sabato 30 ottobre 2010

l’Unità 30.10.10
Alternativa «per la democrazia costituzionale e un progetto economico e sociale nuovo»
«Premier al tramonto» Pd, campagna d’autunno
Il 6 novembre l’assemblea nazionale dei circoli Pd lancerà la mobilitazione che impegnerà parlamentari, iscritti e elettori delle primarie «La crisi politica e quella sociale si stanno avvitando e escludono i cittadini».
di Jolanda Bufalini


Un berlusconismo al tramonto ma che può essere aggressivo e pericolosoUna crisi politica e sociale che produce anche rabbia e disaffezione, sfiducia nella politica e nella sua capacità di affrontare i problemi che attanagliano la vita delle persone normali, dei cittadiniPier Luigi Bersani, nella lettera con cui si rivolge ai democratici, segnala i rischi del tempo e dell’avvitamento in cui Berlusconi ha fatto precipitare la vita pubblicaPresentare in Parlamento una mozione di sfiducia sarebbe un boomerang, poiché si rischierebbe di non avere i numeri per mandare a casa il premier ma stare fermi non si deveBersani ripete lo slogan che campeggia nei manifesti del Pd: «la pazienza è finita»E lancia la campagna d’autunno con il viatico che gli viene anche da Romano Prodi: il segretario del Pd ha i numeri per essere il candidato dell’alternativaProdi apprezza, anche, «la disciplina in più» che nota nella vita del partito, «quando non c’è disciplina non hai forza, lo dico per esperienza diretta».
Il partito democratico, spiega Bersani, «ha critiche chiare e forti da fare alla destra»Vuole parlare al paese dei problemi che lo travagliano e dei rischi che corre «l’assetto costituzionale» ma, soprattutto vuole ascoltarePerché «i problemi reali dei cittadini non trovano voce».
Le anticipazioni del libro di Bruno Vespa danno, intanto, alimentano la discussione del PdIl segretario aveva risposto, nel libro, alla domanda se si possa creare un gruppo unico fra Pd, Idv e Sel, senza chiudere«Verificheremo», indicando la via «non di un patto occasionale ma di un percorso strutturale»Idea che non piace a Marco Follini«Una follia che snaturerebbe il Pd», dice Follini mentre per Beppe Fioroni «è ora di finirla con l’angoscia di perdere voti a sinistra»Da Parma il segretario risponde: «È una questione seria, non voglio fare l’Unione ma, una volta che c’è un patto di governo, non voglio un liberi tutti».
Bersani rivendica, nella lettera all’elettorato democratico, «l’impegno per un progetto economico e sociale nuovo, una alternativa che rinsaldi la democrazia costituzionale»E chiama quello stesso popolo che si è messo in fila per votare alle primarie ad essere presente nei fine settimana di novembre per ritirare e far circolare il materiale con le proposte del PdNon c’è una data per le elezioni, spiega il responsabile dell’organizzazione Pd Nico Stumpo, è, dunque, il tempo giusto, «per ragionare con i cittadini, metabolizzare e organizzare ciò loro stessi ci dirannoVogliamo raccogliere la volontà di cambiamento che c’è nel paese»Non c’è tempo da perdere nel costruire le risposte ai disagi, alla precarietà, alle piccole imprese che soffrono, allo smantellamento delle politiche sociali, ai problemi delle scuole e delle università.

l’Unità 30.10.10
Confronto e unità
I fuochi fatui tra i democratici
di Vittorio Emiliani


Dalla base del Pd monta una sorta di impotente disperazione per l’incapacità del partito di trovare, ai suoi vertici, nazionali, regionali (per non parlare di Roma), un minimo decente di collante unitario nel momento in cui il Pdl appare più che incrinato, specie in alcune regioni dove sta smottandoSarebbe il momento di provare ad essere uniti, ad approfondire i problemi reali del Paese, a fissare su quelli critiche e consensiFaccio un esempio: il forum organizzato sulla Rai martedì 26 dal Pd e per esso dal coordinatore Carlo Rognoni ha detto, per la prima volta dopo anni, cose nuove, interessanti, calate nella realtà del servizio pubblico in Europa (relazione di Claudio Cappon), insomma non ripetitive né velleitarie o facilmente provocatorie (come la privatizzazione integrale – per disperazione? per irritare Berlusconi? – proposta dai finiani)È stata ridata, dopo anni, la parola alla radio, a RadioRai, con una stimolantissima e ben fondata relazione di Marino SinibaldiLe conclusioni di Rognoni nascevano da gruppi di lavoro di esperti veri, lo si capiva, pur nella sintesi, dalla specificità di alcune proposteDopo anni e anni di chiacchiere a vuoto – lasciatelo dire a chi in Rai ha lavorato a lungo – una serie organica di indicazioni utili per una piattaforma su cui costruireNel momento più drammaticamente basso di Viale Mazzini: un passivo ormai strutturale, un’evasione al canone spaventosa incoraggiata da Berlusconi stesso, un direttore generale vocato al peggio«Un servizio pubblico da rilegittimare», come ha giustamente notato Pier Luigi Bersani.
Così credo che dovrebbe lavorare, su tutti i temi strategici, un partito nato da poco, se vuole accrescere la propria credibilità generaleUn partito che oggi ha una base “calda”, disperata per le continue lacerazioni interne di tipo generazionale (ma non era una pseudo-categoria per Gramsci?), con richieste di rottamazione in nome di un giovanilismo che poi pone questioni «formidabili» quale il cambio del simbolo, un’idea che qualunque esperto di marketing boccerebbe come errore di grammaticaCon personaggi stradatati che insorgono al primo sondaggio con uno zero virgola qualcosa in meno per reclamare il taglio del vertice del Pd, subito, oggi, al massimo domattina prestoE c’è chi insegue il “popolo viola”, chi Di Pietro, chi Vendola e chi i grillini, e subito si alzano gli altri a dire “Ah, con quelli mai, piuttosto ce ne andiamo”Scusate, questa non è politica, non è neppure cattiva politica, è un nulla fatuo crudele e ridicolo al tempo stesso un vuoto riversato nel vuoto tipico di chi non studia, non approfondisce, non discute dei problemi di struttura, ma nuota da tempo in una sorta di emulsione tutta sua, remota dai problemi autentici.

il Fatto 30.10.10
Radicali, rischio rottura col Pd
critiche a Di Pietro e Vedola
di Giampiero Calapà


I Radicali aprono il congresso subito con il botto: “C’è un rischio di rottura con il Pd, perché da parte dei democratici vengono poste in essere pratiche anti-radicali”'Così ha esordito il segretario uscente Mario Staderini (pronto alla ricandidatura), che in realtà sulla questione ha un atteggiamento di prudenza, così come Emma Bonino e Marco Pannella, mentre Marco Cappato vorrebbe arrivare il più velocemente possibile all'uscita dei parlamentari radicali dai gruppi del Pd Per Cappato, infatti, non ci sono più le condizioni: "Non solo abbiamo accettato unilateralmente di subire la violazione degli accordi pre-elettorali: all'Italia dei valori veniva concesso il simbolo perché Di Pietro avrebbe addirittura dovuto sciogliere il suo partito per confluire nel Pd Inoltre è venuto completamente meno quell'impegno alla vocazione maggioritaria che rendeva sensata la cosa" Quella di Cappato non è una contrapposizione che si concretizzerà in una candidatura contro Staderini per realizzare una linea più "radicale" L'unità "del gruppo dirigente è totale" E lo stesso Staderini, durante la relazione, ha elencato "tutte le difficoltà documentate che ledono la nostra dignità di interlocutori politici", rispetto al Partito democratico, accusando: "Il nostro ruolo non viene riconosciuto ed è intollerabile che i partiti di centrosinistra abbiano impedito l'adozione di un provvedimento per alleggerire la condizione di tortura che c'è nelle carceri''.
Un atteggiamento, quello del Pd, che "può essere motivo di rottura con i gruppi parlamentari'', ma "non compete al congresso prendere eventuali decisioni politiche".
EPPURE all'ultima riunione del comitato politico, proprio Cappato aveva parlato di congresso come occasione da non perdere per salutare i gruppi parlamentari del Pd, anche se adesso cerca di stemperare i toni del confronto con il segretario: "I nostri parlamentari sono senza vincolo di mandato, decidono in autonomia Però questa è una sede politica e sono contento che Mario abbia chiesto un dibattito anche su questo problema, riconoscendolo quindi come un problema".
Il centrosinistra stesso, per i Radicali, è un luogo politico superato: "Non esiste più" E dal gruppo dirigente come dai congressisti piovono critiche, aspre e feroci, su Vendola come su Di Pietro" In Vendola c'è una grande capacità – spiega Cappato – di descrivere una visione del mondo, di narrazione come la chiama lui Noi siamo più portati a ragionare per obiettivi concreti Detto questo, stupisce che quando parla di temi come le carceri, la non-violenza, la legalità, non menzioni neppure le battaglie dei Radicali Eppure elenca gli interlocutori, guarda al centro, parla all'Udc Noi siamo disponibili a parlare con tutti, ma lui lo è con noi?".
Poi, c'è il capitolo Di Pietro, e da questo congresso l'ex pm non riceverà grandi attestati di stima, tanto che Cappato lo definisce “interlocutore di comodo del regime radio-televisivo: perché? Non sposta un voto da una coalizione all'altra”I voti dei Radicali, "come spiegano i flussi elettorali – conclude Cappato – rivelano la nostra capacità di intercettare anche l'elettorato di centrodestra, l'Idv invece sceglie la strada dello sputtanamento dell'indulto, senza parlare delle 130 mila prescrizioni che ci sono ogni anno, scegliendo di parlare soltanto di quelle di Berlusconi: il premier è un grande protagonista del marcio della politica italiana, ma le responsabilità sono molto più ampie".

l’Unità 30.10.10
“Pio XII santo? La Chiesa pensi alla pedofilia
«Ci sono cose più urgenti della santificazione di papa Pacelli», dice l’attore americano protagonista di «Sotto il cielo di Roma», domani su Rai1. «Per esempio gli abusi sessuali, su cui la Chiesa è stata deplorevole»
di Francesca Gentile


Posso parlare liberamente? Perchè in questo caso, secondo me, il papa, nei confronti del nazismo, ha agito come ha agito per una ragione ben precisa: il Vaticano aveva interesse a recuperare le terre e le chiese perse sul territorio tedesco».
James Cromwell non le manda a dire quando si tratta di fare un' analisi storica del pontificato di Pio XII, il papa che si accinge ad interpretare sul piccolo schermo nella fiction Sotto il cielo di Roma, in onda su Rai Uno, domenica 31 ottobre e il primo novembre«Nei paesi dove il protestantesimo si radicò, il Vaticano perse moltissimi beni e la Chiesa si allineò con il partito nazional socialista per cercare di recuperare, attraverso un concordato, quanto perso».
Cromwell sarà Papa Pio XII nel progetto della cattolica Lux Vide di Ettore Bernabei, teso a sponsorizzare la causa di beatificazione di papa Pacelli«Sono comunque innegabili i tanti sforzi fatti da parte della Chiesa cattolica per salvare gli ebrei– prosegue l'attore americano che è stato George Bush sr in Wdi Oliver Stone e il Principe Filippo in The Queen La Regina, valso il premio Oscar a Helen Mirren – Ci sono sempre due parti da ascoltare quando si tratta di fare un'analisi storica, e bisogna tenere in considerazione quali sono gli obiettivi delle istituzioni nazionali e quanto invece riguarda la sfera della coscienza morale degli individuiProbabilmente papa Pacelli ha sottomesso la propria coscienza agli obiettivi superiori delle istituzioni».
Un comportamento da politico più che da santoChe ne pensa della causa di beatificazione? «Questa è una questione che riguarda la Chiesa cattolica ed i fedeliPosso comprendere che per i cattolici la beatificazione sia un qualcosa di molto importante, ma per me, non cattolico, individuo che ha un credo spirituale proprio e personale, il concetto di beatificazione è un po’ un mistero, qualcosa che non comprendo benissimo».
Insomma, secondo lei, la chiesa sulla terra è composta da uomini, non da santi..«E in quanto uomini, capaci di fallire e sbagliareCi sono problemi molto più importanti della santificazione di papa Pacelli che la Chiesa dovrebbe affrontare».
Mi faccia un esempio.
«Dovrebbe prima di tutto riconoscere le proprie responsabilità in merito agli abusi compiuti sui bambini, per esempioQuella questione è stata gestita in maniera assolutamente deplorevole».
Sarebbe diverso, secondo lei, protestante, se i preti cattolici potessero sposarsi? «Ritengo che la base sulla quale si esclude la presenza delle donne dalla vita ecclesiastica e dalla vita dei preti sia assolutamente assurda, dannosa e controproducenteLe donne sono coloro che trasmettono e danno vita alle comunità, portano in grembo le nuove viteCome diavolo è possibile che vengano escluse dalla vita ecclesiastica? È qualcosa che assolutamente non comprendo, è inaccettabile e mi fa arrabbiare, tanto quanto il mancato sostegno al clero indigeno in Africa e Sudamerica, a quella gente che lavora con le popolazioni, con i poveri, spesso in contrasto con i governi locali ai quali la Chiesa si è allineata per mantenere la propria presenza e il proprio potere nel Paese».
La Chiesa non ha speso molte parole neppure nei confronti delle guerre intraprese dagli Stati Uniti, in Afghanistan e Iraq.
«Queste guerre sono immorali e fondamentalmente sbagliateSì, anche in questo caso avrei voluto che la Chiesa avesse preso posizione in merito e invece è rimasta passiva, esattamente come in passato aveva fatto con Hitler».
Corsi e ricorsi storici, dunque.
«Esatto, perché gli uomini non hanno imparato la lezione e forse perché non è mai stata detta la verità sulla storia, se fosse la verità non si chiamerebbe “history “,.. “his story”...ovvero la storia di uno, del vincitore».
Chi sono i responsabili di questa storia a senso unico? «Sicuramente le persone al potere che lo vogliono mantenere a tutti i costi e che quindi controllano la verità e manipolano la storia perché sia utile ai propri scopi e poi ovviamente le persone che la dovrebbero divulgare: gli insegnanti, gli intellettuali, i liberali e i progressistiNoi abbiamo la responsabilità di trasmettere la verità e lo dico con umiltà, anch’io ho fatto o detto cose di cui non vado fiero, facciamo quello che possiamo, considerata la condizione del mondo in cui viviamo e la debolezza umana».
Se lei potesse essere papa davvero, di cosa vorrebbe occuparsi? «Del divario fra ricchezza e povertàPrendiamo gli Stati Uniti: questo divario continua a crescere, a fronte di pochi, estremamente ricchi, c'è una stragrande maggioranza di popolazione al limite della povertà, popolazione che cresce ogni giorno, e cresce al costo di ogni istituzione che consideriamo necessaria per il mantenimento di una vita dignitosa: la sanità, l’educazione, l’organizzazione familiare, l’edilizia, l’ambienteUn brillante economista cileno, Manfred Max-Neef, una volta disse: non c’è una sola persona a Washington che non sappia cosa non bisogna fareSappiamo benissimo quali sono le cose non funzionano, perché abbiamo continuato a farle per 200 anniLa prima cosa da fare sarebbe smettere di fare le cose sbagliate e provare a fare, una volta, la cosa giusta»C'è una figura religiosa che ammira?
«Giovanni Paolo IHo sempre creduto che, se il suo pontificato non fosse stato stroncato sul nascere, avrebbe messo fine al celibato dei preti e avrebbe permesso l'utilizzo dei mezzi di contraccezione, ad esempioCredo che avrebbe analizzato tutte le questioni odierne in modo onesto, empatico, vero, per essere utile al maggior numero di persone possibileLa mia personale opinione è che sia stato ucciso e che i responsabili facciano capo alla banca Vaticana e agli interessi legati al riciclaggio di centinaia di milioni di dollari destinati alla banca VaticanaÈ la mia opinione, ma credo che non sia possibile un'esistenza “etica” di una grande organizzazioneGli interessi prevalgono sempre sulla moralità».
Anche Papa Pacelli si piegò a questo dettato.

il Fatto 30.10.10
Lo sterco del diavolo abita in Vaticano
di Riccardo Chiaberge


Nell’Europa del Medioevo non esistevano leggi anti-riciclaggio, ma l’Inferno funzionava molto meglio di adesso e il girone degli usurai era affollato di buoni finanzieri cristiani come Ettore Gotti TedeschiFenus pecuniae, funus est animae, “il profitto del denaro è la morte dell’anima”, aveva ammonito a suo tempo papa Leone MagnoChi presta soldi in cambio di interessi, si legge in un manoscritto anonimo del Duecento, commette un peccato gravissimo contro la natura, “pretendendo di generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo”E nel suo manuale per confessori il vescovo inglese Tommaso di Cobham rincara la dose: “L’usuraio punta a guadagnare senza lavorare, addirittura dormendo; ciò va contro il precetto del Signore che ha detto: ‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pane’”.
SE LA CHIESA medievale divide la società in tre classi, uomini di preghiera, guerrieri e lavoratori, il predicatore francese Giacomo di Vitry ne aggiunge una quarta: i professionisti dell’usura“Essi non partecipano al lavoro degli altri uomini e perciò non subiranno il castigo degli uomini, ma quello dei diavoliLa quantità di denaro che hanno guadagnato con l’usura corrisponde alla quantità di legna inviata agli Inferi per bruciarli”.
Chissà quanta legna sarebbe necessaria per un Madoff o un TanziCerto, le fiamme eterne per gli strozzini erano di ben scarsa consolazione per le loro vittime, che non potendo contare sulla giustizia degli uomini dovevano affidarsi a quella del PadreternoTalvolta, però, la punizione arrivava in anticipo: si racconta di ricchi prestasoldi privati dell’uso della parola in punto di morte, in modo da non potersi confessare (ma forse si avvalevano della facoltà di non rispondere al sacerdote), o colpiti da infarto senza avere il tempo di pentirsiE un domenicano di Lione narra un episodio spettacolare: “Nell’anno del signore 1240, a Digione, un usuraio volle celebrare le sue nozze con grande sfarzo..Mentre i due promessi sposi felici stavano per entrare in chiesa accadde che una statua di pietra raffigurante un usuraio trascinato all’Inferno dal Diavolo si staccò e cadde con tanto di borsa sulla testa dell’usuraio in carne e ossa, uccidendolo”Tornando al succitato Gotti Tedeschi, attuale capo dello Ior, paragonarlo agli usurai del XIII secolo sarebbe ridicolo prima che ingiustoMa la storia millenaria della Chiesa e del suo rapporto tormentato e ambivalente col mondo dell’economia ci aiuta a capire tante cose anche sulla realtà dei nostri tempiLo stesso giorno in cui il Tribunale del riesame di Roma confermava il sequestro di 23 milioni di euro a carico della banca vaticana per certe movimentazioni sospette, il presidente interveniva a un convegno su etica e finanza promosso dall’Osservatore Romano e puntualmente ripreso dal laico Sole 24 OreE parafrasando il famoso passo del Vangelo di Marco sul cammello e la cruna dell’ago, si lanciava in un’ardita ipotesi teologica: “Il ricco, per entrare nel regno dei cieli deve diventare ancora più ricco, perché se la ricchezza non viene creata il rischio è poi di distribuire la povertà”Anche se la ricchezza è frutto di speculazione, o peggio di frodi ai danni dei risparmiatori? Anche quando la gobba del cammello è gonfia di titoli tossici o di conti correnti intestati a prestanome?
COME RICORDA il grande medievista Jacques Le Goff nel suo Lo sterco del diavoloIl denaro nel Medioevo (Laterza, pagg220, euro 18,00), l’unico modo di evitare l’Inferno, per un usuraio, era la restituzione del maltoltoCosa che non avveniva di frequente, malgrado i fulmini del clero: come diceva re Luigi IX il santo, “è una pessima cosa appropriarsi dei beni altrui perché restituirli è così arduo che la sola pronuncia della parola rende strozza la gola a causa delle r che contiene, le quali rappresentano i rastrelli del demonio che sempre trascinano indietro coloro che hanno deciso di restituire i beni altr ui”Poi con lo sviluppo dei commerci, l’aumento della circolazione monetaria e la crescita dell’indebitamento anche il mondo ultraterreno ebbe bisogno di ampliamenti, sicché fu istituito il Purgatorio, dove pure speculatori e strozzini avevano una chance di redenzioneUn regime di carcere meno duro, con possibilità di riduzione della pena per buona condottaI più abili e meritevoli riescono a strappare un Lodo ad personam e vanno dritti in Paradiso senza fare anticameraBasta qualche opera di bene o un oratorio dedicato alla VergineTipico il caso degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani del XIII secoloDante schiaffa il padre, Rainaldo, nel girone degli usurai, ma il figlio Enrico, che consolida il business di famiglia, espia la propria opulenza con un gesto esemplare di caritas: investe un mucchio di quattrini in una cappella affrescata da Giotto, raccomandando che il ciclo dei vizi e delle virtù non appaia punitivo verso la sua categoriaCome biasimarlo? Dopotutto, gli Scrovegni del Duemila non lasciano all’umanità chiese affrescate, ma ville ad Antigua e si comprano la benevolenza del clero vietando le unioni gay.
Peraltro è difficile mandare all’inferno i mercanti se ci si mostra più avidi di loroOltre a dover venire a patti con le leggi dell’economia, fin dal Medioevo la Chiesa diventa essa stessa una potenza
economica che ha sempre più fame di “pecunia” È ancora Le Goff a ricordarci che fu il trasferimento ad Avignone, agli inizi del Trecento, a far impennare le spese della Santa SedeSale il numero dei dignitari della corte (tra 400 e 500, un centinaio in più rispetto all’ultimo papa romano, Bonifacio VIII) e Clemente V arriva a spendere ben 120 mila fiorini all’anno, di cui 30 mila solo “per la gestione domestica del suo palazzo tra stipendi, cibo, cera, legna, bucato, fieno, mantenimento dei cavalli ed elemosine”E le entrate? A parte le somme che vescovi e abati devono pagare al momento della nomina, il grosso proviene dai “censi” corrisposti dal re di Napoli e da altri signori italiani e dall’obolo di San Pietro versato dai regni scandinavi“ Tutte queste imposte – osserva lo storico – vengono saldate di malavoglia dai debitori nonostante il frequente ricorso alla scomunica”Per forza: sai che gusto foraggiare dei papi che pensano solo a costruire palazzi sontuosi e ad armare eserciti per difendere le loro terreIl fisco pontificio è una sanguisuga che ricorre a ogni mezzo per rimpinguarsi, inclusa la Peste nera che si abbatte sull’Europa dal 1348: “I benefici di molti titolari morti durante l’epidemia – ricorda Le Goff – vanno ad alimentare direttamente le finanze della Chiesa”E quando non sanno a cosa appigliarsi, tirano in ballo la lotta alle eresie, spauracchio sempre buono per giustificare confische, procure e gabelleE poi ci lamentiamo dell’otto per mille e dell’esenzione dall’Ici...
OGGI BENEDETTO XVI
tuona giustamente contro il potere distruttore dei “capitali anonimi che pongono l’uomo in schiavitù” e predica l’avvento di un “mercato buono”, una specie di non profit universale che ricongiunga le sfere della giustizia e della carità Ma il suo messaggio perde credibilità se la finanza vaticana, lo Ior o la Propaganda Fide si comportano con la stessa cupidigia e scarsa trasparenza dei capitalisti senza DioCome scrive Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia-Bovino, in un suo coraggioso libello (Per riformare la Chiesa, edizioni lLa Meridiana, pagg76, euro 12,00), “la povertà è per la Chiesa un discorso teologico prima che sociologico”Dopo la fine dell’alleanza trono-altare la Chiesa cattolica non ha ritrovato la strada del Vangelo e oggi, “nella opulenta società dell’Occidente aiuta i poveri, ma resta quasi impermeabile alla scelta della povertà per se stessaIl culto a Dio giustifica il barocchismo di vesti liturgiche e di insegne episcopaliLa necessità di sostenere opere pastorali spinge a servirsi dei meccanismi della finanza moderna”A rischio di incappare nelle maglie della giustizia come i tanti peccatori in doppiopetto che maneggiano troppo disinvoltamente lo “sterco del diavolo”.

