sabato 23 ottobre 2010

I più importanti giornali internazionali aprono le loro prime pagine on line su questo tema, sui giornali taliani, se c’è, la notizia è quasi invisibile 400mila nuovi documenti. Le torture e le stragi di prigionieri e di civili in Iraq Corriere della Sera 23.10.10 Wikileaks, nuovo scoop Ecco gli orrori in Iraq Rivelazioni su Calipari di Guido Olimpio qui su Wikileaks qui http://wikileaks.org/ sul New York Times qui http://www.nytimes.com/ su Al Jazeera qui http://english.aljazeera.net/ dal Guardian qui http://www.guardian.co.uk/ l’Unità 23.10.10 Il sindacato non è un partito di Giuseppe Casadio Le piattaforme sindacali, specie quando esulano da tematiche strettamente aziendali, interrogano sempre anche la politica; ed è giusto, auspicabile, necessario che la politica interagisca, si confronti con le piattaforme sindacali. E se ciò non avviene, è giusto che il sindacato incalzi i partiti, quelli all’opposizione non meno che quelli al governo, ne solleciti pronunciamenti chiari e non opportunistici sul merito delle questioni poste. Si tratta di un passaggio fondamentale dell’azione sindacale, che non si risolve però con una sbrigativa e impropria sottoscrizione della piattaforma sindacale da parte dei partiti. Qui sta il punto. I partiti devono essere sollecitati a esprimere con chiarezza ciò che essi si impegnano a fare, in Parlamento e nel Paese, per dare risposta alle domande che il sindacato avanza, o comunque per rendere più forte la sua azione, se e nella misura in cui ne condividano davvero gli obiettivi. I partiti, per loro natura, hanno strumenti e metodi di azione diversi da quelli di un sindacato, ed è sul terreno loro proprio che devono “compromettersi” a fronte delle sollecitazioni che il sindacato loro propone. Ritengo cioè poco significativa la pratica dell’invio di un comunicato di “adesione” a scatola chiusa a questa o quella iniziativa sindacale da parte di questo o quel partito. Pratica tanto più frequente, naturalmente, quando l’iniziativa sindacale in questione si annuncia tale da offrire una grande visibilità. Ben altro significato avrebbe un confronto stringente e di merito con ciascun partito sugli obiettivi della azione sindacale, rendendone noti gli esiti innanzitutto ai militanti sindacali. Questo indurrebbe ciascuno ad assumere responsabilità, rafforzerebbe alleanze non formali. Sia chiaro: non sto parlando della manifestazione della Fiom di sabato scorso; sto prendendo spunto da un aspetto tutto sommato marginale di essa per svolgere una riflessione che ritengo ben più generale. Peraltro conosco bene la capacità del gruppo dirigente della Fiom di svolgere iniziativa politica a tutto campo e ad esso va tutta la mia solidarietà. Un’ultima considerazione che mi viene dall’esperienza alla guida della Cgil dell’Emilia Romagna: fin dagli anni ’70, in quasi tutti i territori di quella regione, alle manifestazioni sindacali non partecipano le bandiere nè i simboli di partito. E questo non avviene per una sorta di estraneità alla politica che peraltro, in quella regione più che altrove, non sarebbe tollerata innanzitutto dagli attivisti sindacali, ma in virtù delle riflessioni che ho fin qui esposto e della cui validità sono fermamente convinto. Se ne può discutere con serietà e serenità? l’Unità 23.10.10 Il Riesame conferma: «Lo Ior ha violato le norme antiriciclaggio» Confermato il sequestro dei 23 milioni che su richiesta dello Ior dal Credito Artigiano dovevano essere trasferiti alla J.P. Morgan e alla Banca del Fucino. «Non è stato comunicato per chi intendesse eseguire le operazioni». di Marzio Cecioni Lo Ior ha violato gli obblighi previsti dalle norme antiriciclaggio quando ha chiesto al Credito Artigiano di trasferire 23 milioni di euro depositati su un proprio conto alla tedesca J.P. Morgan Frankfurt (20 milioni) ed alla Banca del Fucino (tre milioni). È basata su questo aspetto la conferma del sequestro preventivo della somma da parte del tribunale del riesame. «Pur richiesto dall’interlocutore bancario si legge nelle motivazioni dell’ordinanza emessa dal collegio presieduto da Claudio Carini l’istituto vaticano non ha comunicato per chi (per sé o per eventuali terzi, di cui comunicare le generalità) intendesse eseguire le due operazioni, né natura e scopo delle stesse. È dunque documentalmente dimostrata la violazione degli obblighi penalmente sanzionati dalle norme» antiriciclaggio. Nella vicenda sono indagati, per omissioni connesse alla legge antiriciclaggio (mancata indicazione della natura e degli scopi delle due operazioni), il presidente dell’istituto di credito della Santa Sede, Ettore Gotti Tedeschi, ed il direttore Paolo Cipriani. LE MOTIVAZIONI DEL SEQUESTRO «Correttamente il pm scrive il collegio competente sulla legittimità dei provvedimenti restrittivi ha infatti osservato che sino ad oggi lo Ior non ha ancora fornito al suo naturale interlocutore, cioè al Credito Artigiano, le suddette indicazioni con le impegnative modalità previste dalla normativa. Né possono certo considerarsi equipollenti e sostitutive, a sanare l’iniziale omissione, le spiegazioni addotte dalla difesa circa ragioni, modalità e scopi dell’operazione». I difensori degli indagati, al Tribunale del riesame, avevano chiesto la revoca del sequestro preventivo dei 23 milioni, disposto dal gip Maria Teresa Covatta su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Rocco Fava, rivendicando che i trasferimenti di danaro in questione non costituiscono bonifici a favore di terzi, ma «operazioni di girofondi o giroconti» per ragioni di cassa. Nelle stesse motivazioni i giudici sottolineano che lo Ior, in base alle note di Bankitalia del 18 gennaio e del 9 settembre 2010, deve considerarsi a tutti gli effetti «una banca estera extracomunitaria, appartenente ad ordinamento non incluso nella lista dei paesi extracomunitari con “regime antiriciclaggio equivalente” agli standard vigenti negli Stati dell’Unione Europea (la cosiddetta White list); ciò comporta la necessità per lo Ior di uniformarsi ai criteri di trasparenza e “tracciabilita” delle operazioni con banche italiane». Alla banca vaticana, alla luce della decisione del tribunale, resta ora la strada del ricorso per Cassazione o, in alternativa, quella di indicare al Credito Artigiano natura e scopi della movimentazione dei soldi. IL VATICANO CONFERMA TRASPARENZA Quello che la Santa Sede conferma attraverso il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi è la «linea della trasparenza» per lo Ior. Si confida «di poter offrire al più presto tutti i chiarimenti richiesti nelle sedi e agli organismi competenti». Ma la linea non è scontata e neanche indolore, viste le resistenze per farla passare incontrate in Curia dal cardinale Attilio Nicora, il responsabile dell’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede. Un suo progetto di radicale riforma dello Ior all’insegna della trasparenza è rimasto a lungo nei cassetti della Segreteria di Stato. Il Vaticano è stata annunciata l’istituzione di un’Autorità di vigilanza su tutte le attività finanziarie cui dovrebbe essere a capo proprio Nicora. Si attende un motu proprio del Papa per dare il via all’«operazione trasparenza». l’Unità 23.10.10 Antigone «Nessuno degli istituti visitati è in regola con le norme» Quasi 70mila i detenuti contro una capienza prevista di 44.612 Sovraffollamento e organici carenti Le carceri italiane sono fuori legge Presentato ieri il VII rapporto sulle condizioni di detenzioni in Italia. È dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti coloro che in carcere al posto della rieducazione hanno conosciuto la violenza. di Luciana Cimino Quando la pena diventa una tortura. Succede nelle carceri italiane, sporche, non a norma, senza organico, iperaffollate. È la denuncia di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, che ieri ha presentato il suo VII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, quest’anno dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti quelli che hanno trovato anziché la rieducazione, la violenza nelle carceri. Tutti gli istituti penitenziari visitati dall’associazione e da “A Buon Diritto” di Luigi Manconi sono risultati fuorilegge in base a norme basilari come il numero dei detenuti, i metri quadri che questi hanno a disposizione, le condizioni igieniche dei servizi e il numero di ore trascorse al di fuori della cella. «I detenuti hanno in media meno di 3 metri quadrati a disposizione – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – non solo è profondamente illegale ma si configura un’ipotesi di tortura. La nostra associazione ha ricevuto 1330 richieste di ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e negli ultimi 3 anni l’Italia è già stata condannata dalla stessa 5 volte proprio per le condizioni delle carceri». Sono quasi 70 mila detenuti presenti negli istituti italiani a fronte di una capienza massima di 44.612 posti letto regolamentari. Il sovraffollamento è quindi causato certo dagli stranieri che sono i due terzi e che in gran parte sono dentro per non aver ottemperato alla legge Bossi-Fini (quindi per un reato amministrativo). Poi ci sono i tossicodipendenti che costituiscono il 38,2% dei detenuti, il doppio della media europea. «Il mix tra la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pesanti e la legge Cirielli che impedisce ai recidivi di godere delle misure alternative spiega Gonnella – è stato letale per il sovraffollamento». Ma il dato che stupisce è un altro: la gran parte dei detenuti italiani (9782 persone) sono “padani”. Nati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna. «La spiegazione – continua Gonnella è che le organizzazioni mafiose del sud si sono infiltrate benissimo al Nord e usano anche manovalanza locale». Negli ultimi tre mesi la crescita esponenziale delle presenze nelle carceri si è improvvisamente fermata. Un sintomo, secondo Antigone, che «il sistema carcerario è ormai al collasso»: «abbiamo dati certi che dalle autorità penitenziarie fino alle procure l’ordine è “non arrestare più” soprattutto gli stranieri perché non ci sono più posti letto». I suicidi in cella sono stati, nei primi mesi del 2010, 55, un triste bilancio che s’intreccia fatalmente con la scarsità di personale. «Sono tutte storie individuali di disperazione ma c’è un punto: i magistrati di sorveglianza, gli educatori, persino i cappellani, che si devono occupare dei detenuti sono pochi e non possono prendere in carico i detenuti». Il Governo in tutto ciò è «inerte». «Nessun fatto né per quanto riguarda l’edilizia carceraria, né per l’assunzione di altri poliziotti, né per le misure deflattive». Il “Piano carceri” lanciato dal tandem AlfanoBerlusconi è fallito. Rimane una denuncia della Corte dei Conti (13 luglio 2010) e gli scheletri dei penitenziari di Benevento, Busachi, Foggia, Mantova, realizzati e mai entrati in funzione. Repubblica 23.10.10 I padroni dell’anima. Nell’era della psicocrazia Il pensiero unico sulla psiche che normalizza il mondo di Roberto Esposito Depressione, anoressia, stress, insonnia: malattie tipiche dei paesi ricchi, che ora l´Occidente ha iniziato a "esportare". L´elenco dei sintomi si allunga sempre di più. Ogni comportamento individuale viene catalogato, chiunque può essere riconosciuto come affetto da una patologia. E l´industria dei disturbi mentali ha bisogno di nuovi "clienti". Con il rischio che il pensiero unico sulla psiche normalizzi il mondo   Chiesero al morente di sete se non lo disturbasse il gocciolio della cella vicina, e promisero di porre rimedio"; "Complementari ai tecnocrati gli psicocrati". Chi sa se, quando scrisse questi taglienti frammenti, Paul Celan di cui Einaudi ha appena tradotto una nuova raccolta di poesie con il titolo Oscurato (a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli) avrebbe immaginato una rapida estensione planetaria di quanto gli toccava sperimentare in prima persona. Perché è proprio un crescente potere sulle menti, complementare a quello sui corpi, che sempre più si va affermando attraverso processi generalmente riconducibili alla categoria di biopolitica. Ethan Watters, in un saggio intitolato Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, già segnalato su queste pagine da Massimo Ammaniti, e ora tradotto in italiano da Bruno Mondadori, ne ha riconosciuto la fenomenologia in una sorta di globalizzazione di disturbi mentali inizialmente diagnosticati negli Stati Uniti e da lì esportati nel resto del mondo con un effetto di contagio inarrestabile. Studiando la mutazione della percezione di determinate malattie della mente, in un primo momento catalogate secondo i parametri culturali dei paesi interessati - dalla Cina alla Tanzania - Watters osserva come, ad un certo punto, la loro definizione si omologhi a quella occidentale sotto la spinta di potenti campagne pubblicitarie promosse dalle grandi industrie farmaceutiche. A diffondersi, come in una vera e propria epidemia - i cui virus sono i nostri stessi modi di pensare - , è una catena di conseguenze, simboliche e reali, in base alle quali non soltanto la malattia in questione muta faccia, ma finisce per penetrare anche in spazi socio-culturali dove prima non aveva accesso, come se gli anticorpi socio-culturali che fino allora li avevano protetti fossero ceduti di schianto. Una volta che i malati possono conferire ai loro sintomi una definizione apparentemente oggettiva - desunta dai protocolli ufficiali elaborati di solito in America, come l´onnipresente DPM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) - , si sentono autorizzati a proiettare i propri problemi personali in qualcosa di più forte di loro, che insieme li assoggetta e li legittima come soggetti di quel male. Non è difficile ricondurre queste dinamiche a ciò che filosofi contemporanei come Foucault e Deleuze hanno definito con il termine "dispositivo", intendendo con esso un apparato teso a controllare e modificare gli atteggiamenti mentali o le azioni di determinati individui - non forzandoli dall´esterno, ma rendendoli essi stessi partecipi del proprio assoggettamento. Da questo punto di vista la società contemporanea risulta un grande corpo, attraversato da un numero crescente di dispositivi destinati a caratterizzare le nostre idee ed orientare i nostri comportamenti in base ad interessi di cui è ormai difficile individuare la provenienza. Ciò non toglie che la medicina ne costituisca uno dei tratti più tipici, perché rappresenta precisamente il punto di contatto, e di crescente indistinzione, tra sfera del corpo e sfera dell´anima o come altro si voglia chiamare ciò che eccede l´ambito della mera biologia. Non a caso la direzione sempre più mirata che vanno assumendo gli attuali processi di medicalizzazione è quella di uno schiacciamento progressivo dello psichico sul corporeo. Così ciò che inizialmente era diagnosticato come un disagio di carattere personale o sociale è sempre più spesso curato con strumenti chimici. Come attestato da numerosi studi - come quello di Philippe Pignarre su L´industria della depressione, tradotto da poco da Bollati Boringhieri o Manufacturing Depression di Gary Greenberg - i veri motivi della crescita esponenziale della sindrome depressiva, ormai diffusa quanto le malattie cardiovascolari, vanno individuati non in fattori di ordine sociologico o clinico, ma nell´uso degli stessi psicofarmaci che intendono combatterla. Ciò avviene attraverso quella sorta di circolo vizioso, implicito nel protocollo medico ufficiale, che definisce depressione "quella vasta area di disagio psichico curabile con gli antidepressivi". E´ evidente che, una volta configurata la malattia in base alla terapia, questa, mentre la cura, è destinata a riprodurla per autoriprodursi, estendendosi a zone sempre più ampie di società. Tutto sta, per le industrie farmaceutiche e per quei medici che ne diventano sempre più i semplici terminali operativi, ad ampliare la lista dei sintomi, al punto di comprendere tra essi anche fenomeni reciprocamente contrari come l´appetito eccessivo e l´inappetenza, l´irrequietezza e la spossatezza, l´impotenza o la dipendenza dal sesso. A questo punto ben pochi individui possono sottrarsi ad una catalogazione potenzialmente estendibile a tutti. E infatti è proprio questa la tendenza ipertrofica delle campagne di sensibilizzazione contro, ma in realtà funzionali alla diffusione della sindrome. Il cardiologo Marco Bobbio, in un libro intitolato Il malato immaginario. I rischi di una medicina senza limiti, edito da Einaudi e già recensito su questo giornale da Maria Novella De Luca, ricorda come l´Italia detenga il record europeo di consumo di farmaci pro capite e il più alto numero di medici per determinate quote di cittadini, nonostante che i tagli progressivi al sistema sanitario mettano in forse il welfare, magari negando una TAC a chi ne ha veramente bisogno. E´ un´altra forma di quella biopolitica dei corpi e delle anime cui da tempo siamo soggetti - nel doppio senso che ne siamo prodotti e produttori: all´ipersalutismo propagandato dai media come nuovo obiettivo di una vita sempre più lunga e felice fa riscontro l´ipocondria crescente di fasce sempre più ampie di popolazione. Ad unificare, sovrapponendole, queste due spinte è l´idea della caduta di ogni limite per un uomo sottratto al suo destino di finitezza. Quella "psicocrazia" che paventava Paul Celan prima di suicidarsi è ormai diventata una compiuta biocrazia in cui mente e corpo sono insieme l´oggetto e la posta in gioco di una partita di cui è sempre più difficile riconoscere i giocatori, ma di cui è necessario prendere coscienza. Non per cercare, invano, di arrestarla, ma almeno per coglierne la logica e valutarne le conseguenze. Repubblica 23.10.10 Nella nostra società si discute spesso di "nuova emergenza educativa" e di disagio giovanile Bisognerebbe invece ricondurre i comportamenti dei ragazzi alle esigenze della loro età Scopriamo la vitalità dell´adolescenza senza farne sempre una malattia di Gustavo Pietropolli Charmet Questa generazione di adolescenti è destinataria di nerissime profezie e giudizi allarmati. La cultura degli adulti sembra convinta che sia condannata ad una qualità di vita futura molto peggiore di quella goduta dai padri e dai nonni. Meno lavoro, pensioni fatiscenti, alloggi a costi inavvicinabili ed un intero pianeta da riparare dopo le profanazioni ed i vandalismi delle generazioni precedenti. Anche le diagnosi che gli adulti fanno del loro stato di salute mentale e del loro sentimento etico appaiono preoccupate. Spesso nei confronti degli adolescenti attuali si invoca il ripristino di paletti e norme severe che sarebbero state divelte e abrogate. La questione è di importanza educativa cruciale e coinvolge il settore delle politiche giovanili, della riforma della scuola, della riorganizzazione dei servizi preventivi e della salute mentale. È infatti diventato arduo per gli adulti che interagiscono col mondo giovanile comprendere il senso e la direzione delle novità che caratterizzano il loro modo di interpretare il processo adolescenziale. Non si tratta solo del prevedibile cambiamento di mode, di idoli, di stili di vita: il cambiamento sembra coinvolgere questioni molto più profonde e concernenti la qualità delle passioni che sperimentano. I giovani non hanno più paura degli adulti e delle loro istituzioni e non sembrano alle prese con forti sentimenti di colpa nei confronti dei valori e delle norme convenzionali. Gli adolescenti ad esempio non riconoscono alla scuola un significato simbolico ed istituzionale e la utilizzano come un servizio o un centro di socializzazione e scambio culturale. Ciò spoglia i loro docenti della attribuzione al loro ruolo di una autorevolezza prestata a priori in quanto rappresentanti del potere adulto e delle tradizioni culturali del paese. La reazione del corpo docente alla proposta relazionale proveniente dalle classi in cui insegnano viene generalmente interpretata come il sintomo di una grave demotivazione, di una generale disaffezione nei confronti dell´apprendimento e di una insolente mancanza di rispetto nei confronti della scuola. È solo uno dei mille esempi dei cambiamenti in corso e della difficile interpretazione da effettuare. Per i ragazzi infatti è del tutto "normale" ciò che fanno o non fanno a scuola: il ruolo di studente non gestisce più le loro passioni e quindi trattano ciò che concerne la scuola come faccenda di scarso interesse emotivo. Gli adulti invece parlano di una nuova "emergenza educativa", come se fosse in corso una attività sovversiva da parte di una moltitudine di giovani, che in realtà chiedono alla scuola di sviluppare un maggior interesse educativo nei loro confronti ed una più alta competenza sul versante della loro vita affettiva, relazionale e di produzione creativa. Sotto l´etichetta di "bullismo" si inquadra così uno sciame incoerente di comportamenti goliardici, scherzosi, dispettosi che i ragazzi considerano facenti parte della normalità della vita scolastica. La vita di gruppo rischia di essere considerata la scellerata orgia di un branco selvatico e pericoloso. Per gli adolescenti invece i legami affettivi e sociali con i coetanei sono sacri, sia quelli virtuali che quelli concreti. La difficoltà degli adulti a capire il significato affettivo profondo che i ragazzi danno alla conquista della notte, al bisogno di rimanere sempre in contatto virtuale, alla nuova relazione col corpo trafitto di piercing e firmato da tatuaggi policromi li sospinge a convocare sulla scena della relazione educativa le discipline "forti"; la psichiatria, la criminologia, gli esperti di devianza giovanile ai quali chiedere una diagnosi e, se possibile, un trattamento delle "nuove emergenze". Il rischio della patologizzazione dell´uso che i ragazzi fanno di Internet, del consumo di musica, della loro dipendenza dal gruppo di amici, rischia di compromettere la relazione fra mondo giovanile e cultura degli adulti. I ragazzi sono alla ricerca di adulti competenti, non di esperti che presumano di sapere senza chiedere: hanno bisogno di adulti che non si spaventino delle novità, che non si illudano di cavarsela con le diagnosi e le etichette fuori tempo, che abbiano una vera passione educativa. Quando ne incontrano uno non se lasciano sfuggire e organizzano la grande festa dell´incontro col mentore, la guida, l´adulto che sa che si può uscire sani e salvi dal labirinto dell´adolescenza. (L´autore è psicoterapeuta ed esperto di disagio giovanile)

I più importanti giornali internazionali aprono le loro prime pagine on line su questo tema, sui giornali taliani, se c’è, la notizia è quasi invisibile
400mila nuovi documenti. Le torture e le stragi di prigionieri e di civili in Iraq
Corriere della Sera 23.10.10
Wikileaks, nuovo scoop
Ecco gli orrori in Iraq
Rivelazioni su Calipari
di Guido Olimpio

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l’Unità 23.10.10
Il sindacato non è un partito
di Giuseppe Casadio

Le piattaforme sindacali, specie quando esulano da tematiche strettamente aziendali, interrogano sempre anche la politica; ed è giusto, auspicabile, necessario che la politica interagisca, si confronti con le piattaforme sindacali. E se ciò non avviene, è giusto che il sindacato incalzi i partiti, quelli all’opposizione non meno che quelli al governo, ne solleciti pronunciamenti chiari e non opportunistici sul merito delle questioni poste.
Si tratta di un passaggio fondamentale dell’azione sindacale, che non si risolve però con una sbrigativa e impropria sottoscrizione della piattaforma sindacale da parte dei partiti. Qui sta il punto. I partiti devono essere sollecitati a esprimere con chiarezza ciò che essi si impegnano a fare, in Parlamento e nel Paese, per dare risposta alle domande che il sindacato avanza, o comunque per rendere più forte la sua azione, se e nella misura in cui ne condividano davvero gli obiettivi. I partiti, per loro natura, hanno strumenti e metodi di azione diversi da quelli di un sindacato, ed è sul terreno loro proprio che devono “compromettersi” a fronte delle sollecitazioni che il sindacato loro propone.
Ritengo cioè poco significativa la pratica dell’invio di un comunicato di “adesione” a scatola chiusa a questa o quella iniziativa sindacale da parte di questo o quel partito. Pratica tanto più frequente, naturalmente, quando l’iniziativa sindacale in questione si annuncia tale da offrire una grande visibilità. Ben altro significato avrebbe un confronto stringente e di merito con ciascun partito sugli obiettivi della azione sindacale, rendendone noti gli esiti innanzitutto ai militanti sindacali. Questo indurrebbe ciascuno ad assumere responsabilità, rafforzerebbe alleanze non formali.
Sia chiaro: non sto parlando della manifestazione della Fiom di sabato scorso; sto prendendo spunto da un aspetto tutto sommato marginale di essa per svolgere una riflessione che ritengo ben più generale. Peraltro conosco bene la capacità del gruppo dirigente della Fiom di svolgere iniziativa politica a tutto campo e ad esso va tutta la mia solidarietà.
Un’ultima considerazione che mi viene dall’esperienza alla guida della Cgil dell’Emilia Romagna: fin dagli anni ’70, in quasi tutti i territori di quella regione, alle manifestazioni sindacali non partecipano le bandiere nè i simboli di partito. E questo non avviene per una sorta di estraneità alla politica che peraltro, in quella regione più che altrove, non sarebbe tollerata innanzitutto dagli attivisti sindacali, ma in virtù delle riflessioni che ho fin qui esposto e della cui validità sono fermamente convinto.
Se ne può discutere con serietà e serenità?

l’Unità 23.10.10
Il Riesame conferma: «Lo Ior ha violato le norme antiriciclaggio»
Confermato il sequestro dei 23 milioni che su richiesta dello Ior dal Credito Artigiano dovevano essere trasferiti alla J.P. Morgan e alla Banca del Fucino. «Non è stato comunicato per chi intendesse eseguire le operazioni».
di Marzio Cecioni


Lo Ior ha violato gli obblighi previsti dalle norme antiriciclaggio quando ha chiesto al Credito Artigiano di trasferire 23 milioni di euro depositati su un proprio conto alla tedesca J.P. Morgan Frankfurt (20 milioni) ed alla Banca del Fucino (tre milioni). È basata su questo aspetto la conferma del sequestro preventivo della somma da parte del tribunale del riesame.
«Pur richiesto dall’interlocutore bancario si legge nelle motivazioni dell’ordinanza emessa dal collegio presieduto da Claudio Carini l’istituto vaticano non ha comunicato per chi (per sé o per eventuali terzi, di cui comunicare le generalità) intendesse eseguire le due operazioni, né natura e scopo delle stesse. È dunque documentalmente dimostrata la violazione degli obblighi penalmente sanzionati dalle norme» antiriciclaggio. Nella vicenda sono indagati, per omissioni connesse alla legge antiriciclaggio (mancata indicazione della natura e degli scopi delle due operazioni), il presidente dell’istituto di credito della Santa Sede, Ettore Gotti Tedeschi, ed il direttore Paolo Cipriani.
LE MOTIVAZIONI DEL SEQUESTRO
«Correttamente il pm scrive il collegio competente sulla legittimità dei provvedimenti restrittivi ha infatti osservato che sino ad oggi lo Ior non ha ancora fornito al suo naturale interlocutore, cioè al Credito Artigiano, le suddette indicazioni con le impegnative modalità previste dalla normativa. Né possono certo considerarsi equipollenti e sostitutive, a sanare l’iniziale omissione, le spiegazioni addotte dalla difesa circa ragioni, modalità e scopi dell’operazione». I difensori degli indagati, al Tribunale del riesame, avevano chiesto la revoca del sequestro preventivo dei 23 milioni, disposto dal gip Maria Teresa Covatta su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Rocco Fava, rivendicando che i trasferimenti di danaro in questione non costituiscono bonifici a favore di terzi, ma «operazioni di girofondi o giroconti» per ragioni di cassa. Nelle stesse motivazioni i giudici sottolineano che lo Ior, in base alle note di Bankitalia del 18 gennaio e del 9 settembre 2010, deve considerarsi a tutti gli effetti «una banca estera extracomunitaria, appartenente ad ordinamento non incluso nella lista dei paesi extracomunitari con “regime antiriciclaggio equivalente” agli standard vigenti negli Stati dell’Unione Europea (la cosiddetta White list); ciò comporta la necessità per lo Ior di uniformarsi ai criteri di trasparenza e “tracciabilita” delle operazioni con banche italiane».
Alla banca vaticana, alla luce della decisione del tribunale, resta ora la strada del ricorso per Cassazione o, in alternativa, quella di indicare al Credito Artigiano natura e scopi della movimentazione dei soldi.
IL VATICANO CONFERMA TRASPARENZA
Quello che la Santa Sede conferma attraverso il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi è la «linea della trasparenza» per lo Ior. Si confida «di poter offrire al più presto tutti i chiarimenti richiesti nelle sedi e agli organismi competenti».
Ma la linea non è scontata e neanche indolore, viste le resistenze per farla passare incontrate in Curia dal cardinale Attilio Nicora, il responsabile dell’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede. Un suo progetto di radicale riforma dello Ior all’insegna della trasparenza è rimasto a lungo nei cassetti della Segreteria di Stato. Il Vaticano è stata annunciata l’istituzione di un’Autorità di vigilanza su tutte le attività finanziarie cui dovrebbe essere a capo proprio Nicora. Si attende un motu proprio del Papa per dare il via all’«operazione trasparenza».

l’Unità 23.10.10
Antigone «Nessuno degli istituti visitati è in regola con le norme»
Quasi 70mila i detenuti contro una capienza prevista di 44.612
Sovraffollamento e organici carenti Le carceri italiane sono fuori legge
Presentato ieri il VII rapporto sulle condizioni di detenzioni in Italia. È dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti coloro che in carcere al posto della rieducazione hanno conosciuto la violenza.
di Luciana Cimino


Quando la pena diventa una tortura. Succede nelle carceri italiane, sporche, non a norma, senza organico, iperaffollate. È la denuncia di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, che ieri ha presentato il suo VII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, quest’anno dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti quelli che hanno trovato anziché la rieducazione, la violenza nelle carceri. Tutti gli istituti penitenziari visitati dall’associazione e da “A Buon Diritto” di Luigi Manconi sono risultati fuorilegge in base a norme basilari come il numero dei detenuti, i metri quadri che questi hanno a disposizione, le condizioni igieniche dei servizi e il numero di ore trascorse al di fuori della cella. «I detenuti hanno
in media meno di 3 metri quadrati a disposizione – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – non solo è profondamente illegale ma si configura un’ipotesi di tortura. La nostra associazione ha ricevuto 1330 richieste di ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e negli ultimi 3 anni l’Italia è già stata condannata dalla stessa 5 volte proprio per le condizioni delle carceri». Sono quasi 70 mila detenuti presenti negli istituti italiani a fronte di una capienza massima di 44.612 posti letto regolamentari. Il sovraffollamento è quindi causato certo dagli stranieri che sono i due terzi e che in gran parte sono dentro per non aver ottemperato alla legge Bossi-Fini (quindi per un reato amministrativo). Poi ci sono i tossicodipendenti che costituiscono il 38,2% dei detenuti, il doppio della media europea. «Il mix tra la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pesanti e la legge Cirielli che impedisce ai recidivi di godere delle misure alternative spiega Gonnella – è stato letale per il sovraffollamento».
Ma il dato che stupisce è un altro: la gran parte dei detenuti italiani (9782 persone) sono “padani”. Nati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna. «La spiegazione – continua Gonnella è che le organizzazioni mafiose del sud si sono infiltrate benissimo al Nord e usano anche manovalanza locale». Negli ultimi tre mesi la crescita esponenziale delle presenze nelle carceri si è improvvisamente fermata. Un sintomo, secondo Antigone, che «il sistema carcerario è ormai al collasso»: «abbiamo dati certi che dalle autorità penitenziarie fino alle procure l’ordine è “non arrestare più” soprattutto gli stranieri perché non ci sono più posti letto». I suicidi in cella sono stati, nei primi mesi del 2010, 55, un triste bilancio che s’intreccia fatalmente con la scarsità di personale. «Sono tutte storie individuali di disperazione ma c’è un punto: i magistrati di sorveglianza, gli educatori, persino i cappellani, che si devono occupare dei detenuti sono pochi e non possono prendere in carico i detenuti». Il Governo in tutto ciò è «inerte». «Nessun fatto né per quanto riguarda l’edilizia carceraria, né per l’assunzione di altri poliziotti, né per le misure deflattive». Il “Piano carceri” lanciato dal tandem AlfanoBerlusconi è fallito. Rimane una denuncia della Corte dei Conti (13 luglio 2010) e gli scheletri dei penitenziari di Benevento, Busachi, Foggia, Mantova, realizzati e mai entrati in funzione.

