martedì 2 novembre 2010

l’Unità 2.11.10
La presidente promette di sradicare la povertà e di puntare sulle pari oppurtunità
Brasile, la sfida di Dilma: «Sì, le donne possono»
Sradicare la povertà. Dare più spazio e ancora più potere alle donne. Sono le due sfide della «presidenta»: Dilma Rousseff, la prima donna alla guida del Brasile. Che alle donne dice: «Noi possiamo».
di U D. G.


Promette di sradicare la povertà e annuncia: più spazio alle donne, perché, parafrasando Barack Obama, «le donne possono». È il primo giorno della «presidenta Dilma». «Sradicare la miseria dal Brasile e dare opportunità a tutti»: è l'impegno preso da Dilma Rousseff, che nel suo primo discorso quale presidente eletto del Paese ha sottolineato l'importanza del fatto di essere il primo capo dello Stato donna della nazione sudamericana. Intervenendo in un albergo a Brasilia dopo la vittoria al ballottaggio dell’altro ieri, con un lungo discorso che di fatto è un programma politico, la presidente eletta ha citato una serie di punti che si è «impegnata» a rispettare a partire dal primo gennaio, quando s'insedierà per quattro anni al Planalto, sede della presidenza.
LE PROMESSE
Al primo discorso della «presidenta» Dilma era assente il capo dello Stato uscente Lula. A lui il primo pensiero: «Saluto Lula con emozione, il suo sostegno e la sua saggezza. Un leader appassionato e giusto, so che non sarà mai lontano dal nostro popolo», dice Dilma, che nel pronunciare queste parole si è più volte emozionata, tra gli applausi dei sostenitori del Pt. Rivolgendosi a «tutti i brasiliani in questa notte così speciale», Rousseff ha rilevato che le elezioni dell’altro ieri «sono una dimostrazione dei progressi democratici del Brasile, per la prima volta sarà guidato da una donna. Il mio primo impegno è quindi proprio questo, quello di onorare la fiducia ricevuto dalle donne e di costruire una società con eguali oppor-
tunità per uomini e donne: questo ha sottolineato è un principio chiave della democrazia». Rilevando un altro «impegno» della sua presidenza, l'erede di Lula ha sottolineato di voler «valorizzare la democrazia in tutte le sue dimensioni», lavorando così per dare ai brasiliani «una serie di diritti chiave, dall'alimentazione, ad una dimora degna e alla pace sociale», impegnandosi inoltre a «combattere la droga». «Sarò presidente di tutti i brasiliani ed estendo la mia mano ai partiti dell'opposizione», ha concluso Dilma, sottolineando «l'incredibile capacità di creazione del nostro Paese»,
L’EX GUERRIGLIERA
«Le donne possono», ripete Dilma nel suo primo discorso presidenziale. A rilevare qualche giorno fa l'importanza di un suo arrivo al «Planalto», era stata la stessa ex guerrigliera: «Tutte le brasiliane potranno dire di voler diventare presidente», ha sottolineato, aggiungendo che negli ultimi anni «noi donne siamo uscite di casa per studiare e lavorare, smettendo così di essere solo casalinghe, diventando per esempio infermiere, assistenti sociali, psicologhe. La mia elezione aprirà una nuova strada», aveva assicurato. A caratterizzare le elezioni brasiliane c'è stato tra l'altro non solo il duello finale tra Dilma e Josè Serra, ma la nascita di un nuova star della politica nazionale: un'altra donna, e cioè l'ecologista amazzonica Marina Silva, che al primo turno un mese fa aveva avuto quasi il 20% dei voti, strappando un mare di voti alla Rousseff. In Sudamerica, Dilma può quindi raccogliere il testimone dalle mani della cilena Michelle Bachelet, che all'inizio dell'anno ha concluso il suo mandato al palazzo della Moneda, e da qualche settimana ha avuto l'incarico di presiedere un organismo dell'Onu interamente dedicato proprio alle tematiche relative alle donne.

l’Unità 2.11.10
Conversando con Guglielmo Epifani Segretario generale della Cgil
«Lascio la guida, ma non la Cgil. Oggi la nostra trincea è quella più importante»
di Oreste Pivetta


Dopo otto anni Guglielmo Epifani lascia. Non sarà più segretario della Cgil. Domani sarà il giorno del direttivo, che valuterà l’esito delle consultazioni e poi sarà il voto. Che eleggerà Susanna Camusso, una donna per la prima volta alla guida del sindacato. Il giorno dopo, a Roma, al Teatro Quirino, il doppio saluto: quello del vecchio segretario e quello del nuovo. Un rito: fu così nel settembre 2002, tra Cofferati ed Epifani, al Palasport. Otto anni tempestosi, tra due governi Berlusconi e, in mezzo, il secondo governo Prodi. «Sempre in campo – dice a questo punto Guglielmo Epifani – senza mai abbassare la guardia». Molti lo vedono già in politica. Ma non è così, spiegherà. Continuerà a lavorare per la Cgil, dove arrivò trentacinque anni fa (venti dei quali trascorsi in segreteria). Cominciò in una paese molto diverso, di grandi fabbriche, di radicata cultura operaia, «quando s’avvertivano – ricorda Epifani – passione politica e senso profondo di solidarietà». Tutto il contrario
del presente, lacerato, diviso, in una società dove primeggia l’individualismo, condizionata dalla precarietà, impoverita e incerta, in un paese dove il sindacato è ancora uno degli anelli forti della sopravvivenza democratica... malgrado anche per il sindacato sia tempo di lacerazioni.
Otto anni, Epifani, che si chiudono mostrando quanto non avremmo mai voluto vedere: rottura tra Cisl, Uil e Cgil. Di chi la colpa? «È un problema aperto e l’obiettivo resterà quello di riannodare il filo con Cisl e Uil, un rapporto che si è logorato non per colpa nostra, perché non è una colpa difendere le nostre posizioni di merito, mentre abbiamo vi-
sto gli altri cambiare faccia spesso e troppo rapidamente. Sono stati anni complessi. E’ esplosa la globalizzazione, ci si è cullati nell’ideologia liberista che ha concesso piena libertà alle logiche di mercato, si è precipitati nella più grave crisi finanziaria dal dopoguerra, una crisi che continua a colpire l’economia reale. Ancora ieri il presidente del Fondo monetario internazionale ci ha ricordato che nel mondo si sono persi trenta milioni di posti di lavoro. Sottolineo: senza responsabilità del mondo del lavoro. Per quanto ci riguarda, otto anni che sono cominciati ritrovando il rapporto unitario. I problemi sono venuti con la caduta del governo Prodi. La divisione è figlia del fatto che Cisl e Uil hanno scommesso sulla forza di questo governo e ne hanno pagato la determinazione a spaccare il sindacato. Siamo arrivati così all’accordo separato sul modello contrattuale e alla manifestazione di Cisl e Uil sul fisco, mandando a vuoto il lungo lavoro che proprio sul fisco i tre sindacati insieme avevano realizzato». Confermando molti nell’idea che Cisl e Uil siano solo governativi...
«Costruendo appunto una rappresentazione grottesca del sindacato, una rappresentazione che non fa onore alla loro stessa storia. Malgrado questo si sono firmati unitariamente 50 contratti e unitariamente si continua a lavorare in molte zone, là dove più si avvertono il declino del paese e l’impotenza del governo distratto da ben altre storie... Credo che il primo passaggio per tornare all’unità stia nello stabilire le regole della nostra democrazia».
Lei sostiene che la Cgil non ha colpe... Sull’altro fronte si sostiene che la colpa sia tutta della Cgil. «Ho parlato di fisco. C’era una piattaforma, loro hanno scelto di scendere in piazza da soli. Ho parlato di democrazia e rappresentan-
za e una piattaforma comune era stata disegnata. Se poi ci si riferisce alla questione delle deroghe contrattuali per i metalmeccanici e al caso Pomigliano, non credo proprio che la Cgil abbia torto. Perché una deroga contrattuale apre un varco pericoloso per tutti i contratti e perché a Pomigliano abbiamo sbagliato andando a discutere come lavorare, in assenza di un piano, che dicesse che cosa produrre. Non si fa così. Prima si discute di investimenti e di prodotti, poi di organizzazione del lavoro». Marchionne ha rincarato la dose.
«Gli ultimi dati del mercato dell’auto dicono di una caduta delle vendite e dicono che la Fiat soffre più degli altri. So-
no numeri che ci confermano nell’idea che la Fiat paga la mancanza di modelli: sul piano della ricerca e dell’innovazione non è all’altezza degli altri. Marchionne ci ha distratti: invece di parlare di qualità del prodotto, ci ha fatto intendere che tutto dipende dall’organizzazione del lavoro».
Si è spiegata l’esternazione di Marchionne come una chiamata in causa del governo. «Certo, se ci fosse stato un governo degno di questo nome non saremmo a questo punto. Di fronte alle scelte del più grande gruppo manifatturiero nazionale, un governo serio avrebbe imposto un tavolo di trattativa e costruito una proposta per difendere investimenti e occupazione... Che Marchionne insegua il governo è giusto, ma in questo inseguimento non si rafforza spaccando con la Fiom».
Il risultato più bello di questi otto anni?
«La battaglia per la difesa della Costituzione e la vittoria nel referendum». Il compito più arduo che toccherà al suo successore?
«La questione del lavoro precario. Ma è anche un cruccio mio per il passato: non aver fatto abbastanza contro la precarietà. Ma ci siamo trovati di fronte governi, con l’eccezione del governo Prodi, che hanno sempre perseguito politiche tese ad accentuare la precarietà». Un errore?
«Diciamo che ci lasciamo alle spalle decisioni condivise sulle quali abbiamo sempre tanto riflettuto insieme. Un errore? Forse quando si era al tavolo con Montezemolo e mi sono alzato. Ma avevo capito che si voleva andare a un confronto sul modello contrattuale quando non esisteva ancora una piattaforma sindacale. Una scelta la mia giusta nella sostanza, anche se troppo dura nella forma».
E la politica? Niente, per ora. Epifani resterà al sindacato a capo dell’Istituto Bruno Trentin, che coordinerà l’attività di studio, di ricerca e di formazione di altri istituti come l’Ires e la Fondazione Di Vittorio: «Con il proposito di contribuire alla formazione di un programma, che abbia al centro i temi del lavoro, per un governo all’altezza dei problemi che ha di fronte il paese». Ma su candidature e altro Epifani non risponde. Orgogliosamente ci ripete: «Oggi la nostra trincea è quella più importante».

l’Unità 2.11.10
Termini Underground La protesta sotterranea merita tutte le luci


Tutto avviene sottoterra o, meglio, in un sottopasso che attraversa i binari della Stazione Termini di Roma e da una porticina che dà accesso ai locali di un circolo del Dopolavoro Ferroviario. È qui, per iniziativa dell’Associazione Ali Onlus e per simpatia solidale dei soci del Dopolavoro, che i locali si trasformano in palestra e sala prove per una scuola di ballo particolare, frequentata da allievi di ben sedici nazionalità (italiani inclusi). La particolarità di questa palestra sta nel fatto che i ragazzi sono quasi tutti dei rifugiati politici come Farid, afghano di vent’anni fuggito dai sobborghi di Kabul o immigrati alle prese con problemi di regolarizzazione – come nel caso di Anido, venuto in Italia dall’Albania -. Un piccolo miracolo di convivenza, cementato dall’hip hop e dalla gratuità dei corsi e reso complicato dalla decisione delle Ferrovie dello Stato di sfrattare la palestra e mettere a reddito gli angusti locali. Ne nasce una vertenza che vede mobilitarsi anziani del Dopolavoro Ferroviario e ragazzi del corso, e un documentario, presentato alla Festa del Cinema di Roma: Termini Underground, di Emilia Zazza, che racconta l’intrecciarsi della mobilitazione per salvare la scuola e l’allestimento di uno spettacolo, in chiave hip hop, ispirato all’Eneide. Storie che s’intrecciano, Enea che diviene un rifugiato e il protagonista, Farid che, avendo trovato lavoro in un bar, rischia di saltare la “prima”, la festa di un allievo che ottiene la cittadinanza e l’ansia per le decisioni burocraticamente sorde delle FF.SS. Tra qualche settimana i promotori di questa storia rientreranno nei locali, decisi a resistere, purché, da sotterranea, la loro vicenda emerga alla luce del sole.

il Fatto 2.11.10
“Devono setacciare diocesi per diocesi”
Pedofilia: Survivors’s Voice a Roma per chiedere un’operazione verità
di Marco Politi


“Q uando    gli ho parlato, Benedetto XVI guardava a terra. Io pensavo a un dialogo, ma dialogo non c’è stato”. L’americano Bernie McDaid è una delle cinque persone, vittime di abusi da parte del clero, selezionate dal cardinale di Boston Sean O’Malley nel 2008 per incontrare Benedetto XVI al tempo del suo viaggio negli Stati Uniti. Domenica ha guidato insieme al connazionale Gary Bergeron e l’italo-olandese Paola Leerschool la manifestazione a Castel Sant’Angelo per chiedere alle Nazioni Unite di dichiarare lo stupro di minori un “crimine contro l’umanità”. Erano un centinaio, provenienti da tredici nazioni, che agitando cartelli con scritto “Basta”, “Il Papa in tribunale”, hanno respinto il portavoce vaticano Lombardi al grido di “vergogna, vergogna”.
Ma per capire l’origine di questo raduno, destinato a sfociare nella costruzione di una rete mondiale di vittime, bisogna tornare a quell’incontro tra Bernie e il Papa il 17 aprile 2008. Bernie McDaid, come si svolse il colloquio con papa Ratzinger? So che il vostro gruppo gli consegnò un libretto con mille nomi di abusati. Il
pontefice come reagì?
Eravamo nella cappella della nunziatura a Washington. Benedetto XVI prese la parola ed espresse il suo rincrescimento per i fatti accaduti. Allora io andai verso di lui e gli misi una mano sul cuore.
Proprio sul petto?
Esattamente così. Lo guardai negli occhi e gli dissi: c’è un cancro nel gregge dei fedeli, fate qualcosa!
E il papa?
Tenne la testa china e mormorò: sì, sì. Che risposta diede? Non parlò. Noi volevamo un dialogo, ma lui non entrò in dialogo con noi. Ci fu soltanto una preghiera comune, una sorta di meditazione.
Rimase deluso?
Speravo che il Vaticano avrebbe agito e che ad alto livello si sarebbero ammessi i problemi. Invece no.
Benedetto XVI quest’anno ha fatto delle dichiarazioni molto nette sulla necessità di tutelare le vittime e di portare i colpevoli in tribunale. Appunto, sono dichiarazioni. Il Vaticano afferma di fare questo e quello e il mondo pensa che se ne occupa e invece no. Bisogna fare molto di più per la gente che soffre e mettere fine soprattutto al muro di silenzio, che cir-
conda tutta la questione.
Dopo l’incontro di Boston cosa ha fatto? Ho capito che la priorità era di finirla con l’insabbiamento. La Chiesa cattolica è un’istituzione mondiale e se vogliono potrebbero setacciare parrocchia per parrocchia, diocesi per diocesi per scoprire cosa è successo. Avrebbero dovuto farlo da tempo. Io avevo già cercato di parlare con Giovanni Paolo II nel 2003, all’epoca dello scandalo di Boston. Trovai un giudice statunitense, che era amico personale di Dziwisz, il segretario di Wojtyla. Gli telefonò, lo chiamò Stasiu il diminutivo polacco di Stanislao, chiese un appuntamento per me. Ma quando arrivai a Roma, le guardie svizzero mi impedirono fisicamente di salire al suo appartamento in Vaticano. Venne però nel mio albergo un monsignore della segreteria di Stato, mons.
James Green, a cui raccontai tutto. Inutilmente? Quest’anno mi sono deciso a fondare con Gary Bergeron Survivor’s Voice (la Voce dei Sopravvissuti). Siamo venuti a Roma perché si contrasti l’abuso dentro e fuori la Chiesa, perché i leader politici del mondo si mettano all’opera. Portiamo una petizione all’Onu perché l’abuso sia dichiarato crimine contro l’umanità. Serve uno sforzo internazionale. Sabato ho visto migliaia di ragazzi dell’Azione cattolica recarsi a San Pietro e pensavo con timore che il trenta per cento degli adolescenti in tutto il mondo corre il pericolo di abusi. A me è successo come a tanti. Tra gli undici e i tredici anni ero chierichetto e il mio prete abusava di me e di altri ragazzi in tre posti precisi. In sagrestia, quando ci portava alla spiaggia in macchina promettendoci un gelato e nel guardaroba della scuola, dove diceva alle suore che ci riceveva ad uno ad uno per una meditazione. Alla fine andai da mio padre con tre amici come testimoni. Mi credette. Intervenne”.
E cosa successe?
Denunciai la cosa a mio padre in ottobre, ma il prete fu rimosso solo in aprile. La parrocchia gli organizzò persino una festicciola d’addio. Ero disgustato. Non fu mai processato, è già morto. Ma passò attraverso sette parrocchie ancora e abusò di una cinquantina di adolescenti. Quelli noti. Probabilmente la cifra vera è di qualche centinaio. Survivor’s Voice ha già una branca europea e la manifestazione di domenica è il primo passo per creare una rete mondiale. Alla Chiesa chiedono un’operazione verità, il riconoscimento delle responsabilità e un aiuto concreto alle vittime. Lo hanno detto a fine serata anche a padre Lombardi, che hanno incontrato dopo la manifestazione negli uffici della Radio vaticana. Lombardi ha loro consegnato un testo scritto, dicendo che la Chiesa ha già cominciato a fare molto a vari livelli. Bloccati da un robusto e ingiustificato cordone di polizia, i sopravvissuti hanno mandato da Castel Sant’Angelo il loro messaggio di protesta al Papa attraverso le luci di decine e decine di candele. Soltanto a due di loro – Bergeron e Leerschool – è stato concesso di percorrere via della Conciliazione con le fiaccole per lasciare una lettera davanti al Palazzo apostolico. Ma non sarà la polizia a impedire che la protesta vada inesorabilmente avanti finché gli archivi ecclesiastici non saranno aperti. “Non basta processare i colpevoli – dice Bernie McDaid – i danni ai sopravvissuti sono enormi: depressione, suicidi, droga, alcool, delinquenza. La Chiesa deve capire che ha la responsabilità di guarire le vittime”.

il Fatto 2.11.10
Rumorosi silenzi della Chiesa
di Marco Politi


Fino a quando    la Chiesa resterà in silenzio dinanzi al premier bunga-bunga e allo scempio delle istituzioni? Monta il malessere nel mondo cattolico, cresce il disagio tra parroci e vescovi, ma i vertici della Chiesa tacciono. L’istituzione ecclesiastica, che continuamente interviene nei comportamenti delle persone, laddove si tratta delle scelte di vita, di morte, di nascita e di relazioni, non riesce a dare un indirizzo etico per dire qual è il limite nei comportamenti morali di un uomo che governa la nazione, di un leader che per il suo ruolo dovrebbe saper offrire un esempio di decoro.
NON SI SENTE una parola del Papa, non si sente una parola del presidente della Conferenza episcopale né del suo segretario, che pure a suo tempo seppe alzare la voce contro il libertinaggio. Non è in gioco nessun tipo di moralismo, la questione è politica come ammette persino il Foglio: in altre parole tocca il bene comune dello stato. E ha un risvolto etico come ha dovuto confessare l’Avvenire sotto la spinta della coraggiosa denuncia di Famiglia Cristiana e dell’incredibile arroganza di Berlusconi in quel di Bruxelles. Limitarsi a indicare principi generali sulla purezza dell’amore e poi chiudere gli occhi di fronte al clima da basso impero nel proprio Paese, nella terra di cui il pontefice è primate, è un silenzio che svuota l’autorevolezza della gerarchia ecclesiastica. Si sta consumando in questa stagione la parabola discendente del ruinismo L’idea di fondo, dopo il crollo della Prima Repubblica, era di collocare la Chiesa (priva della Dc) al di sopra delle parti per meglio assicurare – seppur lobbisticamente – la realizzazione dei propri valori. È finita, come documenta brillantemente l’ultimo libro di Massimo Franco C’era una volta un Vaticano, con un do ut des basato sul puro interesse più che sui valori. Un compromesso al ribasso in cui non si capisce se Berlusconi è collaterale alla Chiesa o il vertice ecclesiastico sia a lui politicamente subalterno. La verità sta nell’intreccio fra i due soggetti.
“C’È UN SOLO cadavere a cui la Chiesa è attaccata”, diceva Giovanni XXIII, indicando il crocifisso. La Chiesa d’Italia, con il suo silenzio, rischia di rimanere aggrappata al cadavere della credibilità di Berlusconi. Mentre persino il mondo imprenditoriale ne prende clamorosamente le distanze. Non si tratta, com’è chiaro a tutti, persino ai fan azzurri delusi che protestano sul Web, di peccati di pantalone. Sono stati toccati fondamenti etici, che stanno a cuore al cittadino cattolico (e anche a quello diversamente credente). L’idea che un capo del governo non mente alla polizia, non ospita in casa una minorenne per dopocena poco trasparenti. L’idea che una minore in difficoltà, affidata ad una donna indicata dal premier, per di più consigliere regionale come Nicole Minetti, non viene un minuto dopo abbandonata ad altri nella notte, violando gli impegni legali assunti.
Si vorrebbe sapere quale altro limite debba essere raggiunto perché si senta un “basta” da parte della Chiesa. Nessuno domanda alla Chiesa di schierarsi con una fazione e neanche di fare il lavoro dell’opposizione. Ciò che il cittadino interessato ai valori religiosi – anzi, ai valori tout court – ha però il diritto di aspettarsi è che un’istituzione, che fa del “bene” il criterio del suo messaggio, non abbia paura di indicare il “male” quando esplode platealmente sotto i propri occhi.
L’ITALIA non è una dittatura, la Chiesa può parlare – e parla tanto quando vuole – liberamente. Il silenzio è la dimostrazione di una mancanza di visione dei vertici ecclesiastici. Che continuano a vivere in queste ore aggrappati al calcolo delle convenienze, all’angusta certezza che il berlusconismo fissi per legge quei comportamenti sociali e personali che la Chiesa non riesce più a imporre con la formazione delle coscienze. Nella paura del vuoto politico di domani, che si percepisce in tanti monsignori disgustati dal premier ma terrorizzati dalla perdita di un alleato sicuro, la Chiesa non si accorge, o fa finta di non accorgersi, del grande vuoto interiore creato da venti anni di berlusconeide.
Fra una settimana il premier bunga-bunga, che adora proclamarsi cattolico, inaugurerà a Milano la Conferenza nazionale della famiglia. Va bene così? Quell’“agenda per l’Italia”, che le Settimane sociali cattoliche intendevano proporre al paese, prevede anche questa parodia? Non è sfuggito a nessuno che i quadri cattolici, che hanno lavorato per le Settimane sociali, erano molto più coraggiosi nel denunciare la decadenza della classe dirigente prima del convegno di quanto siano stati quando si è tenuto l’incontro nazionale a Reggio Calabria. Nell’intervallo è intervenuta la gerarchia ecclesiastica, che ha proibito persino la partecipazione della stampa all’ascolto dei gruppi di lavoro, come sempre è stato in passato. “Stiamo dimostrando di non avere un rapporto con il respiro del Paese”, mi dice un vescovo. Ha ragione. Il ragionamento ha un corollario.
Quando nel Paese c’è stato un forte movimento nutrito di ideali liberali, socialisti o cattolico-democratici anche la Chiesa è maturata sotto il pungolo della società.
Nel vuoto circostante prospera anche il vuoto ecclesiale.

