domenica 24 ottobre 2010

il Fatto 24.10.10
A destra della destra
In tutti le Nazioni europee si assiste impotenti a un attacco contro i governi centrali, il problema è l’immigrazione, le culture diverse sono sorvegliate alla stregua di un potenziale pericolo
di Furio Colombo


Propongo una domanda che mi sembra importante: il multiculturalismo (ovvero la convivenza politica della mia e della tua cultura, della mia e della tua radice) è fallito perché il mondo occidentale e democratico si sta spostando a destra, oppure il mondo si sta spostando a destra e dunque deve dichiarare fallito il multiculturalismo perché ogni destra tollera male le diversità? Prendo lo spunto da una frase di Angela Merkel (“Il multiculturalismo è fallito”), che Angelo Panebianco usa in apertura del suo editoriale “Musulmani d'Europa” (Corriere della Sera, 21 ottobre) e che apre un inventario del presente. Punta sulle difficoltà (il dramma è vero, la xenofobia dilaga in Europa) e si conclude con un augurio (la parola “speranza”) e la quasi certezza che (però, invece) bisognerà ascoltare Angela Merkel. Il fatto è che Angela Merkel un premier senza maggioranza e sempre nel turbine del clima elettorale è una candidata che sta seguendo il corteo della paura, invece di battersi in nome di una visione del futuro. Ma restiamo all'argomentazione di Panebianco. È una argomentazione cauta, ma ruota intorno alla frase: “Il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia”. Per chiarezza ripete: “Il multiculturalismo non è politica adatta per le democrazie europee”. Occorrerebbe approfondire il senso della frase. Vuol dire che qualcosa di specifico (difetto, carattere storico?) nelle democrazie europee rende impossibile ciò che è possibile negli Stati Uniti e in India, due mix formidabili di tante culture; ma non nel più sfortunato Pakistan, un mondo tutto islamico, omogeneo ed identitario eppure dilaniato dalle stragi?
CREDO CHE si metterebbero in imbarazzo sia Angela Merkel che Angelo Panebianco con la seguente domanda: vi sono più rivolte e tensioni sociali, scontri e conflitti, dove il multiculturalismo è la regola o dove c'è, del multiculturalismo, poca o nessuna traccia? Consideriamo l'Europa monoculturale dal 1945 in avanti (e dunque fingiamo per un momento di non sapere che cosa è accaduto in questa stessa Europa monoculturale negli ultimi due secoli). I conflitti che hanno o potevano dilaniare Stati democratici sono avvenuti dentro l'Irlanda (protestanti e cattolici, unionisti e indipendentisti) dentro la Spagna (la questione basca e l'Eta), nel Sud Tirolo-Alto Adige. Quest'ultima è la sola regione che ha scampato lo scontro e la strage, grazie a una soluzione multietnica e multiculturale dovuta ad Alcide De Gasperi, che fino ad ora ha tenuto. Qualcuno ricorderà la forte ostilità con cui – per un lungo periodo – la destra italiana (allora incarnata dal Msi e poi da An) ha espresso rifiuto e disprezzo per la soluzione multiculturale altoatesina. Ma questo ci ricorda un problema della destra, non del multiculturalismo. Non ricordo che il sanguinoso e protratto conflitto dentro l'Irlanda tra irlandesi e irlandesi e tra irlandesi e inglesi, sia mai stato discusso come incompatibilità di culture non riconducibile a un condiviso dibattito democratico. Non ricordo che vi siano state interpretazioni del conflitto basco altro che come indipendentismo e nazionalismo. Sono tutte situazioni in cui la comune eredità storica e culturale non ha impedito né l'attentato né l'assassinio mirato né la strage. Non impedisce neppure l'equivoco. La strage di Madrid (11 marzo 2004) è stata creduta per molte ore come un delitto del nazionalismo basco, tardando di quasi un giorno ad identificare la matrice islamica internazionale. Ma veniamo a fatti dei nostri giorni che segnalano fratture profonde fra cittadini (cittadini della stessa cultura e radice storica) e Stato. Inevitabile ricordare la lunga rivolta dei giovani greci, iniziata il giorno dell'uccisione – da parte della polizia di quel paese – di uno studente di 15 anni, rivolta tutt'altro che finita; l’accanita e violenta opposizione di massa dei cittadini francesi contro il loro presidente e la nuova legge sulle pensioni, una rivolta che dura e si allarga mentre scriviamo; la guerriglia urbana dei cittadini italiani della Campania contro soluzioni non condivise, imposte dal governo di Roma sentito come estraneo (al punto da bruciare la bandiera italiana), le marce dei pastori sardi, visti come alieni, ma decisi a far valere il loro diritto (il prezzo del latte quasi a zero) contro l'indifferenza dello Stato; tutto ciò preceduto, negli anni, da violentissime dimostrazioni di allevatori veneti, che hanno rovesciato tonnellate di letame sulle loro città e le loro autorità viste come nemiche. L'unica eccezione italiana a questa serie di rivolte monoculturali è, in apparenza, la rivolta nera di Rosarno (gennaio e agosto 2010) ma è stata una rivolta di bianchi contro neri, non il contrario. E infatti si tratta di una brutta storia xenofoba prontamente dimenticata.
ECCO DUNQUE il paradosso con cui ci confrontiamo. Parti monoculturali di importanti paesi europei sono in rivolta anche violenta contro lo Stato, in cerca di soluzioni impossibili e decise a non arrendersi. Culture diverse, insediate con l'immigrazione negli stessi paesi, decine di migliaia di donne o uomini che convivono e lavorano, ma che vengono sorvegliati come potenziale pericolo individuale e di massa (“gli immigrati il più delle volte delinquono” hanno detto insieme il capo del governo Berlusconi e il sindaco di Milano Moratti) sono visti da una parte degli intellettuali e commentatori italiani come rischio probabile e imminente di frantumazione del Paese, un pericolo dovuto al fatto che il multiculturalismo (ovvero la vita quotidiana in India o negli Stati Uniti) sarebbe – come dice Panebianco – “incompatibile con la democrazia”. Quando un partito di destra e xenofobo è al governo come in Italia (solo in Italia), molte risorse e forze militari e di polizia vengono dirottate a presidiare il pericolo immaginato, mentre i buoni cittadini con la stessa origine e la stessa cultura si scontrano, si attaccano, danneggiano, distruggono, resistono e – in certi casi – spietatamente uccidono, dall'Eta basca alla 'ndrangheta calabrese. Non esistono prove al mondo che il multiculturalismo porti lo stesso pericolo o lo abbia mai portato all'interno di uno Stato libero. Ci si interroga sul fondamentalismo islamico. Giusta domanda, giusta preoccupazione. A patto di estenderla agli altri fondamentalismi religiosi. Il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti è responsabile di attentati e di stragi con centinaia di morti negli ultimi 20 anni di vita americana. Ricordate la Chiesa Armata di Waco, in Texas, comandata dal “pastore” David Koresh, fatta esplodere il 29 aprile 1993 (più di 100 morti, la metà bambini) e la strage di Oklahoma City, 29 aprile 1995 (168 morti, un terzo bambini del locale asilo nido) attribuita a un gruppo dettoChristianIdentity,esecutoreil soldato McVeigh, parte di quell'organizzazione tuttora clandestina in America? I fondamentalismi religiosi, dall'Europa al Medio Oriente agli Stati Uniti, sono la grande minaccia, non i migranti che attraversano il mondo in cerca di rispetto e di lavoro. La cecità persecutoria delle destre e dei partiti xenofobi come la Lega Nord italiana, comincia qui. Quanto alle sinistre, occorrerebbe sentirne la voce.

l’Unità 24.10.10
Adolf Hitler e la colpa di un popolo
A Berlino Polemiche e dibattiti in Germania per la prima mostra sul Führer che mette al centro la fenomenologia del vastissimo consenso popolare del Terzo Reich. Tra busti in ghisa prodotti in serie e foto private del dittatore
di Gerardo Ugolini


A 65 anni dalla fine della guerra e dalla sua morte Adolf Hitler rimane per i tedeschi il fantasma maledetto, l’uomo nero, l’incarnazione del male assoluto con cui è ancora difficile fare i conti da una posizione di sereno distacco temporale. Ogni qualvolta viene pubblicata una nuova biografia o esce un film sul personaggio si scatena la bagarre di accuse e polemiche. L’ultima che tutti ben ricordano fu quella che accompagnò nel 2004 il film La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschgiebel, con Bruno Ganz nella parte del Führer. Ora è la volta di una grande mostra storico-documentaria, la prima interamente dedicata al personaggio, che è stata inaugurata il 14 ottobre nella sede del Deutsches Historisches Museum, il Museo di storia tedesca di Berlino. Si intitola Hitler e i tedeschi. Comunità nazionale e crimine. Per quanto incredibile possa sembrare, si tratta della prima mostra, dalla caduta del nazismo ad oggi, che la Germania abbia allestito sul grande dittatore. Precedenti tentativi erano falliti, come quello intrapreso sei anni fa dallo stesso Museo di storia tedesca, che all’ultimo decise di rinunciare per evitare l’accusa di voler in qualche modo eroicizzare il Führer, o addirittura di attirare tra i visitatori frotte di nostalgici del regime nazista.
E per la verità anche per questa occasione non tutto è filato liscio. Gli organizzatori hanno infatti ammesso di essersi in parte autocensurati rinunciando ad esporre – in mezzo ai molti reperti, tra cui documenti, fotografie, manifesti di propaganda, libri e busti del dittatore – oggetti che potessero attrarre l’interesse nostalgico o addirittura feticistico di qualche neonazista. Perciò non sono esibite, per esempio, le uniforme militari del Führer, portate via dai russi nella primavera del 1945 e conservate a Mosca. Il curatore dell’esposizione, Hans-Ulrich Thamer, in un’intervista al settimanale Der Spiegel ha inoltre spiegato di aver rifiutato di esporre il grande ritratto di Hitler, dipinto nel 1939 e sequestrato in uno dei palazzi del tiranno dall’esercito americano, proprio per la suggestione che poteva esercitare sui neonazisti.
Queste limitazioni tolgono tuttavia ben poco al significato storico e politico della mostra che riesce a centrare l’obiettivo prefissato: inquadrare il Führer nell’ambito sociale, politico e militare in cui si trovò ad agire per provare a spiegare la sua rapida e irresistibile ascesa e per far luce sul mistero di quella malefica fascinazione che esercitò fino all’ultimo sul popolo tedesco nonostante la guerra e tutte le atrocità compiute. Tra gli oggetti dislocati negli spazi della mostra colpiscono i busti in ghisa del dittatore che venivano prodotti a milioni per decorare i tinelli delle famiglie del Reich devote al culto del leader supremo. Per capire fino a che punto la propaganda di regime avesse fatto breccia anche nei sentimenti religiosi della gente bisogna osservare un arazzo con la scritta «Portiamo in chiesa la croce uncinata!»: fu tessuto dall’Associazione delle donne evangeliche di Rotenburg an der Fulda e vi sono raffigurati dei ragazzi della Hitlerjugend, la «Gioventù hitleriana», che marciano insieme alle SA in una disposizione a forma di croce, mentre in un angolo è riportato il testo del Padrenostro. Gli organizzatori insistono molto sull’aspetto messianico che ha caratterizzato la parabola del dittatore nazista, ovvero la sua capacità di farsi identificare come un redentore da seguire ciecamente sempre e comunque. Ma per spiegare il rapporto tra il Führer e le masse non basta riferirsi al suo speciale carisma. Contano soprattutto i meccanismi di adesione, di mobilitazione e anche di esclusione, abilmente costruiti e regolati dal regime.
Tra i materiali iconici spicca una serie di istantanee scattate da Heinrich Hoffmann, il fotografo di fiducia del Führer, l’unico capace di ritrarlo da vicino nelle faccende della vita di tutti i giorni. Alcuni reperti sono curiosamente esposti in maniera sghemba, sospesi di traverso invece che poggiati in terra, come per esempio un dipinto che esalta spirito guerriero della comunità nazionale tedesca. L’intento è di sottolineare visivamente l’aberrazione dell’ideologia nazionalsocialista.

l’Unità 24.10.10
Quelle nostalgie nere che toccano il ceto medio


Per una strana ma sintomatica coincidenza la mostra berlinese su Adolf Hitel è stata inaugurata proprio nei giorni in cui è uscito uno sconvolgente studio della Friedrich-Ebert-Stiftung, la fondazione culturale vicina all’Spd, da cui risulta che un tedesco su dieci sogna un nuovo Führer che guidi la Germania «con il pugno di ferro». La nostalgia del Terzo Reich e il fanatismo di destra vanno contagiando anche il ceto medio e si spiegano in larga parte come conseguenze delle diffuse tendenze xenofobe. Infatti, il 35,6% dei tedeschi – sempre secondo l’analisi della Fondazione Ebert – chiede l’espulsione degli extracomunitari, arrivati in Germania solo «per sfruttare lo Stato sociale», e concorda sul fatto che «la presenza di troppi stranieri ha stravolto in maniera pericolosa la Bundesrepublik». Tra i dati dell’inchiesta che destano maggiore preoccupazione c’è quello relativo al rifiuto dell’Islam (il 58% dei tedeschi vorrebbe vietare ai musulmani l’esercizio delle pratiche religiose) e lo scarso apprezzamento del sistema democratico, il cui funzionamento è giudicato soddisfacente solo dal 46%.

il Fatto 24.10.10
Il divorzio compie quarant’anni
Patrimonio e matrimonio
di Silvia Truzzi


Il divorzio compie quarant’anni: battaglia vinta e conquista civile. Non si può dire che l’istituto sia inutile. Secondo l’Istat, dal 1995 la crescita è stata costante: se nel 1995 si verificavano 158 separazioni e 80 divorzi ogni mille matrimoni, nel 2008 si è arrivati a 286 separazioni e 179 divorzi, con un incremento del 3,4 e del 7,3% rispetto all'anno precedente. Naturalmente, siccome siamo italiani, il nostro è il Paese con i tempi più lunghi nelle procedure di primo grado, ci siamo beccati, per questo, anche un rimprovero dalla Commissione europea per l'efficienza della giustizia, che ci ha invitato a introdurre procedure semplificate, meno costose e più brevi. Quanto alle cause le statistiche indicano, ma va?, il tradimento scoperto come la principale. Ma i numeri non raccontano nulla del dolore e del disagio che stravolge – dentro e fuori – la vita. Che è fatta anche di luoghi, odori, abitudini e reti sociali. C’è la perdita – più o meno improvvisa, più o meno subìta – di un compagno, che non solo è meta d’amore e desiderio, ma è anche custode delle proprie solitudini. L’immagine di Margherita Buy ne “I giorni dell’abbandono”, sdraiata sul pavimento di casa con gli occhi trasparenti, racconta più di mille parole. Matrimonio fa rima (anche) con patrimonio e si è aggiunta, in questi anni di contrazione economica, anche una difficoltà pratica: soldi che, divisi, non bastano. Quando le donne non lavoravano, spesso era il portafoglio a tenerle legate al marito più che il cuore. Ma le donne hanno conquistato autonomia economica e quindi indipendenza sentimentale: due declinazioni di un unico concetto, la dignità. Nelle storie dei divorzi ci sono figli, liti, ricatti, bugie, rancori che non si stemperano. Oggi c’è anche la sempre maggiore difficoltà dei genitori a sostentarsi. Si parla molto di tutela della moglie, che spesso è anche madre: la legge si cura di questa specificità. Anche se sono quotidiani gli esposti ai tribunali a causa di mariti che non pagano gli alimenti, talvolta anche occultando con viltà il proprio denaro. C’è però anche una difficoltà maschile, che cresce sempre più: sono i padri che non sanno dove abitare, perché non si possono permettere un affitto. E finiscono nei dormitori, come ieri raccontava il “Corriere” con un articolo su un centro della periferia di Milano che ospita 53 padri separati, senza una lira e con la rabbia di non poter portare i loro figli in una casa che non hanno più. A Bolzano la Provincia ci ha pensato un paio d’anni fa, creando veri e propri appartamenti per padri separati in difficoltà. Già nel 2004 era stato aperto dal Centro assistenza separati e divorziati un rifugio: cinque stanze con bagno. Al di là di un necessario intervento delle amministrazioni qualcosa si può fare, singolarmente (salvo il principio di eccezione: ogni caso, ogni matrimonio, ogni amore fanno storia a sé). Ex – mogli e mariti – sono pur sempre persone che hanno fatto insieme un pezzo di strada. Ed è vero che ci sono umiliazioni e torti che non si possono perdonare. Però la vendetta non restituisce la felicità, portando spesso lontanissimo dalla civiltà: valore da cui non si dovrebbe prescindere, principalmente per se stessi. E poi se ci sono i divorzi, vuol dire che qualcuno ancora al “finché morte non ci separi” ci crede: dopotutto è una promessa di felicità. Almeno per un po’.

l’Unità 24.10.10
Carcere come rimozione sociale
di Andrea Boraschi


Se interrogassimo un campione rappresentativo della popolazione generale su temi quali lavoro, welfare, caro vita, economia, ambiente (e su altri ancora) otterremmo una serie di indicazioni più o meno articolate, ma certamente non univoche, su quali siano i problemi correnti e le relative possibili soluzioni. Ho la netta impressione (confortata da studi recenti) che esistono, invece, almeno un paio di questioni sociali, nel nostro paese, nei confronti delle quali l’opinione pubblica è schierata in maniera più marcata e unilaterale. Una di esse è l’immigrazione; l’altra, significativamente, è la “questione sicurezza”. Non si tralasci di intendere quanto le due siano strettamente (e cupamente) connesse tra loro; e come la seconda preveda, ancor più della prima, nel sentire collettivo, un orizzonte limitatissimo di “soluzioni”. Meglio ancora: se si può pensare al contrasto alla criminalità come a un concorrere di più fattori, si pensa invece alla repressione della criminalità riferendosi a un solo strumento: il carcere. Il problema è che, per quanto questo orientamento sia diffuso, in pochi, pochissimi sanno davvero cosa sono e come funzionano gli istituti di pena nel nostro paese.
L’associazione Antigone pubblica annualmente un meritorio rapporto sullo stato dell’esecuzione della pena in Italia. Una lettura che potrebbe rivelarsi istruttiva per molti tra quanti vedono nella “gattabuia” la panacea di ogni allarme sociale. Alcuni dati sono consolidati e cominciano a essere noti persino ai più sordi. Parliamo dei livelli di affollamento (un’edilizia penale che potrebbe al più ospitare 44mila unità e che invece ne conta 68mila); dei tassi di suicidio (maggiorati fino a 20 volte rispetto a quelli che si registrano nella popolazione libera); del fatto che circa 15mila persone sono recluse senza aver neppure affrontato il primo grado di giudizio. Potremmo poi discutere di molti altri indicatori che evidenziano come il carcere, sopra ogni altra cosa, sia una soluzione inefficace, un gigantesco, farraginoso e costosissimo strumento di riproduzione di delinquenza e marginalità. Ma alcuni tra questi indicatori, forse meno eclatanti, ci suggeriscono qualcosa di aggiuntivo: il nostro è il paese con più tossicodipendenti reclusi in Europa, con oltre 25mila stranieri detenuti, spesso solo in virtù del reato d’immigrazione clandestina; e, ancora, con tassi di analfabetismo e scarsa scolarizzazione, tra la popolazione carceraria, altissimi. Non potrebbe darsi, dunque, che il carcere sia divenuto, da strumento di sanzione della criminalità, strumento di rimozione del disagio sociale? Non somiglia forse a una scalcinata quanto feroce macchina di occultamento dell’iniquità e della disparità? Vi si detengono i delinquenti o i più deboli?

il Fatto 24.10.10
Fioroni e Gelmini, scambio d’amorosi sensi
di Marina Boscaino


Bon ton istituzionale e imbarazzante concordia nell’inedito dialogo sul Corriere tra Gelmini (il ministro più contestato del Berlusconi IV) e il predecessore, Fioroni (oggi coordinatore del Forum del Pd sul Welfare).