Repubblica 23.10.10
I padroni dell’anima. Nell’era della psicocrazia
Il pensiero unico sulla psiche che normalizza il mondo
di Roberto Esposito


Depressione, anoressia, stress, insonnia: malattie tipiche dei paesi ricchi, che ora l´Occidente ha iniziato a "esportare". L´elenco dei sintomi si allunga sempre di più. Ogni comportamento individuale viene catalogato, chiunque può essere riconosciuto come affetto da una patologia. E l´industria dei disturbi mentali ha bisogno di nuovi "clienti". Con il rischio che il pensiero unico sulla psiche normalizzi il mondo

Chiesero al morente di sete se non lo disturbasse il gocciolio della cella vicina, e promisero di porre rimedio"; "Complementari ai tecnocrati gli psicocrati". Chi sa se, quando scrisse questi taglienti frammenti, Paul Celan di cui Einaudi ha appena tradotto una nuova raccolta di poesie con il titolo Oscurato (a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli) avrebbe immaginato una rapida estensione planetaria di quanto gli toccava sperimentare in prima persona. Perché è proprio un crescente potere sulle menti, complementare a quello sui corpi, che sempre più si va affermando attraverso processi generalmente riconducibili alla categoria di biopolitica. Ethan Watters, in un saggio intitolato Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, già segnalato su queste pagine da Massimo Ammaniti, e ora tradotto in italiano da Bruno Mondadori, ne ha riconosciuto la fenomenologia in una sorta di globalizzazione di disturbi mentali inizialmente diagnosticati negli Stati Uniti e da lì esportati nel resto del mondo con un effetto di contagio inarrestabile.

Studiando la mutazione della percezione di determinate malattie della mente, in un primo momento catalogate secondo i parametri culturali dei paesi interessati - dalla Cina alla Tanzania - Watters osserva come, ad un certo punto, la loro definizione si omologhi a quella occidentale sotto la spinta di potenti campagne pubblicitarie promosse dalle grandi industrie farmaceutiche. A diffondersi, come in una vera e propria epidemia - i cui virus sono i nostri stessi modi di pensare - , è una catena di conseguenze, simboliche e reali, in base alle quali non soltanto la malattia in questione muta faccia, ma finisce per penetrare anche in spazi socio-culturali dove prima non aveva accesso, come se gli anticorpi socio-culturali che fino allora li avevano protetti fossero ceduti di schianto. Una volta che i malati possono conferire ai loro sintomi una definizione apparentemente oggettiva - desunta dai protocolli ufficiali elaborati di solito in America, come l´onnipresente DPM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) - , si sentono autorizzati a proiettare i propri problemi personali in qualcosa di più forte di loro, che insieme li assoggetta e li legittima come soggetti di quel male.
Non è difficile ricondurre queste dinamiche a ciò che filosofi contemporanei come Foucault e Deleuze hanno definito con il termine "dispositivo", intendendo con esso un apparato teso a controllare e modificare gli atteggiamenti mentali o le azioni di determinati individui - non forzandoli dall´esterno, ma rendendoli essi stessi partecipi del proprio assoggettamento. Da questo punto di vista la società contemporanea risulta un grande corpo, attraversato da un numero crescente di dispositivi destinati a caratterizzare le nostre idee ed orientare i nostri comportamenti in base ad interessi di cui è ormai difficile individuare la provenienza. Ciò non toglie che la medicina ne costituisca uno dei tratti più tipici, perché rappresenta precisamente il punto di contatto, e di crescente indistinzione, tra sfera del corpo e sfera dell´anima o come altro si voglia chiamare ciò che eccede l´ambito della mera biologia.
Non a caso la direzione sempre più mirata che vanno assumendo gli attuali processi di medicalizzazione è quella di uno schiacciamento progressivo dello psichico sul corporeo. Così ciò che inizialmente era diagnosticato come un disagio di carattere personale o sociale è sempre più spesso curato con strumenti chimici. Come attestato da numerosi studi - come quello di Philippe Pignarre su L´industria della depressione, tradotto da poco da Bollati Boringhieri o Manufacturing Depression di Gary Greenberg - i veri motivi della crescita esponenziale della sindrome depressiva, ormai diffusa quanto le malattie cardiovascolari, vanno individuati non in fattori di ordine sociologico o clinico, ma nell´uso degli stessi psicofarmaci che intendono combatterla. Ciò avviene attraverso quella sorta di circolo vizioso, implicito nel protocollo medico ufficiale, che definisce depressione "quella vasta area di disagio psichico curabile con gli antidepressivi".
E´ evidente che, una volta configurata la malattia in base alla terapia, questa, mentre la cura, è destinata a riprodurla per autoriprodursi, estendendosi a zone sempre più ampie di società. Tutto sta, per le industrie farmaceutiche e per quei medici che ne diventano sempre più i semplici terminali operativi, ad ampliare la lista dei sintomi, al punto di comprendere tra essi anche fenomeni reciprocamente contrari come l´appetito eccessivo e l´inappetenza, l´irrequietezza e la spossatezza, l´impotenza o la dipendenza dal sesso.
A questo punto ben pochi individui possono sottrarsi ad una catalogazione potenzialmente estendibile a tutti. E infatti è proprio questa la tendenza ipertrofica delle campagne di sensibilizzazione contro, ma in realtà funzionali alla diffusione della sindrome. Il cardiologo Marco Bobbio, in un libro intitolato Il malato immaginario. I rischi di una medicina senza limiti, edito da Einaudi e già recensito su questo giornale da Maria Novella De Luca, ricorda come l´Italia detenga il record europeo di consumo di farmaci pro capite e il più alto numero di medici per determinate quote di cittadini, nonostante che i tagli progressivi al sistema sanitario mettano in forse il welfare, magari negando una TAC a chi ne ha veramente bisogno.
E´ un´altra forma di quella biopolitica dei corpi e delle anime cui da tempo siamo soggetti - nel doppio senso che ne siamo prodotti e produttori: all´ipersalutismo propagandato dai media come nuovo obiettivo di una vita sempre più lunga e felice fa riscontro l´ipocondria crescente di fasce sempre più ampie di popolazione. Ad unificare, sovrapponendole, queste due spinte è l´idea della caduta di ogni limite per un uomo sottratto al suo destino di finitezza. Quella "psicocrazia" che paventava Paul Celan prima di suicidarsi è ormai diventata una compiuta biocrazia in cui mente e corpo sono insieme l´oggetto e la posta in gioco di una partita di cui è sempre più difficile riconoscere i giocatori, ma di cui è necessario prendere coscienza. Non per cercare, invano, di arrestarla, ma almeno per coglierne la logica e valutarne le conseguenze.

Repubblica 23.10.10
Nella nostra società si discute spesso di "nuova emergenza educativa" e di disagio giovanile Bisognerebbe invece ricondurre i comportamenti dei ragazzi alle esigenze della loro età
Scopriamo la vitalità dell´adolescenza senza farne sempre una malattia
di Gustavo Pietropolli Charmet


Questa generazione di adolescenti è destinataria di nerissime profezie e giudizi allarmati. La cultura degli adulti sembra convinta che sia condannata ad una qualità di vita futura molto peggiore di quella goduta dai padri e dai nonni. Meno lavoro, pensioni fatiscenti, alloggi a costi inavvicinabili ed un intero pianeta da riparare dopo le profanazioni ed i vandalismi delle generazioni precedenti. Anche le diagnosi che gli adulti fanno del loro stato di salute mentale e del loro sentimento etico appaiono preoccupate. Spesso nei confronti degli adolescenti attuali si invoca il ripristino di paletti e norme severe che sarebbero state divelte e abrogate.
La questione è di importanza educativa cruciale e coinvolge il settore delle politiche giovanili, della riforma della scuola, della riorganizzazione dei servizi preventivi e della salute mentale. È infatti diventato arduo per gli adulti che interagiscono col mondo giovanile comprendere il senso e la direzione delle novità che caratterizzano il loro modo di interpretare il processo adolescenziale. Non si tratta solo del prevedibile cambiamento di mode, di idoli, di stili di vita: il cambiamento sembra coinvolgere questioni molto più profonde e concernenti la qualità delle passioni che sperimentano.
I giovani non hanno più paura degli adulti e delle loro istituzioni e non sembrano alle prese con forti sentimenti di colpa nei confronti dei valori e delle norme convenzionali. Gli adolescenti ad esempio non riconoscono alla scuola un significato simbolico ed istituzionale e la utilizzano come un servizio o un centro di socializzazione e scambio culturale. Ciò spoglia i loro docenti della attribuzione al loro ruolo di una autorevolezza prestata a priori in quanto rappresentanti del potere adulto e delle tradizioni culturali del paese.
La reazione del corpo docente alla proposta relazionale proveniente dalle classi in cui insegnano viene generalmente interpretata come il sintomo di una grave demotivazione, di una generale disaffezione nei confronti dell´apprendimento e di una insolente mancanza di rispetto nei confronti della scuola.
È solo uno dei mille esempi dei cambiamenti in corso e della difficile interpretazione da effettuare.
Per i ragazzi infatti è del tutto "normale" ciò che fanno o non fanno a scuola: il ruolo di studente non gestisce più le loro passioni e quindi trattano ciò che concerne la scuola come faccenda di scarso interesse emotivo. Gli adulti invece parlano di una nuova "emergenza educativa", come se fosse in corso una attività sovversiva da parte di una moltitudine di giovani, che in realtà chiedono alla scuola di sviluppare un maggior interesse educativo nei loro confronti ed una più alta competenza sul versante della loro vita affettiva, relazionale e di produzione creativa.
Sotto l´etichetta di "bullismo" si inquadra così uno sciame incoerente di comportamenti goliardici, scherzosi, dispettosi che i ragazzi considerano facenti parte della normalità della vita scolastica. La vita di gruppo rischia di essere considerata la scellerata orgia di un branco selvatico e pericoloso. Per gli adolescenti invece i legami affettivi e sociali con i coetanei sono sacri, sia quelli virtuali che quelli concreti.
La difficoltà degli adulti a capire il significato affettivo profondo che i ragazzi danno alla conquista della notte, al bisogno di rimanere sempre in contatto virtuale, alla nuova relazione col corpo trafitto di piercing e firmato da tatuaggi policromi li sospinge a convocare sulla scena della relazione educativa le discipline "forti"; la psichiatria, la criminologia, gli esperti di devianza giovanile ai quali chiedere una diagnosi e, se possibile, un trattamento delle "nuove emergenze".
Il rischio della patologizzazione dell´uso che i ragazzi fanno di Internet, del consumo di musica, della loro dipendenza dal gruppo di amici, rischia di compromettere la relazione fra mondo giovanile e cultura degli adulti.
I ragazzi sono alla ricerca di adulti competenti, non di esperti che presumano di sapere senza chiedere: hanno bisogno di adulti che non si spaventino delle novità, che non si illudano di cavarsela con le diagnosi e le etichette fuori tempo, che abbiano una vera passione educativa. Quando ne incontrano uno non se lasciano sfuggire e organizzano la grande festa dell´incontro col mentore, la guida, l´adulto che sa che si può uscire sani e salvi dal labirinto dell´adolescenza.
(L´autore è psicoterapeuta ed esperto di disagio giovanile)

venerdì 22 ottobre 2010

il Fatto 22.10.10
Ma quanti sono i preti pedofili? In un mese 103 denunce in Belgio
E in Francia 51 ecclesiastici sono sotto processo
I nuovi casi si aggiungono alle quasi cinquecento vittime di abusi, 13 delle quali si sono suicidate
di Giampiero Gramaglia


Non basta uno spot contro la pedofilia, anche se collocato sulla piazza del Duomo di Milano, proprio davanti alla Cattedrale, per “esorcizzare” il demone delle violenze sui minori che s’è annidato in seno alla Chiesa cattolica. L’inaugurazione dello spot, voluto da un’associazione che tutela i diritti dei bambini, coincide con l’emergere di notizie inquietanti in Francia e in Belgio, due Paesi le cui autorità ecclesiastiche hanno scelto, dopo momenti d’esitazione la via della trasparenza.
E, fuori dalla Chiesa, pure le cronache italiane non risparmiano orrori sui minori: cinque indagati in varie città – l’inchiesta parte da Catania – una madre sotto processo ad Ascoli Piceno per avere tollerato violenze sulle tre figliolette.
IN FRANCIA , paese dove gli scandali sono stati relativamente modesti, se confrontati con quelli negli Stati Uniti, in Irlanda, nel Belgio stesso, la Conferenza episcopale rivela che nove preti sono attualmente in carcere per pedofilia, che 51 sono sotto processo e che 45 hanno già scontato la loro pena: 105 casi, su una popolazione di sacerdoti che, nel 2008 sfiorava i 20 mila (19.640 per la precisione). I vescovi francesi non forniscono dettagli sulla durata delle pene che i preti hanno scontato o stanno scontando. In Belgio, s’è appreso che la procura federale ha ricevuto solo nell’ultimo mese 103 nuove denunce di vittime di abusi sessuali da parte di preti pedofili: vanno ad aggiungersi alle quasi cinquecento denunce (in 13 casi, le vittime si sono suicidate) raccolte dalla commissione d’inchiesta indipendente voluta dalla stessa Chiesa e poi chiusa dopo il sequestro dei dossier da parte della procura. I casi ora dichiarati risalgono, spesso, a molti anni or sono – solo la metà dei “colpevoli” individuati sono ancora vivi – ma solo ora le vittime trovano la volontà di rivelarli, mosse dalla ricerca di giustizia, ma anche dal desiderio di essere riconosciu-
te come tali e di avere quindi diritto a risarcimenti. E dire che, questa settimana, la Chiesa belga aveva definitivamente accantonato l’idea d’istituire una nuova commissione d’inchiesta e aveva pure rinunciato al progetto di creare un centro per l’assistenza alle vittime dei preti pedofili, sostenendo che un’iniziativa del genere spetta alle autorità civili. A riferire sul lavoro della procura è stata la portavoce Lieve Pellens, comparsa davanti alla commissione giustizia della Camera. La maggioranza delle persone che hanno ora scelto di ricorrere alla magistratura sono uomini (76%): il più giovane ha 23 anni, il più anziano 82, l'età media è di 49. Quasi la metà hanno raccontato di avere subito violenze frequentando la Chiesa, oltre un quarto in scuole di preti.

l’Unità 22.10.10
La storia c’insegna come possiamo salvare l’Italia
Per una patria diversa Lo storico ci invita a guardare ai problemi di oggi e al ruolo del nostro paese nel mondo moderno non solo attraverso i nostri occhi ma anche con quelli degli uomini e delle donne che lo hanno fatto
di Paul Ginsborg


Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italiano. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, circa 40.000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell’Italia un paese multiculturale, ma certo è un inizio. Alla cerimonia di conferimento della cittadinanza l’allora presidente del Consiglio comunale fiorentino,
Eros Cruccolini, mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Costituzione italiana.
I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, mi dicevano, e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: «Mi vergogno di essere italiano»».
Mentirei se dicessi che queste reazioni mi hanno sorpreso. Vivo in Italia da quasi diciotto anni ormai, e da quaranta circa ne studio la storia, abbastanza per saper cogliere lo stato d’animo della sua gente. Ma la coralità dei commenti provenienti da persone spesso socialmente impegnate senza dubbio mi ha fatto riflettere. In quale altro paese al mondo i cittadini reagirebbero con altrettanto spregio di sé? Certo non i greci o i francesi, né gli americani o i britannici. Quali consuetudini culturali profondamente radicate stanno alla base di questa reazione? Carlo Cattaneo, con la sua tipica lucidità e sottigliezza, propose una risposta a questo interrogativo scrivendo, nel 1839, di «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese quasi per una escandescenza di amor patrio». Ma è difficile accettare che sia il troppo amore per la patria il motivo della reazione all’unisono dei miei amici. A me pare piuttosto di leggervi una gran tristezza sulla condizione attuale del paese, accompagnata da una profonda rassegnazione. (...)
Complessivamente, (in Italia) esiste oggi un senso di insoddisfazione profondo quanto quello di duecento anni fa e forse più insidioso, poiché apparentemente induce passività più che protesta.
Partiamo dalle famiglie. (...) La vita famigliare contemporanea equivale a una vera e propria educazione a diventare «liberi cittadini», per dirla con Foscolo? Non credo. Sotto un certo profilo oggi i membri delle famiglie sono più liberi e godono di maggiori diritti rispetto al passato di fare scelte riguardanti la propria vita, di viaggiare, di votare alle elezioni. Soto un profilo diverso sono intrappolati dai modelli di consumo e di egoismo imperanti che rischiano di essere più perniciosi di quelli del primo Ottocento. Le famiglie italiane hanno molte virtù la vicinanza emotiva, le forti solidarietà tra generazioni, la capacità profondamente radicata di godersi la vita -, tutte caratteristiche che chi viene dal Nord individualista e più freddo invidia. Ma hanno poche virtù civiche e il modello su cui oggi si basa la vita famigliare, quello del mercato globale, non contribuisce a rendere le famiglie italiane più consapevoli delle loro responsabilità complessive.
In tutto questo i meccanismi di trasmissione della cultura moderna hanno un ruolo cruciale. (...) La televisione, come è noto, è lo strumento culturale predominante in circa l’80 per cento delle case italiane. Non è un mezzo, bensì un soggetto, il più potente protagonista culturale della scena contemporanea. La televisione non è un male assoluto, come tentò di teorizzare Karl Popper negli ultimi anni della sua vita. Nella storia italiana essa ha avuto un ruolo essenziale nella diffusione di un’unica lingua nazionale e un senso di comunità nazionale. Ma quando il controllo della televisione è concentrato in pochissime mani e nel caso italiano quasi esclusivamente in due sole mani ben curate, allora è uno strumento profondamente insidioso. Scodella un pasto infinito di soap opera, calcio, varietà e reality show inesorabilmente condito da quantità industriali di spot pubblicitari, tutti orientati a rafforzare il modello «lavora e spendi» della vita quotidiana nel capitalismo consumista. La televisione nella sua forma attuale ci seduce e anestetizza tutti. (...)
IDEE PER CAMBIARE
Non c’è soluzione semplice a questo problema. Una volta ripudiata la violenza, che alternativa resta? Per rispondere a questo interrogativo devo ricorrere ad altre virtù sociali, benché esiterei a classificarle come deboli o forti. Una è la costanza la capacità di non abbandonare una lotta che ha tempi lunghi. L’altra è la creatività, così che nonostante la limitatezza della gamma di azioni possibili, la loro forma possa essere reinventata continuamente.
Aggiungerei anche l’idea delle «riforme mobili», in sostituzione delle barricate mobili usate dai milanesi nelle strade della loro città contro le truppe del maresciallo Radetzky. Non si tratterebbe di «riforme» come quelle di cui oggi si sente parlare la riforma pensionistica (ossia i tagli alle pensioni), la riforma dell’equilibrio dei poteri (ossia distruggerlo), la riforma della Costituzione (no comment). Sarebbero invece riforme che coinvolgono i cittadini stessi in una dinamica di decision making che parte dal basso verso l’alto, come Cattaneo ha sempre auspicato. Idealmente, le «riforme mobili» sono quelle che, strada facendo, portano la gente a interessarsi alla politica, ad autorganizzarsi, a prendere parte continuativa nel processo riformatore. In questo schema gli individui non sono solo i destinatari passivi delle politiche che discendono dall’alto, ma diventano rapidamente cittadini attivi, critici e dissenzienti. Un’idea simile porterebbe al capovolgimento della politica come la conosciamo ora, perché imporrerebbe ai politici di diffondere il potere, invece di concentrarlo. Il concetto delle «riforme mobili» può essere applicato a molte sfere diverse all’ambiente con la raccolta differenziata, il risparmio energetico e altre misure che partono dalle famiglie stesse, alle politiche partecipative con la creazione di veri forum dei cittadini (non quelli fasulli della «consultazione»). In questa dinamica, assimilabile forse a una palla di neve che, in movimento, guadagna sempre più volume, il fine non giustifica i mezzi. Piuttosto i mezzi diventano essi stessi parte del fine.    © Einaudi

il Fatto 22.10.10
Cultura fuori dalla cultura
Non solo libri: la “società intellettuale” deve riconquistare rilevanza. Oggi più che mai può farlo uscendo da confini letterari e misurandosi con i temi politici e sociali del Paese
di Evelina Santangelo


“Come posso far sì che la mia attitudine critica, l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro?”. Così si interroga Christian Raimo sulla Domenica del Sole 24 Ore di qualche settimana fa, dando voce al disagio di quanti in Italia svolgono un lavoro intellettuale scontando la colpa singolare di appartenere a una generazione destinata a vivere la frustrazione della propria ininfluenza. La ragione di questo stato di cose, secondo Raimo: quel “deserto di cultura” in cui ormai si è tutti calati e che i giornali nella loro noncuranza contribuiscono ad alimentare. Un deserto che – come puntualizza Gianluigi Ricuperati – si nutre di quel genere di risentimento (riversato soprattutto nella blogosfera) legato al sospetto che nulla ormai in questo paese sia conseguito e conseguibile in base al merito.
ORA , al di là delle polemiche sull’“esistenza o meno” di un autore come Raimo che mi sembra avviliscano il dibattito (quasi chiunque in fin dei conti “esiste” per cerchie ristrette di estimatori), non c’è dubbio che, se c’è molto di vero in queste e altre considerazioni fatte da due autori che stimo, c’è anche a mio avviso una forma, diciamo, di autismo, una tendenza a orientare lo sguardo in modo selettivo, volgendolo a quegli ambiti in cui alcune intuizioni trovano conferme puntuali, esatte. Mentre sarebbe proprio il caso di dire con Giorgio Vasta (Repubblica, 19 ottobre) che bisognerebbe davvero “cambiare postura psicologica”, non solo però – aggiungerei – cercando di mettere da parte ogni alibi per emanciparsi e affrontare l’impresa di inventare un “codice culturale” non assunto di peso dai padri come un dato ereditario, ma provando anche a interrogarsi sul proprio ruolo e sulle responsabilità nuove poste, per esempio, dall’odierna frammentazione in cui finiscono per disperdersi ed essere sommerse le diverse voci che, nonostante tutto, oggi di fatto costellano il panorama culturale italiano. Ora, un bel po’ di tempo fa, il 13 febbraio, proprio sul Fatto Quotidiano pubblicavo un articolo, (“Lo scrittore solo”, un articolo forse troppo prematuro per i tempi, chissà) in cui, tra le altre cose, mi chiedevo che genere di responsabilità si dovessero assumere gli scrittori nell’odierno spaesamento e sradicamento e come si potesse spezzare la doppia solitudine in cui molti vivono, ora considerati senza discrimine alcuno come intrattenitori, o produttori qualsiasi di un qualsiasi bene di consumo, ora invece concepiti come simboli cui delegare ogni battaglia etica, politica, culturale (come nel caso di Saviano). In questa doppia solitudine coglievo il segno della irrilevanza sociale dello scrittore nella sua specificità come sintesi di intelligenza immaginazione e cultura “capace di generare visioni” o di “dar voce a ciò che è senza voce”, per dirla con Calvino. Concludevo poi quel pezzo con una considerazione che oggi mi sembra colga appunto i limiti e le potenzialità di questo dibattito.
QUEL CHE potrebbe fare la differenza tra “l’immobilismo” generazionale di cui parla Raimo e una “nuova postura psicologica”, come dice Vasta, è forse proprio una nuova postura spirituale, in cui assieme alla necessità di concepire e dar forma a visioni capaci di interrogare il proprio tempo si sentisse fortissimo il dovere di spezzare il proprio solipsismo più o meno egocentrico, collegandosi il più possibile in una sorta di discorso più vasto e intrecciato, “quel genere di discorsi a più voci – dicevo in quel pezzo – che danno rilevanza a una società letteraria, intellettuale e artistica”. Una “rilevanza” che va prima di tutto conquistata. E va conquistata anche con la capacità di inventarsi luoghi dove tessere trame, riannodare fili dispersi di intelligenze, immaginazioni, saperi. E va conquistata pure –oggi più che mai– con la capacità di innestare l’ordine dei discorsi specificatamente letterari o artistici in altri discorsi scientifici, politici, sociali, identitari, tutti quei discorsi di cui dovrebbe esser fatta la vita civile di un paese civile, in modo da ricostruirne l’ossatura spirituale. Se si volesse guardare con attenzione a quel che sta accadendo nella cultura chiamiamola così, “militante”, di questo paese, si scorgerebbe un filo rosso che forse sarebbe il caso di afferrare e seguire. Un filo rosso con cui da più parti si sta provando a riallacciare un dialogo possibile tra quanti sentono l’urgenza di rifondare in modo laico e problematico il ruolo dell’intellettuale in un tempo e in una circostanza, tra l’altro, in cui si è diffusa la convinzione che si possa fare a meno dell’intelligenza (umanistica e scientifica) o che si debba necessariamente farne a meno per mancanza endemica di intelligenze.
LO SI STA facendo in rivistecome Alfabeta 2, per esempio, nel cui secondo numero si ragiona e si dà forma (in una pluralità di punti di vista) a una terza via tra “informazione culturale” e “intervento politico”: la via cioè dell’“intervento culturale”, con l’intenzione dichiarata di “annodare fra loro fili discorsivi” perduti tra cultura e contesti (economico, sociale e politico). Lo si sta facendo in blog come Nazione Indiana dove si stanno raccogliendo gli esiti di un’ampia inchiesta sulla responsabilità d’autore che ha visto coinvolti, oltre allo stesso Christian Raimo, una trentina di poeti e scrittori di formazione, generazione ed estrazione diversissima (da Biagio Cepollaro a Marcello Fois, da Marco Giovenale a Laura Pugno a Ginevra Bompiani a Michela Murgia...). Lo si sta facendo travasando riflessioni o cercando di far riecheggiare discorsi tra blog e siti diversi (Vibrisse, Giap, Lipperatura, Carmilla, Il Primo Amore...) di quella Rete che sarà pure un “egodromo” ma offre anche, come dice Sergio Escobar, “stimoli formidabili e nuovi spazi per le idee”. Lo si sta facendo cercando di riallacciare dialoghi possibili tra autori e critici come Andrea Cortellessa o Domenico Scarpa... appartenenti più o meno alla medesima generazione di “spaesati”. Tutti tentativi (questi e altri) forse di costruire intanto una sorta di cittadella immateriale dove circolino idee capaci di misurarsi tra loro e con i vari contesti di cui è fatto lo spazio pubblico in un paese civile. Per questo forse non è propriamente un caso, ma l’ulteriore manifestazione di un processo piuttosto, quel che oggi sta succedendo anche sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore.
D’altro canto, ci sono processi che accadono insensibilmente, attraverso piccoli smottamenti privati o condivisi, affioramenti episodici, fino a quando non succede che tutto ciò si intrecci in un’esile trama. Ecco, forse siamo qui, a questa esile trama di “una piccola civiltà” possibile (che oggi, in un paese che ha perduto se stesso, non può essere solo e soltanto “letteraria”, vorrei dire a Christian Raimo). E sarebbe un peccato che se ne perdesse il filo.