Repubblica 2.11.10
Fiction Rai, l´ira degli ebrei "Pio XII patacca assolutoria"
di Orazio La Rocca

Pio XII, gli ebrei attaccano la Rai "Quella fiction è solo propaganda"
Di Segni: una patacca. Ma Bernabei: non è a senso unico
L´occupazione nazista di Roma e i silenzi del pontefice sulla deportazione degli ebrei

 
ROMA. «Una patacca propagandistica, un´opera apologetica a senso unico che fa torto alla storia e alla verità». Non usa mezzi termini il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, quando - dopo averla visionata in anteprima - stronca senza mezzi termini la fiction su Pio XII "Sotto il cielo di Roma" trasmessa dalla Rai in due parti.
Un giudizio fermamente respinto da Ettore Bernabei, presidente della Lux vide, la casa produttrice del film, che controbatte: «Non è un´opera a senso unico, apologetica e nemmeno agiografica, ma il racconto di uno dei momenti storici più tragici di Roma e degli ebrei romani, tanti dei quali furono salvati nei conventi e nelle chiese su decisione del Vaticano».
La ficition - trasmessa da RaiUno domenica e lunedì sera - racconta i tragici mesi dell´occupazione nazista di Roma, della deportazione degli ebrei del Ghetto e del bombardamento del quartiere di San Lorenza da parte degli Alleati. "Sotto il cielo di Roma" non sembra destinato ad essere immune da critiche e riserve, specialmente da parte di chi - come la comunità ebraica romana - pagò prezzi altissimi a causa dell´oppressione nazifascista che culminò, tragicamente, con la razzia degli ebrei del Ghetto del 16 ottobre 1943. Un episodio tra i più drammatici del secondo conflitto mondiale avvenuto a Roma e sul quale ad oltre 60 anni di distanza si è ancora in attesa di una definitiva parola di chiarezza dal punto di vista storico specialmente sul ruolo svolto dall´allora pontefice, Pio XII, che fu accusato di essere stato in "silenzio" di fronte alla razzie degli ebrei romani malgrado i pubblici apprezzamenti della premier israeliana Golda Meir e del congresso ebraico degli Usa.
«Questo sceneggiato è semplicemente una patacca che persegue una finalità ben precisa, cioè quella di dimostrare l´assoluta bontà di quel Pontefice e la giustificazione politica e morale di tutto ciò che ha fatto», taglia corto il rabbino Di Segni in una intervista dedicata a "Sotto il cielo di Roma" che sarà pubblicata su Shalom, il mensile della Comunità ebraica di Roma. Il ruolo di Pio XII durante l´occupazione nazista di Roma, sostiene ancora il rabbino capo, «è una questione quanto mai controversa che non si può esaurire con una discussione rapida e semplificata che finisce con una assoluzione finale ed apologetica, senza mostrare tutti gli aspetti e tutti i dati. Lo dico con particolare rammarico personale avendo collaborato anni fa con la Lux Vide, la società produttrice della fiction, che quando produceva film di argomenti biblici era sempre attenta alle diverse sensibilità». «Non abbiamo raccontato il pontificato di Pio XII, ma solo i mesi dell´occupazione nazista di Roma dal luglio del ‘43 al giugno del ‘44, occupandoci quindi di tutti i problemi della città e della comunità ebraica durante quel periodo, senza fare apologie, ma basandoci su documentazioni storiche», controbatte Ettore Bernabei. «Siamo stati attentissimi a rispettare la sensibilità degli ebrei, ma anche a raccontare gli aiuti che nei conventi e nelle chiese furono organizzati per salvare gli ebrei dai rastrellamenti. Certo, è un film e come tutti i film non può essere perfetto. Ma lo abbiamo fatto con coscienza. Non ho partecipato alla sceneggiatura, ma ho dato un mio contributo di esperienza avendo vissuto direttamente quegli anni, basandomi anche sull´insegnamento di un grande maestro come Giorgio La Pira, universalmente riconosciuto come il profeta moderno delle tre grandi religioni, il cristianesimo, l´ebraismo e l´islam».

Repubblica 2.11.10
Il congresso
Radicali: istituzioni allo sfascio restiamo nel gruppo dei democratici


CHIANCIANO - «É in atto uno sfascio delle istituzioni. Noi siamo alternativi a questo sfascio, perchè animati da intransigenza liberale e democratica. É questo che offriamo al Pd e ci aspettiamo che sappiano raccogliere questa opportunità». I Radicali italiani hanno chiuso il loro nono congresso con una rinnovata denuncia del degrado della vita pubblica e la conferma del loro patto con il Pd, dei cui gruppi parlamentari fanno parte dal 2008. Mario Staderini è stato riconfermato segretario. La mozione da lui proposta dà atto al segretario del Pd Pier Luigi Bersani di aver riservato al movimento radicale «una diversa considerazione». Il congresso ha anche approvato con un´ovazione una mozione dedicata interamente al digiuno della fame e della sete di Marco Pannella contro «l´illegalità nelle carceri», l´impiccagione di Aziz e la pena di morte in generale.

Repubblica 2.11.10
Lutto
Elaborare la perdita, il conforto via web
di Valeria Pini
Oggi è il due novembre, giornata dedicata alla memoria di chi non c´è più Su internet crescono i gruppi di auto-aiuto. Il parere di Bruno Callieri: "Sono il futuro, ma hanno poca efficacia: servono sguardo, contatto, voce"

A volte sembra impossibile tornare ad una vita "normale", dopo la perdita di una persona cara. Resta un senso di vuoto. Siamo sempre impreparati al lutto e ognuno affronta questa realtà in modo diverso; si ricorda e si soffre. E poi arriva il 2 novembre, una ricorrenza dedicata. «Il lutto fa parte del mistero. Non è facile lasciare l´altro e collocarlo nel nostro passato - spiega Bruno Callieri, considerato uno dei padri della psichiatria italiana - C´è un problema di fisicità. Come accettare l´idea di un corpo che muore e pensare che poco prima era animato? L´elaborazione del lutto serve a combattere l´angoscia della morte, che in Occidente è vissuta come un tabù».
Spesso i familiari hanno bisogno di sostegno per affrontare lo shock del distacco. C´è un forte senso di abbandono e di solitudine che colpisce chi perde una persona cara. Oggi su internet sono nate delle vere e proprie community per il lutto. L´ultima è stayinme.com. Ha già 650 utenti. Scorrendo le pagine si leggono messaggi di persone che si scambiano commenti su momenti di sconforto. E poi ci sono siti come, ad esempio, funereas che permette di mettere online un necrologio e ricevere saluti inviati da amici. «I gruppi di auto-aiuto non sono risolutivi, ma sono utili per confrontarsi. Possono essere un supporto per evitare che la persona si isoli, si allontani dalla realtà o finisca addirittura in depressione - spiega Callieri - Quelli sul web rappresentano senz´altro il futuro. Ma si comunica e ci si aiuta "a distanza". Sono meno efficaci. Per ricevere conforto bisogna stare vicini, guardarsi. Lo sguardo è importante, ma anche il tono della voce, i silenzi».
Ognuno affronta il lutto in modo diverso e spesso la reazione cambia in base all´età. «I tempi per elaborare il lutto possono essere molto lunghi: 15, 20 anni. Un uomo di 40-50 che perde la moglie, se molto innamorato, può metterci molto tempo. Così come una madre o un padre che perde il figlio. Un bambino reagisce in modo più veloce. Gli anziani invece sembrano più freddi, perché hanno meno tempo davanti». Con il passare dei mesi, una volta finita la fase di solidarietà da parte di parenti e amici, si cerca di tornate a "una vita normale". È questo uno dei momenti più delicati. «Ci si isola. Si creano incomprensioni. Nelle coppie che hanno perso un figlio, a volte, non riescono più a sostenere lo sguardo e il dolore dell´altro».

Repubblica 2.11.10
Cibo & corpo l´ultima sfida dalla psicologia
di Luciana Sica


Giovani, bulimiche e anoressiche: al Policlinico di Roma un centro specializzato per le cure Ecco i pareri di Loriedo, Liotti e Luc Ciompi
Ogni anno sono cinquecentomila le ragazze che si ammalano una su 10 muore

C´erano una volta le isteriche di Freud che con il loro sintomo camuffavano il profondo disagio di vivere in un mondo al maschile. Oggi ci sono le anoressiche e le bulimiche, icone dei paradossi della postmodernità, che con il loro amore-odio per il cibo mettono in scena un disturbo senz´altro definibile come "alimentare", ma anche una nuova religione del corpo con una sua velatura sacrificale e radicalmente esistenziale. Con piglio pragmatico, i clinici in trincea portano un argomento convincente: si tratta di disturbi gravissimi, poco chiari, e sempre declinati al plurale - senza dimenticare che è la morte ad essere sfidata, e non sempre risulta perdente. Tutt´altro: questi "disordini", con tutto il dolore interno che dissimulano, sono la causa prima che porta le ragazze tra i 15 e i 25 anni a perdere la vita.
Conosce molto bene la sofferenza profonda di chi vive la patologia e di chi si trova a condividerla, Camillo Loriedo, docente di psichiatria all´università La Sapienza di Roma e terapeuta della famiglia. È lui che dirige il Centro specializzato, legato all´università e all´ospedale Policlinico. In questo luogo di eccellenza (minacciato dai tagli) arrivano donne giovanissime in condizioni a volte molto gravi. Alcune sono scheletriche, altre invece piuttosto carine - sembra un paradosso: che ci fanno qui? Lo spiega Loriedo: «Possono essere anche più belle di quelle che vede... E invece sono le più malate, le più numerose, e le più a rischio. Di loro non si parla, sono meno alla moda le bulimiche che - dopo le abbuffate - vomitano, o magari si riempiono di diuretici e di lassativi. Si chiamano "condotte compensatorie", e sono proprio quelle che uccidono: per la mancanza di potassio, ad esempio».
Ogni anno 500mila ragazze si ammalano, e il 10% non sopravvive. Dal ´90 a oggi, il numero si è raddoppiato. Altro segno specifico, le patologie alimentari fanno il loro esordio nell´adolescenza, età sempre più critica e criptica. E le cure? Al Centro romano c´è la possibilità del day hospital e del ricovero (tutto gratuito), oltre a un ambulatorio dove otto sedute costano 40 euro. Dice Loriedo: «Oggi nella cura si tende all´integrazione, combinando elementi di diverse scuole (dal sistemico, coinvolgendo le famiglie, al cognitivista). Lavoro d´équipe e sottoposto a supervisione. Prima si tratta di garantire l´esistenza vitale di queste pazienti, anche intervenendo con integratori alimentari e a volte con farmaci».
In questi casi, è improbabile il ricorso al divano psicoanalitico. L´ossessione del corpo magro - esibito come un trofeo - e la compulsività nel rapporto col cibo non sembrano facilmente "interpretabili", per l´assoluta identificazione con il sintomo. «Spesso i disordini alimentari sono tra le varianti della psicosi, rimandano a una scissione arcaica, a un congelamento della vita, a un odio puro»: come di una delle tante facce che può assumere la follia ne parla Luc Ciompi, psichiatra svizzero di fama internazionale (ma nato a Firenze 81 anni fa). «Ogni caso - tiene a dire - è a sé e la terapia non può essere un abito preconfezionato». L´approccio psicodinamico è invece del tutto escluso da Giovanni Liotti, caposcuola del cognitivismo: «Noi centriamo il lavoro clinico su un "contratto", invitando la paziente a comprendere le mete specifiche del trattamento e ad aderirvi esplicitamente, anche attraverso l´impiego di un diario alimentare. Emozioni e pensieri. Nell´analisi accurata dei dati del diario, lo psicoterapeuta è sempre affiancato dal nutrizionista: vanno anche cercati comportamenti alimentari alternativi».

Repubblica 2.11.10
Un saggio di Battini sui legami tra un certo anti-capitalismo e propaganda contro gli ebrei
Le altre radici dell´antisemitismo
Questo studio ricostruisce un percorso storico che arriva fino a Hitler e Mussolini Così sono stati creati una serie di falsi miti e di leggende
di Adriano Prosperi


Italia, agosto 1944: domanda: «Essere qui capitalista di Palestina?». Risposta: «Gli ebrei stanno lì». Il fascista italiano e il nazista tedesco si intendevano, parlavano una stessa lingua. Che era come tutte le lingue frutto di una storia. Comincia così l´ultimo libro di Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino, 2010, euro 18). Un libro importante. Sarebbe un vero peccato se il titolo allusivo depistasse qualcuno dei molti lettori che gli auguriamo. Perché qui si ricostruisce su basi nuove la lunga storia che porta a Auschwitz.
Ci sono due modi per cancellare dalla storia la Shoah: quello di negare semplicemente che sia esistita come fanno i riduzionisti e i negazionisti e quello di chi guarda a lei con riverenza e terrore come a un tumore maligno o a qualcosa di numinoso che eccede la ragione umana. Dunque sulla verità storica grava un´altissima posta in gioco. Se non si assume la Shoah come qualcosa che appartiene alla nostra storia e che affonda le sue radici nel cuore dell´Europa cristiana ci si condanna a fare a meno della conoscenza storica. Non è certo per caso se nel secondo ´900 la nozione di realtà ha conosciuto tempi difficili con la riduzione della storia a narrazione soggettiva, a romanzo. Da lì è nata la messa in mora della prospettiva storica, per cui il senso del futuro si è annebbiato e si è vissuto il presente come "post-moderno" – un tempo di sopravvissuti, smarriti tra le rovine di quello che fu il mondo moderno. È per questo che ogni tentativo serio di affrontare la genesi dell´antisemitismo razzista non può che passare attraverso l´impresa di ricollocarlo nella storia reale. Una impresa che è in corso e si è sviluppata in due tempi: nel primo tempo c´è stato il racconto dei superstiti, quel "bisogno di raccontare agli altri", che Primo Levi avvertì come un "impulso immediato e violento". La testimonianza dei superstiti e l´impegno di ricerca di storici come Raul Hilberg, Saul Friedländer e molti altri hanno eretto una tale mole di conoscenze da rendere insostenibile ogni forma di negazionismo e con essa ogni via di fuga privata dal peso del fardello che grava sulla coscienza dell´umanità. Il secondo tempo è quello dell´indagine sulle radici profonde della Shoah nella storia e nella cultura europea. Un compito che ci sta ancora davanti. E il libro di Michele Battini è un passo decisivo in quella direzione. Qui la ricostruzione dei legami fra la tradizione antigiudaica dell´Europa cristiana e l´antisemitismo moderno si lega a una vigorosa difesa del principio di realtà come fondamento della conoscenza storica.
Quello che nel 1893 August Bebel aveva bollato come "socialismo degli imbecilli" era la maschera assunta dall´antisemitismo come anticapitalismo: un´ideologia che dopo avere alimentato a lungo il contesto intellettuale e politico francese col mito del complotto ebraico-protestante-massonico, trovò accoglienza nella base popolare e proletaria dei partiti socialisti incanalandosi poi nel "socialismo nazionale" hitleriano e nell´ideologia nazionalistica e corporativistica del fascismo. Lungo il percorso il fiume si era ingrossato: vi era confluita la millenaria tradizione dell´antigiudaismo cristiano veicolata da una Chiesa cattolica in guerra contro l´individualismo religioso, morale e economico figlio dell´Illuminismo e della Rivoluzione francese. Come ha scoperto Battini, fu Louis de Bonald che riportò in auge la dottrina di Bossuet sull´alleanza necessaria fra trono e altare legandola a uno dei più violenti attacchi contro gli ebrei tra quanti se ne videro nell´Europa della Restaurazione. Nella crisi della società di antico regime l´avvento del mercato e dell´individualismo economico si legò all´emancipazione degli ebrei. L´incertezza sociale creata dal vorticoso mutamento della società accese un bisogno di radici e di corporazioni protettive. In questo contesto l´antica polemica cristiana contro l´usura poté essere riproposta in versione di attacco all´ebreo come forza devastante della finanza, colpevole della disgregazione sociale e della miseria. Dall´antico odio religioso si passò all´odio razziale: l´antigiudaismo cristiano aveva già in sé tutti gli ingredienti necessari. Prese corpo così il complotto per l´eliminazione degli ebrei: un complotto vero mascherato e annunziato con la fabbricazione di un complotto falso, quei Protocolli dei Savi anziani di Sion che dovevano segnare le tappe dell´avvicinamento al genocidio. E se il primo terreno di incubazione del mito del complotto giudaico e massonico fu la Francia post-rivoluzionaria, lo ritroviamo poi nei paesi protestanti e in quelli cattolici con l´avanzata dello stato costituzionale e dei governi liberali. In Italia l´attacco "sacrilego" alla Roma papale scatenò i gesuiti della "Civiltà cattolica" contro la "guerra anticristiana" giudaico-massonica. Questi fili si raccolsero nel socialismo antisemita e nell´anticapitalismo antiebraico che ritroviamo specialmente presenti in Italia e riassunti nel percorso politico e intellettuale di Paolo Orano e in quello di Mussolini. L´alleanza del fascismo con la Chiesa avvenne nel segno della trasformazione del Gesù ebraico in un Cristo romano, mentre la propaganda del regime e della Chiesa creava nel paese quei sentimenti di ostilità e di indifferenza che accolsero le leggi razziali del 1938. L´esito è noto. E nel riconoscerne le profonde radici culturali e sociali prendiamo atto delle cause che hanno riportato a galla nel nostro tempo e specialmente nel nostro paese tentazioni razziste e antisemite serpeggianti nel linguaggio politico e in quello religioso. Il nemico non ha smesso di vincere – ha scritto Walter Benjamin – e finché vincerà nemmeno i morti saranno al sicuro. È per questo che nel lucido e appassionato "post scriptum" Michele Battini, sulle orme di Carlo Ginzburg, torna a riflettere sul principio di realtà: contro la strategia della disinformazione e della propaganda che ha portato ad Auschwitz, solo una storia che riaffermi nei fatti quel principio può riconciliarci con l´idea di verità e sviluppare una cultura della giustizia.

