giovedì 28 ottobre 2010

Repubblica 24.10.10
Ed, il compagno loda Nichi su Facebook


FIRENZE - Su facebook mette la frase che forse più lo ha emozionato della relazione di Nichi ad apertura del congresso di "Sel": «Torniamo alla bellezza delle relazioni, a quell´accogliersi tra generi, tra generazioni, la bellezza dell´incontrarsi tra il mondo vivente e quello non vivente...». Ed, il compagno di Nichi Vendola, ne fa una frase-dedica. Presente ma riservato. Nichi di lui ha parlato in qualche intervista ma qui, al congresso - camicia, jeans e scarpe da ginnastica - Ed sfugge i riflettori e i cronisti. Per lui, italo-canadese, 33 anni, un master in progettazione e una carriera di creativo, tra pubblicità e media, la privacy è un bene supremo. La storia con Vendola è consolidata da qualche anno e con un patto: quello della discrezione. Ma ora che Vendola e Sel «vanno di moda» - come ironizza lo stesso Nichi - gli tocca fare i conti con la popolarità e la curiosità mediatica. (g. c.)

l’Unità 24.10.10
Il compagno di Nichi
Ed c’è ma non si fa vedere
di Andrea Carugati


Non è la prima volta che Ed, 33enne fidanzato italocanadese di Nichi Vendola, scorta il suo compagno ad un congresso. C’era già a Chianciano, quando Nichi perse a sorpresa il congresso del Prc contro Paolo Ferrero. Andò con la mamma, pugliese trapiantata in Canada tanti anni fa, dove il ragazzo è nato e ha studiato marketing alle università di Ottawa e Montreal.
Qui a Firenze, al congresso di Sel, c’è una novità perché da poco Nichi ha parlato di lui, in un'intervista al settimanale Chi. Ha raccontato che vivono insieme da anni a Terlizzi, vicino Bari, la città natale del governatore. «Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena», ha spiegato. Stanno insieme dal 2004, Ed ora ha anche un ruolo nello staff del candidato: art director della sue fabbriche. È un creativo, dopo il ritorno in Italia ha preso un’altra laurea in progettazione visiva e design della comunicazione. Sta dietro le quinte, è superpresente ma nell'ombra. Quando spuntano le telecamere lui si dissolve. Ieri, riuscire a raggiungere Nichi per pranzo è stata un’impresa: telefonate, sms con le ragazze dello staff, che lo coccolano come un fratello minore. «Ed, raggiungici dove siamo scesi stamattina». Lui, capelli corti e scuri, un filo di barba, camicia bianca, jeans e sneakers grigie, è spuntato da dietro il palco. La macchina di Vendola era già arrivata, lui ha fatto per avvicinarsi, uno sguardo, una parola sussurrata, un braccio sfiorato. Poi il governatore è salito in macchina, lui no. È salito dietro l'angolo, lontano da occhi indiscreti. Un'abitudine complicata ma ormai consolidata. «L'amore che non osa definire il proprio nome», aveva detto Vendola nella sua relazione, citando Oscar Wilde, per descrivere «il dolore del silenzio di tanti omosessuali, lesbiche, trans». E aveva citato anche la gioia «quando si rompe quella barriera del silenzio». Vendola è stato tra i primi politici italiani a fare coming out. Non ha mai nascosto la sua biografia, anzi ne ha fatto un punto di forza. Anche stavolta è così: il suo privato si disvela poco a poco, senza forzature. Si protegge, anche.

Corriere della Sera 24.10.10
Eddy scatta foto in platea Il compagno del leader da Montreal a Terlizzi
Il creativo italo-canadese preferisce evitare la notorietà


FIRENZE — È venuto anche Ed, il compagno di Nichi Vendola, al congresso. Fa le foto agli ospiti importanti, Epifani, Landini, con la piccola automatica e con la reflex. Alla fine del lungo discorso di apertura, Nichi, nel retropalco, sudato e contento, cercava anche lo sguardo di Ed, che prima di cominciare gli aveva dato i suoi consigli. Eddy ha superato la trentina, ha i capelli neri corti, lo sguardo curioso e appassionato. Maglione blu, camicia bianca, jeans, sneakers. Tutta la corte degli amici e dei collaboratori di Nichi lo protegge, gli crea attorno uno schermo invisibile, e respinge le domande perché Nichi, come si è detto da solo, «va un po’ di moda», ma Ed che c’entra? Coccolato, anche, come fosse il figlioccio di tutta la prima linea della sinistra, qui risorta. «Voglio una mia foto scattata da te, foto di Eddy», gli dice Ciccio Ferrara, grande organizzatore del nuovo partito Sinistra ecologia e libertà. Lui si muove veloce, sfuggente, vuole esserci, però senza farsi riconoscere.
All’ora di pranzo Eddy e Nichi si parlano rapidi, si separano, si rivedranno.
Ha detto Vendola: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». Nichi ha confessato a Chi, il settimanale rosa che fa capo a Berlusconi, di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni, ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?». Adesso Vendola dice che quella cosa è stata un po’ estorta, che i cronisti hanno battuto il paese alla ricerca di pettegolezzi, ma è pur vero che l’operazione di farsi fotografare e intervistare sul privato da un giornale «ostile» era densa d’insidie.
Eddy qui al congresso di Sel è inserito nell’organizzazione, lui lavora nelle «Fabbriche di Nichi», che cercano di realizzare in tutta Italia interventi civici, per migliorare l’esistenza quotidiana. È quel che si dice un «creativo»: freelance graphic designer and creative consultant, si definisce, visto che è italo-canadese. Ha studiato presso la Concordia university di Montreal, alla Ottawa university e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico e ha realizzato uno spettacolo «VianDante, viaggio dal Paradiso all’Inferno, andata e ritorno».
È impaurito da una possibile notorietà, Ed, perché i passi avanti, in Italia, sulle coppie omosessuali sono stati enormi, ma non siamo ancora alla pari dignità con la famiglia tradizionale. Vendola venerdì, dal palco, ha lanciato più di un messaggio. Ha citato Oscar Wilde: «L’amore che non osa definire il suo nome». Ha parlato della condizione «atopica», di chi è «senza luogo», gay, trans, travestiti. Ha detto che «la bellezza è anche questo, rompere il silenzio, ritrovare le parole...». Vendola gioca da sempre la sua partita politica rivendicando ogni contraddizione della sua vita. Il rosario in tasca, l’orgoglio della diversità. Ma Ed? Ieri pomeriggio è andato via dal teatro Saschhall, sede del congresso, a riflettere sul peso della fama, quand’anche sia di riflesso.

Corriere della Sera 24.10.10
L’alleato del Pd? Il 60% vuole Nichi


Entrambi i partiti maggiori, Pd e Pdl, si trovano in questo momento in difficoltà. Tutti e due hanno visto, nelle ultime settimane, un calo dei consensi espressi dagli elettori nei sondaggi. Questo stato di cose è particolarmente sorprendente per il Pd, in quanto l’opposizione trae normalmente vantaggio dalla crisi che, quasi sempre, connota la maggioranza dopo qualche anno di governo.
Ciò che, secondo gli elettori, manca oggi al Pd e lo rende relativamente poco attraente per il voto è principalmente l’assenza di chiarezza sulla proposta politica, sulle alleanze ipotizzate in vista di eventuali elezioni e, in una certa misura, anche sulla leadership. Bersani, l’attuale segretario, è molto stimato dagli elettori del suo partito. Il suo livello di gradimento supera, tra i votanti per il Pd, il 90% e raggiunge uno dei livelli massimi (44%) anche considerando la popolazione nel suo complesso. È particolarmente stimato anche dagli elettori dell’Idv, sua attuale alleata, ma trova larghi consensi perfino nella base dell’Udc (44% di giudizi positivi) e di Fli (50%). Negli ultimi mesi, tuttavia, la leadership del segretario è minata dalla ascesa di popolarità di Nichi Vendola, che ha di recente ribadito di volersi presentare alle primarie del partito. Anche Vendola gode di un largo seguito tra gli elettori del Pd (78%), seppure inferiore a quello di Bersani. Ma è molto significativo che eguagli addirittura la popolarità di quest’ultimo nell’insieme dell’elettorato, con un forte incremento (3%) proprio nelle ultime settimane. Questa sovrapposizione dei consensi rende difficile dire oggi chi vincerebbe in caso di primarie. Ma nuoce in una certa misura all’immagine complessiva del partito.
A questo stato di disunità si sovrappone la questione delle alleanze. Sulla quale si registrano una molteplicità di posizioni assai differenziate e, spesso, contraddittorie. Alla richiesta «con chi sarebbe opportuno che si alleasse il Pd alle prossime elezioni politiche?», solo una quota minoritaria, pari a quasi un quinto (18%) dei votanti per il Pd propone, come suggeriscono alcuni dirigenti del partito, di correre da soli. Tutti i restanti indicano, invece, una forza politica con cui accordarsi. Una quota molto minoritaria (4%) auspica addirittura di allearsi con chiunque lo voglia. Ma più della maggioranza assoluta (60%) dei votanti per la formazione di Bersani preferisce proprio Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola. Questa opzione raccoglie più consensi di quanti (56%) ne conquisti l’ipotesi della prosecuzione dell’accordo con l’Idv di Di Pietro. Assai meno attrattiva pare, per l’elettorato del Pd, l’idea di una apertura verso il centro, alleandosi con l’Udc di Casini (la auspica il 39%) e, meno ancora, quella di un accordo con Alleanza per l’Italia di Rutelli (indicata dal 30%) o con l’Fli di Fini (suggerita dal 25% dei votanti per il Pd).
Molte di queste indicazioni di alleanza si sovrappongono tra loro, poiché gli intervistati potevano suggerire anche più di un’opzione e risultano le combinazioni più diverse e disparate. Ciononostante, dall’insieme delle risposte, si rileva come l’orientamento, esclusivo o non, verso la sinistra superi quello verso il centro (anche se quasi un terzo propone di allearsi con entrambi).
Naturalmente, è fisiologico che in un partito convivano una pluralità di opinioni, anche diverse tra loro. Ma il quadro che emerge dal complesso delle dichiarazioni dei votanti attuali per il Pd sembra talvolta mostrare la prevalenza sulla stessa coesione del partito di componenti anche fortemente contrapposte. Ciò che finisce col ledere l’immagine complessiva, allontanando molti dei numerosi elettori oggi indecisi o tentati dall’astensione. La cui conquista, come si sa, costituisce il fattore principale per vincere le elezioni.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L’obiettivo primarie. Difficile ma non impossibile la vittoria su Bersani, altro discorso è la possibilità di successo alle elezioni
Un leader ambizioso per un partito fermo al 3%


Una democrazia competitiva per funzionare bene ha bisogno che tutti i partiti rilevanti del sistema politico abbiano voglia di governare. Sembra una banalità ma ieri Vendola lo ha ricordato a suo modo alla sinistra italiana che per anni non si è veramente posta il problema di vincere le elezioni per andare al governo. Quello che ha detto il leader Sel non è una novità. E proprio su questo punto che si è consumata dopo l'esperienza negativa del governo Prodi l'ennesima scissione della sinistra italiana. E stato al congresso di Rifondazione comunista a Chianciano nei 2008 che è nato il movimento di Vendola dopo uno scontro molto aspro con la sinistra antagonista di Ferrero. A Firenze questa scelta è stata confermata con forza e rappresenta un'altra tappa di un processo storico che va avanti da più di un secolo. Passo dopo passo, scissione dopo scissione, la sinistra italiana si è progressivamente inserita a pieno titolo tra le forze di governo del Paese. A questo punto ne restano fuori Rifondazione Comunisti ltaliani, e le formazioni della sinistra più radicale.
Posto che l'obiettivo è quello di "vincere bene" si tratta di vedere come raggiungerlo. La ricetta di Vendola è coerente con la strategia di fondo. Servono alleanze, le più larghe possibili. Da questo punto di vista il leader Sel è l'erede di Prodi. La sua proposta in pratica è quella di una Unione di tutte quelle formazioni "orientate al governo" che in questo momento stanno all'opposizione. Quindi tutti dentro tranne chi ‑ come la Federazione della sinistra ‑ si è per ora dichiarata fuori. Con quale programma? Basta come denominatore il comune desiderio di mettere fine al berlusconismo? In che modo la sinistra moderna di Vendola si può sposare con il moderatismo di centro di Casini? Non si sa. Ma il programma è una cosa e la leadership un'altra. Fino ad oggi non si era mai visto a sinistra un leader con la personalità di Vendola. Un mix di linguaggio, caratteristiche personali, capacità  di coniugare valori di sinistra e pragmatismo politico. Vendola ha tutte le caratteristiche del grande leader tranne una: il suo è un piccolo partito.
Nelle elezioni europee del 2009 Sel non è arrivata ad un milione di voti, il 3,1%. Se raffrontato ai 1.124.428 voti presi nelle politiche del 2008 dalla Sinistra arcobaleno (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) è un buon risultato ma si tratta comunque di una cifra modesta. Più o meno la stessa percentuale è stata ottenuta nelle regionali di questo anno. Ma in questo caso facendo il confronto sulle tredici regioni in cui si è votato anche alle europee si vede ci alla stessa percentuale di voti fl( corrisponde lo stesso numero elettori (830.636 contro 679.084 Solo in Puglia Sel ha fatto meglio nel 2010 rispetto al 2009. ma anche in questa regione dove Vendola  gode di grande visibilità il suo partito non ha superato il 10% dei voti. Né i sondaggi più recenti ci dicono che le cose sono cambiate te di molto a livello nazionale. I comportamenti elettorali hanno la loro vischiosità.
Sel è ancora il piccolo partito di un grande leader. E questo spiega il resto della strategia di Vendola. Più del partito contano le primarie SeI è un "partito a termine", destinato a confluire in un'altra formazione. Vendola lo ha detto chiaramente a Firenze. La prima tappa di questo processo saranno le primarie del centrosinistra poi la designazione del candidato premier. Per Vendola sono una necessità e una grande opportunità. Nello stato di disorientamento in cui si trova oggi il popolo di centrosinistra tutto è possibile. Anche che si ripeta l'esito delle primarie pugliesi con Bersani al posto di Boccia. E difficile ma non impossibile, soprattutto se in corsa ci sarà più di un candidato Pd. In ogni caso per Vendoia rappresentano un grande palcoscenico e un trampolino per costruire la sua leadership a livello nazionale. Comunque vadano a finire, per lui saranno una vittoria. Che con lui come candidato premier possa vincere il centrosinistra è tutta un'altra storia.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L'agenda economica. L'obiettivo di guardare oltre la fabbrica ai listini di Borsa
Lavoro ma anche finanza Il «salto» tra Nichi e Fausto
La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager
di Lina Palmerini


La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager


Lavoro e finanza: un luogo tradizionale e uno inedito per la sinistra ma comunque il terreno dove Nichi Vendola traccia la sua rotta alternativa. E proprio su queste due strade, dove i cambiamenti sono stati più forti e gli eventi imprevedibili, che si consuma anche il salto generazionale tra Nichi e Fausto.
C'era una volta Fausto Bertinotti, leader carismatico di Rlfondazione comunista e presidente della Camera, che riceveva nel suo studio a Montecitorio Sergio Marchionne. E sempre in quei giorni di quegli anni, si sentì anche dire dallo stesso: «Sì, stimo Marchionne perché una delle prime cose che ha detto è che il valore di un manager non si misura dalla capacità di licenziare ma nel difendere la compagine lavorativa». E, in effetti, una delle cose che l'ad di Fiat non metteva in discussione all'epoca era la chiusura degli stabilimenti in Italia. Era il 2007, sono passati poco più di tre anni, un soffio nella vita di chiunque, un'era geologica per l'economia e la politica.
Oggi la sinistra di Nichi Vendola riparte ancora dalla Fiat. Ancora da Marchionne che nel frattempo ha chiuso Termini Imerese e ha ingaggiato un braccio di ferro con la Fiom sul contratto. «Melfi e Pomigliano diventano cartelli stradali che segnano la via per capovolgere la destra in Italia. Marchionne ‑ diceva Vendola nel suo intervento di venerdì ‑ ha un'idea di modernità regressiva nel sociale». Un attacco perfetto per delineare la nuova rotta della sinistra che si fonda e si fonde con il lavoro. Sono due i pilastri della proposta di Sinistra e libertà: superare la legge 30 quella sulla flessibilità e limitare drasticamente il ricorso ai contratti a tempo rendendo davvero normale la pratica dell'assunzione indeterminata. Dunque, la norma prima ancora che i costi.
Un approccio che certo scavalca il Pd e anzi separa le due strategie. Quella di Pierluigi Bersani che intende colpire la convenienza economica dei contratti flessibili ‑ parificandone il costo a quelli stabili ‑ mentre quella di Vendola somma via legislativa.e svantaggio economico per marginalizzare la precarietà dal mercato. Questo è l'approdo ma l'avvio è quella che Vendola ha chiamato «la bellissima piazza della Fiom». E dunque la battaglia della Cgil contro la Fiat a difesa dei diritti e del contratto nazionale. E la pressione sul sindacato per farlo tornare al suo ruolo antico del conflitto diversamente da Cisl e Uil «sussunto a parastato», come li ha definiti Vendola.
Ma la fabbrica non è più l'unico luogo della sinistra. E qui sta ancora H salto generazionale tra Bertinotti e Vendola. Oggi la sinistra guarda oltre i cancelli, guarda alla Borsa, ai listini. Non solo contratti e sciopero ma pure hedge fund e short selling entrano nel lessico. E qui l'agenda di Nichi parte dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie per passare a una nuova «separazione tra banche di risparmio e banche di affari» e poi tornare a «limitare stock option per manager» e, infine, chiedere di «frenare hedge fund e i credit default swap» e vietare lo short selling.
Il lavoro è il "cuore", la finanza è il "nuovo luogo" ma il fìsco è il cervello, la razionalità che deve portare a una nuova distribuzione della ricchezza contro un «capitalismo predatore», come si legge nel Manifesto di Sinistra e Libertà. E sulle tasse si ricompatta il mondo di Nichi con quello del Pd. Il fisco è da sempre la koinè ‑ come direbbe Vendola del centro‑sinistra tant'è che qui le distanze quasi si annullanno. E infatti oltre la proposta di una tobin tax, c'è l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie ad avvicinarli: entrambi vogliono aumentarla dal 12,5 al 20% per alleggerire l'Irpef a partire dai ceti più bassi. Una tassa che, nelle idee di Alfonso Gianni, responsabile economico di Sel e tra gli estensori del Manifesto, dovrebbe colpire anche i Bot dando però una franchigia al piccolo risparmio. Ma già una volta, nel 2006, questo fu l'inciampo dell'Unione.