Repubblica 22.10.10
Chi si ricorda l´indulto?
A chi serve il "carcere breve"?
In cella meno di 48 ore così i reati più piccoli fanno esplodere il carcere
Quattro detenuti su 10 non hanno precedenti penali
di Enrico Bellavia


Per quale "irragionevole ragione" la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l´indulto voluto da Mastella?
Mentre il governo si dedica al lodo Alfano e al "processo breve", a chi e a che cosa serve questo "carcere breve"?
Ma quanto costa questa macchina infernale? E quali sono i rimedi proposti dal governo per uscire dall´incubo della bolgia?

ROMA - A ognuno di noi sembra molto ma molto difficile, se ci si comporta più o meno bene, entrare in carcere, in questa Italia. Anzi sembra che nei duecento «istituti di pena» non ci entri nemmeno chi «se lo merita».
Ma non è così. Dall´Unità d´Italia a oggi, nei 170 anni di storia italiana, non si sono mai registrati così tanti detenuti nelle nostre carceri. L´ultimo conteggio ufficiale del Dap, il dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, parla di 68.527 detenuti (ma sarebbero già 69.500), tra i quali 3mila donne. Di queste, sessantuno hanno i figli in cella. Rispetto ai 44.568 posti effettivamente disponibili, i detenuti sono circa 25mila in più.
Un terzo non è nato da noi: sono stranieri, con in testa marocchini e algerini, due terzi dei detenuti sono italiani. Da dove nascono le cifre del record? Per quale «irragionevole ragione» la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l´indulto voluto dall´allora ministro Clemente Mastella? E se i reati, come assicura il ministero degli Interni Roberto Maroni, sono «complessivamente in calo», com´è possibile un incremento così ansiogeno?
LE PORTE GIREVOLI
In televisione «passano» gli arresti dei latitanti, quest´ondata infinita di catture improvvise, che sommerge boss e gregari anzianotti, reduci dei vecchi eserciti mafiosi in rotta. Ma nelle celle vanno ben altri. Per esempio, ci va un calciatore, delle giovanili della Juventus. E perché? Nella Chivasso dell´ultimo ferragosto incrocia una pattuglia dei vigili e vola qualche parola di troppo. E anche se l´arresto per resistenza a pubblico ufficiale è facoltativo, D. B., classe 1988, finisce dentro. Due giorni alle Vallette, sulle brandine sovraffollate, per ricomparire in tribunale il 16 agosto. Con il suo taglio di capelli scolpito, il fisico perfetto e la maglietta alla moda spicca tra gli stranieri e i «borderline» delle direttissime: viene scarcerato, ma due giorni se li è fatti.
Cambiamo regione e professione: Felice e Salvatore sono due operai di Bagheria, hanno 28 anni, non hanno mai avuto un guaio con la giustizia, finché un giorno buttano in un cassonetto della segatura di legno. Lo avevano sempre fatto, alla fine del turno in falegnameria. Ma era appena cambiata la norma, rimasero tre giorni dentro. Qualche anno fa, e ancora ne ridono, entrò a San Vittore un diciottenne che non s´era fermato all´alt nella zona della stazione Centrale ed era scappato con lo skate-board. E a Reggio Emilia, solo quindici giorni fa, è stato messo in cella uno che aveva rubato una lattina di birra.
É il reato che manco si sa di commettere a rendere il carcere una bolgia. Sono soprattutto i «pesci piccoli» – questa è la gran verità, omessa nei discorsi ufficiali sulla sicurezza e la giustizia – che rendono le carceri simili a una tonnara nei giorni della mattanza. E chi si occupa di detenuti accusa del disastro soprattutto le «porte girevoli»: è stato ribattezzato in questo modo il vortice d´ingressi (che si potrebbero evitare) e di repentine uscite.
Come il calciatore, i falegnami e il ladro della lattina. I «nuovi rei», ossia le persone che entrano in carcere per la prima volta, sono 32mila. Uomini e donne, con famiglie, con affetti, che vengono presi, perquisiti, spogliati, che ricevono dalla polizia penitenziaria gli «effetti letterecci» per dormire sulle brande.
Vengono infilati in celle già affollatissime e ci restano, con le nuove, sconosciute e obbligatorie compagnie, non si sa quanto gradevoli, per quarantott´ore. E poi, ancora sporchi dell´inchiostro delle impronte digitali all´ufficio matricola, e con le stringhe da allacciare, ricevono tanti saluti: possono tornare a casa. In Lombardia, il provveditore regionale Luigi Pagano ha calcolato che, nelle due principali case circondariali, Milano e Brescia, la percentuale dei detenuti che «esce nel giro di una settimana varia dal cinquanta al sessanta per cento. A volte arriva uno alle 12 e alle 14 esce».
Mentre il nostro governo si dedica anima e corpo al cosiddetto lodo Alfano e al «processo breve», a chi e a che cosa serve questo «carcere breve»? Non c´è una risposta che sia una. Ma è stato calcolato che quattro persone comuni su dieci, la cui fedina penale era pulita, e che se la potevano cavare con una denuncia a piede libero, incontrano il sistema penale italiano: meglio, ci sbattono contro.
Una parte molto cospicua di questo «entra ed esci» riguarda quelli che vengono anche definiti «reati apparenti», e cioè reati in cui manca la vittima. È il reato principe degli immigrati clandestini, come Frank: era un habitué dei portici di Palermo, ha collezionato un arresto ogni due settimane per mesi («non ottemperava al decreto d´espulsione») fino a quando è riuscito a far perdere le proprie tracce.
Quello cui si sta assistendo – parlano i fatti – è un «repulisti» di poveracci, di stranieri e di tossici, messi nella «discarica» del carcere (sono tutte parole pronunciate nei convegni). Se questo può forse corrispondere a una precisa logica «d´ordine» (ordine almeno apparente, da immagine televisiva e non da strada), il problema non cambia. Il reato piccolo piccolo è in agguato per chiunque: Antonio è un odontotecnico, è stato accusato di un furto di corrente elettrica, si era dichiarato innocente, ma non ha avuto possibilità di difesa, giacché il tecnico dell´Enel aveva portato via il contatore. Quattro giorni di prigione e poi via di corsa a patteggiare, «pur di tornarmene fuori», dice.
Qual è la «colpa principale» per quasi la stragrande maggioranza dei detenuti italiani? Sono i «reati contro il patrimonio»: furti e borseggi. Poi c´è il piccolo spaccio. Molto impegnati nel «turn over» della giustizia sono i tossicomani, arrestati per possesso di droga sul cui uso, personale o per vendita, deve pronunziarsi il magistrato. Ben il 30 per cento dei detenuti è consumatore di droga (e molti sono affetti da epatite C) e dovreste stare in comunità (ma non c´è posto). Per omissione di soccorso, ingiuria e diffamazione finisce dentro il 15 per cento. In fondo alla classifica dei detenuti, ecco i responsabili di reati contro la pubblica amministrazione (3,4) e contro l´amministrazione della giustizia (2,9%).
LE MISURE DELLA TORTURA
E i «cattivi» veri? A conti fatti, solo tre detenuti su dieci – attenzione – si sono macchiati o sono sospettati di crimini violenti. Più paradossale il tema dei «mafiosi in galera»: intere fette di territorio sono in mano ai clan, ma in carcere non arrivano a seimila detenuti. E, tra questi, è il 10 per cento che sconta il famoso o famigerato 41 bis, ossia il carcere durissimo. Quanti? Presto detto: 267 camorristi, 210 esponenti di Cosa nostra, 114 affiliati alla ‘ndrangheta. Una goccia nel mare.
Vale la pena di ricordare che era il 2006 e con l´indulto avvenne «l´esodo dei 23mila». Ma adesso «tutte le Regioni italiane hanno abbondantemente superato la capienza regolamentare», come denuncia il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. Al Nord non si sta meglio che al Sud. Il top? È in Emilia Romagna: capienza totale 2393, numero dei reclusi oltre 4.400. «In percentuale è il 198 per cento, un dato cronico e destinato a superare ogni limite in Italia», dice Franco Maisto, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. «Siamo in un frenetico e imperdonabile immobilismo, "si fa si fa", dicono, e non si fa mai niente in nessuna direzione. Né aumentano i posti letto, né esce la gente».
«Detenuto in attesa di giudizio» è il titolo di un vecchio film, con Alberto Sordi protagonista. Raccontava di un innocente che finiva in carcere. Negli anni dell´inchiesta milanese "Mani pulite", quando a entrare in cella erano politici, finanzieri, imprenditori, molti giuravano: «Mai più, bisogna cambiare le carceri». Comunque la si pensi sul «pugno duro», sul «giustizialismo» o sul «garantismo», il dato è angoscioso: il 43 per cento degli attuali detenuti è in attesa di giudizio.
Dietro le sbarre, dove qualche gangster resiste ancora, e non mancano i balordi, tra tossici e clandestini, gravitano oggi 30mila detenuti senza una condanna definitiva. E – attenzione – la metà di questi «non definitivi», e dunque almeno quindicimila, sarà – la stima è dell´associazione Ristretti Orizzonti – assolta. In Europa, siamo un caso unico.
È grazie a questo paranoico stato delle cose che in cento posti-branda sono ammassate – per statistica – 152 persone. Soltanto in Bulgaria il tasso di affollamento delle carceri è maggiore (155), mentre la media europea è di 107 detenuti ogni 100 posti. I letti a castello arrivano a tre, quattro piani, la testa di chi dorme è a 50 centimetri dal soffitto. Spesso lo spazio vitale del detenuto è molto al di sotto dello standard dei 3 metri quadrati che sono «la misura della tortura».
Il coefficiente, in molte carceri dell´Italia del G8, è del 2,66 periodico: un coefficiente accettabile solo tra innamorati. Caltagirone, in provincia di Catania, è al primo posto per l´indice di sovraffollamento: ospita 302 persone invece delle 75 previste. Lo segue un altro carcere siciliano, Mistretta (Messina), con l´indice al 175 per cento. E la Uil penitenziari fa notare anche il caso di Busto Arsizio (Varese), non enorme, ma con gli arresti dell´aeroporto internazionale della Malpensa, «è pieno come un uovo». Si sta un po´ più larghi a Poggioreale: il carcere di Napoli ha una capienza di 1.658 persone, è arrivato a 2.801, numero che lo rende in termini assoluti quello più popolato d´Europa. Sommando tutti i numeri dei detenuti europei, fa effetto scoprire che uno su quattro si trova in Italia.
L´EXPLOIT DEI COSTI
Ma quanto costa questa macchina infernale? E che rimedi propongono dal governo?
Ogni detenuto costa allo Stato come se alloggiasse in un hotel quattro stelle: 113,04 euro. È questa la cifra media che il Dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, indica come costo giornaliero di un detenuto. In totale fanno 2,7 miliardi di euro. La cifra, non certo bassa, viene considerata ben al di sotto del necessario dagli operatori.
L´associazione Antigone, che oggi diffonderà un suo dossier sulle carceri, ha calcolato che se si arrivasse alla cifra dei 44 mila detenuti previsti nelle tabelle, si risparmierebbero 1,5 miliardi di euro. Non mancano neppure sprechi «classici»: come le nuove manette acquistate in confezione da cinque per le quali però, stando a un sindacato, ci sono solo due coppie di chiavi.
Gli agenti sono 39mila contro i 45 mila dell´organico. E seimila assenze pesano: nella sezione femminile del carcere pesarese Villa Fastiggi hanno dovuto lavorare anche agenti maschi, con sconcerto generale. Anche perché, nel gennaio scorso, il ministro Angiolino Alfano, in un incontro con i sindacati della polizia penitenziaria, aveva rassicurato tutti. Come? Annunciando diciotto nuove carceri, di cui dieci «flessibili». E garantendo – parole sue – le «tanto agognate 2mila unità».
Risultato reale? Zero. Ma questo di Silvio Berlusconi non era il «governo del fare»? Un altro anno galeotto sta finendo, e tra due mesi scade anche il decreto ministeriale che aveva nominato commissario straordinario Francesco Ionta.
I «Baschi azzurri» della polizia penitenziaria fanno le scorte. Ma – chiedono da qualche tempo – ha senso organizzare trasferte «di almeno tre uomini» non per i mafiosi, ma per chi sta per essere rilasciato? «Partiamo in tre con il cellulare – è il racconto concreto – per trasportare in un´altra regione qualcuno che va ai domiciliari, lo salutiamo e lo lasciamo libero anche... di evadere», protestano. È anche successo che, durante un trasferimento, il furgone cellulare si sia fermato: siccome si taglia su tutto, nel serbatoio non c´era più benzina.

Repubblica 22.10.10
Il triste rosario dei suicidi: 54 nel 2010 "Troppa gente, difficile controllare tutti"


MILANO - Mancano settanta giorni alla fine dell´anno e nelle carceri italiane ci sono stati 54 suicidi. Sono stati superati i bilanci del 2007 e del 2008. Proviamo a capire che cosa succede con Luigi Pagano, «capo» delle diciotto carceri lombarde: «Il problema è "non perdere di vista" quello che succede nonostante il sovraffollamento, e non è facile».
Qual è un´idea possibile?
«Niente di speciale, per carità, ma a determinare i suicidi ci sono due fenomeni. Uno è la scelta personale, e a volte non si può fare nulla. L´altro è sentirti sperduto, impaurito, un derelitto. È chiaro che se il numero degli ingressi è così alto come oggi, rischi di non riuscire a seguire tutti. Ma il personale è abituato a dire che ci troviamo in "un luogo di speranza" e a evitare il più possibile lo stress da primo ingresso».
La "speranza" è quella di uscire?
«Non solo. Anche speranza di capire qualche cosa. Ma si fa fatica, perché le risorse sono tarate per un certo numero di detenuti, noi siamo sotto organico, se entrano tanti detenuti di più, fatichi a controllare la situazione. Se prima percepivi i segnali, ora rischi di non percepirli».
San Vittore, milleseicento uomini, cento donne, quando dovrebbe averne novecento al massimo...
«Sì, ma tra entrate e uscite sa quanta gente passa in un anno da San Vittore? Abbiamo dodicimila movimenti, è chiaro che se uno ti vuole "fregare", ci può riuscire».
In tutta Italia ci sono oltre 260 gli operatori picchiati. Siamo tornati alla stagione delle carceri in fibrillazione?
«Nonostante tutto non mi sembra, la conflittualità c´è, ma è endemica. Il livello di animosità non è aumentato, almeno in Lombardia, anzi è inferiore rispetto a quello che potresti aspettarti. Su 9.300 detenuti in tutto, i suicidi sono stati tre. È dura, ma ancora ce la facciamo. Spero anch´io, non solo il detenuto».
(p.col.)

Repubblica 22.10.10
Visite fiscali chi è depresso può uscire


ROMA - È sufficiente fornire «un serio e fondato motivo che giustifichi l´allontanamento dal proprio domicilio» per il lavoratore in malattia perché affetto da sindrome depressiva ansiosa, che non si trova a casa al momento della visita fiscale. «La gravità» di questo «stato patologico», infatti, può giustificare l´assenza nelle ore di reperibilità e il datore non può usarla come scusa per licenziare. Lo ha stabilito la Cassazione, confermando il reintegro sul posto di lavoro, disposto dal Tribunale di Taranto, di una donna, afflitta da sindrome depressiva ansiosa, licenziata perché sorpresa fuori casa nella fascia oraria in cui avrebbe dovuto essere reperibile.

Repubblica 22.10.10
L´anticipazione/Un testo di Herta Müller in uscita per Sellerio

Istruzioni per gli uomini davanti a un regime
di Herta M
üller

Il premio Nobel e il comportamento di fronte a una dittatura: "Non è vero che non c´è nessuna differenza tra il venire a patti e il rifiutare le complicità"

Anticipiamo un brano dal libro del premio Nobel "In trappola", che esce oggi da Sellerio
on tutto quello che so del nazionalsocialismo, dello stalinismo, del socialismo post-stalinista, credo che gli esseri umani in tutte le dittature, per diverse che siano, si trovino di fronte essenzialmente alle stesse situazioni. Le elenco come ipotesi, sapendo che sono solo schizzi, che tra esse ci sono molte altre condizioni. E che nelle situazioni concrete le sfumature delle singole ipotesi si mescolano. Mi allontano con ciò dai testi letterari, cerco di trovare una sorta di visione d´insieme, per proiettare nell´Oggi i singoli Allora di questi testi. Poiché oggi molti di nuovo affermano, quando si parla della Ddr prima della caduta del muro, che non vi sarebbe nessuna differenza tra il venire a patti e il rifiutare.
1) Può essere:
Uno si mette a disposizione senza che glielo si chieda, volontariamente. Vuole una posizione e i privilegi connessi. A volte potrebbe essere solo un pezzo di pane più grosso. Tra i volontari non c´è in gioco nessuna paura ma solo il desiderio di riconoscimento e autorità. Il volontario vuole decidere degli altri, nonostante la sua mediocrità, di cui è consapevole ma che non ammetterà mai dinnanzi ad altri. (...)
Dirà poi che continua a credere nella giustizia delle sue azioni, che voleva il bene per tutti. E che questo era, di fatto, il bene, ma che non era stato capito ed era stato mal interpretato.
2) Può essere:
Uno si mette a disposizione perché glielo si chiede. Qui c´è già in gioco la paura e in testa un po´ di insicurezza, un po´ di coscienza sporca. E tuttavia lui si mette velocemente il cuore in pace, nota che ne valeva la pena. La coscienza sporca svanisce, perché la sua vita scorre senza intoppi e i giorni sono sicuri. La sua paura non scompare. Serve la trappola, diventa un colpevole pauroso. (...)
Dirà poi di aver sempre agito conformemente alle leggi in vigore. Che all´epoca era così e che col rifiuto non avrebbe potuto cambiare nulla. No – dirà – ciò non era bene, ma lui già allora non ci credeva e soffriva in silenzio. Ma in fin dei conti doveva guadagnarsi da vivere e bisognava dar da mangiare alla famiglia e inoltre – dirà – lui è cambiato. Avrà uno sguardo contrito e parlerà prudentemente piano, e tuttavia in ogni frase una parolina di allora lo tradirà. Non lo noterà.
3) Può essere:
Uno si metterebbe a disposizione ma non si chiede di lui. Non dichiara la sua appartenenza allo stato. Non ne sente nessuna. Ma, qualora lo si richiedesse, affermerebbe il contrario e si metterebbe subito a disposizione. Direbbe che si era già da tempo proposto di dichiarare la sua appartenenza. Che purtroppo non aveva potuto trovare la spinta per farlo. Che si rallegrava che finalmente si chiedesse di lui. Che aveva ora la possibilità di fare ciò che per lui era già da tempo un bisogno.
La partecipazione gli viene risparmiata. Sa che non si conta su di lui, che questo è un bene, ma è anche un rischio costante. È combattuto ogni giorno tra due opposte paure: la paura per l´oggi, la paura per il dopo. Oggi gli si potrebbe chiedere: Perché non ti sei messo a nostra disposizione? Dopo gli si potrebbe chiedere: Perché ti sei messo a loro disposizione? Vive timidamente. Non vuole necessariamente piacere allo stato, ma in nessun caso dispiacergli. Vive assente e muto. Diventa complice. (...) Il complice poi dirà, senza che sia stato interrogato, di aver sempre espresso il suo parere senza paura. E alla domanda sul perché non fosse perciò caduto in trappola, risponderà con un´alzata di spalle: Mah! Non era poi così grama all´epoca.
4) Può essere:
Uno non si mette a disposizione. Glielo si chiede e lui rifiuta. O non glielo si chiede più, è già troppo tardi per lo Stato. Poiché egli dice, senza che glielo si chieda e ben chiaro, quel che pensa. E se per caso tace, si sa che è ancora peggio. È uno che rifiuta e diventa nemico dello Stato. (...)
Se, dopo la caduta del regime, non è stato in qualche modo danneggiato, è morto. La morte avvenuta in prigione è stata registrata come arresto cardiaco. L´essere investiti da una macchina liquidato come incidente. L´uccisione per mezzo di defenestrazione, impiccagione, annegamento, inscenata dai colpevoli paurosi come suicidio. Gli amici lo sanno ma non sanno come provarlo, l´autopsia è stata negata. Se è stato solo danneggiato, dunque vive, ha morti nella sua piccola cerchia di amici. Ha anche fatto spesso esperienza di minacce di morte. E per il resto dei suoi giorni si chiederà perché la trappola sia scattata per gli altri e non per lui. Non può scorgere per quale ragione i colpevoli abbiano in certi casi solo preso in considerazione l´uccisione e per quale ragione invece l´abbiano in altri casi commessa. Dal momento che egli si nega al regime, si nega anche alla logica dei suoi apparati e non la capisce. (...)
Dei quattro tipi di persone abbozzati, ciascuno può essere uno scrittore. Ma solo l´ultimo tipo nominato non ha nessuna facilità a scrivere. Ciò che egli scrive deve percorrere ancora una volta quegli stessi gironi in cui è stato scaraventato l´essere-ancora-in-vita. Quel che poi sta su un foglio non è letteratura nel senso comune, ma il ricadere su di sé. È uno scrivere così angusto e senza via d´uscita come il pericolo stesso. Alla lettura la trappola scatta di nuovo. L´ammirazione di questi testi fa male. Alla lettura entra in gioco la paura. Paura retrospettiva per l´autore, ma anche paura per se stessi.
2009 © Herta Müller / Carl Hanser Verlag München 2010
© Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

Repubblica 22.10.10
La filosofia è un personal trainer
Le idee di Peter Sloterdijk hanno conquistato Habermas e gli studiosi francesi
Ora esce in Italia uno dei suoi saggi più importanti. Per "allenarci" a un´altra vita
"Non si può sperare di cambiare il mondo ma solo di migliorare se stessi"
"Si deve ritrovare il senso della disciplina come pratica e come metodo"
di Marco Filoni


Quando Peter Sloterdijk scrive un libro, in Germania e in Francia, diventa un evento. Da noi non è ancora così noto. Eppure il filosofo di Karlsruhe, classe 1947, domina la scena tedesca come non succedeva da decenni. Già nel 1983, il suo esordio con la Critica della ragion cinica viene definito dal decano Jürgen Habermas come l´avvenimento più importante dopo il 1945. Perché mina i principi dell´Illuminismo e propone un maquillage del cinismo greco per uscire dallo stallo del moderno. Da quel momento diventa un riferimento: con le sue eccentriche, ma solidissime, ricerche colma il vuoto di tante asfittiche variazioni filosofiche. Affrontando, anche in modo provocatorio, la concretezza dei problemi attuali. Lo dimostra il suo ultimo libro, Devi cambiare la tua vita, in libreria per Raffaello Cortina. In Germania ha venduto 50.000 copie in soli due mesi. Un record per un libro di filosofia di quasi 600 pagine. Un libro nel quale, analizzando la condizione umana, Sloterdijk ci dice che siamo alla deriva. Ma possiamo salvarci con l´allenamento, praticare esercizi che ci migliorino. Dobbiamo cambiare vita.
Professore, cosa significa questo imperativo?
«È quello che io chiamo imperativo assoluto. Una sorta di provocazione insormontabile. Che si muove su una sconvolgente scoperta, fatta agli inizi delle così dette civiltà avanzate: l´uomo è un essere stratificato. Del resto l´idea è presente, ai giorni nostri, nell´opera di Freud. Quando descrive l´anima la raffigura come una regione su tre piani: nel solaio, al primo piano, abita il super-io; nel pianoterra c´è l´io; nello scantinato c´è l´es. Da questa stratificazione si sviluppa quella che chiamo tensione verticale».
Lei raffigura questa tensione come una scalata, un´ascensione verso il miglioramento di noi stessi. Ma quali sono i mezzi per compiere questa scalata?
«La vita dell´essere umano non è soltanto una vita omogenea, pacificata e felice. Sente una tensione verso l´alto, una competizione a essere migliore rispetto ai suoi simili e a sé stesso. Un´idea espressa nei sistemi di esercizio antichi. I primi a incarnare questo modello, nella tradizione occidentale, sono stati gli atleti. Ma poco a poco si è generalizzato, è diventato un´ambizione di vita che ha formato il nucleo della nostra concezione filosofica della paideia, l´educazione. La paideia classica dei greci è una sorta di democratizzazione delle pretese atletiche. Non a caso Platone ha forgiato il termine philo-sofia sul modello della parola più antica philo-timia, che designava la virtù degli atleti a lottare per l´amore della gloria».
È una tradizione riscontrabile solo nei greci?
«No, affatto. La storia continua con il cristianesimo. I primi monaci orientali si erano denominati atleti di Cristo. E vivevano nell´asketeria, cioè luogo di allenamento: questo il primo nome di quello che più tardi avremmo chiamato monastero. Perciò i primi cristiani si allenavano a imitare il Cristo, l´essere umano che ha raggiunto la cima dell´autoperfezione divenendo il figlio di Dio, sviluppando la facoltà di vincere la morte e realizzare così l´ascensione verso il cielo. In questo senso la verticalità è l´idea più radicale della nostra storia. Imitare il Cristo è partecipare a un gigantesco esercizio di antigravitazione umana. I primi cristiani erano tutti discepoli dell´arte dell´antigravitazione».
Eppure nelle sue pagine lei ipoteca la religione. Addirittura sembra voler spogliare la teologia del suo carattere divino.
«Il mio proposito è far cadere il concetto di religione. È una conseguenza che traggo dalla teoria generale dell´esercizio. È più giudizioso descriverla con una terminologia legata all´allenamento. Quindi propongo una naturalizzazione del concetto di religione per esprimere la sua verità in termini immunitari. La religione è il primo sistema immunitario dei gruppi umani, un sistema d´immaginazione che promette loro la salvezza. Ma la salvezza non è gratuita: è il risultato di un´attività permanente, uno sforzo di solidarizzazione collettiva che dovrà essere regolarmente ripetuto. Solo così gli uomini possono immunizzarsi contro la paura della morte e della dannazione eterna. E questa immunità è acquisita attraverso l´allenamento».
Il sottotitolo del suo libro è Sull´antropotecnica. Cos´è?
«La definisco come la somma degli esercizi e delle pratiche attraverso le quali gli esseri umani elaborano il loro potenziale. Allo stesso tempo è la somma delle tecniche che gli individui utilizzano per mettersi in forma. Quindi un ambito della conditio humana che bisogna finalmente integrare nell´antropologia generale».
E quali sono le conseguenze politiche?
«L´antropotecnica nasce nella sfera politica durante la rivoluzione russa. I rivoluzionari sono stati i primi a fare apertamente la propaganda del miglioramento dell´uomo. In origine il termine compare nell´enciclopedia sovietica del 1926. Nasce dall´ideologia di Trotsky, che voleva creare una nuova umanità con un livello medio più elevato. Ovvero un mondo di geni, in cui al confronto Goethe o Michelangelo apparissero addirittura mediocri. Si può dire che è la ricezione dell´idea nietzscheana del superuomo asservita all´ideologia rivoluzionaria. In rapporto a ciò, oggi l´ideologia cattolica predica la modestia: l´uomo è così com´è. Anzi, meglio che vi rimanga più a lungo possibile. È un atletismo piatto, uno sport di massa senza vere ambizioni. Si è perduta la grande tensione dell´età classica. La generazione contemporanea ha dimenticato il concetto di antigravitazione e di tensione verticale. E se vi è un elemento pedagogico nel mio libro, consiste nella volontà di ricordare questa dimensione».
Quindi il filosofo oggi è una specie di allenatore che deve contribuire a indicare gli esercizi per esser migliori. C´è una certa assonanza con l´idea di Alexandre Kojève, che diceva di non esser più interessato ai filosofi ma soltanto ai saggi…
«In un certo senso ha ragione. La filosofia in quanto tale ha già giocato la sua ultima carta. E non ci si può più attendere molto da lei. Ma bisogna dire che il saggio kojèviano è legato al compimento del sapere, alla chiusura del grande ciclo della riflessione umana. Dopo il desiderio, dopo la storia, dopo la lotta, il saggio partecipa al Sapere Assoluto o lo realizza lui stesso. Un´idea molto stimolante e seducente, ma riservata a chi oggi può permettersi di vivere di rendite, senza la costrizione del lavoro. Ma tutti noi che invece continuiamo a lavorare siamo fuori portata dalla tentazione kojèviana. Per noi la storia continua, il lavoro continua…».
Quindi oggi a che serve la filosofia?
«Ci sono due risposte contrastanti. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, e negli anni che seguirono, la risposta era: la filosofia serve a interpretare e preparare il miglioramento del mondo. Così però la filosofia è una sorta di serva della sociologia, come nel Medioevo si diceva lo fosse della teologia. C´è poi una seconda risposta, accennata nel secolo scorso e che va ripresa: prima di migliorare il mondo esterno, l´individuo deve migliorare sé stesso».