Corriere della Sera 2.11.10
E il testamento biologico?
Una legge finita nel cassetto
di Mario Pappagallo


Ma che fine ha fatto la legge sul testamento biologico? Approvata in commissione, il suo iter si è insabbiato. In quale cassetto è finita? Andrà al voto o finirà nel dimenticatoio fino a quando non scoppierà un nuovo caso Eluana Englaro? Sotto i riflettori mediatici, mentre il padre di Eluana si batteva perché la figlia dopo 17 anni di coma fosse «lasciata andare» in pace, sembrava una legge fatta. Urgentissima, perché avrebbe impedito al signor Englaro l’applicazione di quanto riconosciuto dai giudici. Poi, a circa due anni dalla morte della ragazza (9 febbraio 2009), della legge sul testamento biologico non parla più nessuno. Sul diritto di scegliere, in vita e in lucidità, di non essere sottoposti ad accanimento terapeutico nel caso che...
Non si tratta di eutanasia, anche se per la sensibilità di molti lo è. È un’indicazione ai medici di lasciar fare, di non usare macchine, di limitarsi a cure palliative senza eccedere in medicalizzazioni estreme. Sembra però impossibile in Italia, dopo quasi 17 anni di discussioni e tre proposte di legge già «insabbiate», arrivare a un’approvazione parlamentare di un provvedimento che riguarda la vita di ciascun cittadino. Forse qualcuno sperava nell’eutanasia, ma solo per la legge. Ed ecco che torna d’attualità. Una donna veneta di 57 anni è dovuta «emigrare» in Olanda per potere veder rispettata la sua volontà di non essere mantenuta a tutti i costi in vita. Che cosa farà il Parlamento? Farà «rivivere» quanto approvato in commissione? Difficile fare previsioni, ma vale la pena ricordare un sondaggio Eurispes sull’eutanasia (scelta ben più controversa): tra i cattolici 38% favorevoli e 48% contrari, tra i non cattolici 69% favorevoli e 18,6% contrari.
Il testamento biologico non è però l’eutanasia, che è invece la richiesta esplicita e cosciente del malato di porre fine a un’esistenza diventata insopportabile. Il testamento biologico è una decisione che poi, da incoscienti (in coma per esempio), non si può prendere: sì o no a un eventuale accanimento terapeutico. Per molti un diritto costituzionale da applicare comunque.

Corriere della Sera 2.11.10
«Imminente l’impiccagione di Sakineh» I rifugiati politici iraniani lanciano l’allarme
di Stefano Montefiori


Il figlio e l’avvocato in carcere fino all’esecuzione. «Il mondo deve mobilitarsi»

PARIGI — Il regime di Teheran sembra avere deciso di stringere i tempi, la vita di Sakineh è più in pericolo che mai. Gli ambienti dei rifugiati iraniani in Francia e in Italia riferiscono di un’accelerazione: la donna accusata di adulterio e di omicidio potrebbe essere impiccata nelle prossime ore, forse domani. «Ho ricevuto un messaggio da una fonte del tutto attendibile a Tabriz — dice Davood Karimi, presidente dell’Associazione rifugiati politici iraniani in Italia —. Dagli uffici giudiziari è trapelata la notizia che Teheran ha dato ordine di non rilasciare nei prossimi giorni il figlio e l’avvocato di Sakineh, entrambi in carcere dal 10 ottobre scorso, perché occorre trattenerli fino all’avvenuta esecuzione della madre».
Manifestanti davanti all’ambasciata iraniana: il mondo si è mobilitato per salvare la vita di Sakineh Mohammadi Ashtiani
«Abbiamo ricevuto anche noi indicazioni di questo tipo — conferma la presidente del Comitato internazionale contro la lapidazione Mina Ahadi —. Ci sarebbe una lettera dell’Alta Corte di Teheran a Tabriz in cui si chiede di non rilasciare il figlio di Sakineh ed il suo avvocato fintanto che la donna non sarà giustiziata».
Sempre ieri il sito iraniano Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, ha annunciato «la confessione» del figlio di Sakineh. Sajjad Ghaderzadeh, 22 anni, disperato difensore dell’innocenza della madre e per questo da 22 giorni torturato in carcere, accuserebbe ora il suo avvocato e compagno di prigionia Houtan Kian di averlo strumentalizzato «per trovare asilo all’estero». «Houtan Kian ha messo me e mia sorella in contatto con Mina Ahadi — dichiara Sajjad —. Una comunista e controrivoluzionaria, abitante in Germania e portavoce del Comitato internazionale contro la lapidazione, vicina agli ambienti controrivoluzionari stranieri». Secondo Raja News, prima fonte filo-governativa a riconoscere l’arresto del figlio e dell’avvocato di Sakineh, Sajjad avrebbe ammesso l’esistenza di una macchinazione occidentale per montare il caso di Sakineh allo scopo di screditare il regime iraniano. Una nuova mossa per fare definitivamente il vuoto attorno a quanti tentano di salvare la vita di Sakineh.
«Il giorno prima del suo arresto, l’avvocato Houtan Kian è stato interrogato per otto ore — dice Mina Ahadi —. Avrebbe potuto fuggire ma non l’ha fatto per non lasciare a loro stesse Sakineh e le altre condannate alla lapidazione».
La 42enne Sakineh, frustata in carcere, è stata costretta in passato a firmare la sua confessione e a comparire in televisione per autoaccusarsi. La stessa tragica sorte sembra ora toccare a suo figlio Sajjad, che prima dell’arresto aveva corso enormi rischi moltiplicando gli appelli all’Occidente. Nei primi giorni di ottobre a Sajjad è stato consigliato di lasciare l’Iran per mettersi in salvo. Lui ha rifiutato per non abbandonare la madre.
Sakineh si trova oggi senza difesa legale: raggiunto da un mandato di cattura, all’inizio di agosto Mohammad Mostafei è fuggito dall’Iran e si trova oggi in Norvegia, dove ha ottenuto asilo politico. Houtan Kian è stato arrestato, e nessun altro avvocato in Iran ha accettato l’incarico. Il comitato contro la lapidazione parla di «ore cruciali» e chiede la ripresa della mobilitazione internazionale.

«Freud non è di grande aiuto per la comprensione di Lutero»
Corriere della Sera 2.11.10
Il cattolico Lutero rivoluzionario per caso
di Paolo Mieli


Fu trascinato dagli eventi alla rottura con Roma

Fino al 1500 l’Europa, pur travagliat a per secoli da sanguinosi conflitti, è stata caratterizzata da una grande unità culturale. Poi venne Lutero, i conflitti divennero guerre di natura religiosa e quell’unità andò in pezzi. L’Europa stessa andò in frantumi. È questa la ragione per cui, Riforma, il nuovo libro di Diarmaid MacCulloch (docente di Storia della Chiesa a Oxford, allievo del grande Geoffrey Elton) che sta per essere pubblicato da Carocci, ha come sottotitolo «La divisione della casa comune europea (1490-1700)».
Scrive Adriano Prosperi nella prefazione che «oggi l’Europa è per noi casa nostra; dovunque si trovino ruderi romani accanto a chiese cristiane riconosciamo la casa comune; ma è anche una casa dove su alcune cose fondamentali si ragiona in maniera completamente diversa; e questo perché la famiglia che vi abitava a un certo punto si divise. Fu una divisione lacerante, con l’esplosione di sentimenti di odio feroce come solo tra fratelli possono scatenarsi. L’eredità comune fu oggetto di contesa, di infinite contestazioni, di guerre sanguinose. I pezzi di quella eredità si sono disseminati qua e là, trasformati fino a rendersi irriconoscibili». E «poiché l’oggetto del racconto è la divisione di un’eredità comune, un tema primario è l’attenzione ai termini e ai concetti: è necessario restaurare il significato originario delle parole, quello che esse avevano prima che la divisione del patrimonio culturale comune ne spezzasse e alterasse il significato. Quando un patrimonio comune è diviso da eredi in litigio, gli arredi della casa di famiglia se ne vanno a comporre gli interni di case diverse. E in un patrimonio culturale la divisione più radicale è quella dei linguaggi: in conseguenza della frattura le stesse parole significano cose diverse da una parte e dall’altra delle mura divisorie che oggi separano le parti attuali di casa Europa». Cominciamo, dunque, da qui.
MacCulloch sottolinea come dal punto di vista linguistico il termine «cattolico» sia oggi «l’equivalente di una matrioska russa»: può indicare il complesso della Chiesa cristiana fondata in Palestina duemila anni fa, oppure la metà occidentale della Chiesa che si scisse dalla corrente principale della cristianità orientale circa mille anni fa, oppure quella parte della Chiesa occidentale che restò fedele al vescovo di Roma (il Papa) dopo il XVI secolo, «ma potrebbe indicare perfino un europeo cristiano protestante convinto che il vescovo di Roma sia un Anticristo, oppure ancora una fazione anglocattolica moderna originatasi all’interno della Comunione anglicana». Lo stesso vale per il termine «protestante». In un primo tempo la parola «calvinista» (o «picard» dalla Piccardia, per la precisione Noyon, dove era nato Giovanni Calvino) fu un insulto per additare al disprezzo chi condivideva le convinzioni di Calvino. Perfino un termine sfuggente come «anglicano» nacque come un’espressione di disapprovazione pronunciata dal re scozzese Giacomo VI, quando nel 1598 cercava di convincere la Chiesa di Scozia del suo scarso entusiasmo nei confronti della Chiesa d’Inghilterra. E «protestante» deriva dalla protestatio, la mozione che Martin Lutero e Huldrych Zwingli presentarono nel 1529 alla Dieta (l’assemblea imperiale) di Spira nella quale i prìncipi e le città che si ispiravano alla Riforma si erano trovati in minoranza. Nel 1547, quando a Londra si stava preparando l’incoronazione a re del piccolo Edoardo VI, i responsabili incaricati di organizzare la processione dei dignitari che avrebbero dovuto attraversare la città destinarono uno spazio nel corteo per i «protestanti», intendendo con ciò il corpo diplomatico dei tedeschi riformatori che si trovavano nella capitale inglese.
Passando poi a un tema più generale, l’autore sostiene che le numerose tesi avanzate per spiegare il cataclisma del XVI secolo con le quali si è tentato di volta in volta di trovare un fattore determinante — la corruzione della vecchia Chiesa, l’avidità dei monarchi per le ricchezze ecclesiastiche, lo spirito individualista di ricerca proprio dell’umanesimo («forze più o meno indeterminate della modernità») — possono contenere, sì, un fondo di verità, ma nessuna di esse «riesce a sciogliere il nodo centrale degli eventi». Bisogna avere il coraggio di dire che «la Chiesa medievale occidentale non si trovava in una fase finale di decadenza», anche se ai protestanti fece comodo dipingerla in quel modo e lo stesso fu per i cattolici, ai quali risultò utile promuovere la Controriforma ad un tempo per combattere il protestantesimo e per porre rimedio alle presunte pecche della cristianità dei secoli precedenti. Ma non era vero. Secondo MacCulloch ai tempi di Lutero «la vecchia Chiesa era immensamente forte e quella forza avrebbe potuto essere vinta solo grazie alla potenza di un’idea esplosiva, idea che viene a coincidere con una nuova esposizione delle idee agostiniane sulla salvezza». Ecco perché, prosegue, «la mia ricostruzione storica della Riforma comporta il ricorso alla descrizione di un pensiero apparentemente astratto e perché la discussione su questi concetti astratti deve farsi talora estremamente intricata. Monarchi, preti, suore, mercanti, contadini, operai furono tutti colpiti da idee che sconvolsero le loro esperienze e i loro ricordi spingendoli a comportarsi in modi nuovi, talvolta ammirevoli e talora mostruosi. La storia sociale e politica non può fare a meno della teologia per comprendere il XVI secolo».
Non sono, dunque, ammesse scorciatoie. MacCulloch stronca, definendolo «uno studio psicologico tanto abile quanto fuorviante», un fortunato libro del freudiano Erik H. Erikson, Il giovane Lutero (Armando) secondo cui l’atto di sfida di Martin ragazzo contro il padre sarebbe all’origine della sua successiva ribellione nei confronti della Chiesa. Tesi che dagli anni Cinquanta, quando fu pubblicato il libro di Erikson, ha fatto molti proseliti anche in Italia. Cesare Cases, ad esempio, nella prefazione alla Vita di Martin Lutero di Claudio Pozzoli (Rusconi) — un testo che pure prende le distanze da ogni interpretazione psicoanalitica volta a stabilire un nesso tra il rapporto di Lutero con il suo genitore e «taluni aspetti estremi della sua religiosità» — si soffermò su quel rapporto padre-figlio con queste parole: «Diventando monaco, Lutero disobbedisce recisamente al padre, minatore divenuto piccolo imprenditore, che nutriva per il figlio le ambizioni dell’arrampicatore sociale e invece lo vede rientrare nell’idea medievale dell’umile fraticello. Alla cerimonia della prima messa, il padre si presentò in gran pompa per affermare la propria posizione e ricordò a Martin il primo comandamento. Fu questa disobbedienza, inconsciamente sottratta all’ambito paterno e proiettata su altre autorità a fare di Lutero, quasi controvoglia, l’eversore di queste autorità e l’apostolo della libertà di coscienza» (il saggio di Cases è nel libro Il testimone secondario, Einaudi).
Sostiene invece MacCulloch che «Freud non è di grande aiuto per la comprensione di Lutero». Certo, prosegue l’autore, Lutero fu «un uomo irascibile e impulsivo, il quale sentiva emotivamente la propria teologia piuttosto che farla dipendere da un’analisi preliminare delle soluzioni logiche al problema di Dio, finendo così per dar luogo a una teologia piena di paradossi e vere e proprie contraddizioni». In qualunque secolo fosse nato «Lutero sarebbe stato uno di quegli uomini capaci di garantire notti memorabili in compagnia, trascorse tanto in allegri divertimenti quanto in liti furiose». Ma Freud non c’entra. Piuttosto chi vuole capire Lutero — come dicevamo — deve fare i conti con una personalità vissuta oltre mille anni prima di lui, Agostino d’Ippona. Vescovo di una comunità cattolica del Nord Africa ai tempi della caduta dell’Impero romano d’Occidente, impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro una Chiesa cristiana rivale, Agostino, nella disputa con Pelagio, sostenne che non le opere terrene ma solo la grazia di Dio avrebbe salvato l’umanità dalla dannazione alla quale era destinata. Le idee di Agostino su salvezza e predestinazione avevano lasciato traccia nel pensiero della Chiesa, soprattutto in Anselmo di Canterbury nel XII e in Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. Idee che mal si accordavano con l’elaborazione della teologia del purgatorio: secondo Agostino gli uomini non erano che esseri indegni votati alla perdizione e non potevano fare nulla di pratico per guadagnarsi la salvezza, meno che mai conquistarsela comprando un pezzo di carta pergamena per abbreviare la loro sosta in una presunta anticamera del paradiso.
E siamo al punto centrale della ricerca di MacCulloch. I più importanti libri sull’iniziatore della Riforma — ad esempio il Lutero di Roland H. Bainton (Einaudi) — danno grande importanza al suo viaggio a Roma nel 1510 e all’impressione che ne ebbe di estrema decadenza della Chiesa. In effetti ci sono prove del fatto che Lutero rimase colpito dall’incompetenza dei preti e dalla corruzione che infestava Roma. Ma per quel che riguardava il culto delle reliquie, il mercato delle indulgenze e la teologia del purgatorio, Lutero fu assai cauto prima di esprimere condanne definitive. Condanne che furono da lui pronunciate molti anni dopo l’esposizione, nel 1517, delle 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg. Anche perché il suo grande protettore, Federico il Savio, elettore di Sassonia (che proteggeva anche Lucas Cranach il vecchio amico di Lutero nonché autore del suo celebre ritratto), aveva ottenuto anche per la chiesa di Wittenberg il privilegio di dispensare indulgenze e addirittura una concessione che accordava la remissione plenaria di tutti i peccati. Per esercitare questo privilegio Federico il Savio aveva costruito un ingente patrimonio di reliquie a cui erano connesse indulgenze di proporzioni enormi. Nella collezione erano compresi un dente di san Girolamo, quattro frammenti di san Giovanni Crisostomo, sei di san Bernardo e quattro di sant’Agostino; quattro capelli della vergine, tre pezzi del suo manto, quattro della sua cintura e sette del velo su cui era schizzato il sangue di Gesù. Le reliquie di Cristo comprendevano un pezzo delle sue fasce di neonato, tredici della mangiatoia, una manciata di paglia, una particella dell’oro portato da uno dei re magi, e tre di mirra, un ciuffo della barba di Gesù, uno dei chiodi piantatigli nelle mani, un residuo del pane usato durante l’ultima cena, un pezzo della roccia da cui era asceso al cielo. E addirittura un ramoscello del roveto ardente di Mosè. Nel 1520 la collezione contava inoltre ben 19.013 ossa di santi. Coloro che visitavano queste reliquie il giorno di Ognissanti (e versavano i contributi stabiliti) ricevevano indulgenze che venivano da un «patrimonio» di riduzione delle pene del purgatorio che ammontava ad oltre diciannovemila secoli (per la precisione 1.902.202 anni e 270 giorni).
A contrariare Federico (e con lui Lutero) non fu dunque il mercato delle indulgenze in sé ma il fatto che papa Leone X per sostenere le spese destinate alla costruzione della Basilica di San Pietro concesse nel 1515, con la bolla Sacrosanctis, un’indulgenza straordinaria, in concomitanza con la quale erano sospese tutte le altre. Inclusa ovviamente quella di Wittenberg. Cosa che, oltretutto, il pontefice fece in base a un patto stipulato con i banchieri Fugger e a vantaggio degli Hohenzollern rivali dei Wettin, al cui casato apparteneva Federico il Saggio. «In realtà», scrive MacCulloch, «Lutero non trovò nulla di speciale da ridire sulla campagna della Sacrosanctis che non fosse altrettanto biasimevole nelle altre pratiche dell’indulgenza; le sue prime proteste apparse in alcuni sermoni del 1516 (l’anno precedente la pubblicazione delle 95 tesi) erano formulate in termini generali, del tutto incuranti del fatto che la stessa Università di Wittenberg beneficiava finanziariamente del sistema che Lutero stava attaccando». La stessa formulazione della tesi 50 («Si deve insegnare ai cristiani che se il Papa conoscesse le estorsioni dei predicatori di indulgenze, preferirebbe che la Basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle») era tale da apparire quasi come un atto di «toccante fede» nei confronti di Leone X. E in ogni caso ben più dure erano state in anni precedenti le critiche al sistema delle indulgenze venute da alcuni dirigenti olandesi del movimento della «Devotio moderna» (Johann von Wesel e Wessel Gansfort) e soprattutto da Thomas Wittelsbach insegnante all’università di Basilea del futuro riformatore Huldrych Zwingli.
In conseguenza di ciò, MacCulloch definisce quella protestante «una rivoluzione scoppiata per caso». Del resto nella Storia della Riforma (il Mulino) anche Joseph Lortz e Erwin Iserloh scrissero anni fa che fino al 1517 Lutero «aveva riscoperto qualcosa di genuinamente cattolico, qualcosa che non doveva necessariamente provocare una lacerazione nella Chiesa»; e che in lui «non c’era l’audace intenzione di promuovere una rottura con la Chiesa» ma anzi «divenne riformatore senza volerlo»; tanto più che il contenuto delle Tesi «non era affatto in contrasto con le dottrine allora sostenute dalla Chiesa».
Sostiene MacCulloch che Leone X considerò le prime controversie successive alla pubblicazione delle tesi alla stregua di momenti della «solita baruffa tra domenicani e agostiniani». E ordinò agli «agostiniani tedeschi di regolare da sé quella fastidiosa faccenda» in una riunione che avrebbero tenuto nell’aprile del 1518. Riunione nel corso della quale Lutero prese la parola e pronunciò un discorso così intenso che un osservatore domenicano, Martin Bucero, ne restò estasiato e passò dalla sua parte. Nel 1519, all’università di Lipsia, Lutero si spinse a riabilitare il riformatore boemo Jan Hus condannato al rogo per eresia un secolo prima, nel 1415 («Sono sicuro che molte delle convinzioni religiose di Hus erano assolutamente evangeliche e cristiane», disse in quell’occasione). L’anno successivo, 1520, Lutero stesso fu condannato per eresia dalla bolla papale Exsurge Domine. Il caso finì all’attenzione di Carlo V, eletto imperatore non ancora ventenne nell’estate del 1519, il quale tuttavia lo gestì con grande accortezza. Convocò il ribelle nella prima riunione della Dieta imperiale fissata a Worms nell’aprile del 1521. Lutero vi giunse dopo un giro trionfale in tutta la Germania e non rinnegò i tre scritti che gli avevano dato quella popolarità: Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa, Della libertà del cristiano. E all’imperatore che gli chiedeva di ritrattare rispose di no con le parole rimaste famose: «Hier stehe ich. Ich kann nicht anders» («Sto qui saldo. Non posso fare altrimenti»). Carlo V si comportò in modo assai diverso da quel che aveva fatto il suo predecessore Sigismondo, al concilio di Costanza, con Jan Hus e, pur condannando Lutero, rese onore alla sua condotta rispettosa. Fece anche di più: consentì a Federico di inscenare un finto rapimento di Lutero così da poterlo nascondere per dieci mesi a Wartburg, in una roccaforte che apparteneva alla sua famiglia.
E fu in quei dieci mesi che si ebbe la vera rivoluzione. È quel che sostengono anche studiosi del tradizionalismo cattolico. Per comprendere le caratteristiche di quel che accadde nei «dieci mesi» torna utile un libro pubblicato qualche anno fa da Roberto de Mattei, A sinistra di Lutero (Città Nuova) che racconta come tra il maggio del 1521 e il marzo del 1522, quando Lutero si trovava nascosto nel castello di Wartburg, cominciò a delinearsi tra i suoi seguaci un’ala radicale, influenzata dalle dottrine dei cosiddetti «profeti di Zwickau», dal nome della cittadina della Sassonia, vicina al confine boemo, da cui provenivano. Guidati da Nikolaus Storch, i «profeti» sostenevano che l’ispirazione dello Spirito Santo era per ogni credente l’unica regola di fede e di condotta; predicavano il battesimo amministrato ai soli adulti, in base alla premessa luterana secondo cui i bambini non possono conoscere la vera fede. Secondo de Mattei le sette radicali che presero piede in quei dieci mesi non furono un fenomeno marginale ma costituirono «la forza propulsiva della rivoluzione religiosa del secolo XVI, prefigurando temi e motivi della seconda grande Rivoluzione, quella francese, trasposizione della rivolta protestante sul piano politico e sociale» (come aveva sostenuto Plinio Correa De Oliveira in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione pubblicato in Italia dalle edizioni Cristianità).
Scrive MacCulloch che Lutero uscì temporaneamente di scena nel maggio del 1521, «lasciando alle sue spalle un mondo in preda a una sbalordita sorpresa». Quando si ripresentò, poi, nel marzo del 1522, «fu nel disperato tentativo di mettere un argine alla rivoluzione che egli aveva provocato». Ma era tardi. Mentre lui era rimasto in volontaria reclusione nel castello di Wartburg, la storia dell’umanità e in particolare quella dell’Europa era irrimediabilmente cambiata.

