lunedì 25 ottobre 2010

l’Unità 25.10.10
Bersani: «Via il Lodo. E un nuovo governo per le emergenze»
Se sarà crisi, il leader del Pd punta a un esecutivo di transizione che si occupi di legge elettorale e della crisi economica Un anno fa le primarie che lo hanno incoronato segretario
La proposta di Bersani al centrodestra: «Tirate il Lodo Alfano fuori dal Parlamento e parliamo di riforma fiscale». Il Pdl rispedisce al mittente. Domani battaglia in commissione Affari costituzionali sulla reiterabilità dello scudo.
di Simone Collini


Via il Lodo Alfano e si discuta di riforma fiscale. Se invece il Parlamento continuerà a essere ostaggio dei problemi giudiziari del premier, sarà difficile per Berlusconi evitare la crisi. E a quel punto ci penserà un governo di transizione ad approvare una nuova legge elettorale ma anche a gestire le emergenze del Paese. Pier Luigi Bersani lancia una proposta al centrodestra ma pianifica anche le possibili mosse in caso di rottura definitiva tra finiani e Pdl. Il giorno dopo l’altolà di Gianfranco Fini sullo scudo processuale e due giorni prima che la commissione Affari costituzionali del Senato riprenda la discussione con sul tavolo i rilievi del Quirinale, il segretario del Pd dice davanti alle telecamere di SkyTg24 che il Lodo Alfano verrebbe «spazzato via» da un referendum e che se Berlusconi ritirasse tutti i provvedimenti “ad personam” sulla giustizia dicendo «ai problemi miei ghe pensi mi» darebbe alla politica italiana «un elemento di rasserenamento». Bersani non si fa troppe illusioni che ciò avvenga ma rilancia, sfidando il governo a «tirare il Lodo Alfano fuori dal Parlamento per parlare di riforma fiscale».
La risposta del centrodestra non tarda ad arrivare, e va nella direzione prevedibile, con il vicepresidente dei deputati Pdl Osvaldo Napoli che parla di «offerte finte e ricatti veri».
E domani anziché ritirare il provvedimento, i senatori di Pdl e Lega della commissione Affari costituzionali (rispettivamente 11 e 2) fronteggeranno i senatori (9 Pd, 1 Idv, 1 Udc e 2 finiani) contrari alla reiterabilità dello scudo processuale.
NUOVO GOVERNO PER LE EMERGENZE
Per Bersani, che oggi festeggia il suo primo anno da segretario Pd, la rottura con i finiani sul salva-premier potrebbe portare alla crisi di governo. A quel punto, nei piani del leader dei Democratici, si dovrebbe dar vita a un governo di transizione che si occupi non solo di legge elettorale, ma anche delle emergenze del Paese. Spiega Bersani: «Una nuova legge elettorale serve per mettere in sicurezza la democrazia, perché con questa non solo si nominano i parlamentari ma si può realizzare una condizione in virtù della quale col 35% dei voti uno può fare il presidente della Repubblica. E questo non sta in piedi. Ora, per fare una legge elettorale ci vogliono alcuni tempi naturalmente, e in quei tempi bisognerà pur corrispondere ad emergenze immediate che ha questo Paese». Bersani non si spinge a dire, come ha fatto Massimo D’Alema, che il nuovo governo dovrebbe metter mano anche a delle riforme politiche ed economiche, compresa quella fiscale, anche perché sa che un’impostazione del genere è vista come fumo negli occhi non solo da una forza esterna al Parlamento come la Sinistra e libertà di Nichi Vendola, ma anche da un partito come l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Dice quindi Bersani: «Certamente un grande programma di riforme va affidato a un’alternativa di governo, che va presentata agli elettori. È importante segnalare che anche forze che oggi sono fuori dal Parlamento, Sel per esempio ma non solo, pensano assolutamente necessaria una fase nella quale si metta mano al meccanismo democratico». Ma la convergenza tra la proposta di Bersani e quella di Fini di aumentare la tassazione delle rendite finanziarie non è passata inosservata.

l’Unità 25.10.10
Nichi «cerca» i cattolici
Vendola si “gioca” la fede: «Io credo E voglio parlare con la Chiesa»
Vendola chiude il congresso del Sel e viene acclamato presidente. Nel suo discorso sfida al Pd e apertura al mondo cattolico: «Non nascondo la mia fede, voglio parlare con la Chiesa delle coppie gay».
di Andrea Carugati


Matrimoni gay, Il congresso dà via libera. Sì anche all’adozione per single

«Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati», esordisce Nichi Vendola poco prima di mezzogiorno, per concludere un’ora e mezzo dopo con Bella Ciao a squarciagola, (sparuti) pugni chiusi tra i delegati, e un abbraccio corale della platea che lo incorona leader di Sel ben prima del voto ufficiale del pomeriggio (ovviamente all’unanimità). C’è persino chi gli allunga un bimbo da baciare, per dire il clima del teatro Saschall di Firenze, dove è nato sì un nuovo partito, ma soprattutto un leader nazionale.
Novanta minuti in cui Vendola mette in tavola la summa del suo repertorio, da Gramsci ad Aldo Moro («Avrebbe capito la piazza Fiom come fece col Sessantotto»), da Gandhi a Capitini, dai rapporti di produzione di Bertolt Brecht alla «Cura» di Franco Battiato, che diventa la chiave per spiegare il suo welfare: «Ci prenderemo cura delle persone, delle loro debolezze, a partire dai disabili». E ancora: Vandana Shiva, Gino Strada, Carlo Petrini, l’omaggio a Pannella e Bonino, i ragazzi di Locri, Don Ciotti,
Uccio Aloisi, il cantore della Taranta («Il suo gusto per il mondo è l’antidoto al leghismo»). E la bellezza, «che non è il giovanilismo, ma le ferite del tempo che ci consuma, non sono gli Olimpi pacchiani a metà tra Dioniso e Apicella». Risate, Berlusconi è servito.
IL RAPPORTO COL PD
Vendola non lesina critiche ai leader riformisti italiani “alla Blair”: «La parabola della sinistra modernizzatrice che si congeda dalla radice laburista e sceglie gli slogan della destra è giunta al suo compimento». E ancora: «Il patto tra produttori è un inganno perché cerca di rimuovere il conflitto sociale, solo ai più forti conviene...». «Il tremontismo ha avuto i suoi prodromi nel rigorismo di Padoa Schioppa, ecco le ragioni delle nostre sconfitte». No, lui punta dritto allo sciopero generale proposto dalla Fiom. «Serve perché l’Italia possa guardarsi allo specchio». Di Bersani dice che «ci legano stima e affetto sincero». «Il nostro incontro alcuni giorni fa è stato buono, ha aperto porte e finestre alla speranza». Però... Il leader di Sel spara a zero contro l’ipotesi di governo tecnico che metta mano a riforme economiche bipartisan, evocato sabato da D’Alema. «Va bene cambiare il Porcellum, ma quali sono le riforme neutre? Quelle sul lavoro? E su quale terreno, il tremontismo? Spero di avere risposte chiare da Bersani». Poco prima Fabio Mussi aveva sparato sui «leader difettosi» che, come Blair, «sono andati al centro per governare». Vendola è più ecumenico, ma non molla l’osso: «Il nostro popolo vuole che stiamo insieme, ma anche che proponiamo un nuovo modello sociale e di sviluppo. Vinceremo se la generazione del “lavoro mai” vedrà in noi un futuro».
IL MONDO CATTOLICO
Il leader di Sel rivendica la sua fede («tra le tante mie tante diversità vi beccate anche questa, sono innamorato di Cristo che morendo in croce ha ribaltato i simboli del potere»), smentisce un incontro col cardinale Bagnasco ma ribadisce la volontà di dialogo «a oltranza» con la Chiesa, a partire dagli «affamati», e anche se «troveremo porte chiuse». Il congresso vota all’unanimità alcuni odg: via libera ai matrimoni gay, all’adozione per i single, ai registri comunali per i testamenti biologici, Vendola rilancia «il progetto d’amore tra due persone dello stesso sesso» ma avverte i suoi: «No all’anticlericalismo, di queste cose voglio parlare con la Chiesa. Voglio chiedere agli amici del Family day se li hanno feriti le coppie gay o il liberismo». Nel Pd Ignazio Marino gongola, Matteo Renzi ne loda la passione, ma avverte: «Non si schiacci sulla Cgil». Vendola, giù dal palco, asciuga i concetti: «Sogno un compromesso tra le forze centriste e di sinistra sulle riforme possibili. Ma non è detto che l’egemonia debba essere moderata, quella sfida ce la giochiamo con le primarie, che ormai non possono più essere sabotate». Enzo Carra, ambasciatore Udc in prima fila, sorride: Un discorso da dirigente dell’Azione cattolica. Secondo me alle primarie ha delle chances, in questa fase serve un’anima, e per noi più facile parlare con chi ha un’identità chiara... La soluzione è un centro alleato con la sinistra, col trattino...».

Repubblica 25.10.10
Il leader di Sel: governo tecnico solo per la legge elettorale
Vendola parla di fede e rilancia il patto al centro "Basta anticlericalismo"
di Giovanna Casadio


Passa un ordine del giorno sui matrimoni gay, ma Nichi insiste sulle unioni civili

FIRENZE - Nichi Vendola parla ai cattolici e alla Chiesa. Propone un´alleanza «tra le forze centriste e di sinistra ma senza ipoteche moderate». Invita a «un compromesso», a patto che si voglia battere «la precarietà del lavoro, contro cui è anche il papa, quindi potrà ben essere in un programma elettorale». Pensa a un fronte ampio per «il cambiamento del modello di sviluppo dell´Italia», per sconfiggere il berlusconismo e il suo «Olimpo pacchiano tra Apicella e Dioniso». E ribadisce il sì a un governo tecnico ma solo per riformare la legge elettorale.
Parte da sé, Vendola, dalla sua omosessualità, dalla sua fede: «Tra le tante diversità del vostro portavoce che vi dovete beccare - si rivolge ai 1.400 delegati del primo congresso di "Sinistra ecologia e libertà" - c´è anche questa, c´è una fede religiosa che non intendo nascondere». Non è che abbia incontrato il cardinale Bagnasco, come è stato scritto. È che Nichi si dice «innamorato di quel povero Cristo che finisce in croce» e racconta una storia dove i simboli del potere si capovolgono completamente in «due legni in croce, quattro chiodi, una corona di spine...». Non solo. Tra le ovazioni di una sinistra che - prosciugata dal "voto utile" del Pd di Veltroni nel 2008 e dai propri errori - temeva di non rialzarsi mai più, rilancia i temi dimenticati dei diritti civili, a cominciare dalle coppie di fatto. «Alle famiglie del Family Day chiedo: vi ha ferito di più l´amore gay o l´impoverimento prodotto dal liberismo?». Insiste: «No alle vecchie pulsioni anti clericali». Ricorda più volte Aldo Moro.
Sel vota poi un ordine del giorno in cui si prevede «il matrimonio a prescindere dal sesso dei contraenti». Colpi battuti su temi dimenticati. Dal Pd arriva la condivisione di Ignazio Marino e di Vincenzo Vita. Ma è il filo di un discorso «finalmente» ripreso («Ci eravamo smarriti, ci siamo ritrovati»), quello di Vendola. Un´ora e mezza su tutti i temi. Sul lavoro soprattutto, precisando: «Non diventeremo il partito della Cgil, l´Italia ha bisogno della Cgil». Sui conflitti: «Il patto tra produttori è un inganno». Al Pd e a Bersani chiede di uscire dalle ambiguità, di essere chiaro sul «governo tecnico o di fine stagione»: sì, se è per la legge elettorale, no per le riforme economiche. Al teatro Saschall lo acclamano presidente di Sel, e lui: «Non sono il presidente di un piccolo partito ma di una grande speranza. C´è un´Italia migliore. La politica la voglio vivere per strada». Si commuove Fabio Mussi, il leader dell´ex Correntone Ds che non ne ha voluto saperne del Pd: «Parliamo con il Pd ma sono felice di non essere lì». Tutta la platea in piedi lo applaude.
Franco Giordano, Gennaro Migliore, Titti Di Salvo, Eva Catizone, Loredana De Petris, Grazia Francescato, Elettra Deiana, Paolo Cento, Carlo Leoni e le tante storie politiche della sinistra tornano sul palco, giurando però di non guardare indietro, di volere il partito-ponte. Parlano gli operai, i cassintegrati in collegamento dalla Sardegna. La delegata Maria Pia Erice ricorda i sei stranieri che volevano uscire dal centro d´accoglienza di Trapani liberi e sono usciti morti. Grazie di Vendola a Pannella e a Emma Bonino, «con cui sono stato 90 volte in disaccordo» ma anche da quelle «ho imparato. Grazie a tanti, alla memoria di Uccio Aloisi il padre della Taranta, a Gino Strada, a don Ciotti, a Lorella Zanardo. Quindi tutti a cantare "Bella ciao", per non dimenticare.

l’Unità 25.10.10
Intervista a Rocco Buttiglione
«Se il governo cade vanno cercate nuove maggioranze»
Il presidente Udc: «Verso l’astensione sul Lodo
Alleati con Vendola? Salveremmo Berlusconi»
di Federica Fantozzi


Eredità politiche. «Bersani è un grande erede di Prodi, perchè rappresenta l'essenza dell'Ulivo. Prodi ha a cuore le vicende del Pd e gli vuole bene. Penso che, nel caso in cui ci fosse bisogno, si schiererà, non come candidato o operativo, ma con tutta la sua saggezza e capacità». Lo ha detto Angelo Rovati, ma per la portavoce dell’ex premier sono «opinioni personali».
Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc. Un altro governo è possibile senza passare per le urne, come dicono Fini e D’Alema?
«Non è uno scenario inaudito. La Costituzione, l’unica vigente, dice che il capo del governo ha la maggioranza in Parlamento: se la perde, il governo si disfa e se ne fa uno nuovo sempre in Parlamento. Il presidente della Repubblica ha non il diritto ma il dovere di accertare se ci sono nuove maggioranze.»
Sul piano giuridico. Ma nelle fibrillazioni di questi giorni che significato politico legge? «È un momento grave. Il governo è in crisi: il fatto che Berlusconi non salga al Colle a rassegnare le dimissioni non la cancella. Il Paese non è governato da un anno. Noi in Parlamento per dare l’impressione di lavorare dobbiamo inventarci le cose più strane... Se la crisi non si apre, nemmeno si potrà chiudere».
In caso di voto, Scalfari considera l’unica chance anti-Berlusconi una «cordata» dal centro alla sinistra senza veti. L’Udc aprirebbe a Vendola e Di Pietro? «Io la penso all’opposto. L’unica salvezza di Berlusconi è una campagna elettorale contro i comunisti: Vendola e Di Pietro. La grande massa degli elettori di centro, pur stufa del premier, non li voterebbe mai».
Ne è certo?
«C’è un problema di cultura di governo. Il nodo è Bonanni. Noi vogliamo difendere davvero il diritto al lavoro, magari senza scaldare i cuori ma mantenendo i posti. E se il lavoro italiano non diventa competitivo...». Sta con Marchionne?
«Non sono un sostenitore entusiasta di Pomigliano, ma è una dura necessità. Scontiamo anni di politica che non c’è. Il nostro lavoro, poco qualificato, è in concorrenza con polacchi e serbi». Tornando al problema culturale? «Questa coalizione evocata da Scalfari starebbe con Bonanni o con la Fiom? O magari con i centri sociali che gli sparano i petardi? È il bivio del Pd: una via scalda il cuore ma allontana dalla realtà ed è perdente, l’altra è più rischiosa ma è l’unica percorribile».
L’alleanza con Fli, invece, è nelle cose? «Mi pare che ci sia una convergenza e un’elevata possibilità che in caso di elezioni a breve si vada a costituire insieme una terza posizione. Nei fatti un’area di responsabilità nazionale si sta delineando. C’è un blocco elettorale del 15-25%che non è nè di destra nè di sinistra».
Lei vede un posto per il Pd in questo quadro? «Un’alleanza con il Pd su posizioni riformiste cambierebbe scenario. Potrebbe porsi l’ambizione di governare. Il Paese guadagnerebbe tempo prezioso».
L’Udc darebbe via libera a un governo Tremonti? «Nessun veto personale, il nome è valido. Ma bisognerebbe ragionare sulla formula».
Di certo sarebbe appoggiato dalla Lega. Un problema? «Vedremo. Tremonti ha lavorato con gli strumenti che aveva, con un altra maggioranza si potrebbe fare meglio. Lui ha difeso i conti: chapeau. Ma accanto al rigore, manca lo sviluppo. Non c’è una politica di sviluppo industriale, non la si è voluta avere».
Vede un esecutivo Draghi o Montezemolo? «Persone che stimo. Ripeto: contano programmi e maggioranze». Sul Lodo Alfano l’Udc si è astenuta. Se al Senato il PdL recepisce le critiche del Quirinale cambierete posizione? «Al momento no. Non è solo una questione di riformulazione, vogliamo capire se porrà fine ad altre leggi ammazza-processi e riforme punitive sulla giustizia. E non è emerso con chiarezza».

l’Unità 25.10.10
Affinità e divergenze tra il Pd e gli altri
di Francesco Piccolo


In questo momento, i due poli si ignorano del tutto, perché sono concentrati nelle battaglie interne. A destra sono più rumorosi e feroci, ma poi continuano a votare uniti ogni tipo di legge, come se nulla fosse. A sinistra sono meno scomposti, più eleganti, ma le divisioni sono più profonde e laceranti.
Bersani ultimamente replica in questo modo agli attacchi maliziosi dei suoi possibili alleati: senza di voi forse è meno facile vincere, senza il Pd però è impossibile vincere. Una presa di posizione giusta e che mette in chiaro le proporzioni reali tra il Pd e tutti gli altri partiti che potrebbero entrare in una coalizione. In tutti questi anni il Pd ha subito da qualsiasi alleato, come se fosse il partito più debole e non quello più forte. Quindi un po’ di orgoglio e di senso di rivalsa sono sacrosanti.
Quello che rimane a fare la differenza, e a rendere debole il partito più forte del centro sinistra, è un dato di fatto che Bersani fa solo finta di non sapere: ai suoi possibili alleati, Di Pietro e Casini, non importa vincere. Anzi, in qualche modo perdere consente loro di continuare a rappresentare qualcosa di concreto. Perché la differenza vera tra il Pd e gli altri partiti di opposizione, è che il Pd, ed è questa l’unica sua virtù palese e incontrastabile, è un partito di governo. È nato per governare. È naturalmente propenso a dare battaglia alle elezioni per vincere (anche se spesso perde). Gli altri, no. Quindi, solo il Pd ha da perdere. Gli altri, se perdono, sono contenti.

