpire di questi tempi più d´un esponente politico della destra. Come, ad esempio, il ministro del Turismo, Stas Meseznikov, che ha quasi mandato a monte l´esordio d´Israele al vertice dell´Ocse, dichiarando che il sito prescelto per la riunione dell´Organizzazione rappresentava di per sé il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d´Israele. Riconoscimento che, come è noto, non c´è mai stato da parte della stragrande maggioranza dei paesi. Smentita è correzione, prontamente rese note, non hanno impedito a Inghilterra, Spagna di annunciare la loro non partecipazione al vertice.
Sta di fatto che, a leggere l´introduzione alla proposta di Gideon Ezra, c´è da pensare che sia più un testo unico di polizia che una legge sul turismo. Israele, vi si dice, ha un imponente patrimonio turistico. E va bene. Spesso vi sono disaccordi su come illustrare questi siti dal punto di vista storico, religioso, culturale. E Gerusalemme è uno di questi luoghi controversi. Ok, questa è la culla del conflitto. Ma subito dopo, ecco il giudizio (o pregiudizio) fulminante: alcuni dei residenti d´Israele, come quelli di Gerusalemme Est (la parte araba della città) hanno «una doppia lealtà», dal momento che votano alle elezioni dell´Autorità palestinese.
Ora, a parte il fatto che soltanto a una frazione degli abitanti di Gerusalemme est è stato permesso di votare, cosa c´entra la presunta "doppia lealtà" con il turismo? «Questi residenti spesso presentano posizioni anti-israeliane ai gruppi di turisti che guidano», dice il testo. Ragion per cui, «per assicurare che i turisti stranieri siano esposti al punto di vista nazionale israeliano noi suggeriamo che i gruppi siano accompagnati da guide che siano cittadini israeliani ed abbiano una lealtà istituzione verso lo stato d´Israele». Cioè, per esseri sicuri al cento per cento, ci vogliono delle guide in uniforme, o quasi.
Intanto, può bastare chiedere alle agenzie turistiche di offrire a tour operator soltanto guide israeliane con tanto di certificato di cittadinanza così, in sostanza, impedendo agli "arabi" di accompagnare i turisti in città vecchia. Ma, già che ci siamo, perché, non applicare la stessa discriminante anche contro i proprietari dei negozi di tappeti, o i ristoratori, o i venditori di spremute, al 90 per cento cittadini arabi di Gerusalemme est?
«Mi è molto chiaro - ha spiegato il primo firmatario della proposta - che vi sono guide turistiche ostili allo stato di Israele e a Gerusalemme. Tra l´altro, loro sono gli accompagnatori più a buon mercato. Ma non voglio urtare i colloqui e non proporrò il progetto nel prossimo futuro».
Seppure messa momentaneamente in congelatore, la proposta di Ezra ha già suscitato le prime reazioni contrarie. "Ir Amin", una ong di Gerusalemme che predica la coesistenza, ha dato voce alle 300 guide arabe, tutte regolarmente autorizzate dal Ministero del Turismo, le quali temono di perdere il lavoro. Ma c´è anche chi vede nel disegno di legge, un ulteriore passo verso la completa "israelizzazione" di Gerusalemme est, assieme all´emarginazione della minoranza araba.

il Fatto 20.10.10
Piazza grande
La Piazza Fiom: cosa viene dopo
di Paolo Flores d’Arcais


I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile

Maurizio Landini ha fatto un discorso da leader sindacale tutto concretezza e sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”

Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.
COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile. Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori. Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica... Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale. Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.
PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.). Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”.
SECONDO , la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”). Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc. Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione.
TERZO , l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati. Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment. È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini. Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.
MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale. Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.
LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce. Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi. Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA. Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano compensati da “più tasse per i ricchi”.
ECCO PERCHÉ , nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro).
LA LEZIONE ella Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto. Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”.
QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo. Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile. E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”. Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia.

Repubblica 20.10.10
Pillola abortiva, Italia a due velocità boom in Liguria e nel Lazio niente
A 6 mesi dall´introduzione del farmaco, ecco l´impiego che se ne fa
Tecnica utilizzata in pochi ospedali In alcune regioni le ordinazioni sono pressoché nulle
Dove la Ru486 è in uso, la maggior parte delle donne rifiuta il ricovero e torna a casa
di Michele Bocci


In alcune regioni l´aborto farmacologico è negato alle donne. E anche in quelle dove si può fare, spesso è praticato solo in pochi ospedali. La Ru486 ha spaccato, una volta di più, la sanità italiana. In questo caso non è solo un problema di qualità dell´assistenza ma anche di scelte politiche. In certe realtà la pillola non è gradita. In Calabria e in Abruzzo, ad esempio. Oppure nel Lazio, dove fino a ora sono state ordinate 15 confezioni, cioè 5 ciascuna in tre strutture: l´ospedale di Ostia e il Pertini e il Forlanini di Roma. Probabilmente non sono nemmeno state usate tutte visto che il distributore, la Nordic Pharma, non ha ricevuto altre richieste.
Sono passati sei mesi da quando è stata avviata la commercializzazione del medicinale più discusso della storia del nostro Paese. Un primo bilancio racconta che il sistema non viaggia ancora a pieno regime. Fino a oggi sono state ordinate 3.304 confezioni dagli ospedali italiani, e ovviamente non sono ancora state usate tutte. Difficile che il numero raddoppi nei prossimi sei mesi. In molti infatti hanno fatto un solo ordine, segno che l´utilizzo non ha preso il via. È il caso della Sardegna (52 confezioni), dell´Abruzzo (15), dell´Umbria (11), della Calabria e delle Marche (5). Ma anche le 120 confezioni della Sicilia sono poche, come le 129 del Veneto. In Italia ogni anno si fanno circa 30mila interruzioni di gravidanza prima della settima settimana, cioè il tempo massimo entro cui può essere somministrata la Ru486. A questi ritmi difficilmente l´aborto farmacologico sostituirà quello chirurgico in buona parte del Paese, come ad esempio è avvenuto in Francia.
Dove la Ru486 si usa, la maggior parte delle donne dopo averla presa non resta in ospedale, disattendendo le indicazioni di ministero e Consiglio superiore di sanità che hanno chiesto il ricovero ordinario. In Emilia e in Toscana perché queste regioni hanno previsto il day hospital; in Piemonte, Liguria, Lombardia, Puglia perché le pazienti firmano e tornano a casa. «Abbiamo usato 400 pillole - spiega Silvio Viale, ginecologo radicale del Sant´Anna di Torino - Solo 16 pazienti, il 4%, sono rimaste in ospedale tra somministrazione e espulsione. Abbiamo fatto in tutto 24 revisioni chirurgiche perché la Ru486 non è bastata. Siamo in linea con i dati francesi». Nicola Blasi, primario al policlinico di Bari, resta praticamente l´unico al sud a usare la pillola abitualmente: «Su 200 donne trattate, ne sono rimaste qui una o due». A spiegare quello che sta succedendo nel Lazio è Mirella Parachini, ginecologa dell´associazione Luca Coscioni del San Filippo Neri di Roma. «La Regione ha previsto un percorso complesso, tra ricovero e letti particolari. Si tratta di un ostracismo. Alle tante donne che ci chiedono di usare la Ru486 consigliamo Bologna. Si nega un farmaco che potrebbe essere utile anche per gli aborti terapeutici dopo il terzo trimestre. Quelli di chi ha fortemente voluto un figlio ma ha scoperto malformazioni gravissime». Quirino Di Nisio è il responsabile della ginecologia di Pescara. In Abruzzo sono state ordinate solo 15 confezioni. «Userei molto volentieri la pillola ma non abbiamo strutture per fare il ricovero e la Asl non ce le mette a disposizione - spiega - Il fatto che altrove le donne firmino per andarsene è un´irregolarità. La nostra Regione, poi, non ha le linee guida, c´è un boicottaggio del farmaco. Del resto qui l´istituzione è piuttosto latitante».