Corriere della Sera 2.11.10
«Tutti insieme turchi, neri e gialli» E Voltaire inventò l’Onu
di Giulio Giorello


La lezione del filosofo anticipa il dibattito sul relativismo e la convivenza tra diverse fedi

Si può essere perseguitati… anche da esseri che non esistono. Sotto «le palme che ornano le sponde dell’Eufrate» il babilonese Zadig, giovane di corpo elegante e di mente sottile, capace di intuire la natura di un qualsiasi animale, domestico o selvaggio, dai più piccoli indizi lasciati sulla sabbia, passa da una disavventura all’altra per la crudeltà e l’insensatezza dei propri simili. Il peggio gli viene dagli altezzosi sapienti che lo incastrano in «una grande disputa circa una legge di Zoroastro che proibisce di mangiare carne di grifone». Gli uni sostengono che la disputa è inutile, perché i grifoni sono solo creature immaginarie; gli altri si rifiutano di credere che il fondatore della loro religione abbia dato una disposizione totalmente vuota. Zadig cerca di mettere pace: «Se i grifoni esistono, non mangiamoli, e se non esistono, non li mangeremo di sicuro! In entrambi i casi obbediremo tutti al profeta». Il nostro eroe rischia di finire impalato. Se la cava (grazie alle arti di una bella fanciulla che lo ammira) con la fuga; prende la via dell’esilio senza risentimento alcuno per chi lo ha cacciato. Dopotutto, «non si deve infierire nemmeno sui cani quando mordono».
Nella parabola di Zadig (1745-1747) c’è tutto il Voltaire della difesa teorica della tolleranza e della protezione pratica delle vittime dell’oppressione politica e del fanatismo religioso. La Babilonia di quel leggendario personaggio, degno delle Mille e una notte, non è molto diversa dalla Francia del Settecento, ove la sopraffazione imperversa sulla carne dei più deboli. Voltaire ha le idee chiare: «Se la religione non causa più guerre civili, il merito è tutto della filosofia che ci ha insegnato a considerare le diatribe teologiche alla stregua delle baruffe di Gilles e Pierrot», scrive nel Dizionario filosofico. E ancora: «Se si fosse completamente convinti di qualcosa, non si sarebbe intolleranti. Si è intolleranti solo perché in fondo al cuore si comprende che ci si sta sbagliando».
È l’esercizio stesso della filosofia che svela la radice profonda di ogni dogmatismo. La ragione mette in luce l’arbitrarietà delle prigioni intellettuali in cui gli esseri umani finiscono per rinchiudersi. A suo tempo Blaise Pascal, colpito dalla fragilità della creatura umana, l’aveva definita come un giunco che il vento piega verso il fango, ma è però dotato della meravigliosa capacità di pensare. In un ideale contrappunto Voltaire aggiunge che sarebbe ben stolto che uno di questi giunchi minacciasse gli altri perché osano «strisciare» in un modo diverso dal proprio!
Nelle Lettere filosofiche (1734) Voltaire si compiace di sottolineare che «un qualsiasi inglese, da uomo libero, va in cielo per la strada che sceglie da sé». È la pluralità delle confessioni che ha migliorato la coesistenza civile al di là della Manica: «Se ci fosse in Inghilterra una sola religione, si dovrebbe temere il dispotismo; se ve ne fossero due si taglierebbero la gola; ma ve ne è una trentina e vivono in pace e felicemente». L’isolamento e la mancanza di cultura cementano la presunzione di essere i soli possessori della verità; il contatto con altre forme di vita e la conoscenza scientifica instillano, invece, il senso della relatività di religioni e ideologie.
C’è da sospettare che perfino oggi Voltaire sarebbe tacciato di essere un «relativista»; e per di più gli si rinfaccerebbe pure una sorta di sdegnosa indifferenza nei confronti delle «sublimi» concezioni circa grifoni e… altri enti che popolano i tomi di filosofi e teologi. Si dimentica, però, così che la tolleranza per Voltaire non è un lusso intellettuale di qualche spirito aristocratico bensì è la risposta, politicamente audace e coraggiosa, a secoli di sangue versato in nome di Dio, magari del Dio d’amore dei cristiani. È questa la consapevolezza che traspare in modo maturo nell’opera che va in edicola con il «Corriere», il Trattato sulla tolleranza (1763): «Osiamo credere, a onore del secolo in cui viviamo, che non vi sia in tutta Europa un solo uomo illuminato che non consideri la tolleranza come un diritto di giustizia, un dovere prescritto dall’umanità, dalla coscienza, dalla religione; una legge necessaria alla pace e alla prosperità degli Stati».
Non c’è da stupirsi troppo, allora, della tagliente battuta di Denis Diderot: «Se ci fosse un Cristo, ti assicuro che Voltaire sarebbe salvato!». Pur non risparmiando il sarcasmo per le forme storiche del cristianesimo, Voltaire, infatti, non dimentica mai il suo Dio garante di giustizia e fondamento dello stesso ordine politico. Questo è anche il suo limite, almeno agli occhi di una critica che vede nella prospettiva del Trattato sulla tolleranza un arretramento rispetto ad alcuni temi già presenti nell’Illuminismo.
Per esempio, Jonathan Israel, autore di libri come Radical Enlightenment (Oxford University Press, 2001) ed Enlightenment Contested (Oxford University Press, 2006), sostiene che l’età dei Lumi cominci negli anni Sessanta del Seicento, in particolare con gli scritti di Baruch Spinoza e degli altri della sua cerchia di «libertini» — libertari e repubblicani, sostenitori dello Stato solo come garante della più piena libertà di coscienza. Riemergerebbe quindi nel primo Settecento in una versione assai più moderata, deista e filomonarchica, sospettosa degli eccessi «libertini» che potrebbero scivolare pericolosamente nell’anarchia — trovando un’espressione esemplare nell’«anglomania» di parecchi intellettuali del continente europeo, affascinati sia dalla scienza di Isaac Newton sia dalla filosofia di John Locke. Come Dio nei cieli, così il potere sovrano sulla Terra. Per dirla ancora con Voltaire: «Guardate il Gran Turco, governa ghebri, baniani, cristiani greci, nestoriani, romani. Il primo che vuole suscitare tumulto, è impalato, e tutti stanno tranquilli».
È questo dispotismo illuminato che consente di esercitare il principio voltairiano per eccellenza: «Continuate a essere tolleranti: è il vero mezzo per piacere all’Essere degli Esseri, che è ugualmente il padre dei turchi e dei russi, dei cinesi e dei giapponesi, dei negri, dei castani e dei gialli, e dell’universa natura». Soluzioni legislative a parte, potrebbe sembrarci un embrione di qualcosa come l’Onu. Tuttavia, dall’ideale Palazzo di vetro di Voltaire sarebbero esclusi gli atei — quegli stessi spiriti forti a cui invece un Pierre Bayle nei suoi Pensieri sulla cometa (1682) riconosceva qualche chance nel costruire una società di liberi e uguali.
Ma prima di liquidare Voltaire come l’antesignano di una burocrazia di funzionari che in nome di questo o quello Stato, o perfino dell’intera Umanità, avrebbe istituzionalizzato forme di coesistenza che salvano la diversità, guardandosi bene dal favorire «la libertà di pensiero, di critica e di condotta», non possiamo non apprezzare in Voltaire l’arguzia e l’ironia, la leggerezza dello stile e la profondità degli argomenti, la passione per la conoscenza e il sentimento di pietà per le debolezze umane. Il tutto mai separato dal senso del piacere, come mostra un aneddoto assai caro al filosofo, che riguarda lo scienziato olandese Christiaan Huygens, attento osservatore di Saturno e dei suoi anelli. «Si applicò anche a osservare Venere e scoprì mademoiselle Ninon Lenclos». Voltaire citava divertito i versi «vagamente geometrici» del grande astronomo e matematico: «Ella ha cinque strumenti di cui sono innamorato:/ i primi due, le sue mani; gli altri due, i suoi occhi./ Per il più bello di tutti, il quinto che rimane,/ bisogna essere focosi e disinvolti». Non ci pronunciamo su Huygens, ma certo Voltaire era entrambe le cose, e in modo eccellente.

Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini


Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta

Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte

lunedì 1 novembre 2010

l’Unità 1.11.10
Stacchiamo la spina al governo Berlusconi
«Fini sia coerente: i fatti dopo le parole. Non si può digerire tutto»
Per Bersani va chiuso il «gioco del cerino». Monito anche alla Lega Cesa: «Dimissioni inevitabili». Di Pietro: «Premier non all’altezza» Asse Pd-Fli al Copasir: serve un chiarimento sul ruolo della scorta
Il segretario del Pd chiede «coerenza» al presidente della Camera: «L’ho ascoltato, ha usato parole giuste, ma ora servono fatti giusti». Briguglio per i finiani e Rosato per il Pd chiedono di investire il Copasir del “caso Ruby”
di Simone Collini


«Ho ascoltato Fini. Sono parole giuste. Ma adesso servono fatti giusti». Bersani dichiara pubblicamente quello che negli ultimi giorni sta dicendo in privato. Dopo lo scoppio del “caso-Ruby” si è intensificato il pressing del Pd sui finiani affinché abbandonino la strategia del lento logoramento e rompano subito con Berlusconi per dar vita a un governo di transizione che approvi una nuova legge elettorale per poi andare al voto. Il leader del Pd sa bene che chi provoca una rottura rischia di pagarne le conseguenze in termini di consenso elettorale, ma pensa anche che questo «gioco del cerino» non possa più durare di fronte a un paese alle prese con problemi seri, privo di una guida politica e con un premier che telefonando alla Questura di Milano per chiedere il rilascio della minorenne marocchina ha abusato del suo potere per fini privati. «Se digeriamo anche questa non so cosa possa pensare il mondo di noi». Così, al Tg3 della sera lancia un esplicito messaggio a Fini: «Dia coerenza alle parole che ha pronunciato e stacchi la spina». È vero che ora anche il presidente della Camera si è spinto a dire che, se confermata, la vicenda Ruby costringerebbe Berlusconi a «un passo indietro». Ma per il leader del Pd, conoscendo il soggetto, le dimissioni difficilmente arriveranno per iniziativa spontanea del premier.
Le forze dell’opposizione sono compatte nell’invocare la crisi. Ma, numeri alla mano, non sono sufficienti per provocarla in Parlamento. «Berlusconi deve dimettersi», dice il leader dell’Idv Antonio Di Pietro dicendo che il premier «evidentemente non è all’altezza di ricoprire il ruolo istituzionale». E anche il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa dice che le dimissioni «sono inevitabili»: «Ci appelliamo alle persone più responsabili del centrodestra perché assumano l’iniziativa di dare vita a una fase politica nuova». È proprio questo il punto. Senza il contributo di chi, in maggioranza, esprime aperte critiche o più o meno celati disagi, non si arriverà alla crisi. Per questo Bersani frena chi, come Di Pietro, vuole affrettare i tempi per una mozione di sfiducia e pensa invece a un’operazione che potrebbe anche tradursi in una «mozione di censura» che coinvolga «anche forze che vanno oltre il centrosinistra». Fini ma non solo. Dice il leader del Pd: «Voglio dire alla Lega, che ha predicato moralità contro le cricche, che ha predicato su temi economici, fiscali e così via, cosa ha dire di fronte a quello che sta accadendo?».

l’Unità 1.11.10
Nipoti e figli maschi
di Concita De Gregorio


Avevamo detto che avremmo contato tutti insieme, lo abbiamo fatto. “Prevediamo che in 10 giorni la situazione potrà tornare nella norma”, ha detto in conferenza stampa a Palazzo Chigi il 22 ottobre il presidente del Consiglio. Siamo lieti di annunciarvi, dunque, che oggi l’emergenza rifiuti è finita. Terzigno, Giugliano. Non lasciatevi ingannare dalle foto. Neppure da quelle del sabato pomeriggio in via Toledo, il cuore di Napoli, con le montagne di immondizia davanti ai ristoranti del centro. Propaganda nemica. Quello che conta sono le parole, anzi: la parola. Parola di Silvio B. “Dottore, questa ragazza è la nipote di Mubarack. La conosco”. Vi fidate? Davvero vi fidate ancora? Perché questo è: una questione di fiducia.
Poiché l’opposizione «per il momento», ha detto ieri Bersani non ha i numeri in Parlamento la mozione di censura che possa aprire un voto sulla fiducia è questione sostanzialmente nelle mani del centrodestra. In primo luogo di Fini, che ieri ha definito l’Italia «dilaniata» ed ha ben descritto l’imbarazzo che suscita nel mondo intero il traffico di prostituzione e di minorenni a Palazzo, con annesse interferenze sulle Questure. Se per una volta Fini facesse seguire alle parole i fatti questo sarebbe il primo tassello. L’Udc sembra orientata a sostenere la mozione di sfiducia. Qualcosa scricchiola anche nella Lega. Di nuovo, anche per la Lega, è difficile conciliare la battaglia
alla prostituzione e all’immigrazione clandestina con il sostegno a Silvio B. in questa circostanza, salvo che non si dica che la prostituzione è consentita solo a palazzo e che gli immigrati vanno bene solo se fanno la lap dance. Sono giorni cruciali, di contatti e colloqui. Si potrebbe davvero arrivare ad un’intesa fra le opposizioni e quelle forze del centrodestra che non si riconoscano più in questo stile di non-governo, in questo decadente e pericoloso fine impero. Se ci si arrivasse, se come ci auguriamo il Parlamento avesse un sussulto di dignità e prendesse le distanze da questo grottesco epilogo del sultanato italico, si aprirebbero le porte ad un governo di scopo, o di transizione, o di sicurezza nazionale. In alternativa, voto subito. Tutto sarà comunque meglio di questo, dei colpi di coda che può ancora riservare.
P.s. A proposito del disastro culturale causato dal berlusconiano way of life lasciatemi sottolineare due “non detto” della vicenda Ruby. Il sottotesto, quello che passa ad un livello diverso dalle parole. Passa, con estrema naturalezza, che se sei nipote di qualcuno hai diritto a non sottostare alle regole, se non sei nipote di nessuno no. Se Ruby fosse davvero stata la nipote di Mubarack avrebbe avuto diritto di essere rilasciata? Naturalmente no. È bene dirlo, perché può sfuggire. È questo, letteralmente, il nepotismo che dilaga. Secondo punto: amo le donne ho giornate molto faticose mi rilasso così. Si rilassa con quaranta ragazze reclutate per gli spettacolini. Non è forse normale? Non sono forse le donne state create per questo? Il riposo del guerriero, il piacere per gli occhi. Geishe, odalische, puttane. Se Angela Merkel si riposasse la sera con quaranta adolescenti gigolò lo trovereste normale? Anche in questo caso vi dareste fuoco perché vostro figlio maschio fosse ammesso alla festa? Se la risposta è no, ecco: qui sta il problema.

l’Unità 1.11.10
Generosità da lap dance
di Silvia Ballestra


Scattato lo scandalo – il prodigioso Bunga Bunga che tutto il mondo non ci invidia – scatta repentina anche la costruzione difensiva, urgente mitologia del ribaltamento in cui il protagonista negativo diventa eroe. La si presenta (nei Tg amici, sui giornali di proprietà, nelle parole dei sodali) in una specie di melodramma ottocentesco denso di sapori deamicisiani. Lei, la giovane Traviata bisognosa di aiuto. Lui, il ricco e potente benefattore che corre in soccorso, con cavallo bianco (diciamo un pony, va’). Bella storia, ben studiata. Ma che finisce per fare acqua da tutte le parti e risultare ridicola non meno della storiella internazionale (tutto il mondo ne ride) della nipotina di Mubarak. Prima di tutto, la giovane Traviata non appare per nulla contrita, né indifesa, né timida. Girano sue foto da far paura, dispensa lezioni di etica e morale ma gira con mazzette di contanti in borsetta, gioca alla piccola fiammiferaia ma promette libri, interviste esclusive e rivelazioni. E poi lui, il benefattore, quello che “quando c’è da far bene non mi tiro indietro”, che ha evidentemente una concezione del bene un po’, come dire, Bunga Bunga. Perché a una minorenne in difficoltà, se sei l’onnipotente “Ghe pensi mi”, dovresti come minimo offrire un’istruzione, pagare un collegio in Svizzera, o una scuola professionale. Invece il grande benefattore che fa? In pratica la ripiomba nel suo mondo di pali da lap-dance, maschi predatori e chissà quali altre peggiori destinazioni. E quindi, vien da dire, dove sarebbe il bene dispensato? Le generosità sarebbe sottrarla alla tutela del Tribunale dei minori? Un po’ poco per il Grande Benefattore. Poco anche per una come Ruby Rubacuori, povera stella, che di cuore non ne ha mai rubato nemmeno uno, figurarsi poi a chi non ne ha.