Corriere della Sera 25.10.10
«Lasci il posto a una precaria» Renzi attacca la Finocchiaro
Vendola apre ai centristi. Rovati lo elogia. Gelo di Prodi
Anna Finocchiaro: «Ho dato del maleducato a Renzi perché non si usa il termine rottamare parlando di persone»
di R. R.


ROMA — Matteo Renzi è ospite di Lucia Annunziata, su Rai3, nella trasmissione «In Mezz’ora» : senza indugi, anche in questa occasione, parla da gran capo dei «rottamatori» — come sono stati soprannominati i giovani del Pd che si riuniranno a Firenze dal 5 al 7 novembre — e perciò, quando la Annunziata gli chiede di tornare sulla polemica avuta tre giorni fa con Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato, il sindaco di Firenze non fa passi indietro, non tratta, non abbassa i toni. Anzi, sentite: «La Finocchiaro è in Parlamento dal 1987, e se vuole glielo chiedo per piacere, così non sono, come sostiene, un maleducato... ma se ci fa la cortesia di lasciare il posto a una giovane precaria, a una ricercatrice, a una mamma di famiglia, forse è meglio che restare per 25 anni alla Camera o al Senato... quindi, concludendo, chi ha fatto tre mandati in Parlamento non si aggrappi alla sedia...».
Sul palco Il sindaco di Firenze Matteo Renzi al congresso di Sel
Secca la replica che Anna Finocchiaro detta alle agenzie di stampa: «Renzi cerca la polemica, ma non sfugga il problema. Gli ho dato del maleducato, l’altro giorno, perché non si usa il termine "rottamare" quando si tratta di persone».
Dalla Annunziata, tuttavia, succede anche altro. Assieme a Renzi è infatti ospite pure Angelo Rovati, ex consigliere di Romano Prodi a Palazzo Chigi, e suo amico personale.
Sostiene Rovati, riflettendo sul ruolo che ha nel Pd Pier Luigi Bersani: «Mentre si parla di Papa straniero, Bersani è un po’ come Prodi, è il grande erede di Prodi, perché rappresenta l’essenza dell’Ulivo». E ancora: «Come Prodi era il più comunista dei cattolici, Bersani è il più cattolico dei comunisti, così come in parte lo è Vendola...».
Detto che dopo un’ora arriva una precisazione del portavoce di Prodi, la deputata del Pd Sandra Zampa — «In riferimento all’odierna puntata di "In Mezz’ora" di Lucia Annunziata, si precisa che le opinioni espresse da Angelo Rovati non sono direttamente o indirettamente riconducibili al Presidente Prodi» — detto questo, occorre aggiungere che c’era probabilmente qualcosa di politicamente assai preciso in ciò che Rovati ha detto sul rapporto esistente tra Vendola e i cattolici.
La conferma giunge da Firenze, dove Vendola tiene il comizio di chiusura del congresso fondativo di Sinistra ecologia e libertà. «I giochi delle alleanze — dice infatti Vendola — si possono riaprire ascoltando tutti», e per questo mette in guardia da «qualunque superato anticlericalismo».

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale
Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.
Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?
Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.
Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?
La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.
Questo cosa cambia?
Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.
Chi ha interesse a rimuovere questo problema?
La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.
Perché parlarne proprio ora?
Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte


l’Unità 25.10.10
Immigrazione: le nostre parole sbagliate
di Valentina Brinis e Ernesto Ruffini


Le parole sono importanti come qualcuno ha detto tanto che chi parla male, pensa male, vive male». E aggiungiamo noi, fa vivere male gli altri, che forse è anche peggio.
Negli ultimi anni, nell’affrontare il tema dell’immigrazione, la sinistra sembra avere dimenticato le proprie parole e sembra avere accolto un vocabolario non suo, eccessivamente condizionato dalle paure collettive. Tutte da rispettare e da affrontare per disinnescarle, ma nessuna da assecondare. Troviamo tracce di questa rischiosa omologazione linguistica e politica anche in alcune posizioni espresse all’interno del Pd e persino dei ragionamenti di Walter Veltroni nel più recente dibattito sull’immigrazione. Si pensi alla proposta di adottare un metodo di “selezione” delle persone che intendono venire nel nostro Paese da applicare nelle ambasciate italiane all’estero. I criteri di “selezione”, valutati con un punteggio e considerati meno “discriminatori” rispetto alla cittadinanza o al sesso, sarebbero l’“età”, la “formazione” e il “progetto di vita” da attuare in Italia.
Sono queste le parole della sinistra? Davvero si possono applicare criteri di selezione così poco scientifici? Ma poi, selezionare non vuol dire identificare gli elementi migliori all’interno di un insieme omogeneo? Ma vogliamo davvero omologare l’intera categoria degli stranieri, che è per sua natura eterogenea? E ancora, abbiamo davvero deciso che qualcuno possa ergersi a giudice del “progetto di vita” di qualcun altro? E infine: che punteggio si darebbe a una persona di mezza età che non ha potuto frequentare la scuola e che desidera venire in Italia per migliorare le proprie condizioni di vita?
È per questo che le parole sono importanti, e l’uso approssimativo delle stesse si rivela dannoso. E ciò è vero soprattutto oggi, quando sono già in molti ad alimentare sentimenti xenofobi e discriminatori attraverso l’utilizzo di termini inappropriati. Si pensi allo scarso supporto, emotivo oltre che giuridico, espresso dal linguaggio adottato quando si parla di clandestini a proposito delle vittime dei respingimenti in mare. Parole che lasciano perplessi per la violenza con cui sono espresse e da cui è sempre più necessario prendere le distanze. Ricordiamo infatti che le migrazioni sono esistite prima ed esisteranno anche dopo la Lega Nord.
A sinistra, ormai da tempo, si fa a gara per essere i John Kennedy o i Barack Obama del panorama italiano. Ma Kennedy e Obama, in momenti, anche drammatici della storia americana, hanno saputo affrontare le difficoltà facendosi promotori di proposte alternative e coerenti con la propria cultura e i propri valori. Saprà la sinistra essere all’altezza di due esempi che giustamente rivendica e considera punti di riferimento?

Repubblica 25.10.10
"La vita di un operaio albanese vale meno di quella di un italiano"
Torino, sentenza shock: morì sul lavoro, risarcimento ridotto
Ai familiari spetta una somma dieci volte inferiore Addebitato all´uomo deceduto anche il 20% di concorso di colpa nella propria morte
di Alberto Custodero


ROMA - L´operaio morto è albanese. Ma la sua vita vale meno di quella di un italiano. Ai suoi familiari, che vivono in Albania, «area ad economia depressa», va un risarcimento di dieci volte inferiore rispetto a quello che toccherebbe ai congiunti di un lavoratore in Italia. Altrimenti madre e padre albanesi otterrebbero «un ingiustificato arricchimento». Questa gabbia salariale della morte, ispirata al criterio del risarcimento a seconda del Paese di provenienza del deceduto sul lavoro, è contenuto in un sentenza shock del Tribunale di Torino. Il giudice civile, Ombretta Salvetti, richiamandosi ad una sentenza della Cassazione di dieci anni fa, ha dunque deciso di «equilibrare il risarcimento al reale valore del denaro nell´economia del Paese ove risiedono i danneggiati». Dopo aver addebitato all´operaio deceduto il 20% di concorso di colpa nella propria morte, la dottoressa Salvetti ha riconosciuto a ciascun genitore residente in Albania la somma risarcitoria di soli 32mila euro. Se l´operaio fosse stato italiano, sarebbero state applicate le nuove tabelle in uso presso il Tribunale di Torino dal giugno 2009 in base alle quali a ogni congiunto dell´operaio morto sarebbero stati riconosciute somme fino a dieci volte superiori (fra 150 e 300 mila euro).
Questa sentenza destinata a fare discutere in un mondo del lavoro nel quale la presenza di lavoratori stranieri è sempre più alta, è stata criticata da uno dei massimi esperti di diritto civile, l´avvocato Sandra Gracis. «In base a questo criterio del Tribunale torinese - spiega il legale - converrebbe agli imprenditori assumere lavoratori provenienti da Paesi poveri, perché, laddove muoiano nel cantiere, costa di meno risarcire i loro congiunti». «Ma ribaltando la situazione - aggiunge l´avvocato Gracis - che cosa sarebbe successo se il dipendente morto fosse stato del Principato di Monaco, oppure degli Emirati? Il risarcimento ai genitori sarebbe stato doppio o triplo rispetto a quello per un italiano?».
Secondo Sandra Gracis, «il giudice torinese s´è rifatto al una sentenza della Cassazione del 2000 peraltro non risolutiva, ignorando che la Suprema Corte, appena un anno fa, ha affermato che la "tutela dei diritti dei lavoratori va assicurata senza alcuna disparità di trattamento a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extracomunitaria». Già nel 2006 la Cassazione aveva stabilito che «dal punto di vista del danno parentale, non conta che il figlio sia morto a Messina o a Milano, a Roma in periferia o ai Parioli. Conta la morte in sé, ed una valutazione equa del danno morale che non discrimina la persona e le vittime né per lo stato sociale, né per il luogo occasionale della morte».

l’Unità 25.10.10
Quei bimbi dietro le sbarre ma senza colpe A Rebibbia è emergenza
Dei 57 bambini che «abitano» nelle carceri femminili italiane, i 22 di Rebibbia vivono addirittura in una situazione di sovraffollamento: sei lettini più sei in una sola stanza. In altri penitenziari, un solo bimbo circondato da adulti.
di Luciana Cimino


Ci sono bambini che non dicono come prima parola «mamma» ma «chiavi» o «apri». E lo spazio intorno a loro non lo chiamano cameretta ma cella. Sono i figli delle detenute destinati a condividere fino ai tre anni di età lo stesso destino di privazione della libertà delle loro madri, quando non c’è nessun altro familiare a poter provvedere a loro. Nel nostro paese sono 57 i bambini che vivono nelle carceri femminili. Di questi, 22 si trovano nel reparto Nido del penitenziario di Rebibbia, a Roma, in una condizione di angosciante sovraffollamento. «La capienza massima è di 15 bambini – denuncia il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni – e l’affollamento crea un disagio aggiuntivo a questi bimbi». Fino a sei letti più altri sei lettini in una stanza. Per questo da qualche giorno cinque bambini sono costretti a passare la notte in infermeria e quindi «sono a contatto con donne affette da importanti patologie e a rischio contagio». «Nonostante l’impegno degli operatori e dei volontari la situazione di questi bambini è davvero drammatica – continua il Garante Non solo sono condannati a trascorrere in una cella l’età cruciale ma per colpa del sovraffollamento, stanno pagando in maniera insopportabile colpe che non sono le loro».
Se negli anni 70 e 80 erano le terroriste a tenere con sé i figli in cella oggi, come a Rebibbia, sono soprattutto ragazze rom e extracomunitarie in carcere per furti o per droga. «Che la prigione non faccia bene ai bambini è indubbio – dice Gennaro Santoro dell’Associazione Antigone – il nostro osservatorio ha riscontrato che i bambini in carcere accusano disturbi nell’umore e ritardo nella parola. Ma il dato di maggiore drammaticità è rappresentato dal fatto che la vita quotidiana dei bambini detenuti varia a seconda dell’istituto di detenzione». Mentre a Milano, per esempio, è attivo dal 2007 un istituto a custodia attenuata per le madri, senza sbarre, con personale specializzato per l’infanzia e agenti in borghese, ad Avellino i bambini non possono uscire mai dal penitenziario; a Civitavecchia e a Bologna non è presente personale specializzato; in nessun istituto si sono riscontrate iniziative in preparazione del distacco tra detenuta e infante che, categoricamente, avviene al terzo anno di età. E ancora, mentre Rebibbia vive il dramma del sovraffollamento in altri istituti paradossalmente la disgrazia è spesso rappresentata dal fatto che sia presente un solo bambino circondato da persone adulte.
IL VOLONTARIATO NON BASTA
«Il fatto è che il bambino in carcere è un aberrazione», chiosa Leda Colombini dell’associazione A Roma Insieme che da 17 anni si occupa di portare fuori i bimbi di Rebibbia. «Noi ogni sabato li portiamo al bioparco, ai giardini, al mare, a fare tutto quello che fanno i bambini normali per evitare la discriminazione e per ridurre i danni che la carcerazione provoca in un’età tanto importante per lo sviluppo». Ma secondo Colombini il volontariato non basta. L’obiettivo è che nessun bambino varchi più la soglia di un penitenziario. Per questo 5 anni fa la Consulta penitenziaria del Comune di Roma (che raccoglie oltre 70 realtà di volontariato) e la Comunità di Sant’Egidio hanno presentato una proposta di legge che prevede pene alternative per le mamme. «È la terza legislatura che avvia la discussione sulla legge ma non si riesce a portarla a casa – dice ancora Colombini – ora è ferma alla Commissione Giustizia della Camera, speriamo che la presidente Bongiorno sia più sensibile». Ma che succede al bambino al compimento del 3 ̊ anno d’età? Se la madre resta in carcere e non ci sono parenti prossimi le strade sono due: la casa famiglia o l’affido. Hanno fatto questa scelta Tiziana e Pamela Di Troila, due sorelle romane di 32 e 28 anni che da due anni si prendono cura di due gemelli rom di 5 anni, Antonio e Antonello. Tiziana ha filmato nel 2007 un documentario sui bambini nel carcere di Rebibbia, Vietato ai minori che girato ha numerosi festival. Da li le due sorelle hanno cominciato con il volontariato e infine «è venuto naturale aiutare questa ragazza bosniaca». E così loro si son ritrovate a gestire due bambini. «Sono sacrifici enormi, perché li portiamo a scuola e poi ogni tanto anche al campo rom sulla Pontina, dove hanno dei fratelli ma l’abbiamo detto all’assistente sociale: siamo sicure che la mamma poi non tornerà a fare quello che ha fatto, perché l’aiuto è concreto».