SUI GIORNALI DI GIOVEDI 29 OTTOBRE:

l’Unità 28.10.10
Poca sinistra o poco centro?
Il sondaggio di Ballarò scuote il Pd
Rilevazione Ipsos: Partito democratico al 24%. Franceschini: «Colpa delle divisioni». I veltroniani all’attacco
di Maria Zegarelli


In un clima da pre-vacanza lunga, causa paralisi del varo delle leggi per mancanza di fondi, a Montecitorio il tema del giorno tra i democratici è quel sondaggio dell’Ipsos illustrato martedì sera a Ballarò che blocca il Pd al 24,2%, il Pdl al 29%, Sel di Vendola poco sopra il 6% ma comunque avanti all’Udc che quella cifra la centra in pieno e l’Idv all’8,3%. Se la maggioranza è al chiodo perché il Pd non avanza? è la domanda delle domande.
A stemperare il dato che positivo non è arriva un sondaggio Swg, a cui hanno risposto 20mila persone, che fotografa l’umore interno agli iscritti Pd dopo un anno di segreteria Bersani: i favorevoli alla nascita del partito nuovo sono il 94%, un balzo in avanti notevole rispetto all’87% di un anno fa, più che dimezzati gli sfavorevoli che sono passati dal 13% al 6%. Restano da convincere tutti coloro che oggi non saprebbero a chi dare il proprio voto in caso di elezioni.
Le reazioni al sondaggio Dario Franceschini davanti ai dati Ipsos invita alla calma, «non si possono inseguire i sondaggi tutte le settimane», anche perché, osserva Antonello Giacomelli, «al voto la gente rifletterà e credo che il Pd faccia bene a tenere questa linea». Franceschini annota che il dato, finora, ha riguardato «tre segreterie», nessuno escluso. «È un ordine di grandezza che va avanti da due anni dice -, come confermano i risultati delle europee e delle regionali e che dimostra che bisogna lavorare sodo. La base per crescere è un partito che non si divide al suo interno e lavora come una squadra». Il pensiero va al documento dei 75 di Veltroni-Gentiloni-Fioroni da cui è nata la rottura dentro Areademocratica. E infatti, il veltroniano Stefano Ceccanti prende le distanze dalla maggioranza: «La progressiva erosione è il prodotto della scelta di concentrare il dibattito sulle alleanze e la coalizione disperdendo la nostra capacità propositiva. Oggi aggiunge si sta creando un sistema simile a quello dei Ds, alleati a destra con la Margherita e a sinistra con Rifondazione e siamo a percentuali da Ds». Antonello Soro, Areadem, torna a chiedere un cambio della classe dirigente: «Il segretario deve accompagnare lo sforzo delle ultime settimane con un generoso rinnovamento». Niente a che vedere con la rottamazione che propone il sindaco di Firenze Renzi, che ieri è tornato a invitare Veltroni e D’Alema a non ripresentarsi più alle elezioni e a ripiegare sulle rispettive Fondazioni, «quelle sono tutte sciocchezze», liquida Soro, secondo il quale, però, un partito che vuole guidare una coalizione non può attestarsi al 24%. «Idee nuove e teste nuove», chiede Alessandro Maran, tra i 75, mentre Beppe Fioroni, annota un calo di 10 punti dal 2008: «Dobbiamo lavorare su quel 40% di indecisi avendo il coraggio di essere un soggetto riformatore di centrosinistra, senza essere ossessionati da quei consensi che alla nostra sinistra si frammentano e non si ampliano».
Dialogo a sinistra, si o no?
Idem Marco Follini vede nello sbilanciamento del dialogo a sinistra una delle cause del mancato balzo in avanti del Pd. «È evidente che la spinta a sinistra non fa lievitare il consenso al Pd. Non vorrei che in questi numeri si stesse scontando l’effetto Vendola». Dal Senato commenta anche Nicola Latorre: «Inviterei a fare analisi con maggiore serenità senza cercare di tirare i sondaggi a sostegno delle proprie tesi. Il Pd deve assumere come centrali le questioni che più riguardano i cittadini con una propria prospettiva per il Paese, come abbiamo iniziato a fare a Varese e come dovremo fare con maggiore forza all’Assemblea nazionale di Napoli». Michele Meta, vicino a Ignazio Marino, ritiene «opportuno, invece di puntare il dito e tirare ognuno fuori dal cassetto una ricetta infallibile, lavorare agli ingredienti per dare corpo ad una proposta riconoscibile e credibile».

Repubblica 28.10.10
Polemiche dopo il sondaggio dell´Ipsos
Bufera sul Pd al 24% il leader sdrammatizza ma Veltroni dà l’allarme
Fioroni: niente capri espiatori ma gravissimo aver perso 10 punti in 2 anni
di Giovanna Casadio


ROMA - «Sono preoccupato», dice Walter Veltroni. «Nessuno cerca capri espiatori - rincara Beppe Fioroni - ma un partito che in due anni perde il 10% dei consensi non ha precedenti». E oggi, si riuniscono Veltroni, Fioroni e Paolo Gentiloni - i promotori del Movimento dei "75"nato poco più di un mese fa per dare una scossa al Pd di Bersani che i sondaggi danno in difficoltà. Ora è la stima dell´Ipsos (diffusa in tv, a Ballarò) a gettare benzina sul fuoco delle polemiche e del dissenso interno al partito. Quel sondaggio parla di un Pd al 24,2%; dà l´Idv all´8,3% ma soprattutto fotografa l´ascesa di Nichi Vendola che con il neo-partito "Sinistra ecologia e libertà" raggiunge il 6,1, più dell´Udc (al 6). Partono da qui i botta e risposta tra i Democratici sull´effetto Vendola, sulla strategia delle alleanze e la sinistra che, "cannibalizzata" dal voto utile di Veltroni nel 2008, oggi "cannibalizzerebbe" il Pd.
Bersani non ci sta: «Il sondaggio vero è quello al momento del voto. A me interessa mandare a casa Berlusconi, innanzitutto». Perciò la strategia delle alleanze. Ieri comunque fa il punto con il vice segretario, Enrico Letta. E vede Luciano Violante per discutere di legge elettorale e di riforme. Il segretario ha una contromossa: riuscire a cambiare il Porcellum, con un ritorno, almeno parziale, ai collegi uninominali, consentendo così al Pd di presentarsi alle urne con il Nuovo Ulivo, un "rassemblement" con Idv e Sel, che poi si alleerebbe con il centro. Dario Franceschini, il leader di Areadem e capogruppo alla Camera (che ieri ha incontrato Vendola), sdrammatizza a sua volta i sondaggi: «È un trend che dura da due anni», da quando c´era ancora Veltroni, in pratica. E invita: «Serve unità, la dimostrazione che bisogna lavorare sodo». Lavorare per andare dove? È la domanda di Marco Follini. Il moderato Follini denuncia: «Il calo dei sondaggi è legato alla deriva a sinistra. Un sondaggio non è una sentenza né una certezza; in questi numeri non vorrei però che si scontasse l´effetto Vendola. La spinta a sinistra non fa bene al Pd». E se Michele Meta insiste sull´unità per offrire «proposte credibili»,Fioroni avverte: «Vendola faccia il suo gioco, il Pd non può avere l´ossessione della sinistra. Così facendo noi siamo a un profilo di consenso elettorale che è quello degli ex Ds. Se il Pdl perde elettori, ma perdiamo anche noi, vuol dire che la proposta va modificata». Il "rottamatore" Matteo Renzi, (che ha organizzato una convention) invita Veltroni e D´Alema a smetterla con la politica e ad occuparsi delle rispettive Fondazioni.

il Riformista 28.10.10
Nel Pd (a picco) scoppia la guerra dei sondaggi
di Ettore Colombo

qui

Repubblica 28.10.10
Bertinotti a Repubblica tv: la sinistra riparta dal corteo Fiom
"Vendola vincerà le primarie il Pd non insegua Casini"
"La sinistra deve puntare sulla gente che era in piazza il 16 ottobre e non su Marchionne"
di Francesco Fasiolo


ROMA - «Vendola deve partecipare alle primarie di coalizione. E vincerle». Fausto Bertinotti risponde alle domande del videoforum di Repubblica Tv. E per il futuro punta sicuro sul Presidente della Regione Puglia: «Vendola può riorganizzare tutto il campo della sinistra, non solo una sua parte. E quindi guardare al Pd: non c´è più spazio per due forze in competizione tra di loro. Allo stesso modo, Bersani dovrebbe evitare di inseguire l´Udc».
Da dove dovrebbe ripartire la sinistra?
«La manifestazione sindacale del 16 ottobre è un segno di speranza. La Fiom sulla vicenda Pomigliano è stata coraggiosa e realistica: si è rifiutata di fare un accordo capestro ma si è affidata al referendum dei lavoratori. È una posizione che rappresenta un´idea di sindacato. Opposta a quella della Cisl, che pensa che non ci siano più margini per la negoziazione su salari e lavoro. Oggi in Italia ci sono questi due modelli, ed è giusto siano i lavoratori a scegliere di volta in volta, con i referendum. Ma la sinistra deve puntare sulla gente che era in piazza, non certo su Marchionne».
Cosa pensa delle parole dell´Ad Fiat sull´Italia?
«Quando si è alla testa di un´azienda, si è responsabili anche per la storia di questa azienda. E la Fiat ha avuto dallo Stato finanziamenti e una politica economica sistematicamente rivolta al suo benessere. Chi ha avuto certi vantaggi non può oggi essere così irrispettoso verso il Paese da cui li ha ricevuti».
E a destra, il berlusconismo è davvero in crisi?
«Quello politico sì: l´impasto di populismo e liberismo che ha caratterizzato l´egemonia di Lega e Pdl è in crisi acuta. Ma il fenomeno culturale e sociale, la rivoluzione conservatrice italiana, quella resta».

il Fatto 28.10.10
Pedofilia, il Senato inasprisce le pene


Escluso il patteggiamento e non si potrà più dire “Non sapevo fosse minore”
E sulta e ne ha buona ragione, il senatore del Pdl Antonino Caruso, che festeggia l’approvazione da parte del Senato della cosiddetta “Convenzione di Lanzarote”, che il Consiglio d’Europa adottò nel luglio 2007 e che il governo italiano, nel febbraio del 2009, con la ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, annunciò di voler fare propria. Bene, ieri la convenzione di Lanzarote, che inasprisce le pene relative agli abusi sessuali contro i minorenni, è stata approvata a Palazzo Madama, pronta per passare nuovamente all’esame di Montecitorio. Mentre dalla Procura di Milano continua a tirare vento di bufera per Silvio Berlusconi, per via di una presunta relazione sessuale con una minorenne originaria del Marocco, è una felice coincidenza che il Parlamento approvi una legge più stringente sul medesimo tema. È sempre Caruso, tra gli alfieri di questa battaglia, a spiegare: “Con la ratifica della convenzione di Lanzarote, a tre anni dalla sua emanazione, l’Italia porta a compimento un percorso che la colloca tra i paesi all’avanguardia nel contrasto agli odiosi reati di sfruttamento e abuso sessuale dei minori”.
TRA LE NOVITÀ introdotte dal nuovo testo, se ne contano due per adesso estranee alla nostra legislazione nazionale. La prima si chiama grooming e consiste nell’adescamento tramite Internet, attraverso lo scambio di file “sensibili” tra un adulto e un minore “soggiogato” (la pena prevista varia da uno a tre anni). La seconda, la spiega lo stesso senatore del Pdl, consiste nel non potersi difendere con il “non sapevo che era minorenne”.
QUESTO, secondo il legislatore, dovrebbe stroncare il mercato delle prostitute bambine che si trovano anche sui marciapiedi delle città italiane. “Il cliente della prostituta minorenne spiega il senatore Caruso commette un reato ed è quindi destinato a subìre una condanna penale, senza che egli possa invocare a propria scusante il fatto di aver ignorato l’età della prostituta”.
Per Caruso ciò rappresenta “una vera e propria ’turbativa di mercato’ perché tende a dissuadere la clientela dalla ‘domanda’ e quindi inevitabilmente ostacola ‘un’offerta’ di ‘sesso giovanissimo’, che è la nuova frontiera sempre più affollata che la criminalità offre. È pensabile conclude che i potenziali clienti davanti alla prospettiva di una pena di reclusione fino a quattro anni, ci pensino due volte a correre il rischio”. Infine si raddoppiano i termini per ottenere la prescrizione per reati di questo tipo e si cancella la possibilità di patteggiamento.

il Fatto 28.10.10
Scuola, ecco cosa propone il Pd
di Francesca Puglisi Responsabile Scuola Segreteria Nazionale del Pd


L’articolo di Marina Boscaino accusa il Pd di non avere una visione propria sulla scuola e di “tubare” con il ministro Gelmini sulla pelle di studenti e insegnanti attraverso lo scambio epistolare ospitato dal Corriere con l’ex ministro Fioroni. Invece, è con le proposte programmatiche votate dall’Assemblea nazionale del Pd che il ministro deve confrontarsi, se davvero è interessata a un dialogo per il bene della scuola pubblica. Per noi la scuola pubblica deve svolgere quel ruolo di ascensore sociale che la Costituzione le ha assegnato. Nessun bambino deve essere lasciato indietro. I divari abnormi tra nord e sud del Paese nei livelli di istruzione, si spiegano anche così: nel Mezzogiorno sono pochissimi i servizi educativi per l’infanzia ed è una rarità il tempo pieno nella scuola primaria. Per questo il Pd propone di garantire ad ogni bambino e bambina un posto nella scuola dell’Infanzia, perché solo investendo in educazione di qualità sin dalla tenera età aiuteremo davvero tutti a superare gli svantaggi di partenza e a diffondere in tutto il Paese i modelli educativi del tempo pieno e del modulo a 30 ore con le compresenze. La scuola autonoma, per assolvere pienamente il proprio mandato educativo, deve essere libera di organizzare la didattica per raggiungere l’obiettivo del successo scolastico dei ragazzi e delle ragazze. Per questo ha bisogno di una stabilità pluriennale di risorse finanziarie e professionali. Proponiamo quindi il superamento della distinzione tra organico di diritto e organico di fatto, per passare all’assegnazione a ciascuna scuola autonoma di un organico funzionale, che includa per reti di scuole anche una quota di personale stabile per le supplenze brevi e professionalità specializzate a supporto dei ragazzi con bisogni speciali. Questo sistema, che costa non molto di più della spesa attuale complessiva dello Stato (ai supplenti vengono pagate comunque la disoccupazione e le ferie non godute), comporterebbe innumerevoli vantaggi, come il superamento del precariato scolastico; la programmazione certa dei fabbisogni di insegnanti e conseguente piano di reclutamento; la piena autonomia delle scuole. Una piena realizzazione dell’autonomia necessita di un sistema di valutazione nazionale, indipendente dal ministero e responsabile verso il Parlamento, che includa la valutazione dell’intero sistema scolastico, delle scuole, dei dirigenti e dei docenti – su base volontaria in relazione all’avanzamento di carriera – come parti integranti di una valutazione complessiva dell’autonomia scolastica. La situazione drammatica dei precari della scuola richiede interventi immediati. Il precariato compromette la qualità complessiva della scuola. Occorre rendere immediatamente disponibili per l’immissione a tempo indeterminato i posti attualmente coperti con incarico annuale e riprendere in prospettiva il piano di stabilizzazioni intrapreso dal governo Prodi. Infine per tenere in ordine i conti dello Stato, invece di tagliare 8 miliardi alla scuola, occorre comprimere la spesa corrente della Pubblica amministrazione, aumentata nel corso di questi due anni di governo e svolgere una seria azione di lotta all’evasione fiscale. Tagliare i fondi all’istruzione, significa tagliare il futuro del nostro Paese.