Repubblica 1.11.10
Il cavaliere, l'amore per la vita e la donna riposo del guerriero
di Michela Marzano


Berlusconi non fa nulla di male: ama la vita e le donne. Perché i giornali, ancora una volta, si accaniscono contro di lui? Perchè volergli impedire di passare ogni tanto una «serata distensiva» dopo gli sforzi massacranti che compie quotidianamente? Perchè tanto rumore per nulla? Ma il nostro premier non si scompone. Lui è «sereno». Ancora una volta, è la vittima innocente di una «spazzatura mediatica» che ne infanga l´immagine. Tanto più che gli Italiani non si lasciano più incantare dalla propaganda giornalistica e continuano a rinnovargli la fiducia. Molti sono gli uomini che lo ammirano in silenzio. Numerosi coloro che vorrebbero trovarsi al suo posto per godersi anche loro il meritato riposo del guerriero che, tornando a casa la sera dopo aver lottato contro i nemici della patria, viene accolto dalla dolcezza e dalla disponibilità delle proprie donne. Peccato che in questo quadro idilliaco fatto di lavoro accanito e di gioie domestiche le donne continuino a giocare sempre lo stesso ruolo: comparse marginali di un copione i cui gli eroi sono gli altri, gli uomini, coloro che le amano tanto. Ma che senso può mai avere la parola «amore» - di cui il nostro premier si riempie la bocca - in un mondo in cui la donna non è altro che una «terapia mentale»?
Il potere non logora solo chi non lo ha, ma anche chi lo subisce: i sudditi sottomessi di un regno il cui sovrano considera scontata e banale la sottomissione delle donne. Chi sono infatti queste donne che ama Berlusconi? Donne facili e disposte a tutto pur di riuscire, come sussurrano alcuni con disprezzo? Donne fragili e indifese che si rivolgono al capo in cerca di protezione, nella speranza di ottenere qualcosa - la cittadinanza italiana, un casting per qualche spettacolo televisivo, un posto in una lista elettorale? Donne come le altre, magari affascinate dal potere, che non riescono a rendersi conto che le immagini vanno e vengono e che la bellezza e la giovinezza svaniscono col tempo? Quanto all´amore per queste donne, cos´altro è se non il retaggio di una cultura maschilista che continua a credere che l´unico rapporto possibile tra gli uomini e le donne sia la dipendenza?
Secoli di oppressione femminile ci hanno insegnato che le donne dipendono dagli uomini perché hanno bisogno, per esistere, che l´uomo le protegga. Anche se, per essere protette, sono poi pronte a sacrificare desideri e aspirazioni personali, e a sottomettersi al volere e alle pulsioni maschili. Secoli di maschilismo ci hanno abituato ad accettare la «servitudine volontaria» delle donne, come scrisse La Boétie. Esattamente come ci hanno insegnato che gli uomini sono pronti ad essere dolci e paterni, a patto però che le donne accettino di «pulire (loro) il cervello da tutte le preoccupazioni quotidiane».
Perché stupirsi allora che molti italiani giustifichino Berlusconi per la «vita straordinaria che conduce»? Il modello proposto, riproposto e valorizzato non è forse quello tradizionale e patriarcale che permette solo agli uomini di occuparsi della «cosa pubblica»? Niente è più forte dell´abitudine. Per abitudine si accetta tutto. Si crede perfino che l´amore di un uomo per le donne consista a giocare a bunga bunga con alcune minorenni, creando relazioni inegalitarie e fondate sulla dipendenza.
Nell´amore c´è sempre una dose di dipendenza. Ma la dipendenza, nell´amore, è sempre reciproca e non esclude mai la possibilità dell´autonomia. Anzi, è proprio quando ognuno ha possibilità di essere se stesso indipendentemente dall´altro (dal suo sguardo, dalle sue parole, dalle sue attese, dai suoi desideri) che può poi «consentire» alla dipendenza momentanea in cui lo «getta» la passione. Nell´amore c´è sempre una parte di gioco, istanti in cui le nostre fragilità e i nostri infantilismi incontrano le fragilità e gli infantilismi dell´altro. Ma amare significa soprattutto «prendere sul serio» i desideri dell´altra persona, anche quando questi desideri non coincidono con i nostri. Costruire uno spazio in cui ognuno possa esistere, esprimersi, gioire, talvolta soffrire. Di quale amore allora si parla quando le donne vengono trattate come semplici oggetti di pulsioni? Quando servono soprattutto (se non unicamente) a permettere agli uomini di passare una serata piacevole e a svuotarsi il cervello dalle preoccupazioni lavorative?


Corriere della Sera 1.11.10
Il coraggio della verità
di Ernesto Galli Della Loggia


Che cos’altro deve succedere perché il Pdl si ricordi di essere, sia pur allo stato fantasmatico, un’entità che dice di essere un «partito»? Che cos’altro deve succedere perché i suoi deputati e senatori si accorgano che continuando così almeno la metà di loro non rivedrà mai più il Parlamento, e può considerare chiusa la propria carrier a politica? Eppure, che la situazione della maggioranza sia sull’orlo del collasso è evidente a tutti, così come è altrettanto evidente che di questo passo rischia di subire un danno irreparabile l’immagine stessa del Paese e quel poco o tanto che resta del suo rango internazionale.
Non si tratta dell’avventurosa vita notturna del presidente del Consiglio, della quale egli mostra troppo spesso di sottovalutare i rischi. Fin dall’inizio ci siamo volenterosamente sforzati di dire che in fondo (e sia pure entro certi limiti) tutto questo riguardava la sua vita privata: convinti tra l’altro, come i fatti hanno finora dimostrato, che non sarebbe stato certo agitand o taliargo mentiche l’opposizione sarebbe mai riuscita ad avere la meglio. Né si tratta della ben nota disinvoltura istituzionale del premier: disinvoltura che spetterà al magistrato appurare se nell’ultima vicenda della ragazza marocchina abbia superato o no il confine della legge. No, non si tratta di tutto questo, o non solo di questo. E neppure tanto della paralisi dell’azione di governo, che pure è un dato reale. Si tratta del fatto che negli ultimi mesi è venuta meno nell’esecutivo qualunque capacità di direzione e di coordinazione, qualunque consapevolezza della quantità e della gravità dei problemi sul tappeto se non al livello della pura emergenza. Palazzo Chigi ha perduto la pur minima capacità di ascoltare e di rappresentare il Paese. L’Italia è — ed ancor più si sente — una nazione allo sbando. Chi ha la responsabilità di essere stato eletto dal popolo lo capisce? Ha gli occhi per vederlo?
È dunque inconcepibile che in una situazione del genere non si apra nel Pdl una discussione approfondita e senza riguardi per nessuno su quello che sta accadendo. Ripetere, come fanno un po’ tutti i suoi esponenti, che questo sarebbe il momento di «resistere», di «tener duro», di «restare uniti», è un vano esercizio retorico da assedio di Forte Alamo. Nella sostanza è puro nullismo politico. Per giunta all’insegna dell’ipocrisia, dal momento che è noto a tutti come, tra l’altro, proprio i «resistenti» più esagitati siano assai spesso quelli che, nei capannelli e dietro le quinte, vanno poi dicendo le cose peggiori sul conto del presidente del Consiglio, rivelando e stigmatizzando, quasi con sudicio compiacimento, le sue défaillance di ogni genere.
Non è più il tempo dei camerieri zelanti e bugiardi. È giunto il tempo della verità. Se vuole avere ancora un qualche futuro politico, se non vuole ripetere in un registro grottesco la tragedia del Partito socialista nel 1992-1993, il Pdl deve dimostrare oggi — oggi o mai più — di volere, e di potere — essere un organismo politico reale. Fermandosi a considerare la propria storia e affrontando quei nodi che fin qui non ha mai voluto affrontare. C’è bisogno di ricordarli? Il ruolo, certamente decisivo ma a dir poco ingombrante del suo fondatore e capo, di Berlusconi; il modo di reclutamento e la qualità del suo personale politico, sempre cooptato e quasi sempre improbabile e raccogliticcio, quasi sempre privo di vera esperienza e di legami con l’elettorato (e in più di un caso anche di dubbia o accertata pessima origine); l’assenza patologica al suo interno di discussione e di decisioni collettive; l’ottuso compiacimento plebiscitario, il disprezzo plebeo per la costruzione di qualunque consenso che non sia quello da comizio. E infine il carattere e lo scopo del proprio programma, del proprio ruolo politico generale. Non si può campare in eterno sull’abolizione dell’Ici o sull’opposizione virulenta alla sinistra e alle procure della Repubblica. L’Italia ha bisogno di qualcos’altro. Di molto altro. Per tutto ciò è inevitabile dispiacere al Cavaliere? Certamente. Ma il destino di un’ormai lunga e importante avventura politica oggi si decide su questo e solo su questo: sulla verità e sul coraggio di dirla.

Corriere della Sera 1.11.10
Il cavaliere e le mosse per evitare un 25 luglio
di Francesco Verderami


Le voci sul sottosegretario «salvatore» di partito e coalizione. Ma con l’uscita da Palazzo Chigi il premier perderebbe la politica e lo scudo giudiziario
Premier infuriato per gli incontri di ministri e dirigenti pdl: l’ombra di un incarico a Letta
La partita politica si è trasformata in un estenuante gioco dell’oca, in cui nessuno riesce ad arrivare alla casella finale e dove tutti a ogni giro si indeboliscono. E non c’è dubbio che Berlusconi sia molto più in difficoltà degli altri, perché il «caso Ruby» non solo ha consentito ai suoi avversari di accelerare le manovre di accerchiamento, ma ha acuito le tensioni nel Pdl, dove si respira un clima da ultima spiaggia e si prefigura addirittura un futuro senza il Cavaliere. Da un mese ormai Berlusconi osserva le mosse di ministri e dirigenti del Pdl, che si riuniscono in conclavi più o meno riservati, sempre in sua assenza. L’ultimo vertice, la scorsa settimana, l’ha fatto infuriare e preoccupare al tempo stesso, alimentando i suoi sospetti. Perché l’incontro è coinciso con i boatos su un possibile cambio della guardia a Palazzo Chigi per un nuovo esecutivo, sempre di centrodestra, ma guidato da Gianni Letta, che dovrebbe avere — ovviamente — il benestare dell’attuale premier. È difficile immaginare la vigilia di un «25 luglio» per il Cavaliere, ma è certo che il nome del suo storico braccio destro sia passato di bocca in bocca, come unica opzione accettata dal Quirinale e che consentirebbe di salvare la coalizione e il partito dall’implosione.
È tutto da verificare se si tratti di una possibilità concreta o di un’ipotesi priva di fondamento, è certo che per ora non si è trovato nessuno nel Pdl disposto a rischiar la pelle per sottoporre il progetto al Cavaliere. Intanto perché se lo accettasse, annuncerebbe di fatto l’addio alla politica, dato che — ammettendo il proprio fallimento — non avrebbe più la possibilità di riproporsi come candidato premier alle prossime elezioni. Eppoi perché se uscisse da Palazzo Chigi, il giorno dopo — senza più lo scudo del legittimo impedimento — sarebbe costretto a entrare nell’aula del tribunale di Milano, dove l’attende il processo sul «caso Mills». Inoltre, come spiega il ministro Matteoli, «per primo Gianni non accetterebbe una simile evenienza, nemmeno se lo costringessero con la forza».
Insomma, sarà pur vero che nel Pdl prende corpo l’idea di chiedere a Berlusconi di «passar la mano», che il timore di un’azione di logoramento dentro e fuori il Parlamento porti con sé la preoccupazione per l’avvento di un governo tecnico. Ma il costo per il Cavaliere sarebbe altissimo, eppoi non è detto che la proposta verrebbe accettata da Letta, restio fino ad ora a muoversi fuori dalla logica che gli ha fatto sempre dire di voler rimanere «un servitore dello Stato ma estraneo alle vicende politiche». Due anni fa, alla vigilia del voto, Berlusconi gli mostrò la lista del Pdl per il Lazio, con il suo nome in cima: «Silvio, se insisti me ne vado», fu il suo commento. E comunque una simile opzione non incontra il favore della Lega, che per bocca di Maroni ieri ha ripetuto: «Questo governo o elezioni». Perché è «questo governo» — ha spiegato Tremonti ad alcuni dirigenti del partito — che «ha la fiducia dell’Europa ed è in grado di offrire garanzie a Bruxelles».
Il punto è che l’ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto Berlusconi potrebbe arrecare nuovi danni al Cavaliere. E ieri Fini ha fatto capire che il suo appoggio all’attuale esecutivo è sub iudice, aprendo così la porta a ogni soluzione. Ma non è il giudizio sulla vicenda della minorenne marocchina il vero dato della nuova offensiva del presidente della Camera, quanto le critiche rivolte nei giorni scorsi sulla riforma della giustizia: perché il leader del Fli ha avvisato il governo di non sottoporre la magistratura al potere politico, nonostante sia l’unico a cui il Guardasigilli Alfano ha consegnato l’articolato del progetto? E in quel testo non c’è l’ipotesi osteggiata da Fini. Si prepara forse a dare il benservito al Cavaliere la prossima settimana, alla convention nazionale del suo nuovo movimento? Improbabile.
Tuttavia, l’eventualità che si approssimi lo show-down ha indotto il leader del Pd Bersani a dire in pubblico ciò che aveva detto in privato al presidente della Camera: «Stacca la spina a Berlusconi». Ed è bastato che nel Fli prendesse corpo l’ipotesi di un «appoggio esterno» al governo per scatenare il putiferio tra «falchi» e «colombe». Perché il Cavaliere avrà pure i suoi problemi a gestire il Pdl, ma anche tra i finiani la tensione è altissima, al punto che due settimane fa — nel corso di una riunione del gruppo — Moffa e Granata sono venuti letteralmente alle mani. Cosa accadrebbe se l’ex cofondatore decidesse di rompere definitivamente? Come non bastasse, il clima è pesante persino nel Pd, se è vero che l’area dei «Rottamatori», guidata dal sindaco di Firenze Renzi, è pronta a muovere contro il progetto del segretario e di D’Alema di appoggiarsi a Fini per far saltare il Cavaliere.
Per il premier resta comunque molto complicato uscire dall’angolo in cui si è ficcato. Da un mese ha ripreso a corteggiare con insistenza l’Udc, e non a caso ieri ha detto ai suoi «evitiamo di attaccare Casini». Ancora venerdì scorso — con il «caso Ruby» già esploso — la trattativa andava avanti, e Berlusconi si mostrava disposto a cambiare il proprio esecutivo per far posto ai centristi. Non è chiaro se si trattasse di una mossa tattica per evitare lo spauracchio del gabinetto tecnico, o se invece fosse un ragionamento di prospettiva. Di sicuro sono stati proprio i fedelissimi del Cavaliere a opporsi, perché l’Udc per accettare il patto chiedeva (e chiede) l’apertura formale della crisi. E una crisi si sa come inizia ma non come finisce: c’è il rischio — hanno spiegato a Berlusconi — che nel mezzo delle consultazioni salti il tavolo e lo si apparecchi per qualcun altro a Palazzo Chigi.
Nessuno insomma riesce a chiudere il cerchio, e se un Berlusconi indebolito e accerchiato persino nel suo partito resta ancora in sella, è perché nell’estenuante gioco dell’oca è difficile per tutti arrivare alla casella di arrivo. E tutti si stanno indebolendo.

Corriere della Sera 1.11.10
C’era posto quella sera in quattro comunità: non furono contattate
di Andrea Galli


Quattro centri di accoglienza: nessuna telefonata dalla Questura

C’ era posto. Soprattutto, il 27 maggio, c’erano posti letto. Qui, a Milano. In almeno quattro storiche comunità d’accoglienza per ragazze. Come la Villa Luce voluta dal cardinale Martini. «Quest’anno non siamo mai state piene — dice la responsabile, madre Teresa Gospar —, nessuno ci ha chiesto se potevamo accogliere Ruby ( nella foto, oggi compie 18 anni)». Madre Teresa, già premiata dal sindaco Morattico me «esempio» per la città, in effetti è donna molto milanese, pratica: quando Villa Luce fu costretta ad acquistarsi la sede dov’era in affitto, anziché protestare, piangere un po’ in giro, lei e le suore si tassarono, comprarono («fu una spesa da miliardari), e finita lì, problema risolto. «In generale», dice madre Teresa, «nelle comunità per ragazzine se ne fermano meno di quante potrebbero starci». Giusto un mese prima di quel maggio, venne chiuso un centro per adolescenti dell’Asilo Mariuccia: «È chiaro che se in questo posto tarato su dieci giovani ce ne sono soltanto tre, non riesco più a pagare le spese del personale e sono costretto a interrompere l’attività» spiegò il presidente Valter Izzo.
Il 27 maggio il sostituto procuratore Annamaria Fiorillo dispose per Ruby l’individuazione di una comunità e l’immediato trasferimento. Così prevede la legge nel caso i genitori, o chi esercita la patria potestà, rifiutino di venirsi a prendere un figlio fermato in Questura. La Questura, su sollecitazione della Fiorillo, iniziò la ricerca. E la concluse senza risultato.
Leggiamo la relazione di servizio dell’agente che se ne occupò: «... provvedeva a effettuare un giro di telefonate presso le strutture di accoglienza per minori per provvedere alla collocazione della giovane donna, ma riceveva risposta negativa da parte di questi ultimi». Per quale motivo? «Il personale di turno delle varie strutture contattate, riferiva che poteva dare ospitalità solo a ragazzi e non a ragazze in quanto non vi era altro personale che poteva provvedere alla sistemazione e alla sorveglianza della giovane donna».
Il 27 maggio, riferiscono dai Servizi sociali del Comune di Milano, «non risultano telefonate al nostro Pronto intervento minori per il caso Ruby». Il responsabile del Pronto intervento si chiama Egidio Turetti, il suo cellulare «è acceso ventiquattro ore su ventiquattro». Non arrivarono telefonate nemmeno alla Casa di Nazareth, un’altra struttura protetta per ragazzine, e lo dice una delle responsabili, sempre una religiosa, suor Maria. Che aggiunge: «C’era posto». Nessuno chiese aiuto alla Zattera che, certo, dispone di pochi letti (sono 6) ma che, viene assicurato al centralino, «è sempre aperta ad affrontare le emergenze» e non nega mai un letto. La frase esatta è la seguente: «Naturale che se c’è un’urgenza si valuta ogni possibilità».
Anche i Martinitt, simbolo ambrosiano con gli orfanelli protagonisti nelle Cinque Giornate, dispongono di un centro di pronto intervento, solitamente «utilizzato» dalle forze dell’ordine. Ma dai Martinitt, in attesa di riscontri definitivi, di prove certe che «a causa delle festività arriveranno da domani», per il momento dalla presidenza non viene segnalato un coinvolgimento, o una richiesta di coinvolgimento per Ruby. Ma allora, quel poliziotto, chi ha chiamato?
(...)


l’Unità 1.11.10
Bonino: «Non c’è rottura ma il Pd deve cambiare»


«Abbiamo difficoltà a mantenere fede ad un impegno preso con il Pd. Ma non sento la fretta di arrivare ad un atto di rottura». Nel suo intervento al IX congresso dei Radicali Italiani Emma Bonino si è occupata della crisi di convivenza dei parlamentari radicali nei gruppi democratici. Sulla scia delle rassicurazioni di Pannella, anche il vice presidente del Senato ha spiegato che non ci saranno decisioni definitive nell'immediato, ma ha invitato il PD a «costruire un modo diverso di stare nelle istituzioni». «Anche noi ha proseguito non siamo privi di tentazioni. Ma si sta nelle istituzioni rispettandole più delle ragioni dei partiti». Emma Bonino ha poi espresso una forte critica all'ipotesi di governo tecnico.