TRA UN COMPLIMENTO e l'altro, la scuola crolla a picco. E non si può non riconoscere ai due pacati dialoganti l’apporto personale alla débâcle. In Italia spesso chi rompe non paga. Fioroni è stato il ministro del centrosinistra che ha favorito nella maniera più esplicita le scuole paritarie (la legge per integrarle a pieno titolo nel sistema scolastico nazionale fu il tributo del centrosinistra – eravamo nel 2000 – alla collaborazione degli allora Popolari); che ha bloccato definitivamente il percorso dell'obbligo scolastico a 16 anni, come negli altri 26 paesi Ue; che – mediante il suo proverbiale “cacciavite” – ha svitato alcuni ingranaggi della riforma Moratti, subito riavvitati da Gelmini e soci, quando, nel 2008, cadde Prodi. Il Fioroni-pensiero è facile da riassumere: tiepida concordia con chi sta massacrando la scuola pubblica. Termini meno diretti, stessa sostanza. Parlando di precariato “la scuola non può essere una fabbrica di illusioni” (a 1.500 euro al mese, nel discredito socio-politico-culturale. E poi, lui dov'era, mentre si edificava la fabbrica?). Più signorilità e meno fantasia rispetto alla collega (dalle felici espressioni: “Scuola ammortizzatore sociale”; “la scuola non è un ufficio di collocamento”). Consueti buoni propositi, trovate anche originali: “Investire risorse per la formazione e l'aggiornamento (...); reperire risorse adeguate per premiare il merito; individuare un metodo per evidenziarlo, fondato su riscontri oggettivi e sulla reputazione [riconosciuto parametro scientifico, ndr]”. Una scuola “in grado di presentare il proprio bilancio sociale alla comunità e che mostri ai genitori la propria valutazione complessiva in termini di acquisizione, di conoscenze, competenze, di specificità di settore e di indirizzo”. Il mio liceo (più di 500 alunni, 38 docenti e 13 Ata) quest'anno avrà 54.000 euro per fare qualsiasi cosa. Di cosa parla Fioroni? Risponde subito giuliva e concorde Gelmini: ringrazia per l'assist inatteso e trova in quelle parole conforto alla sua strategia di affondamento e riduzione al pensiero unico della scuola pubblica. “Dalla lettera di Fioroni, ma anche da parte del sindacato, segnali incoraggianti per considerare chiusa una fase storica”.
QUANDO Gelmini usa questo aggettivo bisogna tremare. Prepariamoci. Soprattutto chiediamoci perché il Pd, incapace di produrre una visione originale, ripropone strade che altri sanno percorrere con maggiore convinzione. Gli elementi imprescindibili non sono più i valori di sinistra – inclusione, cultura, emancipazione, Costituzione – che pure vengono utilizzati strumentalmente con certe platee. Ma valutazione e merito, nella imperdonabile dimenticanza che non basta pronunciare quelle parole né preparare soluzioni improvvisate per dotare la nostra scuola di un sistema di valutazione (sul quale alcuni paesi europei lavorano e studiano dagli anni '80) equo ed efficace. L'ottuso arroccamento su posizioni “moderne” e “alla moda”, su concezioni neoliberiste, ha già prodotto vasti danni. Aver di fatto emarginato quella parte di scuola democratica che ancora studia ed elabora su educazione, cultura e saperi, tenendo per saldi principi e valori teoricamente condivisi, non potrà premiare chi vi ricorre solo in fase emergenziale, contando su voti dati per inerzia o per esclusione. Siamo “vetero”? Abbiate il coraggio di dircelo, non ci offendiamo. Sarà per molti, davanti a tanti maldestri riposizionamenti, un vero onore.

l’Unità 24.10.10
Bavaglio ai presidi: vietato criticare pubblicamente la riforma Gelmini
di Felice Diotallevi


Stretta del ministero dell’Istruzione: chi critica pubblicamente la riforma Gelmini sarà punito con la sospensione, senza stipendio fino a sei mesi. È l’applicazione del Codice Brunetta. Bavaglio ai 10mila presidi.

Vietato criticare in pubblico la riforma Gelmini, stiano attenti i circa 10mila presidi in giro per l’Italia: i dirigenti scolastici che oseranno dire la loro verranno puniti con la sospensione e la perdita fino a sei mesi di stipendio. Multe da 150 a 350 euro per chi ha un «alterco» con un genitore, o per i presidi che circolano senza cartellino di riconoscimento o non mettono la targa col nome sulla porta della stanza. Sanzioni, multe e divieti sono messe nero su bianco nel Codice disciplinare per i dirigenti scolastici, attivo da sabato 6 novembre, pubblicato il 21 ottobre sul sito del ministero dell’Istruzione.
LESA MAESTÀ...
Insomma, esprimere pubblicamente, peggio ancora se con un’intervista, il proprio dissenso sui provvedimenti del ministro sarebbe «lesivo dell’immagine della pubblica amministrazione», alla faccia della libertà d’espressione. E per quelle che verranno considerate «manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'amministrazione salvo che siano espressione della libertà di pensiero», i dirigenti scolastici rischiano la «sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di sei mesi». A stabilire se sia libertà d’espressione o ingiuria, l’arbitrio del direttore dell’Ufficio scolastico regionale.
Il pugno di ferro del Miur mette in pratica il Codice Brunetta 150/09 sul «comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni). A mettere il carico da dodici sugli insegnanti ci pensa la collega Mariastella Gelmini, che permetterà anche visite a sorpresa degli ispettori ministeriali, anche senza richieste del direttore regionale. Metodo Guardia di Finanza, praticamente, ma applicato ai comportamenti dei singoli. E la pena che va da un minimo di tre giorni a un massimo di sei mesi (sospensione senza stipendio) verrà applicata anche per «minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico, altri dirigenti o dipendenti, ovvero alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti». Litigare costa caro... Saranno puniti anche gli atteggiamenti di tolleranza dei capi di istituto verso docenti e personale Ata che si siano resi artefici di «irregolarità in servizio, di atti di indisciplina, di contegno scorretto o di abusi di particolare gravità da parte del personale dipendente». Le sanzioni cambieranno caso per caso, ma i dirigenti che chiudono un
occhio rischiano sei mesi di stipendio.
L’avvertimento a presidi e insegnanti era già arrivato a maggio da parte del direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Marcello Limina: attenti a come parlate,è preferibile «astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che possano ledere l’immagine dell’amministrazione pubblica»; vietato rilasciare interviste, meglio «rapportarsi con i loro superiori gerarchici nella gestione delle relazioni con la stampa». Da allora, secondo la Flc Cgil, i presidi si mordono la lingua prima di dire come la pensano. In un caso il preside al quale era stata chiesta un’intervista, avvertito il proprio superiore, si è sentito preventivamente dire: non denigrare la pubblica amministrazione.
Norme e multe sul comportamento sono contenute nel contratto di lavoro dei dirigenti scolastici per il quadriennio 2006/2009, ma firmato nel luglio scorso. Molti presidi, quindi, possono non sapere ancora cosa rischiano se rilasciano interviste. Il temibile codice Brunetta impone che «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini», il dipendente «si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione». Ammessi soltanto spot sorridenti, non si dica che la scuola va a rotoli...

l’Unità 24.10.10
Iraq, 400mila files Wikileaks Via Saddam, resta la tortura
Centinaia di casi di tortura e violenze sui detenuti commesse da militari e agenti iracheni. Il Pentagono sapeva e non è intervenuto. Da Wikileaks 400.000 pagine di verità sulla guerra. L’Onu: «Obama indaghi».
di Marina Mastroluca


«La prima vittima della guerra è la verità». Julian Assange cita un refrain abusato per arrivare al dunque. E il dunque sono i 391.382 file pubblicati venerdì scorso, «la maggiore fuga di notizie militari della storia» di cui Wikileaks rivendica orgogliosamente la paternità per gettare uno sguardo molto ravvicinato su che cosa è stata la guerra e l’occupazione Usa in Iraq. Non sarà tutta la verità come in un’aula di tribunale, ma qualcosa che ci si avvicina parecchio, fotogrammi del dopo Saddam, così crudi da far evaporare qualsiasi tentativo residuo di spacciare il conflitto per una missione libertaria, la democrazia esportata dalle bombe.
I numeri, prima di tutto. Assange non ha difficoltà a chiamare la guerra irachena un «bagno di sangue, sei volte peggiore che in Afghanistan». A spulciare le carte, che Wikileaks ha consegnato a New York Times, Der Spiegel, Guardian, Le Monde e Al Jazira, si arriva alla cifra di 109.000 morti tra il 2004 e il 2009: 66.081 erano civili, 23.894 persono classificate come «nemici», oltre 15.000 membri delle forze di sicurezza irachene e 3771 della coalizione internazionale. Più vittime civili di quanto si credesse: 15.000 per l’esattezza, morti in uno stillicidio di incidenti minori ignorati dalle cronache. Ma la vera notizia è che le forze Usa hanno sempre negato di tenere una conta delle vittime civili, contestando le cifre formulate da organismi indipendenti come l’Iraq body count.
Gli iracheni, appunto. Gli orrori di Abu Ghraib, sbandierati dagli stessi aguzzini con le loro tragiche foto-ricordo, si sono replicati in altre carceri, in altri luoghi, per mano delle forze di sicurezza irachene. Detenuti trattati con elettroshock, scosse elettriche, appesi per i polsi o per le caviglie e frustati, picchiati a morte. In almeno sei casi documentati i prigionieri non sono sopravvissuti, in un caso un militare americano ha segnalato il sospetto che un detenuto fossero state amputate le dita delle mani e poi sciolte nell’acido. Violenze finite nei report delle forze Usa e spesso accompagnate dall’annotazione: «non richieste ulteriori indagini». Il Pentagono ha spiegato che è questa la sua politica: raccogliere dati e comunicare alle autorità competenti. Gli abusi sono stati segnalati alle autorità irachene, le stesse che li avevano commessi. Tutti sapevano, ma chiudevano uno e se possibile tutti e due gli occhi. Lo stesso premier uscente Al Maliki risulta coinvolto in una serie di violenze settarie, contro elementi ex baathisti e sunniti, con squadroni della morte al suo servizio tra il 2006 e il 2009. I documenti di Wikileaks rivelano anche il ruolo dell’Iran nell’addestramento di milizie sciite e «la lotta letale» tra queste e le forze Usa ai tempi di Obama.
CAMPI MINATI
Anche sulle forze d’occupazione Wikileaks racconta episodi non noti. Come l’uccisione di 26 iracheni, almeno la metà dei quali civili, nel luglio 2007, sotto il fuoco di un elicottero Usa o l’uso di civili su aree che si sospettava fossero state minate. Tra le carte anche lo scambio di battute tra un Apache, nome in codice Crazyhorse 18», e un consulente legale Usa in una base militare: due iracheni, che avevano appena sparato con un mortaio, cercavano di arrendersi, l’equipaggio voleva sapere come regolarsi. «Non si possono arrendere ad un mezzo aereo, sono ancora obiettivi validi», fu la risposta. I due vennero uccisi, mentre sembra che il «Crazyhorse» sia lo stesso elicottero che mesi più tardi aprì allegramente il fuoco su due giornalisti Reuters.
Le reazioni alla mega-pubblicazione di Wikileaks vanno in diverse direzioni. Per Manfred Nowak, capo investigatore Onu sulla tortura, l’amministrazione americana ha la responsabilità di indagare, non solo di registrare le atrocità. Il Pentagono per metà ha minimizzato «tutto già noto» e per il resto ha accusato Assange di aver messo a rischio la vita di 300 collaboratori iracheni. Ma è soprattutto Baghdad a reagire. Al Maliki ha parlato di «obiettivi politici» della campagna scatenata da Wikileaks: il principale bersaglio sarebbe proprio lui, abbarbicato alla poltrona, senza riuscire a formare un governo. Dal partito del suo avversario Allawi le critiche più feroci. Troppo potere nelle mani di uno solo e per di più legato all’Iran.

Repubblica 24.10.10
Taleb, la teoria del cigno nero e l´importanza dell´incertezza
"Perché scommetto sulla mia ignoranza
di Marco Cattaneo


A 35 anni fu colpito da un tumore alla gola, tipico dei grandi fumatori ma lui non aveva mai fumato. Insomma: il cigno nero era lui

Nel suo libro Le nostre paure, recentemente pubblicato da Rizzoli, il celebre psichiatra Vittorino Andreoli afferma senza mezzi termini che "il potere è stupido". Parla del potere politico, Andreoli, ma anche di quello economico e finanziario, con l´esperienza e l´intuizione dello psichiatra. Senza contrapporre la stupidità all´intelligenza, ma considerandola un motore indipendente delle vicende umane.
È su una declinazione di questa stupidità che conta Nassim Taleb, uno dei più fortunati investitori degli ultimi anni, per accumulare miliardi di dollari nel suo hedge fund, ed enormi fortune personali. Autore del bestseller Il cigno nero (Il Saggiatore, 2008), Taleb - che il 29 ottobre terrà una delle conferenze organizzate da Telecom al festival della Scienza di Genova - trae profitto dalla stupidità dei mercati. E dalle intuizioni sbagliate dei trader "ordinari".
Cinquantenne, studioso dei processi cognitivi e percettivi legati alla fortuna e alla probabilità, Taleb ha un biglietto da visita singolare nella specialità che insegna all´Università del Massachusetts: scienze dell´incertezza.
La sua ricetta è semplice, e prende spunto da una massima - che cita di continuo - di David Hume: «Non c´è un numero di osservazioni, per quanto alto, che ci permetta di inferire che tutti i cigni sono bianchi, ma l´osservazione di un solo cigno nero basta a dire che non lo sono». Tradotto nel linguaggio della finanza, Taleb scommette su alti e bassi improvvisi e violentissimi dei mercati, che normalmente non sono soggetti a scossoni. Per dirla con lui, scommette sui cigni neri. A Wall Street, dice, tutti puntano su cambiamenti graduali degli indici azionari, correndo rischi su singoli - ma altamente improbabili - rovesci. Così ogni giorno, o giù di lì, si accontentano mediamente di modesti guadagni, ma non tengono in conto la possibilità di subire invece enormi perdite. Perché non succede mai, o quasi. È proprio il comportamento osservato da Daniel Kahneman e Amos Tversky, che ci hanno vinto il Nobel per l´economia nel 2002, con i loro esperimenti sui guadagni e le perdite in denaro: siamo più inclini a scommettere, a correre un rischio, quando si tratta di perdite piuttosto che quando si tratta di guadagni.
Taleb fa il contrario, scommettendo sull´ignoranza. Sulla sua, intende. Nel senso che mentre gli altri credono di conoscere l´andamento dei mercati lui crede di non conoscerlo, e dunque di non sapere quando arriverà - e arriverà - il cigno nero, il tracollo. Perde un po´ tutti i giorni, acquistando di continuo opzioni finanziarie che quasi mai vanno a buon segno. Ma quando sui mercati arriva un terremoto lui guadagna cifre astronomiche, mentre gli altri colano a picco. È stato così con l´11 settembre, ed è stato così con la crisi di questi ultimi anni. Oggi l´hedge fund di Taleb controlla miliardi di dollari, «e ancora non sappiamo nulla», commenta lui.
Nella sua raccolta di saggi pubblicati sul New Yorker, intitolata What the dog saw, Malcolm Gladwell racconta l´epoca in cui Taleb ebbe la sua intuizione. Nel 1995, aveva 35 anni, gli fu diagnosticato un tumore alla gola, una malattia che di solito colpisce soggetti che hanno fumato come turchi per tutta la vita. Ma lui era giovane e non aveva praticamente mai toccato una sigaretta. Era lui, il cigno nero. Ora, dice, il tumore è guarito, ma non la lezione che quell´evento altamente improbabile gli ha impartito e che si applica alla finanza, ma in generale alla vita di tutti i giorni: gli eventi altamente improbabili avvengono, e siccome non possiamo prevederli perché le variabili in gioco sono troppe (compresi due aerei che si schiantano contro il World Trade Center) dobbiamo essere pronti a coglierne i frutti in ogni momento.
Ecco, questo è Nassim Taleb. Non chiedete di lui, a Wall Street, perché gli altri, quelli che vivono della finanza tradizionale, pensano che perdere denaro sistematicamente ogni giorno sia una follia. Salvo poi pentirsi quando Taleb passa all´incasso.