il Fatto 30.10.10
Ricatti e trappole sexy ai tempi della Ddr
Quando la Stasi spiava le abitudini sessuali dei nemici per rovinarli
di Paolo Soldini


La mattina dell’11 ottobre 1987 nella vasca da bagno della stanza 317 dell’albergo Beaurivage di Ginevra un redattore del settimanale tedesco Stern trova il cadavere di un uomoÈ Uwe Barschel, ex presidente del Land dello Schleswig-Holstein, protagonista, poche settimane prima, di uno degli scandali politici più clamorosi del dopoguerra tedescoIl suo addetto stampa aveva rivelato di aver avuto da lui l’incarico di organizzare una campagna di calunnie contro il socialdemocratico Björn Engholm, suo rivale alle elezioniDopo l’esplosione dello scandalo Barschel si era
dovuto dimettere.
LA SUA MORTE ufficialmente fu attribuita a un suicidio, ma poi un’altra verità cominciò a venire a galla: l’uomo forse era stato ucciso da agenti di un servizio segreto perché sapeva troppo di un traffico d’armi tra l’Iran e Israele (la cosa non stupisca: allora c’era la guerra Iran-Iraq e sia il Mossad israeliano che la Cia americana brigavano per armare sotto banco l’una o l’altra parte)Ma nella stanza 317 era stato trovato un barbiturico che all’epoca era in vendita solo nella DdrQuesto fatto rinfocolò le voci secondo cui si trattava di un omicidio e che in qualche modo c’entrava la Stasi, la famigerata polizia politica della Germania estNel 2007, in effetti, dagli archivi della Stasi uscirono particolari illuminantiBarschel si era recato per ben 19 volte a Warnemünde, all’est, dove nell’hotel Neptun aveva avuto con “personale femminile” frequenti e intimi contatti che venivano accuratamente resocontati e anche filmatiNon esiste alcuna prova che i tedeschi dell’est c’entrino in qualche modo con la sua morte, ma certo Barschel era ricattatoE certo non era l’unicoI ricatti con fondamento sessuale erano pratica corrente per la StasiNella stessa Ddr, ma anche nella Repubblica federale e in altri paesi occidentaliMilitari, funzionari, politici, uomini di governo, parlamentari, giornalistiL’elenco delle vittime è lungo: diverse centinaia di casi accertati e qualche migliaio di casi presuntiE più lungo ancora sarebbe se, nella concitazione seguita alla caduta del muro, i funzionari del ministero della Sicurezza di Berlino est non fossero riusciti a fare a pezzi e a nascondere in 15 mila sacchi milioni di atti che una apposita commissione da più di vent’anni cerca di ricomporre.
Le rivelazioni hanno acceso l’allarme nella Germania post-unificazioneCi si chiede quanti comportamenti di persone, anche molto influenti, siano stati e forse siano ancora condizionati da ricatti di natura sessualeE non a caso il tema è stato sollevato dai media tedeschi in molti commenti alla vicenda di Berlusconi, già al tempo del caso D’Addario.
LE TECNICHE del ricatto erano semplici: o si utilizzavano notizie raccolte con lo spionaggio dei personaggi da “incastrare” oppure si provocavano situazioni in cui le vittime si mettevano nei guai da soleUn esempio classico è quello dell’ultraconservatore Heinrich Lummer, ministro dell’Interno ed ex borgomastro di Berlino, che fu “cucinato” ben bene da una affascinante Susanne, spia della StasiUn importante deputato della Spd, molto addentro alle cose della Nato, ebbe la carriera compromessa per una incauta relazione con una studentessa orientaleProficuo fu poi il lavoro di parecchi “romei” inviati a Bonn con il preciso compito di sedurre impiegate e segretarie dei ministeri federaliAnni fa si mormorava di una vera e propria orgia con deputati e alti funzionari (e ovviamente spioni) che sarebbe stata interrotta dalla polizia nella sede di un ministeroUn bunga bunga alla tedescaParticolarmente odiose le rivelazioni di Wanja Götz, a suo tempo ufficiale di collegamento tra la Stasi e il Kgb, che spiegò come la polizia segreta orientale avesse utilizzato a fini di ricatto i casi di due ragazzi uccisi nell’ambito di pratiche pedofile in cui avrebbero avuto un ruolo “personaggi importanti” della vita politica federalePer fortuna, nella filière sessuale della fu Ddr c’è anche una nota romanticaÈ la storia di una “giulietta” che fu inviata a sedurre un carabiniere in servizio presso l’ambasciata italiana a Berlino estLei si innamorò per davvero e chiese al gran capo in persona, il mitico Mischa Wolf, di lasciare il servizio per sposare il carabiniere che intanto era stato scoperto e scontava una pena in ItaliaWolf, raccontava lui stesso, in un impeto di romanticismo concesse il permesso.

Da Radio Radicale 29.10.10
il file integrale della trasmissione è disponibile qui

dal sito http://www.radioradicale.it/palinsesto/2010/10/28
voce: "martini e seguito della riunione..." a 13.18, dal 10° min. Emma Bonino, dal 38° min. in poi Sergio:

"...sarà che tutti sono molto affascinati da questo suo linguaggio... io, da povera sabauda... invece mi irrita solo questa stupidaggine della poesia, la narrativa, la ..., cose veramente... cioè sono cose inenarrabili... dice delle cose che siccome sono dette in modo poetico, si fa per dire, si fa per dire sto dicendo, passano come... sulla globalizzazione, o sulla crisi europea o sulla crisi... ha detto delle cose che sono.. da internarlo, da internarlo !...in cui l'Albania autarchica è già un progresso rispetto a quello che dice lui...(...) delle cose senza senso che però vengono ritenute affascinanti... dice basta con l'anticlericalismo... perchè, che vuole dire ? forza con il clericalismo ?! non capisco molto bene..."

Parla ancora 'Sergio' (non si capisce il cognome): "lui non è uomo di governo...(...) lui sceglie di andar via dalla Puglia, lui ... lancia la sua candidatura perchè ha fallito la prova del governo, ma non perchè ha fallito, ma perchè lui non riesce a governare (...) la critica che si può fare... non perchè lui non abbia questa forza evocativa, del linguaggio... che ce l'ha, potentissima, è sicuramente la cosa che lo ha fatto vincere contro D'Alema... insomma lo ha fatto diventare molto popolare... il problema quindi non sta tanto... nella poesia, il suo slogan è la 'poesia nei fatti', il problema è che non ci sono i fatti, lui la prova dei fatti non l'ha...io direi che non se ne è neanche curato... oggi non è più ostaggio dei partiti, è ostaggio di potentati economici, finanziari, probabilmente anche, diciamo, non raccomandabili, che stanno facendo i fatti...in Puglia la situazione... io vi invito ad ascoltare del convegno di Melpignano l'intervento di Gianni Lannes e di Carlo Vulpio (...) lì la situazione... da una parte Don Verzè, dall'altra la Marcegaglia (...)
...una cosa che diceva per esempio Vulpio... beh questo è andato da Santoro, no?, e come contraddittorio aveva Alba Parietti (...) perchè il problema di Vendola è anche questo, cioè lui... ci sono degli aneddoti veramente divertenti... prima di fare un'intervista... ad un giornalista, intanto si informa e si chiede se è un giornalista amico o se... ma lo dice esplicitamente "tu sei la stampa amica o la stampa nemica ?"... non regge... lui si riempie di valium, di psicofarmaci prima di sostenere un dibattito... non dorme la notte..."

venerdì 29 ottobre 2010

Repubblica 29.10.10
Bersani: "A casa il Cavaliere e le sue singolari abitudini"
Zanda: su polizia grave ingerenza del governo
D’Alema: c´è uno smarrimento e un involgarimento del discorso pubblico, la Chiesa reagisca


ROMA A casa. Perché il governo non governa, perché è impegnato solo nelle «questioni esoteriche del lodo Alfano». Ma anche perché è travolto da altri «temi che non voglio titolare. Che portano al centro le singolari abitudini del presidente del Consiglio». Pier Luigi Bersani va all´attacco di Berlusconi e cita indirettamente il caso della minorenne marocchina che avrebbe partecipato alle feste di Arcore. «Basta è l´appello del segretario Pd -. Qualcuno stacchi la spina. Il Paese ha problemi seri». Alla Lega, a Fini, allo stesso Pdl il Partito democratico chiede di chiudere il sipario. «Se ha tanto buon cuore, in queste ore ci sono migliaia di persone fermate per furti... Li lascia abbandonati così?», è la sola battuta che si concede il leader. Ma tutto il Pd assedia il premier. Chi con gli strumenti parlamentari, chi parlando di tutt´altro in una sede così lontana dalle stanze arcoriane. Massimo D´Alema partecipa a un convegno con monsignor Rino Fisichella, neopresidente del Pontificio consiglio per la nuova rievangelizzazione. E agli uomini di fede si rivolge così: «C´è uno smarrimento e un involgarimento del discorso pubblico. Altro che chiedere alla Chiesa di non ingerire. Io vorrei dirvi: ingerite! Se non ora, quando?».
Il vicecapogruppo del Senato Luigi Zanda concentra la sua attenzione su un aspetto della vicenda. Preparandosi a chiedere al governo di riferire all´aula di Palazzo Madama. «Tralascio la parte privata della vicenda. Ma se la questura è stata indotta a favorire il rilascio della minorenne su pressioni di Palazzo Chigi allora la vicenda sarebbe incredibile. E avremmo di fronte il segnale di uno spappolamento dello Stato che il potere e la cultura berlusconiani lasceranno all´Italia». Il presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro parla di «grave abuso» per l´intervento sulla Questura milanese. «Deve venire in Parlamento. La sua credibilità personale è quello che è, ma la telefonata alla polizia è istituzionalmente inaccettabile». La richiesta viene confermata dal capogruppo alla Camera Dario Franceschini: «In un altro paese il presidente del Consiglio che telefona alla Questura avrebbe portato alle immediate dimissioni dello stesso. Un intervento che Berlusconi rivendica allegramente». Antonio Di Pietro si occupa di un altro piano: «Sul versante politico-istituzionale io credo che il presidente del Consiglio non debba essere ricattabile. Berlusconi ha questa caratteristica tutta sua: essere allo stesso tempo un ricattatore e un ricattato. Utilizza il sistema di dossieraggio per fermare gli avversari politici, come nel caso Boffo piuttosto che nella vicenda Favata».
(g.d.m.)

il Riformista 29.10.10
Stavolta Bersani salta sul sexgate: «Dimissioni»
Trame. «Abitudini singolari, il governo vada a casa». Il leader sente aria di tracollo, vede più vicina la possibilità di un governo tecnico e assesta subito un colpo al Cavaliere
di Ettore Colombo

qui
 

l’Unità 29.10.10
D’Alema: ingerenza della Chiesa «Se non ora quando?»


«Altro che chiedere alla Chiesa di non ingerire: fatelo. Se non ora quando?». Lo ha affermato il presidente del Copasir, Massimo D’Alema intervenendo ad un dibattito dal tema «Un’Europa cristiana?» insieme a monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, in cui ha chiamato la Chiesa e i politici cattolici a dare il loro contributo nel «discorso pubblico» del nostro Paese. D’Alema ha ricordato come «il contributo cattolico alla democrazia in Italia sia stato straordinario». «Mai come in questo momento ha proseguito c’è bisogno che si torni a lavorare insieme». «Davvero si può pensare ha aggiunto che questo nesso tra etica e politica lo si ricostruisca senza la presenza politica dei cattolici italiani? No, sarebbe una illusione. Sentiamo il bisogno ha concluso di un incontro tra politica e fede religiosa».

il Fatto 29.10.10
Radicali a Congresso
Cappato: “Fuori dal Pd”


D a oggi a lunedì (con l’elezione del nuovo segretario) i Radicali saranno a congresso a Chianciano Terme. Al centro del dibattito temi internazionali come la pena di morte inflitta a Tareq Aziz e le strategie di politica estera “del nostro Paese troppo connessa agli affari privati”, come chiesto ufficialmente dal deputato Matteo Mecacci al sottosegretario Carlo Giovanardi rispetto alla cancellazione del debito dell’Italia nei confronti di Antigua. Poi c’è il capitolo del rapporto con il Pd, Marco Cappato che chiede “autonomia politica” totale e l’uscita dai gruppi parlamentari democratici: “In queste condizioni mantenere una sorta di interlocuzione privilegiata è assurdo, perché la presenza nel gruppo politicamente qualcosa significa, e mi pare non abbia più senso”. Altrimenti “cosa vuol dire essere alternativi a tutto e tutti se poi stiamo dentro i gruppi del Pd? Raggiunto un limite dopo il quale qualcosa di intollerabile non va più tollerato e la nostra condizione lì dentro non ha più senso. Dobbiamo cogliere l’occasione del congresso per riconquistare anche sul piano della forma parlamentare un’assoluta autonomia”. Contrari Marco Pannella e Emma Bonino: siccome mai “illusa, neppure delusa, già all’epoca dell’accordo sapevamo il prezzo che avremmo pagato”.

l’Unità 29.10.10
Morbosi indifferenti e pure ipocriti
Dall’abbuffata mediatica (con sensi di colpa) sul caso di Sarah Scazzi fino all’omicidio di Maricica nella città dei pregiudizi
di Luigi Manconi


La battuta più efferata e irresistibile da me ascoltata in età adulta, le ferocie dell’adolescenza si disperdono più facilmente nella memoria, è quella pronunciata da Stefano Ricucci: “sta a fa’ er frocio cor culo de ‘n antro”. Tradotta in italiano, quella frase evoca la sindrome del FARSI BELLI a SPESE degli ALTRI. Due sublimi manifestazioni di quella sindrome si sono palesate recentemente intorno a due categorie esibite come morali, ma che rimandano in realtà a radici materiali e a comportamenti sociali. Mi riferisco a quell’insieme di atteggiamenti e pulsioni che ricadono sotto la classificazione di Morbosità e a quell’altro insieme, ancora più complicato, di gesti e sentimenti definibili come Indifferenza. In proposito, il motto cui ha dato nuova linfa Stefano Ricucci è assai pertinente perché morbosità e indifferenza, nei casi in questione, vengono attribuite agli altri, a tutti gli altri, da chi ne è complice determinante, al fine di acquisire credito morale e di menarne, appunto, vanto. Cosicché chi ha contribuito in maniera decisiva, a produrre Morbosità e Indifferenza, può rapido come un furetto spostarsi di lato per sottrarsi alle proprie responsabilità e per meglio moraleggiare.
Nell’ultimo mese, infatti, è accaduto che un’indignazione grande come una casa ha attraversato le nostre chiacchiere sussiegose, riempendo trasmissioni televisive e articoli di giornali. Titolo: Uh, come siamo morbosi! Tra i reperti dei Ris e le troppe impronte digitali sull’incavo di quel telefonino, tra facebook e Netlog, il delitto di Avetrana lascia l’eco stridente dell’ultima manifestazione dell’ipocrisia nazionale. L’oggetto è la morbosità: ovvero quella curiosità un po’ umida e un po’ torbida che si concentra su quanto è accaduto a Sarah Scazzi e indugia e indulge in sguardi indiscreti, domande invadenti, ricerche insinuanti. E, dunque, tutti noi grandi moralisti e piccoli peccatori con tono grave e scuotendo malinconicamente il capino, esprimiamo il nostro sdegno in due versioni: a) ma lasciamola finalmente in pace, la povera Sarah; b) ma che scandalo tanta indecente attenzione da parte di giornali e tv! Sono d’accordo a patto di dire onestamente che tutta quella curiosità non è l’esclusivo risultato di un’accorta strategia del mercato dell’informazione. E a patto che si riconosca che lo stesso mercato dell’informazione non blandisce e titilla – come si sente dire – solo “i più bassi umori polari”, ma vezzeggia gli ancestrali sentimenti di ognuno di noi. Ovviamente, io, come milioni di italiani, ho seguito l’intera epica puntata di “Chi l’ha visto?” dove la mamma di Sarah apprese della morte della figlia. Ovviamente sono stato incollato davanti al televisore per tutto il tempo: e trovo tutto ciò, oltre che un po’ vergognoso per me e per milioni di concittadini, “umano troppo umano” . Perché, senza bisogno di evocare la tragedia greca, in quella terribile vicenda c’è qualcosa che richiama elementi fondamentali della nostra antropologia: il sesso nelle sue forme primitive (vere o presunte) e il sangue (versato in famiglia), l’odio torvo e l’omertà più cupa. Ciò non appartiene esclusivamente al passato remoto e a comunità lontane e straniere. Ci riguarda tutti (nella gran parte dei casi, e per fortuna, in maniera incruenta) ed è per questa ragione che tanto ci appassiona. Almeno lo si dica.
In caso contrario, parafrasando Samuel Johnson, si deve proprio pensare che il moralismo sia l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Se ne è avuta un’ulteriore prova quando si è assistito, le scorse settimane, allo scatenarsi della grande campagna “contro” l’Indifferenza. Coloro che hanno meticolosamente costruito l’ansia securitaria (ovvero il panico morale per le insidie contro “la sicurezza delle nostre case e delle nostre donne”, a opera degli stranieri), proprio loro hanno lamentato che nessuno si sia chinato sul corpo dell’infermiera romena Maricica Hahaianu uccisa nella metropolitana di Roma.
Prima hanno alacremente lavorato perché qualunque straniero o nomade, vagabondo o infermo di mente, tossicomane o emarginato venisse vissuto come un pericolo pubblico: e, ora, criticano quanti non si chinano misericordiosamente su un corpo che, appunto, potrebbe appartenere a uno straniero o a un nomade, a un vagabondo o a un infermo di mente, a un tossicomane o a un emarginato. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, minaccia di denunciare per omissione di soccorso coloro che invece di piegarsi su quel corpo a portare conforto sono passati oltre. Ah, come piacerebbe essere Stefano Ricucci per poter replicare: te possino caricatte (vedi il Dizionario romanesco, Newton Compton, 2005).

l’Unità 29.10.10
Vite a perdere nelle carceri italiane La Cgil: «10 proposte contro l’emergenza»
Sit in organizzato dal comparto sicurezza della Funzione Pubblica Cgil per denunciare la grave emergenza carceri del nostro paese e presentare 10 proposte per contribuire a risolvere i problemi di sovraffollamento.
di Massimo Solani


Le carceri italiane esplodono nel disinteresse della politica. La popolazione carceraria aumenta, l’organico degli agenti di polizia penitenziaria è gravemente carente e decessi e suicidi ricordano ogni giorno quanto grave sia il problema negli istituti di pena. Eppure il piano carceri elaborati del ministro della Giustizia Alfano e del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta sembra sparito, causa assenza di fondi adeguati, da un’agenda politica monopolizzata dai problemi con la giustizia del premier Berlusconi. Per questo ieri la Funzione Pubblica della Cigl ha deciso di portare in piazza i problemi di chi ogni giorno vive il carcerealdiquaealdiladellesbarre.E non in una piazza qualunque, ma in piazza Montecitorio davanti a quella Camera da troppo tempo sorda ai problemi dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria. Una protesta di grande impatto quella del sindacato (hanno aderito anche il Partito Democratico, i Radicali, Antigone, Radiocarcere, Magistratura Democratica e l’Unione delle Camere Penali) che fin davanti alla Camera ha portato la riproduzione di tre celle e “manichini detenuti”, per raccontare quali siano le condizioni di vita di chi in carcere lavora o sconta la propria pena. «Una emergenza umanitaria fuori controllo ha spiegato il responsabile Nazionale Comparto Sicurezza Fp-Cgil Francesco Quinti soprattutto in assenza di un progetto chiaro per uscire dalla crisi».
Per questo il comparto sicurezza del sindacato di Corso Italia ieri ha rilanciato la propria ricetta per aiutare il sistema carceri ad uscire dall’emergenza sovraffollamento e recuperare la vivibilità necessaria. Dieci proposte, hanno spiegato, che vanno dalla modifica della normativa sulla custodia cautelare alla messa in prova, dalla modifiche alle leggi Fini-Giovanardi (in materia di droga) e Bossi-Fini (contrasto all’immigrazione) all’adeguamento dell’organico della Polizia Penitenziaria con l’assunzione di almeno 6mila agenti. Il tutto, ovviamente, passando per una concreta redistribuzione dei fondi a disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria («riportiamoli almeno ai livelli del 2001», chiedono) e per l’inserimento in Finanziaria di quel miliardo e mezzo di euro necessario al completamento del Piano Carceri. «Le nostre 10 proposte servono a questo ha spiegato Quinti a dare una via d’uscita, proponendo provvedimenti normativi, formule organizzative e strumenti nuovi per rendere il carcere un luogo di recupero e di reinserimento nella società, come garantisce la nostra Costituzione Repubblicana e la legge Gozzini, mai applicate del tutto. Il carcere è divenuto un luogo di reclusione e repressione del disagio sociale, un luogo angusto e malsano, tanto per i poliziotti quanto per i detenuti».