Repubblica 20.10.10
Fecondazione assistita in Polonia la Chiesa minaccia scomuniche
Nel mirino chi vota la legge. Il governo: "È un ricatto"
di Andrea Tarquini


Lo scontro avvelena il clima tra il liberal Tusk e il clero. Ieri un attentato al partito di Kaczynski

BERLINO - Nella cattolica ma moderna Polonia esplode un conflitto Stato-Chiesa senza precedenti da quando, con la rivoluzione non violenta del 1989, Varsavia conquistò la democrazia. La conferenza episcopale minaccia di scomunica i parlamentari che voteranno qualsiasi legge a favore della fecondazione in provetta. «Denunciamo questo ricatto», ha replicato ieri Pawel Gras, portavoce del governo del premier liberal Donald Tusk. Nelle stesse ore, un grave fatto di sangue sconvolgeva il paese: un uomo, probabilmente squilibrato, armato di pistola e coltello, ha assaltato una sede del PiS, il partito nazionalpopulista e cattolico-conservatore d´opposizione, e ha ucciso una persona ferendone gravemente un´altra. «È il risultato della campagna d´odio contro di noi ispirata da Tusk», ha detto con pesanti accuse il leader del PiS, Jaroslaw Kaczynski.
Lo scontro sulla fecondazione assistita avvelena il clima tra il governo liberal di Tusk e la Chiesa. In una lettera aperta i vescovi definiscono la stessa fecondazione in vitro «una sorellina dell´eugenetica». Una durissima allusione alla politica nazista di selezione razziale con l´eliminazione delle persone ritenute "inferiori" dal Terzo Reich. I prelati mettono in guardia contro «l´adozione di ogni legge non compatibile sia con gli argomenti scientifici sull´inizio della vita biologica dell´essere umano, sia con le indicazioni morali dei Comandamenti e del Vangelo».
Pochi giorni fa, in un´intervista, il presidente della Conferenza episcopale, Henryk Hoser, aveva apertamente minacciato la scomunica: «Chiunque voterà leggi a favore della fecondazione in provetta - aveva detto - si metterà automaticamente fuori dalla Comunità della Chiesa». Per il premier Tusk, che non è anticlericale ma è deciso a continuare a passo di corsa la modernizzazione del paese, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Sono sorprendenti le minacce e i tentativi di pressione messi in campo per fermare quella legge», ha fatto dire al suo portavoce. Secondo il quale «ovviamente la Chiesa ha il diritto di esprimere la propria posizione, ma non dovrebbe mai farlo con toni così drastici».
In Polonia la fecondazione in vitro è già ampiamente praticata dalle coppie che non hanno altra scelta per mettere al mondo figli, ma non è regolamentata da leggi. Questa settimana il Sejm (Camera dei deputati) esaminerà alcune proposte di legge in merito. «Queste minacce - ha detto il portavoce di Tusk replicando alla Chiesa - accelereranno anziché fermare il processo legislativo».
In una società sempre più moderna, investita da un impetuoso sviluppo economico, la Chiesa ha perso terreno dopo la fine della guerra fredda e la morte di papa Wojtyla, e reagisce a volte al disagio del suo indebolimento con posizioni radicali. Contemporaneamente, a Lodz, un uomo armato, al grido di «morte a Kaczynski», ha assaltato una sede del PiS. Ha ucciso un politico 62enne, ferendo gravemente l´assistente di un deputato europeo. Kaczynski ha subito accusato il governo Tusk parlando di "campagna d´odio che equivale all´incitamento all´omicidio".

Corriere della Sera 20.10.10
«Ma che cos’è la verità?» E i filosofi iniziarono a litigare
di Armando Torno


Da sempre la domanda di Pilato divide i pensatori

È nota la domanda che Ponzio Pilato rivolse a Gesù nel pretorio: «Che cos’è la verità?». Dal Vangelo di Giovanni (18, 37-38) sappiamo che non ci fu una risposta. Forse perché mancò il tempo a causa dell’affanno del magistrato romano («E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei...») o perché quell’uomo che di lì a poco verrà crocifisso aveva già detto tutto. Fatto sta che la storia della filosofia, che dovrebbe essere anche la ricerca della verità, ha continuato per due millenni a rispondere al quesito. Senza trovare un accordo.
Certo, la domanda era già vecchia e intorno ad essa si erano azzuffati i greci. Ad Atene Platone, qualche secolo prima, aveva cercato in alcuni dialoghi, come il Cratilo e il Sofista, di stabilire cosa sia la verità; Aristotele, nella Metafisica, enunciò anche due teoremi sulla questione, ormai diventata complessa. Del resto, già tra i seguaci di Socrate circolavano rompicapo e paradossi, come quello di Eubulide di Mileto, noto come «sofisma del mentitore». Nella prima formulazione si presentava in questo modo: «Se menti dicendo di mentire, nello stesso tempo menti e dici la verità». Lo hanno ripreso anche i logici del Novecento. Intanto, stoici ed epicurei non stettero zitti e misero in campo questioni non proprio semplici; a Roma in molti credevano di saperlo, e taluni, qualche anno prima dell’era volgare, grazie a Lucrezio sostenevano che questa benedetta verità si dovesse cercare nelle sensazioni, che sono il manifestarsi stesso delle cose. Pilato, uomo da accampamento più che da biblioteca, pronunciò la domanda probabilmente senza accorgersi, anche se è diventata la più celebre della storia sull’argomento. E i pensatori ripresero sia i ragionamenti dei greci, sia il quesito evangelico.
Ora, un’Enciclopedia Filosofica come quella che stiamo presentando offre decine di voci che parlano della verità, forse perché in un mondo come il nostro non è facile stabilire cosa sia. Chi la dice? La televisione? I politici? Il Vaticano? I professori? La mamma? Quelli che credono di avere sempre ragione? Ci possiamo avvalere della facoltà di non rispondere, ma forse vale la pena ricordare che pur prescindendo dalle risposte dei Padri della Chiesa e dei teologi medievali, già tra la fine del XVI secolo e l’inizio del successivo Francis Bacon riprese il quesito evangelico nel saggio Della verità e sostenne che Pilato proferì le parole «scherzando», senza «aspettarsi una risposta». Tra i molti che ritornarono sull’argomento c’è Friedrich Nietzsche, il quale non poteva perdere un’occasione tanto ghiotta. Puntuale, nell’Anticristo, dopo aver sottolineato che «in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata», e questa è appunto Pilato, si scaglia contro la verità. In essa, diciamocelo senza infingimenti, egli non credeva, ritenendola un’invenzione della dialettica, della morale, di deboli e schiavi, insomma un prodotto che si sarebbe dovuto rottamare, e dell’episodio evangelico apprezza «il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola...». Søren Kierkegaard, qualche anno prima, aveva già rovesciato il problema nel suo Esercizio del cristianesimo: «Che a Pilato venga in mente di interpellare Cristo a quel modo, in quel momento, questo prova che egli non aveva assolutamente l’occhio fatto per la verità». Poi, con efficacia, parla della «confusione fondamentale della domanda», la quale non avrebbe potuto «essere più sciocca».
Se ne occuperà anche Oswald Spengler nella sua celebre opera Il tramonto dell’Occidente, vasto e ancora discusso lavoro che faceva venire il bruciore di stomaco a Benedetto Croce. Egli dirà con una frase che non lascia dubbi: «Nella famosa domanda... è contenuto tutto il senso della storia». Hans Kelsen, il giurista austriaco tra i più apprezzati del secolo scorso, esamina la scena ne I fondamenti della democrazia e, dopo aver notato che quel magistrato romano era un «relativista scettico», scrive: «Agì con assoluta coerenza, rimettendo la decisione al popolo». Insomma, Pilato si comportò da «democratico». Che dire? Innanzitutto che una risposta di Gesù a Pilato si legge in un apocrifo, il Vangelo di Nicodemo, e che sulla verità si è continuato a discutere e riflettere, da Machiavelli a Pinocchio, compreso un litigio che scoppiò alla fine del Settecento tra Constant e Kant su come e quando dirla. Per il primo si poteva fare qualche eccezione, per il secondo si doveva proferire sempre, anche davanti a un assassino. Come finì? La disputa non è ancora terminata. La verità va sempre in scena, con o senza Pilato.