Corriere della Sera 22.10.10
Effetto Vendola. Bersani fa il Pd di lotta
di Maria Teresa Meli

qui

l’Unità 22.10.10
Sinistra e libertà da oggi si fa partito Ma a Vendola sta già stretto
Da oggi a domenica a Firenze il congresso fondativo di Sinistra e libertà. Vendola leader indiscusso, sfida aperta al Pd. «È un’operazione fallita», si legge nella mozione. 1500 delegati, tra gli ospiti Epifani e Landini.
di Andrea Carugati


A lungo atteso dai militanti, il partito di Sinistra e libertà nasce questo fine settimana a Firenze. Sembra passato un secolo dall’autunno scorso, quando il progetto sembrava naufragare, prima il divorzio dei Verdi di Bonelli, poi i socialisti di Nencini. E Mussi sconsolato che diceva: «È più facile dividere l’Australia che riunificare la Polinesia». E invece in quest’anno il ciclone Vendola ha cambiato tutto. La rielezione in Puglia, e poi la candidatura alle primarie, hanno fatto mutare direzione al vento. E ora i sondaggi premiano il nuovo partito che nascerà al Teatro Saschall di Firenze e che già prima delle ultime regionali ha messo «Vendola» nel simbolo: tra il 4 e il 7%, comunque in netta ascesa rispetto alle regionali di marzo, quando Sel ha avuto una media del 3%, nonostante il picco del 9% in Puglia. E un problema ancora irrisolto, il Nord, dove è rimasta poco sopra l’1%. 42mila gli iscritti, in gran parte in Puglia, Lazio e Campania.
Il cammino interno, tra vendoliani, ex Sinistra democratica, e i fuoriusciti dai Verdi e dal Pdci è stato tortuoso, gli equilibri difficili da trovare, tra complicate quote di vecchie identità da preservare e personalità riottose ad arrendersi all’idea del leader unico. Alla fine Vendola sembra aver messo tutti d’accordo. Ma, paradossalmente, proprio ora che il sogno del partito si realizza, Sel è meno decisiva nella strategia di «Nichi», che ha già le sua fabbriche attive in tutta Italia e, con le primarie, si candida a lanciare un’opa direttamente sugli elettori del Pd, come ha fatto per due volte nella sua Puglia. «Il nostro obiettivo non è il 5 o il6%, ma far spirare un vento di cambiamento, che metta in moto tutto il centrosinistra», ha spiegato Vendola.
DISCORSO DA CANDIDATO PREMIER
Vendola sarà eletto presidente di Sel (a scrutinio segreto, o forse per acclamazione) domenica pomeriggio dai 1500 delegati, dopo la sua relazione di chiusura. Oggi, aprendo i lavori, traccerà la sua idea di Sinistra «oltre il Novecento». «Non sarà un discorso rivolto al partito, ma da leader che si candida a guidare il Paese», spiegano i fedelissimi. «Sel sarà il germe per costruire una grande sinistra in Italia, non l’ennesimo partitino», spiega Franco Giordano. «La destra e il centro si stanno ristrutturando, così sarà anche a sinistra. Il Pd non ha risolto il problema, anzi è parte del problema».
Nella mozione congressuale (unica) il giudizio è ancora più netto: «Il Pd è una operazione fallita». Non proprio un benvenuto alla delegazione democratica che arriva a Firenze, guidata da Anna Finocchiaro. Ma il rapporto col Pd, certamente con gli ex Ds, non è in discussione. Alla proposta del leader Prc Ferrero, che chiede a Sel di abbandonare l’idea di un’alleanza con i democratici e costruire una Linke all’italiana, Giordano risponde secco: «Una proposta senza senso, noi vogliamo costruire l’alternativa a Berlusconi». Solo che vogliono costruirla da sinistra, a modo loro. La prima, che dà il titolo al congresso, è «Riaprire la partita». Tra gli ospiti Epifani e il leader Fiom Landini. Ci sarà anche Bertinotti, il “padre nobile”.

il Riformista 22.10.10
Il candidato Vendola si fa il suo partitino personale
di Ettore Colombo

qui

il Riformista 22.10.10
Tutti sicuri che solo N Panoramacel’ha con Nichi Vendola?
di Antonello Piroso

qui

giovedì 21 ottobre 2010

l’Unità 21.10.10
Ior, quei conti sospetti usati da «Maria Rossi» e don Bancomat
Il Riesame conferma il sequestro dei 23 milioni depositati al Credito Artigiano. Il Vaticano: sorpresi
Per i pm c’è stata omissione delle norme antiriciclaggio. E si usa un nome falso per le operazioni...
Sotto la lente. 143 milioni di euro movimentati senza causale nell’ultimo anno
Uno dei conti sospetti è intestato al famoso don Evaldo Biasini, soprannominato dai giornali “padre Bancomat” perché in una cassaforte segreta custodiva il “tesoretto” di Diego Anemone.
di Angela Camuso

Un conto Ior aperto in Intesa San Paolo e intestato al famoso don Evaldo Biasini, economo della Congrega del Preziosissimo Sangue, soprannominato dai giornali “padre Bancomat” perché in una cassaforte segreta custodiva il “tesoretto” di Diego Anemone, l’imprenditore al centro dell’inchiesta sugli appalti truccati della Protezione Civile. Più un altro deposito, presso l’Unicredit di via della Conciliazione a Roma, di cui risulta titolare un anziano reverendo e da cui nel 2009 hanno prelevato assegni, provenienti da fondi localizzati a San Marino, un avvocato di Roma che non esercita la professione e viene definito dagli investigatori, piuttosto, un “faccendiere”, e una donna misteriosa. Una donna che è stata presentata ai vertici dell’istituto di credito dallo stesso prelato titolare del conto, con un nome falso, “Maria Rossi”, nonché come la madre dell’intraprendente avvocato, quando in realtà la signora con quest’ultimo non è legata da alcun vincolo di parentela. Sono queste alcune delle operazioni definite “sospette” dagli investigatori del nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Roma, che su delega del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Rocco Fava stanno monitorando le movimentazioni effettuate sui conti correnti aperti dalla banca della Santa Sede presso le agenzie delle più importanti banche italiane: movimentazioni sulle quali, com’è noto, secondo la procura lo Ior avrebbe omesso di applicare le norme antiriciclaggio previste dalle disposizioni in materia emanate dalla Ue nel 2007, tant’è che per violazione di quella legge sono stati indagati il presidente della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi ed il direttore generale Paolo Cipriani.
In merito alla stessa inchiesta, proprio ieri è stato reso noto che il tribunale del Riesame ha confermato il sequestro disposto dal gip in via preventiva dei 23 milioni di euro dello Ior depositati su un conto del Credito Artigiano Spa, 20 dei quali destinati all'istituto di credito tedesco J.P. Morgan Frankfurt e i restanti tre milioni alla Banca del Fucino. E dell’esistenza delle operazioni sospette sul conto Unicredit del reverendo e riconducibili al faccendiere e alla sedicente Maria Rossi, nonché di quelle effettuate da “padre Bancomat”, hanno scritto, non a caso, i magistrati Rossi e Fava nella memoria presentata al tribunale del Riesame per motivare l’esigenza del mega-sequestro. «Queste operazioni sospette dimostrano che gli omessi controlli da parte dello Ior non sono affatto una questione pro-forma, come afferma la Santa Sede”, dichiarano in sintesi dalla procura, evidenziando, in particolare, l’entità delle movimentazioni di denaro finite nel mirino degli investigatori. Sul conto del reverendo, ad esempio, l’avvocato-faccendiere risulta avere incassato, in un’unica tranche, assegni per 300mila euro, mentre la sedicente Maria Rossi circa 50mila euro. E se invece il chiacchierato don Biasini ha incassato sul suo conto in Intesa San Paolo somme definite dalla procura poco ingenti, c’è da considerare che presso la medesima agenzia (sempre con sede a Roma, nei pressi della Santa Sede) la stessa banca vaticana, con i suoi conti, risulta aver movimentato, senza specificare causale alcuna, ben 143 milioni di euro nel solo ultimo anno solare. Di queste transazioni, proprio perché la causale è rimasta generica, soltanto una ovvero un prelevamento in contanti di 600mila euro, senza indicazione del beneficiario, indicato soltanto come correntista Ior è per ora finita all’attenzione della Banca d’Italia attraverso il sistema di segnalazione automatico delle operazioni sospette da parte della Uif (Unità Informazioni Finanziarie). Questo probabilmente perché, è il parere degli investigatori, c’è stata una svista da parte di qualche funzionario, il quale, a differenza della prassi, ha indicato il tipo di operazione di cui si trattava. Per questi motivi, l’indagine è destinata ad allargarsi: la Guardia di Finanza si appresta a scandagliare una valanga di giro-conti Ior su Ior senza indicazione degli effettivi beneficiari.
«I responsabili dello Ior ritengono di poter chiarire tutta la questione al più presto nelle sedi competenti», ha affermato il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, dopo avere espresso “stupore” per la conferma del sequestro.

il Fatto 21.10.10
Nei forzieri dello Ior i conti della “cricca”
Nelle carte dell’inchiesta spunta il nome di don Evaldo Biasini, il “Don Bakomat di Anemone
di Rita Di Giovacchino

Dalle carte    dell’accusa sul presunto riciclaggio di denaro allo Ior, spunta il nome di Evaldo Biasini, il famoso “padre bancomat”, presidente dell’ente missionario Congregazione del Preziosissimo Sangue, cui ricorreva il costruttore Diego Anemone quando aveva bisogno urgente di contanti (ed era meglio che non risultassero prelevati dal suo conto in banca). Non ci sono soltanto i 23 mln di euro prelevati dal conto del Credito Artigiano, nell’ottobre scorso (nonostante fosse già stato bloccato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia) a dimostrare il disinvolto “modus operandi” dell’Istituto per le opere di Religione, o Banca vaticana, come viene definito. Per vincere il primo round di fronte al Tribunale del Riesame contro il ricorso, presentato dal presidente dell’istituto Ettore Gotti Tedeschi e dal direttore generale Paolo Cipriani (entrambi indagati per violazione della normativa antiriciclaggio della Ue, divenuta legge nel 2007) è bastata ai pm Nello Rossi e Stefano Rocco Fava una memoria in cui sono descritte in modo dettagliato tre operazioni sospette della “valanga” già accertata. La valutazione è di investigatore.
C’È, ad esempio, un’operazione del novembre del 2009, che fa riferimento ad assegni per 300 mila euro, negoziati su un conto Ior presso la filiale di Unicredit in via della Conciliazione, da tal Maria Rossi indicata dalla banca come la mamma di un anziano reverendo, titolare del conto medesimo. Peccato che la signora, per motivi anagrafici, non potesse essere la madre del prelato. Infatti le indagini hanno poi dimostrato che la donna usava un nome di fantasia e che i fondi provenivano da una una banca di San Marino. Il vero destinatario era un noto faccendiere, utilizzatore finale di ingenti somme che gli pervenivano presso lo stesso istituto.
LA SECONDA operazione riguarda invece un prelievo di 600 mila euro presso una sede di Intesa San Paolo, sempre nei pressi del Vaticano. Una somma non astronomica, comunque sostanziosa, di cui lo Ior non indicava la precisa destinazione fatto salvo un vago riferimento a missioni religiose. Non c’è da stupirsi perché sullo stesso conto, hanno poi scoperto gli investigatori, sono transitati con analoghe modalità nel solo 2009 ben 140 milioni di euro in contanti.
PER TORNARE a Don Evaldo Biasini, personaggio ormai noto dopo lo scandalo che ha travolto la Protezione civile, va ricordato che veniva indicato nell’inchiesta della procura di Perugia sui Grandi Eventi: come custode dei “fondi neri” del costruttore Diego Anemone. Anche se in questa vicenda non sembra coinvolto in operazioni sospette. Ma il fatto che sia stato citato è sospetto. Quasi un segnale ai giudici del Riesame, su cosa può emergere dal monitoraggio a tappeto che la Procura di Roma ha già disposto su tutti gli istituti bancari per rintracciare conti Ior e ricostruire tutti i movimenti finanziari che fanno capo alla Banca vaticana. Molti personaggi coinvolti nello scandalo, a partire da Angelo Balducci, disponevano di un conto presso la Banca vaticana o comunque di un corridoio privilegiato per operazioni finanziarie.
PADRE FEDERICO Lombardi, il portavoce della Santa Sede, ha manifestato grande stupore per la decisione presa dal tribunale del Riesame, che ieri nel respingere il ricorso di Gotti Tedeschi e Cipriani, ha confermato il sequestro cautelativo dei 23 milioni di euro sul conto del Credito Artigiano. “Certamente si tratta di un problema interpretativo informale”, ha spiegato padre Lombardi. Una linea di difesa ribadita anche in una nota ufficiale della Santa Sede. Insomma lo Ior non intende recedere da quanto ha sempre affermato: “Nessuna irregolarità, è soltanto un equivoco, chiariremo tutto”. Ma come abbiamo visto le cose non stanno così. E la decisione del collegio, composto dai giudici Claudio Carini, Giovanna Schipani e Alessandra Boffo, sembra preoccupare il presidente Gotti Tedeschi che al momento si trincera con un secco “no comment”.
Anche se, qualche ora dopo, parlando con i giornalisti, lancia un laconico messaggio: “Mi sento un po' depresso”.


l’Unità 21.10.10
Bersani: «Sul Lodo Alfano le barricate, poi il referendum»
di Maria Zegarelli

Il segretario del Pd va al Quirinale «Ci atterremo a quello che indica la Costituzione»
La straetgia a breve. «Fare le barricate vuol dire opporci con tutte le nostre forze in Aula»
Anche Di Pietro d’accordo sul ricorso al popolo. I percorsi per arrivare alla mobilitazione

Bersani sul Lodo Alfano: «Ostruzionismo in parlamento e poi il referendum. Legge inaccettabile». In un incontro con Napolitano assicura: «Seguiremo la via maestra indicata nella Costituzione».

Il Lodo Alfano retroattivo «è una legge inaccettabile e fare le barricate vuol dire che noi ci opporremo con tutte le forze che abbiamo in Parlamento e poi andremo al referendum perché noi non siamo disposti a risolvere i problemi di Silvio Berlusconi». Pier Lugi Bersani ieri ha annunciato che il partito democratico sosterrà il referendum sullo scudo per il premier se dal parlamento la legge costituzionale non uscirà con il quorum previsto dalla Costituzione, spiegando anche quel termine «barricate» che aveva suscitato qualche perplessità. Ostruzionismo in Parlamento, unica possibilità per l’opposizione di mettere i bastoni fra le ruote a quella che è evidentemente una delle priorità del governo e del Presidente del Consiglio.
L’INCONTRO AL COLLE
Bersani ne ha parlato anche con il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante un incontro al Colle avvenuto poco prima di pranzo e andato avanti per circa mezz’ora. Un colloquio a due, voluto dal segretario Pd, dunque non soltanto uno dei normali incontri che il Capo dello Stato ha abitualmente con leader politici o i rappresentanti delle istituzioni, quanto piuttosto la volontà del Pd di illustrare a Napolitano la propria «strategia d'autunno». Si è parlato ampiamente dell’agenda politica dei democratici per il paese dei democratici, in vista della sessione di Bilancio, a partire anche dalle proposte su Fisco e lavoro deliberate nell’ultima Assemblea nazionale a Varese. Napolitano ha raccomandato «la necessaria attenzione per rilanciare i temi del lavoro», ma è stato inevitabile soffermarsi anche sulla giustizia e il Lodo Alfano: il segretario ha ribadito il suo impegno ad attenersi «alla via maestra indicata nell’articolo 138 della Costituzione», laddove si prevede la possibilità di ricorrere al referendum e dunque ad una mobilitazione dei partiti fuori dal Parlamento. Il percorso tracciato dalla Carta costituzionale è chiaro: «le leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». E dentro questo solco intende muoversi il Pd: «Fare le barricate vuol dire dare battaglia in Parlamento, fare ostruzionismo ma essere pronti subito dopo a mobilitarci per il referendum», ha ripetuto ai suoi il segretario aggiungendo che il Pd «è pronto a spostare questa battaglia nella società civile perché questa è una legge che riguarda una sola persona e non il Presidente del Consiglio in generale». Parlando a SkyTg 24 ha aggiunto che se «non fosse retroattiva non se ne vedrebbe il significato e la retroattività disvela l’intenzione, che non è quella di imbarcarsi in una astrattissima norma costituzionale: vogliono risolvere il problema di Berlusconi e noi non siamo disposti a fare leggi costituzionali per risolvere i suoi problemi».
L’IDV E L’UDC
Anche Antonio Di Pietro l’altro giorno ha evocato il referendum e ha cercato di chiamare in causa il Colle. È possibile che Bersani, ieri, annunciando di sostenere il referendum abbia voluto togliere la carta in mano all’Idv e in questo modo tutelare il Capo dello Stato. Il Quirinale, d’altro canto, sia la scorsa estate, sia l’altro ieri, con una nota ufficiale ha ribadito di essere del tutto estraneo all'elaborazione di leggi e soluzioni di scudi giudiziari per le alte cariche.Bersani mette anche nel conto che su questo fronte le posizioni dell’Udc sono altre: Casini ha annunciato l’astensione in parlamento e difficilmente sosterrà la consultazione popolare. Sull’altro fronte anche Fini qualche problema ce l’ha: la base di Fli non ha gradito il voto al Lodo Alfano.


l’Unità 21.10.10
Ilaria Cucchi denuncia
«Veniamo trattati come fossimo imputati»
Ad un anno dalla morte di Stefano: «Al processo pm e difesa sono ostili con noi. Oggi sento che questa giustizia non è per tutti»
intervista di Tullia Fabiani

Ècome se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose...» Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati».
E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto? «Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica».
Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».
La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv. «Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari».
Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?.
La verità ci è dovuta e io la pretendo». Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».


l’Unità 21.10.10
Psicopatologia della famiglia
risponde Luigi Cancrini

Non credo che questo sia l’epilogo della triste storia di Sarah, storia dove c’è tanta ignoranza, disagiatezza e soprattutto troppo poco rispetto per la vita e per le donne, addirittura alla famiglia. Io sono ignorante e non so se esiste una patologia per questi comportamenti, so solo che procurare dolore in questo modo è abominevole. Rudi Toselli
RISPOSTA    Nella seconda metà degli anni ’50 i professionisti della salute mentale cominciarono a verificare il modo in cui la follia dell’individuo fa corpo con quella della loro famiglia. Nel caso delle schizofrenie, in cui lo smarrimento del paziente designato va collegato alla storia, dotata di senso, di una sofferenza almeno trigenerazionale e in quello dei disturbi gravi della personalità dove l’infelicità determinata dai comportamenti assurdi della persona si rispecchia in quello che questa ha vissuto nel corso della sua infanzia. Famiglie dolorosamente raccolte intorno a segreti o a miti famigliari molto più forti della volontà e delle aspirazioni individuali sono all’ordine del giorno nei centri di terapia famigliare e certo di un lavoro terapeutico con la famiglia ci sarebbe stato bisogno in casa Misseri tanti anni fa per prevenire i drammi che di una sofferenza antica sono oggi, probabilmente, il risultato. Così è per il cancro, malattia curabile all’inizio e mostro inarrestabile più tardi e così è per i bambini infelici che devono essere curati oggi per prevenire lo sviluppo degli orchi e dei mostri di domani.


il Fatto 21.10.10
Uomo a punti: pro e contro

Touadi scrive a Colombo: “Le idee del Pd sono nel solco dei laburisti europei”. Il nostro editorialista risponde: “L’ipotesi di una valutazione per gli stranieri è una svolta brusca che non mi trova d’accordo”

Caro direttore, in un’Assemblea che si chiama programmatica, non deve stupire che un partito, il Pd, che aspira a governare questo paese possa mettere in campo idee, proposte e percorsi concreti per affrontare i problemi della nazione. Certo con valori e principi “non negoziabili” (democrazia, diritti umani, solidarietà) ma con soluzioni praticabili, che declinano efficacemente i valori e i principi. Colpisce davvero la furia di Furio che si è riversata sulla proposta con – en passant – una gratuita cattiveria su Veltroni in Africa. Si ha la netta impressione che non si voglia leggere le proposte e criticarle sul merito, ma solo in riferimento a chi le porta avanti. Che c’entra l’odioso permesso di soggiorno a punti di matrice leghista con il documento che parla a monte dei criteri per l’ingresso? Si tratta di politiche praticate da governi laburisti tutt’altro che razzisti o xenofobi. Livi Bacci vi ha dedicato molti studi e, recentemente, un corposo articolo su Europa che consiglio di leggere. Anche Antonio Golino, esperto demografo non iscritto alla Lega Nord, in una pubblicazione curata dalla Fondazione ItalianiEuropei sulle “nuove politiche per l’Immigrazione” cita questa opzione come uno degli strumenti di regolazione dei flussi. Non riguarda ovviamente la grande schiera dei richiedenti asilo e dei rifugiati ai quali il nostro paese ha chiuso le porte con la politica dei respingimenti. Si tratta invece di passare dalle attuali quote quantitative, con un’opacità riscontrata da parte dei consolati che decidono chi sì e chi no a un sistema che dia ai consolati criteri obiettivi e trasparenti in base ai quali ammettere una pratica o respingerla. Certamente i criteri devono, possono essere discussi, ampliati e costantemente monitorati e aggiornati. Ma il sistema ha il vantaggio di ruotare intorno al progetto migratorio della persona approfondendo il suo profilo personale, professionale, le sue relazioni preesistenti in Italia, senza abbandonare il candidato all’immigrazione all’arbitrio burocratico, o alla corruzione. Le cose che scrive Furio Colombo sulla trappola dell’imitazione del linguaggio e dei metodi della destra sono giuste. Ma nella barca che affonda, sotto il peso della crisi economica e sociale, noi dobbiamo dare risposta alle due fragilità: quella dei cittadini stranieri e quella degli italiani per assicurare a tutti certezza dei diritti e speranza. Proprio per questo il documento parla di diritti, di cittadinanza in cinque anni, di diritto di voto amministrativo. Ma questa parte non ha fatto notizia...
Jean Leonard Touadi

CARO Jean Leonard Touadi ho letto con attenzione la tua lettera, di cui ti ringrazio, ma in essa non trovo alcun riferimento al mio articolo (Il Fatto, domenica 17 ottobre) tranne che al titolo. Come sai il titolo è l'unica cosa che sfugge del tutto al controllo di chi scrive su un giornale. Credo perciò di poterti dire, con amicizia e con un po' di stupore:
1) Nel mio articolo ho fatto riferimento preciso, con brani virgolettati, a testi di Enrico Letta e Walter Veltroni ricevuti dalle rispettive segreterie; e di Andrea Sarubbi, tratto dal suo blog. Sono testi chiari. Propongono senza equivoci la valutazione a punti degli immigrati sia come criterio di accettazione, sia come “accompagnamento” definito “realistico” e “pragmatico” dell'immigrato verso la cittadinanza. È una svolta brusca per il Pd e di questo ho discusso nel mio articolo e ho detto stupore e dissenso.
2) In luogo di una risposta trovo lo spostamento del discorso a un immaginario dialogo fra personale consolare italiano all'estero e “candidati” che vengono a presentare i loro titoli da misurare con punteggio. Ciò non avverrà mai sia per le condizioni deplorevoli dei consolati italiani privi di mezzi e di persone; sia per il terrore di coloro che fuggono nel deserto, in mare o legati sotto un tir, o semi-soffocati in un container per fuggire dal loro paese e dal loro governo. Perché fingere un mondo ordinato che non esiste e applicare il metodo di valutazione a punti a chi è a malapena sopravvissuto nel tentativo di vivere e di lavorare in Italia?
3) I diritti umani e civili a punti (ovvero il ricevere o perdere punti mentre vivi, lavori, produci, versi contributi in un paese ospite) non esistono. Dal sistema giuridico romano in avanti un diritto o
c'è tutto e subito e per sempre, o non c'è (salvo che per gli schiavi). Io credo che tocchi a noi riconoscere l'integrità assoluta dei diritti dei nuovi venuti contro l'incivile pretesa di un esame arbitrario e senza fine imposto da Lega e destra.
4) Noto che usi l'espressione “la furia di Furio”. Lo fanno sempre nei giornali del potere berlusconiano. Serve per screditare la riflessione, la critica e il suo autore. È esattamente il titolo che mi ha dedicato Panorama (20 settembre) per avere denunciato la copertina diffamatoria dello stesso settimanale contro i tre operai di Melfi, con foto in prima pagina e l'accusa di boicottaggio dell'impresa (9 settembre). Ti prego, non farlo. Sono sicuro che noi viviamo, sia pure attraversando tempi difficili, con rapporti, parole e sentimenti diversi. Con amicizia,
Furio Colombo
Il Sole 24 Ore Domenica 17.10.10
Dante e Einstein nella tre-sfera
La struttura dell’universo descritta nel Paradiso è la stessa suggerita dal grande fisico della relatività. Ed è coerente con le più recenti misure cosmologiche
di Carlo Rovelli