l’Unità 29.10.10
Schiavi di oggi. Cronaca di uno sgombero
Anselmo Botte, sindacalista della Cgil, è il testimone di un giorno da immigrati-braccianti a San Nicola Varco
di Flore Murard-Yovanovitch


Gli schiavi moderni sono braccianti nel Mezzogiorno. Il loro ambiente: la tana. Capanna di lamiera e teli di plastica, quelli usati per le serre, dove nella stagione del raccolto centinaia di migranti si spezzano la schiena per una ventina di euro. Una topaia con qualche coperta che puzza di lercio e un’unica fontanella per 800 persone: ecco il campo di San Nicola Varco. Eppure, per i marocchini che ci sopravvivevano fino a quella notte dell’11 novembre 2009, era un «rifugio», in assenza di altro, di meglio. Graziemila. Eboli, San Nicola Varco: cronaca di uno sgombero è la storia di quell’unica giornata raccontata, passo dopo passo, da un testimone d’eccezione come Anselmo Botte, sindacalista della Cgil.
A questi stagionali che facciamo venire ogni anno con i «decreti-flussi» è data soltanto una branda. E invece di una vera politica di alloggio da parte di imprese e amministrazioni comunali, si preferisce la mano autoritaria. Centinaia di poliziotti in tenuta anti-sommossa e mascherina contro immaginari virus, organizzano una mediatica caccia al clandestino. Quelli scampati, sono oggi sparpagliati nei fondi della Piana del Sele, fino a Rosarno; altri rimpatriati o rinchiusi nei Cie; ma la stragrande maggioranza è tornata nei campi, all’alba dell’indomani stesso: nessuna alternativa di fronte ai caporali. Il ghetto non c’è più, ma i braccianti sì. Ipocrisia di un sistema-mercato a cui questa forza-lavoro è indipensabile, ma che non intende garantirle alcun diritto e dignità. Figuriamoci un contratto e un’abitazione degna.
Anselmo Botte denuncia come i braccianti vengono così lasciati in balia di camorristi e intermediari senza scrupoli, che vanno fin nei Paesi di partenza a organizzare le loro «tratte».
Pagherai 7000 euro per un illusorio «lavoro e alloggio in Italia»; ti ritroverai sfruttato per meno di 25 euro, inclusa la tangente al caporale. Cristo si è fermato qualche chilometro prima di Eboli. Qui non ci è arrivato: ma la tua vita sì. Come in un monologo teatrale, i risvolti del lavoro nero ce li racconta la voce semplice di Dris Quastalani, marocchino quarantenne. Tra i ricordi dell’infanzia al bled e il quotidiano con i connazionali nella tana di San Nicola Varco: una musica berbera e un tè, le discussioni angosciate alla vigilia dello sgombero.
Storia e corpo alla «clandestinità», che è paura e sopravvivenza quotidiana; un’unica busta con i rari stracci sempre pronta e persino la reciproca solidarietà che si sgretola. La vita ridotta ai «bisogni». Randagia. Lo riassume Driss, con la lucidità di chi sa di essere una merce sfruttata: «quel poco di umano che era in me era annientato».
Si esce da «Graziemila» con la sensazione non solo di avere toccato con mano la disuguaglianza contemporanea, ma anche di essersi addentrati nell’annullamento dei nuovi migranti. E molto spiega delle recenti rivolte.
«Graziemila. Eboli, San Nicola Varco: cronaca di uno sgombero» di Anselmo Botte, edizioni Ediesse

l’Unità 29.10.10
Sciopero degli stranieri, «in piazza per la dignità»


Lavoro e dignità. All’insegna di questi due diritti, che dovrebbero essere garantiti a tutti indipendentemente dal colore della pelle e dall’etnia, i lavoratori italiani e migranti scenderanno in piazza oggi pomeriggio in 4 città della penisola, con uno sciopero organizzato dalla Confederazione unitaria di base (Cub) e dal Comitato immigrati in Italia. Insieme a Roma, Bari e Milano, anche Firenze ospiterà la manifestazione, prevista per le 10.00 in via Cavour, davanti alla sede della prefettura. In Toscana, del resto, la manodopera straniera ha un peso molto rilevante, poichè rappresenta oltre il 10% dell’intera forza lavoro. La manifestazione è nata «per rivendicare lavoro, più reddito e dignità» e con l’intento, dicono gli organizzatori, di provare «l'unità dei lavoratori, italiani e migranti» contro «la cosiddetta “cura Marchionne”». L'astensione da lavoro riguarderà anche le Ferrovie dello Stato dalle 10.00 alle 18,00, mentre gli addetti agli impianti fissi (uffici e officine delle Fs) si fermeranno per l'intera giornata. In una nota, anche l'ospedale Le Scotte di Siena annuncia che a causa dello sciopero potrebbero «verificarsi disagi e variazioni nel normale svolgimento delle attività ambulatoriali». V. BUT.

Corriere della Sera  29.10.10
Il diritto dei figli a essere amati (per legge)


Via la distinzione tra naturali e legittimi. Dovranno mantenere i genitori in difficoltà
ROMA — Uguali in tutto e per tutto. Senza più neppure una differenza, anche piccolissima. Non più figli di serie A e di serie B, non più bambini diversi anche se nati da uno stesso genitore. Sarà approvato oggi dal Consiglio dei ministri il disegno di legge delega per l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi. Un ddl delega che dovrebbe tracciare un percorso veloce per l’approvazione di una legge fortemente sentita dalla gente, ora che in Italia la percentuale dei figli nati fuori dal matrimonio è superiore al 18 per cento, ed è più che raddoppiata in dieci anni; una legge che non incontra più alcun ostacolo culturale; una legge voluta dal ministero delle Pari Opportunità di Mara Carfagna e dal Sottosegretario per la famiglia Carlo Giovanardi. Un disegno di legge che potrebbe finalmente diventare realtà, dopo il tentativo fatto nel 2007 dall’allora ministro per la Famiglia Rosy Bindi, che era riuscita a far approvare dal governo Prodi un provvedimento analogo che però non era mai diventato norma.
Figli uguali, senza differenze: l’ordinamento giuridico non conoscerà più neppure la distinzione linguistica tra figli naturali e figli legittimi, si parlerà solo di figli, con una rivoluzione lessicale che sarà estesa a tutto l’ordinamento giuridico, a cominciare dal codice civile.
Figli uguali senza differenza significa che cadono anche le ultime disparità di trattamento per quanto riguarda i diritti ereditari. E non è cosa da poco. Il figlio naturale, che oggi può essere liquidato dai fratellastri con una somma di denaro, e così escluso dall’asse ereditario, ne entra adesso pienamente a far parte, con piena tutela dei suoi interessi e senza diritti diminuiti in nessun modo. Figli uguali significa anche che sono parenti dei parenti del genitore, come i figli legittimi hanno nonni e zii senza differenze.
Ma non c’è solo l’equiparazione in caso di eredità, che pure è la cosa più importante. In questo ddl c’è anche l’affermazione di un principio fondamentale: tutti i figli, senza alcuna distinzione, hanno diritto ad essere amati e a ricevere dai genitori non solo il sostegno economico ma anche quello morale, un carico affettivo necessario per una crescita armoniosa. E accanto ai diritti, per tutti i figli, anche quelli nati fuori dal matrimonio, si sancisce il dovere di contribuire al reddito familiare, in pratica di mantenere i genitori in difficoltà, con l’evidente intenzione di spingere il figlio ormai grande a cercare concretamente un lavoro per aiutare la famiglia se resta nella casa dei genitori, norma questa che potrebbe modificare molte sentenze della Cassazione che fino ad oggi hanno dato ragione ai figli, obbligando genitori anche anziani a mantenerli oltre ogni ragionevolezza.
C’è poi una rivisitazione della dichiarazione di stato di abbandono, che consentirebbe alla magistratura di interpretare in maniera più ampia la situazione che precede l’adottabilità di un minore. E si stabilisce il diritto dei figli ad essere sempre ascoltati quando si prendono decisioni che li riguardano.

Corriere della Sera 29.10.10
Naturali o no, i figli vanno amati per istinto e d’ora in poi per legge
di Isabella Bossi Fedrigotti


Sempre più figli nascono fuori dal matrimonio e vengono concepiti artificialmente. La società cambia e i codici si adeguano. Dispone un nuovo disegno di legge che i figli sono uguali in ogni senso, non più distinti in legittimi e naturali, i quali finora erano parificati come figli, ma non come nipoti e cugini. D’ora in poi, invece, saranno per diritto parenti dei parenti di entrambi i loro genitori e dovranno poterli frequentare. Per la gioia dei nonni «illegittimi» che da tempo lamentavano l’ingiustizia reclamando questo riconoscimento.
La suggestiva e abbastanza inattesa novità consiste, tuttavia, nel fatto che gli articoli del disegno di legge parlano di amore. Amore e assistenza che ai figli — tutti i tipi di figli — spetteranno per diritto, esattamente come già spettavano loro l’educazione e il mantenimento. Il che non è un fatto così ovvio come potrebbe sembrare, visto che esistono non pochi genitori, in genere padri ma non mancano nemmeno le madri, che, rifattasi altrove una vita sentimentale, magari lontano e con nuovi figli, provvedono al mantenimento e all’educazione (scolastica) dei loro bambini e ragazzi di primo letto, assai meno, però, all’assistenza e all’amore. Sempre ammesso che una legge, peraltro in tutto e per tutto coincidente con quella istintiva e naturale, esistente fin dalla notte dei tempi, riesca davvero a insegnare l’amore o, in mancanza, a imporlo a certi, malauguratamente recalcitranti, genitori.
Il disegno di legge prevede però anche — di nuovo adeguandosi ai mutamenti della società — che i figli abbiano a loro volta dei doveri: dovranno, cioè, se già hanno un lavoro e ancora vivono in famiglia, contribuire al suo mantenimento. Come dire, insomma, che i bamboccioni — là dove esistano — saranno d’ora in poi obbligati a darsi una mossa, a non più considerare la casa famigliare come una pensione gratuita, la mamma come una governante tuttofare e il papà magari, alternativamente, ora come fattorino ora come bancomat.

l’Unità Firenze 29.10.10
Biblioteca Nazionale dal governo nessuna certezza
Interrogazione del deputato fiorentino Ventura al sottosegretario Giro. Blocco-turnover: in arrivo personale di altri enti per aprire il pomeriggio
di Tommaso Galgani


Il pomeriggio si chiude. E dall’anno prossimo servizi ridotti. Per la Biblioteca Nazionale di Firenze, grazie ai tagli del governo alla cultura, sono due rischi che restano concreti. Il tema ieri è stato affrontato alla Camera, con un’interrogazione del deputato fiorentino del Pd Michele Ventura al sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Giro. Tra le questioni posta da Ventura, il tema del turnover («abbiamo un blocco del turnover, che è stato particolarmente pesante e grave; il personale è di circa 190 unità, a fronte delle 2.500 di Parigi e delle 1.200 di Londra. L’età media di questo personale è di 55 anni e non vi è stata immissione di nessuna forza con competenze particolari, soprattutto del mondo giovanile»), la mancanza di certezze sull’espletamento dei concorsi e sulle assunzioni straordinarie, l’ipotesi di nuovi spazi: «Sarebbe interessante sapere come il governo intenda intervenire per la ristrutturazione e il completamento, dopo l'accordo con il demanio, per assegnare alla biblioteca l'ex caserma Curtatone e Montanara, in via Tripoli, che dovrebbe costituire un volano per consentire la conservazione e la catalogazione nei prossimi anni», ha detto Ventura. Giro ha risposto sciorinando numeri e qualche promessa. Senza soddisfare l’interrogante.
Viene descritto uno scenario: «Per la carenza di personale, problema di carattere generale per il settore e legato al blocco del turnover in tutto il comparto, si sta valutando la possibilità di transiti alla biblioteca di personale appartenente ad enti disciolti, possibilmente già presenti sul territorio fiorentino. Va altresì ricordato che il processo di autonomia non solo scientifica ma anche amministrativa, gestionale e finanziaria della biblioteca è ancora in una fase fisiologica di transizione. A pieno regime, tale autonomia consentirà di attingere a varie altre forme di finanziamento», ha spiegato Giro. Ha replicato Ventura: «Ci hanno risposto in maniera ragioneristica dimostrando ancora una volta come sia profondamente sbagliata l’idea dei tagli lineari. Alla Biblioteca di Firenze, il principale centro bibliografico d’Italia, non si può contrapporre la ragionieristica e generalizzata riduzione del 30% delle risorse. Vista la risposta burocratica del sottosegretario, in attesa di leggi speciali e di interventi aggiuntivi di cui ho sentito parlare, mi accontenterei di interventi ordinari». Intanto, martedì ci sarà il concerto del Maggio davanti alla biblioteca.

il Fatto 29.10.10
“Eravamo a un passo dal salvare Saddam, poi Bush rovinò tutto”
Pannella ricorda Tareq Aziz e i giorni dell’operazione-esilio
di Stefano Citati


“Caino al cento per cento”. Così Marco Pannella definisce Tareq Aziz: e proprio come il primo assassino della storia (biblica) l’ex vice primo ministro iracheno ha il diritto di avere salva la vita. Dunque “nessuno tocchi Caino” (associazione contro la pena di morte affiliata al Partito radicale). Al terzo piano del palazzo di via di Torre Argentina, centro storico di Roma, con sopra e sotto i locali delle suore benedettine, il leader storico dei radicali racconta l’impegno preso per Aziz, sciopero della fame (dal 2 ottobre, per la situazione nelle carceri italiane) e della sete (deciso dopo l’annuncio della condanna a morte dell’ex ministro iracheno) e soprattutto ricorda come nell’inverno 2003 si fu a un passo dal salvare Saddam Hussein permetendogli l’esilio dall’Iraq.
“COME HA ricordato Furio Colombo (articolo su il Fatto di mercoledì, ndr) si era creata la straordinaria possibilità di risolvere altrimenti la situazione, non con le armi, ma attraverso l’esilio del dittatore: per noi era essenziale che Saddam se ne andasse per smettere la guerra civile contro il suo popolo. Non era un atteggiamento pacifista; sono sempre stato considerato un amerikano (sì, con il kappa), e mi sono sempre definito anche un uomo della Cia, in modo fosse chiaro che per noi il punto-chiave era la cacciata di Saddam. È successo tutto molto in fretta, parallelamente alla creazione del consenso bellico: il 10 dicembre Io, Emma e i nostri 7 parlamentari europei decidemmo di porre la questione dell’esilio; il 19 gennaio presentammo il progetto alla Camera dei deputati e solo un mese dopo, il 19 febbraio il Parlamento vota la proposta radicale (345 sì, 38 no, 52 astenuti), che impegna il governo Berlusconi a ‘sostenere presso tutti gli organismi internazionali, a iniziare dal Consiglio di sicurezza Onu l’ipotesi dell’esilio del dittatore iracheno’. I nostri tempi erano perfetti: le manifestazioni pro-Saddam (e anti-americane) si moltiplicavano non solo nel mondo arabo ma anche nell’Occidente. Avevamo precedenti illustri, come Bokassa (ex dittatore del centrafrica rifugiato in Costa d’Avorio); avevamo preso contatti con chi si stava impegnando nelle mediazioni (il greco Papandreou era presidente di turno della Ue, molti paesi arabi stavano cercando di convincere il presidente iracheno e abbiamo avuto contatti anche con Blair, che era indeciso sul da farsi). Insomma per noi il momento e l’opinione pubblica erano propizi (il 19 marzo, solo dopo l’ultimatum di 48 ore di Bush a Saddam, fu reso pubblico un sondaggio del 25 gennaio in cui il 62% degli americani si diceva favorevole all’esilio): ma a questo punto tutto è stato fatto naufragare dal ‘vertice della fattoria’. Il 22 febbraio a Crawford (il ranch dei Bush in Texas), il presidente americano respinse e affossò i tentativi del premier spagnolo Aznar di spingere per l’esilio: ‘Potrebbe essere ucciso entro due mesi; è un ladro, terrorista, criminale di guerra, al cui confronto Milosevic sarebbe Madre Teresa’, risponde il capo delle truppe americane.
BUSH TEMEVA che se fosse stato fatto fuori Saddam sarebbe caduto il motivo e la scusa per l’attacco. A precedente, ma ulteriore, conferma l’8 febbraio Bush ‘incarica’ Gheddafi, attraverso la mediazione di Berlusconi, ad andare da Saddam per convincerlo all’esilio; è la posizione della Lega Araba; ma il 1° marzo alla riunione del Cairo
(era presente Emma Bonino), il leader libico ruba la scena a tutti e di fatto blocca la discussione sul possibile esilio del dittatore che pure gli aveva dato la sua disponibilità: poco dopo la Libia verrà tolta dalla lista nera degli americani. Insomma, la possibilità di esilio di Saddam è stato fatto fallire e adesso ci ritroviamo con la condanna a morte del suo più vicino collaboratore (che tra il 13 e il 15 febbraio fu a Roma, incontrò il Papa, ma non fu forse ‘usato’ efficacemente per convincere Saddam) che sa tutto questo e potrebbe raccontare dell’“opzione impossibile” fatta saltare da chi non poteva fare a meno della guerra”.

Corriere della Sera 29.10.10
Ateismo, materialismo, rivoluzione Michel Onfray pasdaran dei Lumi
«Voltaire e Kant ipocriti bigotti. Meglio Meslier, d’Holbach, Sade»
di Pierluigi Panza


Ai radicalismi che si fronteggiano su scala planetaria dall’inizio del secolo (religiosi, etnici, economici), il filosofo francese anti-salotto buono parigino, Michel Onfray, ne vuole aggiungere un altro: l’Illuminismo radicale. È una posizione che rivendica come caratteristica dell’Europa nel saggio Illuminismo estremo (traduzione di Gregorio de Paola, Ponte alle Grazie, pp. 302, €20)
e che si fonda su almeno quattro aspetti: un marcato e netto ateismo; il riconoscimento del fondamento materialistico e meccanicistico delle cose e degli esseri viventi; la libertà di espressione per ogni forma di piaceri e l’elemento rivoluzionario come azione politica — essendo la rivoluzione francese l’atto caratterizzante l’Europa moderna.
Onfray è un coraggioso filosofo antiaccademico di estrazione popolare, ma che scrive davvero troppi libri perché siano tutti «importanti»: nel suo precedente a questo — una severa critica a Sigmund Freud fondata sul confronto tra pensiero e biografia — si è attirato numerose critiche dall’establishment dei maîtres à penser transalpini, i quali si sono dimenticati nell’occasione che pure il «guru» Michel Foucault era arrivato a interpretare il pensiero di Freud come estrema eredità del pensiero cattolico.
Forse sarà così anche questa volta, visto che Onfray — pur non invitando gli illuministi radicali a fare guerriglia o attentati nelle strade in nome della Ragione — mette sotto accusa i «padri nobili» dei Lumi: Diderot, d’Alembert, Voltaire e Kant. I quali sono colpevoli di insufficiente radicalismo, più spesso di ipocrisia, come minimo di non aver saputo tagliare i legami con il deismo e la religione o di esser stati quello che oggi si direbbe «politicamente scorretti». Dunque, gli avversari dello sviluppo dei Lumi non sarebbero stati solo gli ultimi occultisti alla Cagliostro, i mesmeristi che guarivano con la calamita, i frenologi che studiavano il bernoccolo della matematica, i seguaci della fisiognomica come Johann Kaspar Lavater o i settari e i dogmatici rifugiati nelle confraternite. No, anche loro, i Kant e i Voltaire, alla fin fine, lasciarono prosperare le due ossessioni di Onfray: il cattolicesimo e le monarchie.
Su che basi giunge a queste condanne? Come per Freud, Onfray procede mostrando la discrasia tra pensiero e comportamento individuale (popolarmente si direbbe «predicano bene e razzolano male»), ovvero comparando teoresi e buco della serratura — o quasi. Diderot è «assai acuto sui popoli dell’altro capo del mondo nel suo Supplemento al viaggio di Bougainville, ma un po’ meno eloquente quando incassa i benefici del suo capitale impegnato nella tratta dei negri». Stessa osservazione per Condorcet: «Pronto a condannare la schiavitù nelle Riflessioni sulla schiavitù dei negri, ma anche a chiedere una moratoria di ottant’anni per non danneggiare i proprietari». Quanto a Kant, la colpa è quella di aver classificato «le donne nella casella dei minorenni di fatto». Accuse anche al naturalista Buffon per l’affermazione che «i negri puzzano di porro» e a Montesquieu perché «difende la pena di morte».
Non si salva nessuno? Europa, ancora una volta, con il capo cosparso di cenere? No; si salvano gli ultrà dei Lumi, che rispondono ai quattro requisiti sopra enunciati. Sono: La Mettrie, Meslier, Helvétius, d’Holbach e il marchese de Sade.
Quello di Onfray è più un coraggioso manifesto per l’oggi che una controstoria. È vero che la storia delle idee si fa con «gli occhi del presente», e che qualsiasi storia è interpretazione; ma qui la volontà di non calare il pensiero nell’epoca della sua formulazione appare troppo evidente per parlare di «storia».
Lo registrano anche due osservatori italiani. L’epistemologo Giulio Giorello ritiene infatti che Onfray sia «un po’ offuscato da ossessioni personali, come fare i conti con il cristianesimo», e che la sua sia «un’utile provocazione intellettuale che dà voce al materialismo radicale di d’Holbach o Le Mettrie». Ma — e questa è una critica anche di altri — «non vorrei che si sostituisse l’idea di filosofia come ricerca di Dio, con la tesi opposta», dice Giorello. «Voltaire è un deista e ritiene necessaria una religione civile, ma smonta con ironia ogni fanatismo. Diderot ha sarcasmo; dire che possedeva degli schiavi è un gioco vecchio. Anche Thomas Jefferson e George Washington erano teisti e schiavisti: ma ciò toglie veridicità alla dichiarazione che tutti gli uomini sono nati liberi? Direi di no. Toglie valore all’esperimento democratico di Washington?». Il caso de Sade, poi, è curioso. In un libretto dove tracciava l’elogio di Charlotte Corday, l’assassina di Marat, Onfray esaltava la donna e stigmatizzava de Sade. «Sono contento — conclude Giorello — che ora lo rivaluti; Charlotte ammazzava e Sade no. Il marchese si esprime contro la pena di morte, nella sua Filosofia nel boudoir presenta un’idea di Stato minimo e dice che la rivoluzione non deve essere imposta. Se vale esportare la rivoluzione, come vorrebbe Onfray, allora vale anche esportare la democrazia! A Sade avrebbe fatto orrore la guerra in Iraq; a Onfray non so».
Per il filosofo cattolico Giovanni Reale, poi, Onfray prende proprio l’Illuminismo dalla parte sbagliata. «L’Illuminismo ha avuto una validità fondamentale, ma il suo nucleo pericoloso è proprio l’estremismo integralista, il radicalismo della Ragione che diventa dea al posto di Dio. L’Europa non è nata con l’Illuminismo, come pensano i neoilluministi anche di Bruxelles; ma con la cristianità. L’errore che compie l’Illuminismo radicale è negare la portata conoscitiva della fede. Persino epistemologi come Thomas Kuhn hanno mostrato che i passaggi di paradigmi scientifici avvengono per atti di fede». E conclude: «L’Illuminismo che combatte l’integralismo religioso non è un buon Illuminismo se diventa, a sua volta, integralista, come è Onfray».
L’Illuminismo dovrebbe presentarsi come anticorpo al radicalismo. «Senza ignorare», come scriveva Edgar Morin, «le ombre della Ragione». E senza trasformarsi in «contro-prassi», come si diceva ai tempi della Scuola di Francoforte. Visto che già Horkheimer e Adorno, con Dialettica dell’Illuminismo (1947), avevano mostrato i limiti e i rivolgimenti di una ragione radicale che diventa il suo opposto: la meccanizzazione che porta allo smog, la promozione che conduce alla sudditanza pubblicitaria… Se in Onfray va apprezzata la radicale guerra a ogni ipocrisia e a ogni falsa coscienza (e ce n’è bisogno), va però evidenziata anche l’ingenuità filosofica nel ritenere che il «pensiero» davvero possa partire da una tabula rasa e procedere senza «pre-giudizi».