Corriere della Sera 20.10.10
«Uno spettro si aggira per il mondo: sono io»
Salvatore Veca “intervista” Karl Marx


Veca — Buongiorno, signor Marx. E, prima di tutto, un grazie di cuore per aver alla fine accettato l’intervista. Confesso che è stato molto faticoso, e a un certo punto mi sembrava fosse proprio una mission impossible. In ogni caso, come mi ha chiesto, ho predisposto una decina di domande. Ma, se è d’accordo, mi piacerebbe cominciare con una sua battuta.
Marx — Se lei è convinto che sia una buona idea, la mia battuta preferita resta: Je ne suis pas marxiste. Mi ci sono proprio affezionato, perché in fondo mi è servita in molte circostanze imbarazzanti. E di circostanze imbarazzanti, com’è noto, ne ho vissute più d’una. Una delle ragioni del ritardo e del laborioso lavoro per arrivare alla sua intervista è appunto legata a circostanze francamente imbarazzanti. Mi creda, negli ultimi due anni, ho cominciato a ricevere una richiesta quotidiana di interviste. Mi sono dovuto documentare e ho scoperto che il mio faccione è tornato in giro per il mondo. Uno spettro s’aggira per il mondo e ha il nome di Marx. Di Karl, non di Groucho...
Veca — Qual è la massima fra le tante, che raccomanderebbe ancora oggi, nell’avvio ingarbugliato del ventunesimo secolo?
Marx — Non ho problemi a rispondere e sarò conciso. Infelicità è vivere nella necessità, ma non è necessario vivere nella necessità. Questo ci ha insegnato uno dei miei eroi classici, Epicuro. Solo un’avvertenza, in proposito. Non ho mai inteso questa superba massima in senso morale e tanto meno moralistico. L’ho sempre considerata come un invito perentorio al realismo, all’analisi concreta della situazione storico-sociale determinata e concreta. E così, continuo a pensare, dovrebbe essere considerata da qualsiasi essere umano, chiunque sia o ovunque gli accada di avere una vita con tanti altri.
Veca — Veniamo alla faccenda dei tempi della storia...
Marx — La questione è importantissima. Molto più della pappa dei nostri sentimenti morali. Il materialista storico è uno che ha il dovere intellettuale e scientifico di scrutare i segni dei tempi, con un fiuto particolare per la loro stratificazione ed eterogeneità. Altro che la presunta mancanza di immaginazione del materialista storico, di cui mi ha accusato il critico critico Karl R. Popper. Il critico critico, un professore che insegnava dalla cattedra della London School Metodo scientifico, continuando a ripetere con convinzione che la sua fosse una materia evanescente, anzi inesistente, sostiene che la miseria del materialista storico, la miseria dello storicismo coincide con la mancanza di immaginazione. Lo storicista, dice il critico critico, non è capace di immaginare un cambiamento nelle condizioni del cambiamento. Bene. Rimando la critica al mittente. Quando ho enunciato la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ho indicato un po’ pedantemente e, in ogni caso, scrupolosamente un gran numero di controtendenze. Un materialista storico prende sul serio la storia. Dopo tutto, questo in fondo è l’unico punto in cui ho criticato il grande maestro Hegel. Ora, la cosa si fa seria, indipendentemente dalle critiche del critico critico che lasciano il tempo che trovano, quando la teoria deve misurarsi con la prassi.

martedì 19 ottobre 2010

l’Unità 19.10.10
Bersani sfida Tremonti: fisco, questa la nostra riforma
di Simone Collini


Lettera al ministro «Discutiamo in Parlamento nuove aliquote e niente tasse per chi investe»
Un questionario fra 100 mila iscritti e militanti conferma il consenso per il segretario al 91%
Bersani replica anche a Casini, che all’indomani della manifestazione della Fiom ha chiesto al Pd di decidere con chi stare: «Senza i numeri del Pd l’alternativa a Berlusconi non si fa. Ognuno si prenda le sue responsabilità».

Si apre con «caro ministro» ma più che un’offerta di dialogo è un guanto di sfida. Pier Luigi Bersani ha scritto una lettera a Giulio Tremonti per chiedere un confronto in Parlamento sul fisco. «La più urgente fra le riforme è quella fiscale: alleggerire impresa, lavoro e redditi familiari per stimolare investimenti, consumi ed occupazione e richiamare risorse da una lotta efficace all’evasione fiscale e dal contributo della rendita». Il segretario del Pd non nasconde al ministro dell’Economia di non ritenere l’attuale governo in grado di produrre riforme e anzi ricorda che «troppo spesso il fisco è stato usato per la propaganda». Ma «davanti alla crisi servono fatti», e il Pd vuole discutere «nella sede giusta», cioè il Parlamento, le sue proposte di riforma fiscale. Quelle cioè approvate a Varese dall’Assemblea nazionale, che Bersani ha fatto recapitare a Tremonti. Due pagine in cui si propone la riduzione della prima aliquota dal 23 al 20%, il bonus figli per dipendenti e lavoratori autonomi, la detrazione fiscale per il reddito da lavoro delle donne in nuclei familiari con figli minori, l’azzeramento dell’Irpef per le aziende che reinvestono gli utili, la tassazione al 20% dei redditi da capitale, con l’eccezione dei titoli di Stato.
IL NODO ALLEANZE
Nessuna risposta da parte di Tremonti è per ora arrivata, ma Bersani è convinto che con questa iniziativa sia comunque possibile spostare la discussione su un tema concreto, che è l’unico modo per lavorare in modo proficuo sulle alleanze. In questa fase infatti l’operazione di accorciare le distanze tra le forze di opposizione, a cui si sta dedicando Bersani, si sta dimostrando molto complicata. All’indomani della manifestazione della Fiom, Casini ha detto che «l’Udc non
si allea con il Pd» se le sue posizioni sono quelle espresse a piazza San Giovanni. Parole in parte ammorbidite in un secondo momento: «Io non ho né chiuso né aperto al Pd, ho fatto solo un discorso di serietà. Chiedo che il Pd si assuma la responsabilità di decidere». Parole, insieme un appello a Enrico Letta a unirsi ai centristi (rispedite al mittente dal diretto interessato), che non hanno fatto piacere a Bersani: «Senza il progetto del Pd, le donne, gli uomini, e i numeri del Pd, l’alternativa a Berlusconi non si fa. Ognuno si prenda le sue responsabilità».
L’INDAGINE
Il segretario del Pd ne fa un discorso di oggettività ma gioca anche la carta dell’orgoglio di partito, soprattutto ora che sono arrivati al Nazareno i risultati di un’indagine condotta in collaborazione con la Swg. Nei giorni scorsi è stato inviato a oltre 100 mila persone, tra iscritti e partecipanti alle primarie, un sondaggio in cui si chiedeva una serie di giudizi sull’intervento di Bersani alla Festa di Torino e su questioni come il rinnovamento del gruppo dirigente. Hanno risposto in 20 mila (la regione da cui sono arrivate più risposte è la Lombardia, seconda l’Emilia Romagna) e il 91% di loro
ha giudicato positivo l’intervento di Bersani, il 77% si è detto d’accordo con la proposta del nuovo Ulivo, il 52% ha condiviso l’idea del sindaco di Firenze Matteo Renzi che bisogna cambiare gruppo dirigente, idee e linguaggio. Tra i dati accolti con soddisfazione da Bersani, soprattutto pensando a chi all’interno del partito ha lamentato l’abbandono dello spirito originario del Lingotto, c’è anche il giudizio sul progetto-Pd: i favorevoli sono passati dall’87% del 2009 al 94% del 2010.