Salito fino alla sfera più esterna dell’universo aristotelico, Dante, invitato da Beatrice, guarda verso il basso. Vede tutti i cieli, e, giù in fondo, la , piccola Terra, che gli sembra girare lentamente sotto i suoi piedi. Poi Beatrice lo invita a guardare verso l'alto, fuori dall'Universo aristotelico, là dove secondo Aristotele non ci sarebbe più nulla di nulla, perché per Aristotele l'Universo ha un bordo dove tutto finisce.
Dante guarda e ha la straordinaria visione di un punto di luce circondato da nove immense sfere di angeli. Dove stanno questo punto di luce e le sfere angeliche, che sono fuori dall'Universo aristotelico? Dante lo dice in maniera incantevole: «questa altra parte dell'Universo d'un cerchio lui comprende, sì come questo li altri». E nel canto successivo: «parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude».
Il punto di luce e le sfere di angeli circondano l'Universo e insieme sono circondati dall'Universo. Che significa?
Per la maggior parte dei lettori, l'immagine di due insiemi di sfere concentriche ciascuno dei quali "inchiude" l'altro è solo un'oscura immagine poetica. I libri di testo dei licei disegnano il punto di luce e le sfere di angeli semplicemente fuori dall'universo aristotelico. Ma per un matematico o un cosmologo di oggi, la descrizione della forma dell'Universo data da Dante è perfettamente trasparente, e l'oggetto descritto da Dante è inconfondibile. Si tratta di una "tre‑sfera", la forma che nel 1917 Albert Einstein ha ipotizzato essere la forma del nostro universo, e che oggi resta compatibile con le più recenti misure cosmologiche. La sfrenata fantasia poetica e la straordinaria intelligenza di Dante Alighieri hanno anticipato di sei secoli una geniale intuizione di Albert Einstein sulla forma che il nostro universo potrebbe avere.
Che cos'è questa "tre‑sfera"? E una struttura matematica, una figura geometrica, che non è facilissima, ma in fondo neanche difficilissima, da concepire. La difficoltà sta nel fatto che non la si può disegnare dentro lo spazio a cui siamo abituati, per lo stesso motivo per cui la superficie della Terra non può essere disegnata fedelmente su una carta geografica piana. Per capire, consideriamo il seguente problema: se camminiamo sulla Terra sempre nella stessa direzione, dove arriviamo? Incontriamo il bordo della Terra? No. Arriviamo in paesi sempre nuovi all'infinito? Neppure. Come ben sappiamo, dopo avere fatto il giro della Terra, torniamo al punto di partenza. Un'idea difficile da digerire per gli antichi, e che fa ancora ridere i bambini alle elementari, ma alla quale abbiamo finito per abituarci, e trovare ragionevole. Questo perché la terra è una “sfera”. I matematici, precisi, dicono piuttosto che la "topologia", cioè la "forma intrinseca”, della Terra è una “due-sfera” ("due", perché sulla Terra si può camminare in due direzioni principali: nord‑sud, o esto-vest). Poniamo la stessa domanda per l'universo in cui siamo: immaginiamo di poter viaggiare su un’astronave velocissima sempre nella stessa direzione. Dove arriviamo? Incontreremo il bordo dell'universo? Poco credibile. Troveremo spazi sempre nuovi all'infinito? Anche quest'idea è poco attraente e forse poco credibile. E allora? Allora c'è la terza possibilità: dopo avere fatto il giro intero dell'Universo, ritorneremo al punto di partenza, sulla Terra. Questo è ciò che avviene se l'Universo è una tre‑sfera.
C'è un modo abbastanza semplice di disegnare questa tre‑sfera. Torniamo alla superficie della Terra. Una tecnica ben nota per disegnarla su una carta geografica, consiste nel disegnare due dischi: uno con i continenti dell'emisfero nord e il polo nord al centro, e l'altro analogo per l'emisfero sud. L'equatore è disegnato due volte, come il bordo di entrambi i dischi. Se partiamo dal polo sud e camminiamo verso nord, a un certo punto attraversiamo l'equatore: nella nostra rappresentazione in due dischi, "saltiamo" da un disco all'altro. Ovviamente nella realtà non facciamo nessun salto, perché nella realtà l'emisfero nord, visto da chi viene dal polo sud, "circonda" l'emisfero nord, così come l'emisfero sud "circonda" l'emisfero nord, per chi guarda da nord. La tre-sfera può essere rappresentata in maniera del tutto analoga, disegnando due "palle". Una palla è "l'emisfero nord" della tre‑sfera, l'altra è l'emisfero sud. La sfera "equatoriale" che separa e connette i due emisferi è disegnata due volte: come il bordo delle due palle. Un viaggiatore che partisse dal centro della prima palla e salisse "di sfera in sfera", come Dante, fino a questo equatore, vedrebbe sotto di sé un insieme di sfere concentriche, che si richiuderebbero intorno a un punto. Quest’altro emisfero, allo stesso tempo “circonderebbe” e “sarebbe circondato” dalla prima palla. In altre parole, la migliore rappresentazione della tre-sfera è esattamente quella che ne dà Dante. È stato un matematico americano, Mark Peterson, il primo a scrivere nel 1979 un bell’articolo sottolineando la chiarezza con cui Dante descrive la tre-sfera, ma oggi ogni fisico o matematico riconosce facilmente la tre-sfera nella descrizione dantesca dell’Universo.
Come ha potuto Dante anticipare einstein di sei secoli? Innanzitutto l’immaginazione spaziale di Dante, nel tardo medioevo, non era ancora ingabbiata nel rigido immaginario newtoniano per il quale lo spazio fisico è euclideo e infinito. Per Dante, come per Aristotele, lo spazio è solo la struttura della relazione tra e cose, e una tale struttura può avere forme peculiari. In secondo luogo, l’idea che la divinità risieda “oltre” il bordo dell’Universo aristotelico si trova già nel Lì Tresor, il bellissimo libro di Brunetto Latini, maestro di Dante, che compendia il sapere medioevale.
In terzo luogo, l’immagine di Dio come un punto di luce circondato da sfere di angeli è anch’esso già presente nel Medioevo, come ci mostrano diverse immagini del tempo. Dante ha messo insieme i pezzi del puzzle.
A me piace pensare che sia stata un’immagine precisa a ispirare Dante. Dante lascia Firenze nel 1301, mentre si stanno completando gli straordinari mosaici della cupola del Battistero. Se entrate nel Battistero e guardate in alto, vedete un punto di luce (la presa di luce dalla lanterna sulla sommità della cupola) circondato da nove ordini di angeli, (con il nome scritto per ciascun ordine: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini) esattamente come nel Paradiso. Se immaginate di essere una formica sul pavimento del Battistero (il polo sud) e iniziare a camminare in una qualunque direzione, notate come da qualunque direzione saliste sui muri, arrivereste poi allo stesso punto di luce circondato da angeli (il polo nord): il punto di luce e suoi angeli "circondano" e insieme "sono circondati", dal resto delle decorazioni interne del Battistero. L'interno del battistero è una due‑sfera, ovviamente. Dante, come ogni cittadino della Firenze della fine del Duecento, sarà certo rimasto impressionato dalla grandiosa opera architettonica che la sua città stava completando. (Il bellissimo e terrificante mosaico del Battistero che rappresenta l’Inferno, opera di Coppo di Marcovaldo, maestro di Cimabue, è comunemente considerato una sorgente d'ispirazione per Dante). Non potrebbe Dante avere trovato ispirazione anche nella "topologia" del Battistero? Il Paradiso ne riproduce con esattezza la struttura, compresi gli angeli e il punto di luce, traducendola da due dimensioni a tre, e ottenendo così la tre‑sfera einsteiniana.
Che sia questa o altra l'origine dell'idea, resta il fatto che la straordinaria immaginazione di Dante ha saputo trovare una soluzione consistente all'antico problema di conciliare l'idea di un mondo finito con l'idea dell'assenza del "bordo del Mondo". La soluzione è la stessa che Einstein escogiterà sei secoli più tardi. E che forse è la soluzione giusta.
Perché ci piace tanto Dante? Per molti motivi, ma forse anche per un motivo che chi come me si occupa di scienza vede particolarmente bene: Dante è uomo non solo di grandissima cultura, ma anche di straordinaria intelligenza, anche matematico‑scientifica. Sentire una persona colta di oggi che scherza e quasi si vanta della sua ignoranza scientifica è altrettanto triste che sentire uno scienziato che si vanta di non avere mai letto una poesia. Poesia e Scienza sono entrambe creazioni dello spirito che creano nuovi modi di pensare il mondo, per farcelo meglio capire. La grande Scienza e la grande Poesia sono entrambe visionarie, e talvolta possono arrivare alle stesse intuizioni. La cultura italiana odierna che tiene Scienza e Poesia separate è sciocca, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo. ‑che sono rivelate da entrambe.

Il Sole 24 Ore Domenica 17.10.10
Prima traduzione italiana
La linea diretta Lenin-Stalin
Il pensiero. «Dell'uomo si può fare quel che si vuole», diceva Lenin
Sergej Mel'gunov protagonista a Mosca negli anni della Rivoluzione d'Ottobre denunciò subito le degenerazioni smascherando la logica del «terrore rosso»
di Goffredo Fofi

Quando negli anni venti dello scorso secolo cominciarono ad aver corso, insieme a elogi entusiasti, anche le prime motivate critiche delle scelte economiche e politiche del nuovo potere sovietico, l'attenzione del pubblico era grande: la rivoluzione sovietica aveva aperto nuovi inediti scenari europei, che avevano risonanza mondiale, e sapere e capire era necessario per poter giudicare. Ma quelli che davvero volevano sapere e capire, e che non erano prevenuti a favore o contro, furono ben pochi. Gli intellettuali che amavano considerarsi "al disopra della mischia" dimostrarono, come sempre o troppo spesso, una grande superficialità, e più cecità che lungimiranza: o paura o esaltazione, quasi mai lucidità o freddezza nell'analisi. Fu solo con gli anni trenta ‑ e cioè col consolidarsi dello stalinismo e la messa punto di un sistema di dominio, di un'organizzazione sociale ferrea e dittatoriale che, nel mentre proponeva risultati economici e militari enormi (i piani quinquennali che fecero in poco tempo dell'Urss la seconda potenza mondiale), precisava un controllo sociale e culturale implacabile ‑. che voci di critica e dissenso ebbero un grande effetto sull'opinione pubblica, da Istrati a Gide a Celine passando per gli emigrati ed esuli come Souvarine e più tardi VictorSerge. Ma basterebbe rileggere il viaggio nell'Urss degli anni Trenta del nostro Corrado Alvaro, che non era particolarmente prevenuto, e che non poté non notare certe somiglianze tra il regime bolscevico e quello fascista, per vedere come si oscillasse tra ripudio e ammirazione, tra riconoscimento dei risultati raggiunti e spavento per l'organizzazione che li aveva imposti.
Oggi, a distanza di quasi cent'anni dalla Rivoluzione, i discorsi dovrebbero essere chiari, le analisi oggettive. La bibliografia che riguarda quegli anni è immensa, ma si direbbe, almeno in Italia, che le passioni non si siano placate. Qui da noi si oscilla in particolare, in modi dirado interessanti, tra un anticomunismo di tradizione consolidata che vede dell'esperienza sovietica tutto il nero e una nostalgia piuttosto ottusa e di pochi, poiché i comunisti italiani hanno scelto da tempo la strada del capitalismo nei fatti come nelle parole. Più impressionante è la nostalgia del sistema comunista che si riscontra in Russia, che è nostalgia di un'epoca d'ordine e di consenso, un consenso basato, per una vasta parte della popolazione, su indubbi progressi nelle condizioni di vita. Oggi c'è in Italia perfino chi sostiene che il regime zarista ‑ «un impero autocratico con i suoi boia, i suoi pogrom, i suoi galloni, le sue carestie, le sue galere siberiane, la sua vecchia iniquità», come scrisse tra mille altri Victor-Serge ‑ avrebbe potuto portare progressivamente, per sua interna evoluzione, ai benefici del benessere e della democrazia, e anche nell'analisi del libro di Mel'gunov, che fu tra i primi a denunciare le storture e le violenze, le repressioni e le intolleranze del nuovo regime, si dimentica che egli che era stato tra l'altro uno stretto collaboratore di Tolstoj, e che era membro di uno dei molti raggruppamenti politici, dichiaratamente socialista, che avevano preso parte attiva alla rivoluzione e che ne furono emarginati dal golpe bolscevico ‑nella rivoluzione era stato coinvolto direttamente e non ne disconosceva certamente le ragioni e le cause. Se un effetto finirà per avere l'anticomunismo di certa stampa e di certa politica, sarà presumibilmente, in Italia, quello contrario a ciò che i suoi rappresentanti se ne aspettano, di fronte alla crisi evidente del modello capitalista‑ almeno di quello che ha dominato negli ultimi decenni, che non era il solo possibile ma è stato quello che ha dominato sugli altri.
L'aspetto più importante del saggio-denuncia di Mel'gunov è la sua denuncia del "terrore rosso", documentata e serissima, corredata da statistiche impressionanti, e che va dalla disamina delle decisioni politiche prese dal partito vincente al resoconto particolareggiato di ciò che accadeva nelle prigioni sovietiche e nella deportazione. E come in altri casi si resta sconcertati dal ritardo con il quale l'editoria italiana si è accorta di libri come questo ‑ e si è grati a Paolo Sensini che l'ha efficacemente introdotto e commentato e a Sergio Rapetti che ha ricostruito un'esauriente biografia dell'autore, evocando tutte le sue tribolazioni.
Mel'gunov, "socialista‑popolare" e democratico, fece politica attiva e fu tra i primi a denunciare i colpi di mano comunisti, l'instaurazione immediata di un sistema di controllo poliziesco nei confronti degli avversari di altre correnti e partiti, e la condotta della guerra civile. Tra il 1918 e il 1922 venne arrestato più volte dalla Ceka. Processato nel 1920, venne rilasciato grazie alle pressioni di vecchi rivoluzionari ancora intoccabili, come Kropotkin, ancora vivo e ancora intoccabile, o Korolenko, e quella Vera Figner eroina decabrista le cui memorie assai belle - un’altra rimozione! ‑ non mi pare siano mai state tradotte in italiano.
D'accordo, «la rivoluzione non è un pranzo di gala», ma come dice un motto più antico e di maggior saggezza, il buongiorno si vede dal mattino. L'aspetto più appassionante del libro di Mel'gunov è la sua denuncia della politica di Lenin, che permette di considerare gli elementi di continuità e solo quelli, più spesso studiati, di discontinuità tra Lenin e Stalin. Al tempo di Kruscev, fu Vasiij Grossman, ex bolscevico convinto, a dirlo sconcertando molti lettori in Tutto scorre (edizione italiana Adelphi 1987). Nel 1967 mi capitò di recensire il libro ‑ peraltro bello e importante ‑ di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine (Mondadori) - sui "Piacentini" e di indicarne i limiti proprio nel fatto che ella si fosse resa conto di cos'era il regime stalinista soltanto quando colpì direttamente nel suo ambiente, tra i suoi vicini e conoscenti stessa, ignorando il prima o volendolo ignorare, non rispondendo alla domanda: quando era cominciato?
Sergei P. Mel'gunov, «Il terrore rosso in Russia 1918‑1923», a cura di Sergio Rapetti e Paolo Sensini, Jaca Book, Milan pagg. 306, €29,00.

La Stampa 18.10.10
Bertinotti e i Quarantamila
“Il Pci non fu mai riformista”
Intervista a Bertinotti di Riccardo Barenghi

All'epoca fu, insieme a Claudio Sabattini, il più deciso, diciamo anche il più duro nello scontro alla Fiat, quello dei 35 giorni di trent'anni fa. Oggi che si rievoca quel conflitto, finito con la sconfitta degli operai che occuparono Mirafiori e di coloro che li appoggiavano, Fausto Bertinotti ha qualcosa da dire in proposito. Parla a chi stava dall'altra parte, ossia quelli che venivano chiamati «padroni», ma soprattutto ai suoi compagni di allora, come Piero Fassino che era nel gruppo dirigente del Pci torinese e che in un'intervista al nostro giornale di pochi giorni fa ha dato una interpretazione sul comizio che il leader del Pci Enrico Berlinguer fece davanti ai cancelli della Fiat. Ossia che il Pci sarebbe, sì, stato sempre accanto ai lavoratori, ma anche che «le forme di lotta bisogna deciderle tutti insieme col sindacato».
Lei, Bertinotti, che era il segretario regionale della Cgil, ha lo stesso ricordo di Fassino?
«Prima vorrei sottolineare l'onestà intellettuale di chi stava dall'altra parte. Di Cesare Annibaldi, per esempio, che in un'intervista su queste pagine racconta la vicenda esattamente come si è svolta, riconoscendo le nostre ragioni con un'umanità che mi ha favorevolmente impressionato. Non a caso ha detto che dopo la lotta lui divenne amico di Claudio Sabattini proprio perché subì la sorte di capro espiatorio. Tutt'altra storia rispetto a quella che racconta Fassino: Claudio pagò la sua "colpa" con molti anni di esilio politico. Una punizione che tentarono anche di infliggere a me ma senza riuscirci per fortuna. Il Pci e la Cgil non erano così democratici e pluralisti come ricorda Piero, punivano, radiavano, cacciavano i dirigenti ai margini delle organizzazioni. Ma voglio sottolineare anche l'onestà di Cesare Romiti, che pur nella sua durezza riconosce il senso di quel conflitto e la dignità della sua controparte».
Fassino invece?
«Lui fa un'operazione puramente ideologica, ossia modifica quella storia in base alla sua ideologia attuale. Sostenere che il Pci era un partito riformista, dando a questo concetto quello che gli si dà oggi, è un falso storico. Il Pci, nonostante le sue divisioni interne, restò sempre legato al conflitto di classe. Non si piegò mai alle ragioni dell'impresa, né dal punto di vista politico né da quello culturale».
Ma quella frase di Berlinguer?
«Quella frase non ha alcuna importanza, basta ricordarsi la storia politica di quel periodo, col Pci che aveva rotto il governo di unità nazionale e col suo leader che aveva deciso di ricominciare dalla sua base sociale, ossia gli operai. Sfidando anche forti dissensi nel gruppo dirigente, tanto che Tonino Tatò, che era il suo segretario particolare, proprio quel giorno a Torino mi disse: "La venuta di Enrico è stata molto combattuta in segreteria". Però, nonostante quelli che allora venivano chiamati miglioristi, e cito per tutti il compagno Gerardo Chiaromonte, Berlinguer venne a Torino e disse agli operai che il partito sarebbe stato alloro fianco. Lo disse e soprattutto lo fece. Citò Solidarnosc, invitando il sindacato a fare come a Danzica un mese prima, trattative in piazza in modo che gli operai potessero parteciparvi. era un invito e insieme una critica al sindacato: più democrazia diretta. Insomma il Pci di Berlinguer non solo diceva che era accanto agli operai, ma lo imostrava con i fatti: e i fatti contano più delle frasi, dette o non dette».
Col senno di poi lei rifarebbe tutto?
«Tutto. Le battaglie non si rinnegano solo perché si sono perdute. Io penso che senza il valore del No, cioé dell’opposizione, non sarebbero esistite le lotte di emancipazione. Ieri come oggi».
Lei ha avuto come controparte Romiti. Chi pensa sia più duro tra lui e Marchionne?
«Con il rimo si lotta, si tratta e si può anche perdere. Col secondo, quello di Pomigliano, e non il primo Marchionne, l'uomo del discorso all'Unione industriali che avevo molto apprezzato, si può solo accettare o rifiutare il diktat».
Saltando in avanti di trent'anni, vede analogie tra quella lotta di allora e la battaglia della Fiom di oggi?
«Ce ne sono parecchie di analogie, nel metodo e nel merito, ma voglio citare solo quella negativa. Mentre allora tutta la sinistra e tutto il sindacato erano schierati a fianco degli operai, oggi non è così. Perché il Pd non è sceso in piazza con la Fiom mentre qualsiasi partito socialdemocratico o laburista europeo lo avrebbe fatto, come fanno i socialisti francesi? Perché nell'eredità del Pd ci sono enormi nodi ancora irrisolti, tanto che esso rifiuta una collocazione socialista senza però averne trovata un'altra altrettanto credibile. Semplificando, direi che se oggi non sei in grado di schierarti con la battaglia della Fiom, non sei nemmeno nelle condizioni per cominciare un qualsiasi discorso di sinistra».
A proposito, lei è d'accordo con la proposta di sciopero generale lanciata sabato in piazza a Roma?
«Lo sciopero generale è irrinviabile».

l’Unità 21.10.10
Ior, quei conti sospetti usati da «Maria Rossi» e don Bancomat
Il Riesame conferma il sequestro dei 23 milioni depositati al Credito Artigiano. Il Vaticano: sorpresi
Per i pm c’è stata omissione delle norme antiriciclaggio. E si usa un nome falso per le operazioni...
Sotto la lente. 143 milioni di euro movimentati senza causale nell’ultimo anno
Uno dei conti sospetti è intestato al famoso don Evaldo Biasini, soprannominato dai giornali “padre Bancomat” perché in una cassaforte segreta custodiva il “tesoretto” di Diego Anemone.
di Angela Camuso

Un conto Ior aperto in Intesa San Paolo e intestato al famoso don Evaldo Biasini, economo della Congrega del Preziosissimo Sangue, soprannominato dai giornali “padre Bancomat” perché in una cassaforte segreta custodiva il “tesoretto” di Diego Anemone, l’imprenditore al centro dell’inchiesta sugli appalti truccati della Protezione Civile. Più un altro deposito, presso l’Unicredit di via della Conciliazione a Roma, di cui risulta titolare un anziano reverendo e da cui nel 2009 hanno prelevato assegni, provenienti da fondi localizzati a San Marino, un avvocato di Roma che non esercita la professione e viene definito dagli investigatori, piuttosto, un “faccendiere”, e una donna misteriosa. Una donna che è stata presentata ai vertici dell’istituto di credito dallo stesso prelato titolare del conto, con un nome falso, “Maria Rossi”, nonché come la madre dell’intraprendente avvocato, quando in realtà la signora con quest’ultimo non è legata da alcun vincolo di parentela. Sono queste alcune delle operazioni definite “sospette” dagli investigatori del nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Roma, che su delega del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Rocco Fava stanno monitorando le movimentazioni effettuate sui conti correnti aperti dalla banca della Santa Sede presso le agenzie delle più importanti banche italiane: movimentazioni sulle quali, com’è noto, secondo la procura lo Ior avrebbe omesso di applicare le norme antiriciclaggio previste dalle disposizioni in materia emanate dalla Ue nel 2007, tant’è che per violazione di quella legge sono stati indagati il presidente della banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi ed il direttore generale Paolo Cipriani.
In merito alla stessa inchiesta, proprio ieri è stato reso noto che il tribunale del Riesame ha confermato il sequestro disposto dal gip in via preventiva dei 23 milioni di euro dello Ior depositati su un conto del Credito Artigiano Spa, 20 dei quali destinati all'istituto di credito tedesco J.P. Morgan Frankfurt e i restanti tre milioni alla Banca del Fucino. E dell’esistenza delle operazioni sospette sul conto Unicredit del reverendo e riconducibili al faccendiere e alla sedicente Maria Rossi, nonché di quelle effettuate da “padre Bancomat”, hanno scritto, non a caso, i magistrati Rossi e Fava nella memoria presentata al tribunale del Riesame per motivare l’esigenza del mega-sequestro. «Queste operazioni sospette dimostrano che gli omessi controlli da parte dello Ior non sono affatto una questione pro-forma, come afferma la Santa Sede”, dichiarano in sintesi dalla procura, evidenziando, in particolare, l’entità delle movimentazioni di denaro finite nel mirino degli investigatori. Sul conto del reverendo, ad esempio, l’avvocato-faccendiere risulta avere incassato, in un’unica tranche, assegni per 300mila euro, mentre la sedicente Maria Rossi circa 50mila euro. E se invece il chiacchierato don Biasini ha incassato sul suo conto in Intesa San Paolo somme definite dalla procura poco ingenti, c’è da considerare che presso la medesima agenzia (sempre con sede a Roma, nei pressi della Santa Sede) la stessa banca vaticana, con i suoi conti, risulta aver movimentato, senza specificare causale alcuna, ben 143 milioni di euro nel solo ultimo anno solare. Di queste transazioni, proprio perché la causale è rimasta generica, soltanto una ovvero un prelevamento in contanti di 600mila euro, senza indicazione del beneficiario, indicato soltanto come correntista Ior è per ora finita all’attenzione della Banca d’Italia attraverso il sistema di segnalazione automatico delle operazioni sospette da parte della Uif (Unità Informazioni Finanziarie). Questo probabilmente perché, è il parere degli investigatori, c’è stata una svista da parte di qualche funzionario, il quale, a differenza della prassi, ha indicato il tipo di operazione di cui si trattava. Per questi motivi, l’indagine è destinata ad allargarsi: la Guardia di Finanza si appresta a scandagliare una valanga di giro-conti Ior su Ior senza indicazione degli effettivi beneficiari.
«I responsabili dello Ior ritengono di poter chiarire tutta la questione al più presto nelle sedi competenti», ha affermato il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, dopo avere espresso “stupore” per la conferma del sequestro.

il Fatto 21.10.10
Nei forzieri dello Ior i conti della “cricca”
Nelle carte dell’inchiesta spunta il nome di don Evaldo Biasini, il “Don Bakomat di Anemone
di Rita Di Giovacchino

Dalle carte    dell’accusa sul presunto riciclaggio di denaro allo Ior, spunta il nome di Evaldo Biasini, il famoso “padre bancomat”, presidente dell’ente missionario Congregazione del Preziosissimo Sangue, cui ricorreva il costruttore Diego Anemone quando aveva bisogno urgente di contanti (ed era meglio che non risultassero prelevati dal suo conto in banca). Non ci sono soltanto i 23 mln di euro prelevati dal conto del Credito Artigiano, nell’ottobre scorso (nonostante fosse già stato bloccato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia) a dimostrare il disinvolto “modus operandi” dell’Istituto per le opere di Religione, o Banca vaticana, come viene definito. Per vincere il primo round di fronte al Tribunale del Riesame contro il ricorso, presentato dal presidente dell’istituto Ettore Gotti Tedeschi e dal direttore generale Paolo Cipriani (entrambi indagati per violazione della normativa antiriciclaggio della Ue, divenuta legge nel 2007) è bastata ai pm Nello Rossi e Stefano Rocco Fava una memoria in cui sono descritte in modo dettagliato tre operazioni sospette della “valanga” già accertata. La valutazione è di investigatore.
C’È, ad esempio, un’operazione del novembre del 2009, che fa riferimento ad assegni per 300 mila euro, negoziati su un conto Ior presso la filiale di Unicredit in via della Conciliazione, da tal Maria Rossi indicata dalla banca come la mamma di un anziano reverendo, titolare del conto medesimo. Peccato che la signora, per motivi anagrafici, non potesse essere la madre del prelato. Infatti le indagini hanno poi dimostrato che la donna usava un nome di fantasia e che i fondi provenivano da una una banca di San Marino. Il vero destinatario era un noto faccendiere, utilizzatore finale di ingenti somme che gli pervenivano presso lo stesso istituto.
LA SECONDA operazione riguarda invece un prelievo di 600 mila euro presso una sede di Intesa San Paolo, sempre nei pressi del Vaticano. Una somma non astronomica, comunque sostanziosa, di cui lo Ior non indicava la precisa destinazione fatto salvo un vago riferimento a missioni religiose. Non c’è da stupirsi perché sullo stesso conto, hanno poi scoperto gli investigatori, sono transitati con analoghe modalità nel solo 2009 ben 140 milioni di euro in contanti.
PER TORNARE a Don Evaldo Biasini, personaggio ormai noto dopo lo scandalo che ha travolto la Protezione civile, va ricordato che veniva indicato nell’inchiesta della procura di Perugia sui Grandi Eventi: come custode dei “fondi neri” del costruttore Diego Anemone. Anche se in questa vicenda non sembra coinvolto in operazioni sospette. Ma il fatto che sia stato citato è sospetto. Quasi un segnale ai giudici del Riesame, su cosa può emergere dal monitoraggio a tappeto che la Procura di Roma ha già disposto su tutti gli istituti bancari per rintracciare conti Ior e ricostruire tutti i movimenti finanziari che fanno capo alla Banca vaticana. Molti personaggi coinvolti nello scandalo, a partire da Angelo Balducci, disponevano di un conto presso la Banca vaticana o comunque di un corridoio privilegiato per operazioni finanziarie.
PADRE FEDERICO Lombardi, il portavoce della Santa Sede, ha manifestato grande stupore per la decisione presa dal tribunale del Riesame, che ieri nel respingere il ricorso di Gotti Tedeschi e Cipriani, ha confermato il sequestro cautelativo dei 23 milioni di euro sul conto del Credito Artigiano. “Certamente si tratta di un problema interpretativo informale”, ha spiegato padre Lombardi. Una linea di difesa ribadita anche in una nota ufficiale della Santa Sede. Insomma lo Ior non intende recedere da quanto ha sempre affermato: “Nessuna irregolarità, è soltanto un equivoco, chiariremo tutto”. Ma come abbiamo visto le cose non stanno così. E la decisione del collegio, composto dai giudici Claudio Carini, Giovanna Schipani e Alessandra Boffo, sembra preoccupare il presidente Gotti Tedeschi che al momento si trincera con un secco “no comment”.
Anche se, qualche ora dopo, parlando con i giornalisti, lancia un laconico messaggio: “Mi sento un po' depresso”.