Repubblica 28.10.10
"Iraq, chi torturò paghi" l'Onu chiede un'inchiesta
WikiLeaks, accuse ad americani e iracheni
Il commissario per i diritti umani: "Verificare le accuse formulate nei documenti". Gli Usa: "Nessun abuso"
di Alberto Flores D'Arcais


NEW YORK - Gli americani non ci stanno, il Pentagono nega che i soldati Usa abbiano consegnato prigionieri agli iracheni sapendo che sarebbero stati torturati, ma le Nazioni Unite chiedono che venga aperta un´inchiesta. «Americani ed iracheni devono prendere ogni misura necessaria per verificare le accuse formulate nei documenti», ha sostenuto martedì l´Alto Commissario per i diritti umani dell´Onu, la sudafricana Navi Pillay. Una richiesta che era già stata avanzata nei giorni scorsi da Human Right Watch ma che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di accettare.
«Semplicemente non è vero», ha risposto il capo dell´esercito generale George Casey (che ha guidato le truppe Usa in Iraq dal 2004 al 2007), «la nostra politica è chiara: se i soldati americani vengono a conoscenza di torture inflitte ai prigionieri devono fermarle e fare rapporto al comando Usa e anche a quello iracheno». Per quanto riguarda la vittime civili il portavoce del Pentagono, colonnello Dave Lapan è altrettanto categorico: «Nei documenti di WikiLeaks non ci sono novità, nel conteggio delle vittime civili noi abbiamo usato gli stessi "files", ma nel corso degli anni è stato impossibile arrivare ad una cifra esatta».
La linea ufficiale è negare, ribaltare l´accusa contro WikiLeaks già esposta dal Segretario di Stato Hillary Clinton ("la pubblicazione mette in pericolo di vita quegli iracheni che combattono al nostro fianco") anche perché i militari americani temono la pubblicazione di nuovi "files" ("abbiamo motivi per credere che lo faranno", ha detto Lapan) e soprattutto che i documenti possano essere usati per portare in tribunale soldati, contractors o funzionari Usa. Che è proprio quello che la commissaria dell´Onu vorrebbe: «Vanno portati di fronte alla giustizia tutti coloro che si sono resi responsabili di omicidi illegali, esecuzioni sommarie, torture e altri gravi attentati ai diritti umani».
In un´America che si appresta ad andare alle urne per le elezioni di Midterm, le vicende dei documenti di WikiLeaks passano in secondo piano rispetto alla campagna elettorale. Se ne discute molto nei blog e e nei forum online di tendenza "liberal", meno sui media ufficiali. Quelli conservatori mettono l´accento sui documenti che riguardano l´Iran (dai "files" risulta che l´appoggio finanziario e logistico, compresi armi ed esplosivi da parte del regime degli ayatollah è più consistente di quanto si sapesse) o il fatto che siano stati trovati laboratori per armi di distruzione di massa (sia pure vecchi). E c´è chi (sulla tv Fox) chiede addirittura che il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, venga trattato alla stregua dei terroristi, che venga arrestato e portato nella prigione di Guantanamo.

Repubblica 28.10.10
Il caso Wikileaks tra etica e diritto
di Antonio Cassese


Le rivelazioni di Wikileaks circa le atrocità (torture, esecuzioni sommarie, stupri) commesse da militari iracheni contro insorti iracheni e civili, nonché casi singoli di tortura di iracheni da parte di militari statunitensi o britannici, mostrano da una parte la debolezza del diritto e, dall´altra, la forza dell´etica e dell´opinione pubblica nelle relazioni internazionali.
Cosa prevede il diritto? Quelle atrocità, singole o su larga scala, sono crimini di guerra, perché commesse nel corso di un conflitto armato e legate a quel conflitto. Gli iracheni avevano dunque l´obbligo di perseguire e punire i perpetratori iracheni; gli americani e gli inglesi dovevano fare altrettanto con i propri militari. In più, gli americani, che erano al corrente dei crimini commessi dalle truppe irachene, non dovevano stare a guardare. Dovevano esigere dai comandi iracheni la punizione dei colpevoli e, in caso di risposta negativa, fare passi ufficiali energici presso il governo di Baghdad. Ciò è richiesto dall´Articolo 1 delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, in virtù del quale ogni Stato contraente ha l´obbligo e il diritto di rispettare e far rispettare il diritto internazionale umanitario, e cioè di esigere tra l´altro la tutela dei civili, nonché la punizione dei crimini di guerra, da parte dello Stato cui appartengono i perpetratori. Gli Usa avevano dunque il diritto e l´obbligo di chiedere agli iracheni di punire i colpevoli. E dovevano anche informare il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Oltre a ciò, tutti e tre gli Stati in questione dovevano rendere pubblici i rapporti concernenti quelle atrocità nonché gli eventuali procedimenti penali instaurati.
Cosa è successo invece? Tutto è stato tenuto segreto, gli americani hanno fatto finta di non vedere, e gli obblighi giuridici esistenti sono rimasti lettera morta, per mancanza di efficaci meccanismi internazionali di garanzia.
Per fortuna è subentrata l´etica. Un giovane militare americano, probabilmente spinto da un impulso di ribellione e rischiando la galera, ha fatto avere circa 400.000 rapporti militari segreti a Wikileaks, che li ha resi pubblici. Indubbiamente questo è un modo inusitato e irrituale di far conoscere crimini. Ma è un modo che può essere giustificato moralmente, quando i vertici militari colposamente tengono celati quei crimini, e purché vengano adottate le dovute garanzie per proteggere i nomi degli informatori.
Ora l´Alto Commissario dell´Onu per i diritti umani ha formalmente chiesto a Stati Uniti e Iraq di aprire inchieste rigorose. L´Alto Commissario è un organo internazionale che non dispone di poliziotti, eserciti o giudici, ma ha il compito di far valere istanze morali, quando vengono commesse violazioni dei diritti umani così gravi da ledere valori fondamentali della comunità internazionale.
Accanto all´etica si sta muovendo la politica. Il vice primo ministro britannico, Nick Clegg, ha ordinato un´inchiesta per accertare le colpe dei militari britannici, implicitamente esortando gli Stati Uniti a fare altrettanto. Non sarebbe opportuno che anche il Governo italiano e tutta l´Unione europea sostenessero la richiesta dell´Alto Commissario dell´Onu e facessero sentire la propria voce agli americani e agli iracheni?
Sarebbe anche necessario che l´opinione pubblica si rendesse conto che ancora una volta le colpe maggiori non ricadono sulla "bassa forza", sui soldati o caporali che commettevano gli abusi. Responsabili sono soprattutto i comandanti che ordinavano o consentivano quegli abusi. Nel caso poi delle atrocità commesse dagli iracheni, i soldati statunitensi le hanno sempre riferite dettagliatamente ai loro capi. Ma sono questi che hanno voluto ignorarle. Il problema dunque non è giudiziario (processare e punire i leader militari, cosa poco realistica nel mondo attuale) ma politico: introdurre nella condotta della guerra moderna principi etico-politici inderogabili. Problema, come si vede, di assai ardua soluzione. Resta dunque disponibile un´unica sanzione: l´opinione pubblica internazionale, che ha la forza di stigmatizzare i governi ed imporre loro che assumano le proprie responsabilità.

Repubblica 28.10.10
I soldi della mafia riciclati su un conto dello Ior
Inchiesta a Catania: un sacerdote nipote del boss "ha ripulito" 250mila euro
di Carlo Bonini


Il bonifico parla di "beneficenza" ma Bankitalia segnala subito l´operazione sospetta

ROMA - Un conto dello Ior, un capo bastone mafioso, i suoi soldi, e il suo giovane nipote, un sacerdote, che l´accusa vuole si adoperi per ripulire lungo le vie del Signore 250mila euro truffati alla collettività, dissimulandone il cattivo odore e i beneficiari. Se era necessaria anche una sola prova, sintomatica dell´opacità e della trascuratezza con cui sono stati gestiti nel tempo i conti della banca Vaticana, e dunque di quale potenziale verminaio possano nascondere migliaia di operazioni che, quantomeno fino al 2007 (anno di entrata in vigore delle nuove norme antiriciclaggio), hanno consentito, a chi su quei conti aveva delega, di muovere contante sulla piazza finanziaria italiana ed estera nell´anonimato e a beneficio di Dio sa chi, ebbene quella prova è arrivata.
È una "piccola storia", un brandello di "verità", documentata da un´indagine della procura distrettuale antimafia di Catania, per la quale, ieri, sono stati sequestrati beni per 5 milioni di euro e risultano indagati in tre. Un sacerdote, suo padre, lo zio mafioso. Il primo per riciclaggio, gli altri due per truffa aggravata, falso, evasione fiscale. Ed è una storia che, per quanto interpelli la responsabilità penale dei singoli, conferma l´intuizione di "sistema" dell´inchiesta per riciclaggio che la procura di Roma sta conducendo sui rapporti tra Ior e istituti di credito italiani e sulla natura delle loro operazioni.
Un´inchiesta in cui questa vicenda catanese aveva trovato una prima generica "discovery" e che ha messo a rumore le stanze vaticane e il torrione di Niccolò V, dove hanno i loro uffici il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e il suo direttore generale Paolo Cipriani, indagati a Roma per «omessa osservanza delle norme antiriciclaggio» (reato per il quale sono stati sequestrati 23 milioni di euro su un conto della Banca Vaticana presso il Credito Artigiano).
Ma torniamo a Catania. E al 2006, quando i protagonisti di questa storia - il sacerdote, suo padre e lo zio - entrano nel cono di attenzione prima dell´Uif (Unità di intelligence finanziaria) di Bankitalia, quindi della procura distrettuale Antimafia che ne raccoglie una segnalazione di operazione sospetta, e infine della Guardia di Finanza, delegata all´indagine. I tre hanno un nome e una storia. Vincenzo Bonaccorsi, 59 anni, è uomo del "clan" siracusano dei "Nardo". Nel luglio del 2000, è stato condannato per associazione mafiosa e, due anni dopo, con la conferma definitiva della sentenza, viene sottoposto a misure di prevenzione che dovrebbero annullarne la capacità patrimoniale. Dovrebbero. Perché Vincenzo ha un fratello, Antonino, con cui condivide proprietà fondiarie e interessi. Ma, soprattutto, ha un nipote: "padre" Orazio, 35 anni, che di Antonino è il figlio e studia a Roma all´Università Gregoriana. Ebbene, nel 2006, Vincenzo e Antonino combinano una truffa ai danni della Regione Sicilia. Un finanziamento di 600mila euro, grattati dai Fondi strutturali europei, per la realizzazione di «un allevamento di trote» e di «una pesca sportiva» che, naturalmente, non hanno visto neppure la posa di un mattone. Il 3 gennaio 2006, una prima tranche di quel finanziamento, 300mila euro, viene accreditata dalla Regione sul conto 1511 della filiale di Catania della Banca Popolare di Novara, intestato ad Antonino Bonaccorsi. Quindici giorni dopo, da quel conto, 250mila euro vengono bonificati alla filiale numero 15 della Bnl di Roma, dove "padre Orazio" ha un conto personale, il 12138. Nella causale del bonifico, si legge «beneficenza». Bankitalia non deve credere troppo alle opere di bene di Antonino. Segnala l´operazione come sospetta alla procura e per "padre" Orazio cominciano i guai. Il sacerdote trasforma infatti una parte di quei 250mila euro di "carità cristiana" in un assegno Bnl girato a se stesso di 245mila euro (ritagliando per sé, e Dio solo sa perché visto che si parla di "beneficenza", un obolo di 5mila). Quindi, con quell´assegno in mano entra nell´allora "Banca di Roma", dove lo Ior ha uno dei suoi conti («il 2838150») e su cui ha la delega ad operare. E lo versa, ribadendone la causale: "beneficenza". Il gioco è fatto. Quel denaro, ora che è nelle casse dello Ior, non ha più né un padre, né un figlio. «Tutto può essere confuso», per dirla con le parole del procuratore di Catania Vincenzo D´Agata. E Antonino può tornare in scena.
La Finanza accerta infatti che, grazie ai codici di "home banking" del conto Ior che ha avuto dal figlio Orazio, tra febbraio e ottobre 2006, dei 245mila euro arrivati, Antonino ne fa ripartire 225 (la differenza di 20mila che rimane sul conto è forse davvero l´unica "opera di beneficenza" in questa storia) con «nove bonifici» telematici verso il suo conto della filiale di Catania della banca Popolare di Novara, casella di partenza di questo di giro dell´oca. Qualche tempo dopo, Vincenzo, il mafioso, passa allo sportello e preleva quel denaro in contanti. È la sua «stecca» nella truffa. Non sa che il Diavolo, questa volta, ci ha messo la coda.

Repubblica 28.10.10
L´eccezione francese nell´europa in crisi
di Marc Lazar


In questi giorni, mentre si conclude in Francia la contestazione della riforma delle pensioni, la maggior parte dei media internazionali che hanno dedicato spazio alla questione ne parlano come di un fenomeno unico. A sentir loro, la Francia è più che mai il Paese della protesta, degli scioperi, delle manifestazioni e delle esplosioni di violenza. L´eccezione francese fa sorridere o preoccupa - rischiando peraltro di far dimenticare che la Francia è un Paese molto aperto alla globalizzazione, al primo posto in Europa e al terzo nel mondo - dopo gli Stati Uniti e la Cina - tra i Paesi che accolgono investimenti esteri diretti.
È vero che la forte e prolungata mobilitazione sindacale e il vasto sostegno dell´opinione pubblica attestano un´innegabile originalità francese. Se realizzare una riforma delle pensioni è sempre rischioso, lo è in misura ancora maggiore in Francia. I motivi sono innanzitutto congiunturali: il presidente Sarkozy sta battendo vari record di impopolarità, e il suo ministro incaricato della riforma è stato screditato, a torto o a ragione, dalle rivelazioni sui suoi stretti legami con la detentrice di uno dei maggiori patrimoni di Francia. Inoltre, per tradizione storica, i francesi sono particolarmente sensibili ai problemi dell´uguaglianza e della giustizia sociale, con la conseguente tendenza alla contrapposizione tra i «deboli» e i «ricchi e potenti»: un antagonismo ancora accentuato da taluni atteggiamenti e frequentazioni di Nicolas Sarkozy. Infine, in Francia il valore del lavoro, pur rimanendo fondamentale, è soggetto a notevoli mutamenti, in ragione del forte tasso di disoccupazione, dei cambiamenti nell´organizzazione del lavoro e di una crescente precarizzazione. A ciò si aggiunge il fatto che la sinistra ha ridotto gli orari di lavoro a vantaggio del tempo libero; e i francesi attendono con impazienza il momento di andare in pensione. Perciò, guai a voler intaccare quello che qui è percepito come un Eldorado.
Tuttavia, l´innegabile singolarità della Francia non deve farci dimenticare che la crisi sociale in atto riveste altresì una dimensione europea. In effetti, l´impatto della riforma delle pensioni è particolarmente negativo in un momento come questo, a soli due anni dall´esplosione della più grave crisi finanziaria ed economica che il mondo capitalista abbia conosciuto dal 1929. La «grande recessione», come la definiscono gli americani, ha indotto un grandissimo numero di europei a vedere in una luce diversa l´economia di mercato, e ha aperto una vera e propria crisi morale, aggravando la percezione sempre più diffusa di un declino del Vecchio Continente a fronte delle potenze emergenti. Inoltre, questa crisi viene ad aggiungersi alla crescente diffidenza nei confronti dell´Unione Europea, dei governi, delle élite, delle istituzioni politiche e dei partiti. Nel loro insieme, questi ingredienti costituiscono un cocktail esplosivo, di cui per ora avvertiamo solo gli effetti iniziali. Di fatto, il basso livello di crescita e quello decrescente della capacità di redistribuzione, il super-indebitamento e l´esplosione della spesa sociale e sanitaria inducono gli esecutivi europei a instaurare regimi drastici di austerità e di rigore. Dopo i Paesi governati dalle sinistra quali la Grecia, la Spagna e il Portogallo, è la volta di quelli con governi di destra come la Francia e il Regno Unito. Quasi ovunque si annunciano tagli massicci dei posti di lavoro pubblici, della spesa sociale, degli investimenti nei settori strategici di pertinenza statale, e in particolare nel welfare.
Quest´ultimo aspetto è decisivo. Le politiche sociali, attuate nel corso degli anni secondo le procedure e i ritmi specifici di ciascun Paese, costituivano un elemento distintivo dell´identità europea, in contrapposizione con gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina. Ora, in quest´ultimo trentennio la tutela sociale è stata fortemente ridimensionata. I governi, ognuno a suo modo, hanno promesso «lacrime e sangue»; e gli europei hanno accettato più o meno facilmente questi sacrifici, anche nella misura in cui contavano di poter migliorare la propria situazione economica e sociale. Ora però, dopo la crisi del 2008, la loro sensibilità è mutata. A fronte della richiesta di nuovi sacrifici, devono constatare che lo Stato è intervenuto massicciamente per salvare il sistema bancario e finanziario, mentre le banche non hanno dato prova di aver recepito gli insegnamenti della crisi, e le disuguaglianze sociali aumentano con ritmo sempre più accelerato.
Questi contrasti spiegano in parte il successo delle mobilitazioni sociali un po´ dovunque, l´inasprimento della conflittualità sociale, la radicalizzazione politica a destra come a sinistra, e l´avanzata dei partiti populisti. I quali ultimi, sfruttando le paure degli europei e la loro aspirazione a sentirsi protetti, aggiungono ora ai loro temi preferiti - lotta contro l´immigrazione e il fondamentalismo islamico, critica delle élite, ordine e sicurezza, rivendicazione identitaria di un territorio o di una nazione - anche la difesa del welfare, dal quale però secondo loro gli stranieri andrebbero rigorosamente esclusi.
Davanti a sfide di così vasta portata, le responsabilità che pesano sui leader europei sono gravose. Come riformare il welfare senza inasprire ulteriormente le disuguaglianze e i rischi di disgregazione sociale? Nel momento in cui la deregulation mostra i suoi limiti, quale dev´essere esattamente il ruolo dello Stato-nazione, ora che i suoi margini d´azione sono ridotti, e quale il ruolo dell´Unione Europea? Quale la strategia, l´etica, la «narrativa» da ricreare per scongiurare il rischio che gli europei affondino nella disperazione? Al di là di alcune rare eccezioni, peraltro incerte, come quelle di David Cameron nel Regno Unito con la sua «big society», o del progetto «care» della socialista francese Martine Aubry, per il momento le risposte dei leader politici si fanno attendere. Spesso tentati da un illusorio ripiegamento protettivo sulla nazione o sul localismo, non riescono a dar vita a una governance europea; e rischiano così di peggiorare non solo le condizioni dell´economia, ma anche quelle della politica, aggravando l´immenso disagio dell´opinione pubblica.