Repubblica 19.10.10
Bersani a Casini: senza noi non si vince
E il leader dell´Udc: boccio la piazza Fiom, non il Pd. Fioroni va da Bonanni
di Alberto D’Argenio


D´Alema: probabile voto a primavera, Vendola non adatto a guidare il centrosinistra

ROMA - È ancora una volta la piazza a dividere Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Piazza che, oltretutto, continua ad alimentare frizioni e distinguo all´interno dello stesso Pd. Il tutto a soli due giorni dall´imponente manifestazione della Fiom di sabato a Roma alla quale hanno partecipato molti esponenti democratici, ma in assenza di un´adesione ufficiale del partito. Il leader centrista Casini dice che «se l´idea dell´opposizione è quella di creare un´alternativa partendo da piazza San Giovanni, allora siamo fritti». Inevitabile corollario: «Se queste sono le posizioni del Pd, l´Udc non si allea con i democratici, non ci sono dubbi in proposito». Per Casini la piazza «si ascolta, non si segue». Da qui l´appello «ai moderati di entrambi i poli» (Enrico Letta, Follini e Pisanu) ad unirsi. Al centro.
Parole pronunciate in un´intervista al Corriere e corrette nel pomeriggio, quando Casini spiega che in realtà non c´è una indisponibilità in assoluto ad una alleanza con il Pd: «La porta non è né aperta, né chiusa, ho fatto solo un discorso di serietà» di fronte agli slogan della manifestazione di sabato che «ci riportano direttamente agli anni ‘70». Ma ormai è troppo tardi e dai democratici è già partita la controffensiva. Su tutti è lo stesso Bersani a replicare ricordando a Casini (il quale nella strategia del segretario democratico dovrebbe entrare in una coalizione comprendente anche Vendola) che «senza i numeri del Pd non c´è alternativa a Berlusconi. Ognuno si assuma le sue responsabilità». E a chi gli chiede se l´Udc voglia strappare Enrico Letta ai democratici, risponde con una battuta calcistica: «È più facile prendere Messi...». In realtà il Pd, assicura, «ha la sua testa e le sue gambe per camminare, ha le sue manifestazioni e a novembre incontreremo milioni di persone con il porta a porta». Reagisce anche Vendola, leader di Sel, dicendo che «non è proprio detto che i moderati debbano avere la testa del cambiamento, anche se le loro culture e quelle di sinistra devono convergere per trovare un programma riformatore». Insomma, per il governatore pugliese Casini parla di «alleanze o coalizioni astratte, metafisiche. Io voglio allearmi con tutte le persone di buona volontà che vogliono liberare l´Italia dal berlusconismo».
Ma Vendola nella versione aspirante leader del centrosinistra viene bocciato da Massimo D´Alema, che a Otto e mezzo a chi gli chiede se possa vincere le primarie risponde: «Non lo so. Non mi sembrerebbe ragionevole perché non mi pare che sia la personalità più adatta a guidare una coalizione di centrosinistra. Poi cosa accadrà non lo so. Competitivo è competitivo, ma penso che noi siamo in grado di dare una risposta assai più convincente». Quel che al presidente del Copasir appare invece «probabile» è che a primavera si voti anche se, aggiunge, prima sarebbe più giusto fare la riforma della legge elettorale. Poi parla della manifestazione della Fiom e definisce «la criminalizzazione di Maroni», che aveva lanciato l´allarme sul rischio scontri, «un atto di irresponsabilità da parte del governo», così come erano «sbagliati» alcuni cartelli di piazza San Giovanni contro la Cisl «perché dovevano essere rivolti contro il governo e non contro un altro sindacato»
Intanto oggi 35 parlamentari ex popolari del Pd guidati da Beppe Fioroni saranno in via Po alla Cisl per «un gesto di solidarietà» nei confronti del sindacato guidato da Raffaele Bonanni, le cui sedi nelle ultime settimane sono diventate bersaglio di lanci di uova e scritte offensive. Una mossa che secondo alcuni osservatori potrebbe preludere a futuri spostamenti politici.
E intanto filtra la notizia che da qualche giorno militari in mimetica armati con mitra sono stati schierati in presidi permanenti davanti alle sedi nazionali di Cgil, Cisl e Uil.

Corriere della Sera 19.10.10
Fioroni: impedirò che il partito scivoli a sinistra
intervista di Maria Teresa Meli


L’esponente dell’ala cattolica oggi incontrerà Bonanni: «Colpito dal silenzio dopo gli attacchi contro di lui»

ROMA — Beppe Fioroni, responsabile Welfare del Partito democratico, oggi a mezzogiorno sarà alla Cisl, con gli ex popolari della corrente dei 75, per dare la sua solidarietà al leader sindacale Raffaele Bonanni.
Onorevole, qual è lo scopo di questa sua visita?
«Mi ha colpito il fatto che la maggior parte degli striscioni alla manifestazione della Fiom fossero contro la Uil, la Cisl e il suo segretario. E mi ha colpito ancora di più il silenzio assordante dei dirigenti che hanno organizzato quell’iniziativa e che non hanno condannato pubblicamente gli assalti alla Cisl. Per questa ragione abbiamo sentito il bisogno di un incontro con Bonanni» .
Fioroni, a proposito di quella manifestazione, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha detto al «Corriere» che non potrà mai allearsi con «questo Pd» che non sa scegliere tra piazza e riformismo.
«Casini si tranquillizzi: il ruolo dei cattolici con la schiena dritta che evitano che il Partito democratico scivoli verso la sinistra lo assolviamo noi, lui non si preoccupi, che grazie agli ex ppi del Pd i suoi elettori non si spaventeranno».
Voi ex popolari che fate parte della corrente dei 75?
«Certo, siamo noi, con la nostra presenza e la nostra iniziativa, che evitiamo che i moderati scappino dal Partito democratico. Il rischio, oggettivamene, c’è, però saremo noi a garantire che non vi sarà nessuna riedizione del Pci. Ma non vorrei che in realtà Casini, con quelle parole, voglia dire qualche altra cosa. E cioè che il Pd deve fare la gamba di sinistra, mentre a fare il centro ci pensano lui e il suo partito. Peraltro, questo è uno schema vecchio, che non è utile per battere Berlusconi».
Dica la verità, Fioroni, lei adesso sta parlando a nuora perché suocera, ossia Bersani, intenda. «Logico». Torniamo alla manifestazione: lei darà la sua solidarietà a Bonanni, ma, nonostante gli slogan e gli striscioni, quella del 16 ottobre era una piazza pacifica.
«E le piazze pacifiche meritano sempre attenzione. Il problema di quella manifestazione era la presenza di formazioni che, anche nel recente passato, si sono rese protagoniste di episodi di violenza».
C’è chi ha ammonito il Partito democratico invitandolo a non cadere nel collateralismo dei tempi passati.
«Sa qual è il problema? Se la Cisl e la Uil vanno in piazza non ci chiedono di partecipare e noi, per parte nostra, non sentiamo il richiamo della foresta. Se invece manifestano la Cgil e la Fiom quel richiamo scatta subito. È legittimo che partiti ed esponenti politici scendano in piazza, ma quello che dobbiamo assolutamente evitare è il collateralismo, che, tra l’altro, fa un danno al sindacato». E anche ai partiti, si suppone. «Chiaramente. Le finalità del sindacato, di un qualunque sindacato, sono di fare i contratti e gli accordi. Per raggiungere questi obiettivi il sindacato può usare come forma di lotta il conflitto sociale. Un partito, invece, non può fondare la propria azione politica sul conflitto sociale, perché il conflitto genera divisione e non realizza l’obiettivo principale di una forza politica che è quello di governare un Paese unito e sereno. E ancora: il Pd ha sicuramente il dovere di ascoltare il disagio della piazza del 16 ottobre, ma deve avere anche la consapevolezza che la centralità del lavoro riguarda tutti: occupati, precari, disoccupati, dipendenti, autonomi, professionisti, commercianti, artigiani, cooperatori, perché un partito che si candida a governare il Paese non può limitarsi a rappresentare una sola parte».