Repubblica 24-10.10
Il ragazzo che conta i clandestini
"I parenti e gli amici dei desaparecidos mi chiamano dalla Libia o dalla Tunisia per avere notizie"
di Enrico Bellavia


Un giorno Gabriele Del Grande comincia a raccogliere le storie di chi cerca invano di raggiungere l´Europa: annegati in mare, dispersi nel deserto, asfissiati nei Tir, assiderati nelle stive degli aerei, torturati in carcere. Presto diventa l´unica fonte attendibile sulle reali cifre del dramma: 15.059 vittime dal 1988, un genocidio

Il ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa mai la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro nel Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell´Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, tra torture e violenze di ogni tipo. Ha sbugiardato così la fredda logica dei respingimenti, raccontando di come si muoia per una barca che si spezza o in cella da innocenti. Ha descritto come sono le prigioni libiche finanziate dall´Italia e a che prezzo siano crollati gli arrivi dal mare. Ha rilanciato gli appelli di chi è finito nel girone infernale delle prigioni tunisine diventando un desaparecido. Ha messo in fila le cifre e ne ha ricavato quella che chiama la «scoperta»: 15.059 vittime dal 1988. Due morti al giorno per ventidue anni. Un genocidio.
È nata da qui, da questo numero, l´idea di abbandonare il lavoro all´agenzia Redattore sociale per mettersi a cercare le facce e le vite dei coetanei ingoiati dal mare e dei padri, delle madri e dei fratelli, rimasti ad aspettare e a sperare l´impossibile. «Avevo i numeri ma non avevo le storie. Non sapevo nulla di quella gente. Volevo capire, andare a fondo, conoscere». I primi contatti con le comunità che vivono in Italia, poi il viaggio alla scoperta del perché, a ondate, quelle persone sfidano il mare su legni sfasciati per arrivare in Paesi che ne hanno un disperato bisogno ma dicono di non volerli. E mascherano con mille sinonimi l´idea di una frontiera sbarrata.
«La prima conclusione è che dietro la retorica della disperazione c´è l´ansia e la voglia di generazioni di africani di mettersi in discussione, di provare a fare meglio, di comprarsi una casa, sposarsi, mandare i figli a studiare. Dietro la retorica della disperazione c´è solo una tensione al riscatto da una condizione frustrante. Poi ci sono gli esuli, i perseguitati, quelli che avrebbero diritto all´asilo che nei loro Paesi conoscono la tortura e qui vengono trattati come criminali». Ecco perché in mezzo alle mille storie di chi è partito, la costante è l´ansia di far presto, di guadagnare tempo e opportunità.
C´è Merouane che lavorava nello studio grafico di famiglia ad Annata, nell´Algeria dove un tempo emigravano gli italiani, e voleva andare in Francia dalla Sardegna e Redouane che il padre incoraggiò a partire perché non finisse i suoi giorni a raggranellare spiccioli in una baracca di Sidi Salem riparando cellulari. C´è chi aveva già pronto un piano per arrivare in aereo con un visto turistico e che una notte, senza dire nulla, ha smesso di attendere che la burocrazia corrotta truccasse le carte e si è messo in viaggio rimanendo da qualche parte in fondo al mare. «Sono ragazzi come me che non se la sentono di trascorrere un´esistenza dai confini già tracciati, che hanno il desiderio di crescere e migliorarsi come chiunque altro. È semplice ma è così».
Gabriele ne ha incontrati tanti pronti a partire. Li ha visti consumarsi nella noia dell´attesa tra i tavolini dei bar, spezzarsi la schiena di fatica per racimolare quanto basta a farsi staccare un biglietto di sola andata in direzione Europa. «Le frontiere in realtà sono già aperte, la stragrande maggioranza di chi arriva qui viaggia in aereo. Solo chi non ha abbastanza soldi o non ha voglia di aspettare, provando e riprovando, sceglie il mare».
Le storie che Gabriele Del Grande ha messo insieme sono pubblicate in tre libri che un combattivo editore, Infinito edizioni, gli ha pubblicato e che hanno spopolato in un mercato che c´è e non si vede e che ha regalato a questo toscano vagabondo dall´aria scanzonata, premi, riconoscimenti e un´autorevolezza fatta di citazioni perfino sul New York Times. Gli si riconosce di avere scoperto quello che era sotto gli occhi tutti: le dimensioni di una catastrofe immane. E di non essersi fermato alle cifre ma di essere partito per andare a raccontare le lacrime, il sudore, il sangue che c´è dietro la maschera di un numero.
«Non mi piace che mi sia dia del ragazzo, in questo Paese sembra più una condanna che un merito essere giovane e aver voglia di fare. Anche quella dell´età finisce per essere una specie di categoria che non ti fa essere una persona ma un´etichetta come quella di immigrato o migrante o clandestino». L´ultimo libro di Del Grande si intitola Il mare di mezzo. È il Mediterraneo ma anche lo spazio che divide chi tra le due sponde ha sogni e speranze identiche. «Mi sono reso conto che non c´era molta differenza tra me che viaggiavo e loro che partivano. Solo quel mare». Il primo reportage di Del Grande in terra d´Africa è in Mamadou va a morire che lo ha fatto conoscere in giro per il mondo. In poche settimane ha messo insieme cento presentazioni in circoli e istituzioni culturali in Italia e in Nordeuropa.
Ma il suo lavoro, quello che ogni giorno serve a tenere il conto e la memoria di chi si è perso nel mare di mezzo, è Fortress Europe: la fortezza Europa, il blog, tra i più cliccati da chi si occupa di immigrazione. Un punto di riferimento anche per i giornalisti che attingono a piene mani al lavoro di Del Grande che giornalista non è: «Non ho la tessera e francamente non credo che mi serva: lavoro, scrivo e racconto. La considerazione di cui godo è data dalla serietà e dall´impegno che ci metto. Poi, aver scritto giornalista sui documenti per la mia attività non credo aiuti». Muoversi per la riva opposta a squarciare il velo che copre le storie dei morti, gli ha attirato più di una grana. Non lo amano in Tunisia dove gli hanno fatto pagare una serie di documentati racconti sulla sanguinosa repressione di polizia della protesta dei sindacalisti nel distretto minerario di Redeyef nel 2008. Tornando a indagare, l´anno dopo, sulla fine dei dispersi algerini forse finiti nelle prigioni tunisine, si trovò nella black list.
L´idea di uno che prende rischi senza calcolarli è lontanissima dal modo di procedere di Gabriele Del Grande. Sa di muoversi su un terreno minato: i suoi contatti sono spesso dissidenti dei Paesi in cui si trova, oppositori dei governi, gente che rischia, quella sì la pelle, per una parola di troppo: «Il problema è più per loro che per me. So di mettere a repentaglio la loro vita e la loro libertà e per questo ho l´obbligo di essere cauto». Di poliziotti e barbe finte al seguito durante i suoi giri ne ha avuti parecchi e seminarli non è semplice. Cercavano i suoi taccuini per carpirgli i contatti. Quella volta della protesta di Redeyef dovette mettere tutto su un file, dribblare i segugi che già erano a un passo dalla sua camera d´albergo e mettere in salvo i materiali nel posto più sicuro che conosca: la Rete. La protesta di Redeyef lo ha messo sulla pista della fine che fanno gli esuli e delle torture riferite da chi aveva assaggiato la polizia tunisina. Che non ha gradito tanto zelo.
«Dai centri di permanenza, dalle prigioni che ho visitato, tengo i contatti con chi è dentro. Spesso le persone arrestate utilizzano un telefono cellulare e il mio numero ormai gira parecchio. Ricevo richieste di aiuto, segnalazioni, denunce su ciò che accade. Per chi viene arrestato prima di espatriare, in Nordafrica non ci sono certezze. A bordo di camion, spesso anche dei container, come quelli utilizzati in Libia, somali, eritrei, sudanesi finiscono per mesi, se non per anni, in strutture speciali lontane da tutto e creduti morti dai parenti. Ormai ho la mia rete di contatti e finisco sempre per avere in tempo reale un bollettino di uno sbarco, tentato o riuscito. Ho informazioni di prima mano che sottopongo a verifica. Con i telefoni cellulari mi arrivano anche riscontri fotografici alle torture e alle violenze denunciate».
La prima volta in Africa fu un viaggio in Tanzania imbottito di vaccini, adesso prende il primo volo utile e va, annotando con scrupolo quel che la straordinaria accoglienza culinaria dall´altra parte del mare gli riserva. Messa in un cassetto la laurea in Storia orientale che gli valse una borsa di studio con la quale sono iniziati i reportage, oggi Del Grande lavora per partire ancora e raccontare altre storie e altri spaccati di un mondo che da qui si fatica a vedere. Un tempo non lontano faceva il cameriere in una trattoria di Testaccio a Roma per mettere insieme i soldi, oggi, tra libri, conferenze e seminari all´università, riesce a vivere della sua stessa voglia di raccontare. «Lavoro su Internet, posso farlo da qualsiasi posto. Ho abitato a Roma e Milano, ho vissuto due anni in Sicilia, adesso sto in Toscana dai miei, ma riparto tra non molto e poi chissà, forse metto su casa ancora a Roma». Ha la consapevolezza di fare qualcosa di grande e di utile. Ma se la cava facile con una battuta: «I miei meriti? Forse i demeriti degli altri. Di chi è pagato, e anche bene, per raccontare quel che racconto io e non lo fa».

Repubblica 24-10.10
Il sasso istituzionale e lo tsunami politco
di Eugenio Scalfari


Non è soltanto un sasso nello stagno la lettera inviata da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Il Capo dello Stato si è limitato ad attirare l´attenzione del Parlamento e della pubblica opinione su un solo aspetto della legge sull´immunità delle massime cariche istituzionali presentata dal ministro Alfano, ma la logica che ha motivato i suoi rilievi fa parte d´una cultura istituzionale che inquadra una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne rendono possibile la realizzazione. La legge Alfano è invece uno dei tasselli della costituzione materiale che Berlusconi e i suoi accoliti hanno in mente da tempo di mettere al posto della Carta vigente. Napolitano, definendo un articolo della legge Alfano «irragionevole e manifestamente contrario all´attuale articolo 90 della Costituzione», ha di fatto interrotto quel percorso obbligando la maggioranza a rimetterci le mani. Solo questo, ma ora quel sasso nello stagno si è trasformato in un maremoto politico che non riguarda il Quirinale ma Palazzo Chigi e il Parlamento.
L´articolo 90 stabilisce l´immunità del Presidente della Repubblica per quanto riguarda eventuali illeciti che possa commettere nell´ambito delle sue funzioni, con l´eccezione di due sole ipotesi: tradimento della Repubblica e atti contro la Costituzione per i quali il "plenum" del Parlamento può con un voto a maggioranza qualificata tradurlo dinanzi alla Corte che si autocostituisce in Alta Corte di giustizia.
Per illeciti che non riguardano la sua funzione il Capo dello Stato può invece essere inquisito e giudicato dai tribunali ordinari. Napolitano ha rivendicato questa immunità e soltanto questa, niente di più e niente di meno.
Stupisce che l´editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco abbia avanzato il dubbio di irritualità sulla lettera di Napolitano. Le leggi di riforma costituzionale secondo la prassi debbono esser promulgate dopo la doppia lettura prevista dall´articolo 138 e la firma di promulgazione è considerata un atto dovuto. Ma nel caso specifico era stata creata una situazione di dipendenza del Capo dello Stato dal Parlamento che imponeva al Quirinale di rilevarne la stridente contraddizione ordinamentale. Irrituale è dunque quella norma contestata della legge Alfano, non certo la lettera del Presidente.
Si vedrà ora in che modo la questione sarà risolta dal Parlamento, a cominciare dal Senato. Ma l´intervento del Quirinale, al di là del tema specifico, ne ha aperti altri.
Alcuni di carattere costituzionale che Napolitano non ha sollevato ma che tuttavia emergono chiaramente; altri di carattere politico che esulano dalla competenza del Quirinale ma che tuttavia sono ora sotto gli occhi dei partiti e della pubblica opinione.
I temi costituzionali sono due. Il primo, messo in rilievo dall´ex presidente della Corte, Valerio Onida, sta nel fatto che la legge Alfano colloca il Presidente del Consiglio sullo stesso piano del Presidente della Repubblica dal punto di vista del delicatissimo tema delle immunità, con la differenza che il primo è indicato nella scheda delle elezioni politiche sulla quale il "popolo sovrano" appone il proprio voto, mentre il secondo viene eletto dal Parlamento. Si crea in questo modo un sistema duale al vertice dello Stato nettamente sbilanciato a favore dell´inquilino di Palazzo Chigi che può vantare la sua investitura popolare declassando il Capo dello Stato ad un ruolo puramente notarile senz´altra prerogativa che quella di certificare l´autenticità degli atti sottoposti alla sua firma.
L´altro tema consiste nella differenza tra il concetto di immunità e quello di impunità (l´ha sottolineato anche Luca Ricolfi sulla Stampa). L´immunità sospende la procedibilità del titolare di una carica istituzionale nel periodo in cui esercita le sue funzioni e limitatamente ai reati che può aver commesso relativi a quelle funzioni.
L´impunità invece copre anche illeciti che non riguardano le funzioni ed è ripetitiva se la stessa persona passa dalla carica che ricopre ad altra egualmente "immune" raffigurando in tal modo un salvacondotto valido per molti e molti anni. Come non vedere dietro una siffatta normativa far capolino la maschera di Silvio Berlusconi? È accettabile un salvacondotto di questo genere, per di più in presenza di una legge elettorale come quella attuale che affida alla sua discrezione la scelta dei candidati con un meccanismo elettorale che assegna alla coalizione vincente anche per un solo voto un premio nazionale per la Camera e premi regionali al Senato? Queste considerazioni debbono esser state ben presenti al Presidente della Camera. Fini ha infatti dichiarato ieri sera che l´immunità prevista dalla legge Alfano non può essere reiterabile.
* * *
È evidente che lo scontro tra queste opposte visioni istituzionali avrà conseguenze politiche che sono già visibili. Bene ha fatto il Quirinale a sottolineare ieri che i rilievi del Presidente riguardano specifici aspetti della legge Alfano mentre lo scontro politico e le sue conseguenze sono del tutto estranee alla competenza del Capo dello Stato. All´attenzione delle forze politiche c´è ora con rinnovato vigore un dilemma fondamentale: lo stato di diritto o il comando di una persona, il popolo sovrano e i suoi rappresentanti liberamente scelti o la cricca e la casta che pensa per tutti e provvede per sé? Questa è la posta ed è inutile e deviante anteporre i problemi del paese a questi che sembrano invece temi da intellettualoidi e da politicanti autoreferenti. I problemi del paese ci sono ben presenti e ne parliamo di continuo; sono quelli del fisco, dei rapporti tra le forze sociali, del lavoro, dei rifiuti di Napoli, della corruzione, delle infrastrutture, della crescita economica, dell´Università e della ricerca. Li ha risolti da solo Berlusconi? Li ha risolti da solo Tremonti? Li ha risolti da solo Bertolaso?
O dobbiamo sperare in una Madonna pellegrina e lacrimante? Come mai dopo tanti anni di governo quei problemi sono diventati voragine? Parlare di essi derubricando quello che tutti li ha determinati e ne subordina la soluzione a quel Salvacondotto che è la sola cosa che importa, è un depistaggio in piena regola e come tale va definito.
* * *
Le conseguenze politiche riguardano soprattutto l´opposizione, quella di sinistra, quella di centro e quella finiana.
È evidente e non da ora che la posta in gioco è la Costituzione. Ma ora, con l´arrivo al pettine di tutti i nodi irrisolti, la partita è giunta alla sua svolta che implica un´emergenza oggettiva. L´emergenza soggettiva era quella predicata anzitempo, una sorta di "al lupo al lupo" quando il lupo era ancora sulla montagna. Adesso il lupo è sceso in pianura, pronto a divorare le pecore se pecore resteranno. Per questo dico che adesso l´emergenza è oggettiva e questo impone alcune riflessioni.
1. Per cambiare la legge elettorale ci vuole uno schieramento che unisca tutto il centro e tutta la sinistra.
2. Se si va alle elezioni con questa legge ci vuole egualmente uno schieramento elettorale che unisca tutto il centro (finiani compresi) e tutta la sinistra, altrimenti mancherebbero i numeri per essere competitivi con l´avversario.
3. Una cordata di quest´ampiezza avrà bisogno d´un leader che copra con la sua autorevolezza tutto l´arco delle forze alleate e possa rappresentare il minimo comun denominatore che non è poi tanto minimo: combattere mafie e corporazioni, rilanciare la crescita senza abbassare la guardia sulla finanza pubblica, garantire i diritti e far rispettare i doveri, tutelare i ceti deboli, i poveri, la pari dignità delle persone e le pari opportunità nel lavoro e nell´istruzione, dare alle forze sociali il ruolo che loro spetta a fronte dei sacrifici che la modernizzazione e la globalizzazione impongono. Vi sembra molto "minimo" questo denominatore?
4. Se questo progetto è accettato (ed è l´unico che può evitare una vittoria del berlusconismo per i prossimi nove anni) esso comporta che non vi siano veti da parte di nessuno e contro nessuno. È una sorta di lodo cui tutta l´opposizione è chiamata. Poi, passata la stretta tra Scilla e Cariddi, ognuno riprenderà la propria navigazione e il denominatore minimo cederà il passo ai denominatori massimi che ciascuna forza politica ha il diritto di proporsi e di proporre in libera competizione.
Ma oggi non siamo di fronte a una libera competizione, siamo di fronte appunto ad una concezione radicalmente diversa della democrazia e dello Stato. Questo è il salto. Chi non lo fa si perde e perde il paese.