Repubblica 28.10.10
Arte povera
Il profondo dono dei musei
di Conchita Sonnino


Tagli dei fondi pubblici e vincoli alla spesa. E lo Stato che si defila per lasciare spazio ai mercanti Così in tutta Italia muoiono i musei destinati alle opere contemporanee

Dal Madre di Napoli al Mambo di Bologna: la scure si abbatte sulle esposizioni di arte contemporanea In alcuni casi i tagli dimezzano i fondi a disposizione. Mentre le norme in vigore dal 2011 penalizzeranno anche le istituzioni virtuose. Mostrando tutti i limiti del mecenatismo pubblico
La contrazione dei fondi arriva in un momento di trend positivo: un milione di visitatori annui
Bonito Oliva: "Non mi pare strano che si vogliano colpire i luoghi in cui si crea un gusto critico"

Un respiro sempre più pesante, che ora minaccia di diventare paralisi. Mentre le forbici di Stato lavorano ai fianchi piccole e grandi istituzioni culturali radicate sul territorio, quello che sembra profilarsi per l´arte contemporanea in Italia non è solo uno tsunami. Ma qualcosa che somiglia al suo più perfido contrappasso: la mancanza di futuro per l´arte in movimento, l´agonia inflitta a un linguaggio in perenne evoluzione, il C´era una volta applicato al racconto futuribile per eccellenza.
Gli ultimi vincoli imposti dal patto di stabilità hanno vibrato il colpo decisivo. Sui musei pubblici d´arte contemporanea - 26 gli italiani più rinomati, con un milione di visitatori in un anno e un trend generalmente in crescita - si è abbattuta la scure dei tagli, dal 30 al 50 per cento, inflitti già a monte agli enti pubblici da cui dipendono, Comuni, Regioni e Province. In più, ecco la norma della finanziaria che da gennaio impone a tutti i centri espositivi di non spendere, per mostre ed eventi culturali, più del 20 per cento di quanto si sia destinato a tali attività nell´anno precedente.
Al museo Mambo di Bologna, di proprietà del Comune, la falce rischia di spezzare molte attività in corso. Lo racconta con tono dolente Gianfranco Maraniello direttore di una realtà che ormai unisce cinque sedi, un dialogo intessuto con le scuole, il territorio perfino con alcuni ospedali. La falce manderà in tilt un pezzo di vita del museo. «Siamo passati da un milione e 200 mila euro di fondi a un budget di 471mila euro. Il paradosso è che pur essendo riusciti a recuperare un milione e 450 mila euro da sponsor e risorse esterne, non riusciamo a spenderli - spiega Maraniello - perché l´ormai nota norma della finanziaria ci impone di non destinare alle mostre e all´offerta culturale più del 20 per cento di ciò che è stato previsto nell´anno precedente. È questa falce indiscriminata che ammazza i musei, e che colpisce persino i processi virtuosi, la capacità di reperire altrove i fondi utili a fare innovazione, a costruire la qualità».
Senza dire che va a farsi benedire la retorica sulla maggiore efficacia del modello misto pubblico-privato. Aggiunge Maraniello: «Sono cresciuto con questa "canzone", e ora arriva la beffa dell´agonia istituzionale».
È con l´acqua alla gola anche il Madre di Napoli, già simbolo del rinascimento bassoliniano, anche per questo - oltre che per una controversa rendicontazione - oggi in cima al passato da abbattere, o da rigenerare, da parte della nuova giunta regionale di centrodestra. «Abbiamo subìto il taglio totale dei fondi - spiega il suo direttore, Eduardo Cicelyn - Ci hanno sottratto 9 milioni e 400mila euro di finanziamenti europei. E allo stato non sappiamo nulla dei fondi gestionali in arrivo dalla Regione che non ci paga la rendicontazione del 2009 e del 2010. Diciamo che se la crisi riguarda tutti, noi del sud siamo le prime cavie a morire». Il Madre sta pagando a rate un maxidebito di energia elettrica (160mila euro) e attende ancora di saldare i conti del telefono. Una lunga querelle oppone ormai Cicelyn all´assessore Caterina Miraglia, lo scultore Mimmo Paladino ha lasciato un drappo nero su una delle sue opere più famose per protestare contro l´indifferenza in cui va in coma l´arte contemporanea.
Alla battaglia per non morire, partecipa da mesi l´Amaci, l´associazione che riunisce i 26 centri musei di arte contemporanea italiani. La presidente Gabriella Belli non usa toni concilianti. «La ricaduta drammatica di questa erosione di risorse sui musei non riguarda solo la produzione di mostre ed eventi culturali di qualità, ma anche la crescita e il radicamento di una vera e propria economia che aveva costruito rapporti solidi non solo con artisti e designer, ma con artigiani, tecnici, case editrici». Ogni giorni un sos a Milano come a Torino, a Roma come a Bologna. «Si colpisce in questo modo la credibilità di istituzioni che hanno lavorato per anni con musei stranieri e che oggi rischiano di non poter più fare programmazione»
Perché accade ora? Per dirla con l´analisi di un autorevole e ironico esperto, Achille Bonito Oliva, «questo nuovo clima non è dovuto soltanto alla crisi che imperversa in Europa e nel mondo. L´arte contemporanea, in particolare, è un linguaggio che provoca domande e talvolta sgomento. Ed è quanto di più lontano si possa immaginare, culturalmente prima che ideologicamente, dagli obiettivi di formazione di un centrodestra che ha bisogno di promuovere un gusto consolatorio, narcotizzato, soporifero». S´infiamma, Bonito Oliva. «Viviamo in un´epoca di peronismo mediatico, di monopolio dei media - avverte il padre di "Contemporanea" - e figuriamoci se a una tale categoria di conservatori fa comodo avere un luogo dove costruire un gusto collettivo che sia critico, maturo. Ma i musei perché nascono, in fondo? Per essere la palestra in cui viene sollecitato continuamente quel muscolo che rischia l´atrofizzazione: il cervello». E poi, sostiene ancora: «Chi l´ha detto che la crisi sia necessariamente portatrice di morte per l´arte? Guardiamo all´esempio di Roosevelt, il presidente americano che, mentre il Paese era travolto dagli effetti della grande depressione del 1929, investì sull´arte, fece nascere la fotografia documentaristica, e ci ha lasciato la testimonianza di un tempo e di un clima durissimo, grazie a quell´intuizione».
I tagli come bavaglio alle inquietudini, museruola alle domande - non solo pop, non più smaccatamente edoniste e spettacolari, come negli anni Ottanta - che scavano nelle nebbie del reale. E il paradosso, racconta Cristian Valsecchi, segretario generale di Amaci, è che «questi tagli affossano un panorama di produzione culturale proprio quando tutti i trend segnalano una netta crescita di visitatori nei musei pubblici, di interesse per gli eventi dedicati al settore. L´ultima Giornata nazionale dedicata all´arte contemporanea, del 9 ottobre scorso, ha segnato un boom di presenze». Precisa Valsecchi: «Si è passati dai 170 aderenti dell´edizione del 2005, tra gallerie, centri, musei, ai 110 aderenti di qualche giorno fa. Con un coinvolgimento di circa 170mila visitatori in una giornata». Valsecchi ha un´immagine per sintetizzare la situazione italiana. «Se si crede veramente al "giacimento culturale", il giacimento lo si sfrutta, con gli investimenti. Esattamente come si fa con il petrolio. Nei Paesi in cui non si coltiva l´ipocrisia o la parola insignificante, come in Francia, il Beaubourg riceve risorse per 75 milioni. Che, in fondo, fanno il doppio di quanto ottengano, tutti insieme, i 26 musei pubblici associati in Amaci».
Un mercato consistente, stimato qualche anno fa da un´analisi Nomisma in 400 milioni di euro, anche quello della compravendita di opere d´arte, benché gravato da una normativa fiscale penalizzante. Sempre aziende private e grandi gruppi mostrano attenzione per il contemporaneo. Mentre in Italia continuano a crescere le gallerie dedicate a questo settore: almeno un migliaio, di cui oltre cento sono officine di ricerca.
Sui tagli, fa eccezione l´accoglienza clamorosa e il boom di presenze che continua a collezionare il Maxxi, inaugurato a Roma. Eppure il suo direttore, Anna Mattirolo, non si sottrae all´allarme. «È la cosa più drammatica che possa capitare a un Paese. Non importa che ora i tagli tocchino più l´uno che l´altro. Se il sistema funziona, siamo in piedi culturalmente. Se il sistema va a rotoli, dobbiamo preoccuparci per tempo. E tutti».

Repubblica 28.10.10
Quando lo Stato abdica a favore del mercato
Marc Fumaroli, storico e saggista francese, membro dell´Académie française


Non possiamo ridurre a una semplice differenza di gusti la mostra di giocattoli giapponesi contemporanei, di gran marca e di gran prezzo, in corso al castello di Versailles, trattato come una vetrina pubblicitaria. Questa confusione di generi (scioccante per gli uni, intrigante per gli altri) è rivelatrice di una deriva di ben più ampio respiro e che travalica i confini dell´estetica, anche se l´estetica c´entra parecchio al riguardo.
Nel 1992, ne Lo Stato culturale: una religione moderna, denunciai gli inizi di questa deriva. In nome del nobile obbiettivo della democratizzazione culturale, lo Stato, non contento di vegliare sul patrimonio nazionale affidato alla sua tutela, si prendeva già allora per un mecenate d´avanguardia. E si metteva a sovvenzionare e dare ospitalità al rock, al rap, ai graffiti e ad altre importazioni della cultura di massa americana, avanguardista per definizione.
Il successo commerciale di queste irresistibili varietà, peraltro, era già pienamente assicurato dai quei potenti diffusori privati che sono le vedettes dell´arte cosiddetta "contemporanea", attraverso i loro non meno abili galleristi e le loro famigerate "Fiere".
Koons, dopo Versailles, è stato esposto nella galleria parigina Noirmont. Presto vedremo Murakami esposto nella galleria Gagosian, appena sarà inaugurata a Parigi. E non mancano i musei pubblici dedicati all´arte cosiddetta «contemporanea».
Nel 1996, ospite dell´American Academy a Roma, scoprii che questa abdicazione dello Stato (nel senso europeo) a tutto vantaggio del mercato era un fenomeno in fase avanzata anche in Italia. All´ambasciata americana venni presentato all´uomo che Romano Prodi avrebbe scelto come ministro dei Beni culturali, Walter Veltroni. Questi, molto calorosamente, mi disse: «Ah! L´autore de Lo Stato culturale! Sono d´accordissimo con lei! È l´uovo di Colombo, non abbiamo il petrolio, ma abbiamo un patrimonio culturale!». Corressi questa lettura arlecchinesca del mio pensiero in un´intervista su La Repubblica, ma Veltroni diventò comunque ministro, e inaugurò la deriva commerciale (sfilate di moda e concerti rock al museo), ma anche la confusione semantica tra patrimonio culturale e intrattenimento di massa, l´una e l´altra rimaste fino ad allora latenti nell´espressione italiana «beni culturali», all´apparenza più innocente della nostra «affari culturali», ma altrettanto esposta al rischio di sbandamenti in direzione del mercato, mobiliare o immobiliare. Non al punto, comunque, di esporre Damien Hirst a Villa Borghese…
Da allora, stando a quanto scrive Salvatore Settis nel suo saggio Italia S.p.A, L´assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002-2005) e nei suoi articoli su La Repubblica, le cose in Italia non hanno fatto che peggiorare. Una legge approvata dalla coalizione di governo berlusconiana ha seriamente danneggiato il principio di inalienabilità del patrimonio nazionale italiano, pubblico o sotto la tutela dello Stato. La resistenza di Settis, e di molti altri schierati al suo fianco sulle pagine dei giornali, è quantomeno riuscita, al momento, a limitare gli effetti dello stereotipo «patrimonio culturale = giacimento culturale», un pensiero unico di cui si riempiono la bocca burocrati, organizzatori di convegni e politici di destra e di sinistra. (...)
Il problema quindi non si riassume certo in un liberale «mi piacciono» o un reazionario «non mi piacciono» Murakami o Koons sotto i soffitti di Versailles. È qualcosa che chiama in causa la nostra idea dello Stato e di chi lavora per lo Stato, la nostra concezione del patrimonio nazionale e di chi lo conserva, e la nostra filosofia dei rapporti che gli uni e gli altri devono intrattenere con il settore privato e con il mercato della cultura di massa.
Lo Stato non ha la stessa vocazione in Francia (e in Italia) e negli Stati Uniti. Settis ha citato un caso eclatante, quello del villaggio di Oraibi, che risale all´XI secolo, nella riserva degli indiani Hopi, in Arizona, che è praticamente scomparso in questi ultimi anni nell´indifferenza generale, perché non si è trovata una fondazione privata disposta a finanziare la sua trasformazione in ecomuseo. Eppure si tratta del luogo dove il grande storico dell´arte Aby Warburg aveva avuto la rivelazione dell´ultima arte dionisiaca esistente. Il sistema americano dei landmarks, abbandonato agli enti locali e all´iniziativa privata, non tiene minimamente conto del contesto storico, urbano o paesaggistico, peraltro infinitamente più rarefatto negli Stati Uniti che nella vecchia Europa. L´Inghilterra è afflitta dalle stesse carenze, o quasi. Si vantano a ragione i meriti recenti del National Trust, ma si omette di ricordare che la mano invisibile del mercato immobiliare inglese, tra il 1945 e il 1974, ha demolito senza intralci la bellezza di 1153 country houses, spesso di grande valore storico e artistico. Eppure, nessuno espone Tracey Emin alla Frick Collection o al British Museum.
In Francia e in Italia, la tutela del patrimonio culturale esiste per educare il suo proprietario collettivo mediante i capolavori. Ciascuno è libero di sbuffare e mettersi a ridere. Tante nazioni, in Europa, in America Latina e in Asia, si ispirano a questo modello, senza riuscire sempre a imitarlo. Il fatto è che nelle due «sorelle latine», malgrado le forti diversità storiche, il sentimento di identità e di appartenenza nazionale, l´attaccamento a una memoria storica e alle sue stratificazioni successive sono inconcepibili senza un riferimento visivo, tangibile e inalienabile, a un patrimonio pubblico (e privato, ma sotto tutela pubblica) che quei sentimenti incarnano permanentemente e localmente. Questo patrimonio monumentale e museale forma un tessuto connettivo dove tutto si tiene. Solo lo Stato, con la sua legislazione e il suo personale di esperti certificati e consacrati al bene comune, è in grado di preservare la coerenza, l´integrità, il senso e l´insegnamento.
Ha tutto l´interesse a farlo, essendo questi i fondamenti del legame civico e del sentimento nazionale, alla base dello Stato stesso e importanti quanto la lingua. Lo Stato tradisce se stesso e smantella se stesso se, dimenticando i suoi interessi fondamentali, comincia a vedere il patrimonio che ha il compito di conservare, di accrescere e di far apprezzare e comprendere al maggior numero di persone, nell´ottica del rendimento economico, della venalità finanziaria e dello sfruttamento a fini diversi dall´interesse civico e pubblico che deve servire.
Il denaro non ha odore né patria, ma la poesia, le arti e i ricordi sì. È più che mai necessario rammentarlo oggi. Infatti non si tratta più, come un tempo, di approfondire il sentimento spontaneo di appartenenza nazionale attraverso la poesia, le arti e il ricordo, ma di stimolarlo e coltivarlo fra i nuovi arrivati nella comunità nazionale. È il momento di far giocare allo Stato il gioco surrealista della macchina da cucire e dell´ombrello sul tavolo dell´autopsia? (...)
Perché nascondere ai cittadini il fatto che l´arte cosiddetta «contemporanea», questa immagine di marca inventata di sana pianta dal mercato finanziario internazionale, non ha più niente in comune né con tutto quello che fino ad oggi abbiamo chiamato «arte» né con gli autentici artisti viventi, ma non quotati in questa Borsa? Perché mettere sullo stesso piano un artista come François Morellet, che, invitato al Louvre, studia lo spirito del palazzo e lo abbellisce, e un Koons o un Murakami di cui ci vorrebbero far credere che il loro kitsch, trasportato a Versailles, «dialoghi» con lo sfarzo magnificente di Le Brun, Le Nôtre o Lemoyne? (...)
La chiave del malessere attuale è il conflitto di interessi velato che ha indebolito, se non proprio annullato, la distinzione classica fra Stato e mercato, fra politica e affari, fra servizio pubblico e interessi privati, fra servitori dello Stato e collaboratori di uomini d´affari. Le considerazioni di estetica, di gusto, di arretratezza e di avanguardia sono soltanto cortine di fumo per dissimulare un´offensiva in piena regola del «business dei beni culturali» (copyright di Salvatore Settis) contro quel poco di buon senso che resta nel pubblico francese e quel poco di senso dello Stato che resta nell´amministrazione e nella classe politica francesi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 28.10.10
Quella favolosa città perduta dove ebrei e arabi leggevano Balzac
di Bernardo Valli