Repubblica 29.10.10
Il business delle false malattie ecco i trucchi delle industrie per venderci farmaci inutili
Il costo per sanità pubblica e famiglie: 4 miliardi all’anno
di Michele Bocci


Non ce n´è nemmeno uno. Sul calendario non sono rimasti più mesi, settimane o giorni liberi da malattie. Da prevenire, scoprire prima possibile, sconfiggere, studiare o raccontare a chi sta bene. Cancro, alzheimer, sclerosi multipla, aids sono protagoniste ogni anno di giornate mondiali o italiane, regionali o cittadine. Ma anche la menopausa, l´osteoporosi, l´incontinenza e addirittura la stipsi hanno i loro periodi dedicati, con appuntamenti nelle piazze, davanti ai supermercati, negli ambulatori. Sotto gazebo montati in centro si misurano glicemia e pressione, si fanno valutazioni odontoiatriche e audiometriche ai passanti. C´è un palcoscenico per ogni problema, che sia infettivo e raro come la meningite oppure diffusissimo come l´ipertensione. Molti forse non sanno che in Italia si celebra anche il mese della prevenzione degli attacchi di panico.
Quanti sono gli appuntamenti dedicati alle malattie? Quelli nazionali almeno 60 l´anno, poi ci sono le manifestazioni locali e il numero sale a 300. In molti, tra medici, farmacologi e responsabili di associazioni di malati, sono convinti che sia troppo alto. Spesso l´invito agli screening e il messaggio che molti non sanno di avere una certa patologia, oltre ad avere effetti positivi, creano ansie e timori. E fanno consumare sempre più sanità: esami, visite e medicinali. È ciò che vuole l´industria farmaceutica, che in Italia fattura oltre 25 miliardi di euro all´anno. Lavora per far guarire da problemi seri ma anche per allargare il mercato, un po´ come si fa con i detersivi. Le giornate del malato, normalmente importanti, possono essere un efficace strumento di marketing, e diventare una delle linee di produzione della fabbrica delle malattie.
Quali sono i meccanismi utilizzati per riempire di medicine i nostri armadietti del bagno? Il punto di partenza è la ormai nota frase pronunciata oltre trent´anni fa dal pensionando direttore Merck, Henry Gadsen: «Sognamo di produrre farmaci per le persone sane». Da allora la fabbrica ha scoperto tanti medicinali importanti ma ha anche prodotto nuove patologie e nuovi malati. Eventi naturali della vita come l´invecchiamento e il parto o stati d´animo come la timidezza, oggi, nella grande corsa al benessere assoluto, sono considerati problemi di salute. Così nessuno di noi si sente sano fino in fondo. Probabilmente Gadsen ne sarebbe soddisfatto.

I problemi di salute in piazza
L´idea di partenza è meritoria: portare una patologia in piazza per farla conoscere e magari raccogliere soldi per ricerca e assistenza. Il sistema però è cresciuto a dismisura. «Si rischia di incentivare il consumo di prestazioni sanitarie e di medicine», dice Marco Bobbio, primario di cardiologia a Cuneo e autore per Einaudi del libro "Il malato immaginato". «Tra gli organizzatori delle giornate c´è certamente chi ha uno scopo specultativo. Anche perché nessuno ha mai verificato con studi scientifici se queste iniziative aiutano i pazienti a curarsi meglio o magari spingono qualcuno che ha scoperto i sintomi di un problema ad accentuare artatamente i suoi disturbi, sottoponendosi a esami inutili». E magari a consumare più farmaci. Ma quanti tra coloro che partecipano a una campagna sanno già di avere quel problema di salute?
«L´impressione è che si faccia coinvolgere chi è già seguito per la patologia a cui è dedicata la giornata dice Bobbio Chi fuma non va al banco per la prevenzione del tumore al polmone fuori dal supermarket».
A organizzare questi appuntamenti di solito sono associazioni di malati, con l´appoggio di una società scientifica e il contributo dell´industria. Un evento di medie dimensioni al privato può costare anche 100-150mila euro. Le case farmaceutiche credono in queste iniziative. E non solo loro. Sempre più aziende cercano visibilità per i loro prodotti attraverso i problemi di salute. La giornata dell´osteoporosi oltre a sponsor come Procter & Gamble (che vende un farmaco per questo problema a base di risedronato), o Lilly Italia, quest´anno ha avuto la partnership dell´acqua Sangemini. Sul suo sito la società spiega anche di aver pubblicato un «opuscolo esplicativo sulle proprietà dell´acqua Sangemini, sulla prevenzione e la cura dell´osteoporosi per la donna fashion, ma anche attenta al suo benessere». Il tutto per un problema passato negli ultimi anni da fattore di rischio a malattia, secondo alcuni proprio grazie all´impegno dell´industria. Negli Usa si calcola che le visite per l´osteoporosi siano triplicate dall´introduzione sul mercato del farmaco alendronato della Merck.
Al di là delle normali e lecite sponsorizzazioni, esistono appuntamenti organizzati a tavolino per vendere farmaci? Per dare una risposta basta la storia della "settimana nazionale per la diagnosi e la cura della stitichezza". «In Italia è stata fatta per ben tre anni consecutivi spiega Bobbio Si volevano sensibilizzare medici e cittadini sulla necessità di curare questo problema in previsione dell´arrivo sul mercato di un farmaco». Quel medicinale era a base di tegaserod ed era prodotto dalla Pfizer, che l´ha ritirato dal commercio in Europa nel 2007, perché sono stati segnalati casi di problemi cerebro-vascolari tra chi lo aveva preso. «E dall´anno dopo la settimana della stitichezza è scomparsa dice Bobbio dimostrando che il grande interesse "scientifico" era ingigantito per preparare il lancio commerciale».

Curare malattie che una volta non erano malattie

Le giornate del malato, come certi studi clinici, i convegni e le pubblicità, in alcuni casi possono essere utilizzate per il cosiddetto disease mongering, la creazione a tavolino delle malattie. La stessa osteoporosi, la menopausa, la timidezza, un tempo non erano considerate patologie, ora sì. Una recente ricerca scientifica svolta negli Usa e pubblicata da Social science & medicine, prende in considerazione una decina di situazioni (ansia, deficit di attenzione, insoddisfazione della propria immagine, disfunzione erettile, infertilità, calvizie, menopausa, gravidanza senza complicazioni, tristezza, obesità, disordini del sonno) che sono state medicalizzate, alcune magari anche giustamente, negli ultimi anni e calcola che costino ogni anno alla sanità Usa 77 miliardi di dollari, il 3,9% della spesa. Quanto costa in Italia medicalizzare le patologie che un tempo non esistevano? Rispettando le proporzioni con l´America, circa 4 miliardi di euro. Di recente il British medical journal ha pubblicato il lavoro di un ricercatore australiano, Ray Moynihan, il quale sostiene che il mito della scarsa libido delle donne è stato creato dalle case farmaceutiche, per vendere una versione femminile del Viagra fino ad ora mai scoperta.

Come si aumenta il numero di pazienti
La fabbrica delle malattie non si accontenta mai. Si muove anche per far crescere il numero di persone a rischio. «Basta abbassare il limite della pressione, della glicemia o del colesterolo considerati pericolosi», spiega Roberto Satolli, medico e giornalista dell´agenzia Zadig, che realizza il sito www.partecipasalute.it. «Negli anni Sessanta si era ipertesi con 160-90, negli anni Ottanta e Novanta con 140-90 e adesso con 120-80. Si sposta un po´ la soglia e milioni di persone vengono inserite tra coloro che devono prendere dei farmaci». Il colesterolo un tempo era considerato alto dai 240 in su, adesso anche ben al di sotto dei 200. Un sensibile allargamento del mercato potrebbe essere dovuto proprio in questo periodo al Crestor di AstraZeneca, uno dei medicinali della famiglia delle statine più efficaci per abbassare il colesterolo e quindi prevenire l´infarto. Di recente l´Fda, l´agenzia Usa per il controllo dei farmaci, ha approvato l´estensioni delle indicazioni alle persone senza problemi di colesterolo ma con alti livelli della proteina C-reattiva (un marcatore di infiammazione) e con un fattore di rischio cardiovascolare, come fumo, ipertensione, sovrappeso. Il New York Times ha spiegato come uno studio su larga scala dimostri che, rispetto al placebo, il Crestor per questi soggetti fa scendere la probabilità di un attacco di cuore da 0,37% a 0,17. Il quotidiano fa notare che per prevenire un infarto "a cui normalmente si può sopravvivere" vanno trattate 500 persone. Che magari sono grasse e quindi potrebbero abbassare quel fattore di rischio. Il Nyt calcola che, con l´allargamento dei parametri, 6,5 milioni di americani diventino potenziali utilizzatori del Crestor.
Le statine sono sempre più usate ovunque, da noi il consumo aumenta del 20% all´anno. Si tratta di farmaci che hanno rivoluzionato la cura dei problemi cardiovascolari. Lo sottolinea Sergio Dompé, presidente di Farmindustria: «Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una riduzione di queste patologie senza precedenti. Del resto, più in generale, oggi stiamo meglio di una volta, in 15 anni ne abbiamo guadagnati 3 di vita. Le aziende fanno i loro interessi, ma quando lavorano correttamente perseguono anche il bene della collettività. Certo, alcuni sprechi si possono ridurre. E come dico sempre: il miglior farmaco è avere un bravo medico». Uno dei pilastri della fabbrica delle malattie è il marketing. Ma come si fa a vendere un farmaco?

L´imbuto e il "disease awareness"
Bisogna essere oltre che disinvolti anche scientifici. «I medici sono classificati a seconda della loro capacità di condizionare i colleghi. In cima ci sono gli influenzatori, bravi a parlare in pubblico e seguiti da tanti altri dottori quando si tratta di fare una prescrizione. Poi ci sono gli influenzati ma anche categorie come gli early adopters, gli appassionati delle novità, che amano essere i primi a fare le cose». A parlare è Luca (il nome è finto), che da anni lavora negli uffici marketing del farmaceutico. «A parte l´utilizzo degli informatori, sono importanti i congressi. Si sponsorizzano gli organizzatori e si fanno mettere letture o tavole rotonde incentrate non sul brand del tuo farmaco, cosa vietata, ma sul principio attivo o sulla patologia. Avere questo spazio scientifico costa diverse decine di migliaia di euro. Per il tuo simposio ingaggi i relatori, che paghi tra i mille e 5mila euro, e anche il pubblico, cioè i medici che seguono la patologia di cui si parla e che ospiti al congresso». Il fine è quello di vendere più farmaci. «Si pensi a un imbuto dice Luca Se ho 100 persone che prendono determinati medicinali e la mia azienda copre il 50% del mercato, serve a poco ed è faticoso strappare alla concorrenza il 2 o 3%. A me che sono leader, conviene aumentare i pazienti, farli diventare 200 allargando l´ingresso di quell´imbuto. Si cerca di ridefinire la malattia per poter dire che ne soffre anche chi prima non l´aveva. E partono le campagne di disease awereness, cioè di consapevolezza, fatte un po´ in buona fede e un po´ in malafede. Esiste sempre una quota di persone che non sa di avere una certa malattia: è giusto fargliela scoprire. Così, ad esempio, si organizzano le giornate».

La ricerca in mani private
Le multinazionali hanno in mano la ricerca. Lo spiega Nicola Magrini, farmacologo direttore del Ceveas, che si occupa di valutazione e linee guida sull´uso dei farmaci per la Regione Emilia Romagna e per l´Istituto superiore di sanità. «Negli Usa, pubblico e privato investono nella ricerca il 50% a testa spiega Da noi il pubblico finanzia solo una piccola parte degli studi. Bisognerebbe almeno favorire l´effettuazione di ricerche a cui partecipano più aziende: confrontando più farmaci si bilanciano gli interessi di tutti». Ma cosa sanno i singoli medici dei risultati della ricerca scientifica? «Negli ambulatori arrivano depliant patinati, non informazioni. Il sistema sanitario dovrebbe dare la possibilità a ogni dottore di accedere alle migliori evidenze scientifiche». Crede nelle collaborazioni tra privati per la ricerca anche Dompé. «Capita sempre più spesso che più aziende investano sullo stesso progetto, il nuovo paradigma è collaborare per competere». Il presidente di Farmindustria spiega che nel settore in Italia c´è ancora da fare. «Siamo indietro senza dubbio come struttura industriale, e ancora di più come sistema paese. Ma stiamo crescendo. Il pubblico non può avere i soldi per pagare gli studi sui farmaci, che durano in media 12 anni e mezzo. Allora deve far in modo di individuare centri di eccellenza, e ce ne sono, in grado di competere a livello mondiale e investire solo su quelli».

Siamo tutti doloranti?

Proprio in questo periodo nel nostro paese potrebbe allargarsi il famoso imbuto. Sta partendo la campagna "dolore misterioso", negli studi dei medici di famiglia saranno messi volantini e poster per insegnare a riconoscere il dolore neuropatico e descriverlo (come bruciante, lancinante, formicolante, freddo o folgorante). È stato creato anche un sito www.doloremisterioso.it. L´iniziativa vede impegnate la Fimmg, sindacato dei medici di famiglia, la Simmg, la società scientifica di questi professionisti, e l´associazione Cittadinanzattiva. Sponsor è la Pfizer. Cioè l´azienda farmaceutica che produce il Lyrica, nato quando un prodotto simile della stessa azienda, il Neurontin, è diventato generico (peraltro dopo aver fatto prendere al produttore una multa della Fda da circa 450 milioni di dollari per campagne di marketing scorrette e mancata pubblicazione dei dati di studi negativi). Il Lyrica è a base del principio attivo pregabalin, indicato come terapia aggiuntiva negli adulti con attacchi epilettici, nell´ansia generalizzata ed è l´unico prodotto sul mercato per il trattamento del dolore neuropatico periferico, un problema che con l´approvazione della legge su cure palliative e terapia del dolore è diventato trattabile anche dai medici di famiglia, con gli specialisti. Intanto sul sito tutti possono fare un questionario sul proprio dolore, stamparlo e portarlo ai loro dottori. Se questi prescriveranno il Lyrica lo sapremo nei prossimi mesi. Quando si conosceranno i dati delle vendite.

Avvenire 29.10.10
Il Papa: «La scienza al servizio del bene»
Davanti ai membri della Pontificia Accademia delle scienze il Pontefice ieri si è soffermato sull’eredità lasciata dai progressi e dai fallimenti del ventesimo secolo
di Matteo Liut


I l successo della scienza del ven­tunesimo secolo «dipenderà si­curamente, in grande misura, dalla capacità dello scienziato di ri­cercare la verità e di applicare le scoperte in un modo che va di pa­ri passo con la ricerca di ciò che è giusto e buono». Solo così la scien­za potrà diventare «un luogo di dia­logo, un incontro fra l’uomo e la na­tura e, potenzialmente, anche fra l’uomo e il suo Creatore». Questo l’auspicio espresso ieri mattina da Benedetto XVI che ha ricevuto in udienza i partecipanti all’Assem­blea plenaria della Pontificia Acca­demia delle scienze, dedicata al te­ma «L’eredità scientifica del vente­simo secolo». Due, secondo il Papa, gli «elemen­ti estremi» che caratterizzano la vi­sione popolare della scienza del ventesimo secolo: da una parte es­sa «è considerata da alcuni come una panacea, dimostrata dai risul­tati importanti del secolo scorso», dall’altra «ci sono quelli che temo­no la scienza e se ne allontanano a causa di certi sviluppi che fanno ri­flettere, come la costruzione e l’u­so terrificante di armi nucleari». Due volti che non definiscono la natura più autentica dell’attività scientifica, il cui compito, ha detto Ratzinger, «era e rimane una ricer­ca paziente e tuttavia appassiona­ta della verità sul cosmo, sulla na­tura e sulla costituzione dell’esse­re umano». Un cammino fatto di «molti successi e molti fallimenti» nel quale «anche i risultati provvi­sori sono un contributo reale alla scoperta della corrispondenza fra l’intelletto e le realtà naturali, su cui le generazioni successive potranno basarsi per un ulteriore sviluppo». I progressi compiuti nel ventesimo secolo, inoltre, «hanno portato a u­na consapevolezza decisamente maggiore del posto che l’uomo e questo pianeta occupano nell’uni­verso ». L’uomo ha compiuto «più progressi nello scorso secolo che in tutta la storia precedente dell’u­manità, sebbene non sempre nella conoscenza di sé e di Dio, ma di cer­to in quella dei macro e dei micro­cosmi ». La Chiesa, ha aggiunto Benedetto XVI, ha piena stima «per la costan­te ricerca scientifica» ed è grata «per lo sforzo scientifico che incoraggia e di cui beneficia». D’altra parte og­gi gli scienziati stessi «apprezzano sempre di più la necessità di esse­re aperti alla filosofia per scoprire il fondamento logico ed epistemolo­gico della loro metodologia e delle loro conclusioni». Accogliendo co­sì la convinzione della Chiesa che «l’attività scientifica benefici deci­samente della consapevolezza del­la dimensione spirituale dell’uomo e della sua ricerca di risposte defi­nitive ». Va ricordato, inoltre, che «gli scienziati non creano il mondo – ha sottolineato Ratzinger –. L’espe­rienza dello scienziato quale esse­re umano è quella di percepire una costante, una legge, un logos che e­gli non ha creato, ma che ha inve­ce osservato». Così si arriva «ad am­mettere l’esistenza di una Ragione onnipotente, che è altro da quella dell’uomo e che sostiene il mon­do ». Questo, ha notato il Papa, «è il punto di incontro fra le scienze na­turali e la religione».
Gettando uno sguardo al ventune­simo secolo Benedetto XVI ha vo­luto offrire due ulteriori spunti di riflessione. «In primo luogo – ha sottolineato –, nel momento in cui i risultati sempre più numerosi del­le scienze accrescono la nostra me­raviglia di fronte alla complessità della natura, viene sempre più per­cepita la necessità di un approccio interdisciplinare legato a una ri­flessione filosofica che porti a una sintesi». In questo nuovo secolo, i­noltre, «la conquista scientifica do­vrebbe essere sempre informata dagli imperativi di fraternità e di pa­ce, contribuendo a risolvere i gran­di problemi dell’umanità e orien­tando gli sforzi di ognuno verso l’autentico bene dell’uomo e lo svi­luppo integrale dei popoli del mon­do. L’esito positivo della scienza del ventunesimo secolo – ha concluso il Papa – dipenderà sicuramente, in grande misura, dalla capacità del­lo scienziato di ricercare la verità e di applicare le scoperte in un mo­do che va di pari passo con la ri­cerca di ciò che è giusto e buono».

giovedì 28 ottobre 2010

Repubblica 24.10.10
Ed, il compagno loda Nichi su Facebook


FIRENZE - Su facebook mette la frase che forse più lo ha emozionato della relazione di Nichi ad apertura del congresso di "Sel": «Torniamo alla bellezza delle relazioni, a quell´accogliersi tra generi, tra generazioni, la bellezza dell´incontrarsi tra il mondo vivente e quello non vivente...». Ed, il compagno di Nichi Vendola, ne fa una frase-dedica. Presente ma riservato. Nichi di lui ha parlato in qualche intervista ma qui, al congresso - camicia, jeans e scarpe da ginnastica - Ed sfugge i riflettori e i cronisti. Per lui, italo-canadese, 33 anni, un master in progettazione e una carriera di creativo, tra pubblicità e media, la privacy è un bene supremo. La storia con Vendola è consolidata da qualche anno e con un patto: quello della discrezione. Ma ora che Vendola e Sel «vanno di moda» - come ironizza lo stesso Nichi - gli tocca fare i conti con la popolarità e la curiosità mediatica. (g. c.)

l’Unità 24.10.10
Il compagno di Nichi
Ed c’è ma non si fa vedere
di Andrea Carugati


Non è la prima volta che Ed, 33enne fidanzato italocanadese di Nichi Vendola, scorta il suo compagno ad un congresso. C’era già a Chianciano, quando Nichi perse a sorpresa il congresso del Prc contro Paolo Ferrero. Andò con la mamma, pugliese trapiantata in Canada tanti anni fa, dove il ragazzo è nato e ha studiato marketing alle università di Ottawa e Montreal.
Qui a Firenze, al congresso di Sel, c’è una novità perché da poco Nichi ha parlato di lui, in un'intervista al settimanale Chi. Ha raccontato che vivono insieme da anni a Terlizzi, vicino Bari, la città natale del governatore. «Siamo una coppia morigerata e tranquilla. Ci piace ricevere amici a cena», ha spiegato. Stanno insieme dal 2004, Ed ora ha anche un ruolo nello staff del candidato: art director della sue fabbriche. È un creativo, dopo il ritorno in Italia ha preso un’altra laurea in progettazione visiva e design della comunicazione. Sta dietro le quinte, è superpresente ma nell'ombra. Quando spuntano le telecamere lui si dissolve. Ieri, riuscire a raggiungere Nichi per pranzo è stata un’impresa: telefonate, sms con le ragazze dello staff, che lo coccolano come un fratello minore. «Ed, raggiungici dove siamo scesi stamattina». Lui, capelli corti e scuri, un filo di barba, camicia bianca, jeans e sneakers grigie, è spuntato da dietro il palco. La macchina di Vendola era già arrivata, lui ha fatto per avvicinarsi, uno sguardo, una parola sussurrata, un braccio sfiorato. Poi il governatore è salito in macchina, lui no. È salito dietro l'angolo, lontano da occhi indiscreti. Un'abitudine complicata ma ormai consolidata. «L'amore che non osa definire il proprio nome», aveva detto Vendola nella sua relazione, citando Oscar Wilde, per descrivere «il dolore del silenzio di tanti omosessuali, lesbiche, trans». E aveva citato anche la gioia «quando si rompe quella barriera del silenzio». Vendola è stato tra i primi politici italiani a fare coming out. Non ha mai nascosto la sua biografia, anzi ne ha fatto un punto di forza. Anche stavolta è così: il suo privato si disvela poco a poco, senza forzature. Si protegge, anche.

Corriere della Sera 24.10.10
Eddy scatta foto in platea Il compagno del leader da Montreal a Terlizzi
Il creativo italo-canadese preferisce evitare la notorietà


FIRENZE — È venuto anche Ed, il compagno di Nichi Vendola, al congresso. Fa le foto agli ospiti importanti, Epifani, Landini, con la piccola automatica e con la reflex. Alla fine del lungo discorso di apertura, Nichi, nel retropalco, sudato e contento, cercava anche lo sguardo di Ed, che prima di cominciare gli aveva dato i suoi consigli. Eddy ha superato la trentina, ha i capelli neri corti, lo sguardo curioso e appassionato. Maglione blu, camicia bianca, jeans, sneakers. Tutta la corte degli amici e dei collaboratori di Nichi lo protegge, gli crea attorno uno schermo invisibile, e respinge le domande perché Nichi, come si è detto da solo, «va un po’ di moda», ma Ed che c’entra? Coccolato, anche, come fosse il figlioccio di tutta la prima linea della sinistra, qui risorta. «Voglio una mia foto scattata da te, foto di Eddy», gli dice Ciccio Ferrara, grande organizzatore del nuovo partito Sinistra ecologia e libertà. Lui si muove veloce, sfuggente, vuole esserci, però senza farsi riconoscere.
All’ora di pranzo Eddy e Nichi si parlano rapidi, si separano, si rivedranno.
Ha detto Vendola: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». Nichi ha confessato a Chi, il settimanale rosa che fa capo a Berlusconi, di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni, ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?». Adesso Vendola dice che quella cosa è stata un po’ estorta, che i cronisti hanno battuto il paese alla ricerca di pettegolezzi, ma è pur vero che l’operazione di farsi fotografare e intervistare sul privato da un giornale «ostile» era densa d’insidie.
Eddy qui al congresso di Sel è inserito nell’organizzazione, lui lavora nelle «Fabbriche di Nichi», che cercano di realizzare in tutta Italia interventi civici, per migliorare l’esistenza quotidiana. È quel che si dice un «creativo»: freelance graphic designer and creative consultant, si definisce, visto che è italo-canadese. Ha studiato presso la Concordia university di Montreal, alla Ottawa university e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico e ha realizzato uno spettacolo «VianDante, viaggio dal Paradiso all’Inferno, andata e ritorno».
È impaurito da una possibile notorietà, Ed, perché i passi avanti, in Italia, sulle coppie omosessuali sono stati enormi, ma non siamo ancora alla pari dignità con la famiglia tradizionale. Vendola venerdì, dal palco, ha lanciato più di un messaggio. Ha citato Oscar Wilde: «L’amore che non osa definire il suo nome». Ha parlato della condizione «atopica», di chi è «senza luogo», gay, trans, travestiti. Ha detto che «la bellezza è anche questo, rompere il silenzio, ritrovare le parole...». Vendola gioca da sempre la sua partita politica rivendicando ogni contraddizione della sua vita. Il rosario in tasca, l’orgoglio della diversità. Ma Ed? Ieri pomeriggio è andato via dal teatro Saschhall, sede del congresso, a riflettere sul peso della fama, quand’anche sia di riflesso.

Corriere della Sera 24.10.10
L’alleato del Pd? Il 60% vuole Nichi


Entrambi i partiti maggiori, Pd e Pdl, si trovano in questo momento in difficoltà. Tutti e due hanno visto, nelle ultime settimane, un calo dei consensi espressi dagli elettori nei sondaggi. Questo stato di cose è particolarmente sorprendente per il Pd, in quanto l’opposizione trae normalmente vantaggio dalla crisi che, quasi sempre, connota la maggioranza dopo qualche anno di governo.
Ciò che, secondo gli elettori, manca oggi al Pd e lo rende relativamente poco attraente per il voto è principalmente l’assenza di chiarezza sulla proposta politica, sulle alleanze ipotizzate in vista di eventuali elezioni e, in una certa misura, anche sulla leadership. Bersani, l’attuale segretario, è molto stimato dagli elettori del suo partito. Il suo livello di gradimento supera, tra i votanti per il Pd, il 90% e raggiunge uno dei livelli massimi (44%) anche considerando la popolazione nel suo complesso. È particolarmente stimato anche dagli elettori dell’Idv, sua attuale alleata, ma trova larghi consensi perfino nella base dell’Udc (44% di giudizi positivi) e di Fli (50%). Negli ultimi mesi, tuttavia, la leadership del segretario è minata dalla ascesa di popolarità di Nichi Vendola, che ha di recente ribadito di volersi presentare alle primarie del partito. Anche Vendola gode di un largo seguito tra gli elettori del Pd (78%), seppure inferiore a quello di Bersani. Ma è molto significativo che eguagli addirittura la popolarità di quest’ultimo nell’insieme dell’elettorato, con un forte incremento (3%) proprio nelle ultime settimane. Questa sovrapposizione dei consensi rende difficile dire oggi chi vincerebbe in caso di primarie. Ma nuoce in una certa misura all’immagine complessiva del partito.
A questo stato di disunità si sovrappone la questione delle alleanze. Sulla quale si registrano una molteplicità di posizioni assai differenziate e, spesso, contraddittorie. Alla richiesta «con chi sarebbe opportuno che si alleasse il Pd alle prossime elezioni politiche?», solo una quota minoritaria, pari a quasi un quinto (18%) dei votanti per il Pd propone, come suggeriscono alcuni dirigenti del partito, di correre da soli. Tutti i restanti indicano, invece, una forza politica con cui accordarsi. Una quota molto minoritaria (4%) auspica addirittura di allearsi con chiunque lo voglia. Ma più della maggioranza assoluta (60%) dei votanti per la formazione di Bersani preferisce proprio Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola. Questa opzione raccoglie più consensi di quanti (56%) ne conquisti l’ipotesi della prosecuzione dell’accordo con l’Idv di Di Pietro. Assai meno attrattiva pare, per l’elettorato del Pd, l’idea di una apertura verso il centro, alleandosi con l’Udc di Casini (la auspica il 39%) e, meno ancora, quella di un accordo con Alleanza per l’Italia di Rutelli (indicata dal 30%) o con l’Fli di Fini (suggerita dal 25% dei votanti per il Pd).
Molte di queste indicazioni di alleanza si sovrappongono tra loro, poiché gli intervistati potevano suggerire anche più di un’opzione e risultano le combinazioni più diverse e disparate. Ciononostante, dall’insieme delle risposte, si rileva come l’orientamento, esclusivo o non, verso la sinistra superi quello verso il centro (anche se quasi un terzo propone di allearsi con entrambi).
Naturalmente, è fisiologico che in un partito convivano una pluralità di opinioni, anche diverse tra loro. Ma il quadro che emerge dal complesso delle dichiarazioni dei votanti attuali per il Pd sembra talvolta mostrare la prevalenza sulla stessa coesione del partito di componenti anche fortemente contrapposte. Ciò che finisce col ledere l’immagine complessiva, allontanando molti dei numerosi elettori oggi indecisi o tentati dall’astensione. La cui conquista, come si sa, costituisce il fattore principale per vincere le elezioni.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L’obiettivo primarie. Difficile ma non impossibile la vittoria su Bersani, altro discorso è la possibilità di successo alle elezioni
Un leader ambizioso per un partito fermo al 3%


Una democrazia competitiva per funzionare bene ha bisogno che tutti i partiti rilevanti del sistema politico abbiano voglia di governare. Sembra una banalità ma ieri Vendola lo ha ricordato a suo modo alla sinistra italiana che per anni non si è veramente posta il problema di vincere le elezioni per andare al governo. Quello che ha detto il leader Sel non è una novità. E proprio su questo punto che si è consumata dopo l'esperienza negativa del governo Prodi l'ennesima scissione della sinistra italiana. E stato al congresso di Rifondazione comunista a Chianciano nei 2008 che è nato il movimento di Vendola dopo uno scontro molto aspro con la sinistra antagonista di Ferrero. A Firenze questa scelta è stata confermata con forza e rappresenta un'altra tappa di un processo storico che va avanti da più di un secolo. Passo dopo passo, scissione dopo scissione, la sinistra italiana si è progressivamente inserita a pieno titolo tra le forze di governo del Paese. A questo punto ne restano fuori Rifondazione Comunisti ltaliani, e le formazioni della sinistra più radicale.
Posto che l'obiettivo è quello di "vincere bene" si tratta di vedere come raggiungerlo. La ricetta di Vendola è coerente con la strategia di fondo. Servono alleanze, le più larghe possibili. Da questo punto di vista il leader Sel è l'erede di Prodi. La sua proposta in pratica è quella di una Unione di tutte quelle formazioni "orientate al governo" che in questo momento stanno all'opposizione. Quindi tutti dentro tranne chi ‑ come la Federazione della sinistra ‑ si è per ora dichiarata fuori. Con quale programma? Basta come denominatore il comune desiderio di mettere fine al berlusconismo? In che modo la sinistra moderna di Vendola si può sposare con il moderatismo di centro di Casini? Non si sa. Ma il programma è una cosa e la leadership un'altra. Fino ad oggi non si era mai visto a sinistra un leader con la personalità di Vendola. Un mix di linguaggio, caratteristiche personali, capacità  di coniugare valori di sinistra e pragmatismo politico. Vendola ha tutte le caratteristiche del grande leader tranne una: il suo è un piccolo partito.
Nelle elezioni europee del 2009 Sel non è arrivata ad un milione di voti, il 3,1%. Se raffrontato ai 1.124.428 voti presi nelle politiche del 2008 dalla Sinistra arcobaleno (Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi) è un buon risultato ma si tratta comunque di una cifra modesta. Più o meno la stessa percentuale è stata ottenuta nelle regionali di questo anno. Ma in questo caso facendo il confronto sulle tredici regioni in cui si è votato anche alle europee si vede ci alla stessa percentuale di voti fl( corrisponde lo stesso numero elettori (830.636 contro 679.084 Solo in Puglia Sel ha fatto meglio nel 2010 rispetto al 2009. ma anche in questa regione dove Vendola  gode di grande visibilità il suo partito non ha superato il 10% dei voti. Né i sondaggi più recenti ci dicono che le cose sono cambiate te di molto a livello nazionale. I comportamenti elettorali hanno la loro vischiosità.
Sel è ancora il piccolo partito di un grande leader. E questo spiega il resto della strategia di Vendola. Più del partito contano le primarie SeI è un "partito a termine", destinato a confluire in un'altra formazione. Vendola lo ha detto chiaramente a Firenze. La prima tappa di questo processo saranno le primarie del centrosinistra poi la designazione del candidato premier. Per Vendola sono una necessità e una grande opportunità. Nello stato di disorientamento in cui si trova oggi il popolo di centrosinistra tutto è possibile. Anche che si ripeta l'esito delle primarie pugliesi con Bersani al posto di Boccia. E difficile ma non impossibile, soprattutto se in corsa ci sarà più di un candidato Pd. In ogni caso per Vendoia rappresentano un grande palcoscenico e un trampolino per costruire la sua leadership a livello nazionale. Comunque vadano a finire, per lui saranno una vittoria. Che con lui come candidato premier possa vincere il centrosinistra è tutta un'altra storia.

Il Sole 24 Ore 24.10.10
L'agenda economica. L'obiettivo di guardare oltre la fabbrica ai listini di Borsa
Lavoro ma anche finanza Il «salto» tra Nichi e Fausto
La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager
di Lina Palmerini


La ricetta. Introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e d'affari, freno alle stock option dei manager


Lavoro e finanza: un luogo tradizionale e uno inedito per la sinistra ma comunque il terreno dove Nichi Vendola traccia la sua rotta alternativa. E proprio su queste due strade, dove i cambiamenti sono stati più forti e gli eventi imprevedibili, che si consuma anche il salto generazionale tra Nichi e Fausto.
C'era una volta Fausto Bertinotti, leader carismatico di Rlfondazione comunista e presidente della Camera, che riceveva nel suo studio a Montecitorio Sergio Marchionne. E sempre in quei giorni di quegli anni, si sentì anche dire dallo stesso: «Sì, stimo Marchionne perché una delle prime cose che ha detto è che il valore di un manager non si misura dalla capacità di licenziare ma nel difendere la compagine lavorativa». E, in effetti, una delle cose che l'ad di Fiat non metteva in discussione all'epoca era la chiusura degli stabilimenti in Italia. Era il 2007, sono passati poco più di tre anni, un soffio nella vita di chiunque, un'era geologica per l'economia e la politica.
Oggi la sinistra di Nichi Vendola riparte ancora dalla Fiat. Ancora da Marchionne che nel frattempo ha chiuso Termini Imerese e ha ingaggiato un braccio di ferro con la Fiom sul contratto. «Melfi e Pomigliano diventano cartelli stradali che segnano la via per capovolgere la destra in Italia. Marchionne ‑ diceva Vendola nel suo intervento di venerdì ‑ ha un'idea di modernità regressiva nel sociale». Un attacco perfetto per delineare la nuova rotta della sinistra che si fonda e si fonde con il lavoro. Sono due i pilastri della proposta di Sinistra e libertà: superare la legge 30 quella sulla flessibilità e limitare drasticamente il ricorso ai contratti a tempo rendendo davvero normale la pratica dell'assunzione indeterminata. Dunque, la norma prima ancora che i costi.
Un approccio che certo scavalca il Pd e anzi separa le due strategie. Quella di Pierluigi Bersani che intende colpire la convenienza economica dei contratti flessibili ‑ parificandone il costo a quelli stabili ‑ mentre quella di Vendola somma via legislativa.e svantaggio economico per marginalizzare la precarietà dal mercato. Questo è l'approdo ma l'avvio è quella che Vendola ha chiamato «la bellissima piazza della Fiom». E dunque la battaglia della Cgil contro la Fiat a difesa dei diritti e del contratto nazionale. E la pressione sul sindacato per farlo tornare al suo ruolo antico del conflitto diversamente da Cisl e Uil «sussunto a parastato», come li ha definiti Vendola.
Ma la fabbrica non è più l'unico luogo della sinistra. E qui sta ancora H salto generazionale tra Bertinotti e Vendola. Oggi la sinistra guarda oltre i cancelli, guarda alla Borsa, ai listini. Non solo contratti e sciopero ma pure hedge fund e short selling entrano nel lessico. E qui l'agenda di Nichi parte dall'introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie per passare a una nuova «separazione tra banche di risparmio e banche di affari» e poi tornare a «limitare stock option per manager» e, infine, chiedere di «frenare hedge fund e i credit default swap» e vietare lo short selling.
Il lavoro è il "cuore", la finanza è il "nuovo luogo" ma il fìsco è il cervello, la razionalità che deve portare a una nuova distribuzione della ricchezza contro un «capitalismo predatore», come si legge nel Manifesto di Sinistra e Libertà. E sulle tasse si ricompatta il mondo di Nichi con quello del Pd. Il fisco è da sempre la koinè ‑ come direbbe Vendola del centro‑sinistra tant'è che qui le distanze quasi si annullanno. E infatti oltre la proposta di una tobin tax, c'è l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie ad avvicinarli: entrambi vogliono aumentarla dal 12,5 al 20% per alleggerire l'Irpef a partire dai ceti più bassi. Una tassa che, nelle idee di Alfonso Gianni, responsabile economico di Sel e tra gli estensori del Manifesto, dovrebbe colpire anche i Bot dando però una franchigia al piccolo risparmio. Ma già una volta, nel 2006, questo fu l'inciampo dell'Unione.

SUI GIORNALI DI GIOVEDI 29 OTTOBRE:

l’Unità 28.10.10
Poca sinistra o poco centro?
Il sondaggio di Ballarò scuote il Pd
Rilevazione Ipsos: Partito democratico al 24%. Franceschini: «Colpa delle divisioni». I veltroniani all’attacco
di Maria Zegarelli


In un clima da pre-vacanza lunga, causa paralisi del varo delle leggi per mancanza di fondi, a Montecitorio il tema del giorno tra i democratici è quel sondaggio dell’Ipsos illustrato martedì sera a Ballarò che blocca il Pd al 24,2%, il Pdl al 29%, Sel di Vendola poco sopra il 6% ma comunque avanti all’Udc che quella cifra la centra in pieno e l’Idv all’8,3%. Se la maggioranza è al chiodo perché il Pd non avanza? è la domanda delle domande.
A stemperare il dato che positivo non è arriva un sondaggio Swg, a cui hanno risposto 20mila persone, che fotografa l’umore interno agli iscritti Pd dopo un anno di segreteria Bersani: i favorevoli alla nascita del partito nuovo sono il 94%, un balzo in avanti notevole rispetto all’87% di un anno fa, più che dimezzati gli sfavorevoli che sono passati dal 13% al 6%. Restano da convincere tutti coloro che oggi non saprebbero a chi dare il proprio voto in caso di elezioni.
Le reazioni al sondaggio Dario Franceschini davanti ai dati Ipsos invita alla calma, «non si possono inseguire i sondaggi tutte le settimane», anche perché, osserva Antonello Giacomelli, «al voto la gente rifletterà e credo che il Pd faccia bene a tenere questa linea». Franceschini annota che il dato, finora, ha riguardato «tre segreterie», nessuno escluso. «È un ordine di grandezza che va avanti da due anni dice -, come confermano i risultati delle europee e delle regionali e che dimostra che bisogna lavorare sodo. La base per crescere è un partito che non si divide al suo interno e lavora come una squadra». Il pensiero va al documento dei 75 di Veltroni-Gentiloni-Fioroni da cui è nata la rottura dentro Areademocratica. E infatti, il veltroniano Stefano Ceccanti prende le distanze dalla maggioranza: «La progressiva erosione è il prodotto della scelta di concentrare il dibattito sulle alleanze e la coalizione disperdendo la nostra capacità propositiva. Oggi aggiunge si sta creando un sistema simile a quello dei Ds, alleati a destra con la Margherita e a sinistra con Rifondazione e siamo a percentuali da Ds». Antonello Soro, Areadem, torna a chiedere un cambio della classe dirigente: «Il segretario deve accompagnare lo sforzo delle ultime settimane con un generoso rinnovamento». Niente a che vedere con la rottamazione che propone il sindaco di Firenze Renzi, che ieri è tornato a invitare Veltroni e D’Alema a non ripresentarsi più alle elezioni e a ripiegare sulle rispettive Fondazioni, «quelle sono tutte sciocchezze», liquida Soro, secondo il quale, però, un partito che vuole guidare una coalizione non può attestarsi al 24%. «Idee nuove e teste nuove», chiede Alessandro Maran, tra i 75, mentre Beppe Fioroni, annota un calo di 10 punti dal 2008: «Dobbiamo lavorare su quel 40% di indecisi avendo il coraggio di essere un soggetto riformatore di centrosinistra, senza essere ossessionati da quei consensi che alla nostra sinistra si frammentano e non si ampliano».
Dialogo a sinistra, si o no?
Idem Marco Follini vede nello sbilanciamento del dialogo a sinistra una delle cause del mancato balzo in avanti del Pd. «È evidente che la spinta a sinistra non fa lievitare il consenso al Pd. Non vorrei che in questi numeri si stesse scontando l’effetto Vendola». Dal Senato commenta anche Nicola Latorre: «Inviterei a fare analisi con maggiore serenità senza cercare di tirare i sondaggi a sostegno delle proprie tesi. Il Pd deve assumere come centrali le questioni che più riguardano i cittadini con una propria prospettiva per il Paese, come abbiamo iniziato a fare a Varese e come dovremo fare con maggiore forza all’Assemblea nazionale di Napoli». Michele Meta, vicino a Ignazio Marino, ritiene «opportuno, invece di puntare il dito e tirare ognuno fuori dal cassetto una ricetta infallibile, lavorare agli ingredienti per dare corpo ad una proposta riconoscibile e credibile».