Agenzia Radicale 23.10.10
Psychépolis
Difendersi da una "Cultura" che avvelena
di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo

Questa settimana dovremmo prendercela un po' con tutti: Lucetta Scaraffia e Claudio Risé, Adriano Sofri e Francesco Piccolo, Elena Dusi e Carlo Picozza, e poi ancora Umberto Galimberti, Pietro Citati, Emanuele Severino e Umberto Eco. Sono decisamente troppi, non ce la faremmo in queste poche righe, ma ci proveremo comunque nelle prossime settimane, affrontandoli uno ad uno.
Per adesso li includiamo sotto una sola categoria, che a loro farà pure piacere, ma che a noi piace sempre meno per il suo alto contenuto di tossicità: CULTURA. Quella che ci viene propinata quotidianamente dai giornali; quella che ritiene di possedere in tasca ogni verità; quella che plagia, inculca, pedagogizza, didascalizza, pontifica, monopolizza, devia o cerca di deviare le nostre menti.
Ci vuole tanta resistenza e la certezza-esperienza di un'altra realtà umana, per rifiutare ogni mattina il martellamento di questa cultura dominante perversa, che ci vorrebbe tutti malati originariamente, dalla nascita. Tutti criminali e malefici peccatori, dall'origine. Controllati semmai dalla coscienza o dalla fede.
Una cultura che sguazza felice in un teorema catto-freudiano e che da decenni, se non da secoli e millenni, con l'ineluttabilità di una natura umana violenta, sancisce l'autorità delle istituzioni, sacre e non, che terrebbero a bada i nostri istinti animaleschi. Una cultura che, da qualsiasi angolo la si osservi, lavora instancabile per convincerci che il Male è dentro ognuno di noi, per prospettarci un destino di marionette obbedienti e identificate, per smarrire la creatività, la vitalità, la fantasia e la sanità degli esseri umani e soprattutto soprattutto convincerci che nessuna trasformazione sia possibile.

sabato 23 ottobre 2010

I più importanti giornali internazionali aprono le loro prime pagine on line su questo tema, sui giornali taliani, se c’è, la notizia è quasi invisibile 400mila nuovi documenti. Le torture e le stragi di prigionieri e di civili in Iraq Corriere della Sera 23.10.10 Wikileaks, nuovo scoop Ecco gli orrori in Iraq Rivelazioni su Calipari di Guido Olimpio qui su Wikileaks qui http://wikileaks.org/ sul New York Times qui http://www.nytimes.com/ su Al Jazeera qui http://english.aljazeera.net/ dal Guardian qui http://www.guardian.co.uk/ l’Unità 23.10.10 Il sindacato non è un partito di Giuseppe Casadio Le piattaforme sindacali, specie quando esulano da tematiche strettamente aziendali, interrogano sempre anche la politica; ed è giusto, auspicabile, necessario che la politica interagisca, si confronti con le piattaforme sindacali. E se ciò non avviene, è giusto che il sindacato incalzi i partiti, quelli all’opposizione non meno che quelli al governo, ne solleciti pronunciamenti chiari e non opportunistici sul merito delle questioni poste. Si tratta di un passaggio fondamentale dell’azione sindacale, che non si risolve però con una sbrigativa e impropria sottoscrizione della piattaforma sindacale da parte dei partiti. Qui sta il punto. I partiti devono essere sollecitati a esprimere con chiarezza ciò che essi si impegnano a fare, in Parlamento e nel Paese, per dare risposta alle domande che il sindacato avanza, o comunque per rendere più forte la sua azione, se e nella misura in cui ne condividano davvero gli obiettivi. I partiti, per loro natura, hanno strumenti e metodi di azione diversi da quelli di un sindacato, ed è sul terreno loro proprio che devono “compromettersi” a fronte delle sollecitazioni che il sindacato loro propone. Ritengo cioè poco significativa la pratica dell’invio di un comunicato di “adesione” a scatola chiusa a questa o quella iniziativa sindacale da parte di questo o quel partito. Pratica tanto più frequente, naturalmente, quando l’iniziativa sindacale in questione si annuncia tale da offrire una grande visibilità. Ben altro significato avrebbe un confronto stringente e di merito con ciascun partito sugli obiettivi della azione sindacale, rendendone noti gli esiti innanzitutto ai militanti sindacali. Questo indurrebbe ciascuno ad assumere responsabilità, rafforzerebbe alleanze non formali. Sia chiaro: non sto parlando della manifestazione della Fiom di sabato scorso; sto prendendo spunto da un aspetto tutto sommato marginale di essa per svolgere una riflessione che ritengo ben più generale. Peraltro conosco bene la capacità del gruppo dirigente della Fiom di svolgere iniziativa politica a tutto campo e ad esso va tutta la mia solidarietà. Un’ultima considerazione che mi viene dall’esperienza alla guida della Cgil dell’Emilia Romagna: fin dagli anni ’70, in quasi tutti i territori di quella regione, alle manifestazioni sindacali non partecipano le bandiere nè i simboli di partito. E questo non avviene per una sorta di estraneità alla politica che peraltro, in quella regione più che altrove, non sarebbe tollerata innanzitutto dagli attivisti sindacali, ma in virtù delle riflessioni che ho fin qui esposto e della cui validità sono fermamente convinto. Se ne può discutere con serietà e serenità? l’Unità 23.10.10 Il Riesame conferma: «Lo Ior ha violato le norme antiriciclaggio» Confermato il sequestro dei 23 milioni che su richiesta dello Ior dal Credito Artigiano dovevano essere trasferiti alla J.P. Morgan e alla Banca del Fucino. «Non è stato comunicato per chi intendesse eseguire le operazioni». di Marzio Cecioni Lo Ior ha violato gli obblighi previsti dalle norme antiriciclaggio quando ha chiesto al Credito Artigiano di trasferire 23 milioni di euro depositati su un proprio conto alla tedesca J.P. Morgan Frankfurt (20 milioni) ed alla Banca del Fucino (tre milioni). È basata su questo aspetto la conferma del sequestro preventivo della somma da parte del tribunale del riesame. «Pur richiesto dall’interlocutore bancario si legge nelle motivazioni dell’ordinanza emessa dal collegio presieduto da Claudio Carini l’istituto vaticano non ha comunicato per chi (per sé o per eventuali terzi, di cui comunicare le generalità) intendesse eseguire le due operazioni, né natura e scopo delle stesse. È dunque documentalmente dimostrata la violazione degli obblighi penalmente sanzionati dalle norme» antiriciclaggio. Nella vicenda sono indagati, per omissioni connesse alla legge antiriciclaggio (mancata indicazione della natura e degli scopi delle due operazioni), il presidente dell’istituto di credito della Santa Sede, Ettore Gotti Tedeschi, ed il direttore Paolo Cipriani. LE MOTIVAZIONI DEL SEQUESTRO «Correttamente il pm scrive il collegio competente sulla legittimità dei provvedimenti restrittivi ha infatti osservato che sino ad oggi lo Ior non ha ancora fornito al suo naturale interlocutore, cioè al Credito Artigiano, le suddette indicazioni con le impegnative modalità previste dalla normativa. Né possono certo considerarsi equipollenti e sostitutive, a sanare l’iniziale omissione, le spiegazioni addotte dalla difesa circa ragioni, modalità e scopi dell’operazione». I difensori degli indagati, al Tribunale del riesame, avevano chiesto la revoca del sequestro preventivo dei 23 milioni, disposto dal gip Maria Teresa Covatta su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Rocco Fava, rivendicando che i trasferimenti di danaro in questione non costituiscono bonifici a favore di terzi, ma «operazioni di girofondi o giroconti» per ragioni di cassa. Nelle stesse motivazioni i giudici sottolineano che lo Ior, in base alle note di Bankitalia del 18 gennaio e del 9 settembre 2010, deve considerarsi a tutti gli effetti «una banca estera extracomunitaria, appartenente ad ordinamento non incluso nella lista dei paesi extracomunitari con “regime antiriciclaggio equivalente” agli standard vigenti negli Stati dell’Unione Europea (la cosiddetta White list); ciò comporta la necessità per lo Ior di uniformarsi ai criteri di trasparenza e “tracciabilita” delle operazioni con banche italiane». Alla banca vaticana, alla luce della decisione del tribunale, resta ora la strada del ricorso per Cassazione o, in alternativa, quella di indicare al Credito Artigiano natura e scopi della movimentazione dei soldi. IL VATICANO CONFERMA TRASPARENZA Quello che la Santa Sede conferma attraverso il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi è la «linea della trasparenza» per lo Ior. Si confida «di poter offrire al più presto tutti i chiarimenti richiesti nelle sedi e agli organismi competenti». Ma la linea non è scontata e neanche indolore, viste le resistenze per farla passare incontrate in Curia dal cardinale Attilio Nicora, il responsabile dell’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede. Un suo progetto di radicale riforma dello Ior all’insegna della trasparenza è rimasto a lungo nei cassetti della Segreteria di Stato. Il Vaticano è stata annunciata l’istituzione di un’Autorità di vigilanza su tutte le attività finanziarie cui dovrebbe essere a capo proprio Nicora. Si attende un motu proprio del Papa per dare il via all’«operazione trasparenza». l’Unità 23.10.10 Antigone «Nessuno degli istituti visitati è in regola con le norme» Quasi 70mila i detenuti contro una capienza prevista di 44.612 Sovraffollamento e organici carenti Le carceri italiane sono fuori legge Presentato ieri il VII rapporto sulle condizioni di detenzioni in Italia. È dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti coloro che in carcere al posto della rieducazione hanno conosciuto la violenza. di Luciana Cimino Quando la pena diventa una tortura. Succede nelle carceri italiane, sporche, non a norma, senza organico, iperaffollate. È la denuncia di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, che ieri ha presentato il suo VII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, quest’anno dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti quelli che hanno trovato anziché la rieducazione, la violenza nelle carceri. Tutti gli istituti penitenziari visitati dall’associazione e da “A Buon Diritto” di Luigi Manconi sono risultati fuorilegge in base a norme basilari come il numero dei detenuti, i metri quadri che questi hanno a disposizione, le condizioni igieniche dei servizi e il numero di ore trascorse al di fuori della cella. «I detenuti hanno in media meno di 3 metri quadrati a disposizione – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – non solo è profondamente illegale ma si configura un’ipotesi di tortura. La nostra associazione ha ricevuto 1330 richieste di ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e negli ultimi 3 anni l’Italia è già stata condannata dalla stessa 5 volte proprio per le condizioni delle carceri». Sono quasi 70 mila detenuti presenti negli istituti italiani a fronte di una capienza massima di 44.612 posti letto regolamentari. Il sovraffollamento è quindi causato certo dagli stranieri che sono i due terzi e che in gran parte sono dentro per non aver ottemperato alla legge Bossi-Fini (quindi per un reato amministrativo). Poi ci sono i tossicodipendenti che costituiscono il 38,2% dei detenuti, il doppio della media europea. «Il mix tra la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pesanti e la legge Cirielli che impedisce ai recidivi di godere delle misure alternative spiega Gonnella – è stato letale per il sovraffollamento». Ma il dato che stupisce è un altro: la gran parte dei detenuti italiani (9782 persone) sono “padani”. Nati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna. «La spiegazione – continua Gonnella è che le organizzazioni mafiose del sud si sono infiltrate benissimo al Nord e usano anche manovalanza locale». Negli ultimi tre mesi la crescita esponenziale delle presenze nelle carceri si è improvvisamente fermata. Un sintomo, secondo Antigone, che «il sistema carcerario è ormai al collasso»: «abbiamo dati certi che dalle autorità penitenziarie fino alle procure l’ordine è “non arrestare più” soprattutto gli stranieri perché non ci sono più posti letto». I suicidi in cella sono stati, nei primi mesi del 2010, 55, un triste bilancio che s’intreccia fatalmente con la scarsità di personale. «Sono tutte storie individuali di disperazione ma c’è un punto: i magistrati di sorveglianza, gli educatori, persino i cappellani, che si devono occupare dei detenuti sono pochi e non possono prendere in carico i detenuti». Il Governo in tutto ciò è «inerte». «Nessun fatto né per quanto riguarda l’edilizia carceraria, né per l’assunzione di altri poliziotti, né per le misure deflattive». Il “Piano carceri” lanciato dal tandem AlfanoBerlusconi è fallito. Rimane una denuncia della Corte dei Conti (13 luglio 2010) e gli scheletri dei penitenziari di Benevento, Busachi, Foggia, Mantova, realizzati e mai entrati in funzione. Repubblica 23.10.10 I padroni dell’anima. Nell’era della psicocrazia Il pensiero unico sulla psiche che normalizza il mondo di Roberto Esposito Depressione, anoressia, stress, insonnia: malattie tipiche dei paesi ricchi, che ora l´Occidente ha iniziato a "esportare". L´elenco dei sintomi si allunga sempre di più. Ogni comportamento individuale viene catalogato, chiunque può essere riconosciuto come affetto da una patologia. E l´industria dei disturbi mentali ha bisogno di nuovi "clienti". Con il rischio che il pensiero unico sulla psiche normalizzi il mondo   Chiesero al morente di sete se non lo disturbasse il gocciolio della cella vicina, e promisero di porre rimedio"; "Complementari ai tecnocrati gli psicocrati". Chi sa se, quando scrisse questi taglienti frammenti, Paul Celan di cui Einaudi ha appena tradotto una nuova raccolta di poesie con il titolo Oscurato (a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli) avrebbe immaginato una rapida estensione planetaria di quanto gli toccava sperimentare in prima persona. Perché è proprio un crescente potere sulle menti, complementare a quello sui corpi, che sempre più si va affermando attraverso processi generalmente riconducibili alla categoria di biopolitica. Ethan Watters, in un saggio intitolato Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, già segnalato su queste pagine da Massimo Ammaniti, e ora tradotto in italiano da Bruno Mondadori, ne ha riconosciuto la fenomenologia in una sorta di globalizzazione di disturbi mentali inizialmente diagnosticati negli Stati Uniti e da lì esportati nel resto del mondo con un effetto di contagio inarrestabile. Studiando la mutazione della percezione di determinate malattie della mente, in un primo momento catalogate secondo i parametri culturali dei paesi interessati - dalla Cina alla Tanzania - Watters osserva come, ad un certo punto, la loro definizione si omologhi a quella occidentale sotto la spinta di potenti campagne pubblicitarie promosse dalle grandi industrie farmaceutiche. A diffondersi, come in una vera e propria epidemia - i cui virus sono i nostri stessi modi di pensare - , è una catena di conseguenze, simboliche e reali, in base alle quali non soltanto la malattia in questione muta faccia, ma finisce per penetrare anche in spazi socio-culturali dove prima non aveva accesso, come se gli anticorpi socio-culturali che fino allora li avevano protetti fossero ceduti di schianto. Una volta che i malati possono conferire ai loro sintomi una definizione apparentemente oggettiva - desunta dai protocolli ufficiali elaborati di solito in America, come l´onnipresente DPM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) - , si sentono autorizzati a proiettare i propri problemi personali in qualcosa di più forte di loro, che insieme li assoggetta e li legittima come soggetti di quel male. Non è difficile ricondurre queste dinamiche a ciò che filosofi contemporanei come Foucault e Deleuze hanno definito con il termine "dispositivo", intendendo con esso un apparato teso a controllare e modificare gli atteggiamenti mentali o le azioni di determinati individui - non forzandoli dall´esterno, ma rendendoli essi stessi partecipi del proprio assoggettamento. Da questo punto di vista la società contemporanea risulta un grande corpo, attraversato da un numero crescente di dispositivi destinati a caratterizzare le nostre idee ed orientare i nostri comportamenti in base ad interessi di cui è ormai difficile individuare la provenienza. Ciò non toglie che la medicina ne costituisca uno dei tratti più tipici, perché rappresenta precisamente il punto di contatto, e di crescente indistinzione, tra sfera del corpo e sfera dell´anima o come altro si voglia chiamare ciò che eccede l´ambito della mera biologia. Non a caso la direzione sempre più mirata che vanno assumendo gli attuali processi di medicalizzazione è quella di uno schiacciamento progressivo dello psichico sul corporeo. Così ciò che inizialmente era diagnosticato come un disagio di carattere personale o sociale è sempre più spesso curato con strumenti chimici. Come attestato da numerosi studi - come quello di Philippe Pignarre su L´industria della depressione, tradotto da poco da Bollati Boringhieri o Manufacturing Depression di Gary Greenberg - i veri motivi della crescita esponenziale della sindrome depressiva, ormai diffusa quanto le malattie cardiovascolari, vanno individuati non in fattori di ordine sociologico o clinico, ma nell´uso degli stessi psicofarmaci che intendono combatterla. Ciò avviene attraverso quella sorta di circolo vizioso, implicito nel protocollo medico ufficiale, che definisce depressione "quella vasta area di disagio psichico curabile con gli antidepressivi". E´ evidente che, una volta configurata la malattia in base alla terapia, questa, mentre la cura, è destinata a riprodurla per autoriprodursi, estendendosi a zone sempre più ampie di società. Tutto sta, per le industrie farmaceutiche e per quei medici che ne diventano sempre più i semplici terminali operativi, ad ampliare la lista dei sintomi, al punto di comprendere tra essi anche fenomeni reciprocamente contrari come l´appetito eccessivo e l´inappetenza, l´irrequietezza e la spossatezza, l´impotenza o la dipendenza dal sesso. A questo punto ben pochi individui possono sottrarsi ad una catalogazione potenzialmente estendibile a tutti. E infatti è proprio questa la tendenza ipertrofica delle campagne di sensibilizzazione contro, ma in realtà funzionali alla diffusione della sindrome. Il cardiologo Marco Bobbio, in un libro intitolato Il malato immaginario. I rischi di una medicina senza limiti, edito da Einaudi e già recensito su questo giornale da Maria Novella De Luca, ricorda come l´Italia detenga il record europeo di consumo di farmaci pro capite e il più alto numero di medici per determinate quote di cittadini, nonostante che i tagli progressivi al sistema sanitario mettano in forse il welfare, magari negando una TAC a chi ne ha veramente bisogno. E´ un´altra forma di quella biopolitica dei corpi e delle anime cui da tempo siamo soggetti - nel doppio senso che ne siamo prodotti e produttori: all´ipersalutismo propagandato dai media come nuovo obiettivo di una vita sempre più lunga e felice fa riscontro l´ipocondria crescente di fasce sempre più ampie di popolazione. Ad unificare, sovrapponendole, queste due spinte è l´idea della caduta di ogni limite per un uomo sottratto al suo destino di finitezza. Quella "psicocrazia" che paventava Paul Celan prima di suicidarsi è ormai diventata una compiuta biocrazia in cui mente e corpo sono insieme l´oggetto e la posta in gioco di una partita di cui è sempre più difficile riconoscere i giocatori, ma di cui è necessario prendere coscienza. Non per cercare, invano, di arrestarla, ma almeno per coglierne la logica e valutarne le conseguenze. Repubblica 23.10.10 Nella nostra società si discute spesso di "nuova emergenza educativa" e di disagio giovanile Bisognerebbe invece ricondurre i comportamenti dei ragazzi alle esigenze della loro età Scopriamo la vitalità dell´adolescenza senza farne sempre una malattia di Gustavo Pietropolli Charmet Questa generazione di adolescenti è destinataria di nerissime profezie e giudizi allarmati. La cultura degli adulti sembra convinta che sia condannata ad una qualità di vita futura molto peggiore di quella goduta dai padri e dai nonni. Meno lavoro, pensioni fatiscenti, alloggi a costi inavvicinabili ed un intero pianeta da riparare dopo le profanazioni ed i vandalismi delle generazioni precedenti. Anche le diagnosi che gli adulti fanno del loro stato di salute mentale e del loro sentimento etico appaiono preoccupate. Spesso nei confronti degli adolescenti attuali si invoca il ripristino di paletti e norme severe che sarebbero state divelte e abrogate. La questione è di importanza educativa cruciale e coinvolge il settore delle politiche giovanili, della riforma della scuola, della riorganizzazione dei servizi preventivi e della salute mentale. È infatti diventato arduo per gli adulti che interagiscono col mondo giovanile comprendere il senso e la direzione delle novità che caratterizzano il loro modo di interpretare il processo adolescenziale. Non si tratta solo del prevedibile cambiamento di mode, di idoli, di stili di vita: il cambiamento sembra coinvolgere questioni molto più profonde e concernenti la qualità delle passioni che sperimentano. I giovani non hanno più paura degli adulti e delle loro istituzioni e non sembrano alle prese con forti sentimenti di colpa nei confronti dei valori e delle norme convenzionali. Gli adolescenti ad esempio non riconoscono alla scuola un significato simbolico ed istituzionale e la utilizzano come un servizio o un centro di socializzazione e scambio culturale. Ciò spoglia i loro docenti della attribuzione al loro ruolo di una autorevolezza prestata a priori in quanto rappresentanti del potere adulto e delle tradizioni culturali del paese. La reazione del corpo docente alla proposta relazionale proveniente dalle classi in cui insegnano viene generalmente interpretata come il sintomo di una grave demotivazione, di una generale disaffezione nei confronti dell´apprendimento e di una insolente mancanza di rispetto nei confronti della scuola. È solo uno dei mille esempi dei cambiamenti in corso e della difficile interpretazione da effettuare. Per i ragazzi infatti è del tutto "normale" ciò che fanno o non fanno a scuola: il ruolo di studente non gestisce più le loro passioni e quindi trattano ciò che concerne la scuola come faccenda di scarso interesse emotivo. Gli adulti invece parlano di una nuova "emergenza educativa", come se fosse in corso una attività sovversiva da parte di una moltitudine di giovani, che in realtà chiedono alla scuola di sviluppare un maggior interesse educativo nei loro confronti ed una più alta competenza sul versante della loro vita affettiva, relazionale e di produzione creativa. Sotto l´etichetta di "bullismo" si inquadra così uno sciame incoerente di comportamenti goliardici, scherzosi, dispettosi che i ragazzi considerano facenti parte della normalità della vita scolastica. La vita di gruppo rischia di essere considerata la scellerata orgia di un branco selvatico e pericoloso. Per gli adolescenti invece i legami affettivi e sociali con i coetanei sono sacri, sia quelli virtuali che quelli concreti. La difficoltà degli adulti a capire il significato affettivo profondo che i ragazzi danno alla conquista della notte, al bisogno di rimanere sempre in contatto virtuale, alla nuova relazione col corpo trafitto di piercing e firmato da tatuaggi policromi li sospinge a convocare sulla scena della relazione educativa le discipline "forti"; la psichiatria, la criminologia, gli esperti di devianza giovanile ai quali chiedere una diagnosi e, se possibile, un trattamento delle "nuove emergenze". Il rischio della patologizzazione dell´uso che i ragazzi fanno di Internet, del consumo di musica, della loro dipendenza dal gruppo di amici, rischia di compromettere la relazione fra mondo giovanile e cultura degli adulti. I ragazzi sono alla ricerca di adulti competenti, non di esperti che presumano di sapere senza chiedere: hanno bisogno di adulti che non si spaventino delle novità, che non si illudano di cavarsela con le diagnosi e le etichette fuori tempo, che abbiano una vera passione educativa. Quando ne incontrano uno non se lasciano sfuggire e organizzano la grande festa dell´incontro col mentore, la guida, l´adulto che sa che si può uscire sani e salvi dal labirinto dell´adolescenza. (L´autore è psicoterapeuta ed esperto di disagio giovanile)