il Fatto 19.10.10
La sfida di Landini
“Ci battiamo per cambiare la Cgil”
Nella Fiom da quando aveva 15 anni, pensa a una svolta tutta sindacale
di Salvatore Cannavò


“Sei stato bravo,    tranne per quella frase finale...”. L’elogio critico sussurrato dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani al segretario generale della Fiom, Maurizio Landini al termine del comizio di piazza San Giovanni, culminato sabato scorso nella richiesta di sciopero generale fotografa perfettamente il momento particolare del maggiore sindacato italiano. Alla vigilia dell’insediamento al vertice di Susanna Camusso molti osservatori, colpiti dall’efficacia di Landini, e dal colpo a effetto con cui ha costretto la Cgil a dire sì allo sciopero generale, si chiedono se non siamo di fronte a un rovesciamento del quadro: la Fiom che esce dall’angolo dell’estremismo storicamente residuale e impone la linea ai fratelli maggiori. Landini non aggira l’ostacolo: “Noi non ci muoviamo mai pensando solo ai metalmeccanici ma con un pensiero generale che per sua natura è confederale. La Cgil ovviamente può cambiare, noi ci battiamo perché cambi anche perché abbiamo assolutamente bisogno di cambiare”. Con tutto ciò la scommessa del quarantanovenne saldatore di Reggio Emilia è chiara: deve imporre il suo linguaggio tutto sindacale a un’organizzazione abituata alla tradizione tutta politica di padri nobili come il predecessore Gianni Rinaldini (suo concittadino e “fratello maggiore”) e Giorgio Cremaschi.
CHI LO CONOSCE bene sa che il consenso che conta, per Landini, è quello della “sua” organizzazione, del sindacato di cui è figlio e debitore. Non solo perché nella Fiom c’è cresciuto, da quando si iscrisse all’età di 15 anni, quando ha cominciato a fare il saldatore. Ma anche perché il lavoro fin dall’adolescenza e le scuole superiori saltate lo rendono diverso da gran parte del ceto politico e sindacale. Un autodidatta che si identifica totalmente nella dimensione sindacale. “La storia del partito Fiom non esiste”, spiega convinto, “è una schiocchezza che nasconde il vero problema: come fa la sinistra a rappresentare il lavoro? Noi non ci sostituiamo alla politica”.
La forza del comizio di piazza San Giovanni, se lo si ripercorre fino in fondo, non sta in abili trovate retoriche ma nella solidità degli argomenti, nella linearità dell’analisi. E soprattutto nella certezza di stare sul palco a rappresentare un’organizzazione forte, articolata sul territorio, ancora ben organizzata a differenza di altre realtà sindacali in declino. In un mondo politico zeppo di leader senza popolo o sopra il popolo, Landini è “l’espressione coerente dell’organizzazione”. E quando ha detto nel discorso conclusivo: “Se siamo qui non è nemmeno merito della sola Fiom ma degli operai di Pomigliano che hanno avuto la forza di dire no”, più che la battuta retorica ha cercato di rivendicare l’autentico radicamento della sua organizzazione.
A DIFFERENZA dei predecessori Claudio Sabattini e Rinaldini, Landini è anche figlio di un sindacato che negli ultimi vent’anni ha conosciuto solo sconfitte e quasi mai vittorie, costretto a resistere e fare i conti con la spoliticizzazione che si è riversata anche nel sindacato. Con lui la Fiom deve fare i conti con la scomparsa della sinistra e con le disillusioni di un’epoca. Per questo fa presa sul popolo Fiom la sua voglia di ripartire proprio dal sindacato per ricostruire l’identità operaia e del lavoro, e per tentare la strada delle trasformazioni sociali. Per un’impresa del genere puoi affidarti o all’arte della politica-spettacolo oppure alla solidità dei tuoi rapporti interni. La strada scelta da Landini è la seconda. Lui scommette su questa organizzazione un po’ speciale che è la Fiom, un po’ squadra, un po’ famiglia, collettivo politico e umano tenuto insieme dalla figura un po’ mitizzata dell’operaio metalmeccanico.
Per questo sabato scorso si è fatto il giro dei due cortei in modo meticoloso, cercando di incontrare tutti, abbracciare tutti, e ricordare di essere uno di loro, uno della Fiom, un operaio che fa provvisoriamente il segretario generale. Per questo quando c’è un problema parte da Roma e va a farsi vedere dove serve: a Melfi, per i licenziamenti in Fiat, a Pomigliano, per la vertenza con Sergio Marchionne, a Torino, alla Fincantieri. Ieri era all’Università a parlare agli studenti, che lo hanno accolto come un eroe. Con i media invece è attento a non esagerare, e si concede la metà di quanto sarebbe richiesto. Non è per timidezza, ma per non farsi trascinare dalle bolle mediatiche, che alla lunga possono fare molto male. “Stiamo con i piedi per terra”, ripete ai suoi quando qualcuno lo riconosce per strada e gli grida “bravo Landini”.
E POI C’È L’ORGOGLIO
operaio. Landini è stato sempre dalla Fiom, non ha fatto il giro delle organizzazioni, non ha diretto pezzi di Cgil, sempre e solo la Fiom. Ma alla Cgil ci tiene. Quando si è messo accanto a Epifani, sul palco di San Giovanni, di fronte ai fischi della piazza e alle richieste di sciopero generale, non l’ha fatto per una semplice cortesia, ma per ricordare a tutti che quello che parlava era comunque anche il suo segretario generale. E molti di quelli che hanno visto le immagini, in piazza o in video, si saranno chiesti se non si stia preparando un futuro in cui il più grande sindacato italiano possa cercare il suo leader proprio tra gli “estremisti” della Fiom.

l’Unità 19.10.10
Francia bloccata dalla protesta Oggi la grande sfida a Sarkozy
Il fronte contrario all’innalzamento dell’età pensionabile si estende. Ieri sono entrati in campo i camionisti fortemente penalizzati dalla nuova legge voluta dal presidente. Sarkozy tira dritto: riforma essenziale.
di Luca Sebastiani