Repubblica 21.10.10
Fondi Ior, si indaga per riciclaggio confermato il sequestro di 23 milioni
Spunta una pista sul sacerdote "cassiere" di Anemone
di Carlo Bonini


Il portavoce vaticano: stupore E il presidente della banca si dice "un po´ depresso"
Gli inquirenti: la vicenda di quei trasferimenti non è un incidente di percorso

ROMA - L´opacità di centinaia di operazioni per contanti disposte negli ultimi tre anni dallo Ior, la banca Vaticana, attraverso una dozzina almeno dei principali istituti bancari italiani, e buon ultimo il sequestro di 23 milioni su un conto del Credito Artigiano, non sono né «un equivoco», né una storia da niente di cavillosa burocrazia bancaria. L´indagine della Procura di Roma sulla cassaforte della Santa Sede coltiva un´ipotesi di reato che si chiama e si scrive «riciclaggio». Che oggi incrocia, solo per dirne una, l´inchiesta di Perugia sui Grandi Appalti e i conti di don Evaldo Biasini, "don Bancomat", e dunque le rimesse del costruttore Diego Anemone, di cui il reverendo era la "tasca", e di Angelo Balducci nella filiale della "Banca Marche" di Roma dove il missionario, economo della "Congregazione del Preziosissimo sangue", era cliente proprio insieme a Balducci e Anemone.
Che sia questa la sostanza dell´inchiesta sullo Ior, ora si ha certezza documentale. Nel giorno in cui il Tribunale del Riesame stabilisce infatti che i 23 milioni di euro congelati tre settimane fa dalla Procura di Roma su un conto della banca Vaticana presso la filiale del Credito Artigiano restino sotto sequestro preventivo per «omessa e incompleta comunicazione alle autorità di vigilanza della natura dell´operazione» cui erano destinati (due bonifici di 20 e 3 milioni alla Jp Morgan di Francoforte e alla Banca del Fucino), la notizia sono le ragioni per le quali quel denaro non può essere restituito. Con una parziale ma assai significativa "discovery" di parte del materiale istruttorio raccolto nella loro inchiesta "madre" sui conti dello Ior, il procuratore aggiunto Nello Rossi e il sostituto Stefano Rocco Fava annichiliscono l´insistita difesa di Oltre Tevere. Documentano perché la vicenda dei 23 milioni del "Credito Artigiano" non è né un incidente di percorso, né un inciampo in una condotta altrimenti virtuosa.
Non a caso, forse, mentre ancora ieri mattina, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, comunicava lo «stupore» con cui la Santa Sede aveva appreso la decisione del Tribunale del Riesame, «ritenendo che la vicenda altro non presenti che un problema interpretativo e formale», già a sera il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, confidava alle agenzie di stampa di sentirsi improvvisamente «un po´ depresso». E con buone ragioni. Nel sostenere di fronte al Tribunale del Riesame le ragioni del sequestro preventivo dei 23 milioni di euro al "Credito Artigiano", la Procura deposita infatti atti che svelano, a campione e a titolo di esempio, almeno tre operazioni condotte dallo Ior nel corso del 2009 che hanno l´odore del "riciclaggio" e le stimmate di "segnalazione di operazione sospetta" della Banca d´Italia. E, in ogni caso, che non hanno rispettato uno solo dei canoni di trasparenza "rinforzata" che, dal 2007, una legge dello Stato impone alla banca Vaticana.
Si scopre così che, nel novembre dello scorso anno, da un conto acceso in una filiale della banca Intesa-san Paolo, vengono prelevati, su disposizione dei vertici dello Ior (il presidente Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale, Paolo Cipriani), 600 mila euro in contanti per un´operazione di cui non viene comunicata né la natura, né i beneficiari. Per giunta, in perfetta sintonia con una prassi del "silenzio" che vede lo Ior movimentare su quello stesso conto, nel solo 2009, la somma complessiva di 140 milioni di euro. E ancora: si scopre che, sempre in quel 2009, vengono bonificati da una banca di san Marino 300 mila euro su un conto Unicredit intestato a un monsignore. É una somma importante di cui, anche tenendo conto della provenienza geografica, il reverendo non offre giustificazione. Ma, soprattutto, è una somma il cui reale beneficiario non è il prelato ma un imprenditore e una signora, tale Maria Rossi, entrambi cittadini italiani. A richiesta delle autorità di vigilanza, su entrambi, lo Ior fornisce risposte evasive E, a una prima verifica, false. Maria Rossi è infatti un nome di fantasia. E non risponde al vero la circostanza, come pure sostiene lo Ior, che sia la madre dell´imprenditore che risulta aver negoziato il denaro arrivato da san Marino.
C´è di più. Nel 2009, su un conto Ior di Banca Intesa versa due assegni, per un importo che non arriva a 50 mila euro, don Evaldo Biasini, la "tasca" di Diego Anemone. Ebbene, quei due assegni sono tratti da un altro conto che lo stesso Biasini ha acceso presso la "Banca Marche" di via Romagna 17. In quella stessa filiale è cliente di riguardo Angelo Balducci, il cui conto (dalla liquidità importante) è gestito direttamente dal suo commercialista Stefano Gazzani. Ma quel che più importa, appunto, è che in quella filiale siano clienti il costruttore Diego Anemone e, soprattutto, le sue società consortili che si sono aggiudicate gli appalti di cui Balducci è stato il "dominus". La "Imatec", la "Maddalena" e l´"Arsenale" (G8 della Maddalena), la "Cosport" e "Musport" (Mondiali di nuoto 2009), la "Consortile sant´Egidio" (aeroporto di Perugia). É solo una coincidenza? O don Evaldo, grazie allo speciale regime del "silenzio" dello Ior, e come farebbero sospettare anche quei due assegni, ha fatto da spallone del denaro di Anemone tra le due sponde del Tevere?

Corriere della Sera 21.10.10
I conti sospetti dello Ior
L’ipotesi dei pm: riciclaggio e prelati prestanome
di Fiorenza Sarzanini


La Procura di Roma ha scoperto una serie di operazioni bancarie sospette effettuate sui conti dello Ior aperti in banche italiane. Per i magistrati sono servite a riciclare il denaro di alcuni clienti dell’istituto di credito della Santa Sede. I pm ipotizzano l’esistenza di prelati prestanome. Restano sotto sequestro 23 milioni che dovevano finire in Germania. Indagini su altri 140 milioni. Il Vaticano: chiariremo

ROMA — Non solo i 23 milioni di euro depositati al Credito Artigiano. Nell’inchiesta sullo Ior la procura ha individuato altre tre operazioni sospette, cioè movimenti finanziari che potrebbero aver violato le norme antiriciclaggio. I trasferimenti in questione risalgono a ottobre e novembre dell’anno scorso: le verifiche sono concentrate su operazioni realizzate su conti Unicredit e Intesa San Paolo. Nella prima banca sono oggetto di verifiche alcuni assegni incassati dallo Ior per 300 mila euro. Nell’altra si indaga su un prelievo di 600 mila euro. E a Intesa San Paolo il Nucleo valutario sta accertando anche la regolarità di una transazione di don Evaldo Biasini, ribattezzato «don Bancomat» nell’inchiesta sulla «cricca» dei Grandi Appalti.
Il procuratore aggiunto Nello Rossi e il pm Stefano Rocco Fava hanno descritto le tre operazioni sospette in una memoria depositata al Tribunale della libertà per dimostrare che il caso del Credito Artigiano non è isolato. Ieri i giudici del Riesame hanno confermato il sequestro del gip Maria Teresa Covatta, che a settembre ha bloccato due bonifici diretti alla JP Morgan Frankfurt (20 milioni) e alla Banca del Fucino di Roma (tre milioni). In tutto sono 15 le banche al centro dell’inchiesta per violazione delle norme antiriciclaggio, in cui sono indagati il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e il direttore generale, Paolo Cipriani. Ancora maggiore il numero dei conti correnti che potrebbero essere stati utilizzati per transazioni irregolari, poiché in alcune filiali l’Istituto per le opere di religione ha più di un deposito.
Ora è probabile che l’avvocato Vincenzo Scordamaglia ricorra in Cassazione. Intanto il Vaticano esprime «stupore» per la mancata revoca dei sigilli: «Si ritiene - sottolinea il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi - che si tratti di un problema interpretativo e formale». Tanto che, aggiunge il gesuita, «i responsabili dello Ior ritengono di poter chiarire tutta la questione al più presto nelle sedi competenti». Gotti Tedeschi (che ha preso possesso della presidenza dello Ior alla fine del 2009), ieri era all’Auditorium di Via Veneto, a Roma, per un convegno su «Etica e finanza» organizzato dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena e dall’Osservatore Romano: non ha voluto commentare la decisione del Tribunale della libertà. Però si è concesso una battuta: «Cercherò di fare un intervento anche spiritoso, perché stasera sono un po’ depresso». Il direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, presente allo stesso dibattito, l’ha difeso: «Quella di Gotti Tedeschi è stata una nomina innovativa».
Invece per il capogruppo dell’Idv in Senato, Elio Lannutti, «i giri di denaro e i movimenti finanziari che emergono dalle indagini dei magistrati romani sono inquietanti. Governo e Bankitalia devono dimostrarsi vigili ed effettuare i controlli previsti».

Corriere della Sera 21.10.10
«Prestanome e somme frazionate per il segreto sull’utilizzo dei soldi»
di Lavinia Di Gianvito


La relazione dei pm: da un conto prelevati 140 milioni in contanti

ROMA — Movimentazioni bancarie senza indicare né i beneficiari dei prelevamenti né le causali di ogni operazione, come invece prevede la legge. La scelta dei pubblici ministeri di Roma di consegnare al tribunale del Riesame una memoria con l’elenco di alcuni casi già verificati, aveva un obiettivo preciso: dimostrare che l’operazione per il trasferimento dei 23 milioni di euro dal Credito Artigiano a una banca d’affari tedesca non era affatto un episodio sporadico frutto di un equivoco», come hanno sostenuto i vertici dello Ior. Perché l’indagine più ampia avviata un anno e mezzo fa per riciclaggio ha consentito di scoprire decine di casi analoghi. Ma soprattutto ha fatto emergere il sospetto che i titolari dei conti aperti dello stesso Ior presso istituti di credito italiani siano in realtà dei prestanome di clienti ricchi e famosi.
Tra loro ci sono numerosi prelati. Come Evaldo Biasini, don Bancomat per la «cricca» dei Grandi Appalti, che ha spostato 50.000 euro da quello stesso conto che utilizzava tra l’altro per favorire il costruttore Diego Anemone. Oppure come il sacerdote che ha ricevuto e poi «girato» a un imprenditore 300.000 euro provenienti da San Marino.
La relazione firmata dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dal sostituto Stefano Rocco Fava analizza proprio queste tre operazioni «a titolo esemplificativo» per mostrare il funzionamento del sistema. Si scopre così che nel novembre 2009, da un deposito dello Ior presso una filiale di Intesa San Paolo, sul quale era delegato ad operare il direttore generale Paolo Cipriani, sono stati prelevati 600.000 euro. I vertici della banca sollecitano chiarimenti, ma dallo Ior vengono fornite giustificazioni non ritenute sufficienti a comprendere per quale motivo siano stati movimentati quei soldi. Genericamente si parla di finanziamenti destinati alle attività missionarie: troppo poco per spiegare un prelevamento così ingente. E così scatta la segnalazione di operazione sospetta (Sos) per la Banca d’Italia. Vengono analizzati tutti gli «estratti» ed emerge che nel corso del 2009 da quel conto sono stati presi 140 milioni di euro in contanti. Una cifra immensa che avrebbe preso decine di rivoli e adesso sono in corso verifiche per scoprire dove sia finito il denaro.
(il pezzo continua sul cartaceo…)

l’Unità 21.10.10
Bersani: «Sul Lodo Alfano le barricate, poi il referendum»
di Maria Zegarelli

Il segretario del Pd va al Quirinale «Ci atterremo a quello che indica la Costituzione»
La straetgia a breve. «Fare le barricate vuol dire opporci con tutte le nostre forze in Aula»
Anche Di Pietro d’accordo sul ricorso al popolo. I percorsi per arrivare alla mobilitazione

Bersani sul Lodo Alfano: «Ostruzionismo in parlamento e poi il referendum. Legge inaccettabile». In un incontro con Napolitano assicura: «Seguiremo la via maestra indicata nella Costituzione».

Il Lodo Alfano retroattivo «è una legge inaccettabile e fare le barricate vuol dire che noi ci opporremo con tutte le forze che abbiamo in Parlamento e poi andremo al referendum perché noi non siamo disposti a risolvere i problemi di Silvio Berlusconi». Pier Lugi Bersani ieri ha annunciato che il partito democratico sosterrà il referendum sullo scudo per il premier se dal parlamento la legge costituzionale non uscirà con il quorum previsto dalla Costituzione, spiegando anche quel termine «barricate» che aveva suscitato qualche perplessità. Ostruzionismo in Parlamento, unica possibilità per l’opposizione di mettere i bastoni fra le ruote a quella che è evidentemente una delle priorità del governo e del Presidente del Consiglio.
L’INCONTRO AL COLLE
Bersani ne ha parlato anche con il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante un incontro al Colle avvenuto poco prima di pranzo e andato avanti per circa mezz’ora. Un colloquio a due, voluto dal segretario Pd, dunque non soltanto uno dei normali incontri che il Capo dello Stato ha abitualmente con leader politici o i rappresentanti delle istituzioni, quanto piuttosto la volontà del Pd di illustrare a Napolitano la propria «strategia d'autunno». Si è parlato ampiamente dell’agenda politica dei democratici per il paese dei democratici, in vista della sessione di Bilancio, a partire anche dalle proposte su Fisco e lavoro deliberate nell’ultima Assemblea nazionale a Varese. Napolitano ha raccomandato «la necessaria attenzione per rilanciare i temi del lavoro», ma è stato inevitabile soffermarsi anche sulla giustizia e il Lodo Alfano: il segretario ha ribadito il suo impegno ad attenersi «alla via maestra indicata nell’articolo 138 della Costituzione», laddove si prevede la possibilità di ricorrere al referendum e dunque ad una mobilitazione dei partiti fuori dal Parlamento. Il percorso tracciato dalla Carta costituzionale è chiaro: «le leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». E dentro questo solco intende muoversi il Pd: «Fare le barricate vuol dire dare battaglia in Parlamento, fare ostruzionismo ma essere pronti subito dopo a mobilitarci per il referendum», ha ripetuto ai suoi il segretario aggiungendo che il Pd «è pronto a spostare questa battaglia nella società civile perché questa è una legge che riguarda una sola persona e non il Presidente del Consiglio in generale». Parlando a SkyTg 24 ha aggiunto che se «non fosse retroattiva non se ne vedrebbe il significato e la retroattività disvela l’intenzione, che non è quella di imbarcarsi in una astrattissima norma costituzionale: vogliono risolvere il problema di Berlusconi e noi non siamo disposti a fare leggi costituzionali per risolvere i suoi problemi».
L’IDV E L’UDC
Anche Antonio Di Pietro l’altro giorno ha evocato il referendum e ha cercato di chiamare in causa il Colle. È possibile che Bersani, ieri, annunciando di sostenere il referendum abbia voluto togliere la carta in mano all’Idv e in questo modo tutelare il Capo dello Stato. Il Quirinale, d’altro canto, sia la scorsa estate, sia l’altro ieri, con una nota ufficiale ha ribadito di essere del tutto estraneo all'elaborazione di leggi e soluzioni di scudi giudiziari per le alte cariche.Bersani mette anche nel conto che su questo fronte le posizioni dell’Udc sono altre: Casini ha annunciato l’astensione in parlamento e difficilmente sosterrà la consultazione popolare. Sull’altro fronte anche Fini qualche problema ce l’ha: la base di Fli non ha gradito il voto al Lodo Alfano.

l’Unità 21.10.10
Ilaria Cucchi denuncia
«Veniamo trattati come fossimo imputati»
Ad un anno dalla morte di Stefano: «Al processo pm e difesa sono ostili con noi. Oggi sento che questa giustizia non è per tutti»
intervista di Tullia Fabiani

Ècome se fossimo noi gli imputati. Io e i miei genitori, i colpevoli. L’atmosfera che abbiamo percepito in Aula è ostile, come se accusa e difesa fossero coalizzate contro di noi. Forse ci si dimentica che io e i miei genitori stiamo lì perché è morto mio fratello. O forse siamo quelli che stanno dando fastidio solo perché chiediamo, senza tregua, che venga riconosciuta la verità». Ilaria Cucchi è molto amareggiata: due giorni fa è stata scortata dai carabinieri fuori dal tribunale. Era in corso l’udienza del processo che vede imputate 13 persone tra agenti di polizia penitenziaria e medici dell’ospedale romano Sandro Pertini, dove suo fratello Stefano è morto un anno fa, il 22 ottobre, dopo una settimana di agonia. «Mi hanno detto che dovevo uscire dal tribunale per motivi di ordine pubblico e mai avrei immaginato di creare un simile problema. Mi sento umiliata e molto triste, anche perché dover sentire certe cose...» Quali cose?
«Ho sentito dire da uno dei legali della difesa: “Adesso oltre il libro faranno anche il film”. Ecco, questo è l’atteggiamento nei nostri confronti, come se nel raccontare quanto accaduto a mio fratello avessimo chissà quale secondo fine. Come posso sentirmi di fronte a certe affermazioni? È una grande mortificazione; ripeto, la sensazione è di essere gli imputati».
E dipende dal fatto che va in tv, rilascia interviste, scrive libri su quanto accaduto? «Si, anche. Penso che certi atteggiamenti, come l’allontanamento dal tribunale, dipendano dai miei interventi. Evidentemente non vorrebbero tutta questa attenzione mediatica».
Chi non la vorrebbe?
«I soggetti coinvolti: accusa e difesa. Però se i pm si sentono sotto pressione possono sempre farsi sostituire».
La procura ha chiesto comunque che dalla prossima udienza siano ammessi in aula stampa e tv. «Sì. Ci sarà un’udienza martedì 26 e vedremo cosa decide il gup. Per me non c’è alcun problema, anzi. È importante che i giornalisti possano seguire ciò che avviene in aula, vedere come procede l’udienza e qual è il rapporto tra le parti. Che ci sia o meno la stampa la mia impressione sull’atmosfera che respiriamo quando siamo lì non cambia». Ce l’ha con loro perché è stata respinta la vostra richiesta di una super perizia su Stefano?
«No, non è questo. So bene che ci sono motivazioni precise e che è stata rigettata non perché infondata, ma perché, come ha spiegato il nostro avvocato, è inammissibile in questa fase processuale. La questione è un’altra: l’episodio dell’altro giorno, venire allontanati dal tribunale, vietare a mia madre di andare sul piazzale per fumare una sigaretta e dare così tanto fastidio al pm da costringerlo a lamentarsene davanti al giudice. E poi subire ad esempio dichiarazioni da parte del pm che dice ai miei avvocati “Non santifichiamo questa famiglia”. Che significa? Che non siamo dei santi e allora non possiamo chiedere giustizia per la morte di mio fratello? È assurdo. Ed è la dimostrazione che la battaglia che stiamo portando avanti è una battaglia ímpari».
Perché ímpari?
«Oggi sento che questa giustizia non è per tutti. Sento una forte ostilità e un’ostinazione nel voler continuare a negare la realtà. Ma come si fa a continuare a parlare di lesioni lievi quando queste “lesioni lievi” hanno causato la morte di Stefano?.
La verità ci è dovuta e io la pretendo». Domani, 22 ottobre, sarà un anno dalla morte di suo fratello. Come passerete questa giornata e cosa vi aspettate dopo?
«Per i giorni che verranno vorrei solo che si mettesse finalmente fine all’ipocrisia. E che cominci un’altra storia. È stato un anno tremendo, ci siamo trovati a combattere una battaglia al di sopra delle nostre capacità e delle nostre forze, con la disperazione di non avere risposte. Abbiamo passato giornate drammatiche e solo oggi, dopo un anno, sembra che stiamo cominciando a realizzare l’assenza di Stefano. Domani ci sarà una messa nella nostra parrocchia, alle 15.30 a Santa Giulia Billiart, al Casilino. Poi seguirà un incontro, uno spettacolo teatrale, e la presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Perché al di là delle allusioni e delle mortificazioni per me anche un libro è un mezzo buono per denunciare l’uccisione di mio fratello e per continuare a chiedere ancora, un anno dopo, verità e giustizia».

l’Unità 21.10.10
Psicopatologia della famiglia
risponde Luigi Cancrini

Non credo che questo sia l’epilogo della triste storia di Sarah, storia dove c’è tanta ignoranza, disagiatezza e soprattutto troppo poco rispetto per la vita e per le donne, addirittura alla famiglia. Io sono ignorante e non so se esiste una patologia per questi comportamenti, so solo che procurare dolore in questo modo è abominevole. Rudi Toselli
RISPOSTA    Nella seconda metà degli anni ’50 i professionisti della salute mentale cominciarono a verificare il modo in cui la follia dell’individuo fa corpo con quella della loro famiglia. Nel caso delle schizofrenie, in cui lo smarrimento del paziente designato va collegato alla storia, dotata di senso, di una sofferenza almeno trigenerazionale e in quello dei disturbi gravi della personalità dove l’infelicità determinata dai comportamenti assurdi della persona si rispecchia in quello che questa ha vissuto nel corso della sua infanzia. Famiglie dolorosamente raccolte intorno a segreti o a miti famigliari molto più forti della volontà e delle aspirazioni individuali sono all’ordine del giorno nei centri di terapia famigliare e certo di un lavoro terapeutico con la famiglia ci sarebbe stato bisogno in casa Misseri tanti anni fa per prevenire i drammi che di una sofferenza antica sono oggi, probabilmente, il risultato. Così è per il cancro, malattia curabile all’inizio e mostro inarrestabile più tardi e così è per i bambini infelici che devono essere curati oggi per prevenire lo sviluppo degli orchi e dei mostri di domani.

il Fatto 21.10.10
Uomo a punti: pro e contro
Touadi scrive a Colombo: “Le idee del Pd sono nel solco dei laburisti europei”. Il nostro editorialista risponde: “L’ipotesi di una valutazione per gli stranieri è una svolta brusca che non mi trova d’accordo”

Caro direttore, in un’Assemblea che si chiama programmatica, non deve stupire che un partito, il Pd, che aspira a governare questo paese possa mettere in campo idee, proposte e percorsi concreti per affrontare i problemi della nazione. Certo con valori e principi “non negoziabili” (democrazia, diritti umani, solidarietà) ma con soluzioni praticabili, che declinano efficacemente i valori e i principi. Colpisce davvero la furia di Furio che si è riversata sulla proposta con – en passant – una gratuita cattiveria su Veltroni in Africa. Si ha la netta impressione che non si voglia leggere le proposte e criticarle sul merito, ma solo in riferimento a chi le porta avanti. Che c’entra l’odioso permesso di soggiorno a punti di matrice leghista con il documento che parla a monte dei criteri per l’ingresso? Si tratta di politiche praticate da governi laburisti tutt’altro che razzisti o xenofobi. Livi Bacci vi ha dedicato molti studi e, recentemente, un corposo articolo su Europa che consiglio di leggere. Anche Antonio Golino, esperto demografo non iscritto alla Lega Nord, in una pubblicazione curata dalla Fondazione ItalianiEuropei sulle “nuove politiche per l’Immigrazione” cita questa opzione come uno degli strumenti di regolazione dei flussi. Non riguarda ovviamente la grande schiera dei richiedenti asilo e dei rifugiati ai quali il nostro paese ha chiuso le porte con la politica dei respingimenti. Si tratta invece di passare dalle attuali quote quantitative, con un’opacità riscontrata da parte dei consolati che decidono chi sì e chi no a un sistema che dia ai consolati criteri obiettivi e trasparenti in base ai quali ammettere una pratica o respingerla. Certamente i criteri devono, possono essere discussi, ampliati e costantemente monitorati e aggiornati. Ma il sistema ha il vantaggio di ruotare intorno al progetto migratorio della persona approfondendo il suo profilo personale, professionale, le sue relazioni preesistenti in Italia, senza abbandonare il candidato all’immigrazione all’arbitrio burocratico, o alla corruzione. Le cose che scrive Furio Colombo sulla trappola dell’imitazione del linguaggio e dei metodi della destra sono giuste. Ma nella barca che affonda, sotto il peso della crisi economica e sociale, noi dobbiamo dare risposta alle due fragilità: quella dei cittadini stranieri e quella degli italiani per assicurare a tutti certezza dei diritti e speranza. Proprio per questo il documento parla di diritti, di cittadinanza in cinque anni, di diritto di voto amministrativo. Ma questa parte non ha fatto notizia...
Jean Leonard Touadi

CARO Jean Leonard Touadi ho letto con attenzione la tua lettera, di cui ti ringrazio, ma in essa non trovo alcun riferimento al mio articolo (Il Fatto, domenica 17 ottobre) tranne che al titolo. Come sai il titolo è l'unica cosa che sfugge del tutto al controllo di chi scrive su un giornale. Credo perciò di poterti dire, con amicizia e con un po' di stupore:
1) Nel mio articolo ho fatto riferimento preciso, con brani virgolettati, a testi di Enrico Letta e Walter Veltroni ricevuti dalle rispettive segreterie; e di Andrea Sarubbi, tratto dal suo blog. Sono testi chiari. Propongono senza equivoci la valutazione a punti degli immigrati sia come criterio di accettazione, sia come “accompagnamento” definito “realistico” e “pragmatico” dell'immigrato verso la cittadinanza. È una svolta brusca per il Pd e di questo ho discusso nel mio articolo e ho detto stupore e dissenso.
2) In luogo di una risposta trovo lo spostamento del discorso a un immaginario dialogo fra personale consolare italiano all'estero e “candidati” che vengono a presentare i loro titoli da misurare con punteggio. Ciò non avverrà mai sia per le condizioni deplorevoli dei consolati italiani privi di mezzi e di persone; sia per il terrore di coloro che fuggono nel deserto, in mare o legati sotto un tir, o semi-soffocati in un container per fuggire dal loro paese e dal loro governo. Perché fingere un mondo ordinato che non esiste e applicare il metodo di valutazione a punti a chi è a malapena sopravvissuto nel tentativo di vivere e di lavorare in Italia?
3) I diritti umani e civili a punti (ovvero il ricevere o perdere punti mentre vivi, lavori, produci, versi contributi in un paese ospite) non esistono. Dal sistema giuridico romano in avanti un diritto o
c'è tutto e subito e per sempre, o non c'è (salvo che per gli schiavi). Io credo che tocchi a noi riconoscere l'integrità assoluta dei diritti dei nuovi venuti contro l'incivile pretesa di un esame arbitrario e senza fine imposto da Lega e destra.
4) Noto che usi l'espressione “la furia di Furio”. Lo fanno sempre nei giornali del potere berlusconiano. Serve per screditare la riflessione, la critica e il suo autore. È esattamente il titolo che mi ha dedicato Panorama (20 settembre) per avere denunciato la copertina diffamatoria dello stesso settimanale contro i tre operai di Melfi, con foto in prima pagina e l'accusa di boicottaggio dell'impresa (9 settembre). Ti prego, non farlo. Sono sicuro che noi viviamo, sia pure attraversando tempi difficili, con rapporti, parole e sentimenti diversi. Con amicizia,
Furio Colombo

Corriere della Sera 21.10.10
Pronto il piano di Maroni per espellere i comunitari
Rimpatrio per chi non ha «reddito e dimora adeguati»
di L. Sal.