l’Unità 25.10.10
«Nell’inferno Gaza due anni dopo Il blocco israeliano è una vergogna»
L’ex commissaria Onu per i diritti umani: situazione peggiorata. Non ci sono viveri e medicine sufficienti I giovani costretti a vivere senza un futuro»
di Umberto De Giovannangeli


Guardare con i propri occhi certe situazioni vale molto di più di tanti documenti, saggi, analisi...E ciò che abbiamo visto con i nostri occhi a Gerusalemme Est come nella Striscia di Gaza, dà conto di una realtà scioccante, di una situazione insostenibile». Gli occhi sono quelli di Mary Robinson, ex presidente irlandese – la prima donna capo di Stato in Irlanda, già Alto commissario Onu per i Diritti Umani. Assieme all' ex presidente Usa Jimmy Carter e a Ela Bhatt (fondatrice dell'associazione delle imprenditrici indiane) Mary Robinson, oggi presidente di Realizing Rights: l'Ethical Globalitation Iniziative, ha intrapreso nei giorni scorsi una missione in Medio Oriente, partita da Gaza e che ha fatto tappa anche al Cairo e a Damasco, per concludersi a Ramallah e Gerusalemme in una serie di colloqui con dirigenti palestinesi e israeliani. L'Unità ha avuto modo di avvicinarla nelle visite a Silwan, quartiere orientale a maggioranza palestinese, di Gerusalemme e a Gaza City. A Silwan l'ex presidente irlandese ha visto con i suoi occhi una realtà scioccante: quella a cui le autorità israeliane costringono «i residenti arabi a Gerusalemme Est». Robinson ha avuto modo di parlare con diverse famiglie di Gerusalemme Est: «Da tutti – dice a l'Unità – ho ascoltato storie di disagio, oppressione, paura, incertezza per il futuro». Per comprendere i quali non servono documenti, saggi, analisi...«Per rendersene conto – annota Mary Robinson – basta un giro in autobus». Un giro che permette di prendere confidenza con una «città che sta cambiando faccia», e dove si accumulano fatti compiuti volti a «circondare e schiacciare i palestinesi: attraverso tunnel, strade, nuove attrazioni turistiche e case per coloni protette da schieramenti massicci di forze di polizia».
Una città blindata, una città che esclude. Una città, rimarca l'ex presidente irlandese, che «decine di famiglie palestinesi sono costrette a lasciare, in un esodo forzato silenzioso quanto devastante». Un panorama, denuncia l'ex Alto commissario Onu per i Diritti Umani, che nei fatti rappresenta «un serio ostacolo alla pace». Gli occhi si posano su una realtà che confligge con i buoni propositi, i «Nuovi inizi» di quanti, come il presidente Usa Barack Obama, pensa ad una pace fra israeliani e palestinesi fondata sul principio «due Stati per due popoli». «La colonizzazione dei Territori palestinesi – sottolinea Robinson – sta vanificando ogni possibilità di un accordo fondato su due Stati». All'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Barack Obama ha rilanciato le ragioni di una pace giusta, duratura, che per essere raggiunta esclude forzature unilaterali. Ma la realtà, annota con amarezza l'ex presidente irlandese, «è ben altra. La realtà sono le colonie in Cisgiordania trasformate in vere e proprie città. La realtà è la Barriera di sicurezza che si è insinuata in profondità nella Cisgiordania occupata, spezzandola in tanti frammenti territoriali, dividendo villaggi, distruggendo campi coltivati...Su quale territorio dovrebbe fondarsi uno Stato palestinese? Nessuno aggiunge – discute il diritto d'Israele alla difesa, ma con la stessa convinzione aggiungo che la colonizzazione dei Territori palestinesi non ha nulla a che vedere con quel diritto». Una riflessione pessimista, che si acuisce in tal senso nella tappa che Robinson, Carter e Bhatt fanno nella Striscia di Gaza. «Ero stata a Gaza nel 2008, prima della guerra – racconta Mary Robinson -. Oggi la situazione è ulteriormente deteriorata. Ritengo che per la Comunità internazionale sia una vergogna accettare che il blocco israeliano prosegua».
«A Gaza – rileva Robinson – non siamo alle prese con una crisi umanitaria ma ad una crisi politica e come tale va affrontata e risolta. “Sono rimasta scioccata – racconta Mary Robinson – dalla situazione determinata dal blocco su Gaza, in termini di perdita di mezzi di sostentamento, di limitazioni al movimento di persone e merci...A Gaza sono ancora in atto punizioni collettive contrarie alle norme del diritto umanitario internazionale». “È stato straziante – afferma l'ex presidente irlandese ascoltare le povere contadine del villaggio di Beit Hano, "La nostra terra è stata rasa al suolo," mi hanno detto. Abbiamo imparato a fare le candele, ma non abbiamo la cera.... I nostri bambini sono affamati e gli ammalati non hanno medicine. Sono profondamente scioccata e costernata che questa stia diventando la "nuova normalità" a Gaza». «È inconcepibile e inaccettabile – insiste l'ex Alto commissario Onu per i Diritti Umani che Israele e la comunità internazionale non hanno eliminato il blocco completamente per permettere agli abitanti di Gaza di ricostruire le loro vite e di essere parte di quel mondo ”globalizzato” e interconnesso che noi diamo per scontato». La crisi di Gaza è politica e su questo terreno che va ricercata una soluzione, incalza Mary Robinson. «Allo stato attuale – osserva – solo gli estremisti sono vincenti. Una nuova strada deve essere trovata, quella che assicura sia che gli israeliani possano vivere in pace e sicurezza e che il popolo palestinese, che ha sofferto troppo per troppo tempo, sia finalmente in grado di vivere con dignità».
Una dignità che fatica a mantenersi viva sulle macerie di Gaza. «Ho avuto modo d'incontrare molti giovani – dice Robinson – e ciò che mi ha maggiormente colpito e scioccato è che nei loro discorsi il futuro sembra scomparire in un eterno presente senza speranza. Una condizione insopportabile oltre che profondamente ingiusta». A Gaza, la delegazione del gruppo degli Elders, gli anziani, che raccoglie ex leader e Nobel per la pace impegnati da anni sul fronte del dialogo internazionale e dei diritti umani – ha incontrato anche il leader di Hamas, Ismail Haniyeh. «Non va dimenticato – annota in proposito Robinson – che Hamas ha vinto le elezioni parlamentari nel 2006. Escludere Hamas da un negoziato mi sembra una scelta sbagliata. La sicurezza d'Israele non può fondarsi sull'oppressione a cui è costretto il popolo palestinese».
(Ha collaborato Osama Hamdan)

l’Unità 25.10.10
Lo scrittore e i comunisti In un saggio di Macaluso il filo di una «conversazione interrotta»
Boccadutri Introdusse l’intellettuale nella rete clandestina del Pci. Ma era ossessionato dal potere
Leonardo Sciascia politico: dalla parte di chi moriva «per un pugno di libri»
di Giuseppe Provenzano


«Leonardo Sciascia e i comunisti» di Emanuele Macaluso (Feltrinelli 2010, pagine 157, euro 14,00): in questo libro il rapporto dello scrittore siciliano con la politica italiana...

Tutto comincia col compagno Boccadutri. Senza il compagno Boccadutri, non si può capire Leonardo Sciascia e i comunisti. Ed Emanuele Macaluso, che è uomo generoso, lo rivela già nella dedica. È un vincolo politico e umano, che risale ai verd’anni di Macaluso e Sciascia, che li tenne legati l’uno all’altro, ed entrambi alla rabbia e alla promessa di allora, nella Caltanissetta «offesa» dalla dittatura eppure «piccola Atene» animata da un’intellettualità antifascista. Ma un altro antifascismo, che col primo conviveva, fu decisivo nel rapporto tra Sciascia e i comunisti, e mantenne forse ai suoi occhi una più alta dignità morale: quello di un operaio venuto da Favara, Calogero Boccadutri, che conobbe Terracini in galera, imparò lo studio e il socialismo, e trasferitosi a Caltanissetta tessé la rete clandestina del Pci. Nella cellula clandestina Macaluso ritrovò Leonardo che, pur senza tessera, attingeva a libri proibiti dal «compagno bibliotecario» – si chiamava Michele Calà, e morì sotto le bombe per mettere in salvo quei libri. Se la storia non si fosse complicata, Macaluso avrebbe potuto fermarsi: da che parte poteva stare, Leonardo, se non dov’era chi moriva «per un pugno di libri»?
Il tempo del fascismo fu l’ultima stagione della vita che non visse da «eretico». Da allora, lo fu sempre, fin dall’immediato dopoguerra. E se votò Pci fino a metà anni Settanta fu in adesione a quel paradosso di Brancati, secondo cui «in Sicilia, per essere liberale, bisogna votare almeno comunista». Tra Brancati e Boccadutri – tra lo scrittore e il minatore – era lo spazio di passione ideale e umana in cui quella coscienza «politica» inquieta trovò a lungo approdo. Nel partito di Li Causi, quello di «né mafia, né Mori»: formula che racchiude i capisaldi di un ideale che legò e lega Macaluso e Sciascia – e con la forza della sua arte espresse in quel capolavoro che è Il giorno della civetta, equivocato ancora oggi dai «cretini» (o dagli «intelligenti in malafede»). Per il resto, la distanza politica tra Sciascia e il Pci era ben chiara: e tra Macaluso e Sciascia, il comunista “togliattiano” artefice dell’«operazione Milazzo» e l’intellettuale che ripudiava ogni «compromesso» col potere. Il Potere fu la sua ossessione. Ossessione che spiega la sua contrarietà a un Pci «di governo» e, per altro verso, molto dopo, spiegherà Il contesto: i momenti di più grave dissenso dal Pci. Dissensi non annullati nemmeno negli anni in cui si candidò al Consiglio comunale di Palermo e fece campagna per le politiche col Pci, illuso dai giovani dirigenti «intransigenti» che la politica del «compromesso storico» non avrebbe attraversato lo Stretto. Le alleanze con la Dc, promosse con solerzia da quegli stessi dirigenti siciliani, furono vissute da Sciascia come un inganno. Probabilmente da lì, per Macaluso, scaturì anche una specie di risentimento personale che segnò la fine del rapporto col Pci, fino ad allora nutrito da scontri ma da un dialogo e un rispetto costanti, e la «felicissima» e «liberatrice» adesione ai radicali. E poi le lacerazioni su Moro e il terrorismo.
Macaluso ritesse il filo di una «conversazione interrotta» e si sofferma infine sull’attualità «politica» di Sciascia, su temi come la mafia e la giustizia, denunciando l’appropriazione indebita che ne ha fatto la destra dell’impunità ad personam e del garantismo bestemmiato. E si chiede se la tensione sciasciana per la giustizia è archiviabile per una sinistra democratica. Commentando lo scritto largamente travisato sui professionisti dell’antimafia (o gli articoli memorabili in difesa di Tortora e di Adriano Sofri) e le reazioni scomposte e infami che seguirono, dà il senso di una battaglia che vale ancora, a partire dalla denuncia del cedimento culturale di una sinistra che, come avrebbe detto Sciascia, «ha sostituito la bilancia della giustizia con le manette». Su questo – dopo Berlusconi, magari – potrebbe venire il tempo di un ripensamento. E a partire dal libro di Macaluso, molto è da cominciare a rileggere, e a ripensare. Sapendo, però, che fare i conti con lo Sciascia «politico» e «civile» impone di risalire alla sua visione del mondo, della libertà dell’uomo che non può mai prescindere dalla «giustizia» e dalla «verità». E dalla «memoria», vorremmo dire: decisiva per Sciascia, decisiva in questo libro. C’è qualcosa di strettamente personale, nell’affetto sempre serbato tra Leonardo ed Emanuele, che riaffiora nei giorni angosciati dell’agonia dello scrittore e che risale, forse, al ricordo dell’amicizia tra suo fratello Giuseppe e i fratelli Macaluso (compagni di scuola). Il suicidio di Giuseppe, ventenne, in zolfara, segnò col dolore più fondo e taciuto la vita intera di Leonardo. Quel vincolo della memoria, forse, precedeva persino quello maturato nella clandestinità. Tempo in cui, come mai più per Leonardo (e per Emanuele), la politica coincise con le relazioni umane e con la dignità: con gli uomini, «i Boccadutri»...

Repubblica 25.10.10
I frutti avvelenati del berlusconismo
di Guido Crainz


Oggi anche la personalizzazione della politica mette a nudo ragioni private e incompatibilità con un sistema di regole
La declinante credibilità del premier è legata al crescere di insicurezze e delusioni

Non poteva esser peggiore il ritorno sulla scena del premier dopo una brevissima assenza. Aveva posto al centro una forte accelerazione sul terreno della giustizia, preannunciando una riforma già pronta e rispolverando sin la legge-bavaglio, ma nel giro di poche ore ha dovuto registrare una durissima battuta d´arresto. L´ineccepibile intervento del Presidente della Repubblica ha posto in nuova evidenza alcune implicazioni di fondo e al tempo stesso l´arrogante imperizia anticostituzionale del Lodo Alfano.
Dal canto suo Gianfranco Fini ha poi ribadito quella posizione di fermezza che per un attimo era sembrata meno limpida e intransigente (e l´incertezza aveva provocato diffuse proteste nella sua stessa area).
Una nuova sconfitta per il premier, dunque, che lo frena su un terreno decisivo e che frustra sul nascere il tentativo di stringer le file della maggioranza con una nuova forzatura: tentativo non rimandabile, perché nei giorni precedenti essa era sembrata quasi dissolversi in mille rivoli e tensioni. Non più calamitati dal protagonista del dramma, i riflettori avevano illuminato meglio un confuso agitarsi di spezzoni e gruppi, facendo risaltare per contrasto - annotazione poco confortante - la prepotente solidità del polo leghista e l´accresciuto decisionismo di Giulio Tremonti (l´unico che può prefigurare un "dopo Berlusconi": di qui i primi cenni di insofferenza del premier nei suoi confronti). I sussulti più recenti - con il vacillare dei tre coordinatori e il disorientato vagare degli ex colonnelli di An - si sono solo aggiunti a deterioramenti e derive precedenti. Si pensi alla assoluta mancanza di pudore che ha segnato la vicenda dell´inquisito - e poi condannato - "ministro per un giorno" Aldo Brancher, o alla protezione parlamentare garantita ad un indagato per camorra come l´ex sottosegretario Nicola Cosentino. O anche - per altri versi - alla scelta di Paolo Romani, "vicino" a Mediaset, per la sostituzione di Claudio Scajola. Appaiono semmai corpi estranei alla maggioranza i pochi esponenti che non fanno organicamente parte del sistema, per dirla con Denis Verdini: lo ha confermato la denuncia dell´onorevole Pisanu sulle ultime liste elettorali - «gremite di persone che non sono degne di rappresentare nessuno» - e ancor di più il gelo che l´ha accolta.
In altre parole, l´appannarsi della leadership di Berlusconi ha fatto emergere sempre di più i contorni del ceto politico che in essa ha cercato legittimazione e potere. E quella leadership ha la sua residua forza nella fragilità delle alternative, interne o esterne al centrodestra, più che nel consenso reale del Paese: ce lo ricordano i dati stessi del suo ultimo successo, alle regionali di qualche mese fa. Con un "non voto" giunto al 40% del corpo elettorale - sommando astensioni, schede bianche e nulle - ha scelto il Popolo della Libertà il 16% degli italiani con diritto di voto: uno su sei. Grazie alla legge attuale, e all´alleanza con la Lega, questa percentuale può però garantire la maggioranza in Parlamento. Può permettere a Berlusconi di continuare un percorso che ha come scopo e approdo l´accentramento del potere e uno stravolgimento profondo degli equilibri e degli assetti istituzionali. Oggi quel percorso è molto più accidentato di prima e il tempo non gioca a favore del premier: di qui il carattere sempre più esasperato che le sue scelte sono destinate ad avere.
Conviene dunque interrogarsi meglio sul sostanziale incrinarsi dell´egemonia berlusconiana. Non sembra dovuto, per la verità, ad una più ampia e prorompente indignazione sul terreno dell´etica privata e pubblica: difficile attenderselo, del resto, in una società che in questi anni ha visto diffondersi semmai l´indifferenza, se non l´estraneità, alla legalità e alle regole del vivere collettivo. Il declinare della credibilità del premier sembra connesso piuttosto al crescere di insicurezze e di delusioni, e al progressivo franare del terreno che ne aveva costituito la base di partenza: la capacità di sostituire la "rappresentanza " con la "rappresentazione". Di proporre una narrazione rassicurante, anche se evanescente e fittizia. Nei primi anni novanta, inoltre, la personalizzazione stessa della sua proposta politica sembrava rispondere in qualche modo ad umori reali, provocati dal crollo della "prima repubblica". Trovava alimento nelle reazioni a una "partitocrazia" sempre meno tollerabile. Oggi quella personalizzazione mette a nudo più che in passato le sue ragioni private e la sua incompatibilità con un orizzonte di regole. Più ancora: la rottura stessa delle regole - che inizialmente parve una risorsa ad ampi settori sociali, attivati dalla promessa di un "nuovo miracolo" - amplifica oggi solo incertezze, inquietudini e paure.
Questa è l´ultimo, avvelenato frutto del quindicennio che abbiamo vissuto: un Paese che ha visto aumentare distorsioni sociali, culturali ed etiche per impulso dei modelli e dei miti alimentati dal premier è ora scosso non superficialmente dalla loro crisi. E, in assenza di alternative, il tramontare dei miti dà rinnovato impulso al ripiegamento individuale e agli egoismi di ceto.
In assenza di alternative: questo è il nodo sotteso all´intero scorrere dei problemi, e mai il centrosinistra è parso così inadeguato come negli ultimi mesi. Incapace di rivolgersi ai suoi stessi elettori, ha mostrato un personale politico lacerato da conflitti morti da tempo, appassito nelle sue sconfitte e restio perfino a riflettere su di esse. Sordo nei confronti della società. Incapace di misurarsi con le colossali trasformazioni del mondo del lavoro (una carenza che lo segna ormai da tempo) o di offrire proposte di lungo periodo sui terreni decisivi dell´istruzione e della formazione. Il suo sguardo sembra essersi sempre più ristretto a quel che si muove fra le macerie del sistema politico; sembra lasciar fuori dal suo spettro visivo quella parte degli italiani che - per buone o cattive ragioni - da quelle macerie si è ritratta. Una parte amplissima, che va anche oltre quel quaranta per cento che qualche mese fa non ha votato o ha annullato la scheda. La deriva non può essere arrestata o frenata se non si parla anche a questa parte del Paese. E se non si fa comprendere realmente e concretamente al Paese nel suo insieme che il bene pubblico può essere perseguito in un modo molto diverso da quello con cui si è governato in questi anni. Diverso, anche, da quello con cui si è fatta opposizione.