La settimana decisiva per le sorti della riforma delle pensioni si è aperta con toni più radicali. Da una parte e dall’altra. Se il governo ha accentuato la linea della fermezza, i sindacati hanno fatto salire l’intensità della protesta. Alla vigilia della giornata di protesta che oggi, per la sesta volta da settembre, porterà in strada centinaia di migliaia di lavoratori, ieri il movimento ha calcato la mano sulla strategia della paralisi. Le rassicurazioni del ministro dei Trasporti Dominique Bussereau, che ancora in mattinata parlava di una situazione sotto controllo, stonava infatti con le file di automobilisti alle pompe. Frutto del timore diffuso di restare a secco a causa del perdurare della lotta contro la riforma di Sarkozy. Lo sciopero che da venerdì paralizza le 12 raffinerie francesi e il blocco dei depositi ha già provocato la fine della benzina per un migliaio di stazioni di servizio (su 12mila in totale). E se l’oleodotto che approvvigionava gli aeroporti parigini ha ripreso a funzionare scongiurando il caos aereo, a confortare il timore della penuria ci si sono messi invece i camionisti, che da ieri sono ufficialmente entrati in azione.
Come preannunciato, tutta la giornata è stata caratterizzata da blocchi del traffico, barriere filtranti e operazioni lumaca che hanno determinato file e ingorghi nei pressi delle zone industriali e delle città. Gli automobilisti si sono fatti chilometri di fila a Parigi e Lille, e molto probabilmente, avvertono i sindacati, nei prossimi giorni andrà peggio perché i trasportatori s’impegneranno ancor di più nel movimento. Loro sono tra i più penalizzati dall’innalzamento dell’età pensionabile. Si tratta di un lavoro usurante, e, dice la Cfdt, la seconda confederazione di Francia, «il governo non ha voluto tenerne conto e ora si prende la mobilitazione dei trasportatori». Domenica sera, in prima serata, il premier aveva fatto la voce grossa alla tivù, affermando che «non ci sarà penuria di carburante, perché non lascerò che l’economia soffochi». Se François Fillon può mandare le forze dell’ordine a liberare qualche stock di carburante occupato dai manifestanti, poco può, però, contro le azioni dei trasportatori. Tanto che ieri il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, invece di continuare a negare l’emergenza, ha saggiamente messo in piedi una cellula di crisi per monitorare ventiquattrore su ventiquattro ogni ettolitro di carburante presente sul territorio.
TENSIONE NELLE SCUOLE
Nei licei la situazione non cambia, ma cresce la tensione con le forze dell’ordine. Anche ieri le scuole occupate erano tra le 260 contate dal ministero dell’Educazione e le 850 dichiarate dei sindacati studenteschi, mentre si sono moltiplicati gli scontri, fortunatamente senza feriti. Se da una parte i liceali denunciano «l’immaturità» del governo che manda le la celere di fronte ai quindicenni, dall’altra la polizia punta il dito contro le infiltrazioni dei casseurs. Ieri ne sono stati fermati 160 dopo che avevo dato fuoco ad auto e cassonetti. «Non c’è nessun motivo per cui fermare il movimento», hanno dichiarato le organizzazioni degli studenti. Con l’assenso dell’opinione pubblica (il 71% di favorevoli per i sondaggi), oggi aumenteranno i disagi nei trasporti pubblici, le ferrovie e negli aeroporti, ma il governo, come ha ripetuto Fillon con fermezza, concluderà l’iter della riforma che porta da 60 a 62 l’età pensionabile. Mercoledì il Senato dovrebbe varare il testo, ma per l’Eliseo sarà giovedì la vera giornata decisiva, quando i sindacati dovranno decidere il da farsi. Tra confederazioni che vogliono proseguire la mobilitazione e altre che vorrebbero rendere le armi, l’unità sindacale potrebbe infatti saltare in aria.

il Fatto 19.10.10
Il Quirinale contro i tagli del governo all’università
di Caterina Perniconi


L a    piccola piazza dei Cavalieri, davanti all’ingresso della Scuola Normale di Pisa, è piena di persone già dalla mattina presto. Ci sono i ricercatori col lutto al braccio, gli studenti, dietro allo striscione “il futuro non ci aspetta”,
molti precari. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, arriva poco dopo le undici, per celebrare il bicentenario dell’università, e prova a rassicurarli: “Condivido la forte preoccupazione di studenti e docenti per le difficili condizioni del sistema universitario che nessuno può fingere di ignorare”. Difficile però spiegare perché a quei ragazzi che qualcuno il futuro glielo sta rubando. Tagliando gli investimenti sull’istruzione, riducendo i diritti sul lavoro, precarizzando una generazione. “Conto sul vostro sentimento di responsabilità, al di là di ogni momento di comprensibile frustrazione”, ha detto il Capo dello Stato, interpretando i sentimenti di chi non ce la fa più. “Senza interferire sulle decisioni del governo e sulle discussioni parlamentari – ha continuato Napolitano – sento di dover riaffermare, e non cesserò di farlo, che occorre rafforzare il rilievo prioritario che va attribuito, non a parole ma con i fatti, alla ricerca, all’alta formazione e dunque all’università”.
UN RILIEVO che questo governo ha scelto di non dare, tagliando un miliardo e trecento milioni all’università, e aprendo le porte dell’istruzione a una deriva aziendalistica. Il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, non ha commentato le parole di Napolitano. In un’intervista a Repubblica ieri mattina aveva detto di essere “amareggiata per quello che è accaduto”, ma fiduciosa perché “Tremonti ha promesso che i soldi per l’università ci saranno con il decreto milleproproghe ed io mi fido della sua parola”. Peccato che due righe dopo abbia accusato i sindacati e la sinistra di “illudere i giovani facendo credere loro che il problema siano i tagli”. Per il ministro il problema sono gli sprechi, per gli studenti, invece, sono proprio i tagli. Perché i soldi non sprecati possono sì essere reimpiegati, ma se le risorse vengono ridotte, con quali forze si investe sul futuro?
“Il ruolo strategico della ricerca e della formazione non può essere a lungo negato e contraddetto – ha spiegato il Capo dello Stato – si imporrà, ne sono certo, al di là di ogni temporanea miopia” aggiungendo un appello “a tutte le forze politiche e sociali a riflettere con lungimiranza su questo punto”.
NAPOLITANO ha ricordato che l’importanza della formazione per assicurare all’Italia e all’Europa “uno sviluppo coerente con il patrimonio di civiltà che rappresentano e in grado di reggere alle sfide di un mondo in radicale mutamento”.
“Ancora una volta il presidente della Repubblica esprime preoccupazione per lo stato dell’università e la ricerca italiana – ha commentato l’Unione degli studenti – e anche questa volta si è mostrato una persona di grande ascolto e sensibilità. La Gelmini, invece di etichettare qualsiasi critica come minoritaria o ideologica dovrebbe prendere esempio dal capo dello Stato, anche perchè, visto il suo comportamento, l’unica ideologica che non vuole ascoltare le preoccupazioni e le critiche che provengono da tutto il mondo accademico è lei”.
“Il Governo ascolti il monito del presidente Napolitano e passi dalle parole ai fatti” ha chiesto la capogruppo democratica nella commissione Cultura di Montecitorio, Manuela Ghizzoni. “La manovra finanziaria è il banco di prova per verificare se il governo ha veramente intenzione di restituire i fondi alle università e avviare un serio piano di investimento. Come ha mostrato l’esame parlamentare del ddl Gelmini non è possibile parlare di riforme se queste sono prive di coperture finanziarie. Dal governo pretendiamo chiarezza”. É stata proprio la mancanza di copertura a far sì che la riforma venisse bocciata dalla Ragioneria generale dello Stato, costringendo il ministro Gelmini a rimandare la discussione in aula a Montecitorio di almeno un mese.
“LE PAROLE del presidente della Repubblica sono una bocciatura senza appello per i ministri che stanno affossando l’università italiana, Tremonti e Gelmini” ha commentato il presidente del gruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi. “Il governo – ha aggiunto Donadi – sta tagliano in tutti i settori, anche in quelli fondamentali per rilanciare il paese, come l'Università e la ricerca. Una politica miope che condanna l’Italia alla marginalità perchè un Paese che non investe sulla formazione delle giovani generazioni mette una pesante ipoteca sul proprio futuro”.