Repubblica 28.10.10
Polemiche dopo il sondaggio dell´Ipsos
Bufera sul Pd al 24% il leader sdrammatizza ma Veltroni dà l’allarme
Fioroni: niente capri espiatori ma gravissimo aver perso 10 punti in 2 anni
di Giovanna Casadio


ROMA - «Sono preoccupato», dice Walter Veltroni. «Nessuno cerca capri espiatori - rincara Beppe Fioroni - ma un partito che in due anni perde il 10% dei consensi non ha precedenti». E oggi, si riuniscono Veltroni, Fioroni e Paolo Gentiloni - i promotori del Movimento dei "75"nato poco più di un mese fa per dare una scossa al Pd di Bersani che i sondaggi danno in difficoltà. Ora è la stima dell´Ipsos (diffusa in tv, a Ballarò) a gettare benzina sul fuoco delle polemiche e del dissenso interno al partito. Quel sondaggio parla di un Pd al 24,2%; dà l´Idv all´8,3% ma soprattutto fotografa l´ascesa di Nichi Vendola che con il neo-partito "Sinistra ecologia e libertà" raggiunge il 6,1, più dell´Udc (al 6). Partono da qui i botta e risposta tra i Democratici sull´effetto Vendola, sulla strategia delle alleanze e la sinistra che, "cannibalizzata" dal voto utile di Veltroni nel 2008, oggi "cannibalizzerebbe" il Pd.
Bersani non ci sta: «Il sondaggio vero è quello al momento del voto. A me interessa mandare a casa Berlusconi, innanzitutto». Perciò la strategia delle alleanze. Ieri comunque fa il punto con il vice segretario, Enrico Letta. E vede Luciano Violante per discutere di legge elettorale e di riforme. Il segretario ha una contromossa: riuscire a cambiare il Porcellum, con un ritorno, almeno parziale, ai collegi uninominali, consentendo così al Pd di presentarsi alle urne con il Nuovo Ulivo, un "rassemblement" con Idv e Sel, che poi si alleerebbe con il centro. Dario Franceschini, il leader di Areadem e capogruppo alla Camera (che ieri ha incontrato Vendola), sdrammatizza a sua volta i sondaggi: «È un trend che dura da due anni», da quando c´era ancora Veltroni, in pratica. E invita: «Serve unità, la dimostrazione che bisogna lavorare sodo». Lavorare per andare dove? È la domanda di Marco Follini. Il moderato Follini denuncia: «Il calo dei sondaggi è legato alla deriva a sinistra. Un sondaggio non è una sentenza né una certezza; in questi numeri non vorrei però che si scontasse l´effetto Vendola. La spinta a sinistra non fa bene al Pd». E se Michele Meta insiste sull´unità per offrire «proposte credibili»,Fioroni avverte: «Vendola faccia il suo gioco, il Pd non può avere l´ossessione della sinistra. Così facendo noi siamo a un profilo di consenso elettorale che è quello degli ex Ds. Se il Pdl perde elettori, ma perdiamo anche noi, vuol dire che la proposta va modificata». Il "rottamatore" Matteo Renzi, (che ha organizzato una convention) invita Veltroni e D´Alema a smetterla con la politica e ad occuparsi delle rispettive Fondazioni.

il Riformista 28.10.10
Nel Pd (a picco) scoppia la guerra dei sondaggi
di Ettore Colombo

qui

Repubblica 28.10.10
Bertinotti a Repubblica tv: la sinistra riparta dal corteo Fiom
"Vendola vincerà le primarie il Pd non insegua Casini"
"La sinistra deve puntare sulla gente che era in piazza il 16 ottobre e non su Marchionne"
di Francesco Fasiolo


ROMA - «Vendola deve partecipare alle primarie di coalizione. E vincerle». Fausto Bertinotti risponde alle domande del videoforum di Repubblica Tv. E per il futuro punta sicuro sul Presidente della Regione Puglia: «Vendola può riorganizzare tutto il campo della sinistra, non solo una sua parte. E quindi guardare al Pd: non c´è più spazio per due forze in competizione tra di loro. Allo stesso modo, Bersani dovrebbe evitare di inseguire l´Udc».
Da dove dovrebbe ripartire la sinistra?
«La manifestazione sindacale del 16 ottobre è un segno di speranza. La Fiom sulla vicenda Pomigliano è stata coraggiosa e realistica: si è rifiutata di fare un accordo capestro ma si è affidata al referendum dei lavoratori. È una posizione che rappresenta un´idea di sindacato. Opposta a quella della Cisl, che pensa che non ci siano più margini per la negoziazione su salari e lavoro. Oggi in Italia ci sono questi due modelli, ed è giusto siano i lavoratori a scegliere di volta in volta, con i referendum. Ma la sinistra deve puntare sulla gente che era in piazza, non certo su Marchionne».
Cosa pensa delle parole dell´Ad Fiat sull´Italia?
«Quando si è alla testa di un´azienda, si è responsabili anche per la storia di questa azienda. E la Fiat ha avuto dallo Stato finanziamenti e una politica economica sistematicamente rivolta al suo benessere. Chi ha avuto certi vantaggi non può oggi essere così irrispettoso verso il Paese da cui li ha ricevuti».
E a destra, il berlusconismo è davvero in crisi?
«Quello politico sì: l´impasto di populismo e liberismo che ha caratterizzato l´egemonia di Lega e Pdl è in crisi acuta. Ma il fenomeno culturale e sociale, la rivoluzione conservatrice italiana, quella resta».

il Fatto 28.10.10
Pedofilia, il Senato inasprisce le pene


Escluso il patteggiamento e non si potrà più dire “Non sapevo fosse minore”
E sulta e ne ha buona ragione, il senatore del Pdl Antonino Caruso, che festeggia l’approvazione da parte del Senato della cosiddetta “Convenzione di Lanzarote”, che il Consiglio d’Europa adottò nel luglio 2007 e che il governo italiano, nel febbraio del 2009, con la ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, annunciò di voler fare propria. Bene, ieri la convenzione di Lanzarote, che inasprisce le pene relative agli abusi sessuali contro i minorenni, è stata approvata a Palazzo Madama, pronta per passare nuovamente all’esame di Montecitorio. Mentre dalla Procura di Milano continua a tirare vento di bufera per Silvio Berlusconi, per via di una presunta relazione sessuale con una minorenne originaria del Marocco, è una felice coincidenza che il Parlamento approvi una legge più stringente sul medesimo tema. È sempre Caruso, tra gli alfieri di questa battaglia, a spiegare: “Con la ratifica della convenzione di Lanzarote, a tre anni dalla sua emanazione, l’Italia porta a compimento un percorso che la colloca tra i paesi all’avanguardia nel contrasto agli odiosi reati di sfruttamento e abuso sessuale dei minori”.
TRA LE NOVITÀ introdotte dal nuovo testo, se ne contano due per adesso estranee alla nostra legislazione nazionale. La prima si chiama grooming e consiste nell’adescamento tramite Internet, attraverso lo scambio di file “sensibili” tra un adulto e un minore “soggiogato” (la pena prevista varia da uno a tre anni). La seconda, la spiega lo stesso senatore del Pdl, consiste nel non potersi difendere con il “non sapevo che era minorenne”.
QUESTO, secondo il legislatore, dovrebbe stroncare il mercato delle prostitute bambine che si trovano anche sui marciapiedi delle città italiane. “Il cliente della prostituta minorenne spiega il senatore Caruso commette un reato ed è quindi destinato a subìre una condanna penale, senza che egli possa invocare a propria scusante il fatto di aver ignorato l’età della prostituta”.
Per Caruso ciò rappresenta “una vera e propria ’turbativa di mercato’ perché tende a dissuadere la clientela dalla ‘domanda’ e quindi inevitabilmente ostacola ‘un’offerta’ di ‘sesso giovanissimo’, che è la nuova frontiera sempre più affollata che la criminalità offre. È pensabile conclude che i potenziali clienti davanti alla prospettiva di una pena di reclusione fino a quattro anni, ci pensino due volte a correre il rischio”. Infine si raddoppiano i termini per ottenere la prescrizione per reati di questo tipo e si cancella la possibilità di patteggiamento.

il Fatto 28.10.10
Scuola, ecco cosa propone il Pd
di Francesca Puglisi Responsabile Scuola Segreteria Nazionale del Pd


L’articolo di Marina Boscaino accusa il Pd di non avere una visione propria sulla scuola e di “tubare” con il ministro Gelmini sulla pelle di studenti e insegnanti attraverso lo scambio epistolare ospitato dal Corriere con l’ex ministro Fioroni. Invece, è con le proposte programmatiche votate dall’Assemblea nazionale del Pd che il ministro deve confrontarsi, se davvero è interessata a un dialogo per il bene della scuola pubblica. Per noi la scuola pubblica deve svolgere quel ruolo di ascensore sociale che la Costituzione le ha assegnato. Nessun bambino deve essere lasciato indietro. I divari abnormi tra nord e sud del Paese nei livelli di istruzione, si spiegano anche così: nel Mezzogiorno sono pochissimi i servizi educativi per l’infanzia ed è una rarità il tempo pieno nella scuola primaria. Per questo il Pd propone di garantire ad ogni bambino e bambina un posto nella scuola dell’Infanzia, perché solo investendo in educazione di qualità sin dalla tenera età aiuteremo davvero tutti a superare gli svantaggi di partenza e a diffondere in tutto il Paese i modelli educativi del tempo pieno e del modulo a 30 ore con le compresenze. La scuola autonoma, per assolvere pienamente il proprio mandato educativo, deve essere libera di organizzare la didattica per raggiungere l’obiettivo del successo scolastico dei ragazzi e delle ragazze. Per questo ha bisogno di una stabilità pluriennale di risorse finanziarie e professionali. Proponiamo quindi il superamento della distinzione tra organico di diritto e organico di fatto, per passare all’assegnazione a ciascuna scuola autonoma di un organico funzionale, che includa per reti di scuole anche una quota di personale stabile per le supplenze brevi e professionalità specializzate a supporto dei ragazzi con bisogni speciali. Questo sistema, che costa non molto di più della spesa attuale complessiva dello Stato (ai supplenti vengono pagate comunque la disoccupazione e le ferie non godute), comporterebbe innumerevoli vantaggi, come il superamento del precariato scolastico; la programmazione certa dei fabbisogni di insegnanti e conseguente piano di reclutamento; la piena autonomia delle scuole. Una piena realizzazione dell’autonomia necessita di un sistema di valutazione nazionale, indipendente dal ministero e responsabile verso il Parlamento, che includa la valutazione dell’intero sistema scolastico, delle scuole, dei dirigenti e dei docenti – su base volontaria in relazione all’avanzamento di carriera – come parti integranti di una valutazione complessiva dell’autonomia scolastica. La situazione drammatica dei precari della scuola richiede interventi immediati. Il precariato compromette la qualità complessiva della scuola. Occorre rendere immediatamente disponibili per l’immissione a tempo indeterminato i posti attualmente coperti con incarico annuale e riprendere in prospettiva il piano di stabilizzazioni intrapreso dal governo Prodi. Infine per tenere in ordine i conti dello Stato, invece di tagliare 8 miliardi alla scuola, occorre comprimere la spesa corrente della Pubblica amministrazione, aumentata nel corso di questi due anni di governo e svolgere una seria azione di lotta all’evasione fiscale. Tagliare i fondi all’istruzione, significa tagliare il futuro del nostro Paese.

Repubblica 28.10.10
"Iraq, chi torturò paghi" l'Onu chiede un'inchiesta
WikiLeaks, accuse ad americani e iracheni
Il commissario per i diritti umani: "Verificare le accuse formulate nei documenti". Gli Usa: "Nessun abuso"
di Alberto Flores D'Arcais


NEW YORK - Gli americani non ci stanno, il Pentagono nega che i soldati Usa abbiano consegnato prigionieri agli iracheni sapendo che sarebbero stati torturati, ma le Nazioni Unite chiedono che venga aperta un´inchiesta. «Americani ed iracheni devono prendere ogni misura necessaria per verificare le accuse formulate nei documenti», ha sostenuto martedì l´Alto Commissario per i diritti umani dell´Onu, la sudafricana Navi Pillay. Una richiesta che era già stata avanzata nei giorni scorsi da Human Right Watch ma che gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di accettare.
«Semplicemente non è vero», ha risposto il capo dell´esercito generale George Casey (che ha guidato le truppe Usa in Iraq dal 2004 al 2007), «la nostra politica è chiara: se i soldati americani vengono a conoscenza di torture inflitte ai prigionieri devono fermarle e fare rapporto al comando Usa e anche a quello iracheno». Per quanto riguarda la vittime civili il portavoce del Pentagono, colonnello Dave Lapan è altrettanto categorico: «Nei documenti di WikiLeaks non ci sono novità, nel conteggio delle vittime civili noi abbiamo usato gli stessi "files", ma nel corso degli anni è stato impossibile arrivare ad una cifra esatta».
La linea ufficiale è negare, ribaltare l´accusa contro WikiLeaks già esposta dal Segretario di Stato Hillary Clinton ("la pubblicazione mette in pericolo di vita quegli iracheni che combattono al nostro fianco") anche perché i militari americani temono la pubblicazione di nuovi "files" ("abbiamo motivi per credere che lo faranno", ha detto Lapan) e soprattutto che i documenti possano essere usati per portare in tribunale soldati, contractors o funzionari Usa. Che è proprio quello che la commissaria dell´Onu vorrebbe: «Vanno portati di fronte alla giustizia tutti coloro che si sono resi responsabili di omicidi illegali, esecuzioni sommarie, torture e altri gravi attentati ai diritti umani».
In un´America che si appresta ad andare alle urne per le elezioni di Midterm, le vicende dei documenti di WikiLeaks passano in secondo piano rispetto alla campagna elettorale. Se ne discute molto nei blog e e nei forum online di tendenza "liberal", meno sui media ufficiali. Quelli conservatori mettono l´accento sui documenti che riguardano l´Iran (dai "files" risulta che l´appoggio finanziario e logistico, compresi armi ed esplosivi da parte del regime degli ayatollah è più consistente di quanto si sapesse) o il fatto che siano stati trovati laboratori per armi di distruzione di massa (sia pure vecchi). E c´è chi (sulla tv Fox) chiede addirittura che il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, venga trattato alla stregua dei terroristi, che venga arrestato e portato nella prigione di Guantanamo.

Repubblica 28.10.10
Il caso Wikileaks tra etica e diritto
di Antonio Cassese


Le rivelazioni di Wikileaks circa le atrocità (torture, esecuzioni sommarie, stupri) commesse da militari iracheni contro insorti iracheni e civili, nonché casi singoli di tortura di iracheni da parte di militari statunitensi o britannici, mostrano da una parte la debolezza del diritto e, dall´altra, la forza dell´etica e dell´opinione pubblica nelle relazioni internazionali.
Cosa prevede il diritto? Quelle atrocità, singole o su larga scala, sono crimini di guerra, perché commesse nel corso di un conflitto armato e legate a quel conflitto. Gli iracheni avevano dunque l´obbligo di perseguire e punire i perpetratori iracheni; gli americani e gli inglesi dovevano fare altrettanto con i propri militari. In più, gli americani, che erano al corrente dei crimini commessi dalle truppe irachene, non dovevano stare a guardare. Dovevano esigere dai comandi iracheni la punizione dei colpevoli e, in caso di risposta negativa, fare passi ufficiali energici presso il governo di Baghdad. Ciò è richiesto dall´Articolo 1 delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, in virtù del quale ogni Stato contraente ha l´obbligo e il diritto di rispettare e far rispettare il diritto internazionale umanitario, e cioè di esigere tra l´altro la tutela dei civili, nonché la punizione dei crimini di guerra, da parte dello Stato cui appartengono i perpetratori. Gli Usa avevano dunque il diritto e l´obbligo di chiedere agli iracheni di punire i colpevoli. E dovevano anche informare il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Oltre a ciò, tutti e tre gli Stati in questione dovevano rendere pubblici i rapporti concernenti quelle atrocità nonché gli eventuali procedimenti penali instaurati.
Cosa è successo invece? Tutto è stato tenuto segreto, gli americani hanno fatto finta di non vedere, e gli obblighi giuridici esistenti sono rimasti lettera morta, per mancanza di efficaci meccanismi internazionali di garanzia.
Per fortuna è subentrata l´etica. Un giovane militare americano, probabilmente spinto da un impulso di ribellione e rischiando la galera, ha fatto avere circa 400.000 rapporti militari segreti a Wikileaks, che li ha resi pubblici. Indubbiamente questo è un modo inusitato e irrituale di far conoscere crimini. Ma è un modo che può essere giustificato moralmente, quando i vertici militari colposamente tengono celati quei crimini, e purché vengano adottate le dovute garanzie per proteggere i nomi degli informatori.
Ora l´Alto Commissario dell´Onu per i diritti umani ha formalmente chiesto a Stati Uniti e Iraq di aprire inchieste rigorose. L´Alto Commissario è un organo internazionale che non dispone di poliziotti, eserciti o giudici, ma ha il compito di far valere istanze morali, quando vengono commesse violazioni dei diritti umani così gravi da ledere valori fondamentali della comunità internazionale.
Accanto all´etica si sta muovendo la politica. Il vice primo ministro britannico, Nick Clegg, ha ordinato un´inchiesta per accertare le colpe dei militari britannici, implicitamente esortando gli Stati Uniti a fare altrettanto. Non sarebbe opportuno che anche il Governo italiano e tutta l´Unione europea sostenessero la richiesta dell´Alto Commissario dell´Onu e facessero sentire la propria voce agli americani e agli iracheni?
Sarebbe anche necessario che l´opinione pubblica si rendesse conto che ancora una volta le colpe maggiori non ricadono sulla "bassa forza", sui soldati o caporali che commettevano gli abusi. Responsabili sono soprattutto i comandanti che ordinavano o consentivano quegli abusi. Nel caso poi delle atrocità commesse dagli iracheni, i soldati statunitensi le hanno sempre riferite dettagliatamente ai loro capi. Ma sono questi che hanno voluto ignorarle. Il problema dunque non è giudiziario (processare e punire i leader militari, cosa poco realistica nel mondo attuale) ma politico: introdurre nella condotta della guerra moderna principi etico-politici inderogabili. Problema, come si vede, di assai ardua soluzione. Resta dunque disponibile un´unica sanzione: l´opinione pubblica internazionale, che ha la forza di stigmatizzare i governi ed imporre loro che assumano le proprie responsabilità.

Repubblica 28.10.10
I soldi della mafia riciclati su un conto dello Ior
Inchiesta a Catania: un sacerdote nipote del boss "ha ripulito" 250mila euro
di Carlo Bonini


Il bonifico parla di "beneficenza" ma Bankitalia segnala subito l´operazione sospetta

ROMA - Un conto dello Ior, un capo bastone mafioso, i suoi soldi, e il suo giovane nipote, un sacerdote, che l´accusa vuole si adoperi per ripulire lungo le vie del Signore 250mila euro truffati alla collettività, dissimulandone il cattivo odore e i beneficiari. Se era necessaria anche una sola prova, sintomatica dell´opacità e della trascuratezza con cui sono stati gestiti nel tempo i conti della banca Vaticana, e dunque di quale potenziale verminaio possano nascondere migliaia di operazioni che, quantomeno fino al 2007 (anno di entrata in vigore delle nuove norme antiriciclaggio), hanno consentito, a chi su quei conti aveva delega, di muovere contante sulla piazza finanziaria italiana ed estera nell´anonimato e a beneficio di Dio sa chi, ebbene quella prova è arrivata.
È una "piccola storia", un brandello di "verità", documentata da un´indagine della procura distrettuale antimafia di Catania, per la quale, ieri, sono stati sequestrati beni per 5 milioni di euro e risultano indagati in tre. Un sacerdote, suo padre, lo zio mafioso. Il primo per riciclaggio, gli altri due per truffa aggravata, falso, evasione fiscale. Ed è una storia che, per quanto interpelli la responsabilità penale dei singoli, conferma l´intuizione di "sistema" dell´inchiesta per riciclaggio che la procura di Roma sta conducendo sui rapporti tra Ior e istituti di credito italiani e sulla natura delle loro operazioni.
Un´inchiesta in cui questa vicenda catanese aveva trovato una prima generica "discovery" e che ha messo a rumore le stanze vaticane e il torrione di Niccolò V, dove hanno i loro uffici il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e il suo direttore generale Paolo Cipriani, indagati a Roma per «omessa osservanza delle norme antiriciclaggio» (reato per il quale sono stati sequestrati 23 milioni di euro su un conto della Banca Vaticana presso il Credito Artigiano).
Ma torniamo a Catania. E al 2006, quando i protagonisti di questa storia - il sacerdote, suo padre e lo zio - entrano nel cono di attenzione prima dell´Uif (Unità di intelligence finanziaria) di Bankitalia, quindi della procura distrettuale Antimafia che ne raccoglie una segnalazione di operazione sospetta, e infine della Guardia di Finanza, delegata all´indagine. I tre hanno un nome e una storia. Vincenzo Bonaccorsi, 59 anni, è uomo del "clan" siracusano dei "Nardo". Nel luglio del 2000, è stato condannato per associazione mafiosa e, due anni dopo, con la conferma definitiva della sentenza, viene sottoposto a misure di prevenzione che dovrebbero annullarne la capacità patrimoniale. Dovrebbero. Perché Vincenzo ha un fratello, Antonino, con cui condivide proprietà fondiarie e interessi. Ma, soprattutto, ha un nipote: "padre" Orazio, 35 anni, che di Antonino è il figlio e studia a Roma all´Università Gregoriana. Ebbene, nel 2006, Vincenzo e Antonino combinano una truffa ai danni della Regione Sicilia. Un finanziamento di 600mila euro, grattati dai Fondi strutturali europei, per la realizzazione di «un allevamento di trote» e di «una pesca sportiva» che, naturalmente, non hanno visto neppure la posa di un mattone. Il 3 gennaio 2006, una prima tranche di quel finanziamento, 300mila euro, viene accreditata dalla Regione sul conto 1511 della filiale di Catania della Banca Popolare di Novara, intestato ad Antonino Bonaccorsi. Quindici giorni dopo, da quel conto, 250mila euro vengono bonificati alla filiale numero 15 della Bnl di Roma, dove "padre Orazio" ha un conto personale, il 12138. Nella causale del bonifico, si legge «beneficenza». Bankitalia non deve credere troppo alle opere di bene di Antonino. Segnala l´operazione come sospetta alla procura e per "padre" Orazio cominciano i guai. Il sacerdote trasforma infatti una parte di quei 250mila euro di "carità cristiana" in un assegno Bnl girato a se stesso di 245mila euro (ritagliando per sé, e Dio solo sa perché visto che si parla di "beneficenza", un obolo di 5mila). Quindi, con quell´assegno in mano entra nell´allora "Banca di Roma", dove lo Ior ha uno dei suoi conti («il 2838150») e su cui ha la delega ad operare. E lo versa, ribadendone la causale: "beneficenza". Il gioco è fatto. Quel denaro, ora che è nelle casse dello Ior, non ha più né un padre, né un figlio. «Tutto può essere confuso», per dirla con le parole del procuratore di Catania Vincenzo D´Agata. E Antonino può tornare in scena.
La Finanza accerta infatti che, grazie ai codici di "home banking" del conto Ior che ha avuto dal figlio Orazio, tra febbraio e ottobre 2006, dei 245mila euro arrivati, Antonino ne fa ripartire 225 (la differenza di 20mila che rimane sul conto è forse davvero l´unica "opera di beneficenza" in questa storia) con «nove bonifici» telematici verso il suo conto della filiale di Catania della banca Popolare di Novara, casella di partenza di questo di giro dell´oca. Qualche tempo dopo, Vincenzo, il mafioso, passa allo sportello e preleva quel denaro in contanti. È la sua «stecca» nella truffa. Non sa che il Diavolo, questa volta, ci ha messo la coda.