Repubblica 25.10.10
L'avventura presidenzialista
di Adriano Prosperi

La fuga presidenzialista, come Massimo Giannini l´ha definita, è per ora una fuga verso le ombre di un domani incerto e avventuroso. Il discredito seminato a piene mani sui riti della politica del passato e il peso dei suoi fallimenti alimentano da tempo un confuso desiderio di cambiamento: quello generazionale, per esempio. Più giovani ci vogliono, dice la vulgata giovanilista dei partiti, che non si pongono però il problema di come ringiovanire e rinvigorire la loro proposta politica. E intanto si scatena la fantasia sulle forme di svecchiamento delle istituzioni.
Per esempio, quello che si muove intorno alla riforma della giustizia è uno strano insieme dove ricompare in nuova veste e da destra l´accusa alla «giustizia di classe» di sessantottesca memoria oggi diventata ripulsa e rivolta interclassista contro ogni forma di vecchiume togato e privilegiato, nutrita dell´insoddisfazione generale per le lentezze dei riti giudiziari. E una massiccia campagna di disinformazione impedisce ai più di cogliere il fatto che questi umori diffusi vengono dirottati nel vicolo della protezione di un uomo in fuga dalla giustizia, pronto a stravolgere l´ordinamento del paese per i suoi fini personali.
Ma intanto il percorso battuto dal partito del premier è costretto dalla forza delle cose a seguire una logica eversiva del sistema costituzionale italiano: una logica che in forme nuove ripropone un meccanismo di capovolgimento dell´assetto democratico del paese di cui conosciamo un precedente importante. Proprio in questi giorni giunge in libreria un prezioso libretto dove un grande esperto dei problemi dello Stato come Sabino Cassese ha raccolto le sue lezioni agli studenti della Scuola Normale di Pisa su Lo Stato fascista (Il Mulino, Bologna).
L´analisi di Cassese è dedicata alle forme elaborate dal fascismo evitando ogni definizione astratta – regime totalitario? autoritario? corporativo? È un avvertimento da seguire. Non si tratta di definire o di catalogare niente, né il fascismo di ieri né il regime berlusconiano. È la logica istituzionale che si deve cercare di capire. E le forme analizzate da Cassese ci dicono qualcosa sul modo in cui il regime di Mussolini si inserì nella evoluzione dello stato liberale, ne riutilizzò abbondantemente i materiali, dette vita a un modello di concentrazione del potere che però si aprì anche a forme di pluralizzazione.
La scansione delle tappe di quella costruzione, che fu efficiente e funzionò a suo modo per un ventennio, ci pone davanti alle tappe successive di una legge che dette un premio di maggioranza assoluta a chi raggiungeva il 25% dei suffragi (legge Acerbo); di una trasformazione successiva del regime maggioritario in regime plebiscitario; della metamorfosi della Camera elettiva diventata una rappresentanza organica e rappresentativa ma non elettiva. L´identificazione del partito con lo stato si avvalse del rifiuto del conflitto politico come malattia da eliminare. Agli inizi di questo percorso troviamo una legge del 1925 che «mise il Presidente del Consiglio dei Ministri su un livello superiore ai ministri, nel nuovo ruolo di primo ministro e di capo del governo».
Potremmo seguire ancora l´analisi asciutta e illuminante di Cassese. Ma fermiamoci qui a riflettere sulla revisione costituzionale verso la quale si sta marciando a tappe forzate. Essa porterebbe alla affermazione di un «premierato elettivo». Sfruttando l´impulso demagogico (o meglio l´astuzia eversiva) di inserire il nome di Berlusconi nella scheda elettorale si è dato corpo all´idea erronea di una elezione diretta del presidente del Consiglio da parte del popolo. Oggi ci si dice che all´«eletto del popolo» spetterebbe non solo la copertura del lodo Alfano ma anche il potere di impedire al presidente della Repubblica di affidare l´incarico di formare il governo a chiunque altro che non sia stato consacrato dalla plebiscitaria elezione popolare. In un colpo solo ritroveremmo dunque quella «personalizzazione istituzionalizzata del potere» che fu il carattere distintivo del regime mussoliniano. E queste considerazioni si fanno – deve essere chiaro – non per esorcizzare la minaccia con l´uso della parola «fascismo» come manganello terminologico, ma perché l´esperienza del passato va tenuta presente. Quando l´incertezza del futuro assetto del paese ci prende alla gola con un´ansia che non avremmo mai immaginato di dover provare, bisogna saper ricorrere agli strumenti della scienza, quella storiografica unita a quella delle scienze sociali e giuridico-istituzionali, per fendere la nebbia che ci circonda.


Repubblica 24.10.10
Ed, il compagno loda Nichi su Facebook


FIRENZE - Su facebook mette la frase che forse più lo ha emozionato della relazione di Nichi ad apertura del congresso di "Sel": «Torniamo alla bellezza delle relazioni, a quell´accogliersi tra generi, tra generazioni, la bellezza dell´incontrarsi tra il mondo vivente e quello non vivente...». Ed, il compagno di Nichi Vendola, ne fa una frase-dedica. Presente ma riservato. Nichi di lui ha parlato in qualche intervista ma qui, al congresso - camicia, jeans e scarpe da ginnastica - Ed sfugge i riflettori e i cronisti. Per lui, italo-canadese, 33 anni, un master in progettazione e una carriera di creativo, tra pubblicità e media, la privacy è un bene supremo. La storia con Vendola è consolidata da qualche anno e con un patto: quello della discrezione. Ma ora che Vendola e Sel «vanno di moda» - come ironizza lo stesso Nichi - gli tocca fare i conti con la popolarità e la curiosità mediatica. (g. c.)

l’Unità 24.10.10
Il compagno di Nichi
Ed c’è ma non si fa vedere
di Andrea Carugati


Non è la prima volta che Ed, 33enne fidanzato italocanadese di Nichi Vendola, scorta il suo compagno ad un congresso. C’era già a Chianciano, quando Nichi perse a sorpresa il congresso del Prc contro Paolo Ferrero. Andò con la mamma, pugliese trapiantata in Canada tanti anni fa, dove il ragazzo è nato e ha studiato marketing alle università di Ottawa e Montreal.
Qui a Firenze, al congresso di Sel, c’è una novità perché da poco Nichi ha parlato di lui, in un'intervista al settimanale Chi. Ha raccontato che vivono insieme da anni a Terlizzi, vicino Bari, la città natale del governatore. «Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena», ha spiegato. Stanno insieme dal 2004, Ed ora ha anche un ruolo nello staff del candidato: art director della sue fabbriche. È un creativo, dopo il ritorno in Italia ha preso un’altra laurea in progettazione visiva e design della comunicazione. Sta dietro le quinte, è superpresente ma nell'ombra. Quando spuntano le telecamere lui si dissolve. Ieri, riuscire a raggiungere Nichi per pranzo è stata un’impresa: telefonate, sms con le ragazze dello staff, che lo coccolano come un fratello minore. «Ed, raggiungici dove siamo scesi stamattina». Lui, capelli corti e scuri, un filo di barba, camicia bianca, jeans e sneakers grigie, è spuntato da dietro il palco. La macchina di Vendola era già arrivata, lui ha fatto per avvicinarsi, uno sguardo, una parola sussurrata, un braccio sfiorato. Poi il governatore è salito in macchina, lui no. È salito dietro l'angolo, lontano da occhi indiscreti. Un'abitudine complicata ma ormai consolidata. «L'amore che non osa definire il proprio nome», aveva detto Vendola nella sua relazione, citando Oscar Wilde, per descrivere «il dolore del silenzio di tanti omosessuali, lesbiche, trans». E aveva citato anche la gioia «quando si rompe quella barriera del silenzio». Vendola è stato tra i primi politici italiani a fare coming out. Non ha mai nascosto la sua biografia, anzi ne ha fatto un punto di forza. Anche stavolta è così: il suo privato si disvela poco a poco, senza forzature. Si protegge, anche.

Corriere della Sera 24.10.10
Eddy scatta foto in platea Il compagno del leader da Montreal a Terlizzi
Il creativo italo-canadese preferisce evitare la notorietà


FIRENZE — È venuto anche Ed, il compagno di Nichi Vendola, al congresso. Fa le foto agli ospiti importanti, Epifani, Landini, con la piccola automatica e con la reflex. Alla fine del lungo discorso di apertura, Nichi, nel retropalco, sudato e contento, cercava anche lo sguardo di Ed, che prima di cominciare gli aveva dato i suoi consigli. Eddy ha superato la trentina, ha i capelli neri corti, lo sguardo curioso e appassionato. Maglione blu, camicia bianca, jeans, sneakers. Tutta la corte degli amici e dei collaboratori di Nichi lo protegge, gli crea attorno uno schermo invisibile, e respinge le domande perché Nichi, come si è detto da solo, «va un po’ di moda», ma Ed che c’entra? Coccolato, anche, come fosse il figlioccio di tutta la prima linea della sinistra, qui risorta. «Voglio una mia foto scattata da te, foto di Eddy», gli dice Ciccio Ferrara, grande organizzatore del nuovo partito Sinistra ecologia e libertà. Lui si muove veloce, sfuggente, vuole esserci, però senza farsi riconoscere.
All’ora di pranzo Eddy e Nichi si parlano rapidi, si separano, si rivedranno.
Ha detto Vendola: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». Nichi ha confessato a Chi, il settimanale rosa che fa capo a Berlusconi, di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni, ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?». Adesso Vendola dice che quella cosa è stata un po’ estorta, che i cronisti hanno battuto il paese alla ricerca di pettegolezzi, ma è pur vero che l’operazione di farsi fotografare e intervistare sul privato da un giornale «ostile» era densa d’insidie.
Eddy qui al congresso di Sel è inserito nell’organizzazione, lui lavora nelle «Fabbriche di Nichi», che cercano di realizzare in tutta Italia interventi civici, per migliorare l’esistenza quotidiana. È quel che si dice un «creativo»: freelance graphic designer and creative consultant, si definisce, visto che è italo-canadese. Ha studiato presso la Concordia university di Montreal, alla Ottawa university e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico e ha realizzato uno spettacolo «VianDante, viaggio dal Paradiso all’Inferno, andata e ritorno».
È impaurito da una possibile notorietà, Ed, perché i passi avanti, in Italia, sulle coppie omosessuali sono stati enormi, ma non siamo ancora alla pari dignità con la famiglia tradizionale. Vendola venerdì, dal palco, ha lanciato più di un messaggio. Ha citato Oscar Wilde: «L’amore che non osa definire il suo nome». Ha parlato della condizione «atopica», di chi è «senza luogo», gay, trans, travestiti. Ha detto che «la bellezza è anche questo, rompere il silenzio, ritrovare le parole...». Vendola gioca da sempre la sua partita politica rivendicando ogni contraddizione della sua vita. Il rosario in tasca, l’orgoglio della diversità. Ma Ed? Ieri pomeriggio è andato via dal teatro Saschhall, sede del congresso, a riflettere sul peso della fama, quand’anche sia di riflesso.

Corriere della Sera 24.10.10
L’alleato del Pd? Il 60% vuole Nichi


Entrambi i partiti maggiori, Pd e Pdl, si trovano in questo momento in difficoltà. Tutti e due hanno visto, nelle ultime settimane, un calo dei consensi espressi dagli elettori nei sondaggi. Questo stato di cose è particolarmente sorprendente per il Pd, in quanto l’opposizione trae normalmente vantaggio dalla crisi che, quasi sempre, connota la maggioranza dopo qualche anno di governo.
Ciò che, secondo gli elettori, manca oggi al Pd e lo rende relativamente poco attraente per il voto è principalmente l’assenza di chiarezza sulla proposta politica, sulle alleanze ipotizzate in vista di eventuali elezioni e, in una certa misura, anche sulla leadership. Bersani, l’attuale segretario, è molto stimato dagli elettori del suo partito. Il suo livello di gradimento supera, tra i votanti per il Pd, il 90% e raggiunge uno dei livelli massimi (44%) anche considerando la popolazione nel suo complesso. È particolarmente stimato anche dagli elettori dell’Idv, sua attuale alleata, ma trova larghi consensi perfino nella base dell’Udc (44% di giudizi positivi) e di Fli (50%). Negli ultimi mesi, tuttavia, la leadership del segretario è minata dalla ascesa di popolarità di Nichi Vendola, che ha di recente ribadito di volersi presentare alle primarie del partito. Anche Vendola gode di un largo seguito tra gli elettori del Pd (78%), seppure inferiore a quello di Bersani. Ma è molto significativo che eguagli addirittura la popolarità di quest’ultimo nell’insieme dell’elettorato, con un forte incremento (3%) proprio nelle ultime settimane. Questa sovrapposizione dei consensi rende difficile dire oggi chi vincerebbe in caso di primarie. Ma nuoce in una certa misura all’immagine complessiva del partito.
A questo stato di disunità si sovrappone la questione delle alleanze. Sulla quale si registrano una molteplicità di posizioni assai differenziate e, spesso, contraddittorie. Alla richiesta «con chi sarebbe opportuno che si alleasse il Pd alle prossime elezioni politiche?», solo una quota minoritaria, pari a quasi un quinto (18%) dei votanti per il Pd propone, come suggeriscono alcuni dirigenti del partito, di correre da soli. Tutti i restanti indicano, invece, una forza politica con cui accordarsi. Una quota molto minoritaria (4%) auspica addirittura di allearsi con chiunque lo voglia. Ma più della maggioranza assoluta (60%) dei votanti per la formazione di Bersani preferisce proprio Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola. Questa opzione raccoglie più consensi di quanti (56%) ne conquisti l’ipotesi della prosecuzione dell’accordo con l’Idv di Di Pietro. Assai meno attrattiva pare, per l’elettorato del Pd, l’idea di una apertura verso il centro, alleandosi con l’Udc di Casini (la auspica il 39%) e, meno ancora, quella di un accordo con Alleanza per l’Italia di Rutelli (indicata dal 30%) o con l’Fli di Fini (suggerita dal 25% dei votanti per il Pd).
Molte di queste indicazioni di alleanza si sovrappongono tra loro, poiché gli intervistati potevano suggerire anche più di un’opzione e risultano le combinazioni più diverse e disparate. Ciononostante, dall’insieme delle risposte, si rileva come l’orientamento, esclusivo o non, verso la sinistra superi quello verso il centro (anche se quasi un terzo propone di allearsi con entrambi).
Naturalmente, è fisiologico che in un partito convivano una pluralità di opinioni, anche diverse tra loro. Ma il quadro che emerge dal complesso delle dichiarazioni dei votanti attuali per il Pd sembra talvolta mostrare la prevalenza sulla stessa coesione del partito di componenti anche fortemente contrapposte. Ciò che finisce col ledere l’immagine complessiva, allontanando molti dei numerosi elettori oggi indecisi o tentati dall’astensione. La cui conquista, come si sa, costituisce il fattore principale per vincere le elezioni.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L’obiettivo primarie. Difficile ma non impossibile la vittoria su Bersani, altro discorso è la possibilità di successo alle elezioni
Un leader ambizioso per un partito fermo al 3%