«Il Papa protegge i preti pedofili»
l’Unità 1.11.10
Le vittime dei preti pedofili contestano Padre Lombardi
All’appello hanno risposto persone di una dozzina di Paesi. Obiettivi: chiedere alla Chiesa di fare di più per prevenire e alle Nazioni Unite di rendere la pedofilia un crimine contro l’umanità.
di Felice Diotallevi


«Giù le mani dai bambini», «Il Papa protegge i preti pedofili», «Chiesa senza abusi». Questi i cartelli che sono stati esposti ieri pomeriggio dai partecipanti ad un sit-in delle vittime di abusi da parte di preti pedofili di fronte a Castel Sant’Angelo. Con gli obiettivi di chiedere alla Chiesa di fare di più contro gli abusi sessuali sui minori da parte dei suoi esponenti, e lanciare una petizione alle Nazioni Unite perchè considerino la pedofilia un crimine contro l’umanità. All’appello hanno risposto partecipanti da una dozzina di Paesi diversi.
Nel corso della manifestazione è stato contestato padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana. Il sit-in era cominciato da qualche minuto quando padre Lombardi è passato ha detto lui stesso ai presenti per «esprimere la sua solidarietà».
Il portavoce vaticano non ha rilasciato ai cronisti interviste nè commenti, ma alcuni manifestanti lo hanno contestato gridandogli insulti in diverse lingue. Dopodichè padre Lombardi si è allontanato.
In piazza sono scese le vittime dei preti pedofili, circa un centinaio, «per chiedere al Papa di agire seriamente e di ordinare ai vescovi
di denunciare i preti pedofili». Tra di loro c’era un gruppo di ex allievi sordomuti dell’istituto Antonio Provolo di Verona e una vittima di Savona, Francesco Zanardi, 40 anni, in sciopero della fame da 11 giorni contro il vescovo di Savona, Vittorio Lupi, perchè «provveda a a denunciare i preti pedofili».
Organizzatori della manifestazione erano gli americani Bernie McDaid, 54 anni, e Gary Bergeron, 47, fondatori dell’associazione Survivor’s Voice. Le vittime sono state ricordate con un minuto di silenzio ed era previsto un corteo-fiaccolata fino a piazza San Pietro durante cui i manifestanti potevano portare il loro messaggio al Vaticano.
È la prima volta che le vittime di abusi provenienti da tutto il mondo si danno appuntamento per chiedere maggiori responsabilità da parte del Vaticano. I manifestanti prima si sono riuniti vicino a piazza San Pietro, poi si sono spostati davanti a Castel Sant’Angelo.
Il corteo
Un minuto di silenzio e fiaccolata simbolica fino a San Pietro
«Sono qui per chiedere al mondo di aiutare le vittime degli abusi sessuali, in tutto il mondo, non solo nella Chiesa» ha detto Bernie McDaid, fondatore dell’associazione e tra gli ideatori della manifestazione di oggi, vittima di abusi da parte di un prete di Boston quando era bambino. Anche l’altro organizzatore Gary Bergeron, è stato vittima di abusi sessuali da parte di un prete nella stessa diocesi di Boston. Lui e McDais sono le due vittime più note dello scandalo sessuale scoppiato a Boston nel 2002. McDaid ha anche incontrato Papa Benedetto XVI durante il suo viaggio negli Stati Uniti.
Otto anni dopo lo scandalo, sostiene «Survivor’s Voice», il Vaticano non si è assunto responsabilità sufficienti, non è entrato in contatto con le vittime e non ha organizzato programmi di prevenzione. «Le gerarchie della Chiesa Cattolica Romana tendono a coprire, questo deve finire» dice McDaid.
Il prossimo passo è il lancio di una petizione che chieda all’Onu di riconoscere l’abuso sessuale sistematico sui bambini come crimine contro l’umanità. L’articolo 7 del Trattato Onu che istituisce la Corte Penale internazionale definisce un crimine contro l’umanità come «un atto commesso nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili».

Corriere della Sera 1.11.10
La Chiesa senza Dc e l’«attrazione» del centrodestra
Vaticano e Seconda Repubblica nel saggio di Massimo Franco
di Massimo Franco


Esce domani in libreria «C’era una volta un Vaticano. Perché la Chiesa sta perdendo peso in Occidente», di Massimo Franco. Il saggio, edito da Mondadori, racconta l’affanno che sta vivendo questa istituzione bimillenaria, e ne analizza i sintomi: il rischio di un ridimensionamento sul piano internazionale; la sfida di un’Europa in bilico fra relativismo e Halloween; i rapporti altalenanti con gli Stati Uniti di Obama; le lotte di potere fra cardinali; lo «scandalo infinito» della pedofilia; le teorie del complotto contro il Papa. Il notista politico del Corriere della Sera collega la crisi di «un» Vaticano alla fine della Guerra fredda: un’epoca che esaltava il ruolo della Chiesa e la sua capacità di orientare le scelte anche elettorali. Pubblichiamo di seguito alcuni stralci del capitolo: «Italia, cattolici senza politica».
...La sensazione è che nell’ultimo ventennio la Chiesa italiana abbia combattuto una guerra silenziosa non solo con la Seconda Repubblica, ma con le proprie convinzioni in materia di delega politica. E che alla fine abbia fatto di necessità virtù, appoggiando di volta in volta partiti e leader che non la convincevano, ma dei quali non poteva fare a meno; e rassegnandosi a fare i conti con un elettorato «cattolico» che tale non è più: nel senso che distribuisce i propri consensi in base a motivazioni non religiose.
Il Vaticano ha vinto la guerra fredda quanto i partiti filoccidentali del nostro Paese. Ma in qualche misura è rimasto vittima della caduta del Muro di Berlino del 1989 come la «sua» Dc. Il partito-supermarket scudocrociato sembrava la traduzione laica del pluralismo ecclesiale. E il sistema proporzionale non obbligava a scelte radicali: era il trionfo della cultura inclusiva dell’et et, non dell’aut aut che si imponeva nei referendum e che si sarebbe sublimato con il sistema maggioritario. La logica dell’alternativa era poco congeniale a una Chiesa umiliata negli appuntamenti referendari su divorzio e aborto nel 1974 e nel 1981.
Finita la Prima Repubblica, l’episcopato ha cominciato a elaborare un lungo lutto. Si è visto costretto a ridisegnare i propri referenti politici. E ha dovuto constatare che non gli era più possibile delegare una forza politica a rappresentarlo; e che la sua influenza sugli elettori era e sarebbe diminuita progressivamente. Quando nel 1994 si svolsero le prime elezioni politiche con il sistema maggioritario, la geografia parlamentare italiana riemerse sconvolta.
I veri orfani della Dc
...Si era avverata la profezia di Beniamino Andreatta, democristiano atipico nella sua abrasività e nel suo rigore: il vero nemico della Democrazia cristiana era la destra, non la sinistra. Il comunismo rappresentava l’avversario ideologico, politico: insomma, l’antitesi. Ma proprio per questo era anche la garanzia dell’unità politica dei cattolici italiani e della sopravvivenza della Dc. La destra era invece la concorrente elettorale «interna» di un partito che riusciva a strappare consensi anche non suoi grazie proprio all’anticomunismo. Caduto il Muro di Berlino, l’elettorato si sentiva finalmente emancipato dalla guerra fredda e dai consigli dell’episcopato cattolico.
Il voto con il nuovo sistema segnava l’ultima tappa della laicizzazione del Paese. ... Nel 1994 era stato sconfitto non solo il popolarismo di Martinazzoli, ma la Chiesa cattolica. Era cambiata la storia. Lo stesso Giovanni Paolo II osservava a distanza la nomenclatura democristiana. Leggeva l’Italia con occhiali polacchi. Papa Wojtyla, spiegavano in Vaticano, parlava degli eredi del Pci chiamandoli «loro». A incarnare l’anticomunismo così radicato nelle stanze vaticane era un politico venuto dall’imprenditoria, sorridente, aggressivo, spregiudicato; e ricco, ricchissimo, senza vergogna né complessi: un uomo baciato dal successo e dunque, nella sua ottica, dal Signore, come i miliardari dell’America protestante.
Per la Chiesa era un alieno che si vantava di avere una zia suora. E offriva come patente di credibilità il fatto di aver frequentato le scuole dei salesiani. Berlusconi portava in dote l’elettorato moderato. E per questo pretendeva di diventare l’interlocutore del Vaticano. Era rimasta indelebile la scena del nuovo leader del centrodestra che arrivava nel cortile del policlinico romano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma. Fra due ali di infermieri, medici e familiari in visita ai malati scomparve nell’ascensore, verso l’appartamentino dove Giovanni Paolo II era in convalescenza dopo un’operazione al femore. Era il 21 maggio 1994, neppure due mesi dopo la vittoria dell’allora Polo delle Libertà.
Il Cavaliere dei papi
In quel momento l’episcopato era confuso: cercava di analizzare quanto era accaduto. Ma Berlusconi spiazzava i vescovi. Riscriveva i confini del cattolicesimo politico in Italia... Si vedeva dall’imbarazzo del Vaticano che cercava di sminuire il significato dell’incontro, preoccupato di non dare l’impressione di un’inedita «santa alleanza». La verità «televisiva» e politica del nuovo presidente del Consiglio parlava di un impegno «per la difesa di quei valori di solidarietà e di rispetto della persona umana, nei quali naturalmente, come cittadino e come cattolico, anch’io mi riconosco...».
Rilette a distanza di anni, sono parole che confermano lo smarrimento di un episcopato che prima ha cercato di contrastare quello strano «Cavaliere dei papi»; poi si è illuso che fosse una meteora destinata a scomparire rapidamente...; quindi s’è accorto che la meteora aveva in realtà ambizioni tolemaiche e ha pensato di poterlo «convertire»; e alla fine si è in qualche modo rassegnato a usarlo, seppure sempre con la quasi certezza di essere anche usato.
Quando, in Italia ma non solo, ci si chiede il motivo di una certa indulgenza dell’episcopato e del Vaticano nei confronti di Berlusconi, si dimentica che ha vinto senza e quasi nonostante Santa Romana Chiesa. Non le deve nulla, come non le deve nulla la Lega di Bossi. I voti li hanno presi da soli, rimangono i loro. ... Berlusconi è stato fra i primi a intuire che l’Italia secolarizzata richiedeva altri protagonisti, altri valori e altre alleanze anche continentali. La sua marcia di avvicinamento e poi di penetrazione nel Ppe è stata il completamento dell’operazione sul piano internazionale.
E ha confermato l’evoluzione delle forze moderate in Europa, sempre meno connotate dal punto di vista dell’ispirazione cristiana e sempre più portate a definirsi centriste... La scelta di Ruini dell’« equidistanza» fra gli schieramenti che si contendevano la vittoria con il sistema maggioritario è apparsa fin dall’inizio un’astuzia e insieme una necessità. Ma l’irrigidimento del Vaticano sui temi etici, la deriva a sinistra dell’Ulivo e il cedimento di fatto a un certo radicalismo, il ruolo sempre più subalterno e residuale degli ex popolari, nel 2008 hanno spostato nettamente gli equilibri a favore del centrodestra. Quando alla vigilia delle elezioni del 2008 Berlusconi ha rinunciato a inserire l’Udc di Casini nella sua coalizione, ...l’operazione iniziatasi nel 1994, nella stanza di Giovanni Paolo II al Gemelli, si è conclusa.
Ma il passaggio non è stato indolore. I sospetti della Cei su un governo popolato da massoni che avevano espulso tutti i «cattolici» sono arrivati fino a Berlusconi, senza tuttavia cambiare minimamente il quadro. Anzi, il governo si è offerto come sponda di ogni legge e iniziativa chiesta dall’episcopato, confermando una sorta di collateralismo pragmatico: figlio di un do ut des segnato da una convergenza di interessi oltre, e a volte prima, che di valori... Da questo punto di vista è rivelatrice l’evoluzione dei rapporti fra Lega e Vaticano.
Bossi il neocristiano
Il 16 agosto 1997, mentre a Palazzo Chigi c’era Prodi e in Vaticano Giovanni Paolo II, Bossi aveva tuonato contro il Papa polacco che «ha investito nel potere temporale, nello Ior e nei Marcinkus...». Il capo del Carroccio alimentava la secessione culturale definendosi un seguace del Dio che «non è quello del catechismo. Sta ovunque, nell’acqua e nel fuoco, nell’aria che respiriamo». Ma il delirio panteista rispondeva a una ferrea strategia politica e alla costruzione di un’identità alternativa, che coglieva lo scollamento fra episcopato ed elettorato catto-moderato del Nord.
Rientrava nella stessa logica l’attacco contro la Cei sull’8 per mille, che Bossi definiva «voto di scambio». La Lega non ha mai messo del tutto nel cassetto la minaccia di rivedere il Concordato del 1984. ... Anche se, accanto al bastone, negli ultimi tempi il Carroccio ha riletto e «padanizzato» il messaggio cristiano... Nel 2009 Bossi è andato prima a trovare il cardinale Bagnasco, e poi è entrato nella tana di quello che appena una decina d’anni fa vedeva come «il serpente teocratico»: in Vaticano, con una delegazione della Lega, ha avuto un lungo colloquio con il segretario di Stato, Bertone.
Da partito celtico, paganeggiante, la Lega si è definita «il vero partito cristiano» dell’Italia... Ma è soprattutto il tema dell’immigrazione a dilatare la sensazione di una Chiesa adulata e insieme assediata; non ascoltata quando cerca di proporre valori che i suoi interlocutori politici ritengono impopolari o comunque scomodi. È il segno di una perdita di incidenza della Chiesa nella politica italiana. Dal lutto per la fine della Dc l’episcopato riemerge per il momento più solo e meno rilevante, con il Papa che vede un mondo della politica dominato «dal silenzio della fede»...

Corriere della Sera 1.11.10
Corano e coperte, gli immigrati sulla gru «Metteteci in regola»
Vogliono vedere Maroni: faccia la sanatoria
In 5 protestano a 35 metri d’altezza


BRESCIA — Rackid legge il Corano appoggiato a uno dei 174 pioli che portano in cima alla gru del cantiere metrobus di Brescia. Sopra di lui, appollaiato a 35 metri di altezza con altri quattro compagni di sventura, da 24 ore c’è solo vento e pioggia battente. A terra, fuori dal cantiere, i suoi «fratelli» rimangono in presidio a chiedere «il permesso di soggiorno per tutti». Sono i «senza carta»: 1.700 immigrati a cui la questura ha respinto la domanda di regolarizzazione. E adesso, come clandestini, rischiano l’arresto e il rimpatrio. Da sabato pomeriggio le loro speranze sono abbarbicate in cima a quella gru del metrobus, simbolo della laboriosità bresciana, che otto immigrati hanno occupato per «ottenere la sanatoria subito».
È la seconda notte all’addiaccio. «Non siamo animali — scandisce Rackid al megafono, sotto la pioggia, prima di tornare a pregare —. Vogliamo lavorare e avere il permesso di soggiorno che ci spetta. Questa legge sull’immigrazione è solo una truffa». Giù applausi e cori di sostegno. Gli «eroi» dei «senza carta» si chiamano Arun, operaio pakistano di 26 anni, Sing, indiano, Gimmy l’egiziano e Mohamed il marocchino. Erano in nove, ma da ieri pomeriggio a dividersi i due metri quadrati del pianale in cima alla gru sono rimasti in 5. In 4 hanno dovuto rinunciare perché piegati dal vento e dal freddo. «Nessuno rischia la vita — precisa Umberto Gobbi, portavoce dell’associazione Diritti per tutti —. In cima erano saliti in nove, ma non avevano spazio. Rischiavano di volare giù. Quindi abbiamo convinto 4 persone a scendere. Uno è stato ricoverato per problemi respiratori. Gli altri occuperanno a oltranza». L’obiettivo? Vogliono parlare con il ministro Maroni, «convincerlo che la sanatoria è l’unica via d’uscita per evitare nuove tensioni e nuovi scontri».
La protesta non a caso è partita da Brescia, la provincia italiana con il più alto numero di immigrati residenti (il 12,9% della popolazione, secondo l’ultimo dossier della Caritas). In provincia i regolari sono poco più di 120 mila, altri 15 mila vivono in clandestinità. Nell’ultimo anno le domande di regolarizzazione sono state 12.900, oltre 1.700 quelle respinte.
E adesso nell’avamposto della nuova protesta gli invisibili gridano: «Lottiamo per i diritti di t ut t i gli stranieri d’Italia. Siamo un popolo sommerso che vuole vivere alla luce del sole, lavorare e pagare le tasse. Un sogno che senza permesso di soggiorno ci viene negato e contribui scead ali - mentare il lavoro nero nei cantieri e la criminalità». Non hanno più nulla da perdere. Hanno solo le coperte e i materassini accatastati nella canonica di San Faustino. E le speranze abbarbicate lassù, in cima alla gru degli «eroi».

Repubblica 1.11.10
I morti invisibili in carcere cancellati perché stranieri
Altre tre morti sospette a Regina Coeli "In prigione troppe vittime invisibili"
Marko, Paolo e Mija, le famiglie accusano: erano stranieri, decessi archiviati
di Luigi Carletti


Pregiudicati, tossici, malviventi di mezza tacca originari della ex Jugoslavia
Il compagno di cella di Hadzovic: "Era malconcio, mi dissero che era caduto dalle scale"

Nelle prigioni italiane muoiono ogni anno 150 detenuti. Un terzo per "cause oscure". Ma l´elenco delle morti sospette è destinato a salire. Nel conteggio complessivo mancano gli "invisibili". Gli "invisibili" sono quei detenuti stranieri il cui decesso si riassume in un certificato e in una sommaria ricostruzione dei fatti destinata alla burocrazia.
Quei morti vengono inghiottiti dal buco nero dell´indifferenza.
A Regina Coeli, il carcere romano già al centro di inchieste per i casi Cucchi e La Penna, gli "invisibili" finiti nel nulla sono tre. Due sono morti in cella, un terzo nel carcere di Augusta (Siracusa), ma la famiglia da tempo aveva chiesto un intervento alla procura di Roma per indagare sui ripetuti maltrattamenti che il giovane avrebbe subito ben prima del suo trasferimento in Sicilia.
Marko Hadzovic, Paolo Iovanovic, Mija Diordevic. Cittadini originari della ex-Jugoslavia, abituati a sopravvivere ai margini. Pregiudicati, tossici, malviventi di mezza tacca. Tre "clienti" abituali delle prigioni italiane. Erano considerati scarti della società. Adesso sono morti e nessuno, a parte le famiglie e qualche amico, si impegna per sapere come. E perché. E se ci sono responsabilità nel comportamento di chi, in funzione del proprio ruolo, e nel rispetto delle leggi, avrebbe dovuto sorvegliarli ma anche proteggerli.
Eppure i loro casi, proprio perché opachi e facili da archiviare, sembrano gettare nuove ombre sul nostro sistema carcerario, e nel caso specifico su Regina Coeli. Sembrano dire che le vicende ben più note di Stefano Cucchi e di Simone La Penna non sono eventi eccezionali. Questo sembrano dire le storie degli "invisibili". Storie delle quali nessuno finora ha mai parlato ma che Repubblica è in grado di ricostruire.
Marko Hadzovic, 32 anni, è morto in prigione ad Augusta (Siracusa) il primo marzo scorso. Vi era arrivato da Regina Coeli passando per Viterbo e Rossano Calabro. Un tour carcerario non usuale per un piccolo rapinatore che doveva scontare pene cumulative per nove anni. Era stato arrestato a Roma perché insieme al suo complice minorenne, armati di taglierino, aggredivano le donne sole in macchina, le picchiavano e le derubavano. Un reato odioso il cui effetto sulla generale sensazione di insicurezza era devastante.
Quando Hadzovic fu arrestato, il tam-tam carcerario diffuse la voce che tra le vittime dei suoi colpi vi fosse stata anche la congiunta di un uomo delle forze dell´ordine. Questo, all´interno dell´istituto di pena, avrebbe aggravato - e non poco - la sua situazione.
Alex H., ladro di rame, era a Regina Coeli nello stesso periodo. Racconta a Repubblica: «Ho incontrato Marko Hadzovic nel settimo braccio. Gli facevano portare il vitto. Non si doveva parlare con lui, era considerato peggio di un "infame". Mi sembrò un po´ malconcio. Per noi stranieri è sempre più dura che per gli altri. Con qualcuno esagerano proprio. Di Marko mi dissero che era caduto dalle scale».
La famiglia di Hadzovic, attraverso i suoi legali, si era rivolta al Garante dei detenuti e cercò di interessare la magistratura. «E´ stato legato, bastonato, gettato per terra» scriverà in una memoria. Queste, e molte altre accuse, non trovarono però uno sbocco d´indagine. Nel frattempo Hadzovic venne trasferito nelle altre carceri. Ad Augusta il primo marzo scorso è morto. La procura di Siracusa ha aperto un´inchiesta per omicidio.
Paolo Jovanovic viene fermato dai carabinieri il 17 marzo del 2007 e portato a Regina Coeli. Ha 27 anni. È accusato di ricettazione, è un tossicodipendente frequentemente in crisi. Uscirà dal carcere il 22, ormai privo di vita. Nei cinque giorni di detenzione è stato curato con il metadone per astinenza da eroina. Lo psichiatra consiglia la sorveglianza in cella di isolamento con prescrizione di psicofarmaci.
La sera del 22 marzo, intorno alle 20,30, il personale carcerario va da Jovanovic per somministrargli la terapia. Secondo quanto dichiarato nei documenti ufficiali, lui non risponde e nessuno lo sveglia. Alle 22,50 il personale procede alla conta numerica dei detenuti. Jovanovic continua a non rispondere. Non può, perché sta morendo.
Si tenta un soccorso estremo con rianimazione e defibrillazione. Gli amici di Jovanovic, che sul caso hanno costruito un dossier, ritengono che l´intervento fu tardivo e inutile. «A quel punto era già morto», dicono. Il detenuto viene trasportato in ospedale e lì risulterà essere deceduto alle 23,46. Nel dossier, che sostiene la necessità di un´indagine, sono elencate le numerose perplessità legate ai farmaci utilizzati e alle modalità di detenzione.
Mija Diordevic viene arrestato nel 2008. Ha quarant´anni. È un pluripregiudicato, un soggetto difficile che fa uso di droga. In cella viene "gestito" con il valium. Secondo la famiglia, Mija si sente male di stomaco, il valium lo ha talmente stordito che non riesce a respirare. Muore in cella soffocato dal vomito. Nessuno ne parla. È un altro "invisibile" da archiviare al più presto. La procura apre un fascicolo per gli accertamenti di rito. Il risultato a cui si approda è che non si ravvisa alcun reato. La famiglia, difesa dall´avvocato Luca Santini, dà il via a una causa civile contro il ministero della Giustizia e l´Asl. La tesi è che ci sia stata negligenza e che il cittadino-recluso Mija Diordevic sia stato abbandonato a se stesso.