ROMA — Lo aveva annunciato quest’estate, nel pieno delle polemiche sulle espulsioni dei rom decise dalla Francia di Nicolas Sarkozy. E domani il ministro dell’Interno Roberto Maroni dovrebbe portare in Consiglio dei ministri le misure per l’allontanamento degli immigrati comunitari (compresi i rom), come già si fa adesso per gli extracomunitari. In realtà si tratta dell’ennesimo pacchetto sicurezza che dovrebbe contenere novità anche sull’accattonaggio, sulla prostituzione, con l’espulsione immediata per chi ha ricevuto il foglio di via, e sulla violenza negli stadi, con il ritorno dell’arresto per chi viene identificato con i filmati della polizia. I testi sarebbero stati illustrati al capo dello Stato lo scorso 5 ottobre. E dovrebbero essere due, un decreto legge (subito in vigore) e un disegno di legge da discutere in Parlamento.
La norma più delicata è proprio quella sull’espulsione dei comunitari. Il rimpatrio riguarderebbe chi viola la direttiva europea che fissa i requisiti per chi vive in un altro Stato membro: reddito minimo, dimora adeguata, non essere a carico del sistema sociale del Paese che lo ospita, ad esempio con una pensione. Maroni ci aveva provato già due anni fa con un altro pacchetto sicurezza che doveva essere approvato velocemente per decreto e che poi invece, dopo i rilievi di Giorgio Napolitano, imboccò la via normale del disegno di legge. La norma sulle espulsioni dei comunitari alla fine saltò del tutto. Anche per la bocciatura da parte della commissione europea che, con il francese Jacques Barrot, osservò come in base al diritto comunitario l’unica sanzione possibile potesse essere l’invito ad andarsene. Quando quest’estate aveva annunciato la sua intenzione di «tornare alla carica», Maroni aveva detto che la misura «non sarebbe stata discriminatoria» perché le «espulsioni sarebbero state possibili non solo per i rom ma per tutti i comunitari». È chiaro, però, che i requisiti fissati dalla direttiva comunitaria (reddito minimo e dimora adeguata) spesso sono violati proprio nei campi rom. Con una differenza importante rispetto alla Francia: molti rom che vivono nel nostro Paese sono cittadini non soltanto comunitari ma anche italiani. Nei loro confronti anche il nuovo pacchetto sicurezza non sarebbe applicabile.
Repubblica 21.10.10
La fuga dal diritto
di Carlo Galli


Dalle dichiarazioni che hanno accompagnato la prima approvazione del Lodo Alfano (che "lodo" non è perché non rappresenta un arbitrato super partes, ma l´espressione delle ragioni di una "parte") apprendiamo che la "serenità" delle alte cariche della Repubblica è un bene meritevole di tutela costituzionale. Mentre basta guardare fuori casa (ad esempio negli Usa, dove i presidenti vanno sotto impeachment per avere avuto –negandoli – rapporti fugaci con le stagiste) per accorgersi che di tale serenità una democrazia normale non ha bisogno.
Sbagliano però, tutti quelli che hanno votato l´emendamento in questione, se ritengono di poter sottrarre una siffatta disposizione alle censure di costituzionalità per il solo fatto che essa verrebbe approvata con la speciale procedura prevista dall´articolo 138 della Costituzione. Sbagliano perché le leggi costituzionali e di revisione costituzionale hanno il solo scopo – già chiaramente percepito dai filosofi politici del XVIII secolo – di integrare e di garantire la Costituzione "nel tempo" sia allo scopo di adeguarne pacificamente e gradualmente il contenuto alle nuove domande sociali sia per evitare modifiche effettuate violentemente o troppo frequenti.
Il disegno di legge costituzionale n. 2180 ha invece un contenuto "eversivo" della Costituzione. Infatti, qualora tale legge fosse definitivamente approvata, essa sarebbe una legge (in forma costituzionale) "in rottura della Costituzione", che, ancorché ammissibile in via di principio, come insegnava Carlo Esposito – un liberale autentico ed uno dei maggiori costituzionalisti italiani del secolo XX – , non sarebbe però mai ammissibile qualora provvedesse "nel caso singolo" per restringere la libertà di singoli individui o per incidere sullo status dei ministri o del Presidente della Repubblica.
E non sarebbe ammissibile anche perché tale legge, disponendo la temporanea immunità processuale per i reati comuni (extrafunzionali) del Presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio, contrasterebbe col principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che la Corte costituzionale ha fatto rientrare nel novero dei "principi supremi dell´ordinamento", come tali immodificabili anche in forza di una legge costituzionale.
Ebbene, che il disegno di legge n. 2180 contenga una "norma singolare" di favore per l´attuale Presidente del Consiglio – un privilegio in flagrante violazione del principio costituzionale d´eguaglianza – deriva dal fatto notorio che l´unico beneficiario della sospensione dei processi penali «anche relativi a fatti antecedenti l´assunzione della carica» è, dei due "beneficati", il solo Presidente del Consiglio, non esistendo alcun processo penale a carico dell´attuale Presidente della Repubblica.
Tuttavia ciò costituisce un elemento di chiarificazione nel dibattito pubblico e in un eventuale giudizio di legittimità costituzionale. Essendo stati via via eliminati ora l´una ora l´altra delle cinque alte cariche inizialmente beneficate dal Lodo Schifani (il presidente della Corte costituzionale "scartato" dal Lodo Alfano, i presidenti delle Camere "scartati" dalla legge sul legittimo impedimento, il Presidente della Repubblica "scartato" anch´esso dalla legge sul legittimo impedimento a beneficio dei ministri ma ora "riapparso", al posto dei ministri, nel disegno di legge n. 2180), non si potrà più sostenere, neanche con riferimento alla titolarità della presidenza del Consiglio dei ministri, che questa carica implichi di per sé un impedimento temporaneo tale da giustificare aprioristicamente l´assenza del premier nei processi penali a suo carico per reati comuni. E ciò, non solo perché questo unicum già di per sé appare strano, ma anche perché l´interim del ministero dello Sviluppo economico, durato ben cinque mesi, ha dimostrato inequivocabilmente – e a fortiori – che la presenza del premier in qualche udienza è agevolmente compatibile con le sue funzioni, dal momento che il loro disbrigo si è, nei fatti, rivelato compatibile con i ben più gravosi impegni connessi al lungo interim.
Un´ultima notazione. Nella quarta puntata di questo deplorevole gioco "a nascondino" del premier – che sarebbe addirittura risibile se non coinvolgesse, a livello internazionale, la serietà delle nostre istituzioni e non preoccupasse per i possibili ulteriori più gravi abusi – è stato nuovamente coinvolto anche il Presidente della Repubblica, dopo essere stato lasciato "fuori" dalla legge sul legittimo impedimento.
Ebbene, questa spregiudicatezza legislativa è assolutamente deprecabile non solo perché non si trattano le istituzioni costituzionali come se fossero carte da gioco, ma anche per quel rispetto che si deve alla persona del Presidente della Repubblica, che andrebbe preliminarmente sentito per esprimere ufficialmente il suo parere su una modifica costituzionale che lo coinvolge. Tanto più che l´Assemblea costituente, il 24 ottobre 1947, si espresse esplicitamente in senso contrario negando l´immunità processuale del Capo dello Stato per i reati comuni.

Repubblica 21.10.10
Negazionismo
La Germania. Se cancellare la Shoah può diventare un reato
di Mario Pirani


Da anni storici e politici si interrogano sull´opportunità dell´uso di misure legislative per combattere questa degenerazione
In Germania è sanzionato per legge Il ricordo della verità di Auschwitz non può essere messo in dubbio né venire rimosso
Dopo la proposta del presidente della comunità ebraica di Roma, Pacifici, si è riaperto il dibattito su questo tema. Con opinioni molto diverse

Perseguire per legge il negazionismo, quella corrente pseudo storica che sostiene l´inesistenza della Shoah o, al massimo la riduce a una persecuzione secondaria, l´esito inevitabile delle malattie e degli stenti cui furono sottoposte durante la guerra le popolazioni ebraiche dell´Europa orientale? L´interrogativo si ripropone ogni tanto anche da noi – l´ultima volta ad iniziativa del presidente della Comunità ebraica di Roma – e puntualmente divide gli storici, scettici sull´uso di misure legislative per combattere una degenerazione, sia pure palese, della loro disciplina, dai politici di varie tendenze, propensi invece a emanare decretazioni che testimonino la loro buona coscienza, anche senza veruno effetto pratico. Pur non appartenendo né all´una né all´altra confraternita debbo dire che la penso come uno dei massimi storiogafi del fenomeno (Michael R. Marrus: L´Olocausto nella storia, Il Mulino 1994) che esclude volutamente dalla sua indagine sulle varie correnti di analisi del Genocidio «qualsiasi discorso sui cosiddetti revisionisti, quei balordi malevoli che sostengono che l´Olocausto non sia mai avvenuto. Purtroppo questa non è più una corrente insignificante e vi sono segni che coloro che fabbricano queste fantasticherie siano impegnati in un´impresa contro gli ebrei di ampiezza molto maggiore. Ma mentre è importante che la loro azione venga capita, non vedo per quale ragione persone come quelle dovrebbero determinare la direzione del dibattito degli storici: sarebbe come se i discorsi dei teorici della "piattezza" della terra condizionassero il corso degli studi degli astronomi».
Dunque, se l´attuale "impresa antiebraica", che va sotto il nome di negazionismo, è politica, anche la risposta deve porsi sulla stesso terreno. Da questo punto di vista l´arma della legge può essere giustificata laddove si dimostra efficace, altrimenti si trasforma in un placebo consolatorio della voluta assenza di una battaglia coerente sul piano politico più generale. Così sono apprezzabili le leggi tedesche dell´85 e del ´94 perché traggono linfa da quel grande dibattito sulla Storia – l´Historikerstreit – su cui le giovani generazioni e l´intellettualità della Repubblica federale s´impegnarono a fondo, come nessun altro in Europa e che indusse il presidente del Bundestag, Philipp Jenninger a pronunciare il 19 novembre 1988 un grande e contestato discorso di rievocazione della "notte dei cristalli". Il discorso culminò in questo passaggio: «Sul problema della colpa e della rimozione ciascuno deve rispondere per se stesso. C´è un aspetto però contro il quale tutti dobbiamo ribellarci ed è il dubitare della verità storica, è lo sbagliare i conti sul numero delle vittime e il negare i fatti. Questi sforzi non solo portano tendenzialmente a rinnegare le vittime ma sono anche inutili. Perché qualunque cosa accada in futuro e qualunque cosa finisca dimenticata, l´umanità fino alla fine dei tempi si ricorderà di Auschwitz come di una parte della nostra storia, della storia tedesca. Perciò è anche inutile la richiesta di "chiudere finalmente con il passato". Il nostro passato non avrà mai pace né mai passerà. E ciò indipendentemente dal fatto che le giovani generazioni non ne abbiano colpa».
È questa salda consapevolezza culturale e politica che ha reso le classi dirigenti tedesche, cristiano democratiche o socialdemocratiche, liberali o verdi a dimostrarsi del tutto vaccinate dalla tentazione di risolvere l´altalena bipolare, accettando l´appoggio dei gruppi di estrema destra, postnazisti, xenofobi, antisemiti e anti islamici. Diversa appare, di contro, la sorte dei partiti conservatori austriaci, scandinavi, olandesi ed altri, proclivi alla alleanza con le nuove destre nazionaliste e fasciste, malgrado in tutti quei paesi figurino leggi antinegazioniste. Persino il futuro francese non si delinea in questo senso del tutto certo.
E l´Italia? Come sempre il combinato disposto scelto da Berlusconi fra mantenere il potere ad ogni costo, lasciando mano libera alla Lega, da un lato, e raccattare, dall´altro, dopo la defezione di Fini, ogni rimasuglio dei gruppi di estrema destra, sta socchiudendo la porta della maggioranza, quasi senza farsene accorgere, ai miasmi peggiori dell´estremismo razzista. Gesti minimi e ignobili parlano ogni giorno a chi vuol vedere: la "lectio" di Moffa si sposa con gli scritti contro "la cricca bancaria ebraica" del sito ufficiale de La Destra di Storace, rialleatasi col premier; il convegno con i più noti esponenti dell´antisemitismo, da Blondet a Sinagra e, come sempre a Moffa, svoltosi ingiuriosamente nella Biblioteca del Senato, intitolata a Giovanni Spadolini, va all´unisono con lo scambio di messaggini su Facebook del professore di Teramo con il direttore di Rai Uno, Minzolini cui si rivolge, come a tutti quelli che "gli hanno chiesto l´amicizia" dopo la concione accademica, ringraziandolo «per avere prontamente risposto ad analoga richiesta, esprimendogli con l´occasione stima per il suo coraggio civile e la sua onestà professionale». Vien proprio da dire: Dio li fa e Berlusconi li accoppia.
È evidente che una legge anti-negazionismo non avrebbe in questa atmosfera effetto alcuno, come, del resto la condanna inserita dal 1967 nel codice penale, per chi giustifichi il terrorismo. Assai più importante sarebbe battersi per ottenere una disposizione amministrativa ferrea che vieti d´impartire un insegnamento negazionista o, comunque, razzista, dalle elementari all´università, sotto la responsabilità diretta del ministro e delle autorità scolastiche di ogni ordine e grado. Per la Gelmini sarebbe un sicuro titolo di merito.

Repubblica 21.10.10
Negare l´esistenza dell´Olocausto significa uccidere una seconda volta vittime innocenti. Cancellare la memoria è tipico dei regimi totalitari. Bisogna reagire contro queste pratiche con la massima energia
A favore. Una legge è necessaria
Quel crimine verso la storia
di Nicolai Lilin


Da quando scrivo romanzi e mi trovo a far parte dell´ambiente letterario, cerco di stare lontano dai discorsi che riguardano la politica. Per esperienza personale ho imparato quanto è difficile impedire che le proprie idee vengano strumentalizzate. Ma a volte è impossibile non intervenire. Non potrei non esprimermi su questioni fondamentali o lasciare che vengano messi in discussione quei valori in cui credo e sui quali si fonda il futuro dei nostri figli. Così, in questi giorni, di fronte alle polemiche nate intorno al professore di storia che nega la realtà dell´Olocausto, sento la responsabilità di intervenire in difesa della memoria delle vittime della Shoah, che nel mio cuore si uniscono a tutte le vittime di tutti i regimi totalitari e oppressivi del mondo. Negare l´esistenza dell´Olocausto è un crimine, così come lo è stato lo stesso sterminio. Chi cerca di nascondere la storia delle vite umane perse nelle barbarie dei regimi totalitari, non fa nient´altro che uccidere per la seconda volta. Non possiamo permettere queste offese contro la storia, contro la memoria, contro la dignità delle persone morte, persone che non potranno mai rispondere, usate come monete di scambio gettate con disprezzo sul bancone della politica.
Con grande tristezza ricordo come in Unione Sovietica si taceva sui crimini che accadevano nei Gulag, dove i boia del comunismo totalitario, proprio come i loro rivali nazisti, eliminavano un´intera classe sociale, politica, culturale ed intellettuale, semplicemente perché non abbracciava le idee del partito. La negazione di ogni crimine contro la libertà di ogni essere umano è nient´altro che la morte della democrazia, l´uccisione del pensiero libero, della cultura. Mi fa male vedere come i fondamentalisti al potere in alcuni paesi islamici, persone che sfruttano la debolezza delle proprie popolazioni e la situazione attuale del Medio Oriente per soddisfare interessi personali basati solo sulla sete di potere e su smisurate ambizioni economiche. In questo modo condizionano i nostri fratelli musulmani all´estremismo, seminano nelle nostre società la cultura dell´odio e la paura reciproca, ci allontanano dalla strada della condivisione e della pace, operano attraverso una brutale e cinica propaganda, spesso sfruttando l´ignoranza e la buona fede dei propri popoli, proponendo tra le altre cose, anche il rifiuto della storia della Shoah, trasformandola in una sorta di barzelletta, negando l´odio e le persecuzioni secolari contro il popolo ebraico.
Finché in questo mondo esiste qualcuno che ha la libertà di sminuire i delitti del potere nazista, finché qualcuno sarà libero di tentare di dare a quei crimini una forma diversa da quella reale, proponendoci una visione che richiama la possibilità della "comprensione" di quel regime brutale e barbarico, guidato da un dittatore pazzo e criminale, finché lo sterminio degli umani e i genocidi contro i popoli definiti "indegni" di vivere saranno giustificati, non potremo mai liberarci della natura diabolica della nostra storia, del nostro lato oscuro. Negando la Shoah diamo la possibilità a futuri tiranni, speculatori della politica e della propaganda, di avere potere sulla nostra libertà e di privare della speranza del domani le generazioni future. Oggi noi dobbiamo essere forti e decisi, dobbiamo fermare chi impugna le armi dell´infamia e dell´inganno e sostenere la legge contro il negazionismo.

Repubblica 21.10.10
È sbagliato interferire con normative nella ricerca intellettuale. E non si deve offrire a chi nega lo sterminio il pretesto per ergersi di fronte al mondo come paladino della libertà espressione
Contro. Ginzburg: i tribunali non possono decidere
La verità non è di stato
di Simonetta Fiori


«La verità storica non può essere certificata da un tribunale», dice Carlo Ginzburg. Il suo giudizio negativo sull´opportunità di una legge che punisca penalmente il negazionismo è una posizione condivisa dagli storici più autorevoli della comunità nazionale, al di là delle diverse ispirazioni politiche e culturali. Così come appare compatto il sì alla legge pronunciato da tutto il mondo politico, destra e sinistra insieme, con poche eccezioni. Da una parte le ragioni della ricerca, dall´altra le ragioni della politica. «Questa divergenza va sottolineata», sostiene Ginzburg, «ma non credo costituisca un sintomo negativo per la ricerca».
Perché è contrario alla penalizzazione del negazionismo?
«Perché si rende un servizio ai negazionisti, desiderosi di una notorietà mediatica e pronti a ergersi a paladini della libertà di espressione. La mia posizione non è cambiata rispetto a tre anni fa, quando insieme ad altri storici firmammo un manifesto contro il disegno di legge proposto dall´allora ministro della Giustizia Mastella. Ogni verità imposta dall´autorità statale rischia di minare la libera ricerca storiografica e intellettuale».
In quell´appello venivano ricordati gli esiti illiberali di alcune verità di Stato: il socialismo nei regimi comunisti, la negazione del genocidio armeno in Turchia, l´inesistenza di piazza Tienanmen in Cina.
«Soprattutto è sbagliato portare in tribunale le argomentazioni storiografiche. Si entra in un terreno difficile e delicato, con il rischio di offendere la verità ma anche le vittime dei genocidi. Prendiamo la formulazione della Decisione Quadro del 28 novembre 2008 adottata dall´Unione Europea, così come veniva riportata ieri su Repubblica. "Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili... l´apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l´umanità e dei crimini di guerra". La formula "minimizzazione grossolana" mostra immediatamente come scendendo su questo terreno possa cominciare una discussione infinita. Che cosa significa? Cosa intendiamo? Si entra in un gioco di distinguo e di sfumature assolutamente insensato».
Nella discussione intorno alla legge, qualcuno tra gli storici ha sostenuto che le argomentazioni dei negazionisti pur abiette possono essere di stimolo per la ricerca.
«No, sono ignobili e basta. Il documento sul negazionismo più profondo e più drammatico, anche per le sue implicazioni personali, è il saggio di Pierre Vidal-Naquet, Un Eichmann di carta, contenuto nella raccolta Gli assassini della memoria. I suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz. Ho immaginato quanto gli fosse costato scrivere questo saggio. Devo dire che leggendolo al principio ho provato una profonda perplessità, che però è scomparsa quasi subito. Quel libro andava scritto, e solo Vidal-Naquet poteva scriverlo».
Più efficace Vidal-Naquet di una sentenza. Ma c´è il problema di come tenere i negazionisti lontani dall´insegnamento.
«Sono d´accordo con un vostro lettore: a proposito del professore negazionista di Teramo, invitava coloro i quali gli avevano dato la cattedra a riflettere sulle conseguenze della loro scelta. Il fatto che quel signore sia diventato docente è un sintomo dello stato vergognoso in cui è scivolata l´accademia italiana. Il negazionismo si combatte anzitutto moltiplicando la vigilanza critica e alzando gli standard delle nostre università».

Repubblica 21.10.10
Fournier-Facio ha raccolto gli scritti dedicati al grande musicista
Gustav Mahler passioni e rancori
di Antonio Gnoli


Finché fu in vita venne considerato più come direttore d´orchestra che come compositore

Nell´atmosfera decadente di Morte a Venezia Luchino Visconti inserì l´Adagietto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Quello del regista fu un omaggio al compositore austriaco e a Thomas Mann, lo scrittore che della musica aveva fatto la sua ossessione narrativa che culminerà in quel capolavoro che è Il Doctor Faustus. A quanto pare, Mann aveva seguito con apprensione le cronache che riferivano dell´agonia di Mahler e ne trasferì in Morte a Venezia la tensione e il dolore. Fu un modo per sdebitarsi nei riguardi di un compositore molto noto, ma anche poco amato. Capace di toccare profondità inusuali e insieme suscitare irritazioni veementi. Ascoltare il movimento finale dell´Ottava Sinfonia, che apriva alla seconda parte del Faust di Goethe, fornì a Mann l´occasione, nel 1910, per scrivere a Mahler una breve lettera colma di ammirazione.
Tra qualche mese ricorrerà il centenario della morte del compositore. Ma già ora si può utilmente entrare nelle celebrazioni con il libro Gustav Mahler. Il mio tempo verrà (il Saggiatore, pagg. 742, euro 45) che Gastòn Fournier-Facio ha curato con grande competenza. Si tratta di una raccolta di scritti che copre l´arco di un secolo (1901-2010) nella quale autori, provenienti da esperienze culturali più diverse, raccontano la musica e la vita del maestro. Ciascuno di questi scritti è preceduto da una introduzione colta e sobria di Fournier-Facio. Apprendiamo così che Stefan Zweig è sulla stessa nave che sta portando il compositore dall´America verso l´Europa. È l´ultima traversata di Mahler, prima della morte che avverrà a Vienna il 18 maggio del 1911. Zweig descrive il rientro in patria, racconta l´ingratitudine di Vienna e infine ritorna all´immagine vivida di un uomo – dallo slancio demoniaco - la cui musica non era stata capita. Egli fu più celebrato come direttore d´orchestra che come compositore, e questo gli provocò il senso di un dissidio tra le due arti (eseguire e creare), ma anche la convinzione che solo il tempo avrebbe ricomposto la frattura. «Il mio tempo verrà», auspicò di sé con la convinzione dell´uomo inattuale. Non sapeva quando, ma era certo che il "tempo messianico" sarebbe giunto. La sua musica avrebbe ancora aspettato a lungo. Il nazismo ne vietò la diffusione definendola "arte degenerata".
Con l´arrivo degli anni Sessanta assistiamo a una Mahler Renaissance, alla quale contribuiscono tra gli altri Bernstein, Kubelik, Solti, Boulez e Abbado. Tra i compositori saranno Schönberg, Casella, Berg, Shostakovich e Berio a fare di Mahler il grande precursore della musica del Novecento. Adorno, nel discorso celebrativo, che risale al 1960, ricorda che Mahler, come Karl Kraus, seppe rompere il conformismo imperante. «Se è vero che tutti i grandi progetti dell´arte sono in sé paradossali», scrisse Adorno, «quello mahleriano fu paradossale nella misura in cui gli riuscì di produrre grande sinfonismo in un momento che ormai ne dichiarava l´impossibilità».
In questa raccolta spicca un solo giudizio inequivocabilmente negativo, quello di Glenn Gould. Non fu il solo detrattore. Ma certo il più spietato. Definì Mahler «odioso, sfrenatamente opportunista e sovranamente indifferente alla fragilità del prossimo». Mahler, è vero, fu anche un uomo crudele. Come tale si comportò con la moglie Alma, «ponendo come condizione imprescindibile per il loro matrimonio», scrive Fournier- Facio, «di rinunciare a comporre musica per votarsi a lui soltanto». Lei accettò, amandolo con passione e narcisismo, tradendolo con Adolf Loos e infine ricordandolo, con qualche esagerazione, come l´artista che aveva reso più ricca la grande musica.

Corriere della Sera 21.10.10
Treblinka, rivolta contro l’orrore
di Corrado Stajano


Il reportage dello scrittore russo e l’allarme sempre attuale per la ricomparsa del razzismo
Una sommossa nel lager nazista narrata da Vasilij Grossman

Si crede di conoscere tutto sulla Shoah, la bibliografia è immensa, poi esce un piccolo libro come L’inferno di Treblinka, opera di un grande scrittore, Vasilij Grossman, pubblicato ora da Adelphi e si ha come un sobbalzo. Tra orrore e vergogna per il genere umano. Quasi fosse la prima volta, più di sessant’anni dopo, che veniamo a sapere ciò che accadde in Europa in quell’atroce secolo che è stato il Novecento.
Corrispondente di guerra dell’Armata Rossa, Grossman scrisse questo reportage subito dopo la liberazione del lager di Treblinka, una sessantina di chilometri da Varsavia: uscì allora sulla rivista «Znamja» (Bandiera).
Vasilij Grossman è l’autore di quel gran romanzo, Vita e destino, definito il Guerra e pace del secolo passato. Il manoscritto fu sequestrato nel 1961, la sua pubblicazione fu proibita, Grossman fu tormentato dal Kgb. Un amico che possedeva una copia del manoscritto riuscì a portarlo all’estero. L’Âge d’Homme di Losanna lo pubblicò in russo nel 1980. Morto nel 1964, Grossman non potè veder premiata la sua decennale fatica. Che cosa turbava i gelidi gerarchi sovietici? Il male — il nodo del libro — è il cancro del mondo. Nessun sistema politico può averne ragione, raccontò lo scrittore, soltanto la forza morale dei singoli. Una tesi che mandava in pezzi le fondamenta del regime sovietico.
Grossman, dunque, arriva a Treblinka nell’estate del 1944. Fa una minuziosa inchiesta, raccoglie le testimonianze dei pochi sopravvissuti e di qualche carnefice, ascolta gli abitanti del paese più vicino al lager, Wólka. Dalle loro case sentivano le urla strazianti delle vittime azzannate dai cani, martoriate, condotte nelle camere a gas. Fuggivano terrorizzati nei boschi.
Nello scrivere, Grossman usa una lingua il più possibile neutra, qualche volta non riesce a mantenere la tranquillità stilistica che si impone.
A pagina 19: «Caino, dove sono coloro che hai condotto qui?»
A pagina 20: «L’inferno di Treblinka in confronto al quale l’inferno di Dante è uno scherzo innocente di Satana».
A pagina 39: «Un SS di nome Zepf era specializzato in bambini. Dotato di una forza erculea, quel mostro pescava un bambino dal gruppo, lo brandiva come una clava e gli sbatteva la testa per terra, oppure gli spezzava la schiena».
A pagina 58: «Quanti esperti nel regime di Hitler. Esperti nell’uccidere i bambini, esperti di impiccagione, esperti nella costruzione di camere a gas, esperti nel distruggere scientificamente una grande città in un sol giorno. Si trovò anche un esperto di esumazione e incenerimento di corpi umani».
L’inferno di Treblinka non è propriamente un reportage, una narrazione, piuttosto, una cantata di morte. Grossman descrive la precisione teutonica, la pedanteria maniacale dei nazisti, racconta dei poveri ebrei mandati al macello, ricorda il colosso Stumpfe soprannominato «la morte che ride», ripercorre l’agghiacciante camminata dei prigionieri fino alla camera a gas: «Che cosa provavano in quei loro ultimi minuti?» Le camere a gas si moltiplicarono. Furono costruiti forni dall’aspetto di giganteschi vulcani. La vittoria dell’Armata Rossa a Stalingrado terrorizzò a un certo momento i nazisti, era la fine. A Treblinka arrivò Himmler: bisognava cremare i prigionieri, ordinò, spargere le ceneri sui campi e lungo le strade, non lasciare traccia. (Quasi un milione di morti, tra ebrei polacchi, greci, jugoslavi e zingari).
I prigionieri non restarono passivi come generalmente accadde. Si ribellarono — più di settecento — si procurarono asce, coltelli, bastoni, scavarono un tunnel sotto l’armeria tedesca, portarono via granate, una mitragliatrice, carabine, pistole, trovarono, chissà come, della benzina e diedero fuoco al lager: «Il dio del coraggio li assistette (...) il 2 di agosto il sangue marcio delle SS bagnò la terra di Treblinka, un cielo azzurro rovente di luce celebrò l’ora della vendetta».
Com’è potuta accadere la Shoah?, si domanda Grossman con angoscia. «Che cosa bisogna fare affinché il nazismo, il fascismo. l’hitlerismo non abbiano a risorgere in secula seculorum? »
È la stessa domanda che si pone ora Alberto Burgio, professore di Storia della filosofia contemporanea all’Università di Bologna in un libro intelligente, Nonostante Auschwitz, sul ritorno del razzismo in Europa, pubblicato da DeriveApprodi.
L’ossessione di Primo Levi, espressa soprattutto nel suo I sommersi e i salvati, era proprio questa: «È avvenuto, quindi può accadere di nuovo».
Il presente non è sereno, la globalizzazione, i flussi migratori, le guerre sparse per il mondo fanno da incubatrici al razzismo, come la paura e l’insicurezza. Si è rivelata una grande illusione la speranza che la tragedia di Auschwitz avesse guarito per sempre il mondo dall’antisemitismo: «Si è risvegliato — scrive Burgio — perché appartiene al codice genetico della modernità europea e perché non vi è più nulla a contrastarlo nel deserto morale e culturale della nostra società soddisfatta e disperata».
Burgio scrive del passato e del presente. Fa un raffronto tra l’infuocata discussione avvenuta nella Germania degli anni Ottanta sulle colpe del nazismo e l’atteggiamento indulgente della società italiana sul fascismo considerato bonario, diverso dal nazismo, e sul razzismo nostrano di cui, venne detto, fu responsabile Hitler. Tutti assolti.
Oggi? «La Lega Nord — scrive Burgio — sin dai primi anni Novanta produce e diffonde ideologie identitarie di stampo "neo-etnico" e francamente razzista (un mix di razzismo coloniale e antislavo, antimeridionalismo e sessismo) per attivare conflitti, consolidare ed espandere la propria base elettorale».
In un rigurgito di antisemitismo i negazionisti rispuntano ancora oggi dagli anfratti dell’ignoranza. Ma — ha ragione Adriano Prosperi — non si combatte con la legge chi rifiuta la realtà. Per tutelare la memoria bisogna dare slancio alla ricerca e offrire così speranza di futuro ai giovani.
Spiegando, facendo capire i pericoli che incombono sempre. Da noi, per esempio, il nemico non è il mafioso, lo ’ndranghetista, il camorrista, come dovrebbe essere, ma il migrante che «normalmente delinque». Il nemico, l’altro, seguita a essere prezioso perché dà un volto alle nostre paure: anche l’ebreo, in quei tempi oscuri, lo era.

Corriere della Sera 21.10.10
Platone contro il Prozac: i filosofi in cerca della felicità
di Armando Torno


Che senso ha parlare di filosofia in un’epoca in cui la felicità ha smesso di essere l’obiettivo principale delle azioni umane per trasformarsi in un diritto? Chi si deve seguire? Platone o la fluoxetina, farmaco conosciuto come Prozac e capace di curare depressioni, disturbi ossessivo-compulsivi e bulimia nervosa? A prescindere dal fortunato libro di Lou Marinoff, Platone è meglio del Prozac (Piemme), ormai si cerca di recapitare felicità a sempre più esseri viventi attraverso iniezioni di botulino, personal trainer, interventi estetici et similia. Nel mondo anglosassone — e non soltanto — Happiness, la felicità, è un’industria consolidata. Anzi, Richard Layard, il più noto economista inglese in materia, afferma che si può misurare. In Happiness: Lesson from a New Science (Londra 2005), discetta sulle valutazioni possibili, comprese le misurazioni dell’attività elettrica di regioni importanti del cervello. Che senso ha, allora, ripetere oggi «Conosci te stesso», l’antico motto greco (gnôthi seautón) scritto sul tempio di Delfi, che riassumeva l’insegnamento dei sapienti e di Socrate?
Nel presentare la nuova edizione dell’Enciclopedia Filosofica questa domanda è d’obbligo. Ma siamo convinti che studiare, inseguire le mosse dei grandi, imparare a riflettere evitando ciarlatani e confusionari, magari non credere che basti la barba per trasformare qualcuno in filosofo, è un esercizio utile alla vita. Non saprà offrire immediatamente la felicità, come un farmaco, tuttavia riesce a indicare una strada dove cercarla senza l’aiuto chimico. Epicuro (341-271 a.C.), il filosofo greco che più di molti altri si occupò dell’argomento, inizia la sua Lettera a Meneceo con parole che fanno bene ancora oggi: «Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima». Sostenne che il piacere ne sia la chiave; per questo i suoi detrattori trovarono spazio, anzi un credito di secoli. Diogene Laerzio, nel decimo libro delle Vite dei Filosofi, riferisce qualche accusa e le calunnie circolanti. Ne ricordiamo due: Epicuro fu ritenuto un trasgressore e avrebbe organizzato orge con Leonzio e Mammario, due signore molto disponibili; inoltre Epitteto, quasi mezzo millennio più tardi, lo chiama cinedologo, ovvero predicatore di sconcezze. Era vero? La risposta conviene tentarla dopo aver ricordato che Epicuro riteneva il piacere come il segreto della felicità, ma lo intendeva non alimentato dai sensi bensì dall’assenza di desiderio. Insomma, non si è felici toccando, assaggiando o facendo altre cose che non è il caso di spiegare, lo si diventa conoscendo quella quiete che avvolge dopo la tempesta.
Inoltre la filosofia, come credeva anche l’arabo al-Ghazali (morto nel 1111), aiuta a trasformare i nostri vizi in virtù, al pari dell’alchimista i n grado di realizzare quel salto di materia che cangia i metalli vili in preziosi. Forse non opera con dei miracoli, ma ci mette in condizione di vivere meglio, di guardare la realtà e di prendere il giusto distacco da quanto non condividiamo. Insomma, ci insegna anche quella giusta dose di egoismo da mescolare alla vita (i credenti lo possono chiamare «amor proprio»). Un esempio, un autore? C’è l’imbarazzo della scelta. Se ne desiderate uno sicuro, possiamo suggerirvi Michel de Montaigne, che in pieno Cinquecento si ritirò nel suo castello, mandò al diavolo onori, inchini, cariche pubbliche e si mise a scrivere quel capolavoro assoluto che sono i Saggi. In essi non c’è pagina che non vi spieghi come il mondo sia basato sui capricci e non sulle virtù, che l’opinione è la più potente delle regine e che trionfa non sempre il migliore. Certo, può capitare, ma di solito è un incidente. Michel, chiuso nella torre del suo castello come Giona nel ventre della balena, si diverte a bombardare l’umanità con osservazioni, con proiettili intelligenti che colpiscono al cuore i problemi. E allora ecco che la grande farsa ogni giorno recitata nel mondo con cariche, sorrisi, onori e con la pregnante massa dei tangheri che arrivano in alto, è sbeffeggiata. Due esempi. Nel primo Montaigne ricorda che «più in alto la scimmia sale e più mostra il sedere»; nel secondo — si legge nell’ultima pagina degli Essais — che «anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo». È un riso inquietante, continuo, corrosivo. Già alla sua epoca aveva capito che «quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono»; ovvero per quel filosofo disincantato i Meeting, o quelli che chiamiamo con questo nome, altro non sono che delle macchine per perdere tempo.
Il cattolico romano Montaigne si dichiarava scettico, mentre alcuni filosofi del Novecento che sostennero di credere in pochissime cose hanno preparato un nuovo bisogno di fede. Forse la lettura di Russell, di Carnap, Sartre, Heidegger o di altri non aiuta a essere più saggi o migliori, ma allena l’animo a osservare meglio i problemi che poi si vorrebbero risolvere con il Prozac. A tal proposito, vale la pena conoscere una battuta che Karl Popper lasciò scritta sul pensiero di Ludwig Wittgenstein, filosofo che è ancora di moda e del quale si dice tutto e l’esatto contrario: «Non seppe mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia; anzi vedo nella mosca incapace di uscire dalla bottiglia un impressionante ritratto di Wittgenstein». Ricorda un velenoso epigramma di Søren Kierkegaard contro Hegel, maestro che — come a Schopenhauer — gli stava perennemente sullo stomaco. Leggiamo in Enten Eller, meglio conosciuta con il latino Aut aut: «Quando si sentono i filosofi parlare di realtà, si è tratti in inganno come dal leggere nella vetrina di un rigattiere la scritta "Si stira la biancheria". Ma invano porterete lì i vostri panni. Infatti si vende solo il cartello».
Forse più dei grandi sistemi, nei quali si codificano le massime questioni, la filosofia è maestra nelle demolizioni degli stessi per opera di altri pensatori. Sovente si impara vedendo crollare le certezze più che nell’osservare la loro magnificenza. Si possono inseguire, per esempio, le idee nella fascinosa prosa di Friedrich Nietzsche per capire il superuomo, ma forse si coglie meglio la sua intelligenza quando è intento a criticare Charles Darwin. Al filosofo che amava gli animali — le sue opere non mancano di allusioni simboliche in tal senso — e che impazzì a Torino abbracciando un cavallo, basta un frammento: «Le scimmie sono troppo buone perché l’uomo possa discendere da loro». E ancora: la stessa fede ha guadagnato da critiche e demolizioni. Se oggi leggiamo con maggior attenzione i testi sacri, ciò è dovuto al fatto che pensatori quali Thomas Hobbes o Baruch Spinoza osarono affermare che Mosè non poteva essere l’autore della maggior parte del Pentateuco, ovvero dei primi cinque libri della Bibbia. La tesi suscitò reazioni in tutta Europa e qualcuno tuonò sostenendo che la Scrittura era stata corrotta. Oggi, grazie al recente studio di Jean Bernier, Le critique du Pentateuque de Hobbes à Calmet (Honoré Champion, euro 65), sappiamo che quelle critiche aiutarono la fede più di talune opere teologiche.
La filosofia ha, insomma, le sue vie. La storia della felicità è infelice e quella delle certezze che pendiamo per vivere è piena di dubbi. Anche la saggezza non si lascia prendere. Ma è sempre delizioso insegurla.

Corriere della Sera 21.10.10
«Dicono che diventerò santo? Ma no, io sono uomo di potere»
Umberto Eco “intervista” Tommaso d’Aquino


Abbazia di Fossanova, 1274, vigilia della morte
ECO — Vi vedo sorridere, Maestro. Dunque non state così male.
TOMMASO — Sorrido perché sento che entro questa sera morirò. Forse domani mattina, ma le tenebre sono più propizie alla partenza. Ho dovuto arrestarmi presso questi cistercensi, mentre andavo a Lione, perché non mi sostenevo più in piedi. E, già debolissimo, con la mia povera mole avevo fatto tanta fatica a salire questa scaletta, stretta com’è, che mi viene da sorridere pensando agli sforzi che faranno questi buoni monaci a far discendere il mio corpaccio inerte.
ECO — Non siete magro, è vero, ed è curioso con la vita di penitenza e sacrificio che avete sempre condotto...
TOMMASO — Il mio male si manifesta, da anni, sotto forma di fame e sete incoercibili. E più ingrassavo, più per sottrarmi a questo stato di debolezza costante, che ora mi impedisce persino di scendere dal letto, mangiavo e bevevo. Ma siamo giunti al termine del viaggio. La mia urina, me l’ha fatta assaggiare ancora ieri il fratello erborista dell’abbazia, sa sempre più di miele. Mi si aprono piaghe sulla pianta del piede, i muscoli mi dolgono, ho crampi alle mani, e nausea. Mi sta sempre più scemando la vista e devo dettare tutto al mio segretario Reginaldo — e non sono sicuro di quello che scriverà, perché è volonteroso ma (detto fra noi, e non lo pubblichi) non è un’aquila. Insomma, tutti i miei sintomi — a detta dei medici — sono mortali... Certo, i miei quarantanove anni sono un’età ragionevole per morire. È vero che si va dicendo che la vita umana può arrivare sino a settant’anni, ma forse accadeva agli antichi, non a noi. Mi dicono che Abelardo o Riccardo di San Vittore hanno superato i sessant’anni, e persino il mio amato re Luigi ci è arrivato vicino, ma alla mia età è morto Severino Boezio, e più giovane ancora Ugo di San Vittore. E quanto ai maestri di noi frati mendicanti, san Francesco è vissuto quarantaquattro anni e san Domenico cinquantuno (né posso ardire di morire più anziano del fondatore del mio ordine). Non ricordo dove, credo in Francia, c’è una chiesa dove chi va in pellegrinaggio può ottenere di vivere sino a quarant’anni. Io sto appressandomi ai cinquanta senza esserci mai andato e dovrei ringraziare il cielo per questa indulgenza. Ma che guaio essere così grasso, vedete, non riesco a respirare.
ECO — In fondo a essere grasso vi siete abituato sin dalla giovinezza. I vostri condiscepoli a Colonia vi chiamavano il bue muto, non è vero?
TOMMASO — Il bue è un animale buono, ed è il simbolo di un evangelista.
ECO — Ma loro lo dicevano per beffarsi di voi. E prima ancora, nel convento dei domenicani, i novizi vi hanno fatto uscire un giorno dalla cella gridando che c’era un asino che volava, e poi si sbellicavano dalle risa vedendo che ci eravate cascato.
TOMMASO — Ma non hanno più riso quando ho detto che mi pareva più verosimile che un asino volasse piuttosto che un frate dicesse una bugia. Quando li ho visti così umiliati, ho capito che ero stato cattivo. Ma è la mia natura. Non so se andrò in paradiso, perché quando mi pare che qualcuno offenda la verità divento sferzante, mi batto sino a che non distruggo l’avversario.
ECO — Ne avete distrutti molti durante il vostro magistero.
TOMMASO — Pensavo fosse mio dovere. Ma ora mi chiedo se non fosse per orgoglio. ECO — Tutti vi ritengono un santo... TOMMASO — Suvvia, sono stato quello che si dice un uomo di potere. È difficile praticare l’umiltà quando ti accade, come mi è accaduto, di essere alla mensa di re Luigi, incapace di ascoltare quel che dicevano gli altri, e inteso ai miei pensieri, così che a un certo punto, colto da un’idea risolutiva, ho battuto il pugno sul tavolo come un ubriaco nella taverna, e ho gridato: «Questo regola il conto con i manichei!». Il priore di san Giacomo mi ha tirato per la tonaca e mi ha ricordato sottovoce che ero alla tavola del re, e già stavo arrossendo, quando il re ha chiamato un segretario e gli ha detto di portare da scrivere, perché se il Maestro, che ero io, aveva avuto un’idea così importante, occorreva prenderne nota. E voi fareste santo un uomo che poteva permettersi di dare un pugno sul tavolo alla tavola del re? Un uomo di potere non lo si fa santo, se non per ragioni politiche. Dio mi salvi da questa umiliazione. Ma poi, col mestiere che ho fatto, non era difficile passar per santo. Quando si dedica tutta la vita alla ricerca, non si ha tempo per mentire, ammazzare, commettere atti impuri, rubare, desiderare la donna e la roba d’altri. Ho sempre nominato il nome di Dio per ottime ragioni e mai invano, un domenicano ovviamente santifica le feste, ho onorato il padre e la madre anche quando volevano farmi violenza perché non mi facessi frate mendicante, perché loro mi volevano benedettino — sapete un figlio di famiglia nobile che diventa benedettino è destinato a divenire abate, vale a dire un’autorità, mentre un figlio mendicante è quasi una vergogna...

Repubblica 21.10.10
Scoperta nel cervello la fabbrica dei nostri sogni
Scienziati italiani scoprono la fabbrica onirica "Una base anatomica per le teorie di Freud"
Sogni. Bizzarri o spaventosi ecco come li influenza la "forma" del cervello
Le dimensioni di amigdala e ippocampo condizionano i "film notturni"
di Carlo Picozza


C´è un´officina nella parte arcaica del nostro cervello: produce gioia e paure, affetti, angosce e desideri e ora si sa che funziona anche di notte riempendo i nostri sogni di questi sentimenti. La scoperta, destinata ad aprire nuovi orizzonti nella stessa cura delle patologie neuro-psichiatriche, è firmata da un gruppo di neurologi dell´Istituto scientifico per la riabilitazione neuromotoria "Santa Lucia", dai dipartimenti di Psicologia della Sapienza, delle università dell´Aquila e di Bologna, ed è stata pubblicata sulla rivista Human Brain Mapping.
Sotto osservazione sono finite due aree profonde del cervello, l´amigdala e l´ippocampo, raggruppamenti di neuroni che presiedono alla regolazione delle emozioni (la prima) e alla formazione della memoria (il secondo) durante la vita diurna. Adesso si sa che sono responsabili notturne anche del grado di intensità emotiva dei sogni e delle loro bizzarrie. Due burattinai, insomma, tirano i fili di pupi e cose che si agitano nei nostri palcoscenici notturni.
Nelle due aree del sistema limbico del cervello è racchiuso il segreto dei comportamenti primitivi dell´uomo, dalla fuga di fronte a un pericolo alle emozioni più intense, ai ricordi. Ed è l´anatomia dell´amigdala e dell´ippocampo, la loro conformazione, a determinare la stranezza dei nostri film notturni. «La dimostrazione - spiega Gianfranco Spalletta, team leader dei neuropsichiatri della fondazione Santa Lucia - è arrivata dopo due anni di ricerche su 34 persone di età compresa tra i 20 e i 70 anni». «Abbiamo messo a punto una procedura di risonanza magnetica - continua - per misurare il volume e la densità dell´amigdala e dell´ippocampo, scoprendo che più destrutturata è la prima, più bassa è l´intensità di emozioni dei sogni». Scene oniriche prive di suspense, insomma. Le emozioni, invece, diventano più bizzarre nel sogno se l´amigdala è più piccola: a volte sono tanto strane da rasentare l´ilarità. «Anche la conformazione dell´ippocampo», ancora Spalletta, «è all´origine della bizzarrie di un sogno: più voluminoso è il primo, maggiori, nei nostri ricordi si presentano le seconde». «Sigmund Freud», per Spalletta, «ha colto l´importanza dell´analisi di bizzarrie ed emozioni dei sogni per la cura delle patologie psichiatriche». Voleva "catturare" gli aspetti neurologico-anatomici dei sogni per conoscere l´origine delle malattie della mente. «Un obiettivo mancato», commenta Spalletta, «perché allora non esistevano le tecnologie di imaging, oggi a nostra disposizione: la risonanza magnetica, con tecniche di neuro-immagine non convenzionali, ci ha permesso di chiarire i meccanismi neuro-anatomici che presiedono all´attività onirica dando una base biologica alle tesi del padre della Psicanalisi».
Anche se mezzi e tecniche per un monitoraggio dei parametri fisiologici valgono per il sonno più che per il sogno. L´elettroencefalogramma, le metodiche di neuro-imaging non possono essere applicate al sogno che per essere studiato richiede di essere interrotto: «Solo allora si può accedere ai ricordi», spiega Michele Ferrara dell´Università dell´Aquila. «Noi abbiamo saltato a piè pari questo aspetto - continua Ferrara - provando a immaginare che alla base delle differenze tra chi ricorda molti sogni e chi pochi, chi fa sogni vivaci e chi banali e, all´estremo, chi non ricorda affatto i sogni, non ci fossero solo aspetti della fisiologia del sonno ma anche quelli dell´anatomia del sistema nervoso». Si è accertato così che alla base delle differenze tra persone, tra qualità e quantità dei sogni, ci sono anche caratteristiche anatomiche diverse.

Repubblica 21.10.10
Luigi De Gennaro, direttore del Laboratorio del sonno della Sapienza
"Al risveglio restano o sfumano adesso potremo capire il perché"
di ca. pic.


«Sul sogno pesa l´eredità della nostra anatomia cerebrale, non solo la ragione psicologica, già individuata da Freud nella soddisfazione di desideri rimasti inappagati nella vita diurna». Parola dello psicologo Luigi De Gennaro, direttore del Laboratorio del sonno della Sapienza.
Quali saranno gli sviluppi della vostra ricerca?
«Tenteremo di chiarire perché a volte ricordiamo i sogni, a volte no, perché c´è chi li ricorda e chi no: i nostri dati ci dicono che l´attività elettrica della corteccia cerebrale, durante il sonno che precede il risveglio, permette di anticipare se ricorderemo o meno. E per un individuo sveglio, la predizione è la stessa. La memoria e l´oblio, insomma, sembrano essere controllati nella veglia e nel sonno da meccanismi analoghi».
Quali effetti avrà la ricerca sulla cura dei disturbi psichiatrici?
«Paradossalmente, in questa fase accadrà che saranno le patologie psichiatriche e neurologiche a fornirci elementi per capire i meccanismi normali del sogno. Stiamo studiando i sogni dei pazienti affetti dal morbo di Parkinson per dimostrare che esiste un rapporto tra un neurotrasmettitore, la dopamina, deficitario in questi malati, e la riduzione, se non proprio l´assenza di sogni. Quando si somministrano farmaci che accrescono la dopamina, ipotizziamo che si arricchisca quali-quantitativamente l´esperienza onirica».

Repubblica 21.10.10
Gustavo Charmet. Crescono i bulli in famiglia, oggi intorno al 10% "Serve un Telefono Azzurro anche per i parenti"
Quando i ragazzi picchiano i genitori
di Luciana Sica


La vittima preferita è la madre, ma il fenomeno riguarda i padri, i fratelli e anche i nonni
I dati disponibili sono solo la punta dell´iceberg: molti tendono a tenerlo nascosto

«Vivo nella paura di mia figlia. La prima volta, Giorgia aveva 17 anni. Io sapevo che fumava erba, ma un giorno scopro che ha preso un acido. "Basta", le urlo. "Basta con quel tuo ragazzo: è un balordo, lo capisci? Ti sta rovinando, non devi più vederlo!"». Mi giro, e lei mi tira un cazzotto in mezzo alla schiena. Io barcollo, cado, mi manca il respiro...». La mamma di Giorgia ha una figlia che sembra odiarla, che la insulta, la minaccia, e a volte la picchia. È una donna poco più che quarantenne, vive nei pressi di Roma con un marito affettuoso e un figlio più piccolo: si direbbe una famiglia come tante, di piccola borghesia. E invece è una famiglia devastata dall´infelicità, la rabbia, la delusione: sentimenti che prevalgono sull´amore, in questi casi estremi.
Sì, ma quanto estremi? Dice lo psichiatra Gustavo Charmet, il cantore dei "nuovi adolescenti": «Sempre più spesso incontro madri che con vergogna ammettono di essere saltuariamente picchiate dalle figlie. Mi sorprende, ma non tantissimo, perché mi sono abituato all´idea che alle pari opportunità corrispondano uguali rischi». Ragazze che si emancipano picchiando... «E poi la madre non è più la guardiana della verginità, la riduzione del conflitto appanna il suo potere sacro».
I bulli in famiglia: un fenomeno minoritario, ma in crescita. Sono ex bambini impotenti e ora onnipotenti che ingaggiano una loro guerra crudele in casa - una nuova versione dell´inferno domestico pochissimo quantificabile, perché raramente i genitori denunciano i loro figli. Ne sa qualcosa Francisco Mele, terapeuta di formazione lacaniana che - oltre all´attività privata - è in trincea con i ragazzi più in difficoltà, dirigendo l´"Istituto della famiglia" legato al nome di don Picchi. Il suo ultimo libro uscito da Armando (con un saggio di Luigi M. Lombardi Satriani) si chiama Mio caro nemico, un titolo anche spiritoso per il supplizio della "guerra quotidiana in famiglia".
Mele non teme l´allarmismo: «La situazione è molto grave. Credo che ormai siano intorno al 10 per cento i ragazzi pronti al "ceffone di ritorno". La vittima preferita è la madre, anche per l´eclissi non solo simbolica della figura paterna. Ma non vengono risparmiati gli stessi padri, i fratelli e addirittura i nonni... Tanto che ormai sarebbe necessario un Telefono Azzurro per familiari maltrattati dagli adolescenti, un call center che almeno li informi su quello che possono fare per difendersi».
Ma quali saranno i genitori che favoriscono l´aggressività dei figli? Si può azzardare un elenco: i genitori libertari che non vietano mai; quelli che non si assumono responsabilità e invertono i ruoli; quelli conflittuali che spingono l´adolescente nel ruolo del "giustiziere"; quelli violenti che insegnano a regolare i conflitti in modi brutali. E poi i genitori "incestuosi", picchiati perché nell´adolescenza il legame si rompe e il figlio non trova altri modi per uscirne.
Il dato sui bulli in famiglia che indica Mele sarà sovrastimato, ma ci sono altri indicatori eloquenti. Isabella Mastropasqua dirige l´ufficio studi del Dipartimento di giustizia minorile presso il ministero, ed è lei a dire: «A tutt´oggi le uniche statistiche disponibili, che si basano sull´elaborazione dei dati Istat, fotografano una realtà di piccoli numeri, ma allarmanti (riportati in alto, n.d.r.). Sono solo la punta dell´iceberg di un fenomeno senz´altro più diffuso, vissuto in gran segreto. Il prossimo anno, con la modernizzazione del nostro sistema informativo, potremo dire chi sono esattamente le vittime di questi reati».
In attesa che il dato venga "scorporato", le relazioni in famiglia sembrano precipitare a un punto molto basso. Per il terapeuta della famiglia Luigi Cancrini è credibile che i ragazzi "maneschi" siano tra il 5 e il 10 per cento: «Principini molto sedotti e manipolati nell´infanzia, sono rimasti invischiati in un rapporto di terribile dipendenza che non riescono a spezzare. Nella medio-alta borghesia, diventa poi sempre più esplosiva la negligenza affettiva coniugata al consumismo». E Luigi Onnis, studioso e clinico di prim´ordine, conferma: «Almeno il 5 per cento degli adolescenti va oltre l´aggressività verbale, che è invece all´ordine del giorno. Sono ragazzi che non hanno una guida». Genitori sempre meno competenti a definire delle regole, e figli che li maltrattano anche fisicamente - come in una deformazione grottesca del cinema di Van Sant su un´età che rasenta la psicosi.

Repubblica 21.10.10
Gruppo Espresso, balzo degli utili Repubblica prima in edicola e sul web
Ricavi stabili a 639,5 milioni mentre i profitti netti sono saliti a 36,3 milioni


MILANO - Crescono i margini e l´utile netto, tiene il fatturato mentre sale la raccolta pubblicitaria. I primi nove mesi dell´anno si sono rivelati positivi per il Gruppo Editoriale L´Espresso, così come evidenzia la terza trimestrale dell´anno approvata ieri dal cda presieduto da Carlo De Benedetti.
I ricavi netti sono pari a 639,5 milioni, in linea con il corrispondente periodo del 2009 (640,9 milioni). Al netto dei prodotti opzionali, i ricavi sono in crescita del 4%. «Tutte le principali testate del gruppo - si legge in una nota - stanno mostrando andamenti significativamente migliori di quelli dei rispettivi mercati di riferimento». Il quotidiano La Repubblica «si conferma come primo quotidiano italiano sia per copie vendute in edicola sia per numero di lettori». Le copie in edicola sono stabili rispetto al 2009 (+0,1%), contro un mercato di quotidiani che ha perso il 4,5%. I lettori medi giornalieri sono saliti a 3,3 milioni (+1,9%), portando il vantaggio sul secondo quotidiano al 20%. Il settimanale L´espresso cresce per diffusione (+1,3%) e mantiene 2,5 milioni di lettori medi settimanali.
I ricavi pubblicitari del gruppo sono saliti del 7,1% a 369,3 milioni. Risultato ancor più positivo se si tiene conto del contesto difficile, in cui gli investimenti pubblicitari in Italia sono saliti ad agosto del 4,8%, ancora ben lontani dall´avere recuperato il calo del 2009 (-16,4%). All´interno del gruppo, internet è stato il settore che è cresciuto pubblicitariamente di più (+21,7%), anche grazie al successo di Repubblica.it che si conferma il primo sito di informazione in Italia con un numero di utenti medi unici giornalieri pari a 1,5 milioni (+25%). Positivo il contributo delle radio del gruppo (+13,6%). La raccolta sulla carta stampata, pur in leggera flessione (-1,8%) presenta un dato migliore del settore (-3,8%).
Il margine operativo lordo è stato pari a 104 milioni (erano 60,7 nei primi nove mesi del 2009). «Tutte le principali attività del gruppo registrano un netto miglioramento della redditività da attribuirsi: per i quotidiani alla drastica riduzione dei costi conseguentemente ai piani di riorganizzazione e per radio e internet al significativo incremento dei ricavi».
Il risultato netto è salito a 36,3 milioni, contro l´utile di 1,2 milioni dello stesso periodo del 2009. L´indebitamento al 30 settembre è sceso a 136 milioni, dai 208,2 milioni di fine 2009. L´organico, in conseguenza dei piani di riorganizzazione, ammonta a 2.828 dipendenti, con una riduzione di 288 unità rispetto all´inizio dell´esercizio e di 584 nel corso degli ultimi due anni.