Repubblica 28.10.10
L´eccezione francese nell´europa in crisi
di Marc Lazar


In questi giorni, mentre si conclude in Francia la contestazione della riforma delle pensioni, la maggior parte dei media internazionali che hanno dedicato spazio alla questione ne parlano come di un fenomeno unico. A sentir loro, la Francia è più che mai il Paese della protesta, degli scioperi, delle manifestazioni e delle esplosioni di violenza. L´eccezione francese fa sorridere o preoccupa - rischiando peraltro di far dimenticare che la Francia è un Paese molto aperto alla globalizzazione, al primo posto in Europa e al terzo nel mondo - dopo gli Stati Uniti e la Cina - tra i Paesi che accolgono investimenti esteri diretti.
È vero che la forte e prolungata mobilitazione sindacale e il vasto sostegno dell´opinione pubblica attestano un´innegabile originalità francese. Se realizzare una riforma delle pensioni è sempre rischioso, lo è in misura ancora maggiore in Francia. I motivi sono innanzitutto congiunturali: il presidente Sarkozy sta battendo vari record di impopolarità, e il suo ministro incaricato della riforma è stato screditato, a torto o a ragione, dalle rivelazioni sui suoi stretti legami con la detentrice di uno dei maggiori patrimoni di Francia. Inoltre, per tradizione storica, i francesi sono particolarmente sensibili ai problemi dell´uguaglianza e della giustizia sociale, con la conseguente tendenza alla contrapposizione tra i «deboli» e i «ricchi e potenti»: un antagonismo ancora accentuato da taluni atteggiamenti e frequentazioni di Nicolas Sarkozy. Infine, in Francia il valore del lavoro, pur rimanendo fondamentale, è soggetto a notevoli mutamenti, in ragione del forte tasso di disoccupazione, dei cambiamenti nell´organizzazione del lavoro e di una crescente precarizzazione. A ciò si aggiunge il fatto che la sinistra ha ridotto gli orari di lavoro a vantaggio del tempo libero; e i francesi attendono con impazienza il momento di andare in pensione. Perciò, guai a voler intaccare quello che qui è percepito come un Eldorado.
Tuttavia, l´innegabile singolarità della Francia non deve farci dimenticare che la crisi sociale in atto riveste altresì una dimensione europea. In effetti, l´impatto della riforma delle pensioni è particolarmente negativo in un momento come questo, a soli due anni dall´esplosione della più grave crisi finanziaria ed economica che il mondo capitalista abbia conosciuto dal 1929. La «grande recessione», come la definiscono gli americani, ha indotto un grandissimo numero di europei a vedere in una luce diversa l´economia di mercato, e ha aperto una vera e propria crisi morale, aggravando la percezione sempre più diffusa di un declino del Vecchio Continente a fronte delle potenze emergenti. Inoltre, questa crisi viene ad aggiungersi alla crescente diffidenza nei confronti dell´Unione Europea, dei governi, delle élite, delle istituzioni politiche e dei partiti. Nel loro insieme, questi ingredienti costituiscono un cocktail esplosivo, di cui per ora avvertiamo solo gli effetti iniziali. Di fatto, il basso livello di crescita e quello decrescente della capacità di redistribuzione, il super-indebitamento e l´esplosione della spesa sociale e sanitaria inducono gli esecutivi europei a instaurare regimi drastici di austerità e di rigore. Dopo i Paesi governati dalle sinistra quali la Grecia, la Spagna e il Portogallo, è la volta di quelli con governi di destra come la Francia e il Regno Unito. Quasi ovunque si annunciano tagli massicci dei posti di lavoro pubblici, della spesa sociale, degli investimenti nei settori strategici di pertinenza statale, e in particolare nel welfare.
Quest´ultimo aspetto è decisivo. Le politiche sociali, attuate nel corso degli anni secondo le procedure e i ritmi specifici di ciascun Paese, costituivano un elemento distintivo dell´identità europea, in contrapposizione con gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina. Ora, in quest´ultimo trentennio la tutela sociale è stata fortemente ridimensionata. I governi, ognuno a suo modo, hanno promesso «lacrime e sangue»; e gli europei hanno accettato più o meno facilmente questi sacrifici, anche nella misura in cui contavano di poter migliorare la propria situazione economica e sociale. Ora però, dopo la crisi del 2008, la loro sensibilità è mutata. A fronte della richiesta di nuovi sacrifici, devono constatare che lo Stato è intervenuto massicciamente per salvare il sistema bancario e finanziario, mentre le banche non hanno dato prova di aver recepito gli insegnamenti della crisi, e le disuguaglianze sociali aumentano con ritmo sempre più accelerato.
Questi contrasti spiegano in parte il successo delle mobilitazioni sociali un po´ dovunque, l´inasprimento della conflittualità sociale, la radicalizzazione politica a destra come a sinistra, e l´avanzata dei partiti populisti. I quali ultimi, sfruttando le paure degli europei e la loro aspirazione a sentirsi protetti, aggiungono ora ai loro temi preferiti - lotta contro l´immigrazione e il fondamentalismo islamico, critica delle élite, ordine e sicurezza, rivendicazione identitaria di un territorio o di una nazione - anche la difesa del welfare, dal quale però secondo loro gli stranieri andrebbero rigorosamente esclusi.
Davanti a sfide di così vasta portata, le responsabilità che pesano sui leader europei sono gravose. Come riformare il welfare senza inasprire ulteriormente le disuguaglianze e i rischi di disgregazione sociale? Nel momento in cui la deregulation mostra i suoi limiti, quale dev´essere esattamente il ruolo dello Stato-nazione, ora che i suoi margini d´azione sono ridotti, e quale il ruolo dell´Unione Europea? Quale la strategia, l´etica, la «narrativa» da ricreare per scongiurare il rischio che gli europei affondino nella disperazione? Al di là di alcune rare eccezioni, peraltro incerte, come quelle di David Cameron nel Regno Unito con la sua «big society», o del progetto «care» della socialista francese Martine Aubry, per il momento le risposte dei leader politici si fanno attendere. Spesso tentati da un illusorio ripiegamento protettivo sulla nazione o sul localismo, non riescono a dar vita a una governance europea; e rischiano così di peggiorare non solo le condizioni dell´economia, ma anche quelle della politica, aggravando l´immenso disagio dell´opinione pubblica.

Repubblica 28.10.10
Arte povera
Il profondo dono dei musei
di Conchita Sonnino


Tagli dei fondi pubblici e vincoli alla spesa. E lo Stato che si defila per lasciare spazio ai mercanti Così in tutta Italia muoiono i musei destinati alle opere contemporanee

Dal Madre di Napoli al Mambo di Bologna: la scure si abbatte sulle esposizioni di arte contemporanea In alcuni casi i tagli dimezzano i fondi a disposizione. Mentre le norme in vigore dal 2011 penalizzeranno anche le istituzioni virtuose. Mostrando tutti i limiti del mecenatismo pubblico
La contrazione dei fondi arriva in un momento di trend positivo: un milione di visitatori annui
Bonito Oliva: "Non mi pare strano che si vogliano colpire i luoghi in cui si crea un gusto critico"

Un respiro sempre più pesante, che ora minaccia di diventare paralisi. Mentre le forbici di Stato lavorano ai fianchi piccole e grandi istituzioni culturali radicate sul territorio, quello che sembra profilarsi per l´arte contemporanea in Italia non è solo uno tsunami. Ma qualcosa che somiglia al suo più perfido contrappasso: la mancanza di futuro per l´arte in movimento, l´agonia inflitta a un linguaggio in perenne evoluzione, il C´era una volta applicato al racconto futuribile per eccellenza.
Gli ultimi vincoli imposti dal patto di stabilità hanno vibrato il colpo decisivo. Sui musei pubblici d´arte contemporanea - 26 gli italiani più rinomati, con un milione di visitatori in un anno e un trend generalmente in crescita - si è abbattuta la scure dei tagli, dal 30 al 50 per cento, inflitti già a monte agli enti pubblici da cui dipendono, Comuni, Regioni e Province. In più, ecco la norma della finanziaria che da gennaio impone a tutti i centri espositivi di non spendere, per mostre ed eventi culturali, più del 20 per cento di quanto si sia destinato a tali attività nell´anno precedente.
Al museo Mambo di Bologna, di proprietà del Comune, la falce rischia di spezzare molte attività in corso. Lo racconta con tono dolente Gianfranco Maraniello direttore di una realtà che ormai unisce cinque sedi, un dialogo intessuto con le scuole, il territorio perfino con alcuni ospedali. La falce manderà in tilt un pezzo di vita del museo. «Siamo passati da un milione e 200 mila euro di fondi a un budget di 471mila euro. Il paradosso è che pur essendo riusciti a recuperare un milione e 450 mila euro da sponsor e risorse esterne, non riusciamo a spenderli - spiega Maraniello - perché l´ormai nota norma della finanziaria ci impone di non destinare alle mostre e all´offerta culturale più del 20 per cento di ciò che è stato previsto nell´anno precedente. È questa falce indiscriminata che ammazza i musei, e che colpisce persino i processi virtuosi, la capacità di reperire altrove i fondi utili a fare innovazione, a costruire la qualità».
Senza dire che va a farsi benedire la retorica sulla maggiore efficacia del modello misto pubblico-privato. Aggiunge Maraniello: «Sono cresciuto con questa "canzone", e ora arriva la beffa dell´agonia istituzionale».
È con l´acqua alla gola anche il Madre di Napoli, già simbolo del rinascimento bassoliniano, anche per questo - oltre che per una controversa rendicontazione - oggi in cima al passato da abbattere, o da rigenerare, da parte della nuova giunta regionale di centrodestra. «Abbiamo subìto il taglio totale dei fondi - spiega il suo direttore, Eduardo Cicelyn - Ci hanno sottratto 9 milioni e 400mila euro di finanziamenti europei. E allo stato non sappiamo nulla dei fondi gestionali in arrivo dalla Regione che non ci paga la rendicontazione del 2009 e del 2010. Diciamo che se la crisi riguarda tutti, noi del sud siamo le prime cavie a morire». Il Madre sta pagando a rate un maxidebito di energia elettrica (160mila euro) e attende ancora di saldare i conti del telefono. Una lunga querelle oppone ormai Cicelyn all´assessore Caterina Miraglia, lo scultore Mimmo Paladino ha lasciato un drappo nero su una delle sue opere più famose per protestare contro l´indifferenza in cui va in coma l´arte contemporanea.
Alla battaglia per non morire, partecipa da mesi l´Amaci, l´associazione che riunisce i 26 centri musei di arte contemporanea italiani. La presidente Gabriella Belli non usa toni concilianti. «La ricaduta drammatica di questa erosione di risorse sui musei non riguarda solo la produzione di mostre ed eventi culturali di qualità, ma anche la crescita e il radicamento di una vera e propria economia che aveva costruito rapporti solidi non solo con artisti e designer, ma con artigiani, tecnici, case editrici». Ogni giorni un sos a Milano come a Torino, a Roma come a Bologna. «Si colpisce in questo modo la credibilità di istituzioni che hanno lavorato per anni con musei stranieri e che oggi rischiano di non poter più fare programmazione»
Perché accade ora? Per dirla con l´analisi di un autorevole e ironico esperto, Achille Bonito Oliva, «questo nuovo clima non è dovuto soltanto alla crisi che imperversa in Europa e nel mondo. L´arte contemporanea, in particolare, è un linguaggio che provoca domande e talvolta sgomento. Ed è quanto di più lontano si possa immaginare, culturalmente prima che ideologicamente, dagli obiettivi di formazione di un centrodestra che ha bisogno di promuovere un gusto consolatorio, narcotizzato, soporifero». S´infiamma, Bonito Oliva. «Viviamo in un´epoca di peronismo mediatico, di monopolio dei media - avverte il padre di "Contemporanea" - e figuriamoci se a una tale categoria di conservatori fa comodo avere un luogo dove costruire un gusto collettivo che sia critico, maturo. Ma i musei perché nascono, in fondo? Per essere la palestra in cui viene sollecitato continuamente quel muscolo che rischia l´atrofizzazione: il cervello». E poi, sostiene ancora: «Chi l´ha detto che la crisi sia necessariamente portatrice di morte per l´arte? Guardiamo all´esempio di Roosevelt, il presidente americano che, mentre il Paese era travolto dagli effetti della grande depressione del 1929, investì sull´arte, fece nascere la fotografia documentaristica, e ci ha lasciato la testimonianza di un tempo e di un clima durissimo, grazie a quell´intuizione».
I tagli come bavaglio alle inquietudini, museruola alle domande - non solo pop, non più smaccatamente edoniste e spettacolari, come negli anni Ottanta - che scavano nelle nebbie del reale. E il paradosso, racconta Cristian Valsecchi, segretario generale di Amaci, è che «questi tagli affossano un panorama di produzione culturale proprio quando tutti i trend segnalano una netta crescita di visitatori nei musei pubblici, di interesse per gli eventi dedicati al settore. L´ultima Giornata nazionale dedicata all´arte contemporanea, del 9 ottobre scorso, ha segnato un boom di presenze». Precisa Valsecchi: «Si è passati dai 170 aderenti dell´edizione del 2005, tra gallerie, centri, musei, ai 110 aderenti di qualche giorno fa. Con un coinvolgimento di circa 170mila visitatori in una giornata». Valsecchi ha un´immagine per sintetizzare la situazione italiana. «Se si crede veramente al "giacimento culturale", il giacimento lo si sfrutta, con gli investimenti. Esattamente come si fa con il petrolio. Nei Paesi in cui non si coltiva l´ipocrisia o la parola insignificante, come in Francia, il Beaubourg riceve risorse per 75 milioni. Che, in fondo, fanno il doppio di quanto ottengano, tutti insieme, i 26 musei pubblici associati in Amaci».
Un mercato consistente, stimato qualche anno fa da un´analisi Nomisma in 400 milioni di euro, anche quello della compravendita di opere d´arte, benché gravato da una normativa fiscale penalizzante. Sempre aziende private e grandi gruppi mostrano attenzione per il contemporaneo. Mentre in Italia continuano a crescere le gallerie dedicate a questo settore: almeno un migliaio, di cui oltre cento sono officine di ricerca.
Sui tagli, fa eccezione l´accoglienza clamorosa e il boom di presenze che continua a collezionare il Maxxi, inaugurato a Roma. Eppure il suo direttore, Anna Mattirolo, non si sottrae all´allarme. «È la cosa più drammatica che possa capitare a un Paese. Non importa che ora i tagli tocchino più l´uno che l´altro. Se il sistema funziona, siamo in piedi culturalmente. Se il sistema va a rotoli, dobbiamo preoccuparci per tempo. E tutti».

Repubblica 28.10.10
Quando lo Stato abdica a favore del mercato
Marc Fumaroli, storico e saggista francese, membro dell´Académie française


Non possiamo ridurre a una semplice differenza di gusti la mostra di giocattoli giapponesi contemporanei, di gran marca e di gran prezzo, in corso al castello di Versailles, trattato come una vetrina pubblicitaria. Questa confusione di generi (scioccante per gli uni, intrigante per gli altri) è rivelatrice di una deriva di ben più ampio respiro e che travalica i confini dell´estetica, anche se l´estetica c´entra parecchio al riguardo.
Nel 1992, ne Lo Stato culturale: una religione moderna, denunciai gli inizi di questa deriva. In nome del nobile obbiettivo della democratizzazione culturale, lo Stato, non contento di vegliare sul patrimonio nazionale affidato alla sua tutela, si prendeva già allora per un mecenate d´avanguardia. E si metteva a sovvenzionare e dare ospitalità al rock, al rap, ai graffiti e ad altre importazioni della cultura di massa americana, avanguardista per definizione.
Il successo commerciale di queste irresistibili varietà, peraltro, era già pienamente assicurato dai quei potenti diffusori privati che sono le vedettes dell´arte cosiddetta "contemporanea", attraverso i loro non meno abili galleristi e le loro famigerate "Fiere".
Koons, dopo Versailles, è stato esposto nella galleria parigina Noirmont. Presto vedremo Murakami esposto nella galleria Gagosian, appena sarà inaugurata a Parigi. E non mancano i musei pubblici dedicati all´arte cosiddetta «contemporanea».
Nel 1996, ospite dell´American Academy a Roma, scoprii che questa abdicazione dello Stato (nel senso europeo) a tutto vantaggio del mercato era un fenomeno in fase avanzata anche in Italia. All´ambasciata americana venni presentato all´uomo che Romano Prodi avrebbe scelto come ministro dei Beni culturali, Walter Veltroni. Questi, molto calorosamente, mi disse: «Ah! L´autore de Lo Stato culturale! Sono d´accordissimo con lei! È l´uovo di Colombo, non abbiamo il petrolio, ma abbiamo un patrimonio culturale!». Corressi questa lettura arlecchinesca del mio pensiero in un´intervista su La Repubblica, ma Veltroni diventò comunque ministro, e inaugurò la deriva commerciale (sfilate di moda e concerti rock al museo), ma anche la confusione semantica tra patrimonio culturale e intrattenimento di massa, l´una e l´altra rimaste fino ad allora latenti nell´espressione italiana «beni culturali», all´apparenza più innocente della nostra «affari culturali», ma altrettanto esposta al rischio di sbandamenti in direzione del mercato, mobiliare o immobiliare. Non al punto, comunque, di esporre Damien Hirst a Villa Borghese…
Da allora, stando a quanto scrive Salvatore Settis nel suo saggio Italia S.p.A, L´assalto al patrimonio culturale (Einaudi, 2002-2005) e nei suoi articoli su La Repubblica, le cose in Italia non hanno fatto che peggiorare. Una legge approvata dalla coalizione di governo berlusconiana ha seriamente danneggiato il principio di inalienabilità del patrimonio nazionale italiano, pubblico o sotto la tutela dello Stato. La resistenza di Settis, e di molti altri schierati al suo fianco sulle pagine dei giornali, è quantomeno riuscita, al momento, a limitare gli effetti dello stereotipo «patrimonio culturale = giacimento culturale», un pensiero unico di cui si riempiono la bocca burocrati, organizzatori di convegni e politici di destra e di sinistra. (...)
Il problema quindi non si riassume certo in un liberale «mi piacciono» o un reazionario «non mi piacciono» Murakami o Koons sotto i soffitti di Versailles. È qualcosa che chiama in causa la nostra idea dello Stato e di chi lavora per lo Stato, la nostra concezione del patrimonio nazionale e di chi lo conserva, e la nostra filosofia dei rapporti che gli uni e gli altri devono intrattenere con il settore privato e con il mercato della cultura di massa.
Lo Stato non ha la stessa vocazione in Francia (e in Italia) e negli Stati Uniti. Settis ha citato un caso eclatante, quello del villaggio di Oraibi, che risale all´XI secolo, nella riserva degli indiani Hopi, in Arizona, che è praticamente scomparso in questi ultimi anni nell´indifferenza generale, perché non si è trovata una fondazione privata disposta a finanziare la sua trasformazione in ecomuseo. Eppure si tratta del luogo dove il grande storico dell´arte Aby Warburg aveva avuto la rivelazione dell´ultima arte dionisiaca esistente. Il sistema americano dei landmarks, abbandonato agli enti locali e all´iniziativa privata, non tiene minimamente conto del contesto storico, urbano o paesaggistico, peraltro infinitamente più rarefatto negli Stati Uniti che nella vecchia Europa. L´Inghilterra è afflitta dalle stesse carenze, o quasi. Si vantano a ragione i meriti recenti del National Trust, ma si omette di ricordare che la mano invisibile del mercato immobiliare inglese, tra il 1945 e il 1974, ha demolito senza intralci la bellezza di 1153 country houses, spesso di grande valore storico e artistico. Eppure, nessuno espone Tracey Emin alla Frick Collection o al British Museum.
In Francia e in Italia, la tutela del patrimonio culturale esiste per educare il suo proprietario collettivo mediante i capolavori. Ciascuno è libero di sbuffare e mettersi a ridere. Tante nazioni, in Europa, in America Latina e in Asia, si ispirano a questo modello, senza riuscire sempre a imitarlo. Il fatto è che nelle due «sorelle latine», malgrado le forti diversità storiche, il sentimento di identità e di appartenenza nazionale, l´attaccamento a una memoria storica e alle sue stratificazioni successive sono inconcepibili senza un riferimento visivo, tangibile e inalienabile, a un patrimonio pubblico (e privato, ma sotto tutela pubblica) che quei sentimenti incarnano permanentemente e localmente. Questo patrimonio monumentale e museale forma un tessuto connettivo dove tutto si tiene. Solo lo Stato, con la sua legislazione e il suo personale di esperti certificati e consacrati al bene comune, è in grado di preservare la coerenza, l´integrità, il senso e l´insegnamento.
Ha tutto l´interesse a farlo, essendo questi i fondamenti del legame civico e del sentimento nazionale, alla base dello Stato stesso e importanti quanto la lingua. Lo Stato tradisce se stesso e smantella se stesso se, dimenticando i suoi interessi fondamentali, comincia a vedere il patrimonio che ha il compito di conservare, di accrescere e di far apprezzare e comprendere al maggior numero di persone, nell´ottica del rendimento economico, della venalità finanziaria e dello sfruttamento a fini diversi dall´interesse civico e pubblico che deve servire.
Il denaro non ha odore né patria, ma la poesia, le arti e i ricordi sì. È più che mai necessario rammentarlo oggi. Infatti non si tratta più, come un tempo, di approfondire il sentimento spontaneo di appartenenza nazionale attraverso la poesia, le arti e il ricordo, ma di stimolarlo e coltivarlo fra i nuovi arrivati nella comunità nazionale. È il momento di far giocare allo Stato il gioco surrealista della macchina da cucire e dell´ombrello sul tavolo dell´autopsia? (...)
Perché nascondere ai cittadini il fatto che l´arte cosiddetta «contemporanea», questa immagine di marca inventata di sana pianta dal mercato finanziario internazionale, non ha più niente in comune né con tutto quello che fino ad oggi abbiamo chiamato «arte» né con gli autentici artisti viventi, ma non quotati in questa Borsa? Perché mettere sullo stesso piano un artista come François Morellet, che, invitato al Louvre, studia lo spirito del palazzo e lo abbellisce, e un Koons o un Murakami di cui ci vorrebbero far credere che il loro kitsch, trasportato a Versailles, «dialoghi» con lo sfarzo magnificente di Le Brun, Le Nôtre o Lemoyne? (...)
La chiave del malessere attuale è il conflitto di interessi velato che ha indebolito, se non proprio annullato, la distinzione classica fra Stato e mercato, fra politica e affari, fra servizio pubblico e interessi privati, fra servitori dello Stato e collaboratori di uomini d´affari. Le considerazioni di estetica, di gusto, di arretratezza e di avanguardia sono soltanto cortine di fumo per dissimulare un´offensiva in piena regola del «business dei beni culturali» (copyright di Salvatore Settis) contro quel poco di buon senso che resta nel pubblico francese e quel poco di senso dello Stato che resta nell´amministrazione e nella classe politica francesi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 28.10.10
Quella favolosa città perduta dove ebrei e arabi leggevano Balzac
di Bernardo Valli


Anticipiamo una parte dell´introduzione di Valli al romanzo di Naim Kattan che racconta gli anni in cui a Bagdad la convivenza tra anime diverse era possibile
Nel libro c´è la storia di una dolorosa rinuncia: l´autore spiega come il cuore dell´Iraq facesse parte dello spirito ebraico
In queste pagine si rivivono le atmosfere degli ultimi giorni di quella coabitazione secolare che finì nel 1951