il Fatto 19.10.10
Lettera agli amici ebrei
di Maurizio Chierici


O gni volta che la pace si affaccia in fondo al Mediterraneo qualcosa o qualcuno la manda all’aria. Mi rivolgo agli ebrei italiani reduci dall’orrore che accompagna per sempre la nostra vergogna. Ne conservano la memoria come ammonimento; diaspora intelligente, pacifica e di buona volontà. Ha sofferto nell’Europa nera e il ricordare resta l’impegno che aiuta a scongiurare altre sofferenze. Sono la coscienza critica di una patria inseguita nella storia, ideale ma anche reale con la doppia nazionalità di un rifugio aperto. Allora, come evitare ad ogni ebreo del mondo il rigurgito avvelenato di chi specula sul dolore dei palestinesi? Dal 1919 Haaretz racconta ogni mattina la storia del paese; quotidiano liberal dalla parte dei lettori. Sei mesi fa denunciava il razzismo che avvelena “una città elegante come Milano”. Non solo la Lega, ma la disattenzione della signora Moratti: finanzia il torneo di calcio in onore di Sergio Ramelli, fascista bomba e moschetto, assassinato dalla stupidità criminale dell’altro estremismo mentre precipita la deriva dei politici italiani verso una xenofobia senza ritorno. Adesso Israele impallidisce nell’autoritarismo che riapre la memoria di ogni ebreo. Emarginazione, espropriazioni, deportazioni senza diritti quando la religione diventa l’alibi che trasforma le persone in oggetti da trascinare come birilli. E Gideon Levy, direzione Haaretz, vuol sapere dal suo primo ministro Netanyahu se costruire attorno a Gerusalemme (su terreni di famiglie palestinesi allontanate con forza) 238 appartamenti dove insediare coloni ebrei; vuol sapere se la decisione che rompe il cammino della pacificazione, annuncia un Israele “etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista”. La nuova legge impone ai cittadini non israeliani il giuramento di fedeltà allo Stato ebraico. “Non riguarda solo loro, avrà effetto su tutti noi. Provoca la minoranza arabo-israeliana allargandone il distacco dal paese nel quale vive da sempre finché un bel giorno arriva il momento di spingerla fuori”. Levy ricorda che l’Associazione per i diritti civili lancia l’allarme sui giuramenti di fedeltà decisi dal governo. Giuramenti per deputati, produttori cinematografici, società senza fini di lucro quindi pericolosissime perché nutrite da ideali che non pretendono il potere. Come evitare nuove tragedie alle porte di casa? Mi rivolgo agli amici milanesi di religione ebraica con i quali condivido le speranze di una pace normale nella terra promessa; amici che insegnano, studiano e si inquietano davanti al razzismo senza maschera delle leghe. Rompete il silenzio. Solo voi potete aiutare le voci civili che tremano a Gerusalemme. Nessun altro. Non i manichini agli ordini di Berlusconi; non le proteste nelle quali può strisciare il razzismo che confonde le colpe di un governo con la trasparenza dei cittadini travolti dalla loro destra estrema. Lieberman, ministro degli Esteri, rimpicciolisce Borghezio in un sacrestano moderato quando “minaccia di annegare ogni traccia di democrazia. Finiremo per ritrovarci in uno Stato ebraico la cui natura nessuno capisce ma che non sarà democratica”: sempre Levy. Solo gli ebrei della diaspora possono svegliare la minoranza silenziosa di Israele la quale osserva senza alzare il dito perché le strategie internazionali non lo consigliano. Opportunismo fatale. A dar mano ai falchi le prediche dei paranoici attorno. Non solo l’estremismo arabo contrario al dialogo: 40 anni di emarginazione trasformano guerriglia e terrorismo in una professione pagata dal signore che, profeta delle sciagure, predica sul confine tra Libano e Israele. L’Ahmadinejad che nega l’Olocausto diventa l’alibi al quale si aggrappano gli opportunisti di ogni Medio Oriente. Rompono le prove di pace di un Obama debolissimo impegnato a tamponare le elezioni di mezzo mandato. Scelta di tempo perfetta: Casa Bianca provvisoriamente nell’angolo mentre Ahmadinejad e Netanyahu sfidano il futuro con l’arroganza del populismo dei ricatti. Gli ebrei della diaspora non possono ormai tacere.

Repubblica 19.10.10
I due imperi
Benvenuti nel nuovo mondo dove la Cina batte l'America
Si chiama "Occidente estremo" ed è il nuovo libro di Rampini che spiega gli scenari del futuro. Tra rischi e scommesse
di Lucio Caracciolo


Abbiamo voluto credere di vivere una crisi globale. Di fatto, sperimentiamo la crisi dell´Occidente. Destinata ad accelerare lo spostamento del baricentro mondiale verso l´Oriente asiatico. Osservare insieme la ritirata degli Stati Uniti e l´avanzata della Cina è la prospettiva scelta da Federico Rampini, corrispondente di Repubblica da New York e, in precedenza, da San Francisco e da Pechino. Tale somma di esperienze dirette e prolungate consente a Rampini di tracciare nel suo ultimo saggio, Occidente estremo (Mondadori, pagg. 324, euro 18), la parabola apparentemente inarrestabile del cambio al vertice del pianeta, che dovrebbe consumarsi entro la metà del secolo.
Un viaggio affascinante nelle dinamiche della storia che si sta compiendo sotto i nostri occhi, a un ritmo troppo accelerato per non generare smarrimento. Questo libro ci aiuta a cogliere l´essenza del cambiamento in corso. Ne ferma i caratteri di fondo, offrendone un´interpretazione spesso sorprendente, chiara ma non semplicistica né consolatoria. Perché Rampini non si ferma a definire il quadro entro cui misurare il declino americano e la rimonta cinese, ne rileva i chiaroscuri che complicano e rendono meno prevedibile il parallelismo fra declino della potenza americana e ascesa dell´impero cinese. E ci lasciano, forse, qualche speranza.
La penna di Rampini coglie le opposte dinamiche che si fronteggiano sui due lati del Pacifico attraverso agili ritratti dal vivo di ciò che si muove nella pancia delle potenze in competizione. A cominciare dal penoso impatto con una pachidermica signora al Lincoln Plaza Cinema, emblema di una patologia nazionale (che invero tocca anche i figli unici della Cina arricchita): l´obesità. Da cui deriva la diffusione di massa del diabete e delle malattie cardiovascolari, con relativa esplosione dei costi sanitari (un aumento di 344 miliardi di dollari l´anno solo per queste patologie). Secondo Rampini, «l´obesità è la rappresentazione plastica di una società dei consumi dilatata, appesantita, oberata, malata, impazzita. Un materialismo ipertrofico, autodistruttivo, sempre sull´orlo di un collasso mortale».
Restando nella colonna negativa, Rampini nota che la miracolosa crescita della produttività americana negli ultimi anni non ha nulla di sano, giacché deriva dalla paura. L´istinto di sopravvivenza spinge i lavoratori a produrre di più, per non fare la fine del collega licenziato o prepensionato. È il multi-tasking, per cui si fanno due o tre cose contemporaneamente. Dunque peggio e con più stress: «Spremere l´essere umano fino ai suoi limiti estremi ha delle conseguenze micidiali».
Allo stesso tempo, il tramonto dell´America è illuminato da mille affascinanti colori. Quasi che la coscienza del declino esaltasse la vitalità della società a stelle e strisce, mai così ricca di idee, di progetti, di inventiva. E forte di una demografia promettente. Nel 2050 dovrebbero esserci 400 milioni di americani, di cui 350 meno che sessantacinquenni. Il contrario della tendenza europea – ma anche di quella cinese. Il nostro continente e l´Impero di Mezzo saranno ospizi quando il Nuovo Mondo ribollirà ancora di fresche energie.
In questa prospettiva acquistano senso le nuove vie del capitalismo americano. È il caso dell´"imprenditoria sociale", che sposa efficienza e attenzione al principio di eguaglianza. L´obiettivo è così descritto dal suo guru, Stephen Goldsmith, con accenti che da noi suonerebbero socialdemocratici: «In una fase di crisi, tutti sono capaci di tagliare i costi peggiorando la qualità dei servizi sociali. La vera sfida è spendere meno e avere un ambiente più pulito, scuole migliori, trasporti che funzionano».
Quando l´indagine si concentra sulla Cina, Rampini ha cura di presentarne non solo i noti successi, ma anche le ombre che cominciano a oscurarne l´orizzonte. Resta forte, ad esempio, il gap con l´Occidente nell´istruzione universitaria, dunque nell´innovazione e nella scienza. Certo, Pechino si sta aprendo, fra mille contraddizioni, a un dibattito pubblico meno stereotipato. Per accettare il valore del pensiero critico, e fruire del suo impatto dinamico nella società e nell´economia, ci vorrà però molto tempo. Sempre che qualche catastrofe non riporti indietro le lancette dell´orologio. La Cina ha probabilmente vent´anni per aprire il suo sistema politico, sociale ed educativo alla competizione più o meno libera e alla critica. Dunque all´innovazione. Dopodiché, il vantaggio finora accumulato nell´industria manifatturiera grazie al basso costo del lavoro sarà evaporato.
Accompagnandoci nelle frontiere inquiete dell´impero, dal Tibet al Xinjiang, l´autore ne illumina la fragilità geopolitica. Le repressioni di Pechino si spiegano anche con la coscienza di tale debolezza. Quanto al dissenso politico, in Cina è affare di esigue minoranze. Difficilmente il Premio Nobel a Liu Xiaobo lo rafforzerà, anche se il nervosismo delle autorità cinesi rischia paradossalmente di alimentarlo.
La maggiore e per noi più pericolosa novità della crisi economica in corso sta però nel fatto che il capitalismo autoritario cinese è ormai un modello per leader e popoli asiatici, africani, sudamericani. Un giorno, forse, anche per gli occidentali. A quel punto sì, potremo dire che l´Occidente è finito. E con esso i suoi valori.