Anticipiamo una parte dell´introduzione di Valli al romanzo di Naim Kattan che racconta gli anni in cui a Bagdad la convivenza tra anime diverse era possibile
Nel libro c´è la storia di una dolorosa rinuncia: l´autore spiega come il cuore dell´Iraq facesse parte dello spirito ebraico
In queste pagine si rivivono le atmosfere degli ultimi giorni di quella coabitazione secolare che finì nel 1951

Pubblichiamo parte della prefazione di al romanzo di Naim Kattan "Addio Babilonia" (Manni, pagg. 216, euro 16), oggi in libreria
"Addio Babilonia" è un libro magico. Fa rivivere una città scomparsa. Dopo avere letto le pagine di Naim Kattan, Bagdad non è più stata per me la Bagdad conosciuta nel 1963, anno del colpo di Stato contro il generale Kassem, ucciso dal suo ex amico Aref, che cinque anni prima, nel 1958, ubbidendo ai suoi ordini, aveva sterminato il 14 luglio la famiglia reale Hascemita e messo fine alla monarchia. Il ‘63 fu anche l´anno del massacro dei comunisti, alleati di Kassem, ad opera del partito Baath, per la prima volta al potere. Ho poi rivisto negli anni successivi Bagdad immersa in altre tragedie, quando Saddam Hussein era il rais, e guidava il paese nelle sue guerre contro l´Iran di Khomeini e contro l´America dei Bush. Ho letto Addio Babilonia soltanto dopo queste esperienze, avute in momenti cruciali della moderna storia irachena; esperienze dalle quali avevo tratto l´illusoria convinzione di conoscere quel grande paese che un tempo era la Mesopotamia. Da allora, dopo quella lettura, Bagdad, ai miei occhi, non è più stata la stessa. E´ come se Naim Kattan me ne avesse fatto conoscere l´intimità. Un´intimità nascosta negli angoli risparmiati dalle distruzioni delle varie guerre, dal cemento armato e dai monumenti del regime trionfante; trionfante grazie al petrolio e alla repressione; ma soprattutto nascosta dal paesaggio umano che si sovrapponeva a quello di un tempo. Appena scoprivo una vecchia casa, non lontano da via Rashid, o un caffé sulla riva del Tigri, mi riaffiorava nella mente la città raccontata da Naim Kattan. Con la fantasia stimolata dalle sue descrizioni, la vedevo tanto diversa, tanto più affascinante di quella in cui mi trovavo.
Pochi decenni separavano la mia Bagdad da quella di Addio Babilonia, ma per trovare le tracce di quest´ultima bisognava muoversi come un archeologo tra rovine millenarie. Proprio come a Babilonia, i cui resti giacciono sull´Eufrate, cento chilometri a Sud di Bagdad, o sono finiti nel grande museo di Berlino, sulle sponde della Sprea. Gli anni equivalevano a secoli tanto era cambiata, in cosi breve tempo, la vita nella valle del Tigri e dell´Eufrate. La ricerca di quel tempo perduto, attraverso i luoghi sopravvissuti a un´orrenda modernità e a una crudele prepotenza, era animata dagli allegri fantasmi amici di Naim Kattan: i suoi compagni scomparsi o dispersi, che immaginavo ancora, decenni dopo, assiepati nel caffé Yassine, intenti a discutere di Balzac, di Malraux, di Hemingway.
Siamo nei primissimi Anni Quaranta. Cioè sull´orlo del baratro. Anzi, già nel dramma di cui i ragazzi musulmani ed ebrei che discutevano sulle sponde del Tigri, sognando di scrivere un giorno libri di successo, non si rendevano ancora conto. Anche i giovani ebrei pensavano di scrivere i loro futuri romanzi in arabo, benché non fosse la lingua dei loro antenati, e nonostante fosse una lingua più incline al poema che alla prosa romanzesca. Quel che Naim Kattan fa rivivere sono gli ultimi anni, gli ultimi mesi, gli ultimi giorni nel Medio Oriente in cui gli ebrei vivono ancora in coabitazione secolare, anzi millenaria, con gli arabi. Gli ebrei di Bagdad rappresentavano allora circa un terzo della popolazione: ebrei cacciati dall´Occidente cristiano dell´Inquisizione mischiati agli ebrei presenti in Mesopotamia ben prima dell´arrivo dei musulmani. Sarà la tragedia europea, sarà l´Olocausto consumato nel cuore della più avanzata civiltà occidentale a contribuire alla fine di una convivenza orientale non sempre armoniosa, ricca di contrasti, ma anche di mille complicità e passioni condivise, e comunque senza i crimini estremi compiuti in Europa. Gli ultimi ebrei lasciarono Bagdad nel 1951, tre anni dopo la nascita dello Stato israeliano e della prima guerra arabo - israeliana.
Enzo Sereni, ebreo italiano caduto in mani naziste nel 1944 (e forse morto, fucilato, a Dachau), era un sionista tenace sostenitore dell´intesa tra ebrei e musulmani. Inviato dalla Palestina a Bagdad, in missione per l´Agenzia ebraica, negli Anni Trenta scrisse che in Iraq ebrei e musulmani si distinguevano soltanto perché i primi chiudevano i negozi il sabato e i secondi il venerdì. Qualche anno dopo l´attrazione esercitata da Israele, la ferma azione dei suoi dirigenti di attirare nella nuova nazione le comunità ebraiche disperse nei paesi arabi, e l´odio crescente tra ebrei musulmani in seguito alla guerra in Palestina, provocarono l´esodo degli ebrei, i cui antenati erano arrivati più di due millenni prima.
C´è un´angoscia palpabile nel libro di Naim Kattan. E´ la storia di una dolorosa, forzata rinuncia a un mondo che sembrava irrinunciabile. Egli descrive come il cuore dell´Iraq facesse parte dell´anima ebraica. Della sua anima di ebreo nato a Bagdad. Ogni anno gli studenti dell´Alleanza Israelita Universale di Bagdad venivano portati a visitare le rovine di Babilonia, dove gli insegnanti descrivevano i giardini pensili e le fontane dai cento zampilli esistenti un tempo, quando gli ebrei erano arrivati come schiavi di Nabuchodonosor. E là gli ebrei si erano poi emancipati grazie al Talmud, letto, studiato, commentato. Gli ebrei, spiegavano i professori tra le rovine di Babilonia, vivevano da venti secoli in Iraq. Avevano poi adottato l´arabo, quando con l´arrivo dell´Islam era diventato la lingua dominante. Al tempo stesso erano orgogliosi di appartenere a una tradizione tanto antica: Abramo era nato non lontano da Bagdad e l´Iraq era un luogo della memoria biblica. Jonas era di Ninive, nel Nord, e c´era anche la tomba di Ezechiele, e il profeta Daniele era passato di là.
L´arabo scritto è lo stesso per tutti. C´è chi lo chiama l´arabo classico. Ma l´arabo si parla in tanti modi, diversi da quello scritto. In Iraq i musulmani avevano il loro dialetto, e cosi i cristiani. La gente di Mossul, di Bassora, di Bagdad hanno il loro dialetto. Ma tutti si capiscono. Anche gli ebrei di Bagdad avevano un loro dialetto arabo. Imparavano l´ebraico anzitutto per motivi religiosi. I ragazzi dovevano impararlo per poter leggere il kaddish, poiché se qualcuno muore e non c´è nessuno per leggere la preghiera, il morto non è ricevuto da Dio e dal cielo. I caratteri ebraici venivano usati anche per scrivere l´arabo. Maimonide, ricorda Naim Kattan (ebreo di origine irachena che insegna l´arabo a Montreal), ha scritto i suoi libri in arabo con caratteri ebraici. Molti scrittori iracheni erano ebrei, e furono loro a creare la prima rivista letteraria, che non riguardava la comunità ma l´intero paese.

Corriere della Sera 28.10.10
Il dramma del vero in Shakespeare
di Giorgio Montefoschi


La Parola che si fa carne e vive nell’uomo è il culmine del mistero
«Per Shakespeare», dice Nadia Fusini nel primo capitolo del suo bellissimo libro dedicato a Shakespeare, intitolato Di vita si muore (Mondadori, pp. 496, 22)—e
e organizzato in cinque atti a testimoniare l’impegno drammatico che l’Autrice nello scriverlo ha speso — «il teatro ha a che fare con il miracolo dell’incarnazione». Fra tutte le idee, le ipotesi, le suggestioni che colmano le pagine della Fusini, questa mi sembra l’idea centrale, la vera idea chiave attraverso la quale orientarsi in quel fitto groviglio che è il mondo delle passioni custodite nell’anima dell’uomo, alle quali Shakespeare, non da filosofo, non da moralista, offre lo spazio dinamico dell’atto, della vita e della rappresentazione.
L’incarnazione. In un secolo che è religioso, ma non ha più certezze; un secolo «in cui si assiste alla rivelazione che i corpi celesti non sono perfetti e immutabili; in cui la nuova astronomia vede corruzione e mutamento nelle regioni più remote dei cieli», l’eroe elisabettiano non può che rivolgere lo sguardo a se stesso. Si guarda, come un Narciso che sa di non potersi ingannare, in uno specchio di superficie finché questo specchio non si rompe per un sasso che qualcuno (non lui: il messaggero del Male) alle sue spalle gli tira, e di colpo vi precipita dentro. Lì, in quell’abisso, egli scopre la passione, «trova la sua anima». E, nell’attimo in cui sprofonda, riemerge incarnato nell’«ospite sconosciuto» che ciascuno di noi nasconde in sé.
Così, Bruto, l’eroe che decide di salvare la libertà e di uccidere il tiranno, scopre l’insostenibile tensione che si crea nell’anima in quell’interim eterno — vero luogo della tragedia — che corre fra «il primo impulso che muove l’atto» e l’esecuzione dell’atto stesso, e se ne tortura. Amleto scopre e conosce la forza brutale della libido, che vede incarnata in primo luogo in sua madre e poi, quale peccato originale, in tutte le donne, compresa l’innocente Ofelia; scopre e conosce il peso di sentirsi Figlio inseguito dal Padre assassinato che gli chiede vendetta; scopre la propria impotenza, e in questa l’inefficacia tutta luterana «di ogni opera e di ogni agire». Otello conosce la maledizione della gelosia: l’inferno terreno costituito dalle immagini sconce e terribili alle quali diamo carne nell’immaginazione quando sospettiamo il tradimento; e il tradimento che lui stesso, sospettando di Desdemona, fa dell’amore. Credendo di essere Dio, Re Lear non si accorge che Cristo, suo Figlio, «ha le fattezze di Cordelia», e non essendo più padre, più re, più Dio, conosce, insie me alla empietà degli esseri umani, l’immensa solitudine di chi si sente abbandonato da Dio; ma poi, al culmine della follia che lo devasta, nel cuore di quelle tempeste in cui errabondo vaga, conosce il miracolo della grazia che altro non è se non la pietà cristiana: l’unica risorsa che pur nella sventura ci rimane e consiste nel condividere il dolore del nostro prossimo. Macbeth — l’uomo ferito, come Edipo, dal proprio atto — scopre la violenza del Male; la forza del Male che ci fa perdere la ragione; l’orrore di un Male di cui non sappiamo la provenienza, del quale potremmo addirittura dichiararci incolpevoli per come irride la nostra volontà, ma che ciononostante ci devasta la mente; infine, nell’ingordigia delle tenebre in cui affonda, conosce la paura.
Da dove viene il Male? Siamo responsabili del Male che ci travolge? L’umanità non è che una folla di esseri perduti schiavi del tempo? Dio esiste? E dov’è? Queste sono le domande fondamentali, che si agitano nel teatro dell’anima dei personaggi di Shakespeare, si incarnano nel dissidio fra la ragione e la passione, e in quello sublime della Parola. La Parola, infatti, la Parola che si fa carne e vive nell’uomo per la redenzione dell’uomo — come sa magnificamente spiegare Nadia Fusini, in un libro che possiede uno sguardo sulla letteratura, sulla filosofia e le scienze umane che va ben oltre il Cinque e il Seicento — è la vera incarnazione, il culmine dell’incarnazione e del mistero. Ecco il motivo per il quale, molto spesso, nel teatro di Shakespeare, abbiamo l’impressione che le parole si contraddicano, oppure che ci respingano, oppure che ci chiamino a una altezza dalla quale ricadiamo indietro, condannati, dopo aver intravisto la luce, all’esilio. Perché le parole che contengono la verità sono, e devono restare inattingibili. È così. Noi proviamo a scandagliarla la Parola; ci illudiamo di comprenderla, come a d esempio ci succede quando leggiamo le Lettere di San Paolo. Ma poi, ogni volta, dobbiamo riaprire il libro, riconsiderarlo quel significato che prima pareva chiaro e ora ci pare oscuro. E questo, all’infinito.

L’Osservatore Romano 28.10.10
All’udienza generale il Papa parla di santa Brigida di Svezia
La donna ha una dignità e un posto importante nella Chiesa
di Joseph Ratzinger


    "Nella grande tradizione cristiana, alla donna" sono riconosciuti "una dignità propria e un proprio posto nella Chiesa". Lo ha ribadito il Papa parlando stamane, mercoledì 27 ottobre, di santa Brigida di Svezia all'udienza generale in piazza San Pietro.