Pubblichiamo parte della prefazione di al romanzo di Naim Kattan "Addio Babilonia" (Manni, pagg. 216, euro 16), oggi in libreria
"Addio Babilonia" è un libro magico. Fa rivivere una città scomparsa. Dopo avere letto le pagine di Naim Kattan, Bagdad non è più stata per me la Bagdad conosciuta nel 1963, anno del colpo di Stato contro il generale Kassem, ucciso dal suo ex amico Aref, che cinque anni prima, nel 1958, ubbidendo ai suoi ordini, aveva sterminato il 14 luglio la famiglia reale Hascemita e messo fine alla monarchia. Il ‘63 fu anche l´anno del massacro dei comunisti, alleati di Kassem, ad opera del partito Baath, per la prima volta al potere. Ho poi rivisto negli anni successivi Bagdad immersa in altre tragedie, quando Saddam Hussein era il rais, e guidava il paese nelle sue guerre contro l´Iran di Khomeini e contro l´America dei Bush. Ho letto Addio Babilonia soltanto dopo queste esperienze, avute in momenti cruciali della moderna storia irachena; esperienze dalle quali avevo tratto l´illusoria convinzione di conoscere quel grande paese che un tempo era la Mesopotamia. Da allora, dopo quella lettura, Bagdad, ai miei occhi, non è più stata la stessa. E´ come se Naim Kattan me ne avesse fatto conoscere l´intimità. Un´intimità nascosta negli angoli risparmiati dalle distruzioni delle varie guerre, dal cemento armato e dai monumenti del regime trionfante; trionfante grazie al petrolio e alla repressione; ma soprattutto nascosta dal paesaggio umano che si sovrapponeva a quello di un tempo. Appena scoprivo una vecchia casa, non lontano da via Rashid, o un caffé sulla riva del Tigri, mi riaffiorava nella mente la città raccontata da Naim Kattan. Con la fantasia stimolata dalle sue descrizioni, la vedevo tanto diversa, tanto più affascinante di quella in cui mi trovavo.
Pochi decenni separavano la mia Bagdad da quella di Addio Babilonia, ma per trovare le tracce di quest´ultima bisognava muoversi come un archeologo tra rovine millenarie. Proprio come a Babilonia, i cui resti giacciono sull´Eufrate, cento chilometri a Sud di Bagdad, o sono finiti nel grande museo di Berlino, sulle sponde della Sprea. Gli anni equivalevano a secoli tanto era cambiata, in cosi breve tempo, la vita nella valle del Tigri e dell´Eufrate. La ricerca di quel tempo perduto, attraverso i luoghi sopravvissuti a un´orrenda modernità e a una crudele prepotenza, era animata dagli allegri fantasmi amici di Naim Kattan: i suoi compagni scomparsi o dispersi, che immaginavo ancora, decenni dopo, assiepati nel caffé Yassine, intenti a discutere di Balzac, di Malraux, di Hemingway.
Siamo nei primissimi Anni Quaranta. Cioè sull´orlo del baratro. Anzi, già nel dramma di cui i ragazzi musulmani ed ebrei che discutevano sulle sponde del Tigri, sognando di scrivere un giorno libri di successo, non si rendevano ancora conto. Anche i giovani ebrei pensavano di scrivere i loro futuri romanzi in arabo, benché non fosse la lingua dei loro antenati, e nonostante fosse una lingua più incline al poema che alla prosa romanzesca. Quel che Naim Kattan fa rivivere sono gli ultimi anni, gli ultimi mesi, gli ultimi giorni nel Medio Oriente in cui gli ebrei vivono ancora in coabitazione secolare, anzi millenaria, con gli arabi. Gli ebrei di Bagdad rappresentavano allora circa un terzo della popolazione: ebrei cacciati dall´Occidente cristiano dell´Inquisizione mischiati agli ebrei presenti in Mesopotamia ben prima dell´arrivo dei musulmani. Sarà la tragedia europea, sarà l´Olocausto consumato nel cuore della più avanzata civiltà occidentale a contribuire alla fine di una convivenza orientale non sempre armoniosa, ricca di contrasti, ma anche di mille complicità e passioni condivise, e comunque senza i crimini estremi compiuti in Europa. Gli ultimi ebrei lasciarono Bagdad nel 1951, tre anni dopo la nascita dello Stato israeliano e della prima guerra arabo - israeliana.
Enzo Sereni, ebreo italiano caduto in mani naziste nel 1944 (e forse morto, fucilato, a Dachau), era un sionista tenace sostenitore dell´intesa tra ebrei e musulmani. Inviato dalla Palestina a Bagdad, in missione per l´Agenzia ebraica, negli Anni Trenta scrisse che in Iraq ebrei e musulmani si distinguevano soltanto perché i primi chiudevano i negozi il sabato e i secondi il venerdì. Qualche anno dopo l´attrazione esercitata da Israele, la ferma azione dei suoi dirigenti di attirare nella nuova nazione le comunità ebraiche disperse nei paesi arabi, e l´odio crescente tra ebrei musulmani in seguito alla guerra in Palestina, provocarono l´esodo degli ebrei, i cui antenati erano arrivati più di due millenni prima.
C´è un´angoscia palpabile nel libro di Naim Kattan. E´ la storia di una dolorosa, forzata rinuncia a un mondo che sembrava irrinunciabile. Egli descrive come il cuore dell´Iraq facesse parte dell´anima ebraica. Della sua anima di ebreo nato a Bagdad. Ogni anno gli studenti dell´Alleanza Israelita Universale di Bagdad venivano portati a visitare le rovine di Babilonia, dove gli insegnanti descrivevano i giardini pensili e le fontane dai cento zampilli esistenti un tempo, quando gli ebrei erano arrivati come schiavi di Nabuchodonosor. E là gli ebrei si erano poi emancipati grazie al Talmud, letto, studiato, commentato. Gli ebrei, spiegavano i professori tra le rovine di Babilonia, vivevano da venti secoli in Iraq. Avevano poi adottato l´arabo, quando con l´arrivo dell´Islam era diventato la lingua dominante. Al tempo stesso erano orgogliosi di appartenere a una tradizione tanto antica: Abramo era nato non lontano da Bagdad e l´Iraq era un luogo della memoria biblica. Jonas era di Ninive, nel Nord, e c´era anche la tomba di Ezechiele, e il profeta Daniele era passato di là.
L´arabo scritto è lo stesso per tutti. C´è chi lo chiama l´arabo classico. Ma l´arabo si parla in tanti modi, diversi da quello scritto. In Iraq i musulmani avevano il loro dialetto, e cosi i cristiani. La gente di Mossul, di Bassora, di Bagdad hanno il loro dialetto. Ma tutti si capiscono. Anche gli ebrei di Bagdad avevano un loro dialetto arabo. Imparavano l´ebraico anzitutto per motivi religiosi. I ragazzi dovevano impararlo per poter leggere il kaddish, poiché se qualcuno muore e non c´è nessuno per leggere la preghiera, il morto non è ricevuto da Dio e dal cielo. I caratteri ebraici venivano usati anche per scrivere l´arabo. Maimonide, ricorda Naim Kattan (ebreo di origine irachena che insegna l´arabo a Montreal), ha scritto i suoi libri in arabo con caratteri ebraici. Molti scrittori iracheni erano ebrei, e furono loro a creare la prima rivista letteraria, che non riguardava la comunità ma l´intero paese.

Corriere della Sera 28.10.10
Il dramma del vero in Shakespeare
di Giorgio Montefoschi


La Parola che si fa carne e vive nell’uomo è il culmine del mistero
«Per Shakespeare», dice Nadia Fusini nel primo capitolo del suo bellissimo libro dedicato a Shakespeare, intitolato Di vita si muore (Mondadori, pp. 496, 22)—e
e organizzato in cinque atti a testimoniare l’impegno drammatico che l’Autrice nello scriverlo ha speso — «il teatro ha a che fare con il miracolo dell’incarnazione». Fra tutte le idee, le ipotesi, le suggestioni che colmano le pagine della Fusini, questa mi sembra l’idea centrale, la vera idea chiave attraverso la quale orientarsi in quel fitto groviglio che è il mondo delle passioni custodite nell’anima dell’uomo, alle quali Shakespeare, non da filosofo, non da moralista, offre lo spazio dinamico dell’atto, della vita e della rappresentazione.
L’incarnazione. In un secolo che è religioso, ma non ha più certezze; un secolo «in cui si assiste alla rivelazione che i corpi celesti non sono perfetti e immutabili; in cui la nuova astronomia vede corruzione e mutamento nelle regioni più remote dei cieli», l’eroe elisabettiano non può che rivolgere lo sguardo a se stesso. Si guarda, come un Narciso che sa di non potersi ingannare, in uno specchio di superficie finché questo specchio non si rompe per un sasso che qualcuno (non lui: il messaggero del Male) alle sue spalle gli tira, e di colpo vi precipita dentro. Lì, in quell’abisso, egli scopre la passione, «trova la sua anima». E, nell’attimo in cui sprofonda, riemerge incarnato nell’«ospite sconosciuto» che ciascuno di noi nasconde in sé.
Così, Bruto, l’eroe che decide di salvare la libertà e di uccidere il tiranno, scopre l’insostenibile tensione che si crea nell’anima in quell’interim eterno — vero luogo della tragedia — che corre fra «il primo impulso che muove l’atto» e l’esecuzione dell’atto stesso, e se ne tortura. Amleto scopre e conosce la forza brutale della libido, che vede incarnata in primo luogo in sua madre e poi, quale peccato originale, in tutte le donne, compresa l’innocente Ofelia; scopre e conosce il peso di sentirsi Figlio inseguito dal Padre assassinato che gli chiede vendetta; scopre la propria impotenza, e in questa l’inefficacia tutta luterana «di ogni opera e di ogni agire». Otello conosce la maledizione della gelosia: l’inferno terreno costituito dalle immagini sconce e terribili alle quali diamo carne nell’immaginazione quando sospettiamo il tradimento; e il tradimento che lui stesso, sospettando di Desdemona, fa dell’amore. Credendo di essere Dio, Re Lear non si accorge che Cristo, suo Figlio, «ha le fattezze di Cordelia», e non essendo più padre, più re, più Dio, conosce, insie me alla empietà degli esseri umani, l’immensa solitudine di chi si sente abbandonato da Dio; ma poi, al culmine della follia che lo devasta, nel cuore di quelle tempeste in cui errabondo vaga, conosce il miracolo della grazia che altro non è se non la pietà cristiana: l’unica risorsa che pur nella sventura ci rimane e consiste nel condividere il dolore del nostro prossimo. Macbeth — l’uomo ferito, come Edipo, dal proprio atto — scopre la violenza del Male; la forza del Male che ci fa perdere la ragione; l’orrore di un Male di cui non sappiamo la provenienza, del quale potremmo addirittura dichiararci incolpevoli per come irride la nostra volontà, ma che ciononostante ci devasta la mente; infine, nell’ingordigia delle tenebre in cui affonda, conosce la paura.
Da dove viene il Male? Siamo responsabili del Male che ci travolge? L’umanità non è che una folla di esseri perduti schiavi del tempo? Dio esiste? E dov’è? Queste sono le domande fondamentali, che si agitano nel teatro dell’anima dei personaggi di Shakespeare, si incarnano nel dissidio fra la ragione e la passione, e in quello sublime della Parola. La Parola, infatti, la Parola che si fa carne e vive nell’uomo per la redenzione dell’uomo — come sa magnificamente spiegare Nadia Fusini, in un libro che possiede uno sguardo sulla letteratura, sulla filosofia e le scienze umane che va ben oltre il Cinque e il Seicento — è la vera incarnazione, il culmine dell’incarnazione e del mistero. Ecco il motivo per il quale, molto spesso, nel teatro di Shakespeare, abbiamo l’impressione che le parole si contraddicano, oppure che ci respingano, oppure che ci chiamino a una altezza dalla quale ricadiamo indietro, condannati, dopo aver intravisto la luce, all’esilio. Perché le parole che contengono la verità sono, e devono restare inattingibili. È così. Noi proviamo a scandagliarla la Parola; ci illudiamo di comprenderla, come a d esempio ci succede quando leggiamo le Lettere di San Paolo. Ma poi, ogni volta, dobbiamo riaprire il libro, riconsiderarlo quel significato che prima pareva chiaro e ora ci pare oscuro. E questo, all’infinito.

L’Osservatore Romano 28.10.10
All’udienza generale il Papa parla di santa Brigida di Svezia
La donna ha una dignità e un posto importante nella Chiesa
di Joseph Ratzinger


    "Nella grande tradizione cristiana, alla donna" sono riconosciuti "una dignità propria e un proprio posto nella Chiesa". Lo ha ribadito il Papa parlando stamane, mercoledì 27 ottobre, di santa Brigida di Svezia all'udienza generale in piazza San Pietro.

    Cari fratelli e sorelle,
    nella fervida vigilia del Grande Giubileo dell'Anno Duemila, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II proclamò santa Brigida di Svezia compatrona di tutta l'Europa. Questa mattina vorrei presentarne la figura, il messaggio, e le ragioni per cui questa santa donna ha molto da insegnare - ancor oggi - alla Chiesa e al mondo.
    Conosciamo bene gli avvenimenti della vita di santa Brigida, perché i suoi padri spirituali ne redassero la biografia per promuoverne il processo di canonizzazione subito dopo la morte, avvenuta nel 1373. Brigida era nata settant'anni prima, nel 1303, a Finster, in Svezia, una nazione del Nord-Europa che da tre secoli aveva accolto la fede cristiana con il medesimo entusiasmo con cui la Santa l'aveva ricevuta dai suoi genitori, persone molto pie, appartenenti a nobili famiglie vicine alla Casa regnante.
    Possiamo distinguere due periodi nella vita di questa Santa.
    Il primo è caratterizzato dalla sua condizione di donna felicemente sposata. Il marito si chiamava Ulf ed era governatore di un importante distretto del regno di Svezia. Il matrimonio durò ventott'anni, fino alla morte di Ulf. Nacquero otto figli, di cui la secondogenita, Karin (Caterina), è venerata come santa. Ciò è un segno eloquente dell'impegno educativo di Brigida nei confronti dei propri figli. Del resto, la sua saggezza pedagogica fu apprezzata a tal punto che il re di Svezia, Magnus, la chiamò a corte per un certo periodo, con lo scopo di introdurre la sua giovane sposa, Bianca di Namur, nella cultura svedese.
    Brigida, spiritualmente guidata da un dotto religioso che la iniziò allo studio delle Scritture, esercitò un influsso molto positivo sulla propria famiglia che, grazie alla sua presenza, divenne una vera "chiesa domestica". Insieme con il marito, adottò la Regola dei Terziari francescani. Praticava con generosità opere di carità verso gli indigenti; fondò anche un ospedale. Accanto alla sua sposa, Ulf imparò a migliorare il suo carattere e a progredire nella vita cristiana. Al ritorno da un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, effettuato nel 1341 insieme ad altri membri della famiglia, gli sposi maturarono il progetto di vivere in continenza; ma poco tempo dopo, nella pace di un monastero in cui si era ritirato, Ulf concluse la sua vita terrena.
    Questo primo periodo della vita di Brigida ci aiuta ad apprezzare quella che oggi potremmo definire un'autentica "spiritualità coniugale":  insieme, gli sposi cristiani possono percorrere un cammino di santità, sostenuti dalla grazia del Sacramento del Matrimonio. Non poche volte, proprio come è avvenuto nella vita di santa Brigida e di Ulf, è la donna che con la sua sensibilità religiosa, con la delicatezza e la dolcezza riesce a far percorrere al marito un cammino di fede. Penso con riconoscenza a tante donne che, giorno dopo giorno, ancor oggi illuminano le proprie famiglie con la loro testimonianza di vita cristiana. Possa lo Spirito del Signore suscitare anche oggi la santità degli sposi cristiani, per mostrare al mondo la bellezza del matrimonio vissuto secondo i valori del Vangelo:  l'amore, la tenerezza, l'aiuto reciproco, la fecondità nella generazione e nell'educazione dei figli, l'apertura e la solidarietà verso il mondo, la partecipazione alla vita della Chiesa.
    Quando Brigida rimase vedova, iniziò il secondo periodo della sua vita. Rinunciò ad altre nozze per approfondire l'unione con il Signore attraverso la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Anche le vedove cristiane, dunque, possono trovare in questa Santa un modello da seguire. In effetti, Brigida, alla morte del marito, dopo aver distribuito i propri beni ai poveri, pur senza mai accedere alla consacrazione religiosa, si stabilì presso il monastero cistercense di Alvastra. Qui ebbero inizio le rivelazioni divine, che l'accompagnarono per tutto il resto della sua vita. Esse furono dettate da Brigida ai suoi segretari-confessori, che le tradussero dallo svedese in latino e le raccolsero in un'edizione di otto libri, intitolati Revelationes (Rivelazioni). A questi libri si aggiunge un supplemento, che ha per titolo appunto Revelationes extravagantes (Rivelazioni supplementari).
    Le Rivelazioni di santa Brigida presentano un contenuto e uno stile molto vari. A volte la rivelazione si presenta sotto forma di dialoghi fra le Persone divine, la Vergine, i santi e anche i demoni; dialoghi nei quali anche Brigida interviene. Altre volte, invece, si tratta del racconto di una visione particolare; e in altre ancora viene narrato ciò che la Vergine Maria le rivela circa la vita e i misteri del Figlio. Il valore delle Rivelazioni di santa Brigida, talvolta oggetto di qualche dubbio, venne precisato dal Venerabile Giovanni Paolo II nella Lettera Spes Aedificandi:  "Riconoscendo la santità di Brigida la Chiesa, pur senza pronunciarsi sulle singole rivelazioni, ha accolto l'autenticità complessiva della sua esperienza interiore" (n. 5).
    Di fatto, leggendo queste Rivelazioni siamo interpellati su molti temi importanti. Ad esempio, ritorna frequentemente la descrizione, con dettagli assai realistici, della Passione di Cristo, verso la quale Brigida ebbe sempre una devozione privilegiata, contemplando in essa l'amore infinito di Dio per gli uomini. Sulla bocca del Signore che le parla, ella pone con audacia queste commoventi parole:  "O miei amici, Io amo così teneramente le mie pecore che, se fosse possibile, vorrei morire tante altre volte, per ciascuna di esse, di quella stessa morte che ho sofferto per la redenzione di tutte" (Revelationes, Libro i, c. 59). Anche la dolorosa maternità di Maria, che la rese Mediatrice e Madre di misericordia, è un argomento che ricorre spesso nelle Rivelazioni.
    Ricevendo questi carismi, Brigida era consapevole di essere destinataria di un dono di grande predilezione da parte del Signore:  "Figlia mia - leggiamo nel primo libro delle Rivelazioni -, Io ho scelto te per me, amami con tutto il tuo cuore... più di tutto ciò che esiste al mondo" (c. 1). Del resto, Brigida sapeva bene, e ne era fermamente convinta, che ogni carisma è destinato ad edificare la Chiesa. Proprio per questo motivo, non poche delle sue rivelazioni erano rivolte, in forma di ammonimenti anche severi, ai credenti del suo tempo, comprese le Autorità religiose e politiche, perché vivessero coerentemente la loro vita cristiana; ma faceva questo sempre con un atteggiamento di rispetto e di fedeltà piena al Magistero della Chiesa, in particolare al Successore dell'Apostolo Pietro.
    Nel 1349 Brigida lasciò per sempre la Svezia e si recò in pellegrinaggio a Roma. Non solo intendeva prendere parte al Giubileo del 1350, ma desiderava anche ottenere dal Papa l'approvazione della Regola di un Ordine religioso che intendeva fondare, intitolato al Santo Salvatore, e composto da monaci e monache sotto l'autorità dell'abbadessa. Questo è un elemento che non deve stupirci:  nel Medioevo esistevano fondazioni monastiche con un ramo maschile e un ramo femminile, ma con la pratica della stessa regola monastica, che prevedeva la direzione dell'Abbadessa. Di fatto, nella grande tradizione cristiana, alla donna è riconosciuta una dignità propria, e - sempre sull'esempio di Maria, Regina degli Apostoli - un proprio posto nella Chiesa, che, senza coincidere con il sacerdozio ordinato, è altrettanto importante per la crescita spirituale della Comunità. Inoltre, la collaborazione di consacrati e consacrate, sempre nel rispetto della loro specifica vocazione, riveste una grande importanza nel mondo d'oggi.
    A Roma, in compagnia della figlia Karin, Brigida si dedicò a una vita di intenso apostolato e di orazione. E da Roma si mosse in pellegrinaggio in vari santuari italiani, in particolare ad Assisi, patria di san Francesco, verso il quale Brigida nutrì sempre grande devozione. Finalmente, nel 1371, coronò il suo più grande desiderio:  il viaggio in Terra Santa, dove si recò in compagnia dei suoi figli spirituali, un gruppo che Brigida chiamava "gli amici di Dio".
    Durante quegli anni, i Pontefici si trovavano ad Avignone, lontano da Roma:  Brigida si rivolse accoratamente a loro, affinché facessero ritorno alla sede di Pietro, nella Città Eterna.
    Morì nel 1373, prima che il Papa Gregorio xi tornasse definitivamente a Roma. Fu sepolta provvisoriamente nella chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna, ma nel 1374 i suoi figli Birger e Karin la riportarono in patria, nel monastero di Vadstena, sede dell'Ordine religioso fondato da santa Brigida, che conobbe subito una notevole espansione. Nel 1391 il Papa Bonifacio ix la canonizzò solennemente.
    La santità di Brigida, caratterizzata dalla molteplicità dei doni e delle esperienze che ho voluto ricordare in questo breve profilo biografico-spirituale, la rende una figura eminente nella storia dell'Europa. Proveniente dalla Scandinavia, santa Brigida testimonia come il cristianesimo abbia profondamente permeato la vita di tutti i popoli di questo Continente. Dichiarandola compatrona d'Europa, il Papa Giovanni Paolo II ha auspicato che santa Brigida - vissuta nel XIV secolo, quando la cristianità occidentale non era ancora ferita dalla divisione - possa intercedere efficacemente presso Dio, per ottenere la grazia tanto attesa della piena unità di tutti i cristiani. Per questa medesima intenzione, che ci sta tanto a cuore, e perché l'Europa sappia sempre alimentarsi dalle proprie radici cristiane, vogliamo pregare, cari fratelli e sorelle, invocando la potente intercessione di santa Brigida di Svezia, fedele discepola di Dio e compatrona d'Europa. Grazie per l'attenzione.