Corriere della Sera 19.10.10
La coscienza? Si può misurare
intervista a Giulio Tononi di Massimo Piattelli-Palmarini


Intervista allo studioso italiano che sta lavorando negli Usa a un «registratore» delle nostre emozioni
Tononi: con una macchina inseguo grado e qualità della consapevolezza

Ciò che il neuropsichiatra italiano Giulio Tononi, da anni professore all’Università del Wisconsin, si prefigge di realizzare può essere riassunto in una sola, strana, parola: un coscienziometro. Pensiamolo pure come una macchinetta che misura il grado di coscienza in un soggetto umano. Zero per cento è assoluta assenza di ogni coscienza, 100% lo stato di coscienza pieno, quello in cui sono io che adesso sto scrivendo e quello in cui siete voi che adesso state leggendo. Ovviamente tutto l’interesse dell’impresa di Tononi e collaboratori sta nello studio e nella misurazione dei gradi intermedi. Per esempio, quelli che insorgono nei vari stadi del sonno e del sogno, nell’anestesia parziale o totale, in vari stati patologici vegetativi e negli stati indotti appositamente mediante la cosiddetta stimolazione magnetica transcranica, un registrati quando si inviano impulsi magnetici dall’esterno, mediante la stimolazione magnetica transcranica. Sia nel primo sonno che sotto l’effetto del midazolam, questi impulsi esterni producono reazioni cerebrali solo locali e di breve durata, a differenza di quelle assai più diffuse e sostenute registrate durante la veglia.
In un «manifesto» sulla coscienza «in quanto informazione integrata», ricco di modelli matematici, pubblicato due anni fa da Tononi nel Biological Bulletin, si legge che ciascuno sa cos’è la coscienza, ma capirla a fondo resta per adesso al di fuori dei limiti della scienza. Beh, il suo manifesto si qualifica come «provvisorio», ma sottolinea l’importanza capitale dell’integrazione dell’informazione come chiave della coscienza. Tononi usa un termine del gergo filosofico, un termine preso dal latino: i qualia, cioè la sensazione intima, cosciente, di avere, ad esempio, l’esperienza di una luce che si accende. I qualia sono la luminosità della luce, il rossore del rosso, la dolorosità del dolore, la sonorità di un suono e così via. Nessuna macchina, nessun computer, per quanto sofisticati, sentono dentro di loro tali qualità, anche se possono registrare colori o suoni, ma non, appunto, provare dolore. La differenza sta tutta, mi dice Tononi, nel tipo particolare di complessità che caratterizza gli esseri umani e magari anche, in modo ridotto, altre specie.
«Il cervelletto — precisa Tononi — ha circa 50 miliardi di neuroni, più dei circa 30 della corteccia cerebrale. La complessità biochimica e l’intrico di contatti neuronali sono del tutto comparabili. Ma bloccando il cervelletto si preserva la coscienza, mentre alterando la corteccia no. La chiave è l’enorme numero e i tipi di stati interni diversi tra i quali la corteccia può discriminare, la ricchezza del suo spazio di informazioni e il modo in cui queste sono integrate». Gli chiedo se la sincronizzazione tra gli impulsi nervosi sia, come molti sostengono, la chiave della coscienza. «No — controbatte Tononi —, è solo un correlato della coscienza, interessante, certo, ma non è la chiave di volta. Nelle crisi epilettiche c’è enorme sincronizzazione, addirittura ipersincronizzazione, ma la coscienza svanisce». Intervisto anche un altro esperto, Stuart Hameroff, capo di anestesiologia all’ospedale universitario dell’Arizona e direttore del centro di studi sulla coscienza, che tiene a Tucson un megaconvegno internazionale sulla coscienza. Dissente da Tononi su diversi punti. La chiave della coscienza non sta in tanti contatti tra tanti neuroni. Chiedo a Tononi quando ha cominciato a occuparsi della coscienza. «Da quando ero al liceo». Cosa progetta di fare adesso? Studiare meglio i pazienti in stati vegetativi e semivegetativi e abbordare il problema anche al livello dell’evoluzione della coscienza, come stato evolutivo adattativo in altre specie. La fotocellula ha due soli stati: luce e non luce. Noi abbiamo dentro migliaia di miliardi di stati, per questo avvertiamo la luminosità della luce e la sonorità del suono.

Repubblica 19.10.10
Egoisti e vendicativi? Deficit di serotonina
di Francesco Bottaccioli


Sulla rivista scientifica Pnas uno studio sperimentale dimostra che l´aumento del neurotrasmettitore cerebrale permette una maggiore disposizione a non danneggiare gli altri. Ma anche il cibo influenza. Soprattutto le donne

Sull´autorevole Pnas è stato da poco pubblicato uno studio sperimentale su volontari sani che dimostra che l´aumento di serotonina nel cervello aumenta anche la disposizione individuale a non danneggiare gli altri. La serotonina è un neurotrasmettitore che viene prodotto da neuroni collocati nell´intestino e nel cervello. La produzione cerebrale di serotonina è modesta (su 100 molecole di serotonina, 95 sono prodotte dalla pancia e lì agiscono), ma rilevante per le molteplici funzioni che svolge, tra cui il controllo della risposta di stress e il mantenimento del tono dell´umore.
In passato, era stato dimostrato che un deficit di serotonina cerebrale si accompagna a comportamenti violenti e di scarsa tolleranza verso situazioni stressanti. Lo studio attuale (Università di Cambridge e di Harvard) fa una verifica al contrario: cosa avviene se si potenzia la serotonina tramite un farmaco? Tre i gruppi di volontari: ad uno è stato somministrato citalopram (classico antidepressivo che aumenta la disponibilità di serotonina), ad un altro un farmaco che potenzia la noradrenalina, a un terzo gruppo una pillola placebo. Valutazione in base ai test, tra cui il cosiddetto gioco dell´ultimatum. Questo test si basa su una regola: potrai incassare una somma di denaro solo se otterrai l´assenso di un´altra persona a ricevere una quota di somma che tu proponi. Si è visto che se l´offerta non è superiore al 30% della somma, questa viene rifiutata, con il risultato che entrambi non ricevono niente. Non un freddo calcolo, ma un giudizio morale: sarebbe disonesto offrire troppo poco, così si punisce l´altro rifiutando l´offerta, pur rimettendoci. Solo il gruppo che aveva assunto citalopram si è dimostrato più disponibile ad accettare la quota del 30% (e ancor più se il citalopram viene assunto da personalità empatiche). Conclusione: la serotonina indurrebbe ad atteggiamenti non egoistici.
Molti gli studi anche per capire come l´alimentazione influenzi la produzione di serotonina cerebrale. Il neurotrasmettitore deriva da un aminoacido, il triptofano, la cui disponibilità per il cervello dipende anche dal tipo di cibo: pasti proteici fanno passare nel cervello meno triptofano di pasti a prevalenza di carboidrati. Ma ciò, dicono lavori sperimentali recenti, varrebbe soprattutto per chi è in condizioni di stress, in particolare se donna. Le donne sotto stress, infatti, sembrano più suscettibili ad avere il circuito della serotonina molto instabile con effetti sull´umore tipici: infatti, mentre negli uomini il deficit di serotonina fa scattare aggressività verso l´esterno, nelle donne causa irritazione, chiusura e depressione.
* Pres. onorario Soc. It. Psiconeuroendocrinoimmunologia