    Cari fratelli e sorelle,
    nella fervida vigilia del Grande Giubileo dell'Anno Duemila, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II proclamò santa Brigida di Svezia compatrona di tutta l'Europa. Questa mattina vorrei presentarne la figura, il messaggio, e le ragioni per cui questa santa donna ha molto da insegnare - ancor oggi - alla Chiesa e al mondo.
    Conosciamo bene gli avvenimenti della vita di santa Brigida, perché i suoi padri spirituali ne redassero la biografia per promuoverne il processo di canonizzazione subito dopo la morte, avvenuta nel 1373. Brigida era nata settant'anni prima, nel 1303, a Finster, in Svezia, una nazione del Nord-Europa che da tre secoli aveva accolto la fede cristiana con il medesimo entusiasmo con cui la Santa l'aveva ricevuta dai suoi genitori, persone molto pie, appartenenti a nobili famiglie vicine alla Casa regnante.
    Possiamo distinguere due periodi nella vita di questa Santa.
    Il primo è caratterizzato dalla sua condizione di donna felicemente sposata. Il marito si chiamava Ulf ed era governatore di un importante distretto del regno di Svezia. Il matrimonio durò ventott'anni, fino alla morte di Ulf. Nacquero otto figli, di cui la secondogenita, Karin (Caterina), è venerata come santa. Ciò è un segno eloquente dell'impegno educativo di Brigida nei confronti dei propri figli. Del resto, la sua saggezza pedagogica fu apprezzata a tal punto che il re di Svezia, Magnus, la chiamò a corte per un certo periodo, con lo scopo di introdurre la sua giovane sposa, Bianca di Namur, nella cultura svedese.
    Brigida, spiritualmente guidata da un dotto religioso che la iniziò allo studio delle Scritture, esercitò un influsso molto positivo sulla propria famiglia che, grazie alla sua presenza, divenne una vera "chiesa domestica". Insieme con il marito, adottò la Regola dei Terziari francescani. Praticava con generosità opere di carità verso gli indigenti; fondò anche un ospedale. Accanto alla sua sposa, Ulf imparò a migliorare il suo carattere e a progredire nella vita cristiana. Al ritorno da un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, effettuato nel 1341 insieme ad altri membri della famiglia, gli sposi maturarono il progetto di vivere in continenza; ma poco tempo dopo, nella pace di un monastero in cui si era ritirato, Ulf concluse la sua vita terrena.
    Questo primo periodo della vita di Brigida ci aiuta ad apprezzare quella che oggi potremmo definire un'autentica "spiritualità coniugale":  insieme, gli sposi cristiani possono percorrere un cammino di santità, sostenuti dalla grazia del Sacramento del Matrimonio. Non poche volte, proprio come è avvenuto nella vita di santa Brigida e di Ulf, è la donna che con la sua sensibilità religiosa, con la delicatezza e la dolcezza riesce a far percorrere al marito un cammino di fede. Penso con riconoscenza a tante donne che, giorno dopo giorno, ancor oggi illuminano le proprie famiglie con la loro testimonianza di vita cristiana. Possa lo Spirito del Signore suscitare anche oggi la santità degli sposi cristiani, per mostrare al mondo la bellezza del matrimonio vissuto secondo i valori del Vangelo:  l'amore, la tenerezza, l'aiuto reciproco, la fecondità nella generazione e nell'educazione dei figli, l'apertura e la solidarietà verso il mondo, la partecipazione alla vita della Chiesa.
    Quando Brigida rimase vedova, iniziò il secondo periodo della sua vita. Rinunciò ad altre nozze per approfondire l'unione con il Signore attraverso la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Anche le vedove cristiane, dunque, possono trovare in questa Santa un modello da seguire. In effetti, Brigida, alla morte del marito, dopo aver distribuito i propri beni ai poveri, pur senza mai accedere alla consacrazione religiosa, si stabilì presso il monastero cistercense di Alvastra. Qui ebbero inizio le rivelazioni divine, che l'accompagnarono per tutto il resto della sua vita. Esse furono dettate da Brigida ai suoi segretari-confessori, che le tradussero dallo svedese in latino e le raccolsero in un'edizione di otto libri, intitolati Revelationes (Rivelazioni). A questi libri si aggiunge un supplemento, che ha per titolo appunto Revelationes extravagantes (Rivelazioni supplementari).
    Le Rivelazioni di santa Brigida presentano un contenuto e uno stile molto vari. A volte la rivelazione si presenta sotto forma di dialoghi fra le Persone divine, la Vergine, i santi e anche i demoni; dialoghi nei quali anche Brigida interviene. Altre volte, invece, si tratta del racconto di una visione particolare; e in altre ancora viene narrato ciò che la Vergine Maria le rivela circa la vita e i misteri del Figlio. Il valore delle Rivelazioni di santa Brigida, talvolta oggetto di qualche dubbio, venne precisato dal Venerabile Giovanni Paolo II nella Lettera Spes Aedificandi:  "Riconoscendo la santità di Brigida la Chiesa, pur senza pronunciarsi sulle singole rivelazioni, ha accolto l'autenticità complessiva della sua esperienza interiore" (n. 5).
    Di fatto, leggendo queste Rivelazioni siamo interpellati su molti temi importanti. Ad esempio, ritorna frequentemente la descrizione, con dettagli assai realistici, della Passione di Cristo, verso la quale Brigida ebbe sempre una devozione privilegiata, contemplando in essa l'amore infinito di Dio per gli uomini. Sulla bocca del Signore che le parla, ella pone con audacia queste commoventi parole:  "O miei amici, Io amo così teneramente le mie pecore che, se fosse possibile, vorrei morire tante altre volte, per ciascuna di esse, di quella stessa morte che ho sofferto per la redenzione di tutte" (Revelationes, Libro i, c. 59). Anche la dolorosa maternità di Maria, che la rese Mediatrice e Madre di misericordia, è un argomento che ricorre spesso nelle Rivelazioni.
    Ricevendo questi carismi, Brigida era consapevole di essere destinataria di un dono di grande predilezione da parte del Signore:  "Figlia mia - leggiamo nel primo libro delle Rivelazioni -, Io ho scelto te per me, amami con tutto il tuo cuore... più di tutto ciò che esiste al mondo" (c. 1). Del resto, Brigida sapeva bene, e ne era fermamente convinta, che ogni carisma è destinato ad edificare la Chiesa. Proprio per questo motivo, non poche delle sue rivelazioni erano rivolte, in forma di ammonimenti anche severi, ai credenti del suo tempo, comprese le Autorità religiose e politiche, perché vivessero coerentemente la loro vita cristiana; ma faceva questo sempre con un atteggiamento di rispetto e di fedeltà piena al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell'Apostolo Pietro.
    Nel 1349 Brigida lasciò per sempre la Svezia e si recò in pellegrinaggio a Roma. Non solo intendeva prendere parte al Giubileo del 1350, ma desiderava anche ottenere dal Papa l'approvazione della Regola di un Ordine religioso che intendeva fondare, intitolato al Santo Salvatore, e composto da monaci e monache sotto l'autorità dell'abbadessa. Questo è un elemento che non deve stupirci:  nel Medioevo esistevano fondazioni monastiche con un ramo maschile e un ramo femminile, ma con la pratica della stessa regola monastica, che prevedeva la direzione dell'Abbadessa. Di fatto, nella grande tradizione cristiana, alla donna è riconosciuta una dignità propria, e - sempre sull'esempio di Maria, Regina degli Apostoli - un proprio posto nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della Comunità. Inoltre, la collaborazione di consacrati e consacrate, sempre nel rispetto della loro specifica vocazione, riveste una grande importanza nel mondo d'oggi.
    A Roma, in compagnia della figlia Karin, Brigida si dedicò a una vita di intenso apostolato e di orazione. E da Roma si mosse in pellegrinaggio in vari santuari italiani, in particolare ad Assisi, patria di san Francesco, verso il quale Brigida nutrì sempre grande devozione. Finalmente, nel 1371, coronò il suo più grande desiderio:  il viaggio in Terra Santa, dove si recò in compagnia dei suoi figli spirituali, un gruppo che Brigida chiamava "gli amici di Dio".
    Durante quegli anni, i Pontefici si trovavano ad Avignone, lontano da Roma:  Brigida si rivolse accoratamente a loro, affinché facessero ritorno alla sede di Pietro, nella Città Eterna.
    Morì nel 1373, prima che il Papa Gregorio xi tornasse definitivamente a Roma. Fu sepolta provvisoriamente nella chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna, ma nel 1374 i suoi figli Birger e Karin la riportarono in patria, nel monastero di Vadstena, sede dell'Ordine religioso fondato da santa Brigida, che conobbe subito una notevole espansione. Nel 1391 il Papa Bonifacio ix la canonizzò solennemente.
    La santità di Brigida, caratterizzata dalla molteplicità dei doni e delle esperienze che ho voluto ricordare in questo breve profilo biografico-spirituale, la rende una figura eminente nella storia dell'Europa. Proveniente dalla Scandinavia, santa Brigida testimonia come il cristianesimo abbia profondamente permeato la vita di tutti i popoli di questo Continente. Dichiarandola compatrona d'Europa, il Papa Giovanni Paolo II ha auspicato che santa Brigida - vissuta nel XIV secolo, quando la cristianità occidentale non era ancora ferita dalla divisione - possa intercedere efficacemente presso Dio, per ottenere la grazia tanto attesa della piena unità di tutti i cristiani. Per questa medesima intenzione, che ci sta tanto a cuore, e perché l'Europa sappia sempre alimentarsi dalle proprie radici cristiane, vogliamo pregare, cari fratelli e sorelle, invocando la potente intercessione di santa Brigida di Svezia, fedele discepola di Dio e compatrona d'Europa. Grazie per l'attenzione.

mercoledì 27 ottobre 2010

Repubblica 24.10.10
Ed, il compagno loda Nichi su Facebook


FIRENZE - Su facebook mette la frase che forse più lo ha emozionato della relazione di Nichi ad apertura del congresso di "Sel": «Torniamo alla bellezza delle relazioni, a quell´accogliersi tra generi, tra generazioni, la bellezza dell´incontrarsi tra il mondo vivente e quello non vivente...». Ed, il compagno di Nichi Vendola, ne fa una frase-dedica. Presente ma riservato. Nichi di lui ha parlato in qualche intervista ma qui, al congresso - camicia, jeans e scarpe da ginnastica - Ed sfugge i riflettori e i cronisti. Per lui, italo-canadese, 33 anni, un master in progettazione e una carriera di creativo, tra pubblicità e media, la privacy è un bene supremo. La storia con Vendola è consolidata da qualche anno e con un patto: quello della discrezione. Ma ora che Vendola e Sel «vanno di moda» - come ironizza lo stesso Nichi - gli tocca fare i conti con la popolarità e la curiosità mediatica. (g. c.)

l’Unità 24.10.10
Il compagno di Nichi
Ed c’è ma non si fa vedere
di Andrea Carugati


Non è la prima volta che Ed, 33enne fidanzato italocanadese di Nichi Vendola, scorta il suo compagno ad un congresso. C’era già a Chianciano, quando Nichi perse a sorpresa il congresso del Prc contro Paolo Ferrero. Andò con la mamma, pugliese trapiantata in Canada tanti anni fa, dove il ragazzo è nato e ha studiato marketing alle università di Ottawa e Montreal.
Qui a Firenze, al congresso di Sel, c’è una novità perché da poco Nichi ha parlato di lui, in un'intervista al settimanale Chi. Ha raccontato che vivono insieme da anni a Terlizzi, vicino Bari, la città natale del governatore. «Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena», ha spiegato. Stanno insieme dal 2004, Ed ora ha anche un ruolo nello staff del candidato: art director della sue fabbriche. È un creativo, dopo il ritorno in Italia ha preso un’altra laurea in progettazione visiva e design della comunicazione. Sta dietro le quinte, è superpresente ma nell'ombra. Quando spuntano le telecamere lui si dissolve. Ieri, riuscire a raggiungere Nichi per pranzo è stata un’impresa: telefonate, sms con le ragazze dello staff, che lo coccolano come un fratello minore. «Ed, raggiungici dove siamo scesi stamattina». Lui, capelli corti e scuri, un filo di barba, camicia bianca, jeans e sneakers grigie, è spuntato da dietro il palco. La macchina di Vendola era già arrivata, lui ha fatto per avvicinarsi, uno sguardo, una parola sussurrata, un braccio sfiorato. Poi il governatore è salito in macchina, lui no. È salito dietro l'angolo, lontano da occhi indiscreti. Un'abitudine complicata ma ormai consolidata. «L'amore che non osa definire il proprio nome», aveva detto Vendola nella sua relazione, citando Oscar Wilde, per descrivere «il dolore del silenzio di tanti omosessuali, lesbiche, trans». E aveva citato anche la gioia «quando si rompe quella barriera del silenzio». Vendola è stato tra i primi politici italiani a fare coming out. Non ha mai nascosto la sua biografia, anzi ne ha fatto un punto di forza. Anche stavolta è così: il suo privato si disvela poco a poco, senza forzature. Si protegge, anche.

Corriere della Sera 24.10.10
Eddy scatta foto in platea Il compagno del leader da Montreal a Terlizzi
Il creativo italo-canadese preferisce evitare la notorietà


FIRENZE — È venuto anche Ed, il compagno di Nichi Vendola, al congresso. Fa le foto agli ospiti importanti, Epifani, Landini, con la piccola automatica e con la reflex. Alla fine del lungo discorso di apertura, Nichi, nel retropalco, sudato e contento, cercava anche lo sguardo di Ed, che prima di cominciare gli aveva dato i suoi consigli. Eddy ha superato la trentina, ha i capelli neri corti, lo sguardo curioso e appassionato. Maglione blu, camicia bianca, jeans, sneakers. Tutta la corte degli amici e dei collaboratori di Nichi lo protegge, gli crea attorno uno schermo invisibile, e respinge le domande perché Nichi, come si è detto da solo, «va un po’ di moda», ma Ed che c’entra? Coccolato, anche, come fosse il figlioccio di tutta la prima linea della sinistra, qui risorta. «Voglio una mia foto scattata da te, foto di Eddy», gli dice Ciccio Ferrara, grande organizzatore del nuovo partito Sinistra ecologia e libertà. Lui si muove veloce, sfuggente, vuole esserci, però senza farsi riconoscere.
All’ora di pranzo Eddy e Nichi si parlano rapidi, si separano, si rivedranno.
Ha detto Vendola: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». Nichi ha confessato a Chi, il settimanale rosa che fa capo a Berlusconi, di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni, ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?». Adesso Vendola dice che quella cosa è stata un po’ estorta, che i cronisti hanno battuto il paese alla ricerca di pettegolezzi, ma è pur vero che l’operazione di farsi fotografare e intervistare sul privato da un giornale «ostile» era densa d’insidie.
Eddy qui al congresso di Sel è inserito nell’organizzazione, lui lavora nelle «Fabbriche di Nichi», che cercano di realizzare in tutta Italia interventi civici, per migliorare l’esistenza quotidiana. È quel che si dice un «creativo»: freelance graphic designer and creative consultant, si definisce, visto che è italo-canadese. Ha studiato presso la Concordia university di Montreal, alla Ottawa university e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico e ha realizzato uno spettacolo «VianDante, viaggio dal Paradiso all’Inferno, andata e ritorno».
È impaurito da una possibile notorietà, Ed, perché i passi avanti, in Italia, sulle coppie omosessuali sono stati enormi, ma non siamo ancora alla pari dignità con la famiglia tradizionale. Vendola venerdì, dal palco, ha lanciato più di un messaggio. Ha citato Oscar Wilde: «L’amore che non osa definire il suo nome». Ha parlato della condizione «atopica», di chi è «senza luogo», gay, trans, travestiti. Ha detto che «la bellezza è anche questo, rompere il silenzio, ritrovare le parole...». Vendola gioca da sempre la sua partita politica rivendicando ogni contraddizione della sua vita. Il rosario in tasca, l’orgoglio della diversità. Ma Ed? Ieri pomeriggio è andato via dal teatro Saschhall, sede del congresso, a riflettere sul peso della fama, quand’anche sia di riflesso.

Corriere della Sera 24.10.10
L’alleato del Pd? Il 60% vuole Nichi


Entrambi i partiti maggiori, Pd e Pdl, si trovano in questo momento in difficoltà. Tutti e due hanno visto, nelle ultime settimane, un calo dei consensi espressi dagli elettori nei sondaggi. Questo stato di cose è particolarmente sorprendente per il Pd, in quanto l’opposizione trae normalmente vantaggio dalla crisi che, quasi sempre, connota la maggioranza dopo qualche anno di governo.
Ciò che, secondo gli elettori, manca oggi al Pd e lo rende relativamente poco attraente per il voto è principalmente l’assenza di chiarezza sulla proposta politica, sulle alleanze ipotizzate in vista di eventuali elezioni e, in una certa misura, anche sulla leadership. Bersani, l’attuale segretario, è molto stimato dagli elettori del suo partito. Il suo livello di gradimento supera, tra i votanti per il Pd, il 90% e raggiunge uno dei livelli massimi (44%) anche considerando la popolazione nel suo complesso. È particolarmente stimato anche dagli elettori dell’Idv, sua attuale alleata, ma trova larghi consensi perfino nella base dell’Udc (44% di giudizi positivi) e di Fli (50%). Negli ultimi mesi, tuttavia, la leadership del segretario è minata dalla ascesa di popolarità di Nichi Vendola, che ha di recente ribadito di volersi presentare alle primarie del partito. Anche Vendola gode di un largo seguito tra gli elettori del Pd (78%), seppure inferiore a quello di Bersani. Ma è molto significativo che eguagli addirittura la popolarità di quest’ultimo nell’insieme dell’elettorato, con un forte incremento (3%) proprio nelle ultime settimane. Questa sovrapposizione dei consensi rende difficile dire oggi chi vincerebbe in caso di primarie. Ma nuoce in una certa misura all’immagine complessiva del partito.
A questo stato di disunità si sovrappone la questione delle alleanze. Sulla quale si registrano una molteplicità di posizioni assai differenziate e, spesso, contraddittorie. Alla richiesta «con chi sarebbe opportuno che si alleasse il Pd alle prossime elezioni politiche?», solo una quota minoritaria, pari a quasi un quinto (18%) dei votanti per il Pd propone, come suggeriscono alcuni dirigenti del partito, di correre da soli. Tutti i restanti indicano, invece, una forza politica con cui accordarsi. Una quota molto minoritaria (4%) auspica addirittura di allearsi con chiunque lo voglia. Ma più della maggioranza assoluta (60%) dei votanti per la formazione di Bersani preferisce proprio Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola. Questa opzione raccoglie più consensi di quanti (56%) ne conquisti l’ipotesi della prosecuzione dell’accordo con l’Idv di Di Pietro. Assai meno attrattiva pare, per l’elettorato del Pd, l’idea di una apertura verso il centro, alleandosi con l’Udc di Casini (la auspica il 39%) e, meno ancora, quella di un accordo con Alleanza per l’Italia di Rutelli (indicata dal 30%) o con l’Fli di Fini (suggerita dal 25% dei votanti per il Pd).
Molte di queste indicazioni di alleanza si sovrappongono tra loro, poiché gli intervistati potevano suggerire anche più di un’opzione e risultano le combinazioni più diverse e disparate. Ciononostante, dall’insieme delle risposte, si rileva come l’orientamento, esclusivo o non, verso la sinistra superi quello verso il centro (anche se quasi un terzo propone di allearsi con entrambi).
Naturalmente, è fisiologico che in un partito convivano una pluralità di opinioni, anche diverse tra loro. Ma il quadro che emerge dal complesso delle dichiarazioni dei votanti attuali per il Pd sembra talvolta mostrare la prevalenza sulla stessa coesione del partito di componenti anche fortemente contrapposte. Ciò che finisce col ledere l’immagine complessiva, allontanando molti dei numerosi elettori oggi indecisi o tentati dall’astensione. La cui conquista, come si sa, costituisce il fattore principale per vincere le elezioni.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L’obiettivo primarie. Difficile ma non impossibile la vittoria su Bersani, altro discorso è la possibilità di successo alle elezioni
Un leader ambizioso per un partito fermo al 3%


Una democrazia competitiva per funzionare bene ha bisogno che tutti i partiti rilevanti del sistema politico abbiano voglia di governare. Sembra una banalità ma ieri Vendola lo ha ricordato a suo modo alla sinistra italiana che per anni non si è veramente posta il problema di vincere le elezioni per andare al governo. Quello che ha detto il leader Sel non è una novità. E proprio su questo punto che si è consumata dopo l'esperienza negativa del governo Prodi l'ennesima scissione della sinistra italiana. E stato al congresso di Rifondazione comunista a Chianciano nei 2008 che è nato il movimento di Vendola dopo uno scontro molto aspro con la sinistra antagonista di Ferrero. A Firenze questa scelta è stata confermata con forza e rappresenta un'altra tappa di un processo storico che va avanti da più di un secolo. Passo dopo passo, scissione dopo scissione, la sinistra italiana si è progressivamente inserita a pieno titolo tra le forze di governo del Paese. A questo punto ne restano fuori Rifondazione Comunisti ltaliani, e le formazioni della sinistra più radicale.
Posto che l'obiettivo è quello di "vincere bene" si tratta di vedere come raggiungerlo. La ricetta di Vendola è coerente con la strategia di fondo. Servono alleanze, le più larghe possibili. Da questo punto di vista il leader Sel è l'erede di Prodi. La sua proposta in pratica è quella di una Unione di tutte quelle formazioni "orientate al governo" che in questo momento stanno all'opposizione. Quindi tutti dentro tranne chi ‑ come la Federazione della sinistra ‑ si è per ora dichiarata fuori. Con quale programma? Basta come denominatore il comune desiderio di mettere fine al berlusconismo? In che modo la sinistra moderna di Vendola si può sposare con il moderatismo di centro di Casini? Non si sa. Ma il programma è una cosa e la leadership un'altra. Fino ad oggi non si era mai visto a sinistra un leader con la personalità di Vendola. Un mix di linguaggio, caratteristiche personali, capacità  di coniugare valori di sinistra e pragmatismo politico. Vendola ha tutte le caratteristiche del grande leader tranne una: il suo è un piccolo partito.
Nelle elezioni europee del 2009 Sel non è arrivata ad un milione di voti, il 3,1%. Se raffrontato ai 1.124.428 voti presi nelle politiche del 2008 dalla Sinistra arcobaleno (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) è un buon risultato ma si tratta comunque di una cifra modesta. Più o meno la stessa percentuale è stata ottenuta nelle regionali di questo anno. Ma in questo caso facendo il confronto sulle tredici regioni in cui si è votato anche alle europee si vede ci alla stessa percentuale di voti fl( corrisponde lo stesso numero elettori (830.636 contro 679.084 Solo in Puglia Sel ha fatto meglio nel 2010 rispetto al 2009. ma anche in questa regione dove Vendola  gode di grande visibilità il suo partito non ha superato il 10% dei voti. Né i sondaggi più recenti ci dicono che le cose sono cambiate te di molto a livello nazionale. I comportamenti elettorali hanno la loro vischiosità.
Sel è ancora il piccolo partito di un grande leader. E questo spiega il resto della strategia di Vendola. Più del partito contano le primarie SeI è un "partito a termine", destinato a confluire in un'altra formazione. Vendola lo ha detto chiaramente a Firenze. La prima tappa di questo processo saranno le primarie del centrosinistra poi la designazione del candidato premier. Per Vendola sono una necessità e una grande opportunità. Nello stato di disorientamento in cui si trova oggi il popolo di centrosinistra tutto è possibile. Anche che si ripeta l'esito delle primarie pugliesi con Bersani al posto di Boccia. E difficile ma non impossibile, soprattutto se in corsa ci sarà più di un candidato Pd. In ogni caso per Vendoia rappresentano un grande palcoscenico e un trampolino per costruire la sua leadership a livello nazionale. Comunque vadano a finire, per lui saranno una vittoria. Che con lui come candidato premier possa vincere il centrosinistra è tutta un'altra storia.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L'agenda economica. L'obiettivo di guardare oltre la fabbrica ai listini di Borsa
Lavoro ma anche finanza Il «salto» tra Nichi e Fausto
La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager
di Lina Palmerini


La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager


Lavoro e finanza: un luogo tradizionale e uno inedito per la sinistra ma comunque il terreno dove Nichi Vendola traccia la sua rotta alternativa. E proprio su queste due strade, dove i cambiamenti sono stati più forti e gli eventi imprevedibili, che si consuma anche il salto generazionale tra Nichi e Fausto.
C'era una volta Fausto Bertinotti, leader carismatico di Rlfondazione comunista e presidente della Camera, che riceveva nel suo studio a Montecitorio Sergio Marchionne. E sempre in quei giorni di quegli anni, si sentì anche dire dallo stesso: «Sì, stimo Marchionne perché una delle prime cose che ha detto è che il valore di un manager non si misura dalla capacità di licenziare ma nel difendere la compagine lavorativa». E, in effetti, una delle cose che l'ad di Fiat non metteva in discussione all'epoca era la chiusura degli stabilimenti in Italia. Era il 2007, sono passati poco più di tre anni, un soffio nella vita di chiunque, un'era geologica per l'economia e la politica.
Oggi la sinistra di Nichi Vendola riparte ancora dalla Fiat. Ancora da Marchionne che nel frattempo ha chiuso Termini Imerese e ha ingaggiato un braccio di ferro con la Fiom sul contratto. «Melfi e Pomigliano diventano cartelli stradali che segnano la via per capovolgere la destra in Italia. Marchionne ‑ diceva Vendola nel suo intervento di venerdì ‑ ha un'idea di modernità regressiva nel sociale». Un attacco perfetto per delineare la nuova rotta della sinistra che si fonda e si fonde con il lavoro. Sono due i pilastri della proposta di Sinistra e libertà: superare la legge 30 quella sulla flessibilità e limitare drasticamente il ricorso ai contratti a tempo rendendo davvero normale la pratica dell'assunzione indeterminata. Dunque, la norma prima ancora che i costi.
Un approccio che certo scavalca il Pd e anzi separa le due strategie. Quella di Pierluigi Bersani che intende colpire la convenienza economica dei contratti flessibili ‑ parificandone il costo a quelli stabili ‑ mentre quella di Vendola somma via legislativa.e svantaggio economico per marginalizzare la precarietà dal mercato. Questo è l'approdo ma l'avvio è quella che Vendola ha chiamato «la bellissima piazza della Fiom». E dunque la battaglia della Cgil contro la Fiat a difesa dei diritti e del contratto nazionale. E la pressione sul sindacato per farlo tornare al suo ruolo antico del conflitto diversamente da Cisl e Uil «sussunto a parastato», come li ha definiti Vendola.
Ma la fabbrica non è più l'unico luogo della sinistra. E qui sta ancora H salto generazionale tra Bertinotti e Vendola. Oggi la sinistra guarda oltre i cancelli, guarda alla Borsa, ai listini. Non solo contratti e sciopero ma pure hedge fund e short selling entrano nel lessico. E qui l'agenda di Nichi parte dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie per passare a una nuova «separazione tra banche di risparmio e banche di affari» e poi tornare a «limitare stock option per manager» e, infine, chiedere di «frenare hedge fund e i credit default swap» e vietare lo short selling.
Il lavoro è il "cuore", la finanza è il "nuovo luogo" ma il fìsco è il cervello, la razionalità che deve portare a una nuova distribuzione della ricchezza contro un «capitalismo predatore», come si legge nel Manifesto di Sinistra e Libertà. E sulle tasse si ricompatta il mondo di Nichi con quello del Pd. Il fisco è da sempre la koinè ‑ come direbbe Vendola del centro‑sinistra tant'è che qui le distanze quasi si annullanno. E infatti oltre la proposta di una tobin tax, c'è l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie ad avvicinarli: entrambi vogliono aumentarla dal 12,5 al 20% per alleggerire l'Irpef a partire dai ceti più bassi. Una tassa che, nelle idee di Alfonso Gianni, responsabile economico di Sel e tra gli estensori del Manifesto, dovrebbe colpire anche i Bot dando però una franchigia al piccolo risparmio. Ma già una volta, nel 2006, questo fu l'inciampo dell'Unione.

I GIORNALI DI MERCOLEDI 27 OTTOBRE 

l’Unità 27.10.10
Le proposte del centrosinistra
Immigrazione: l’obbiettivo è la cittadinanza
di Andrea Sarubbi

Alla presentazione    dell’ultimo dossier della Caritas, ieri mattina, i relatori hanno subito charito un punto: sull’immigrazione mettiamo da parte le ideologie e lavoriamo seriamente, perché «siamo persone serie». Che l’invito venga dalla Caritas mi pare significativo, perché il suo impegno nel campo la pone al di sopra di ogni sospetto: nessuno la accuserebbe mai, ad esempio, di scivolare a destra, neppure se rilevasse come fa, a pagina 19 del rapporto che «un grande fenomeno sociale come l’immigrazione non comporta solo vantaggi, soprattutto nel caso in cui non vengano sviluppate le necessarie pre-condizioni».
La scelta di campo fra immigrazione-problema e immigrazione-risorsa, insomma, non regge più nemmeno tra gli addetti ai lavori: gli slogan da campagna elettorale e le semplificazioni dei salotti sono lontanissimi dal vissuto di chi spesso in silenzio, e nonostante la latitanza di un governo che vivacchia sulle paure della gente si sporca le mani ogni giorno. Perché l’immigrazione è certamente una risorsa, ma può diventare in fretta un problema se non viene governata: la mano invisibile qui non c’è, dunque occorre che la politica faccia il proprio mestiere. Come? Investendo soldi sull’integrazione, innanzitutto, e poi verificando che questo investimento vada a buon fine: ecco perché, senza mettere in discussione l’accoglienza umanitaria per chi ne ha diritto, un Paese ha il dovere di occuparsi non solo di quanti immigrati ospitare, ma anche di chi. Cito ancora dal dossier Caritas, pagina 16: «L’alternativa alla chiusura delle frontiere – che crea clandestinità – è la programmazione dei flussi, perché la disponibilità di manodopera regolare è funzionale ad uno sviluppo del sistema economico trasparente e tutelato, che non metta in conflitto i lavoratori già presenti con i nuovi arrivati».
Qualcuno (lo hanno fatto dalle colonne di questo giornale lunedì scorso due esponenti di «A buon diritto») istintivamente si ritrae, di fronte al fantasma della selezione: non è una parola di sinistra, si fa notare, nonostante sia presente nelle riflessioni di illustri studiosi a noi culturalmente vicini ed addirittura nel documento preparato dal Forum immigrazione del Partito democratico e votato all’unanimità dai delegati di Varese.
Se può servire a sbloccare il dibattito, mettiamo allora da parte la parola “selezione” e parliamo invece di merito; facciamolo davvero, però, e chiediamoci se sia più credibile per un Centrosinistra che voglia governare l’Italia il tradizionale modello buffet del primo-arrivato-primo-servito o piuttosto un meccanismo che – pur con pesi e contropesi, e sempre al netto dell’accoglienza umanitaria – si prenda carico di ogni storia che incrocia sul suo cammino, fino ad accompagnarla all’obiettivo finale della cittadinanza.

l’Unità 27.10.10
I numeri del ventesimo Dossier Caritas
La carica dei regolari che produce l’11% del Pil
Al fisco regalano un miliardo di euro perché pagano di più di quanto ricevono in servizi
Falso allarme criminalità. Delinquono meno degli italiani, non esiste nessuna emergenza
I quattro milioni di immigrati fanno l’Italia più giovane e ricca
Oltre ai dati economici, il Rapporto sfata luoghi comuni e analizza le ragioni di un clima spesso ostile nei confronti degli immigrati. «Si fanno sentire gli effetti della crisi economica».
di Roberto Monteforte

Troppa ostilità e troppi preconcetti negativi sull’immigrazione in Italia. Eppure sono quasi cinque milioni gli stranieri regolari in Italia, il 7% dei residenti. Vent’anni fa, erano meno di 500 mila. Lo mettono in chiaro facendo parlare i numeri
la Caritas italiana e la Fondazione Migrantes, che ieri hanno presentato il 20 ̊ Dossier statistico sull’Immigrazione, quello relativo al 2010. Sono tante le verità che emergono e i luoghi comuni che vengono sfatati. Ce ne è sicuramente bisogno, visto il perdurante atteggiamento di «ostilità», quando non di «atti di discriminazione ed anche di razzismo» compiuti da Italiani denunciano gli autori del rapporto dal titolo «Per una cultura dell’altro», dedicato a monsignor Luigi Di Liegro, un «indimenticabile amico degli immigrati». Si analizzano le ragioni di questo clima ostile. Si fanno sentire gli effetti della crisi economica. Ma se si guarda più affondo si scoprono dati che dicono cose diverse. Intanto gli immigrati producono l’11% del Pil, sono il 10% dei lavoratori dipendenti e ben il 3,5% degli imprenditori. Senza il loro apporto, 7 miliardi l’anno incassati dall’Inps, cosa sarebbero le nostre pensioni? Un altro dato significativo: regalano al fisco un miliardo perché pagano di più (circa 11 miliardi di euro) di quanto ricevono in servizi (meno di 10 miliardi). Dal dossier si riscontra la crescita dei matrimoni misti: ogni giorno 70 italiani si sposano con cittadini stranieri; 173 immigrati prendono la cittadinanza italiana; 211 neonati nascono da genitori non italiani. Ogni 14 persone che si incontrano per strada uno è straniero. Senza l’apporto degli «stranieri» (13% delle nascite) sarebbe ancora più grave l’emergenza demografica e più difficile «consentire all’Italia uscire dalla fase di stanchezza in cui si trova».
L’altra parte del dossier richiama ciò che è necessario fare. A partire dalle politiche per l’integrazione ed investimenti. Viene indicato l’esempio della Germania.
VEDIAMO CHI SONO
Vediamo cosa c’è dentro quei cinque milioni circa di immigrati in Italia. Uno su 4 vive in Lombardia. Il 21% sono romeni, l’11% albanese, il 10,2% marocchini. La maggior parte degli stranieri sono europei (53,6%) e africani (22%). Emilia Romagna, Lombardia e Umbria superano il 10% di presenza straniera. Dieci matrimoni su 100 sono misti. Quindi il 13% degli stranieri, circa 600mila, sono di «seconda generazione», quindi nati in Italia. I minori sono il 22%. Cala il numero degli «irregolari», se ne stimano 500-700 mila contro il milione dello scorso anno. Le entrate illegali sono per lo più via terra e non sulle coste; il record di sbarchi è avuto nel 2008 quando giunsero 37 mila persone. Nel 2009 ci sono stati 4.298 respingimenti e 14.063 rimpatri forzati. Gli irregolari che non hanno rispettato l’ordine di espatrio sono stati 34.462. Le persone nei Cie sono state 10.913. Il Dossier, poi, nega una particolare «emergenza criminalità». Una conclusione: l’Italia non può fare a meno degli immigrati e non servono politiche ostili o di repressione,ma come chiedono i sindacati di accoglienza e integrazione».

il Fatto 27.10.10
Gli immigrati in Italia, 5 milioni e fondamentali
di Corrado Giustiniani

La sindrome da invasione è così acuta da alterare completamente la nostra percezione. Secondo la ricerca Transatlantic Trends, gli italiani sono convinti che gli immigrati del nostro paese siano ben 15 milioni. Tre volte di più rispetto ai 4 milioni 919 mila stimati dalla Caritas, che ieri ha presentato il suo ventesimo Dossier statistico sull'immigrazione. Una sindrome da invasione che ha colpito anche il presidente della Camera Gianfranco Fini il quale, parlando a Rovigo, ha rassicurato gli studenti del Nord Est: “Io non cambierei una virgola alla legge che va sotto il mio nome e quello di Bossi”. Il 15 aprile del 2009 invece, a Mazara del Vallo, aveva sostenuto che “dei correttivi si rendono necessari”, rilevando l'assurdità che l'immigrato prima si trovi un posto in Italia, poi alla chetichella debba tornare nel suo paese per ripresentarsi infine da noi in veste ufficiale e con tanto di visto.
Nel 1990, l'anno di esordio del Dossier Caritas, gli immigrati erano soltanto 500 mila. In venti anni sono cresciuti di dieci volte, un trend che non ha eguali in Europa. “Ma nello stesso tempo sono cresciute la paura, la diffidenza, la chiusura da parte della politica e della gente” ha constatato con molta amarezza Franco Pittau, lo storico curatore dei dati Caritas. E proprio ieri il Papa è intervenuto a favore dei rifugiati, criticando indirettamente la politica indiscriminata dei respingimenti attuata dal governo, dal momento che oltre la metà degli occupanti dei barconi è richiedente asilo politico. “Nei confronti di queste persone che fuggono da violenze e persecuzioni – ha detto Benedetto XVI – la comunità internazionale ha assunto degli impegni precisi“ e i loro diritti vanno rispettati.
Certo che la crisi economica, con la perdita di 500 mila posti di lavoro certificata dall'Istat, ha favorito l'atteggiamento di chiusura. Ma gli immigrati – ribadisce il Dossier Caritas – sono venuti a fare mestieri che gli italiani oggi rifiutano: nell'edilizia, in agricoltura, nella ristorazione (a Milano i pizzaioli egiziani sono più dei napoletani) nell'assistenza alle famiglie. In quest'ultimo settore la loro presenza sarà sempre più determi-
nante. Basti soltanto un dato regionale sull'invecchiamento rapido della nostra popolazione: in Lombardia le persone con più di 65 anni d'età sono oggi 2 milioni, ma nel 2015 saranno già un milione in più. Gli stranieri sono il 7 per cento della popolazione e il 10 per cento dei lavoratori dipendenti, mentre i titolari di impresa, con amministratori e soci, hanno raggiunto quota 400 mila: gente che non soltanto lavora, ma fa lavorare. Gli immigrati guadagnano in media 972 euro netti al mese, il 23 per cento in meno degli italiani, e per primi restano disoccupati: assurdo che la Bossi-Fini conceda loro appena sei mesi di tempo, con una crisi come questa, per trovare un altro impiego.
Gli stranieri contribuiscono all'11 per cento del prodotto lordo italiano e pagano 11 miliardi di euro fra tasse e contributi previdenziali (sono loro che hanno risanato l'Inps) mentre percepiscono 10 miliardi di servizi sociali, calcolati dalla Caritas per eccesso. E poi i 25 mila matrimoni misti all'anno, i 77 mila bimbi che nascono da entrambi i genitori stranieri, gli oltre 900 mila minori. Tanti numeri per farci capire che l'immigrazione è irreversibile e che dobbiamo riacquistare “la cultura dell'altro” per favorire la convivenza e l'integrazione, capitolo per il quale un tempo c'era un fondo da 100 milioni di euro, oggi sparito.