I più importanti giornali internazionali aprono le loro prime pagine on line su questo tema, sui giornali taliani, se c’è, la notizia è quasi invisibile
400mila nuovi documenti. Le torture e le stragi di prigionieri e di civili in Iraq
Corriere della Sera 23.10.10
Wikileaks, nuovo scoop
Ecco gli orrori in Iraq
Rivelazioni su Calipari
di Guido Olimpio

qui

su Wikileaks qui
http://wikileaks.org/

sul New York Times qui
http://www.nytimes.com/

su Al Jazeera qui
http://english.aljazeera.net/

dal Guardian qui
http://www.guardian.co.uk/

l’Unità 23.10.10
Il sindacato non è un partito
di Giuseppe Casadio

Le piattaforme sindacali, specie quando esulano da tematiche strettamente aziendali, interrogano sempre anche la politica; ed è giusto, auspicabile, necessario che la politica interagisca, si confronti con le piattaforme sindacali. E se ciò non avviene, è giusto che il sindacato incalzi i partiti, quelli all’opposizione non meno che quelli al governo, ne solleciti pronunciamenti chiari e non opportunistici sul merito delle questioni poste.
Si tratta di un passaggio fondamentale dell’azione sindacale, che non si risolve però con una sbrigativa e impropria sottoscrizione della piattaforma sindacale da parte dei partiti. Qui sta il punto. I partiti devono essere sollecitati a esprimere con chiarezza ciò che essi si impegnano a fare, in Parlamento e nel Paese, per dare risposta alle domande che il sindacato avanza, o comunque per rendere più forte la sua azione, se e nella misura in cui ne condividano davvero gli obiettivi. I partiti, per loro natura, hanno strumenti e metodi di azione diversi da quelli di un sindacato, ed è sul terreno loro proprio che devono “compromettersi” a fronte delle sollecitazioni che il sindacato loro propone.
Ritengo cioè poco significativa la pratica dell’invio di un comunicato di “adesione” a scatola chiusa a questa o quella iniziativa sindacale da parte di questo o quel partito. Pratica tanto più frequente, naturalmente, quando l’iniziativa sindacale in questione si annuncia tale da offrire una grande visibilità. Ben altro significato avrebbe un confronto stringente e di merito con ciascun partito sugli obiettivi della azione sindacale, rendendone noti gli esiti innanzitutto ai militanti sindacali. Questo indurrebbe ciascuno ad assumere responsabilità, rafforzerebbe alleanze non formali.
Sia chiaro: non sto parlando della manifestazione della Fiom di sabato scorso; sto prendendo spunto da un aspetto tutto sommato marginale di essa per svolgere una riflessione che ritengo ben più generale. Peraltro conosco bene la capacità del gruppo dirigente della Fiom di svolgere iniziativa politica a tutto campo e ad esso va tutta la mia solidarietà.
Un’ultima considerazione che mi viene dall’esperienza alla guida della Cgil dell’Emilia Romagna: fin dagli anni ’70, in quasi tutti i territori di quella regione, alle manifestazioni sindacali non partecipano le bandiere nè i simboli di partito. E questo non avviene per una sorta di estraneità alla politica che peraltro, in quella regione più che altrove, non sarebbe tollerata innanzitutto dagli attivisti sindacali, ma in virtù delle riflessioni che ho fin qui esposto e della cui validità sono fermamente convinto.
Se ne può discutere con serietà e serenità?

l’Unità 23.10.10
Il Riesame conferma: «Lo Ior ha violato le norme antiriciclaggio»
Confermato il sequestro dei 23 milioni che su richiesta dello Ior dal Credito Artigiano dovevano essere trasferiti alla J.P. Morgan e alla Banca del Fucino. «Non è stato comunicato per chi intendesse eseguire le operazioni».
di Marzio Cecioni


Lo Ior ha violato gli obblighi previsti dalle norme antiriciclaggio quando ha chiesto al Credito Artigiano di trasferire 23 milioni di euro depositati su un proprio conto alla tedesca J.P. Morgan Frankfurt (20 milioni) ed alla Banca del Fucino (tre milioni). È basata su questo aspetto la conferma del sequestro preventivo della somma da parte del tribunale del riesame.
«Pur richiesto dall’interlocutore bancario si legge nelle motivazioni dell’ordinanza emessa dal collegio presieduto da Claudio Carini l’istituto vaticano non ha comunicato per chi (per sé o per eventuali terzi, di cui comunicare le generalità) intendesse eseguire le due operazioni, né natura e scopo delle stesse. È dunque documentalmente dimostrata la violazione degli obblighi penalmente sanzionati dalle norme» antiriciclaggio. Nella vicenda sono indagati, per omissioni connesse alla legge antiriciclaggio (mancata indicazione della natura e degli scopi delle due operazioni), il presidente dell’istituto di credito della Santa Sede, Ettore Gotti Tedeschi, ed il direttore Paolo Cipriani.
LE MOTIVAZIONI DEL SEQUESTRO
«Correttamente il pm scrive il collegio competente sulla legittimità dei provvedimenti restrittivi ha infatti osservato che sino ad oggi lo Ior non ha ancora fornito al suo naturale interlocutore, cioè al Credito Artigiano, le suddette indicazioni con le impegnative modalità previste dalla normativa. Né possono certo considerarsi equipollenti e sostitutive, a sanare l’iniziale omissione, le spiegazioni addotte dalla difesa circa ragioni, modalità e scopi dell’operazione». I difensori degli indagati, al Tribunale del riesame, avevano chiesto la revoca del sequestro preventivo dei 23 milioni, disposto dal gip Maria Teresa Covatta su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Stefano Rocco Fava, rivendicando che i trasferimenti di danaro in questione non costituiscono bonifici a favore di terzi, ma «operazioni di girofondi o giroconti» per ragioni di cassa. Nelle stesse motivazioni i giudici sottolineano che lo Ior, in base alle note di Bankitalia del 18 gennaio e del 9 settembre 2010, deve considerarsi a tutti gli effetti «una banca estera extracomunitaria, appartenente ad ordinamento non incluso nella lista dei paesi extracomunitari con “regime antiriciclaggio equivalente” agli standard vigenti negli Stati dell’Unione Europea (la cosiddetta White list); ciò comporta la necessità per lo Ior di uniformarsi ai criteri di trasparenza e “tracciabilita” delle operazioni con banche italiane».
Alla banca vaticana, alla luce della decisione del tribunale, resta ora la strada del ricorso per Cassazione o, in alternativa, quella di indicare al Credito Artigiano natura e scopi della movimentazione dei soldi.
IL VATICANO CONFERMA TRASPARENZA
Quello che la Santa Sede conferma attraverso il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi è la «linea della trasparenza» per lo Ior. Si confida «di poter offrire al più presto tutti i chiarimenti richiesti nelle sedi e agli organismi competenti».
Ma la linea non è scontata e neanche indolore, viste le resistenze per farla passare incontrate in Curia dal cardinale Attilio Nicora, il responsabile dell’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede. Un suo progetto di radicale riforma dello Ior all’insegna della trasparenza è rimasto a lungo nei cassetti della Segreteria di Stato. Il Vaticano è stata annunciata l’istituzione di un’Autorità di vigilanza su tutte le attività finanziarie cui dovrebbe essere a capo proprio Nicora. Si attende un motu proprio del Papa per dare il via all’«operazione trasparenza».

l’Unità 23.10.10
Antigone «Nessuno degli istituti visitati è in regola con le norme»
Quasi 70mila i detenuti contro una capienza prevista di 44.612
Sovraffollamento e organici carenti Le carceri italiane sono fuori legge
Presentato ieri il VII rapporto sulle condizioni di detenzioni in Italia. È dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti coloro che in carcere al posto della rieducazione hanno conosciuto la violenza.
di Luciana Cimino


Quando la pena diventa una tortura. Succede nelle carceri italiane, sporche, non a norma, senza organico, iperaffollate. È la denuncia di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, che ieri ha presentato il suo VII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, quest’anno dedicato alla memoria di Stefano Cucchi e di tutti quelli che hanno trovato anziché la rieducazione, la violenza nelle carceri. Tutti gli istituti penitenziari visitati dall’associazione e da “A Buon Diritto” di Luigi Manconi sono risultati fuorilegge in base a norme basilari come il numero dei detenuti, i metri quadri che questi hanno a disposizione, le condizioni igieniche dei servizi e il numero di ore trascorse al di fuori della cella. «I detenuti hanno
in media meno di 3 metri quadrati a disposizione – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – non solo è profondamente illegale ma si configura un’ipotesi di tortura. La nostra associazione ha ricevuto 1330 richieste di ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e negli ultimi 3 anni l’Italia è già stata condannata dalla stessa 5 volte proprio per le condizioni delle carceri». Sono quasi 70 mila detenuti presenti negli istituti italiani a fronte di una capienza massima di 44.612 posti letto regolamentari. Il sovraffollamento è quindi causato certo dagli stranieri che sono i due terzi e che in gran parte sono dentro per non aver ottemperato alla legge Bossi-Fini (quindi per un reato amministrativo). Poi ci sono i tossicodipendenti che costituiscono il 38,2% dei detenuti, il doppio della media europea. «Il mix tra la legge Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e pesanti e la legge Cirielli che impedisce ai recidivi di godere delle misure alternative spiega Gonnella – è stato letale per il sovraffollamento».
Ma il dato che stupisce è un altro: la gran parte dei detenuti italiani (9782 persone) sono “padani”. Nati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna. «La spiegazione – continua Gonnella è che le organizzazioni mafiose del sud si sono infiltrate benissimo al Nord e usano anche manovalanza locale». Negli ultimi tre mesi la crescita esponenziale delle presenze nelle carceri si è improvvisamente fermata. Un sintomo, secondo Antigone, che «il sistema carcerario è ormai al collasso»: «abbiamo dati certi che dalle autorità penitenziarie fino alle procure l’ordine è “non arrestare più” soprattutto gli stranieri perché non ci sono più posti letto». I suicidi in cella sono stati, nei primi mesi del 2010, 55, un triste bilancio che s’intreccia fatalmente con la scarsità di personale. «Sono tutte storie individuali di disperazione ma c’è un punto: i magistrati di sorveglianza, gli educatori, persino i cappellani, che si devono occupare dei detenuti sono pochi e non possono prendere in carico i detenuti». Il Governo in tutto ciò è «inerte». «Nessun fatto né per quanto riguarda l’edilizia carceraria, né per l’assunzione di altri poliziotti, né per le misure deflattive». Il “Piano carceri” lanciato dal tandem AlfanoBerlusconi è fallito. Rimane una denuncia della Corte dei Conti (13 luglio 2010) e gli scheletri dei penitenziari di Benevento, Busachi, Foggia, Mantova, realizzati e mai entrati in funzione.

Repubblica 23.10.10
I padroni dell’anima. Nell’era della psicocrazia
Il pensiero unico sulla psiche che normalizza il mondo
di Roberto Esposito


Depressione, anoressia, stress, insonnia: malattie tipiche dei paesi ricchi, che ora l´Occidente ha iniziato a "esportare". L´elenco dei sintomi si allunga sempre di più. Ogni comportamento individuale viene catalogato, chiunque può essere riconosciuto come affetto da una patologia. E l´industria dei disturbi mentali ha bisogno di nuovi "clienti". Con il rischio che il pensiero unico sulla psiche normalizzi il mondo

Chiesero al morente di sete se non lo disturbasse il gocciolio della cella vicina, e promisero di porre rimedio"; "Complementari ai tecnocrati gli psicocrati". Chi sa se, quando scrisse questi taglienti frammenti, Paul Celan di cui Einaudi ha appena tradotto una nuova raccolta di poesie con il titolo Oscurato (a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli) avrebbe immaginato una rapida estensione planetaria di quanto gli toccava sperimentare in prima persona. Perché è proprio un crescente potere sulle menti, complementare a quello sui corpi, che sempre più si va affermando attraverso processi generalmente riconducibili alla categoria di biopolitica. Ethan Watters, in un saggio intitolato Pazzi come noi. Depressione, anoressia, stress: malattie occidentali da esportazione, già segnalato su queste pagine da Massimo Ammaniti, e ora tradotto in italiano da Bruno Mondadori, ne ha riconosciuto la fenomenologia in una sorta di globalizzazione di disturbi mentali inizialmente diagnosticati negli Stati Uniti e da lì esportati nel resto del mondo con un effetto di contagio inarrestabile.

Studiando la mutazione della percezione di determinate malattie della mente, in un primo momento catalogate secondo i parametri culturali dei paesi interessati - dalla Cina alla Tanzania - Watters osserva come, ad un certo punto, la loro definizione si omologhi a quella occidentale sotto la spinta di potenti campagne pubblicitarie promosse dalle grandi industrie farmaceutiche. A diffondersi, come in una vera e propria epidemia - i cui virus sono i nostri stessi modi di pensare - , è una catena di conseguenze, simboliche e reali, in base alle quali non soltanto la malattia in questione muta faccia, ma finisce per penetrare anche in spazi socio-culturali dove prima non aveva accesso, come se gli anticorpi socio-culturali che fino allora li avevano protetti fossero ceduti di schianto. Una volta che i malati possono conferire ai loro sintomi una definizione apparentemente oggettiva - desunta dai protocolli ufficiali elaborati di solito in America, come l´onnipresente DPM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) - , si sentono autorizzati a proiettare i propri problemi personali in qualcosa di più forte di loro, che insieme li assoggetta e li legittima come soggetti di quel male.
Non è difficile ricondurre queste dinamiche a ciò che filosofi contemporanei come Foucault e Deleuze hanno definito con il termine "dispositivo", intendendo con esso un apparato teso a controllare e modificare gli atteggiamenti mentali o le azioni di determinati individui - non forzandoli dall´esterno, ma rendendoli essi stessi partecipi del proprio assoggettamento. Da questo punto di vista la società contemporanea risulta un grande corpo, attraversato da un numero crescente di dispositivi destinati a caratterizzare le nostre idee ed orientare i nostri comportamenti in base ad interessi di cui è ormai difficile individuare la provenienza. Ciò non toglie che la medicina ne costituisca uno dei tratti più tipici, perché rappresenta precisamente il punto di contatto, e di crescente indistinzione, tra sfera del corpo e sfera dell´anima o come altro si voglia chiamare ciò che eccede l´ambito della mera biologia.
Non a caso la direzione sempre più mirata che vanno assumendo gli attuali processi di medicalizzazione è quella di uno schiacciamento progressivo dello psichico sul corporeo. Così ciò che inizialmente era diagnosticato come un disagio di carattere personale o sociale è sempre più spesso curato con strumenti chimici. Come attestato da numerosi studi - come quello di Philippe Pignarre su L´industria della depressione, tradotto da poco da Bollati Boringhieri o Manufacturing Depression di Gary Greenberg - i veri motivi della crescita esponenziale della sindrome depressiva, ormai diffusa quanto le malattie cardiovascolari, vanno individuati non in fattori di ordine sociologico o clinico, ma nell´uso degli stessi psicofarmaci che intendono combatterla. Ciò avviene attraverso quella sorta di circolo vizioso, implicito nel protocollo medico ufficiale, che definisce depressione "quella vasta area di disagio psichico curabile con gli antidepressivi".
E´ evidente che, una volta configurata la malattia in base alla terapia, questa, mentre la cura, è destinata a riprodurla per autoriprodursi, estendendosi a zone sempre più ampie di società. Tutto sta, per le industrie farmaceutiche e per quei medici che ne diventano sempre più i semplici terminali operativi, ad ampliare la lista dei sintomi, al punto di comprendere tra essi anche fenomeni reciprocamente contrari come l´appetito eccessivo e l´inappetenza, l´irrequietezza e la spossatezza, l´impotenza o la dipendenza dal sesso.
A questo punto ben pochi individui possono sottrarsi ad una catalogazione potenzialmente estendibile a tutti. E infatti è proprio questa la tendenza ipertrofica delle campagne di sensibilizzazione contro, ma in realtà funzionali alla diffusione della sindrome. Il cardiologo Marco Bobbio, in un libro intitolato Il malato immaginario. I rischi di una medicina senza limiti, edito da Einaudi e già recensito su questo giornale da Maria Novella De Luca, ricorda come l´Italia detenga il record europeo di consumo di farmaci pro capite e il più alto numero di medici per determinate quote di cittadini, nonostante che i tagli progressivi al sistema sanitario mettano in forse il welfare, magari negando una TAC a chi ne ha veramente bisogno.
E´ un´altra forma di quella biopolitica dei corpi e delle anime cui da tempo siamo soggetti - nel doppio senso che ne siamo prodotti e produttori: all´ipersalutismo propagandato dai media come nuovo obiettivo di una vita sempre più lunga e felice fa riscontro l´ipocondria crescente di fasce sempre più ampie di popolazione. Ad unificare, sovrapponendole, queste due spinte è l´idea della caduta di ogni limite per un uomo sottratto al suo destino di finitezza. Quella "psicocrazia" che paventava Paul Celan prima di suicidarsi è ormai diventata una compiuta biocrazia in cui mente e corpo sono insieme l´oggetto e la posta in gioco di una partita di cui è sempre più difficile riconoscere i giocatori, ma di cui è necessario prendere coscienza. Non per cercare, invano, di arrestarla, ma almeno per coglierne la logica e valutarne le conseguenze.

Repubblica 23.10.10
Nella nostra società si discute spesso di "nuova emergenza educativa" e di disagio giovanile Bisognerebbe invece ricondurre i comportamenti dei ragazzi alle esigenze della loro età
Scopriamo la vitalità dell´adolescenza senza farne sempre una malattia
di Gustavo Pietropolli Charmet


Questa generazione di adolescenti è destinataria di nerissime profezie e giudizi allarmati. La cultura degli adulti sembra convinta che sia condannata ad una qualità di vita futura molto peggiore di quella goduta dai padri e dai nonni. Meno lavoro, pensioni fatiscenti, alloggi a costi inavvicinabili ed un intero pianeta da riparare dopo le profanazioni ed i vandalismi delle generazioni precedenti. Anche le diagnosi che gli adulti fanno del loro stato di salute mentale e del loro sentimento etico appaiono preoccupate. Spesso nei confronti degli adolescenti attuali si invoca il ripristino di paletti e norme severe che sarebbero state divelte e abrogate.
La questione è di importanza educativa cruciale e coinvolge il settore delle politiche giovanili, della riforma della scuola, della riorganizzazione dei servizi preventivi e della salute mentale. È infatti diventato arduo per gli adulti che interagiscono col mondo giovanile comprendere il senso e la direzione delle novità che caratterizzano il loro modo di interpretare il processo adolescenziale. Non si tratta solo del prevedibile cambiamento di mode, di idoli, di stili di vita: il cambiamento sembra coinvolgere questioni molto più profonde e concernenti la qualità delle passioni che sperimentano.
I giovani non hanno più paura degli adulti e delle loro istituzioni e non sembrano alle prese con forti sentimenti di colpa nei confronti dei valori e delle norme convenzionali. Gli adolescenti ad esempio non riconoscono alla scuola un significato simbolico ed istituzionale e la utilizzano come un servizio o un centro di socializzazione e scambio culturale. Ciò spoglia i loro docenti della attribuzione al loro ruolo di una autorevolezza prestata a priori in quanto rappresentanti del potere adulto e delle tradizioni culturali del paese.
La reazione del corpo docente alla proposta relazionale proveniente dalle classi in cui insegnano viene generalmente interpretata come il sintomo di una grave demotivazione, di una generale disaffezione nei confronti dell´apprendimento e di una insolente mancanza di rispetto nei confronti della scuola.
È solo uno dei mille esempi dei cambiamenti in corso e della difficile interpretazione da effettuare.
Per i ragazzi infatti è del tutto "normale" ciò che fanno o non fanno a scuola: il ruolo di studente non gestisce più le loro passioni e quindi trattano ciò che concerne la scuola come faccenda di scarso interesse emotivo. Gli adulti invece parlano di una nuova "emergenza educativa", come se fosse in corso una attività sovversiva da parte di una moltitudine di giovani, che in realtà chiedono alla scuola di sviluppare un maggior interesse educativo nei loro confronti ed una più alta competenza sul versante della loro vita affettiva, relazionale e di produzione creativa.
Sotto l´etichetta di "bullismo" si inquadra così uno sciame incoerente di comportamenti goliardici, scherzosi, dispettosi che i ragazzi considerano facenti parte della normalità della vita scolastica. La vita di gruppo rischia di essere considerata la scellerata orgia di un branco selvatico e pericoloso. Per gli adolescenti invece i legami affettivi e sociali con i coetanei sono sacri, sia quelli virtuali che quelli concreti.
La difficoltà degli adulti a capire il significato affettivo profondo che i ragazzi danno alla conquista della notte, al bisogno di rimanere sempre in contatto virtuale, alla nuova relazione col corpo trafitto di piercing e firmato da tatuaggi policromi li sospinge a convocare sulla scena della relazione educativa le discipline "forti"; la psichiatria, la criminologia, gli esperti di devianza giovanile ai quali chiedere una diagnosi e, se possibile, un trattamento delle "nuove emergenze".
Il rischio della patologizzazione dell´uso che i ragazzi fanno di Internet, del consumo di musica, della loro dipendenza dal gruppo di amici, rischia di compromettere la relazione fra mondo giovanile e cultura degli adulti.
I ragazzi sono alla ricerca di adulti competenti, non di esperti che presumano di sapere senza chiedere: hanno bisogno di adulti che non si spaventino delle novità, che non si illudano di cavarsela con le diagnosi e le etichette fuori tempo, che abbiano una vera passione educativa. Quando ne incontrano uno non se lasciano sfuggire e organizzano la grande festa dell´incontro col mentore, la guida, l´adulto che sa che si può uscire sani e salvi dal labirinto dell´adolescenza.
(L´autore è psicoterapeuta ed esperto di disagio giovanile)

venerdì 22 ottobre 2010

il Fatto 22.10.10
Ma quanti sono i preti pedofili? In un mese 103 denunce in Belgio
E in Francia 51 ecclesiastici sono sotto processo
I nuovi casi si aggiungono alle quasi cinquecento vittime di abusi, 13 delle quali si sono suicidate
di Giampiero Gramaglia


Non basta uno spot contro la pedofilia, anche se collocato sulla piazza del Duomo di Milano, proprio davanti alla Cattedrale, per “esorcizzare” il demone delle violenze sui minori che s’è annidato in seno alla Chiesa cattolica. L’inaugurazione dello spot, voluto da un’associazione che tutela i diritti dei bambini, coincide con l’emergere di notizie inquietanti in Francia e in Belgio, due Paesi le cui autorità ecclesiastiche hanno scelto, dopo momenti d’esitazione la via della trasparenza.
E, fuori dalla Chiesa, pure le cronache italiane non risparmiano orrori sui minori: cinque indagati in varie città – l’inchiesta parte da Catania – una madre sotto processo ad Ascoli Piceno per avere tollerato violenze sulle tre figliolette.
IN FRANCIA , paese dove gli scandali sono stati relativamente modesti, se confrontati con quelli negli Stati Uniti, in Irlanda, nel Belgio stesso, la Conferenza episcopale rivela che nove preti sono attualmente in carcere per pedofilia, che 51 sono sotto processo e che 45 hanno già scontato la loro pena: 105 casi, su una popolazione di sacerdoti che, nel 2008 sfiorava i 20 mila (19.640 per la precisione). I vescovi francesi non forniscono dettagli sulla durata delle pene che i preti hanno scontato o stanno scontando. In Belgio, s’è appreso che la procura federale ha ricevuto solo nell’ultimo mese 103 nuove denunce di vittime di abusi sessuali da parte di preti pedofili: vanno ad aggiungersi alle quasi cinquecento denunce (in 13 casi, le vittime si sono suicidate) raccolte dalla commissione d’inchiesta indipendente voluta dalla stessa Chiesa e poi chiusa dopo il sequestro dei dossier da parte della procura. I casi ora dichiarati risalgono, spesso, a molti anni or sono – solo la metà dei “colpevoli” individuati sono ancora vivi – ma solo ora le vittime trovano la volontà di rivelarli, mosse dalla ricerca di giustizia, ma anche dal desiderio di essere riconosciu-
te come tali e di avere quindi diritto a risarcimenti. E dire che, questa settimana, la Chiesa belga aveva definitivamente accantonato l’idea d’istituire una nuova commissione d’inchiesta e aveva pure rinunciato al progetto di creare un centro per l’assistenza alle vittime dei preti pedofili, sostenendo che un’iniziativa del genere spetta alle autorità civili. A riferire sul lavoro della procura è stata la portavoce Lieve Pellens, comparsa davanti alla commissione giustizia della Camera. La maggioranza delle persone che hanno ora scelto di ricorrere alla magistratura sono uomini (76%): il più giovane ha 23 anni, il più anziano 82, l'età media è di 49. Quasi la metà hanno raccontato di avere subito violenze frequentando la Chiesa, oltre un quarto in scuole di preti.

l’Unità 22.10.10
La storia c’insegna come possiamo salvare l’Italia
Per una patria diversa Lo storico ci invita a guardare ai problemi di oggi e al ruolo del nostro paese nel mondo moderno non solo attraverso i nostri occhi ma anche con quelli degli uomini e delle donne che lo hanno fatto
di Paul Ginsborg


Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italiano. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, circa 40.000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell’Italia un paese multiculturale, ma certo è un inizio. Alla cerimonia di conferimento della cittadinanza l’allora presidente del Consiglio comunale fiorentino,
Eros Cruccolini, mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Costituzione italiana.
I miei amici in gran parte rimasero stupiti all’annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, mi dicevano, e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: «Mi vergogno di essere italiano»».
Mentirei se dicessi che queste reazioni mi hanno sorpreso. Vivo in Italia da quasi diciotto anni ormai, e da quaranta circa ne studio la storia, abbastanza per saper cogliere lo stato d’animo della sua gente. Ma la coralità dei commenti provenienti da persone spesso socialmente impegnate senza dubbio mi ha fatto riflettere. In quale altro paese al mondo i cittadini reagirebbero con altrettanto spregio di sé? Certo non i greci o i francesi, né gli americani o i britannici. Quali consuetudini culturali profondamente radicate stanno alla base di questa reazione? Carlo Cattaneo, con la sua tipica lucidità e sottigliezza, propose una risposta a questo interrogativo scrivendo, nel 1839, di «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese quasi per una escandescenza di amor patrio». Ma è difficile accettare che sia il troppo amore per la patria il motivo della reazione all’unisono dei miei amici. A me pare piuttosto di leggervi una gran tristezza sulla condizione attuale del paese, accompagnata da una profonda rassegnazione. (...)
Complessivamente, (in Italia) esiste oggi un senso di insoddisfazione profondo quanto quello di duecento anni fa e forse più insidioso, poiché apparentemente induce passività più che protesta.
Partiamo dalle famiglie. (...) La vita famigliare contemporanea equivale a una vera e propria educazione a diventare «liberi cittadini», per dirla con Foscolo? Non credo. Sotto un certo profilo oggi i membri delle famiglie sono più liberi e godono di maggiori diritti rispetto al passato di fare scelte riguardanti la propria vita, di viaggiare, di votare alle elezioni. Soto un profilo diverso sono intrappolati dai modelli di consumo e di egoismo imperanti che rischiano di essere più perniciosi di quelli del primo Ottocento. Le famiglie italiane hanno molte virtù la vicinanza emotiva, le forti solidarietà tra generazioni, la capacità profondamente radicata di godersi la vita -, tutte caratteristiche che chi viene dal Nord individualista e più freddo invidia. Ma hanno poche virtù civiche e il modello su cui oggi si basa la vita famigliare, quello del mercato globale, non contribuisce a rendere le famiglie italiane più consapevoli delle loro responsabilità complessive.
In tutto questo i meccanismi di trasmissione della cultura moderna hanno un ruolo cruciale. (...) La televisione, come è noto, è lo strumento culturale predominante in circa l’80 per cento delle case italiane. Non è un mezzo, bensì un soggetto, il più potente protagonista culturale della scena contemporanea. La televisione non è un male assoluto, come tentò di teorizzare Karl Popper negli ultimi anni della sua vita. Nella storia italiana essa ha avuto un ruolo essenziale nella diffusione di un’unica lingua nazionale e un senso di comunità nazionale. Ma quando il controllo della televisione è concentrato in pochissime mani e nel caso italiano quasi esclusivamente in due sole mani ben curate, allora è uno strumento profondamente insidioso. Scodella un pasto infinito di soap opera, calcio, varietà e reality show inesorabilmente condito da quantità industriali di spot pubblicitari, tutti orientati a rafforzare il modello «lavora e spendi» della vita quotidiana nel capitalismo consumista. La televisione nella sua forma attuale ci seduce e anestetizza tutti. (...)
IDEE PER CAMBIARE
Non c’è soluzione semplice a questo problema. Una volta ripudiata la violenza, che alternativa resta? Per rispondere a questo interrogativo devo ricorrere ad altre virtù sociali, benché esiterei a classificarle come deboli o forti. Una è la costanza la capacità di non abbandonare una lotta che ha tempi lunghi. L’altra è la creatività, così che nonostante la limitatezza della gamma di azioni possibili, la loro forma possa essere reinventata continuamente.
Aggiungerei anche l’idea delle «riforme mobili», in sostituzione delle barricate mobili usate dai milanesi nelle strade della loro città contro le truppe del maresciallo Radetzky. Non si tratterebbe di «riforme» come quelle di cui oggi si sente parlare la riforma pensionistica (ossia i tagli alle pensioni), la riforma dell’equilibrio dei poteri (ossia distruggerlo), la riforma della Costituzione (no comment). Sarebbero invece riforme che coinvolgono i cittadini stessi in una dinamica di decision making che parte dal basso verso l’alto, come Cattaneo ha sempre auspicato. Idealmente, le «riforme mobili» sono quelle che, strada facendo, portano la gente a interessarsi alla politica, ad autorganizzarsi, a prendere parte continuativa nel processo riformatore. In questo schema gli individui non sono solo i destinatari passivi delle politiche che discendono dall’alto, ma diventano rapidamente cittadini attivi, critici e dissenzienti. Un’idea simile porterebbe al capovolgimento della politica come la conosciamo ora, perché imporrerebbe ai politici di diffondere il potere, invece di concentrarlo. Il concetto delle «riforme mobili» può essere applicato a molte sfere diverse all’ambiente con la raccolta differenziata, il risparmio energetico e altre misure che partono dalle famiglie stesse, alle politiche partecipative con la creazione di veri forum dei cittadini (non quelli fasulli della «consultazione»). In questa dinamica, assimilabile forse a una palla di neve che, in movimento, guadagna sempre più volume, il fine non giustifica i mezzi. Piuttosto i mezzi diventano essi stessi parte del fine.    © Einaudi

il Fatto 22.10.10
Cultura fuori dalla cultura
Non solo libri: la “società intellettuale” deve riconquistare rilevanza. Oggi più che mai può farlo uscendo da confini letterari e misurandosi con i temi politici e sociali del Paese
di Evelina Santangelo