Repubblica 1.11.10
Una donna volta pagina alla Cgil il timone nelle mani della Camusso
Subito il nodo Fiat:"Nuove regole sulla rappresentanza"
"Da noi non c´è il leaderismo, c´è un´idea di responsabilità collettiva"
Mercoledì il direttivo la eleggerà segretario generale al posto di Guglielmo Epifani
di Roberto Mania


ROMA - «No, non avrei mai pensato di poter diventare il segretario generale della Cgil. E´ una roba che può anche mettere il panico. Ma la Cgil è un collettivo, una grande rete. Da noi non c´è il leaderismo. Il segretario non viene nemmeno scelto al congresso. Non facciamo le primarie, noi. In Cgil c´è un´idea di responsabilità collettiva». Eccola Susanna Camusso, cinquantacinque anni, milanese, professione sindacalista. Donna. La prima a guidare il più grande sindacato italiano, nella stagione della crisi industriale più radicale. Il sindacato più rosso. L´unica organizzazione di massa social-comunista che ha attraversato il Novecento ed è entrata nel nuovo secolo senza cambiare nome e neanche missione. La Cgil è rimasta la Cgil, nel bene e nel male. Si è solo aggiornata, lentamente. Tanto che ora sceglie di essere guidata da una donna. E Susanna Camusso è profondamente intrisa di questa cultura. Da trentacinque anni la Cgil è molto più del suo lavoro. E´ una militanza, di quelle un po´ retrò che si vivono con passione, e che non ammettono mezze misure.
Mancano ancora due giorni alla sua elezione al vertice di Corso d´Italia, sulla poltrona che fu di Giuseppe Di Vittorio, di Luciano Lama, di Bruno Trentin, di Sergio Cofferati. Guglielmo Epifani, il primo socialista segretario generale, lascerà dopo otto anni. Camusso parla con ritrosia del suo futuro per rispetto del Direttivo che la eleggerà. Ragiona sul sindacato interrotta da decine di telefonate sul suo cellulare che suona Bob Dylan, «Blowing in the wind». Sono i «compagni» delle strutture di tutta Italia che la chiamano per aggiornala sulle vertenze della crisi e chiederle consigli. Susanna Camusso conosce anche i dettagli di tutte le ristrutturazioni aziendali. E´ puntigliosa, metodica, anche un po´ secchiona. Fuma una sigaretta dopo l´altra. Gli occhi color ghiaccio fissi. Sembra una lince. Si rilassa solo quando arriva la telefonata della figlia Alice, 22 anni, studentessa alla Normale di Pisa. L´altra sua grande passione.
Eppure sindacalista è diventata per caso. Dice: «Non si sceglie di fare la sindacalista. Ma poi può diventare una straordinaria avventura». Come quelle vissute in mare, al timone di una barca a vela che Susanna Camusso affitta ma non ha mai posseduto. Lei è la quarta di quattro sorelle di una famiglia piccolo borghese di sinistra. Nascono tutte a Milano, ma vivono molti anni ad Ivrea. Lorenzo Camusso lavora nella Comunità di Adriano Olivetti, la madre, Giulia, è una psicologa. «Avevamo una casa piena di libri. Leggere e studiare era normale». Come era normale, in quei primi anni Settanta, per uno studente universitario (Camusso si iscrive a Lettere antiche) incrociare la Flm, la Federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici. Una sigla mitica per le lotte operaie. Voleva dire Fiom, Fim e Uilm insieme, unite. Impensabile oggi nel nuovo secolo delle fratture sindacali. Camusso diventa «Susanna delle 150 ore». Si occupa del coordinamento delle ore di studio per i lavoratori meno scolarizzati. L´emancipazione operaia si fa anche così.
Negli anni Settanta Milano è ancora una città industriale. Camusso milita prima nel movimento studentesco, poi lascia l´università ed entra nella Fiom di Milano. Il capo è Antonio Pizzinato che, per una breve stagione, sarà anche segretario generale della Cgil. Ogni mattina si va in fabbrica a parlare con gli operai, a fare proselitismo. La fabbrica di Susanna è l´Ansaldo. Lì si farà le ossa. Vive gli anni di piombo così. Entra nel Psi. «Ma non sono mai stata craxiana. Ero della sinistra». Fabbriche, politica e femminismo. Perché quelli sono gli anni delle grandi battaglie per i diritti delle donne. Solo nel ‘93 Fausto Vigevani, primo socialista a guidare la Fiom, la chiama a Roma nella segreteria nazionale, nell´aristocrazia del sindacato di sinistra. Con la delega più prestigiosa: l´auto, cioè la Fiat, il padrone vero. A Vigevani succederà Claudio Sabattini, il teorico della Fiom «indipendente», quasi un partito del lavoro. Camusso, socialista e riformista non è dei suoi. Lo scontro tra i due sarà durissimo. Camusso viene rimossa dopo un accordo con la Fiat. Lei parlerà di «metodi stalinisti». Resta per un po´ alla Fiom poi torna a Milano, prima tra gli agro-industriali, poi come numero uno della Cgil lombarda. A Roma la richiama Epifani, nel 2008. Ormai è la predestinata. E ora dovrà fare i conti con la sua Fiom e con le divisioni senza precedenti tra Cgil, Cisl e Uil. Sullo sfondo c´è la sagoma di Sergio Marchionne, l´italo-canadese che ha deciso di cambiare le relazioni industriali italiani, provocando fratture e sfidando proprio il «collettivo» della Cgil. «Servono le nuove regole sulla rappresentanza», ribatte Camusso. Inizio delle trattative.

Repubblica 1.11.10
Così i bambini ci prendono in giro "Sanno usare l´ironia già a 4 anni"
"Le mamme spesso non riescono a scherzare con i figli invece è un buon mezzo per capirsi"
di Vera Schiavazzi


Uno studio canadese ribalta le teorie sostenute finora sulla capacità dei piccoli di comprendere i paradossi. E rimette in discussione gli schemi usati da sempre sull´intera evoluzione del linguaggio infantile

Mamme manager attente: una risata potrebbe travolgervi. I bambini sanno scherzare, comprendere l´ironia e contraccambiarla fin dalla più tenera età, a 4 anni addirittura, mentre fino a non molto tempo fa psicologi e linguisti ritenevano che domande retoriche, iperboli e paradossi fossero un´esclusiva degli adulti, alla quale i più piccoli potevano avvicinarsi non prima dei dieci anni. Ma uno studio canadese appena pubblicato sul British Journal of Developmental Psychology e condotto analizzando battuta dopo battuta 350 ore di dialoghi tra genitori e figli tra i quattro e i sei anni sembra dimostrare il contrario. I bambini ci guardano, e ci prendono in giro, usando sapientemente un bagaglio che a tre anni arriva a mille diverse parole, e di lì in poi viaggia velocissimamente e continua a evolvere in espressioni, sfumature, capacità di interazione. «Se non fosse così - conferma Irene Vernero, docente di logopedia e responsabile di centinaia di piccoli pazienti che ogni anno passano in un grande ospedale come le Molinette di Torino - non sarebbe spiegabile perché bambini piccolissimi esclamano "che stress!" e subito dopo scoppiano a ridere».
Non sempre i genitori, le madri soprattutto, sanno accogliere col sorriso questa precoce capacità dei propri figli. «Espressioni come "ora che so che si mangiano polpette sono un pochino meno affamato" irritano le mamme, che le considerano sgarbate o credono di essere le sole a poter usare il paradosso - spiega Holly Recchia, la psicologa canadese che ha condotto la ricerca partendo dagli annunci di nascita nella regione dell´Ontario e seguendo i bambini passo passo - Al contrario, imparare a scherzare con i propri figli può essere un ottimo mezzo per gestire i conflitti educativi».
Ma i nuovi risultati rimettono in discussione gli schemi usati fin qui dagli esperti sull´intera evoluzione del linguaggio infantile. Scherzare appare una capacità collegata sia all´intelligenza personale sia all´ambiente nel quale si cresce, ma resta un "dono" almeno in parte inspiegabile, come altre abilità dei bambini. «Mentre la scrittura, la lettura e il contare richiedono l´apprendimento di nozioni convenzionali, la parola si impara spontaneamente, per "immersione" nell´ambiente familiare e sociale - spiega Irene Vernero - Ma alcuni piccoli sembrano acquisire prima e più di altri la capacità di comprendere che alcune parole o alcune frasi possono far ridere e di usarle anche quando non posseggono ancora gli strumenti culturali per capirne fino in fondo il significato». Aver deciso che non si può essere sarcastici prima dei dieci anni, potrebbe anche essere stato un mero errore scientifico, che ha resistito in mancanza di adeguati studi sul campo.
A sostenerlo è una delle più autorevoli studiose italiane, la psicologa dell´età evolutiva Tilde Giani Gallino. «Osservando i bambini nel loro ambiente naturale, per esempio a scuola - spiega Giani Gallino - è facile riscontrare che non solo scherzano tra loro e con gli adulti, ma si pongono anche il problema che la loro esagerazione ironica sia colta nel giusto modo dall´interlocutore». Una capacità che si rivela anche attraverso i disegni: «Abbiamo chiesto a decine di piccoli allievi delle materne di illustrare qualcosa che avevano inventato e molti hanno prodotto macchine sofisticatissime in grado di svolgere compiti dal sapore surreale come tirare nello stesso momento molte palle di neve - racconta Gallino - Se però il ricercatore mostrava di prendere troppo sul serio l´invenzione, era spesso il bambino stesso a precisare "sto scherzando!"».
Tra le mura domestiche, lo studio canadese, ma anche l´esperienza concreta che viaggia sui blog per sole mamme, parrebbe dimostrare che esiste una proporzione tra le esagerazioni verbali dei genitori e quelle dei figli. Così la mamma esasperata che ha l´abitudine di ripetere "quante volte devo dirti...?" dovrà prepararsi all´ironica risposta "ancora 82". E quella che tenta un insegnamento morale ricordando al pargolo inappetente la tragedia della fame nel mondo dovrà imparare ad accettare il suggerimento, scherzoso ma tagliente, di spedire ai meno fortunati l´arrosto appena cucinato.

l’Unità 1.11.10
Irlanda e Gran Bretagna alle prese con la diminuzione della spesa pubblica
I due paesi: «Non possiamo restare fuori dall’economia della conoscenza»
Nessun taglio a scienza e ricerca Siamo britannici
di Pietro Greco


Niente tagli alla scienza, siamo britannici. È questa, in estrema sintesi, la risposta data dal governo di Dublino e dal governo di Londra alle prese con il risanamento del bilancio dello Stato.

Si taglia la spesa ma non la ricerca. Nessuno dei due governi è di centrosinistra e tanto meno di sinistra. In Irlanda governa il Fianna Fáil, che è un partito liberaldemocratico. Nel Regno Unito, come si sa, c’è il ticket di David Cameron (Partito conservatore) e di Nick Clegg (Partito Liberal democratico). L’Irlanda deve fronteggiare un deficit di bilancio che ha raggiunto i 50 miliardi di euro e, dunque, il 32% del Pil il maggiore tra i paesi industrializzati. Per abbatterlo e cercare di riportarlo entro i limiti di Maastricht (3%), il governo di Brian Cowen come tutti i governi di centrodestra ha scelto di non aumentare le tasse, ma di tagliare in modo drastico la spesa. La manovra di bilancio che sarà formalizzata il prossimo 7 dicembre prevede tagli per ogni e ciascun settore della pubblica amministrazione. Ma non per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico, settore per cui si prevede, al contrario, un aumento degli investimenti pari a 2,4 miliardi di euro in cinque anni. A Dublino fanno, dunque, come a Berlino. Si taglia tutto, ma non la ricerca. Dove invece si investe. Da notare che l’Irlanda ha un Prodotto interno lordo che è pari a un decimo di quello italiano. Dunque è come se lo stato italiano avesse deciso di investire in ricerca 24 miliardi di euro in cinque anni.
È vero che nel biennio 2009-2010 anche l’Irlanda ha conosciuto tagli nei grant (contributi) alla ricerca intorno al 4%. Ma si tratta di piccola cosa rispetto all’aumento dei prossimi anni e, comunque, di un’esperienza limitata nel tempo. Che il governo non intende più ripetere. I tagli, dicono a Dublino, ci farebbero uscire dall’economia della conoscenza. Lì sono tutti convinti che il brillante passato dell’Irlanda prima della crisi finanziaria sia dovuto anche al raddoppio in dieci anni degli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S). Politica che il governo di Brian Cowen intende reiterare per cercare di uscire dalla enorme crisi che ha investito il paese.
Anche a Londra la pensano così. Il nuovo governo ha già deciso tagli alla spesa pubblica per 109 miliardi di sterlini (più di 130 miliardi di euro), da attuarsi anche mediante una riduzione paritetica della spesa di tutti i ministeri del 19%. Con un’unica eccezione decisa dopo le proteste della comunità scientifica: gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. In particolare la spesa per la ricerca di base sarà congelata e rimarrà attestata intorno ai 4,6 miliardi di sterline (circa 5,6 miliardi di euro circa). Il congelamento, per la verità, non sarà uguale per tutti. La ricerca medica vedrà un aumento degli investimenti pari al tasso d’inflazione, per congelarla in termini reali. Mentre verranno limati i fondi per le partecipazioni a ricerche internazionali.
Il motivo addotto dal governo di centrodestra del Regno Unito è il medesimo di quello addotto dal governo di centrodestra irlandese e tedesco: la Gran Bretagna non può restare fuori dall’economia della conoscenza. Perché lì a differenza di Giulio Tremonti e del governo di centrodestra italiano sono convinti che la cultura è cibo. Non solo per la mente.

Repubblica 1.11.10
Inge Feltrinelli "Io, i libri Giangiacomo e i suoi misteri"
"La vita, i libri, giangiacomo e il mistero della sua fine"
di Inge Feltrinelli


Il 14 marzo 1972 ci dovevamo vedere a Lugano. Alle tre non era arrivato e ripartii. Il giorno dopo vidi la foto di un morto sul giornale: sapevo che era lui
Anticipiamo alcuni brani tratti dal dvd che raccoglie un´intervista sulla sua storia, dall´infanzia in Germania all´Italia

Anticipiamo alcuni brani dell´intervista di Simonetta Fiori a tratti dal dvd di Luca Scarzella

Mio padre ebreo
Il mio ricordo più tragico è la Notte dei Cristalli, quando i nazisti bruciarono le sinagoghe. Sento ancora l´odore della carta bruciata e del legno, e ancora vedo le rovine fumanti della mattina dopo. Un´emozione molto forte, anche l´unica immagine di mio padre in Germania. Per fortuna riuscì a partire presto perché altrimenti l´avrebbero ammazzato. Fu lui a dire a mia madre che, per il nostro bene, sarebbe stato meglio divorziare e non avere più il nome Schoental. La cosa più importante era cancellare il cognome ebreo. Io avrei potuto avere lo stesso destino di Anna Frank.
Volevo essere internazionale
A 18 anni non riuscivo a studiare, volevo lasciare Goettingen. Era tutto miserabile e io inseguivo il sogno dell´America. Chiamai mio padre, che nel frattempo era diventato cittadino statunitense. Gli dissi che volevo raggiungerlo, ed ero disposta a lavorare pur di mantenermi agli studi. Lui mi rispose di no. Si era risposato con una donna di Hannover, e questa signora non mi voleva. «Va bene, ho capito». In fondo oggi sono molto felice di non essere andata a vivere in America. Però all´epoca volevo essere internazionale. Arrivai ad Amburgo in bicicletta, e dopo poche settimane incontrai il fondatore dello Spiegel, Alex Springer, zar dell´editoria. (...) A vent´anni conoscevo già il mondo».
14 luglio 1958, l´incontro
Abbiamo sempre festeggiato l´anniversario della Rivoluzione Francese, un giorno per noi molto importante. Ero arrivata ad Amburgo dal Ghana e chiamai il mio amico Rowohlt (ndr uno dei più grandi editori europei). Ledig mi accolse con entusiasmo, proprio quella sera aveva organizzato un ricevimento per l´editore de Il dottor Zivago. Arrivai alla festa un po´ tardi e notai in disparte un uomo con i baffi, completamente solo. Era Giangiacomo Feltrinelli. Gli dissi che sapevo tutto di lui perché avevo fotografato sua madre al ballo del Duca di Windsor. Ma mi accorsi subito di aver fatto una gaffe: la sua faccia era diventata grigia. Mi raccontò che stava andando a Helsinki, Oslo e Stoccolma per incontrare tutti gli editori di Pasternak, poi avrebbe proseguito per il Polo Nord con la tenda. «Interessante», pensai. Fummo gli ultimi ospiti a lasciare la festa, e io gli offrii un passaggio in macchina. Alloggiava al Quattro Stagioni, l´albergo più bello di Amburgo, affacciato sul lago Edersee. Di fronte allo specchio d´acqua c´era una panchina. Ci sedemmo e parlammo fino al mattino seguente. Cominciò tutto così.
Brecht vestito di seta
Milano era una città speciale. A una prima di Brecht, arrivavano i critici da Berlino. Andai con Max Frisch a una prova del Galileo diretto da Strehler e davanti a tutto quello sfarzo, a quel cuoio ricamato e alla seta pregiata, Max non si trattenne: «Brecht si sarebbe rivoltato nella tomba».
Romanticismo tragico
Giangiacomo era schivo, anche un po´ timido. Molto sospettoso, certo non allegro. Però aveva un senso dell´umorismo pungente e raffinato. Il suo romanticismo conteneva sempre un elemento di tragicità, secondo la grande tradizione tedesca. Negli ultimi tempi, poco prima della sua morte, lo affascinava lo studio del romanticismo, un pensiero molto complesso che sfocia nella tristezza e nella malinconia. Tutti i romantici tedeschi, da Kleist a Hoelderlin, erano grandi figure tragiche. (...) Era un homo novus, come disse Kurt Wolff. Era un moderno imprenditore di cultura, non soltanto un editore. Non si accontentava di fare una cosa sola, era ansioso di fare sempre di più. Voleva cambiare il mondo, e rimase prigioniero della sua utopia. Così facendo, purtroppo, ha sbagliato moltissimo.
L´ultimo appuntamento
Il 14 marzo (ndr 1972), alle 9, Carlo ed io avevamo un appuntamento con Giangiacomo, nella piazza principale di Lugano. Avevamo programmato di ripartire alle tre del pomeriggio, ma a quell´ora lui non era ancora arrivato. Ero sfinita. Mi sembrava impossibile. Ripartimmo per Milano perché Carlo aveva la partita alle cinque (...). Il mattino seguente aprii il Corriere della Sera. Non parlava di Giangiacomo, ma c´era la foto di un morto. Senza nome, nessuno sapeva chi fosse. Io capii immediatamente: era lui. (...) Non credo a nessuna versione ufficiale. Non mi lascio convincere da nessuno. Sarà uno dei tanti misteri italiani, dai Borgia in poi.
Le parole per Carlo
Il giorno dopo Carlo andò a scuola. La vita continua, non volevo traumatizzarlo ancora di più. La nonna Giannalisa insistette perché andasse in un collegio svizzero. Io invece lo mandai al Parini, a dieci minuti da casa nostra. Credo che per un bambino di quella età il vero dolore arrivi dopo. Aveva appena dieci anni.
Non sono un´intellettuale
Credo di avere la capacità di essere un buon catalizzatore tra le persone. Sono abbastanza intelligente e svelta, il mio background è ricco, soprattutto ho avuto molte opportunità nella vita. Ma non mi considero un´intellettuale. Non è necessario che un editore lo sia. Rowohlt annusava i libri e solo dopo tre pagine sapeva se andava bene. Il vecchio Knopf, quando un redattore gli presentava un libro dicendo che era «abbastanza buono», aveva l´abitudine di rispondere: «Lei mangerebbe mai un uovo abbastanza buono?».