Una democrazia competitiva per funzionare bene ha bisogno che tutti i partiti rilevanti del sistema politico abbiano voglia di governare. Sembra una banalità ma ieri Vendola lo ha ricordato a suo modo alla sinistra italiana che per anni non si è veramente posta il problema di vincere le elezioni per andare al governo. Quello che ha detto il leader Sel non è una novità. E proprio su questo punto che si è consumata dopo l'esperienza negativa del governo Prodi l'ennesima scissione della sinistra italiana. E stato al congresso di Rifondazione comunista a Chianciano nei 2008 che è nato il movimento di Vendola dopo uno scontro molto aspro con la sinistra antagonista di Ferrero. A Firenze questa scelta è stata confermata con forza e rappresenta un'altra tappa di un processo storico che va avanti da più di un secolo. Passo dopo passo, scissione dopo scissione, la sinistra italiana si è progressivamente inserita a pieno titolo tra le forze di governo del Paese. A questo punto ne restano fuori Rifondazione Comunisti ltaliani, e le formazioni della sinistra più radicale.
Posto che l'obiettivo è quello di "vincere bene" si tratta di vedere come raggiungerlo. La ricetta di Vendola è coerente con la strategia di fondo. Servono alleanze, le più larghe possibili. Da questo punto di vista il leader Sel è l'erede di Prodi. La sua proposta in pratica è quella di una Unione di tutte quelle formazioni "orientate al governo" che in questo momento stanno all'opposizione. Quindi tutti dentro tranne chi ‑ come la Federazione della sinistra ‑ si è per ora dichiarata fuori. Con quale programma? Basta come denominatore il comune desiderio di mettere fine al berlusconismo? In che modo la sinistra moderna di Vendola si può sposare con il moderatismo di centro di Casini? Non si sa. Ma il programma è una cosa e la leadership un'altra. Fino ad oggi non si era mai visto a sinistra un leader con la personalità di Vendola. Un mix di linguaggio, caratteristiche personali, capacità  di coniugare valori di sinistra e pragmatismo politico. Vendola ha tutte le caratteristiche del grande leader tranne una: il suo è un piccolo partito.
Nelle elezioni europee del 2009 Sel non è arrivata ad un milione di voti, il 3,1%. Se raffrontato ai 1.124.428 voti presi nelle politiche del 2008 dalla Sinistra arcobaleno (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) è un buon risultato ma si tratta comunque di una cifra modesta. Più o meno la stessa percentuale è stata ottenuta nelle regionali di questo anno. Ma in questo caso facendo il confronto sulle tredici regioni in cui si è votato anche alle europee si vede ci alla stessa percentuale di voti fl( corrisponde lo stesso numero elettori (830.636 contro 679.084 Solo in Puglia Sel ha fatto meglio nel 2010 rispetto al 2009. ma anche in questa regione dove Vendola  gode di grande visibilità il suo partito non ha superato il 10% dei voti. Né i sondaggi più recenti ci dicono che le cose sono cambiate te di molto a livello nazionale. I comportamenti elettorali hanno la loro vischiosità.
Sel è ancora il piccolo partito di un grande leader. E questo spiega il resto della strategia di Vendola. Più del partito contano le primarie SeI è un "partito a termine", destinato a confluire in un'altra formazione. Vendola lo ha detto chiaramente a Firenze. La prima tappa di questo processo saranno le primarie del centrosinistra poi la designazione del candidato premier. Per Vendola sono una necessità e una grande opportunità. Nello stato di disorientamento in cui si trova oggi il popolo di centrosinistra tutto è possibile. Anche che si ripeta l'esito delle primarie pugliesi con Bersani al posto di Boccia. E difficile ma non impossibile, soprattutto se in corsa ci sarà più di un candidato Pd. In ogni caso per Vendoia rappresentano un grande palcoscenico e un trampolino per costruire la sua leadership a livello nazionale. Comunque vadano a finire, per lui saranno una vittoria. Che con lui come candidato premier possa vincere il centrosinistra è tutta un'altra storia.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L'agenda economica. L'obiettivo di guardare oltre la fabbrica ai listini di Borsa
Lavoro ma anche finanza Il «salto» tra Nichi e Fausto
La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager
di Lina Palmerini


La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager


Lavoro e finanza: un luogo tradizionale e uno inedito per la sinistra ma comunque il terreno dove Nichi Vendola traccia la sua rotta alternativa. E proprio su queste due strade, dove i cambiamenti sono stati più forti e gli eventi imprevedibili, che si consuma anche il salto generazionale tra Nichi e Fausto.
C'era una volta Fausto Bertinotti, leader carismatico di Rlfondazione comunista e presidente della Camera, che riceveva nel suo studio a Montecitorio Sergio Marchionne. E sempre in quei giorni di quegli anni, si sentì anche dire dallo stesso: «Sì, stimo Marchionne perché una delle prime cose che ha detto è che il valore di un manager non si misura dalla capacità di licenziare ma nel difendere la compagine lavorativa». E, in effetti, una delle cose che l'ad di Fiat non metteva in discussione all'epoca era la chiusura degli stabilimenti in Italia. Era il 2007, sono passati poco più di tre anni, un soffio nella vita di chiunque, un'era geologica per l'economia e la politica.
Oggi la sinistra di Nichi Vendola riparte ancora dalla Fiat. Ancora da Marchionne che nel frattempo ha chiuso Termini Imerese e ha ingaggiato un braccio di ferro con la Fiom sul contratto. «Melfi e Pomigliano diventano cartelli stradali che segnano la via per capovolgere la destra in Italia. Marchionne ‑ diceva Vendola nel suo intervento di venerdì ‑ ha un'idea di modernità regressiva nel sociale». Un attacco perfetto per delineare la nuova rotta della sinistra che si fonda e si fonde con il lavoro. Sono due i pilastri della proposta di Sinistra e libertà: superare la legge 30 quella sulla flessibilità e limitare drasticamente il ricorso ai contratti a tempo rendendo davvero normale la pratica dell'assunzione indeterminata. Dunque, la norma prima ancora che i costi.
Un approccio che certo scavalca il Pd e anzi separa le due strategie. Quella di Pierluigi Bersani che intende colpire la convenienza economica dei contratti flessibili ‑ parificandone il costo a quelli stabili ‑ mentre quella di Vendola somma via legislativa.e svantaggio economico per marginalizzare la precarietà dal mercato. Questo è l'approdo ma l'avvio è quella che Vendola ha chiamato «la bellissima piazza della Fiom». E dunque la battaglia della Cgil contro la Fiat a difesa dei diritti e del contratto nazionale. E la pressione sul sindacato per farlo tornare al suo ruolo antico del conflitto diversamente da Cisl e Uil «sussunto a parastato», come li ha definiti Vendola.
Ma la fabbrica non è più l'unico luogo della sinistra. E qui sta ancora H salto generazionale tra Bertinotti e Vendola. Oggi la sinistra guarda oltre i cancelli, guarda alla Borsa, ai listini. Non solo contratti e sciopero ma pure hedge fund e short selling entrano nel lessico. E qui l'agenda di Nichi parte dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie per passare a una nuova «separazione tra banche di risparmio e banche di affari» e poi tornare a «limitare stock option per manager» e, infine, chiedere di «frenare hedge fund e i credit default swap» e vietare lo short selling.
Il lavoro è il "cuore", la finanza è il "nuovo luogo" ma il fìsco è il cervello, la razionalità che deve portare a una nuova distribuzione della ricchezza contro un «capitalismo predatore», come si legge nel Manifesto di Sinistra e Libertà. E sulle tasse si ricompatta il mondo di Nichi con quello del Pd. Il fisco è da sempre la koinè ‑ come direbbe Vendola del centro‑sinistra tant'è che qui le distanze quasi si annullanno. E infatti oltre la proposta di una tobin tax, c'è l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie ad avvicinarli: entrambi vogliono aumentarla dal 12,5 al 20% per alleggerire l'Irpef a partire dai ceti più bassi. Una tassa che, nelle idee di Alfonso Gianni, responsabile economico di Sel e tra gli estensori del Manifesto, dovrebbe colpire anche i Bot dando però una franchigia al piccolo risparmio. Ma già una volta, nel 2006, questo fu l'inciampo dell'Unione.

domenica 24 ottobre 2010

il Fatto 24.10.10
A destra della destra
In tutti le Nazioni europee si assiste impotenti a un attacco contro i governi centrali, il problema è l’immigrazione, le culture diverse sono sorvegliate alla stregua di un potenziale pericolo
di Furio Colombo


Propongo una domanda che mi sembra importante: il multiculturalismo (ovvero la convivenza politica della mia e della tua cultura, della mia e della tua radice) è fallito perché il mondo occidentale e democratico si sta spostando a destra, oppure il mondo si sta spostando a destra e dunque deve dichiarare fallito il multiculturalismo perché ogni destra tollera male le diversità? Prendo lo spunto da una frase di Angela Merkel (“Il multiculturalismo è fallito”), che Angelo Panebianco usa in apertura del suo editoriale “Musulmani d'Europa” (Corriere della Sera, 21 ottobre) e che apre un inventario del presente. Punta sulle difficoltà (il dramma è vero, la xenofobia dilaga in Europa) e si conclude con un augurio (la parola “speranza”) e la quasi certezza che (però, invece) bisognerà ascoltare Angela Merkel. Il fatto è che Angela Merkel un premier senza maggioranza e sempre nel turbine del clima elettorale è una candidata che sta seguendo il corteo della paura, invece di battersi in nome di una visione del futuro. Ma restiamo all'argomentazione di Panebianco. È una argomentazione cauta, ma ruota intorno alla frase: “Il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia”. Per chiarezza ripete: “Il multiculturalismo non è politica adatta per le democrazie europee”. Occorrerebbe approfondire il senso della frase. Vuol dire che qualcosa di specifico (difetto, carattere storico?) nelle democrazie europee rende impossibile ciò che è possibile negli Stati Uniti e in India, due mix formidabili di tante culture; ma non nel più sfortunato Pakistan, un mondo tutto islamico, omogeneo ed identitario eppure dilaniato dalle stragi?
CREDO CHE si metterebbero in imbarazzo sia Angela Merkel che Angelo Panebianco con la seguente domanda: vi sono più rivolte e tensioni sociali, scontri e conflitti, dove il multiculturalismo è la regola o dove c'è, del multiculturalismo, poca o nessuna traccia? Consideriamo l'Europa monoculturale dal 1945 in avanti (e dunque fingiamo per un momento di non sapere che cosa è accaduto in questa stessa Europa monoculturale negli ultimi due secoli). I conflitti che hanno o potevano dilaniare Stati democratici sono avvenuti dentro l'Irlanda (protestanti e cattolici, unionisti e indipendentisti) dentro la Spagna (la questione basca e l'Eta), nel Sud Tirolo-Alto Adige. Quest'ultima è la sola regione che ha scampato lo scontro e la strage, grazie a una soluzione multietnica e multiculturale dovuta ad Alcide De Gasperi, che fino ad ora ha tenuto. Qualcuno ricorderà la forte ostilità con cui – per un lungo periodo – la destra italiana (allora incarnata dal Msi e poi da An) ha espresso rifiuto e disprezzo per la soluzione multiculturale altoatesina. Ma questo ci ricorda un problema della destra, non del multiculturalismo. Non ricordo che il sanguinoso e protratto conflitto dentro l'Irlanda tra irlandesi e irlandesi e tra irlandesi e inglesi, sia mai stato discusso come incompatibilità di culture non riconducibile a un condiviso dibattito democratico. Non ricordo che vi siano state interpretazioni del conflitto basco altro che come indipendentismo e nazionalismo. Sono tutte situazioni in cui la comune eredità storica e culturale non ha impedito né l'attentato né l'assassinio mirato né la strage. Non impedisce neppure l'equivoco. La strage di Madrid (11 marzo 2004) è stata creduta per molte ore come un delitto del nazionalismo basco, tardando di quasi un giorno ad identificare la matrice islamica internazionale. Ma veniamo a fatti dei nostri giorni che segnalano fratture profonde fra cittadini (cittadini della stessa cultura e radice storica) e Stato. Inevitabile ricordare la lunga rivolta dei giovani greci, iniziata il giorno dell'uccisione – da parte della polizia di quel paese – di uno studente di 15 anni, rivolta tutt'altro che finita; l’accanita e violenta opposizione di massa dei cittadini francesi contro il loro presidente e la nuova legge sulle pensioni, una rivolta che dura e si allarga mentre scriviamo; la guerriglia urbana dei cittadini italiani della Campania contro soluzioni non condivise, imposte dal governo di Roma sentito come estraneo (al punto da bruciare la bandiera italiana), le marce dei pastori sardi, visti come alieni, ma decisi a far valere il loro diritto (il prezzo del latte quasi a zero) contro l'indifferenza dello Stato; tutto ciò preceduto, negli anni, da violentissime dimostrazioni di allevatori veneti, che hanno rovesciato tonnellate di letame sulle loro città e le loro autorità viste come nemiche. L'unica eccezione italiana a questa serie di rivolte monoculturali è, in apparenza, la rivolta nera di Rosarno (gennaio e agosto 2010) ma è stata una rivolta di bianchi contro neri, non il contrario. E infatti si tratta di una brutta storia xenofoba prontamente dimenticata.
ECCO DUNQUE il paradosso con cui ci confrontiamo. Parti monoculturali di importanti paesi europei sono in rivolta anche violenta contro lo Stato, in cerca di soluzioni impossibili e decise a non arrendersi. Culture diverse, insediate con l'immigrazione negli stessi paesi, decine di migliaia di donne o uomini che convivono e lavorano, ma che vengono sorvegliati come potenziale pericolo individuale e di massa (“gli immigrati il più delle volte delinquono” hanno detto insieme il capo del governo Berlusconi e il sindaco di Milano Moratti) sono visti da una parte degli intellettuali e commentatori italiani come rischio probabile e imminente di frantumazione del Paese, un pericolo dovuto al fatto che il multiculturalismo (ovvero la vita quotidiana in India o negli Stati Uniti) sarebbe – come dice Panebianco – “incompatibile con la democrazia”. Quando un partito di destra e xenofobo è al governo come in Italia (solo in Italia), molte risorse e forze militari e di polizia vengono dirottate a presidiare il pericolo immaginato, mentre i buoni cittadini con la stessa origine e la stessa cultura si scontrano, si attaccano, danneggiano, distruggono, resistono e – in certi casi – spietatamente uccidono, dall'Eta basca alla 'ndrangheta calabrese. Non esistono prove al mondo che il multiculturalismo porti lo stesso pericolo o lo abbia mai portato all'interno di uno Stato libero. Ci si interroga sul fondamentalismo islamico. Giusta domanda, giusta preoccupazione. A patto di estenderla agli altri fondamentalismi religiosi. Il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti è responsabile di attentati e di stragi con centinaia di morti negli ultimi 20 anni di vita americana. Ricordate la Chiesa Armata di Waco, in Texas, comandata dal “pastore” David Koresh, fatta esplodere il 29 aprile 1993 (più di 100 morti, la metà bambini) e la strage di Oklahoma City, 29 aprile 1995 (168 morti, un terzo bambini del locale asilo nido) attribuita a un gruppo dettoChristianIdentity,esecutoreil soldato McVeigh, parte di quell'organizzazione tuttora clandestina in America? I fondamentalismi religiosi, dall'Europa al Medio Oriente agli Stati Uniti, sono la grande minaccia, non i migranti che attraversano il mondo in cerca di rispetto e di lavoro. La cecità persecutoria delle destre e dei partiti xenofobi come la Lega Nord italiana, comincia qui. Quanto alle sinistre, occorrerebbe sentirne la voce.

l’Unità 24.10.10
Adolf Hitler e la colpa di un popolo
A Berlino Polemiche e dibattiti in Germania per la prima mostra sul Führer che mette al centro la fenomenologia del vastissimo consenso popolare del Terzo Reich. Tra busti in ghisa prodotti in serie e foto private del dittatore
di Gerardo Ugolini


A 65 anni dalla fine della guerra e dalla sua morte Adolf Hitler rimane per i tedeschi il fantasma maledetto, l’uomo nero, l’incarnazione del male assoluto con cui è ancora difficile fare i conti da una posizione di sereno distacco temporale. Ogni qualvolta viene pubblicata una nuova biografia o esce un film sul personaggio si scatena la bagarre di accuse e polemiche. L’ultima che tutti ben ricordano fu quella che accompagnò nel 2004 il film La caduta. Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschgiebel, con Bruno Ganz nella parte del Führer. Ora è la volta di una grande mostra storico-documentaria, la prima interamente dedicata al personaggio, che è stata inaugurata il 14 ottobre nella sede del Deutsches Historisches Museum, il Museo di storia tedesca di Berlino. Si intitola Hitler e i tedeschi. Comunità nazionale e crimine. Per quanto incredibile possa sembrare, si tratta della prima mostra, dalla caduta del nazismo ad oggi, che la Germania abbia allestito sul grande dittatore. Precedenti tentativi erano falliti, come quello intrapreso sei anni fa dallo stesso Museo di storia tedesca, che all’ultimo decise di rinunciare per evitare l’accusa di voler in qualche modo eroicizzare il Führer, o addirittura di attirare tra i visitatori frotte di nostalgici del regime nazista.
E per la verità anche per questa occasione non tutto è filato liscio. Gli organizzatori hanno infatti ammesso di essersi in parte autocensurati rinunciando ad esporre – in mezzo ai molti reperti, tra cui documenti, fotografie, manifesti di propaganda, libri e busti del dittatore – oggetti che potessero attrarre l’interesse nostalgico o addirittura feticistico di qualche neonazista. Perciò non sono esibite, per esempio, le uniforme militari del Führer, portate via dai russi nella primavera del 1945 e conservate a Mosca. Il curatore dell’esposizione, Hans-Ulrich Thamer, in un’intervista al settimanale Der Spiegel ha inoltre spiegato di aver rifiutato di esporre il grande ritratto di Hitler, dipinto nel 1939 e sequestrato in uno dei palazzi del tiranno dall’esercito americano, proprio per la suggestione che poteva esercitare sui neonazisti.
Queste limitazioni tolgono tuttavia ben poco al significato storico e politico della mostra che riesce a centrare l’obiettivo prefissato: inquadrare il Führer nell’ambito sociale, politico e militare in cui si trovò ad agire per provare a spiegare la sua rapida e irresistibile ascesa e per far luce sul mistero di quella malefica fascinazione che esercitò fino all’ultimo sul popolo tedesco nonostante la guerra e tutte le atrocità compiute. Tra gli oggetti dislocati negli spazi della mostra colpiscono i busti in ghisa del dittatore che venivano prodotti a milioni per decorare i tinelli delle famiglie del Reich devote al culto del leader supremo. Per capire fino a che punto la propaganda di regime avesse fatto breccia anche nei sentimenti religiosi della gente bisogna osservare un arazzo con la scritta «Portiamo in chiesa la croce uncinata!»: fu tessuto dall’Associazione delle donne evangeliche di Rotenburg an der Fulda e vi sono raffigurati dei ragazzi della Hitlerjugend, la «Gioventù hitleriana», che marciano insieme alle SA in una disposizione a forma di croce, mentre in un angolo è riportato il testo del Padrenostro. Gli organizzatori insistono molto sull’aspetto messianico che ha caratterizzato la parabola del dittatore nazista, ovvero la sua capacità di farsi identificare come un redentore da seguire ciecamente sempre e comunque. Ma per spiegare il rapporto tra il Führer e le masse non basta riferirsi al suo speciale carisma. Contano soprattutto i meccanismi di adesione, di mobilitazione e anche di esclusione, abilmente costruiti e regolati dal regime.
Tra i materiali iconici spicca una serie di istantanee scattate da Heinrich Hoffmann, il fotografo di fiducia del Führer, l’unico capace di ritrarlo da vicino nelle faccende della vita di tutti i giorni. Alcuni reperti sono curiosamente esposti in maniera sghemba, sospesi di traverso invece che poggiati in terra, come per esempio un dipinto che esalta spirito guerriero della comunità nazionale tedesca. L’intento è di sottolineare visivamente l’aberrazione dell’ideologia nazionalsocialista.

l’Unità 24.10.10
Quelle nostalgie nere che toccano il ceto medio


Per una strana ma sintomatica coincidenza la mostra berlinese su Adolf Hitel è stata inaugurata proprio nei giorni in cui è uscito uno sconvolgente studio della Friedrich-Ebert-Stiftung, la fondazione culturale vicina all’Spd, da cui risulta che un tedesco su dieci sogna un nuovo Führer che guidi la Germania «con il pugno di ferro». La nostalgia del Terzo Reich e il fanatismo di destra vanno contagiando anche il ceto medio e si spiegano in larga parte come conseguenze delle diffuse tendenze xenofobe. Infatti, il 35,6% dei tedeschi – sempre secondo l’analisi della Fondazione Ebert – chiede l’espulsione degli extracomunitari, arrivati in Germania solo «per sfruttare lo Stato sociale», e concorda sul fatto che «la presenza di troppi stranieri ha stravolto in maniera pericolosa la Bundesrepublik». Tra i dati dell’inchiesta che destano maggiore preoccupazione c’è quello relativo al rifiuto dell’Islam (il 58% dei tedeschi vorrebbe vietare ai musulmani l’esercizio delle pratiche religiose) e lo scarso apprezzamento del sistema democratico, il cui funzionamento è giudicato soddisfacente solo dal 46%.

il Fatto 24.10.10
Il divorzio compie quarant’anni
Patrimonio e matrimonio
di Silvia Truzzi


Il divorzio compie quarant’anni: battaglia vinta e conquista civile. Non si può dire che l’istituto sia inutile. Secondo l’Istat, dal 1995 la crescita è stata costante: se nel 1995 si verificavano 158 separazioni e 80 divorzi ogni mille matrimoni, nel 2008 si è arrivati a 286 separazioni e 179 divorzi, con un incremento del 3,4 e del 7,3% rispetto all'anno precedente. Naturalmente, siccome siamo italiani, il nostro è il Paese con i tempi più lunghi nelle procedure di primo grado, ci siamo beccati, per questo, anche un rimprovero dalla Commissione europea per l'efficienza della giustizia, che ci ha invitato a introdurre procedure semplificate, meno costose e più brevi. Quanto alle cause le statistiche indicano, ma va?, il tradimento scoperto come la principale. Ma i numeri non raccontano nulla del dolore e del disagio che stravolge – dentro e fuori – la vita. Che è fatta anche di luoghi, odori, abitudini e reti sociali. C’è la perdita – più o meno improvvisa, più o meno subìta – di un compagno, che non solo è meta d’amore e desiderio, ma è anche custode delle proprie solitudini. L’immagine di Margherita Buy ne “I giorni dell’abbandono”, sdraiata sul pavimento di casa con gli occhi trasparenti, racconta più di mille parole. Matrimonio fa rima (anche) con patrimonio e si è aggiunta, in questi anni di contrazione economica, anche una difficoltà pratica: soldi che, divisi, non bastano. Quando le donne non lavoravano, spesso era il portafoglio a tenerle legate al marito più che il cuore. Ma le donne hanno conquistato autonomia economica e quindi indipendenza sentimentale: due declinazioni di un unico concetto, la dignità. Nelle storie dei divorzi ci sono figli, liti, ricatti, bugie, rancori che non si stemperano. Oggi c’è anche la sempre maggiore difficoltà dei genitori a sostentarsi. Si parla molto di tutela della moglie, che spesso è anche madre: la legge si cura di questa specificità. Anche se sono quotidiani gli esposti ai tribunali a causa di mariti che non pagano gli alimenti, talvolta anche occultando con viltà il proprio denaro. C’è però anche una difficoltà maschile, che cresce sempre più: sono i padri che non sanno dove abitare, perché non si possono permettere un affitto. E finiscono nei dormitori, come ieri raccontava il “Corriere” con un articolo su un centro della periferia di Milano che ospita 53 padri separati, senza una lira e con la rabbia di non poter portare i loro figli in una casa che non hanno più. A Bolzano la Provincia ci ha pensato un paio d’anni fa, creando veri e propri appartamenti per padri separati in difficoltà. Già nel 2004 era stato aperto dal Centro assistenza separati e divorziati un rifugio: cinque stanze con bagno. Al di là di un necessario intervento delle amministrazioni qualcosa si può fare, singolarmente (salvo il principio di eccezione: ogni caso, ogni matrimonio, ogni amore fanno storia a sé). Ex – mogli e mariti – sono pur sempre persone che hanno fatto insieme un pezzo di strada. Ed è vero che ci sono umiliazioni e torti che non si possono perdonare. Però la vendetta non restituisce la felicità, portando spesso lontanissimo dalla civiltà: valore da cui non si dovrebbe prescindere, principalmente per se stessi. E poi se ci sono i divorzi, vuol dire che qualcuno ancora al “finché morte non ci separi” ci crede: dopotutto è una promessa di felicità. Almeno per un po’.

l’Unità 24.10.10
Carcere come rimozione sociale
di Andrea Boraschi


Se interrogassimo un campione rappresentativo della popolazione generale su temi quali lavoro, welfare, caro vita, economia, ambiente (e su altri ancora) otterremmo una serie di indicazioni più o meno articolate, ma certamente non univoche, su quali siano i problemi correnti e le relative possibili soluzioni. Ho la netta impressione (confortata da studi recenti) che esistono, invece, almeno un paio di questioni sociali, nel nostro paese, nei confronti delle quali l’opinione pubblica è schierata in maniera più marcata e unilaterale. Una di esse è l’immigrazione; l’altra, significativamente, è la “questione sicurezza”. Non si tralasci di intendere quanto le due siano strettamente (e cupamente) connesse tra loro; e come la seconda preveda, ancor più della prima, nel sentire collettivo, un orizzonte limitatissimo di “soluzioni”. Meglio ancora: se si può pensare al contrasto alla criminalità come a un concorrere di più fattori, si pensa invece alla repressione della criminalità riferendosi a un solo strumento: il carcere. Il problema è che, per quanto questo orientamento sia diffuso, in pochi, pochissimi sanno davvero cosa sono e come funzionano gli istituti di pena nel nostro paese.
L’associazione Antigone pubblica annualmente un meritorio rapporto sullo stato dell’esecuzione della pena in Italia. Una lettura che potrebbe rivelarsi istruttiva per molti tra quanti vedono nella “gattabuia” la panacea di ogni allarme sociale. Alcuni dati sono consolidati e cominciano a essere noti persino ai più sordi. Parliamo dei livelli di affollamento (un’edilizia penale che potrebbe al più ospitare 44mila unità e che invece ne conta 68mila); dei tassi di suicidio (maggiorati fino a 20 volte rispetto a quelli che si registrano nella popolazione libera); del fatto che circa 15mila persone sono recluse senza aver neppure affrontato il primo grado di giudizio. Potremmo poi discutere di molti altri indicatori che evidenziano come il carcere, sopra ogni altra cosa, sia una soluzione inefficace, un gigantesco, farraginoso e costosissimo strumento di riproduzione di delinquenza e marginalità. Ma alcuni tra questi indicatori, forse meno eclatanti, ci suggeriscono qualcosa di aggiuntivo: il nostro è il paese con più tossicodipendenti reclusi in Europa, con oltre 25mila stranieri detenuti, spesso solo in virtù del reato d’immigrazione clandestina; e, ancora, con tassi di analfabetismo e scarsa scolarizzazione, tra la popolazione carceraria, altissimi. Non potrebbe darsi, dunque, che il carcere sia divenuto, da strumento di sanzione della criminalità, strumento di rimozione del disagio sociale? Non somiglia forse a una scalcinata quanto feroce macchina di occultamento dell’iniquità e della disparità? Vi si detengono i delinquenti o i più deboli?

il Fatto 24.10.10
Fioroni e Gelmini, scambio d’amorosi sensi
di Marina Boscaino


Bon ton istituzionale e imbarazzante concordia nell’inedito dialogo sul Corriere tra Gelmini (il ministro più contestato del Berlusconi IV) e il predecessore, Fioroni (oggi coordinatore del Forum del Pd sul Welfare).

TRA UN COMPLIMENTO e l'altro, la scuola crolla a picco. E non si può non riconoscere ai due pacati dialoganti l’apporto personale alla débâcle. In Italia spesso chi rompe non paga. Fioroni è stato il ministro del centrosinistra che ha favorito nella maniera più esplicita le scuole paritarie (la legge per integrarle a pieno titolo nel sistema scolastico nazionale fu il tributo del centrosinistra – eravamo nel 2000 – alla collaborazione degli allora Popolari); che ha bloccato definitivamente il percorso dell'obbligo scolastico a 16 anni, come negli altri 26 paesi Ue; che – mediante il suo proverbiale “cacciavite” – ha svitato alcuni ingranaggi della riforma Moratti, subito riavvitati da Gelmini e soci, quando, nel 2008, cadde Prodi. Il Fioroni-pensiero è facile da riassumere: tiepida concordia con chi sta massacrando la scuola pubblica. Termini meno diretti, stessa sostanza. Parlando di precariato “la scuola non può essere una fabbrica di illusioni” (a 1.500 euro al mese, nel discredito socio-politico-culturale. E poi, lui dov'era, mentre si edificava la fabbrica?). Più signorilità e meno fantasia rispetto alla collega (dalle felici espressioni: “Scuola ammortizzatore sociale”; “la scuola non è un ufficio di collocamento”). Consueti buoni propositi, trovate anche originali: “Investire risorse per la formazione e l'aggiornamento (...); reperire risorse adeguate per premiare il merito; individuare un metodo per evidenziarlo, fondato su riscontri oggettivi e sulla reputazione [riconosciuto parametro scientifico, ndr]”. Una scuola “in grado di presentare il proprio bilancio sociale alla comunità e che mostri ai genitori la propria valutazione complessiva in termini di acquisizione, di conoscenze, competenze, di specificità di settore e di indirizzo”. Il mio liceo (più di 500 alunni, 38 docenti e 13 Ata) quest'anno avrà 54.000 euro per fare qualsiasi cosa. Di cosa parla Fioroni? Risponde subito giuliva e concorde Gelmini: ringrazia per l'assist inatteso e trova in quelle parole conforto alla sua strategia di affondamento e riduzione al pensiero unico della scuola pubblica. “Dalla lettera di Fioroni, ma anche da parte del sindacato, segnali incoraggianti per considerare chiusa una fase storica”.
QUANDO Gelmini usa questo aggettivo bisogna tremare. Prepariamoci. Soprattutto chiediamoci perché il Pd, incapace di produrre una visione originale, ripropone strade che altri sanno percorrere con maggiore convinzione. Gli elementi imprescindibili non sono più i valori di sinistra – inclusione, cultura, emancipazione, Costituzione – che pure vengono utilizzati strumentalmente con certe platee. Ma valutazione e merito, nella imperdonabile dimenticanza che non basta pronunciare quelle parole né preparare soluzioni improvvisate per dotare la nostra scuola di un sistema di valutazione (sul quale alcuni paesi europei lavorano e studiano dagli anni '80) equo ed efficace. L'ottuso arroccamento su posizioni “moderne” e “alla moda”, su concezioni neoliberiste, ha già prodotto vasti danni. Aver di fatto emarginato quella parte di scuola democratica che ancora studia ed elabora su educazione, cultura e saperi, tenendo per saldi principi e valori teoricamente condivisi, non potrà premiare chi vi ricorre solo in fase emergenziale, contando su voti dati per inerzia o per esclusione. Siamo “vetero”? Abbiate il coraggio di dircelo, non ci offendiamo. Sarà per molti, davanti a tanti maldestri riposizionamenti, un vero onore.

l’Unità 24.10.10
Bavaglio ai presidi: vietato criticare pubblicamente la riforma Gelmini
di Felice Diotallevi


Stretta del ministero dell’Istruzione: chi critica pubblicamente la riforma Gelmini sarà punito con la sospensione, senza stipendio fino a sei mesi. È l’applicazione del Codice Brunetta. Bavaglio ai 10mila presidi.

Vietato criticare in pubblico la riforma Gelmini, stiano attenti i circa 10mila presidi in giro per l’Italia: i dirigenti scolastici che oseranno dire la loro verranno puniti con la sospensione e la perdita fino a sei mesi di stipendio. Multe da 150 a 350 euro per chi ha un «alterco» con un genitore, o per i presidi che circolano senza cartellino di riconoscimento o non mettono la targa col nome sulla porta della stanza. Sanzioni, multe e divieti sono messe nero su bianco nel Codice disciplinare per i dirigenti scolastici, attivo da sabato 6 novembre, pubblicato il 21 ottobre sul sito del ministero dell’Istruzione.
LESA MAESTÀ...
Insomma, esprimere pubblicamente, peggio ancora se con un’intervista, il proprio dissenso sui provvedimenti del ministro sarebbe «lesivo dell’immagine della pubblica amministrazione», alla faccia della libertà d’espressione. E per quelle che verranno considerate «manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'amministrazione salvo che siano espressione della libertà di pensiero», i dirigenti scolastici rischiano la «sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di sei mesi». A stabilire se sia libertà d’espressione o ingiuria, l’arbitrio del direttore dell’Ufficio scolastico regionale.
Il pugno di ferro del Miur mette in pratica il Codice Brunetta 150/09 sul «comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni). A mettere il carico da dodici sugli insegnanti ci pensa la collega Mariastella Gelmini, che permetterà anche visite a sorpresa degli ispettori ministeriali, anche senza richieste del direttore regionale. Metodo Guardia di Finanza, praticamente, ma applicato ai comportamenti dei singoli. E la pena che va da un minimo di tre giorni a un massimo di sei mesi (sospensione senza stipendio) verrà applicata anche per «minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico, altri dirigenti o dipendenti, ovvero alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti». Litigare costa caro... Saranno puniti anche gli atteggiamenti di tolleranza dei capi di istituto verso docenti e personale Ata che si siano resi artefici di «irregolarità in servizio, di atti di indisciplina, di contegno scorretto o di abusi di particolare gravità da parte del personale dipendente». Le sanzioni cambieranno caso per caso, ma i dirigenti che chiudono un
occhio rischiano sei mesi di stipendio.
L’avvertimento a presidi e insegnanti era già arrivato a maggio da parte del direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Marcello Limina: attenti a come parlate,è preferibile «astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che possano ledere l’immagine dell’amministrazione pubblica»; vietato rilasciare interviste, meglio «rapportarsi con i loro superiori gerarchici nella gestione delle relazioni con la stampa». Da allora, secondo la Flc Cgil, i presidi si mordono la lingua prima di dire come la pensano. In un caso il preside al quale era stata chiesta un’intervista, avvertito il proprio superiore, si è sentito preventivamente dire: non denigrare la pubblica amministrazione.
Norme e multe sul comportamento sono contenute nel contratto di lavoro dei dirigenti scolastici per il quadriennio 2006/2009, ma firmato nel luglio scorso. Molti presidi, quindi, possono non sapere ancora cosa rischiano se rilasciano interviste. Il temibile codice Brunetta impone che «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini», il dipendente «si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell’immagine dell’amministrazione». Ammessi soltanto spot sorridenti, non si dica che la scuola va a rotoli...

l’Unità 24.10.10
Iraq, 400mila files Wikileaks Via Saddam, resta la tortura
Centinaia di casi di tortura e violenze sui detenuti commesse da militari e agenti iracheni. Il Pentagono sapeva e non è intervenuto. Da Wikileaks 400.000 pagine di verità sulla guerra. L’Onu: «Obama indaghi».
di Marina Mastroluca


«La prima vittima della guerra è la verità». Julian Assange cita un refrain abusato per arrivare al dunque. E il dunque sono i 391.382 file pubblicati venerdì scorso, «la maggiore fuga di notizie militari della storia» di cui Wikileaks rivendica orgogliosamente la paternità per gettare uno sguardo molto ravvicinato su che cosa è stata la guerra e l’occupazione Usa in Iraq. Non sarà tutta la verità come in un’aula di tribunale, ma qualcosa che ci si avvicina parecchio, fotogrammi del dopo Saddam, così crudi da far evaporare qualsiasi tentativo residuo di spacciare il conflitto per una missione libertaria, la democrazia esportata dalle bombe.
I numeri, prima di tutto. Assange non ha difficoltà a chiamare la guerra irachena un «bagno di sangue, sei volte peggiore che in Afghanistan». A spulciare le carte, che Wikileaks ha consegnato a New York Times, Der Spiegel, Guardian, Le Monde e Al Jazira, si arriva alla cifra di 109.000 morti tra il 2004 e il 2009: 66.081 erano civili, 23.894 persono classificate come «nemici», oltre 15.000 membri delle forze di sicurezza irachene e 3771 della coalizione internazionale. Più vittime civili di quanto si credesse: 15.000 per l’esattezza, morti in uno stillicidio di incidenti minori ignorati dalle cronache. Ma la vera notizia è che le forze Usa hanno sempre negato di tenere una conta delle vittime civili, contestando le cifre formulate da organismi indipendenti come l’Iraq body count.
Gli iracheni, appunto. Gli orrori di Abu Ghraib, sbandierati dagli stessi aguzzini con le loro tragiche foto-ricordo, si sono replicati in altre carceri, in altri luoghi, per mano delle forze di sicurezza irachene. Detenuti trattati con elettroshock, scosse elettriche, appesi per i polsi o per le caviglie e frustati, picchiati a morte. In almeno sei casi documentati i prigionieri non sono sopravvissuti, in un caso un militare americano ha segnalato il sospetto che un detenuto fossero state amputate le dita delle mani e poi sciolte nell’acido. Violenze finite nei report delle forze Usa e spesso accompagnate dall’annotazione: «non richieste ulteriori indagini». Il Pentagono ha spiegato che è questa la sua politica: raccogliere dati e comunicare alle autorità competenti. Gli abusi sono stati segnalati alle autorità irachene, le stesse che li avevano commessi. Tutti sapevano, ma chiudevano uno e se possibile tutti e due gli occhi. Lo stesso premier uscente Al Maliki risulta coinvolto in una serie di violenze settarie, contro elementi ex baathisti e sunniti, con squadroni della morte al suo servizio tra il 2006 e il 2009. I documenti di Wikileaks rivelano anche il ruolo dell’Iran nell’addestramento di milizie sciite e «la lotta letale» tra queste e le forze Usa ai tempi di Obama.
CAMPI MINATI
Anche sulle forze d’occupazione Wikileaks racconta episodi non noti. Come l’uccisione di 26 iracheni, almeno la metà dei quali civili, nel luglio 2007, sotto il fuoco di un elicottero Usa o l’uso di civili su aree che si sospettava fossero state minate. Tra le carte anche lo scambio di battute tra un Apache, nome in codice Crazyhorse 18», e un consulente legale Usa in una base militare: due iracheni, che avevano appena sparato con un mortaio, cercavano di arrendersi, l’equipaggio voleva sapere come regolarsi. «Non si possono arrendere ad un mezzo aereo, sono ancora obiettivi validi», fu la risposta. I due vennero uccisi, mentre sembra che il «Crazyhorse» sia lo stesso elicottero che mesi più tardi aprì allegramente il fuoco su due giornalisti Reuters.
Le reazioni alla mega-pubblicazione di Wikileaks vanno in diverse direzioni. Per Manfred Nowak, capo investigatore Onu sulla tortura, l’amministrazione americana ha la responsabilità di indagare, non solo di registrare le atrocità. Il Pentagono per metà ha minimizzato «tutto già noto» e per il resto ha accusato Assange di aver messo a rischio la vita di 300 collaboratori iracheni. Ma è soprattutto Baghdad a reagire. Al Maliki ha parlato di «obiettivi politici» della campagna scatenata da Wikileaks: il principale bersaglio sarebbe proprio lui, abbarbicato alla poltrona, senza riuscire a formare un governo. Dal partito del suo avversario Allawi le critiche più feroci. Troppo potere nelle mani di uno solo e per di più legato all’Iran.

Repubblica 24.10.10
Taleb, la teoria del cigno nero e l´importanza dell´incertezza
"Perché scommetto sulla mia ignoranza
di Marco Cattaneo


A 35 anni fu colpito da un tumore alla gola, tipico dei grandi fumatori ma lui non aveva mai fumato. Insomma: il cigno nero era lui

Nel suo libro Le nostre paure, recentemente pubblicato da Rizzoli, il celebre psichiatra Vittorino Andreoli afferma senza mezzi termini che "il potere è stupido". Parla del potere politico, Andreoli, ma anche di quello economico e finanziario, con l´esperienza e l´intuizione dello psichiatra. Senza contrapporre la stupidità all´intelligenza, ma considerandola un motore indipendente delle vicende umane.
È su una declinazione di questa stupidità che conta Nassim Taleb, uno dei più fortunati investitori degli ultimi anni, per accumulare miliardi di dollari nel suo hedge fund, ed enormi fortune personali. Autore del bestseller Il cigno nero (Il Saggiatore, 2008), Taleb - che il 29 ottobre terrà una delle conferenze organizzate da Telecom al festival della Scienza di Genova - trae profitto dalla stupidità dei mercati. E dalle intuizioni sbagliate dei trader "ordinari".
Cinquantenne, studioso dei processi cognitivi e percettivi legati alla fortuna e alla probabilità, Taleb ha un biglietto da visita singolare nella specialità che insegna all´Università del Massachusetts: scienze dell´incertezza.
La sua ricetta è semplice, e prende spunto da una massima - che cita di continuo - di David Hume: «Non c´è un numero di osservazioni, per quanto alto, che ci permetta di inferire che tutti i cigni sono bianchi, ma l´osservazione di un solo cigno nero basta a dire che non lo sono». Tradotto nel linguaggio della finanza, Taleb scommette su alti e bassi improvvisi e violentissimi dei mercati, che normalmente non sono soggetti a scossoni. Per dirla con lui, scommette sui cigni neri. A Wall Street, dice, tutti puntano su cambiamenti graduali degli indici azionari, correndo rischi su singoli - ma altamente improbabili - rovesci. Così ogni giorno, o giù di lì, si accontentano mediamente di modesti guadagni, ma non tengono in conto la possibilità di subire invece enormi perdite. Perché non succede mai, o quasi. È proprio il comportamento osservato da Daniel Kahneman e Amos Tversky, che ci hanno vinto il Nobel per l´economia nel 2002, con i loro esperimenti sui guadagni e le perdite in denaro: siamo più inclini a scommettere, a correre un rischio, quando si tratta di perdite piuttosto che quando si tratta di guadagni.
Taleb fa il contrario, scommettendo sull´ignoranza. Sulla sua, intende. Nel senso che mentre gli altri credono di conoscere l´andamento dei mercati lui crede di non conoscerlo, e dunque di non sapere quando arriverà - e arriverà - il cigno nero, il tracollo. Perde un po´ tutti i giorni, acquistando di continuo opzioni finanziarie che quasi mai vanno a buon segno. Ma quando sui mercati arriva un terremoto lui guadagna cifre astronomiche, mentre gli altri colano a picco. È stato così con l´11 settembre, ed è stato così con la crisi di questi ultimi anni. Oggi l´hedge fund di Taleb controlla miliardi di dollari, «e ancora non sappiamo nulla», commenta lui.
Nella sua raccolta di saggi pubblicati sul New Yorker, intitolata What the dog saw, Malcolm Gladwell racconta l´epoca in cui Taleb ebbe la sua intuizione. Nel 1995, aveva 35 anni, gli fu diagnosticato un tumore alla gola, una malattia che di solito colpisce soggetti che hanno fumato come turchi per tutta la vita. Ma lui era giovane e non aveva praticamente mai toccato una sigaretta. Era lui, il cigno nero. Ora, dice, il tumore è guarito, ma non la lezione che quell´evento altamente improbabile gli ha impartito e che si applica alla finanza, ma in generale alla vita di tutti i giorni: gli eventi altamente improbabili avvengono, e siccome non possiamo prevederli perché le variabili in gioco sono troppe (compresi due aerei che si schiantano contro il World Trade Center) dobbiamo essere pronti a coglierne i frutti in ogni momento.
Ecco, questo è Nassim Taleb. Non chiedete di lui, a Wall Street, perché gli altri, quelli che vivono della finanza tradizionale, pensano che perdere denaro sistematicamente ogni giorno sia una follia. Salvo poi pentirsi quando Taleb passa all´incasso.

Repubblica 24-10.10
Il ragazzo che conta i clandestini
"I parenti e gli amici dei desaparecidos mi chiamano dalla Libia o dalla Tunisia per avere notizie"
di Enrico Bellavia


Un giorno Gabriele Del Grande comincia a raccogliere le storie di chi cerca invano di raggiungere l´Europa: annegati in mare, dispersi nel deserto, asfissiati nei Tir, assiderati nelle stive degli aerei, torturati in carcere. Presto diventa l´unica fonte attendibile sulle reali cifre del dramma: 15.059 vittime dal 1988, un genocidio