“Come posso far sì che la mia attitudine critica, l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma di intrattenimento, di mero consumo culturale, un passatempo come un altro?”. Così si interroga Christian Raimo sulla Domenica del Sole 24 Ore di qualche settimana fa, dando voce al disagio di quanti in Italia svolgono un lavoro intellettuale scontando la colpa singolare di appartenere a una generazione destinata a vivere la frustrazione della propria ininfluenza. La ragione di questo stato di cose, secondo Raimo: quel “deserto di cultura” in cui ormai si è tutti calati e che i giornali nella loro noncuranza contribuiscono ad alimentare. Un deserto che – come puntualizza Gianluigi Ricuperati – si nutre di quel genere di risentimento (riversato soprattutto nella blogosfera) legato al sospetto che nulla ormai in questo paese sia conseguito e conseguibile in base al merito.
ORA , al di là delle polemiche sull’“esistenza o meno” di un autore come Raimo che mi sembra avviliscano il dibattito (quasi chiunque in fin dei conti “esiste” per cerchie ristrette di estimatori), non c’è dubbio che, se c’è molto di vero in queste e altre considerazioni fatte da due autori che stimo, c’è anche a mio avviso una forma, diciamo, di autismo, una tendenza a orientare lo sguardo in modo selettivo, volgendolo a quegli ambiti in cui alcune intuizioni trovano conferme puntuali, esatte. Mentre sarebbe proprio il caso di dire con Giorgio Vasta (Repubblica, 19 ottobre) che bisognerebbe davvero “cambiare postura psicologica”, non solo però – aggiungerei – cercando di mettere da parte ogni alibi per emanciparsi e affrontare l’impresa di inventare un “codice culturale” non assunto di peso dai padri come un dato ereditario, ma provando anche a interrogarsi sul proprio ruolo e sulle responsabilità nuove poste, per esempio, dall’odierna frammentazione in cui finiscono per disperdersi ed essere sommerse le diverse voci che, nonostante tutto, oggi di fatto costellano il panorama culturale italiano. Ora, un bel po’ di tempo fa, il 13 febbraio, proprio sul Fatto Quotidiano pubblicavo un articolo, (“Lo scrittore solo”, un articolo forse troppo prematuro per i tempi, chissà) in cui, tra le altre cose, mi chiedevo che genere di responsabilità si dovessero assumere gli scrittori nell’odierno spaesamento e sradicamento e come si potesse spezzare la doppia solitudine in cui molti vivono, ora considerati senza discrimine alcuno come intrattenitori, o produttori qualsiasi di un qualsiasi bene di consumo, ora invece concepiti come simboli cui delegare ogni battaglia etica, politica, culturale (come nel caso di Saviano). In questa doppia solitudine coglievo il segno della irrilevanza sociale dello scrittore nella sua specificità come sintesi di intelligenza immaginazione e cultura “capace di generare visioni” o di “dar voce a ciò che è senza voce”, per dirla con Calvino. Concludevo poi quel pezzo con una considerazione che oggi mi sembra colga appunto i limiti e le potenzialità di questo dibattito.
QUEL CHE potrebbe fare la differenza tra “l’immobilismo” generazionale di cui parla Raimo e una “nuova postura psicologica”, come dice Vasta, è forse proprio una nuova postura spirituale, in cui assieme alla necessità di concepire e dar forma a visioni capaci di interrogare il proprio tempo si sentisse fortissimo il dovere di spezzare il proprio solipsismo più o meno egocentrico, collegandosi il più possibile in una sorta di discorso più vasto e intrecciato, “quel genere di discorsi a più voci – dicevo in quel pezzo – che danno rilevanza a una società letteraria, intellettuale e artistica”. Una “rilevanza” che va prima di tutto conquistata. E va conquistata anche con la capacità di inventarsi luoghi dove tessere trame, riannodare fili dispersi di intelligenze, immaginazioni, saperi. E va conquistata pure –oggi più che mai– con la capacità di innestare l’ordine dei discorsi specificatamente letterari o artistici in altri discorsi scientifici, politici, sociali, identitari, tutti quei discorsi di cui dovrebbe esser fatta la vita civile di un paese civile, in modo da ricostruirne l’ossatura spirituale. Se si volesse guardare con attenzione a quel che sta accadendo nella cultura chiamiamola così, “militante”, di questo paese, si scorgerebbe un filo rosso che forse sarebbe il caso di afferrare e seguire. Un filo rosso con cui da più parti si sta provando a riallacciare un dialogo possibile tra quanti sentono l’urgenza di rifondare in modo laico e problematico il ruolo dell’intellettuale in un tempo e in una circostanza, tra l’altro, in cui si è diffusa la convinzione che si possa fare a meno dell’intelligenza (umanistica e scientifica) o che si debba necessariamente farne a meno per mancanza endemica di intelligenze.
LO SI STA facendo in rivistecome Alfabeta 2, per esempio, nel cui secondo numero si ragiona e si dà forma (in una pluralità di punti di vista) a una terza via tra “informazione culturale” e “intervento politico”: la via cioè dell’“intervento culturale”, con l’intenzione dichiarata di “annodare fra loro fili discorsivi” perduti tra cultura e contesti (economico, sociale e politico). Lo si sta facendo in blog come Nazione Indiana dove si stanno raccogliendo gli esiti di un’ampia inchiesta sulla responsabilità d’autore che ha visto coinvolti, oltre allo stesso Christian Raimo, una trentina di poeti e scrittori di formazione, generazione ed estrazione diversissima (da Biagio Cepollaro a Marcello Fois, da Marco Giovenale a Laura Pugno a Ginevra Bompiani a Michela Murgia...). Lo si sta facendo travasando riflessioni o cercando di far riecheggiare discorsi tra blog e siti diversi (Vibrisse, Giap, Lipperatura, Carmilla, Il Primo Amore...) di quella Rete che sarà pure un “egodromo” ma offre anche, come dice Sergio Escobar, “stimoli formidabili e nuovi spazi per le idee”. Lo si sta facendo cercando di riallacciare dialoghi possibili tra autori e critici come Andrea Cortellessa o Domenico Scarpa... appartenenti più o meno alla medesima generazione di “spaesati”. Tutti tentativi (questi e altri) forse di costruire intanto una sorta di cittadella immateriale dove circolino idee capaci di misurarsi tra loro e con i vari contesti di cui è fatto lo spazio pubblico in un paese civile. Per questo forse non è propriamente un caso, ma l’ulteriore manifestazione di un processo piuttosto, quel che oggi sta succedendo anche sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore.
D’altro canto, ci sono processi che accadono insensibilmente, attraverso piccoli smottamenti privati o condivisi, affioramenti episodici, fino a quando non succede che tutto ciò si intrecci in un’esile trama. Ecco, forse siamo qui, a questa esile trama di “una piccola civiltà” possibile (che oggi, in un paese che ha perduto se stesso, non può essere solo e soltanto “letteraria”, vorrei dire a Christian Raimo). E sarebbe un peccato che se ne perdesse il filo.

Repubblica 22.10.10
Chi si ricorda l´indulto?
A chi serve il "carcere breve"?
In cella meno di 48 ore così i reati più piccoli fanno esplodere il carcere
Quattro detenuti su 10 non hanno precedenti penali
di Enrico Bellavia


Per quale "irragionevole ragione" la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l´indulto voluto da Mastella?
Mentre il governo si dedica al lodo Alfano e al "processo breve", a chi e a che cosa serve questo "carcere breve"?
Ma quanto costa questa macchina infernale? E quali sono i rimedi proposti dal governo per uscire dall´incubo della bolgia?

ROMA - A ognuno di noi sembra molto ma molto difficile, se ci si comporta più o meno bene, entrare in carcere, in questa Italia. Anzi sembra che nei duecento «istituti di pena» non ci entri nemmeno chi «se lo merita».
Ma non è così. Dall´Unità d´Italia a oggi, nei 170 anni di storia italiana, non si sono mai registrati così tanti detenuti nelle nostre carceri. L´ultimo conteggio ufficiale del Dap, il dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, parla di 68.527 detenuti (ma sarebbero già 69.500), tra i quali 3mila donne. Di queste, sessantuno hanno i figli in cella. Rispetto ai 44.568 posti effettivamente disponibili, i detenuti sono circa 25mila in più.
Un terzo non è nato da noi: sono stranieri, con in testa marocchini e algerini, due terzi dei detenuti sono italiani. Da dove nascono le cifre del record? Per quale «irragionevole ragione» la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l´indulto voluto dall´allora ministro Clemente Mastella? E se i reati, come assicura il ministero degli Interni Roberto Maroni, sono «complessivamente in calo», com´è possibile un incremento così ansiogeno?
LE PORTE GIREVOLI
In televisione «passano» gli arresti dei latitanti, quest´ondata infinita di catture improvvise, che sommerge boss e gregari anzianotti, reduci dei vecchi eserciti mafiosi in rotta. Ma nelle celle vanno ben altri. Per esempio, ci va un calciatore, delle giovanili della Juventus. E perché? Nella Chivasso dell´ultimo ferragosto incrocia una pattuglia dei vigili e vola qualche parola di troppo. E anche se l´arresto per resistenza a pubblico ufficiale è facoltativo, D. B., classe 1988, finisce dentro. Due giorni alle Vallette, sulle brandine sovraffollate, per ricomparire in tribunale il 16 agosto. Con il suo taglio di capelli scolpito, il fisico perfetto e la maglietta alla moda spicca tra gli stranieri e i «borderline» delle direttissime: viene scarcerato, ma due giorni se li è fatti.
Cambiamo regione e professione: Felice e Salvatore sono due operai di Bagheria, hanno 28 anni, non hanno mai avuto un guaio con la giustizia, finché un giorno buttano in un cassonetto della segatura di legno. Lo avevano sempre fatto, alla fine del turno in falegnameria. Ma era appena cambiata la norma, rimasero tre giorni dentro. Qualche anno fa, e ancora ne ridono, entrò a San Vittore un diciottenne che non s´era fermato all´alt nella zona della stazione Centrale ed era scappato con lo skate-board. E a Reggio Emilia, solo quindici giorni fa, è stato messo in cella uno che aveva rubato una lattina di birra.
É il reato che manco si sa di commettere a rendere il carcere una bolgia. Sono soprattutto i «pesci piccoli» – questa è la gran verità, omessa nei discorsi ufficiali sulla sicurezza e la giustizia – che rendono le carceri simili a una tonnara nei giorni della mattanza. E chi si occupa di detenuti accusa del disastro soprattutto le «porte girevoli»: è stato ribattezzato in questo modo il vortice d´ingressi (che si potrebbero evitare) e di repentine uscite.
Come il calciatore, i falegnami e il ladro della lattina. I «nuovi rei», ossia le persone che entrano in carcere per la prima volta, sono 32mila. Uomini e donne, con famiglie, con affetti, che vengono presi, perquisiti, spogliati, che ricevono dalla polizia penitenziaria gli «effetti letterecci» per dormire sulle brande.
Vengono infilati in celle già affollatissime e ci restano, con le nuove, sconosciute e obbligatorie compagnie, non si sa quanto gradevoli, per quarantott´ore. E poi, ancora sporchi dell´inchiostro delle impronte digitali all´ufficio matricola, e con le stringhe da allacciare, ricevono tanti saluti: possono tornare a casa. In Lombardia, il provveditore regionale Luigi Pagano ha calcolato che, nelle due principali case circondariali, Milano e Brescia, la percentuale dei detenuti che «esce nel giro di una settimana varia dal cinquanta al sessanta per cento. A volte arriva uno alle 12 e alle 14 esce».
Mentre il nostro governo si dedica anima e corpo al cosiddetto lodo Alfano e al «processo breve», a chi e a che cosa serve questo «carcere breve»? Non c´è una risposta che sia una. Ma è stato calcolato che quattro persone comuni su dieci, la cui fedina penale era pulita, e che se la potevano cavare con una denuncia a piede libero, incontrano il sistema penale italiano: meglio, ci sbattono contro.
Una parte molto cospicua di questo «entra ed esci» riguarda quelli che vengono anche definiti «reati apparenti», e cioè reati in cui manca la vittima. È il reato principe degli immigrati clandestini, come Frank: era un habitué dei portici di Palermo, ha collezionato un arresto ogni due settimane per mesi («non ottemperava al decreto d´espulsione») fino a quando è riuscito a far perdere le proprie tracce.
Quello cui si sta assistendo – parlano i fatti – è un «repulisti» di poveracci, di stranieri e di tossici, messi nella «discarica» del carcere (sono tutte parole pronunciate nei convegni). Se questo può forse corrispondere a una precisa logica «d´ordine» (ordine almeno apparente, da immagine televisiva e non da strada), il problema non cambia. Il reato piccolo piccolo è in agguato per chiunque: Antonio è un odontotecnico, è stato accusato di un furto di corrente elettrica, si era dichiarato innocente, ma non ha avuto possibilità di difesa, giacché il tecnico dell´Enel aveva portato via il contatore. Quattro giorni di prigione e poi via di corsa a patteggiare, «pur di tornarmene fuori», dice.
Qual è la «colpa principale» per quasi la stragrande maggioranza dei detenuti italiani? Sono i «reati contro il patrimonio»: furti e borseggi. Poi c´è il piccolo spaccio. Molto impegnati nel «turn over» della giustizia sono i tossicomani, arrestati per possesso di droga sul cui uso, personale o per vendita, deve pronunziarsi il magistrato. Ben il 30 per cento dei detenuti è consumatore di droga (e molti sono affetti da epatite C) e dovreste stare in comunità (ma non c´è posto). Per omissione di soccorso, ingiuria e diffamazione finisce dentro il 15 per cento. In fondo alla classifica dei detenuti, ecco i responsabili di reati contro la pubblica amministrazione (3,4) e contro l´amministrazione della giustizia (2,9%).
LE MISURE DELLA TORTURA
E i «cattivi» veri? A conti fatti, solo tre detenuti su dieci – attenzione – si sono macchiati o sono sospettati di crimini violenti. Più paradossale il tema dei «mafiosi in galera»: intere fette di territorio sono in mano ai clan, ma in carcere non arrivano a seimila detenuti. E, tra questi, è il 10 per cento che sconta il famoso o famigerato 41 bis, ossia il carcere durissimo. Quanti? Presto detto: 267 camorristi, 210 esponenti di Cosa nostra, 114 affiliati alla ‘ndrangheta. Una goccia nel mare.
Vale la pena di ricordare che era il 2006 e con l´indulto avvenne «l´esodo dei 23mila». Ma adesso «tutte le Regioni italiane hanno abbondantemente superato la capienza regolamentare», come denuncia il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. Al Nord non si sta meglio che al Sud. Il top? È in Emilia Romagna: capienza totale 2393, numero dei reclusi oltre 4.400. «In percentuale è il 198 per cento, un dato cronico e destinato a superare ogni limite in Italia», dice Franco Maisto, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. «Siamo in un frenetico e imperdonabile immobilismo, "si fa si fa", dicono, e non si fa mai niente in nessuna direzione. Né aumentano i posti letto, né esce la gente».
«Detenuto in attesa di giudizio» è il titolo di un vecchio film, con Alberto Sordi protagonista. Raccontava di un innocente che finiva in carcere. Negli anni dell´inchiesta milanese "Mani pulite", quando a entrare in cella erano politici, finanzieri, imprenditori, molti giuravano: «Mai più, bisogna cambiare le carceri». Comunque la si pensi sul «pugno duro», sul «giustizialismo» o sul «garantismo», il dato è angoscioso: il 43 per cento degli attuali detenuti è in attesa di giudizio.
Dietro le sbarre, dove qualche gangster resiste ancora, e non mancano i balordi, tra tossici e clandestini, gravitano oggi 30mila detenuti senza una condanna definitiva. E – attenzione – la metà di questi «non definitivi», e dunque almeno quindicimila, sarà – la stima è dell´associazione Ristretti Orizzonti – assolta. In Europa, siamo un caso unico.
È grazie a questo paranoico stato delle cose che in cento posti-branda sono ammassate – per statistica – 152 persone. Soltanto in Bulgaria il tasso di affollamento delle carceri è maggiore (155), mentre la media europea è di 107 detenuti ogni 100 posti. I letti a castello arrivano a tre, quattro piani, la testa di chi dorme è a 50 centimetri dal soffitto. Spesso lo spazio vitale del detenuto è molto al di sotto dello standard dei 3 metri quadrati che sono «la misura della tortura».
Il coefficiente, in molte carceri dell´Italia del G8, è del 2,66 periodico: un coefficiente accettabile solo tra innamorati. Caltagirone, in provincia di Catania, è al primo posto per l´indice di sovraffollamento: ospita 302 persone invece delle 75 previste. Lo segue un altro carcere siciliano, Mistretta (Messina), con l´indice al 175 per cento. E la Uil penitenziari fa notare anche il caso di Busto Arsizio (Varese), non enorme, ma con gli arresti dell´aeroporto internazionale della Malpensa, «è pieno come un uovo». Si sta un po´ più larghi a Poggioreale: il carcere di Napoli ha una capienza di 1.658 persone, è arrivato a 2.801, numero che lo rende in termini assoluti quello più popolato d´Europa. Sommando tutti i numeri dei detenuti europei, fa effetto scoprire che uno su quattro si trova in Italia.
L´EXPLOIT DEI COSTI
Ma quanto costa questa macchina infernale? E che rimedi propongono dal governo?
Ogni detenuto costa allo Stato come se alloggiasse in un hotel quattro stelle: 113,04 euro. È questa la cifra media che il Dipartimento dell´amministrazione penitenziaria, indica come costo giornaliero di un detenuto. In totale fanno 2,7 miliardi di euro. La cifra, non certo bassa, viene considerata ben al di sotto del necessario dagli operatori.
L´associazione Antigone, che oggi diffonderà un suo dossier sulle carceri, ha calcolato che se si arrivasse alla cifra dei 44 mila detenuti previsti nelle tabelle, si risparmierebbero 1,5 miliardi di euro. Non mancano neppure sprechi «classici»: come le nuove manette acquistate in confezione da cinque per le quali però, stando a un sindacato, ci sono solo due coppie di chiavi.
Gli agenti sono 39mila contro i 45 mila dell´organico. E seimila assenze pesano: nella sezione femminile del carcere pesarese Villa Fastiggi hanno dovuto lavorare anche agenti maschi, con sconcerto generale. Anche perché, nel gennaio scorso, il ministro Angiolino Alfano, in un incontro con i sindacati della polizia penitenziaria, aveva rassicurato tutti. Come? Annunciando diciotto nuove carceri, di cui dieci «flessibili». E garantendo – parole sue – le «tanto agognate 2mila unità».
Risultato reale? Zero. Ma questo di Silvio Berlusconi non era il «governo del fare»? Un altro anno galeotto sta finendo, e tra due mesi scade anche il decreto ministeriale che aveva nominato commissario straordinario Francesco Ionta.
I «Baschi azzurri» della polizia penitenziaria fanno le scorte. Ma – chiedono da qualche tempo – ha senso organizzare trasferte «di almeno tre uomini» non per i mafiosi, ma per chi sta per essere rilasciato? «Partiamo in tre con il cellulare – è il racconto concreto – per trasportare in un´altra regione qualcuno che va ai domiciliari, lo salutiamo e lo lasciamo libero anche... di evadere», protestano. È anche successo che, durante un trasferimento, il furgone cellulare si sia fermato: siccome si taglia su tutto, nel serbatoio non c´era più benzina.

Repubblica 22.10.10
Il triste rosario dei suicidi: 54 nel 2010 "Troppa gente, difficile controllare tutti"


MILANO - Mancano settanta giorni alla fine dell´anno e nelle carceri italiane ci sono stati 54 suicidi. Sono stati superati i bilanci del 2007 e del 2008. Proviamo a capire che cosa succede con Luigi Pagano, «capo» delle diciotto carceri lombarde: «Il problema è "non perdere di vista" quello che succede nonostante il sovraffollamento, e non è facile».
Qual è un´idea possibile?
«Niente di speciale, per carità, ma a determinare i suicidi ci sono due fenomeni. Uno è la scelta personale, e a volte non si può fare nulla. L´altro è sentirti sperduto, impaurito, un derelitto. È chiaro che se il numero degli ingressi è così alto come oggi, rischi di non riuscire a seguire tutti. Ma il personale è abituato a dire che ci troviamo in "un luogo di speranza" e a evitare il più possibile lo stress da primo ingresso».
La "speranza" è quella di uscire?
«Non solo. Anche speranza di capire qualche cosa. Ma si fa fatica, perché le risorse sono tarate per un certo numero di detenuti, noi siamo sotto organico, se entrano tanti detenuti di più, fatichi a controllare la situazione. Se prima percepivi i segnali, ora rischi di non percepirli».
San Vittore, milleseicento uomini, cento donne, quando dovrebbe averne novecento al massimo...
«Sì, ma tra entrate e uscite sa quanta gente passa in un anno da San Vittore? Abbiamo dodicimila movimenti, è chiaro che se uno ti vuole "fregare", ci può riuscire».
In tutta Italia ci sono oltre 260 gli operatori picchiati. Siamo tornati alla stagione delle carceri in fibrillazione?
«Nonostante tutto non mi sembra, la conflittualità c´è, ma è endemica. Il livello di animosità non è aumentato, almeno in Lombardia, anzi è inferiore rispetto a quello che potresti aspettarti. Su 9.300 detenuti in tutto, i suicidi sono stati tre. È dura, ma ancora ce la facciamo. Spero anch´io, non solo il detenuto».
(p.col.)

Repubblica 22.10.10
Visite fiscali chi è depresso può uscire


ROMA - È sufficiente fornire «un serio e fondato motivo che giustifichi l´allontanamento dal proprio domicilio» per il lavoratore in malattia perché affetto da sindrome depressiva ansiosa, che non si trova a casa al momento della visita fiscale. «La gravità» di questo «stato patologico», infatti, può giustificare l´assenza nelle ore di reperibilità e il datore non può usarla come scusa per licenziare. Lo ha stabilito la Cassazione, confermando il reintegro sul posto di lavoro, disposto dal Tribunale di Taranto, di una donna, afflitta da sindrome depressiva ansiosa, licenziata perché sorpresa fuori casa nella fascia oraria in cui avrebbe dovuto essere reperibile.

Repubblica 22.10.10
L´anticipazione/Un testo di Herta Müller in uscita per Sellerio

Istruzioni per gli uomini davanti a un regime
di Herta M
üller

Il premio Nobel e il comportamento di fronte a una dittatura: "Non è vero che non c´è nessuna differenza tra il venire a patti e il rifiutare le complicità"

Anticipiamo un brano dal libro del premio Nobel "In trappola", che esce oggi da Sellerio
on tutto quello che so del nazionalsocialismo, dello stalinismo, del socialismo post-stalinista, credo che gli esseri umani in tutte le dittature, per diverse che siano, si trovino di fronte essenzialmente alle stesse situazioni. Le elenco come ipotesi, sapendo che sono solo schizzi, che tra esse ci sono molte altre condizioni. E che nelle situazioni concrete le sfumature delle singole ipotesi si mescolano. Mi allontano con ciò dai testi letterari, cerco di trovare una sorta di visione d´insieme, per proiettare nell´Oggi i singoli Allora di questi testi. Poiché oggi molti di nuovo affermano, quando si parla della Ddr prima della caduta del muro, che non vi sarebbe nessuna differenza tra il venire a patti e il rifiutare.
1) Può essere:
Uno si mette a disposizione senza che glielo si chieda, volontariamente. Vuole una posizione e i privilegi connessi. A volte potrebbe essere solo un pezzo di pane più grosso. Tra i volontari non c´è in gioco nessuna paura ma solo il desiderio di riconoscimento e autorità. Il volontario vuole decidere degli altri, nonostante la sua mediocrità, di cui è consapevole ma che non ammetterà mai dinnanzi ad altri. (...)
Dirà poi che continua a credere nella giustizia delle sue azioni, che voleva il bene per tutti. E che questo era, di fatto, il bene, ma che non era stato capito ed era stato mal interpretato.
2) Può essere:
Uno si mette a disposizione perché glielo si chiede. Qui c´è già in gioco la paura e in testa un po´ di insicurezza, un po´ di coscienza sporca. E tuttavia lui si mette velocemente il cuore in pace, nota che ne valeva la pena. La coscienza sporca svanisce, perché la sua vita scorre senza intoppi e i giorni sono sicuri. La sua paura non scompare. Serve la trappola, diventa un colpevole pauroso. (...)
Dirà poi di aver sempre agito conformemente alle leggi in vigore. Che all´epoca era così e che col rifiuto non avrebbe potuto cambiare nulla. No – dirà – ciò non era bene, ma lui già allora non ci credeva e soffriva in silenzio. Ma in fin dei conti doveva guadagnarsi da vivere e bisognava dar da mangiare alla famiglia e inoltre – dirà – lui è cambiato. Avrà uno sguardo contrito e parlerà prudentemente piano, e tuttavia in ogni frase una parolina di allora lo tradirà. Non lo noterà.
3) Può essere:
Uno si metterebbe a disposizione ma non si chiede di lui. Non dichiara la sua appartenenza allo stato. Non ne sente nessuna. Ma, qualora lo si richiedesse, affermerebbe il contrario e si metterebbe subito a disposizione. Direbbe che si era già da tempo proposto di dichiarare la sua appartenenza. Che purtroppo non aveva potuto trovare la spinta per farlo. Che si rallegrava che finalmente si chiedesse di lui. Che aveva ora la possibilità di fare ciò che per lui era già da tempo un bisogno.
La partecipazione gli viene risparmiata. Sa che non si conta su di lui, che questo è un bene, ma è anche un rischio costante. È combattuto ogni giorno tra due opposte paure: la paura per l´oggi, la paura per il dopo. Oggi gli si potrebbe chiedere: Perché non ti sei messo a nostra disposizione? Dopo gli si potrebbe chiedere: Perché ti sei messo a loro disposizione? Vive timidamente. Non vuole necessariamente piacere allo stato, ma in nessun caso dispiacergli. Vive assente e muto. Diventa complice. (...) Il complice poi dirà, senza che sia stato interrogato, di aver sempre espresso il suo parere senza paura. E alla domanda sul perché non fosse perciò caduto in trappola, risponderà con un´alzata di spalle: Mah! Non era poi così grama all´epoca.
4) Può essere:
Uno non si mette a disposizione. Glielo si chiede e lui rifiuta. O non glielo si chiede più, è già troppo tardi per lo Stato. Poiché egli dice, senza che glielo si chieda e ben chiaro, quel che pensa. E se per caso tace, si sa che è ancora peggio. È uno che rifiuta e diventa nemico dello Stato. (...)
Se, dopo la caduta del regime, non è stato in qualche modo danneggiato, è morto. La morte avvenuta in prigione è stata registrata come arresto cardiaco. L´essere investiti da una macchina liquidato come incidente. L´uccisione per mezzo di defenestrazione, impiccagione, annegamento, inscenata dai colpevoli paurosi come suicidio. Gli amici lo sanno ma non sanno come provarlo, l´autopsia è stata negata. Se è stato solo danneggiato, dunque vive, ha morti nella sua piccola cerchia di amici. Ha anche fatto spesso esperienza di minacce di morte. E per il resto dei suoi giorni si chiederà perché la trappola sia scattata per gli altri e non per lui. Non può scorgere per quale ragione i colpevoli abbiano in certi casi solo preso in considerazione l´uccisione e per quale ragione invece l´abbiano in altri casi commessa. Dal momento che egli si nega al regime, si nega anche alla logica dei suoi apparati e non la capisce. (...)
Dei quattro tipi di persone abbozzati, ciascuno può essere uno scrittore. Ma solo l´ultimo tipo nominato non ha nessuna facilità a scrivere. Ciò che egli scrive deve percorrere ancora una volta quegli stessi gironi in cui è stato scaraventato l´essere-ancora-in-vita. Quel che poi sta su un foglio non è letteratura nel senso comune, ma il ricadere su di sé. È uno scrivere così angusto e senza via d´uscita come il pericolo stesso. Alla lettura la trappola scatta di nuovo. L´ammirazione di questi testi fa male. Alla lettura entra in gioco la paura. Paura retrospettiva per l´autore, ma anche paura per se stessi.
2009 © Herta Müller / Carl Hanser Verlag München 2010
© Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

Repubblica 22.10.10
La filosofia è un personal trainer
Le idee di Peter Sloterdijk hanno conquistato Habermas e gli studiosi francesi
Ora esce in Italia uno dei suoi saggi più importanti. Per "allenarci" a un´altra vita
"Non si può sperare di cambiare il mondo ma solo di migliorare se stessi"
"Si deve ritrovare il senso della disciplina come pratica e come metodo"
di Marco Filoni


Quando Peter Sloterdijk scrive un libro, in Germania e in Francia, diventa un evento. Da noi non è ancora così noto. Eppure il filosofo di Karlsruhe, classe 1947, domina la scena tedesca come non succedeva da decenni. Già nel 1983, il suo esordio con la Critica della ragion cinica viene definito dal decano Jürgen Habermas come l´avvenimento più importante dopo il 1945. Perché mina i principi dell´Illuminismo e propone un maquillage del cinismo greco per uscire dallo stallo del moderno. Da quel momento diventa un riferimento: con le sue eccentriche, ma solidissime, ricerche colma il vuoto di tante asfittiche variazioni filosofiche. Affrontando, anche in modo provocatorio, la concretezza dei problemi attuali. Lo dimostra il suo ultimo libro, Devi cambiare la tua vita, in libreria per Raffaello Cortina. In Germania ha venduto 50.000 copie in soli due mesi. Un record per un libro di filosofia di quasi 600 pagine. Un libro nel quale, analizzando la condizione umana, Sloterdijk ci dice che siamo alla deriva. Ma possiamo salvarci con l´allenamento, praticare esercizi che ci migliorino. Dobbiamo cambiare vita.
Professore, cosa significa questo imperativo?
«È quello che io chiamo imperativo assoluto. Una sorta di provocazione insormontabile. Che si muove su una sconvolgente scoperta, fatta agli inizi delle così dette civiltà avanzate: l´uomo è un essere stratificato. Del resto l´idea è presente, ai giorni nostri, nell´opera di Freud. Quando descrive l´anima la raffigura come una regione su tre piani: nel solaio, al primo piano, abita il super-io; nel pianoterra c´è l´io; nello scantinato c´è l´es. Da questa stratificazione si sviluppa quella che chiamo tensione verticale».
Lei raffigura questa tensione come una scalata, un´ascensione verso il miglioramento di noi stessi. Ma quali sono i mezzi per compiere questa scalata?
«La vita dell´essere umano non è soltanto una vita omogenea, pacificata e felice. Sente una tensione verso l´alto, una competizione a essere migliore rispetto ai suoi simili e a sé stesso. Un´idea espressa nei sistemi di esercizio antichi. I primi a incarnare questo modello, nella tradizione occidentale, sono stati gli atleti. Ma poco a poco si è generalizzato, è diventato un´ambizione di vita che ha formato il nucleo della nostra concezione filosofica della paideia, l´educazione. La paideia classica dei greci è una sorta di democratizzazione delle pretese atletiche. Non a caso Platone ha forgiato il termine philo-sofia sul modello della parola più antica philo-timia, che designava la virtù degli atleti a lottare per l´amore della gloria».
È una tradizione riscontrabile solo nei greci?
«No, affatto. La storia continua con il cristianesimo. I primi monaci orientali si erano denominati atleti di Cristo. E vivevano nell´asketeria, cioè luogo di allenamento: questo il primo nome di quello che più tardi avremmo chiamato monastero. Perciò i primi cristiani si allenavano a imitare il Cristo, l´essere umano che ha raggiunto la cima dell´autoperfezione divenendo il figlio di Dio, sviluppando la facoltà di vincere la morte e realizzare così l´ascensione verso il cielo. In questo senso la verticalità è l´idea più radicale della nostra storia. Imitare il Cristo è partecipare a un gigantesco esercizio di antigravitazione umana. I primi cristiani erano tutti discepoli dell´arte dell´antigravitazione».
Eppure nelle sue pagine lei ipoteca la religione. Addirittura sembra voler spogliare la teologia del suo carattere divino.
«Il mio proposito è far cadere il concetto di religione. È una conseguenza che traggo dalla teoria generale dell´esercizio. È più giudizioso descriverla con una terminologia legata all´allenamento. Quindi propongo una naturalizzazione del concetto di religione per esprimere la sua verità in termini immunitari. La religione è il primo sistema immunitario dei gruppi umani, un sistema d´immaginazione che promette loro la salvezza. Ma la salvezza non è gratuita: è il risultato di un´attività permanente, uno sforzo di solidarizzazione collettiva che dovrà essere regolarmente ripetuto. Solo così gli uomini possono immunizzarsi contro la paura della morte e della dannazione eterna. E questa immunità è acquisita attraverso l´allenamento».
Il sottotitolo del suo libro è Sull´antropotecnica. Cos´è?
«La definisco come la somma degli esercizi e delle pratiche attraverso le quali gli esseri umani elaborano il loro potenziale. Allo stesso tempo è la somma delle tecniche che gli individui utilizzano per mettersi in forma. Quindi un ambito della conditio humana che bisogna finalmente integrare nell´antropologia generale».
E quali sono le conseguenze politiche?
«L´antropotecnica nasce nella sfera politica durante la rivoluzione russa. I rivoluzionari sono stati i primi a fare apertamente la propaganda del miglioramento dell´uomo. In origine il termine compare nell´enciclopedia sovietica del 1926. Nasce dall´ideologia di Trotsky, che voleva creare una nuova umanità con un livello medio più elevato. Ovvero un mondo di geni, in cui al confronto Goethe o Michelangelo apparissero addirittura mediocri. Si può dire che è la ricezione dell´idea nietzscheana del superuomo asservita all´ideologia rivoluzionaria. In rapporto a ciò, oggi l´ideologia cattolica predica la modestia: l´uomo è così com´è. Anzi, meglio che vi rimanga più a lungo possibile. È un atletismo piatto, uno sport di massa senza vere ambizioni. Si è perduta la grande tensione dell´età classica. La generazione contemporanea ha dimenticato il concetto di antigravitazione e di tensione verticale. E se vi è un elemento pedagogico nel mio libro, consiste nella volontà di ricordare questa dimensione».
Quindi il filosofo oggi è una specie di allenatore che deve contribuire a indicare gli esercizi per esser migliori. C´è una certa assonanza con l´idea di Alexandre Kojève, che diceva di non esser più interessato ai filosofi ma soltanto ai saggi…
«In un certo senso ha ragione. La filosofia in quanto tale ha già giocato la sua ultima carta. E non ci si può più attendere molto da lei. Ma bisogna dire che il saggio kojèviano è legato al compimento del sapere, alla chiusura del grande ciclo della riflessione umana. Dopo il desiderio, dopo la storia, dopo la lotta, il saggio partecipa al Sapere Assoluto o lo realizza lui stesso. Un´idea molto stimolante e seducente, ma riservata a chi oggi può permettersi di vivere di rendite, senza la costrizione del lavoro. Ma tutti noi che invece continuiamo a lavorare siamo fuori portata dalla tentazione kojèviana. Per noi la storia continua, il lavoro continua…».
Quindi oggi a che serve la filosofia?
«Ci sono due risposte contrastanti. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, e negli anni che seguirono, la risposta era: la filosofia serve a interpretare e preparare il miglioramento del mondo. Così però la filosofia è una sorta di serva della sociologia, come nel Medioevo si diceva lo fosse della teologia. C´è poi una seconda risposta, accennata nel secolo scorso e che va ripresa: prima di migliorare il mondo esterno, l´individuo deve migliorare sé stesso».

Corriere della Sera 22.10.10
Effetto Vendola. Bersani fa il Pd di lotta
di Maria Teresa Meli

qui

l’Unità 22.10.10
Sinistra e libertà da oggi si fa partito Ma a Vendola sta già stretto
Da oggi a domenica a Firenze il congresso fondativo di Sinistra e libertà. Vendola leader indiscusso, sfida aperta al Pd. «È un’operazione fallita», si legge nella mozione. 1500 delegati, tra gli ospiti Epifani e Landini.
di Andrea Carugati


A lungo atteso dai militanti, il partito di Sinistra e libertà nasce questo fine settimana a Firenze. Sembra passato un secolo dall’autunno scorso, quando il progetto sembrava naufragare, prima il divorzio dei Verdi di Bonelli, poi i socialisti di Nencini. E Mussi sconsolato che diceva: «È più facile dividere l’Australia che riunificare la Polinesia». E invece in quest’anno il ciclone Vendola ha cambiato tutto. La rielezione in Puglia, e poi la candidatura alle primarie, hanno fatto mutare direzione al vento. E ora i sondaggi premiano il nuovo partito che nascerà al Teatro Saschall di Firenze e che già prima delle ultime regionali ha messo «Vendola» nel simbolo: tra il 4 e il 7%, comunque in netta ascesa rispetto alle regionali di marzo, quando Sel ha avuto una media del 3%, nonostante il picco del 9% in Puglia. E un problema ancora irrisolto, il Nord, dove è rimasta poco sopra l’1%. 42mila gli iscritti, in gran parte in Puglia, Lazio e Campania.
Il cammino interno, tra vendoliani, ex Sinistra democratica, e i fuoriusciti dai Verdi e dal Pdci è stato tortuoso, gli equilibri difficili da trovare, tra complicate quote di vecchie identità da preservare e personalità riottose ad arrendersi all’idea del leader unico. Alla fine Vendola sembra aver messo tutti d’accordo. Ma, paradossalmente, proprio ora che il sogno del partito si realizza, Sel è meno decisiva nella strategia di «Nichi», che ha già le sua fabbriche attive in tutta Italia e, con le primarie, si candida a lanciare un’opa direttamente sugli elettori del Pd, come ha fatto per due volte nella sua Puglia. «Il nostro obiettivo non è il 5 o il6%, ma far spirare un vento di cambiamento, che metta in moto tutto il centrosinistra», ha spiegato Vendola.
DISCORSO DA CANDIDATO PREMIER
Vendola sarà eletto presidente di Sel (a scrutinio segreto, o forse per acclamazione) domenica pomeriggio dai 1500 delegati, dopo la sua relazione di chiusura. Oggi, aprendo i lavori, traccerà la sua idea di Sinistra «oltre il Novecento». «Non sarà un discorso rivolto al partito, ma da leader che si candida a guidare il Paese», spiegano i fedelissimi. «Sel sarà il germe per costruire una grande sinistra in Italia, non l’ennesimo partitino», spiega Franco Giordano. «La destra e il centro si stanno ristrutturando, così sarà anche a sinistra. Il Pd non ha risolto il problema, anzi è parte del problema».
Nella mozione congressuale (unica) il giudizio è ancora più netto: «Il Pd è una operazione fallita». Non proprio un benvenuto alla delegazione democratica che arriva a Firenze, guidata da Anna Finocchiaro. Ma il rapporto col Pd, certamente con gli ex Ds, non è in discussione. Alla proposta del leader Prc Ferrero, che chiede a Sel di abbandonare l’idea di un’alleanza con i democratici e costruire una Linke all’italiana, Giordano risponde secco: «Una proposta senza senso, noi vogliamo costruire l’alternativa a Berlusconi». Solo che vogliono costruirla da sinistra, a modo loro. La prima, che dà il titolo al congresso, è «Riaprire la partita». Tra gli ospiti Epifani e il leader Fiom Landini. Ci sarà anche Bertinotti, il “padre nobile”.

il Riformista 22.10.10
Il candidato Vendola si fa il suo partitino personale
di Ettore Colombo

qui

il Riformista 22.10.10
Tutti sicuri che solo N Panoramacel’ha con Nichi Vendola?
di Antonello Piroso

qui