«Convergenze. Con un gruppo di intellettuali legati a Futuro e Libertà.... il Manifesto riecheggia pure Vendola»
il Fatto 27.10.10
“Il Manifesto di ottobre”: un po’ futurista, un po’ neo-marxista
Marramao, tra i firmatari: “L’idea è tornare a una politica con al centro l’impegno civile e l’etica pubblica”
di Wanda Marra

Che c’entra Marx con i neonati componenti di Futuro e Libertà, che si preparano a dar vita a un partito, con tutti i crismi di organismi dirigenti, organizzazione, atti fondativi e pure Pantheon di riferimento? “Niente”, risponde d’istinto Giacomo Marramao. Eppure proprio lui, filosofo e intellettuale di sinistra, è tra i cento firmatari del “Manifesto di ottobre” per “una rinascita della res publica e per un nuovo impegno politico-culturale”, presentato ieri a Milano. Certo, di manifesti nella storia ce ne sono stati tanti. E ‘Il Manifesto del Partito comunista’ non è certo l’unico. Però, lo stesso Marramao ammette che “tanti di coloro che l’hanno redatto Marx lo conoscono bene”. Il testo, che inizia sottolineando la necessità di “un patto per la rinascita della res publica”, che sia non “una litania di valori”, ma “un progetto per l’Italia contemporanea, una concreta costruzione di rigore e di impegno civile” è stato dunque steso da un gruppo di intellettuali legati a Futuro e Libertà, come la grecista Monica Centanni, l’intellettuale milanese Peppe Nanni, Carmelo Palma, direttore della Fondazione Libertiamo, legata a Benedetto Della Vedova. Spiega Marramao: “Si tratta di un percorso vero, fatto da persone della destra finiana, e molto nella tradizione repubblicana. L’idea è quella di tornare a una politica fondata sulle regole, che rimetta al centro l’impegno civile, l’etica pubblica, e che sia in grado di rivitalizzare l’intera sfera politico-democratica”.
TRA I ‘REDATTORI’ anche personaggi come Fiorello Cortiana, tra i fondatori dei verdi italiani ed europei. Ma tra i firmatari, oltre a personalità che gravitano intorno alla destra finiana, come Alessandro Campi, Sofia Ventura, Filippo Rossi e Angelo Mellone, o personaggi come Franco Cardini, si trovano nomi noti del mondo post marxista, o meglio definiti come intellettuali di sinistra, da Giulio Giorello a Nadia Fusini, da Maurizio Calvesi a Giuseppe Leonelli a Franco La Cecla. C’è anche il direttore della Mostra internazionale d’arte cinematografica Marco Müller. E spiccano i nomi di Beppe Giulietti, deputato Idv, da sempre in prima linea per la libertà di informazione e del deputato Pd Ermete Realacci o quello d’una regista ‘impegnata’ come Roberta Torre o dello scrittore Sergio Claudio Perrone. Ci doveva essere anche Massimo Cacciari, dato come sicuro aderente, che sarebbe comunque attento alla questione e disposto al dialogo.
SPIEGA MARRAMAO: “Non si tratta di un manifesto di uno schieramento politico, ma piuttosto di un progetto in cui convergono personaggi trasversali uniti dall’esigenza di rivitalizzare la politica italiana, uscire fuori dalle passioni tristi, reagire alla demotivazione culturale ed etico-politica del nostro tempo”. E infatti, gli autori citati sono un intellettuale-simbolo dell’antifascismo, come Piero Calamandrei e la filosofa dell’anti-totalitarismo, Hannah Arendt.
“La mia adesione al manifesto non è un’adesione politica afferma ancora Marramao ho sempre votato a sinistra, ma ritengo importante il lavoro che stanno facendo questi intellettuali”. Certo, è un elemento di novità che a coagulare nuove energie anche di pensiero siano degli intellettuali di destra, categoria minoritaria nel nostro paese. Mentre la sinistra tradizionale tace: “I segnali di fuoco si avvertono soprattutto da parte del gruppo legato a Fini”, ammette Marramao. E in qualche passaggio, il Manifesto riecheggia pure Vendola. Come quello in cui si dichiara l’esigenza di ritrovare il filo “d’una narrazione più vera e nobile della cultura e della storia repubblicana contro il degradante cliché di un’italietta furba e inconcludente”.
E intanto, mentre Fli aggrega energie ed esperienze in un mix inaspettato, il Pdl continua a perdere pezzi: ieri si è si è dimesso dalla direzione del partito Alfredo Biondi, forzista della prima ora e ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi. E anche il senatore Enrico Musso si è detto pronto a lasciare, esprimendo il suo disagio.

Il Secolo d’Italia 27.10.10
Nasce la rivoluzione d'ottobre
qui
http://www.secoloditalia.it/stories/Cultura/863_nasce_la_rivoluzione_dottobre/

Il Secolo d’Italia 27.10.10
Al via il Manifesto d’ottobre per mobilitare gli intellettuali
di Valerio Goletti

Europa 27.10.10
Le firme che vorrei
di Franco Cardini
qui
http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122152/le_firme_che_vorrei

Repubblica 27.10.10
Cina. Il dissenso invisibile
Il Nobel a Liu Xiaobo ha fatto inasprire la repressione. Ma i dissidenti non si arrendono. E rilanciano una protesta destinata ad allargarsi
di Giampaolo Visetti
non disponibile sul web, nelle edicole

Repubblica 27.10.10
Fariz e i ribelli della banlieue "Qui non è mai cambiato niente"
di Anais Ginori

Cinque anni fa i giovani diseredati delle periferie tennero sotto scacco la Francia per tre settimane La pace è solo apparente. E sotto la calma di facciata cova l´ira per un´integrazione che resta un miraggio

Clichy-sous-Bois è il luogo simbolo del degrado: qui il 75% è indigente e uno su tre non ha lavoro
Il sindaco avverte: "Il vecchio patto sociale che reggeva il Paese è andato in frantumi"

CLICHY-SOUS-BOIS. «Eccoli, i bastardi, appena usciti dalla fortezza». Fariz dà un calcio alla lattina in terra mentre passa la volante. Alza il cappuccio, piove e soffia il solito vento micidiale di Clichy, un altipiano esposto alle intemperie, quasi fosse un´altra punizione divina. Fariz ha 14 anni, ripete il ginnasio con scarse probabilità di passare, l´anno prossimo è fuori. S´infila tra due Hlm, le grandi torri di case popolari. Un presente di spaccio e piccoli espedienti. «Sono in deal, in affari, e anche se i keufs, i poliziotti, mi mettono alla cage, in prigione, tanto sono minorenne. Un mio amico è già entrato e uscito cinque volte».
Racaille, feccia, cinque anni dopo. Ragazzini come Fariz avvampati di odio, uguali ad allora. «Se ci provocano, li sfondiamo» dice indicando il nuovo commissariato, avamposto della République in terra ostile. A Clichy-sous-Bois due abitanti su tre sono di origine straniera. Uno su tre è disoccupato, il 75% della popolazione è considerato indigente e vive di sussidi. Appena quindici chilometri da Parigi, un´ora e mezza di trasporti. Guardando la "fortezza" si capisce che la rivolta è solo in sonno. Da qualche giorno, centocinquanta poliziotti si sono stabiliti qui per presidiare la periferia che ha lanciato gli scontri del 2005 in tutto il paese: ventuno notti di assalti alle forze dell´ordine, diecimila auto incendiate, tremila fermati, finché è calato il coprifuoco. Da allora è tregua armata. E un lento ritorno alla normalità. Il commissario capo, Olivier Simon, manda via i giornalisti. «Non posso dire nulla». Una parola di troppo può diventare dinamite.
Anche Muhittin Altun è costretto al silenzio. Racaille, pure lui. Il 27 ottobre 2005 voleva sfuggire a un controllo della polizia. Insieme agli amici Zyed e Bouna si è nascosto in una centrale elettrica. Loro sono morti fulminati, lui è vivo per miracolo. Zyed e Bouna, 17 e 15 anni, sono diventati il simbolo della rivolta. Ancora oggi i loro nomi sono dentro ai rap, sui graffiti, negli slogan dei casseurs che manifestavano qualche giorno fa nei cortei contro le pensioni. Muhittin è caduto in grave depressione, è sotto psicofarmaci. Non sa se riuscirà ad andare alle commemorazioni di oggi. A Clichy, anche sopravvivere può diventare una colpa. «Cinque anni per avere giustizia sono un tempo interminabile» spiega Siaka Traoré, fratello maggiore di Bouna. Venerdì scorso i poliziotti coinvolti nell´incidente sono stati rinviati a giudizio per omissione di soccorso. Hanno visto entrare i ragazzini nella centrale ma non hanno dato l´allarme. Quel giorno, alle 18.52, il blackout a Clichy-sous-Bois ha annunciato la tragedia in corso. Gli avvocati chiederanno la diretta televisiva per il processo. Non è ancora detta l´ultima parola: la procura ha fatto ricorso sul rinvio a giudizio.
«La riconciliazione passa anche attraverso la verità sulla morte di Zyad e Bouna». Claude Dilain fino a quarant´anni ha fatto il pediatra poi, nel 1995, è diventato il sindaco socialista di Clichy-sous-Bois. All´epoca, le cose andavano già molto male. «L´odio», il film di Matthieu Kassovitz ambientato in una periferia-ghetto, è di quell´anno. Durante gli scontri, Dilain dormiva di giorno e vegliava di notte. «La rivolta può scoppiare di nuovo, in qualsiasi momento». Il 70% dei giovani non ha votato alle ultime elezioni, la criminalità organizzata è sempre più radicata nelle banlieues. «L´altro segnale preoccupante è il ripiego sull´identità religiosa e culturale». Giovani donne velate, famiglie poligame. «I figli o nipoti degli immigrati hanno preso atto del fallimento dell´integrazione nella società francese».
Arrivando in macchina da Parigi, l´orizzonte è puntellato da gru gialle e rosse. Clichy è diventata un enorme cantiere. Millecinquecento nuove case sono state costruite al posto di quelle vecchie e fatiscenti. I finanziamenti per il rinnovo urbano sono l´unica novità visibile del famoso "Piano Marshall" che Nicolas Sarkozy ha promesso. «Noi chiediamo educazione e lavoro. Il nostro futuro non è fatto solo di muri puliti». Samir Mihi, 33 anni, era amico di Zyad e Bouna e ha fondato l´associazione "Au delà des mots". Il tasso di disoccupazione tra i giovani supera il 40%, e non esiste un ufficio di collocamento. «Sul curriculum racconta Samir nessuno di noi scrive il vero indirizzo. Dal 2005 Clichy è sinonimo di racaille».
Quegli scontri sono una pesante eredità. «Ma almeno la Francia non ignora più la nostra situazione», commenta Claude Dilain. Il sindaco di Clichy guida l´associazione dei 120 comuni cosiddetti "sensibili". La banlieue è la vera frontiera. Ogni anno circa 200mila stranieri si stabiliscono in queste città satelliti. «Il patto sociale sul quale ci siamo costruiti negli ultimi due secoli è andato in frantumi. E nessuno ne vuole discutere davvero». È la storia di un tipo che cade da un palazzo di cinquanta metri, diceva il protagonista de «L´odio». Fino a qui tutto bene. Ma l´importante non è la caduta. È l´atterraggio.


Repubblica 27.10.10
L’ex calciatore Lilian Thuram
"Nuove rivolte? Basta poco perché esplodano"

PARIGI «Non credo che il presidente Sarkozy abbia cambiato idea sulle banlieues. Vuole dividere per imperare». Da quando non gioca più, Lilian Thuram è diventato una persona seria e impegnata. La sua fondazione contro il razzismo pubblica libri, organizza conferenze e progetti nelle scuole: 5 anni fa, l´ex calciatore aveva criticato l´allora ministro dell´Interno per aver definito i giovani di banlieue "racaille". Sarkozy aveva risposto che, «con il suo stipendio», Thuram non aveva diritto di parlare per la banlieue.
Dopo quella lite vi siete incontrati?
«Sarkozy mi ha voluto vedere. Ma le sue giustificazioni hanno peggiorato la situazione. Ha cercato di convincermi che i problemi della banlieue sono causati dai neri e dagli arabi. Io gli ho fatto notare che esistono delinquenti, e basta. Il colore della pelle non c´entra. Pensare che i ‘neri´ siano una categoria di individui tutti uguali è semplicemente un pregiudizio razzista».
Cinque anni dopo, alcune banlieues di Parigi sono ancora dei ghetti.
«Non mi piace parlare di ghetti perché è una situazione che riguarda la società francese nel suo insieme. Le persone che abitano in banlieue sono discriminate in quanto povere, non perché immigrate. Qualche decennio fa, venivano emarginati gli italiani, i cosiddetti ‘ritals´, anche se avevano lo stesso colore di pelle: in quel momento, erano gli immigrati più poveri».
La rivolta dei giovani potrebbe riesplodere?
«Basta mettere un po´ di olio sul fuoco, ed ecco la fiammata. Lo abbiamo visto nel 2005. Oggi le discriminazioni si stanno rafforzando con la crisi economica. E´ scattata la ricerca di un capro espiatorio, per distogliere l´attenzione dai problemi veri: l´accesso all´educazione, il diritto alla casa, l´occupazione. Siccome i governi sono incapaci di rispondere alla domanda di giustizia sociale nelle banlieues, parlano di problemi di sicurezza o dell´immigrazione».
Da quando Sarkozy è diventato presidente, è più pompiere o piromane?
«Ha tentato di dividere il paese con il suo dibattito sull´identità nazionale, anche se per fortuna ha avuto scarso successo. La sua proposta di decadenza della cittadinanza rafforza il razzismo di Stato. Ma attenzione: discriminazione e ingiustizia sociale vanno di pari passo. Quando venne approvato il ‘codice nero´ per gli schiavi delle colonie, venne istituita anche la servitù per i francesi». (a. g.)

Corriere della Sera 27.10.10
Diplomazia tedesca sotto accusa
Un ruolo attivo nella Shoah
di Danilo Taino
qui
http://www.scribd.com/doc/40213919

Corriere della Sera 27.10.10
Esce da Bompiani la raccolta degli articoli pubblicati tra il 1944 e il 1947. La lotta di liberazione e il dialogo tra i popoli
Camus vincere senza farsi odiare
La Resistenza, la Francia, l’Algeria, moniti di una voce profetica tra guerra e dopoguerra
di Albert Camus
http://www.scribd.com/doc/40213058/Corriere-Della-Sera-27-Ott-2010-Page-37

Corriere della Sera 27.10.10
Economia tra etica e cultura
Diritto e mercato, un dialogo dall’antica Grecia alla grande bolla
di Dino Messina
qui
http://www.scribd.com/doc/40213187/Corriere-Della-Sera-27-Ott-2010-Page-39

Corriere della Sera 27.10.10
Adamo primo illuminista
Il sapere è rivoluzionario
Libertà, tolleranza, democrazia: per una storia dell’umanità
di Mario Andrea Rigoni
qui
http://www.scribd.com/doc/40212888

Corriere della Sera 27.10.10
Cinismo disinteresse volgarità in questo Paese che non c’è
di Tullio Gregory
qui
http://www.scribd.com/doc/40212975

il Riformista
La condanna a morte di Tareq Aziz
Per Catherine Ashton è «inaccettabile» Pannella fa lo sciopero di fame e sete
di Anna Mazzone
qui
http://www.scribd.com/doc/40213538/il-Riformista-27-10-10-p3