Il ragazzo che conta i clandestini odia che lo si chiami ragazzo e non usa mai la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro nel Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell´Italia, della Spagna o della Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono galere, tra torture e violenze di ogni tipo. Ha sbugiardato così la fredda logica dei respingimenti, raccontando di come si muoia per una barca che si spezza o in cella da innocenti. Ha descritto come sono le prigioni libiche finanziate dall´Italia e a che prezzo siano crollati gli arrivi dal mare. Ha rilanciato gli appelli di chi è finito nel girone infernale delle prigioni tunisine diventando un desaparecido. Ha messo in fila le cifre e ne ha ricavato quella che chiama la «scoperta»: 15.059 vittime dal 1988. Due morti al giorno per ventidue anni. Un genocidio.
È nata da qui, da questo numero, l´idea di abbandonare il lavoro all´agenzia Redattore sociale per mettersi a cercare le facce e le vite dei coetanei ingoiati dal mare e dei padri, delle madri e dei fratelli, rimasti ad aspettare e a sperare l´impossibile. «Avevo i numeri ma non avevo le storie. Non sapevo nulla di quella gente. Volevo capire, andare a fondo, conoscere». I primi contatti con le comunità che vivono in Italia, poi il viaggio alla scoperta del perché, a ondate, quelle persone sfidano il mare su legni sfasciati per arrivare in Paesi che ne hanno un disperato bisogno ma dicono di non volerli. E mascherano con mille sinonimi l´idea di una frontiera sbarrata.
«La prima conclusione è che dietro la retorica della disperazione c´è l´ansia e la voglia di generazioni di africani di mettersi in discussione, di provare a fare meglio, di comprarsi una casa, sposarsi, mandare i figli a studiare. Dietro la retorica della disperazione c´è solo una tensione al riscatto da una condizione frustrante. Poi ci sono gli esuli, i perseguitati, quelli che avrebbero diritto all´asilo che nei loro Paesi conoscono la tortura e qui vengono trattati come criminali». Ecco perché in mezzo alle mille storie di chi è partito, la costante è l´ansia di far presto, di guadagnare tempo e opportunità.
C´è Merouane che lavorava nello studio grafico di famiglia ad Annata, nell´Algeria dove un tempo emigravano gli italiani, e voleva andare in Francia dalla Sardegna e Redouane che il padre incoraggiò a partire perché non finisse i suoi giorni a raggranellare spiccioli in una baracca di Sidi Salem riparando cellulari. C´è chi aveva già pronto un piano per arrivare in aereo con un visto turistico e che una notte, senza dire nulla, ha smesso di attendere che la burocrazia corrotta truccasse le carte e si è messo in viaggio rimanendo da qualche parte in fondo al mare. «Sono ragazzi come me che non se la sentono di trascorrere un´esistenza dai confini già tracciati, che hanno il desiderio di crescere e migliorarsi come chiunque altro. È semplice ma è così».
Gabriele ne ha incontrati tanti pronti a partire. Li ha visti consumarsi nella noia dell´attesa tra i tavolini dei bar, spezzarsi la schiena di fatica per racimolare quanto basta a farsi staccare un biglietto di sola andata in direzione Europa. «Le frontiere in realtà sono già aperte, la stragrande maggioranza di chi arriva qui viaggia in aereo. Solo chi non ha abbastanza soldi o non ha voglia di aspettare, provando e riprovando, sceglie il mare».
Le storie che Gabriele Del Grande ha messo insieme sono pubblicate in tre libri che un combattivo editore, Infinito edizioni, gli ha pubblicato e che hanno spopolato in un mercato che c´è e non si vede e che ha regalato a questo toscano vagabondo dall´aria scanzonata, premi, riconoscimenti e un´autorevolezza fatta di citazioni perfino sul New York Times. Gli si riconosce di avere scoperto quello che era sotto gli occhi tutti: le dimensioni di una catastrofe immane. E di non essersi fermato alle cifre ma di essere partito per andare a raccontare le lacrime, il sudore, il sangue che c´è dietro la maschera di un numero.
«Non mi piace che mi sia dia del ragazzo, in questo Paese sembra più una condanna che un merito essere giovane e aver voglia di fare. Anche quella dell´età finisce per essere una specie di categoria che non ti fa essere una persona ma un´etichetta come quella di immigrato o migrante o clandestino». L´ultimo libro di Del Grande si intitola Il mare di mezzo. È il Mediterraneo ma anche lo spazio che divide chi tra le due sponde ha sogni e speranze identiche. «Mi sono reso conto che non c´era molta differenza tra me che viaggiavo e loro che partivano. Solo quel mare». Il primo reportage di Del Grande in terra d´Africa è in Mamadou va a morire che lo ha fatto conoscere in giro per il mondo. In poche settimane ha messo insieme cento presentazioni in circoli e istituzioni culturali in Italia e in Nordeuropa.
Ma il suo lavoro, quello che ogni giorno serve a tenere il conto e la memoria di chi si è perso nel mare di mezzo, è Fortress Europe: la fortezza Europa, il blog, tra i più cliccati da chi si occupa di immigrazione. Un punto di riferimento anche per i giornalisti che attingono a piene mani al lavoro di Del Grande che giornalista non è: «Non ho la tessera e francamente non credo che mi serva: lavoro, scrivo e racconto. La considerazione di cui godo è data dalla serietà e dall´impegno che ci metto. Poi, aver scritto giornalista sui documenti per la mia attività non credo aiuti». Muoversi per la riva opposta a squarciare il velo che copre le storie dei morti, gli ha attirato più di una grana. Non lo amano in Tunisia dove gli hanno fatto pagare una serie di documentati racconti sulla sanguinosa repressione di polizia della protesta dei sindacalisti nel distretto minerario di Redeyef nel 2008. Tornando a indagare, l´anno dopo, sulla fine dei dispersi algerini forse finiti nelle prigioni tunisine, si trovò nella black list.
L´idea di uno che prende rischi senza calcolarli è lontanissima dal modo di procedere di Gabriele Del Grande. Sa di muoversi su un terreno minato: i suoi contatti sono spesso dissidenti dei Paesi in cui si trova, oppositori dei governi, gente che rischia, quella sì la pelle, per una parola di troppo: «Il problema è più per loro che per me. So di mettere a repentaglio la loro vita e la loro libertà e per questo ho l´obbligo di essere cauto». Di poliziotti e barbe finte al seguito durante i suoi giri ne ha avuti parecchi e seminarli non è semplice. Cercavano i suoi taccuini per carpirgli i contatti. Quella volta della protesta di Redeyef dovette mettere tutto su un file, dribblare i segugi che già erano a un passo dalla sua camera d´albergo e mettere in salvo i materiali nel posto più sicuro che conosca: la Rete. La protesta di Redeyef lo ha messo sulla pista della fine che fanno gli esuli e delle torture riferite da chi aveva assaggiato la polizia tunisina. Che non ha gradito tanto zelo.
«Dai centri di permanenza, dalle prigioni che ho visitato, tengo i contatti con chi è dentro. Spesso le persone arrestate utilizzano un telefono cellulare e il mio numero ormai gira parecchio. Ricevo richieste di aiuto, segnalazioni, denunce su ciò che accade. Per chi viene arrestato prima di espatriare, in Nordafrica non ci sono certezze. A bordo di camion, spesso anche dei container, come quelli utilizzati in Libia, somali, eritrei, sudanesi finiscono per mesi, se non per anni, in strutture speciali lontane da tutto e creduti morti dai parenti. Ormai ho la mia rete di contatti e finisco sempre per avere in tempo reale un bollettino di uno sbarco, tentato o riuscito. Ho informazioni di prima mano che sottopongo a verifica. Con i telefoni cellulari mi arrivano anche riscontri fotografici alle torture e alle violenze denunciate».
La prima volta in Africa fu un viaggio in Tanzania imbottito di vaccini, adesso prende il primo volo utile e va, annotando con scrupolo quel che la straordinaria accoglienza culinaria dall´altra parte del mare gli riserva. Messa in un cassetto la laurea in Storia orientale che gli valse una borsa di studio con la quale sono iniziati i reportage, oggi Del Grande lavora per partire ancora e raccontare altre storie e altri spaccati di un mondo che da qui si fatica a vedere. Un tempo non lontano faceva il cameriere in una trattoria di Testaccio a Roma per mettere insieme i soldi, oggi, tra libri, conferenze e seminari all´università, riesce a vivere della sua stessa voglia di raccontare. «Lavoro su Internet, posso farlo da qualsiasi posto. Ho abitato a Roma e Milano, ho vissuto due anni in Sicilia, adesso sto in Toscana dai miei, ma riparto tra non molto e poi chissà, forse metto su casa ancora a Roma». Ha la consapevolezza di fare qualcosa di grande e di utile. Ma se la cava facile con una battuta: «I miei meriti? Forse i demeriti degli altri. Di chi è pagato, e anche bene, per raccontare quel che racconto io e non lo fa».

Repubblica 24-10.10
Il sasso istituzionale e lo tsunami politco
di Eugenio Scalfari


Non è soltanto un sasso nello stagno la lettera inviata da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Il Capo dello Stato si è limitato ad attirare l´attenzione del Parlamento e della pubblica opinione su un solo aspetto della legge sull´immunità delle massime cariche istituzionali presentata dal ministro Alfano, ma la logica che ha motivato i suoi rilievi fa parte d´una cultura istituzionale che inquadra una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne rendono possibile la realizzazione. La legge Alfano è invece uno dei tasselli della costituzione materiale che Berlusconi e i suoi accoliti hanno in mente da tempo di mettere al posto della Carta vigente. Napolitano, definendo un articolo della legge Alfano «irragionevole e manifestamente contrario all´attuale articolo 90 della Costituzione», ha di fatto interrotto quel percorso obbligando la maggioranza a rimetterci le mani. Solo questo, ma ora quel sasso nello stagno si è trasformato in un maremoto politico che non riguarda il Quirinale ma Palazzo Chigi e il Parlamento.
L´articolo 90 stabilisce l´immunità del Presidente della Repubblica per quanto riguarda eventuali illeciti che possa commettere nell´ambito delle sue funzioni, con l´eccezione di due sole ipotesi: tradimento della Repubblica e atti contro la Costituzione per i quali il "plenum" del Parlamento può con un voto a maggioranza qualificata tradurlo dinanzi alla Corte che si autocostituisce in Alta Corte di giustizia.
Per illeciti che non riguardano la sua funzione il Capo dello Stato può invece essere inquisito e giudicato dai tribunali ordinari. Napolitano ha rivendicato questa immunità e soltanto questa, niente di più e niente di meno.
Stupisce che l´editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco abbia avanzato il dubbio di irritualità sulla lettera di Napolitano. Le leggi di riforma costituzionale secondo la prassi debbono esser promulgate dopo la doppia lettura prevista dall´articolo 138 e la firma di promulgazione è considerata un atto dovuto. Ma nel caso specifico era stata creata una situazione di dipendenza del Capo dello Stato dal Parlamento che imponeva al Quirinale di rilevarne la stridente contraddizione ordinamentale. Irrituale è dunque quella norma contestata della legge Alfano, non certo la lettera del Presidente.
Si vedrà ora in che modo la questione sarà risolta dal Parlamento, a cominciare dal Senato. Ma l´intervento del Quirinale, al di là del tema specifico, ne ha aperti altri.
Alcuni di carattere costituzionale che Napolitano non ha sollevato ma che tuttavia emergono chiaramente; altri di carattere politico che esulano dalla competenza del Quirinale ma che tuttavia sono ora sotto gli occhi dei partiti e della pubblica opinione.
I temi costituzionali sono due. Il primo, messo in rilievo dall´ex presidente della Corte, Valerio Onida, sta nel fatto che la legge Alfano colloca il Presidente del Consiglio sullo stesso piano del Presidente della Repubblica dal punto di vista del delicatissimo tema delle immunità, con la differenza che il primo è indicato nella scheda delle elezioni politiche sulla quale il "popolo sovrano" appone il proprio voto, mentre il secondo viene eletto dal Parlamento. Si crea in questo modo un sistema duale al vertice dello Stato nettamente sbilanciato a favore dell´inquilino di Palazzo Chigi che può vantare la sua investitura popolare declassando il Capo dello Stato ad un ruolo puramente notarile senz´altra prerogativa che quella di certificare l´autenticità degli atti sottoposti alla sua firma.
L´altro tema consiste nella differenza tra il concetto di immunità e quello di impunità (l´ha sottolineato anche Luca Ricolfi sulla Stampa). L´immunità sospende la procedibilità del titolare di una carica istituzionale nel periodo in cui esercita le sue funzioni e limitatamente ai reati che può aver commesso relativi a quelle funzioni.
L´impunità invece copre anche illeciti che non riguardano le funzioni ed è ripetitiva se la stessa persona passa dalla carica che ricopre ad altra egualmente "immune" raffigurando in tal modo un salvacondotto valido per molti e molti anni. Come non vedere dietro una siffatta normativa far capolino la maschera di Silvio Berlusconi? È accettabile un salvacondotto di questo genere, per di più in presenza di una legge elettorale come quella attuale che affida alla sua discrezione la scelta dei candidati con un meccanismo elettorale che assegna alla coalizione vincente anche per un solo voto un premio nazionale per la Camera e premi regionali al Senato? Queste considerazioni debbono esser state ben presenti al Presidente della Camera. Fini ha infatti dichiarato ieri sera che l´immunità prevista dalla legge Alfano non può essere reiterabile.
* * *
È evidente che lo scontro tra queste opposte visioni istituzionali avrà conseguenze politiche che sono già visibili. Bene ha fatto il Quirinale a sottolineare ieri che i rilievi del Presidente riguardano specifici aspetti della legge Alfano mentre lo scontro politico e le sue conseguenze sono del tutto estranee alla competenza del Capo dello Stato. All´attenzione delle forze politiche c´è ora con rinnovato vigore un dilemma fondamentale: lo stato di diritto o il comando di una persona, il popolo sovrano e i suoi rappresentanti liberamente scelti o la cricca e la casta che pensa per tutti e provvede per sé? Questa è la posta ed è inutile e deviante anteporre i problemi del paese a questi che sembrano invece temi da intellettualoidi e da politicanti autoreferenti. I problemi del paese ci sono ben presenti e ne parliamo di continuo; sono quelli del fisco, dei rapporti tra le forze sociali, del lavoro, dei rifiuti di Napoli, della corruzione, delle infrastrutture, della crescita economica, dell´Università e della ricerca. Li ha risolti da solo Berlusconi? Li ha risolti da solo Tremonti? Li ha risolti da solo Bertolaso?
O dobbiamo sperare in una Madonna pellegrina e lacrimante? Come mai dopo tanti anni di governo quei problemi sono diventati voragine? Parlare di essi derubricando quello che tutti li ha determinati e ne subordina la soluzione a quel Salvacondotto che è la sola cosa che importa, è un depistaggio in piena regola e come tale va definito.
* * *
Le conseguenze politiche riguardano soprattutto l´opposizione, quella di sinistra, quella di centro e quella finiana.
È evidente e non da ora che la posta in gioco è la Costituzione. Ma ora, con l´arrivo al pettine di tutti i nodi irrisolti, la partita è giunta alla sua svolta che implica un´emergenza oggettiva. L´emergenza soggettiva era quella predicata anzitempo, una sorta di "al lupo al lupo" quando il lupo era ancora sulla montagna. Adesso il lupo è sceso in pianura, pronto a divorare le pecore se pecore resteranno. Per questo dico che adesso l´emergenza è oggettiva e questo impone alcune riflessioni.
1. Per cambiare la legge elettorale ci vuole uno schieramento che unisca tutto il centro e tutta la sinistra.
2. Se si va alle elezioni con questa legge ci vuole egualmente uno schieramento elettorale che unisca tutto il centro (finiani compresi) e tutta la sinistra, altrimenti mancherebbero i numeri per essere competitivi con l´avversario.
3. Una cordata di quest´ampiezza avrà bisogno d´un leader che copra con la sua autorevolezza tutto l´arco delle forze alleate e possa rappresentare il minimo comun denominatore che non è poi tanto minimo: combattere mafie e corporazioni, rilanciare la crescita senza abbassare la guardia sulla finanza pubblica, garantire i diritti e far rispettare i doveri, tutelare i ceti deboli, i poveri, la pari dignità delle persone e le pari opportunità nel lavoro e nell´istruzione, dare alle forze sociali il ruolo che loro spetta a fronte dei sacrifici che la modernizzazione e la globalizzazione impongono. Vi sembra molto "minimo" questo denominatore?
4. Se questo progetto è accettato (ed è l´unico che può evitare una vittoria del berlusconismo per i prossimi nove anni) esso comporta che non vi siano veti da parte di nessuno e contro nessuno. È una sorta di lodo cui tutta l´opposizione è chiamata. Poi, passata la stretta tra Scilla e Cariddi, ognuno riprenderà la propria navigazione e il denominatore minimo cederà il passo ai denominatori massimi che ciascuna forza politica ha il diritto di proporsi e di proporre in libera competizione.
Ma oggi non siamo di fronte a una libera competizione, siamo di fronte appunto ad una concezione radicalmente diversa della democrazia e dello Stato. Questo è il salto. Chi non lo fa si perde e perde il paese.

Agenzia Radicale 23.10.10
Psychépolis
Difendersi da una "Cultura" che avvelena
di Flore Murard-Yovanovitch e Paolo Izzo

Questa settimana dovremmo prendercela un po' con tutti: Lucetta Scaraffia e Claudio Risé, Adriano Sofri e Francesco Piccolo, Elena Dusi e Carlo Picozza, e poi ancora Umberto Galimberti, Pietro Citati, Emanuele Severino e Umberto Eco. Sono decisamente troppi, non ce la faremmo in queste poche righe, ma ci proveremo comunque nelle prossime settimane, affrontandoli uno ad uno.
Per adesso li includiamo sotto una sola categoria, che a loro farà pure piacere, ma che a noi piace sempre meno per il suo alto contenuto di tossicità: CULTURA. Quella che ci viene propinata quotidianamente dai giornali; quella che ritiene di possedere in tasca ogni verità; quella che plagia, inculca, pedagogizza, didascalizza, pontifica, monopolizza, devia o cerca di deviare le nostre menti.
Ci vuole tanta resistenza e la certezza-esperienza di un'altra realtà umana, per rifiutare ogni mattina il martellamento di questa cultura dominante perversa, che ci vorrebbe tutti malati originariamente, dalla nascita. Tutti criminali e malefici peccatori, dall'origine. Controllati semmai dalla coscienza o dalla fede.
Una cultura che sguazza felice in un teorema catto-freudiano e che da decenni, se non da secoli e millenni, con l'ineluttabilità di una natura umana violenta, sancisce l'autorità delle istituzioni, sacre e non, che terrebbero a bada i nostri istinti animaleschi. Una cultura che, da qualsiasi angolo la si osservi, lavora instancabile per convincerci che il Male è dentro ognuno di noi, per prospettarci un destino di marionette obbedienti e identificate, per smarrire la creatività, la vitalità, la fantasia e la sanità degli esseri umani e soprattutto soprattutto convincerci che nessuna trasformazione sia possibile.