Repubblica 1.11.10
Santo Graal
Quel calice falso che beffò Hitler
di Franco Zantonelli


L´ossessione del Führer per la reliquia convinse un amico industriale a regalargliene una copia taroccata Recuperata poi in fondo a un lago, venduta a una milionaria. E ora al centro di un processo per truffa
Il dittatore lo voleva a tutti i costi Il committente si portò il segreto nella tomba

ZURIGO. È finito nel caveau di una banca di Kloten, alla periferia di Zurigo, in attesa dell´esito di una disputa giudiziaria, il Santo Graal di Hitler. Si tratta di un calice d´oro massiccio, del diametro di 50 centimetri e del peso di 10 chilogrammi, che nel 2001 una ricca signora kazaka ha acquistato per un milione e mezzo di franchi svizzeri (poco più di un milione di euro), da un commerciante di oggetti d´arte di San Gallo, credendo di essersi impadronita del recipiente che avrebbe contenuto il sangue di Cristo e che, in realtà, altro non era se non un cimelio del Terzo Reich.
«Ho speso tutti quei soldi pensando ai poteri che, secondo la leggenda, il Santo Graal trasmette a chi l´ha con sé», ha dichiarato successivamente la donna, denunciando per truffa il faccendiere svizzero che glielo aveva venduto. La perizia di un tribunale del Canton Zurigo, presso il quale il commerciante d´arte è sotto processo in questi giorni ha, infatti, stabilito che il calice valeva non più di 150 mila franchi, essendo stato fabbricato negli anni ‘30. Niente a che vedere, quindi, con la reliquia alla quale, per duemila anni, schiere di credenti e di archeologi, dai cavalieri templari all´Indiana Jones cinematografico di Steven Spielberg, hanno contribuito a circondare di un alone di mistero.
Al fascino del Santo Graal non rimase estraneo neppure Adolf Hitler, convinto della potenza infinita che gliene sarebbe derivata, se fosse riuscito a metterci sopra le mani. Per questo motivo, proprio come ha raccontato Spielberg, sguinzagliò le SS, sulle tracce del prezioso cimelio. Heinrich Himmler, il gerarca che comandava le camicie brune hitleriane, nel 1940 fece mettere a soqquadro due castelli francesi, convinto di trovarci il Santo Graal. «Una convinzione basata sulla lettura del Parsifal di Wagner», ha rivelato il quotidiano elvetico Le Matin. Parsifal, ovvero quel cavaliere della Tavola Rotonda che sarebbe riuscito a vedere il Graal, perché ritenuto sufficientemente puro da potervisi avvicinare.
L´ossessione di Hitler per il sacro calice, ma anche per la lancia che trafisse il petto di Gesù in croce, avrebbe indotto un suo amico, l´industriale Albert Pietzsch, a far fabbricare una copia del Santo Graal, per poi donarla al Führer. «Pietzsch si portò quel segreto nella tomba», ha scritto il settimanale Spiegel. Per il quale, tuttavia, non ci sono dubbi sull´origine del calice, nel frattempo finito in Svizzera. Quando venne ripescato dal lago Chiemsee, in Baviera, fu subito chiaro che si trattava di un oggetto risalente al Terzo Reich. «Hitler - aggiunge lo Spiegel - passava le vacanze sulle rive dello Chiemsee». E la gente del posto, venuta a sapere dell´esistenza di quel grosso calice d´oro, pare ci scherzasse sopra, tanto che finì per diventare «il vaso da notte di Hitler».
Venne gettato nel lago Chiemsee nel 1945, all´epilogo della seconda guerra mondiale, quando gli ultimi fedelissimi del regime tentarono di far sparire tutto, dalle prove dei crimini alle ricchezze rapinate. Lo stesso avvenne, ad esempio, nel lago di Toplitz, in Austria. «Per 14 giorni, ininterrottamente - racconta un testimone dell´epoca - soldati nazisti gettarono in acqua casse piene di sterline». Si trattava delle sterline false che avrebbero dovuto venire utilizzate per mandare all´aria l´economia britannica. Medesimo copione anche al largo della Corsica, dove nel ‘43, prima che gli anglo-americani conquistassero l´isola, finì inabissato il tesoro di Rommel, frutto delle razzie dell´Afrika Corps in Nordafrica. Tutto sparito sul fondo del Mediterraneo, compresa la fortuna colossale che i tedeschi rapinarono al Negus dell´Etiopia, Hailé Selassiè. Si sono volatilizzate, infine, anche le 964 casse contenenti oro, gioielli e oggetti d´arte, che sarebbero state nascoste dai tedeschi nelle gallerie della diga di Stechovice, in Cecoslovacchia. Al loro arrivo gli alleati trovarono solo documenti.

Corriere della Sera 1.11.10
il nuovo libro di Daniel Goldhagen
I volonterosi carnefici dei genocidi
di Alessandra Farkas


Il nuovo libro del saggista: un viaggio da Hiroshima ai Balcani, fino all’Africa
Goldhagen: «Lo sterminio è una strategia politica, mai un caso»

NEW YORK — «Harry Truman, 33˚presidente degli Stati Uniti, era un assassino di massa. Ordinò per due volte di sganciare ordigni nucleari sulle città del Giappone. Il primo esplose su Hiroshima il 6 agosto 1945, il secondo su Nagasaki il 9 agosto». Inizia così Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità, il nuovo, provocatorio libro di Daniel Goldhagen, l’autore che ha ottenuto fama internazionale con due saggi particolarmente polemici sulla Shoah: I volonterosi carnefici di Hitler e Una questione morale: la Chiesa cattolica e l’Olocausto.
«Ho esordito accusando l’America di genocidio per dimostrare che, in qualità di storico statunitense, la nazionalità non influenza il rigore della mia ricerca», spiega l’autore, ex docente ad Harvard, «la mia indagine non risparmia nessuno». Nell’ultimo, voluminoso saggio appena pubblicato in Italia da Mondadori, Goldhagen lancia un accorato j’accuse al mondo «civile» che continua ad assistere passivo alla catastrofe perpetrata ai danni di interi popoli, come se quella pratica criminale e inumana non lo riguardasse. Il Tibet, l’Armenia, la Corea del Nord, l’ex Jugoslavia, l’Iraq di Saddam Hussein, il Ruanda, il Sudan meridionale, la Repubblica democratica del Congo e il Darfur, sono tutti scenari di guerra in cui è stato usato il genocidio come deliberata strategia politica per sterminare milioni di persone. «I genocidi del XX e XXI secolo hanno mietuto oltre cento milioni di vittime», afferma l’autore, «un numero di gran lunga superiore a quello di tutte le guerre combattute nello stesso periodo».
Dietro al rigore storico, alle analisi scrupolose e a una sterminata mole di dati, da ogni pagina di Peggio della Guerra traspare l’empatia e il senso di responsabilità morale del figlio di un sopravvissuto all’Olocausto (suo padre Erich scampò per miracolo al ghetto ebraico di Czernowitz) che ha intrapreso un viaggio doloroso e personale nel cuore delle più cruente dittature per cercare di dare un senso a una follia solo all’apparenza irrazionale che ha segnato la propria storia famigliare.
La conclusione del libro stupirà molti studiosi della Shoah: anche se la tecnologia usata dai nazisti per sterminare gli ebrei era «inedita» e l’entità del loro obiettivo «senza precedenti», teorizza Goldhagen, le caratteristiche e i meccanismi dell’Olocausto sono «identici» a quelli degli altri genocidi della storia. «L’omicidio di massa non è mai un’eruzione casuale di violenza che non può essere prevenuta e spiegata», afferma, «ma piuttosto una deliberata strategia politica per concentrare e conservare il potere nei regimi non democratici, eliminando milioni di persone».
Non si tratta, insomma, di conflitti etnici «irrazionali ed emotivi», frutto di un indecifrabile e passeggero rigurgito. Goldhagen rilancia la tesi del «seguace zelante» che tanto scosse la coscienza del popolo tedesco all’uscita de I volonterosi carnefici di Hitler. «Senza criminali efferati come José Efraín Ríos Montt, Omar al-Bashir e Kim Jong-il gli stermini di massa non esisterebbero. Ma oggi, come negli anni Trenta, la mente ha bisogno del braccio, senza il quale non potrebbe esistere».
Il libro smonta la tesi de La banalità del male di Hannah Arendt, la grande filosofa ebrea d’origine tedesca secondo cui i crimini perpetrati da Eichmann — e dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah — era dovuto non ad un’indole maligna radicata nell’anima, quanto piuttosto ad una completa inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. «Anche la Arendt non ha condotto la sua ricerca in maniera sistematica», punta il dito Goldhagen: «Ha basato il suo studio su un solo uomo, Eichmann, sostenendo erroneamente che non era antisemita».
In uno dei capitoli più drammatici del libro, un hutu del Ruanda spiega all’autore di aver sterminato tanti tutsi perché «convinto che non fossero esseri umani». «Ho raccolto infinite prove che questi giustizieri volenterosi sono certi della giustezza di ciò che fanno perché persuasi che le loro vittime meritano di morire. Solo così si può spiegare lo zelo, la passione e la crudeltà che infliggono alle loro vittime».
Ma il genocidio è solo l’aspetto più estremo di un fenomeno ben più vasto e pernicioso: l’eliminazionismo, che tra le sue spietate strategie annovera la fame, le privazioni, le espulsioni e conversioni forzate, la sterilizzazione, l’incarceramento e lo stupro. «Non avevo mai trattato quest’ultimo tema», racconta Goldhagen, che ha intervistato tante vittime di ciò che definisce «una fase sistematica del processo eliminazionista, volta a umiliare la donna e, insieme, attaccare il nucleo famigliare, distruggendo il tessuto stesso della società».
Che cosa può fare la comunità internazionale, Italia inclusa, per fermare la mattanza? «Risponderò con un’altra domanda: quante vite di un cittadino del Darfur valgono la vita di un solo italiano?». La ricetta che Goldhagen propone è commensurata all’enormità del male: abolizione delle Nazioni Unite, («proteggono i criminali di massa»), introduzione del patibolo da parte della Corte Penale Internazionale («anche se in Italia ciò non piacerà»), messa a punto di un manuale per i leader del pianeta sulle pene adottate contro chi si macchia di genocidio e infine creazione di una forza rapida d’intervento per fermare i massacri sul nascere. «Se la Nato avesse bombardato la Serbia nel ’92 invece che nel ’95», spiega, «avremmo salvato 100 mila vite bosniache».
Goldhagen sta lavorando con il gruppo Facing our history per introdurre nei licei americani un curriculum ispirato a Peggio della guerra. Il ministro dell’Istruzione inglese Michael Gove vuole introdurlo anche nelle scuole del Regno Unito e l’autore spera di poter fare lo stesso in Italia. Ma un ruolo chiave spetta ai media. «Oggi lo scandalo più idiota ottiene cento volte più attenzione del massacro di milioni di innocenti in Africa», denuncia. «Per questo l’attivismo di una celebrità compassionevole come Mia Farrow è così cruciale».
Ciò che più lo turba è l’impunita dei carnefici. In un’intervista del giugno 2008 l’autore cita José Efraín Ríos Montt, il politico guatemalteco responsabile del massacro di oltre duecentomila indiani maya all’inizio degli anni Ottanta: «Ríos Montt è ancora deputato, libero non solo di vivere come gli pare ma anche di dettar legge in Parlamento. Come possiamo vivere in un mondo dove gli Hitler di oggi continuano ad essere liberi, ricchi, onorati?».
I riflettori dovrebbero essere puntati sull’imminente referendum in Sudan che, secondo Goldhagen, rischia di portare a un nuovo genocidio nel Sud. «La comunità internazionale può fermarlo e se non lo farà, sarà costretta a rendere conto della sua ignavia». Il più negligente di tutti, a suo avviso, è il presidente americano Barack Obama. «Nonostante la sua profusa eloquenza, non ha mosso un dito in Africa. Avendo vinto il Nobel per la pace, forse dovrebbe iniziare a fare qualcosa per meritarselo». L’autore è già al lavoro sul suo prossimo libro: «Esplora il dramma dell’antisemitismo ai giorni nostri», spiega, «con un capitolo dedicato all’Italia».

Corriere della Sera 1.11.10
«Profeta reazionario», la destra arruola Pasolini
di Dino Messina


Il «Secolo d’Italia» dedica un numero monografico all’autore degli «Scritti corsari» ucciso 35 anni fa

È vero, si iscrisse al Partito comunista due anni dopo che i partigiani della Garibaldi gli avevano ucciso il fratello Guido. E continuò a dirsi marxista anche quando i perbenisti del Pci lo espulsero per «indegnità morale» a causa delle sue frequentazioni omosessuali. Non sono motivi sufficienti per non rintracciare nella personalità di Pier Paolo Pasolini a 35 anni dalla morte (2 novembre 1975) affinità con la cultura di destra. Potrebbe essere riassunto così il numero monografico che ieri il «Secolo d’Italia», «quotidiano di Alleanza nazionale» diretto da Flavia Perina alle prese in questi giorni con una drammatica crisi economica, ha dedicato all’autore dei Ragazzi di vita e regista di Accattone.
La cultura di destra arruola dunque una delle icone della sinistra intellettuale? Certo si tratta di rivalutazione e in alcuni casi di un mea culpa per non averne inteso le capacità profetiche e l’apertura a-ideologica, soprattutto nel dopoguerra dominato dallo scontro fra destra e sinistra. Marco Iacona ricorda la collaborazione di Pasolini con Giovannino Guareschi nel film La rabbia (1963), «esperimento di andare oltre gli steccati destra/sinistra e di proporre una critica condivisa al consumismo». Pasolini, è la tesi, fu un profeta sopra le parti, per esempio quando negli anni delle stragi «si autoescluse dal linciaggio mediatico dei cosiddetti "fascisti"». Un indipendente «non avvezzo alla morale comune», che «ama Ezra Pound con cui dialoga in una celebre intervista televisiva».
Negli interventi ricorre la citazione del sessantotto di Pasolini visto dalla parte dei poliziotti figli del popolo contro i capelloni «figli di papà», l’odio per la televisione madre della cultura omologante, ma si parla anche di quel «saluto e augurio» rivolto a un fascista «morto», cui affida tuttavia «la missione di amare i poveri purché restino poveri»: «ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo / tra prati e palazzi». Versi che fanno sentenziare a Miro Renzaglia: «Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario». Su questa china il critico Maurizio Cabona sottolinea le «affinità» con Mishima: «La somma d’omosessualità, morte violenta e posizioni politiche eccentriche appaiò Mishima e Pasolini: non erano stati segnati entrambi dalla guerra mondiale vissuta dalla parte dei vinti? Non tenevano entrambi alla vigoria del corpo? Non erano entrambi nostalgici di una tradizione nazionale perduta?».
C’è poi spazio per un mea culpa. Lo fa Adalberto Baldoni, autore con Gianni Borgna del libro Una lunga incomprensione: Pasolini fra destra e sinistra (Vallecchi). Baldoni ricorda le aggressioni fisiche alla presentazione di «Mamma Roma» nel settembre 1962. Era l’epoca del «muro contro muro» e dell’omofobia dell’Msi. Sicuri che queste pulsioni siano per sempre scomparse?

l’Unità 1.11.10
Su Radio3 una settimana dedicata a Lev Tolstoj


Sarà Maria Cristina da Città di Castello la prima ascoltatrice di Fahrenheit a leggere al telefono dieci righe da Resurrezione, il suo romanzo tolstojano preferito. Con lei sono tantissimi i «fan»di Tolstoj che gli renderanno il loro personale omaggio. Da oggi a domenica 7, giorno in cui cadono i 100 anni dalla morte di Tolstoj, tutta Radio3, con l’aiuto di scrittori e critici renderà omaggio all’opera e alla vita convulsa del romanziere, pedagogo, filosofo, teologo, attivista sociale. Fahrenheit ha mobilitato oltre quelle dei suoi ascoltatori le letture dell’opera tolstojana da parte di Salvatore Niffoi (La morte di Ivan Ilic), Dacia Maraini (Guerra e pace), Serena Vitale (Resurrezione), Barbara Alberti (Sonata a Kreutzer), mentre Lea Massari ricorderà la sua Anna Karenina cinematografica. Per Ad alta voce, fino a venerdì, Arturo Cirillo leggerà un racconto al giorno. Hollywood party si occuperà di Tolstoj come soggettista. Giovedì Radio3 Scienza parlerà dell’incontro fra Tolstoj e Cesare Lombroso, avvenuto nel 1897.
A Passioni, sabato, Eraldo Affinati parlerà del Tolstoj educatore. Radio3 Suite con Giulietto Chiesa darà voce al Tolstoj è morto di Vladimir Pozner, domenica sarà la volta della versione lirica di Resurrezione di Franco Alfano, con l’orchestra e il coro della Rai di Torino. Domenica, l’omaggio di Uomini e Profeti verterà sull’interpretazione del cristianesimo di Tolstoj (con Sergio Givone, Goffrefo Fofi, Igor Sibaldi, Paolo Nori e la pronipote Tania Albertini Tolstoj). E dallo scrigno de La Grande Radio, spazio agli interventi di Pietro Citati e Vittorio Strada, alle letture di Vittorio Sermonti, Raffaele La Capria, Giovanni Raboni e Walter Siti. info: www.radio3.rai.it.

Repubblica 1.11.10
Oltre 23mila le opere in concorso per la Biennale Ne sono state scelte 25 per l´esposizione e il sito
YouTube al museo i migliori video nel tempio dell´arte
di Anna Lombardi


Proiezioni sulla facciata dello storico edificio e una giuria con nomi celebri

NEW YORK. È l´evoluzione 2.0 del sogno di Joseph Beuys, il maestro tedesco che mezzo secolo fa proclamò che siamo tutti artisti: a patto di trovare il nostro spazio di libertà. «Oggi quello spazio è la babele virtuale più pop che ci sia, YouTube. Dove l´accesso costante alle immagini velocizza scambio di linguaggi e ispirazione». Nancy Spector, curatrice del Solomon R. Guggenheim, vera potenza dell´arte, non ha dubbi. Siamo nell´era della YouArt? «Abbiamo preso atto del potere di Internet nel catalizzare e disseminare nuove forme culturali, riconoscendo il video digitale online come nuova forma d´arte. Oggi chiunque abbia una webcam e un computer parla a un´audience vastissima. Può influenzare altri artisti e avere più successo che esponendo in galleria».
Oddio, chiunque. Dei 23 mila e 358 video provenienti da 91 paesi e sottoposti alla giuria di YouTube Play, prima Biennale del Video Creativo – il concorso lanciato online lo scorso anno da YouTube in collaborazione con Guggenheim – solo 25 ce l´hanno fatta: molti artisti veri e qualche artista per caso. Come Lindsay Scoggins, venticinquenne di Tampa, Florida «dove si passa la vita in macchina. Fra un viaggio e l´altro mi accorsi che il rap alla radio sembrava cantato dal Brucaliffo di Alice. Feci un video intitolato Wonderful Mafia, lo misi su YouTube: e la mia vita è cambiata. Ho avuto due milioni di contatti. E inviti ai talk show, proposte di lavoro». Dal corto tradizionale al mini clip sperimentale, questo è davvero un museo planetario. C´è il brasiliano Jarbas Agnelli che trasforma in sinfonie le formazioni di uccelli. I rapper sudafricani Die Antwoord. L´olandese che lavora su un computer disegnato a matita. E c´è quel fenomeno della rete intitolato I Met the Walrus: il corto animato costruito sull´intervista fatta a John Lennon nel 1969 dall´allora quattordicenne canadese Jerry Levitan, oggi produttore di un film che è un capolavoro d´amore e poesia. Fra tanti ventenni, Perry Bard, classe 1944, è la nonna del gruppo. Così colta da aver rivisitato L´uomo con la macchina da presa realizzato nel 1929 da Dziga Vertov, in un ambizioso ma puntuale Global Remake: «Perché oggi è così che il grande regista russo lavorerebbe. Utilizzando un software».
«È la dimostrazione che c´è più arte in giro di quel che riusciamo a scoprire» ammette Nancy Spector. «I lavori erano così belli che abbiamo dovuto premiarne cinque in più». E sì che in giuria c´erano artisti straordinari: la videomusicista americana Laurie Anderson, l´artista iraniana Shirin Neshat, il giapponese Takashi Murakami...
YouTube dunque non è solo crogiuolo di fenomeni pop, da Bad Romance di Lady Gaga, 287 milioni e 254.587 visitatori, alla gatta pianista Nora, 19 milioni di fan. «Piuttosto un laboratorio globale» dice Ed Sanders, responsabile marketing dell´azienda nata 5 anni fa e oggi terzo sito più visitato dopo Google e Facebook. Non per niente la Biennale è stata pensata come evento digitale: sempre visibile sul sito realizzato ad hoc. Ma che per una notte si è guadagnato perfino la straordinaria facciata del Guggenheim: proiettando il museo in un futuro che nemmeno il suo autore, Frank Lloyd Wright, avrebbe potuto immaginare.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte