mercoledì 3 novembre 2010

Repubblica 3.11.10
Bersani: paese nel caos, i finiani si sveglino
di Givanna Casadio

"Il Cavaliere come Sansone". Vendola: pensa se tuo figlio fosse gay
Martedì Maroni dovrebbe rispondere alla Camera su Ruby. Cesa: siamo al delirio, il presidente del Consiglio si dimetta
ROMA - Bersani ha sentito più volte Fini nei giorni scorsi. Gli ha detto quello che ieri - nella conferenza stampa convocata dopo le uscite di Berlusconi sui gay, le donne e Ruby - rilancia: «Il premier come Sansone vuole abbattere tutto con tutti i Filistei. Porta il paese nel caos sotto il profilo politico, morale, economico e sociale. Nasce nel discredito della politica e intende morire nel discredito della politica». Il "mayday" del segretario del Pd davanti al paese che affonda, è un´ultima chiamata per Fli, il movimento di Fini: «Si sveglino, vedo tatticismi, cabotaggio, aspettano domenica per la riunione di Fli, ma così non si può andare avanti». Però l´appello è anche alla Lega e agli ex forzisti che hanno senso di responsabilità per il bene del paese. Non è più questione di «settimane o mesi ma di giorni, di ore; chi ha voglia di fare qualcosa, questo è il tempo».
È circostanziato l´atto d´accusa di Bersani. Parla, il leader Pd, della cultura machista del premier che vede «la donna come un dopolavoro del maschio e gli omosessuali che devono essere disprezzati. Con i minorenni poi si può ragionare così: li salvo dalla polizia per salvare me stesso e dopo li metto sulla strada». E sul Rubygate, il capogruppo Dario Franceschini ha chiesto formalmente che il ministro Maroni venga in Parlamento. Ci sarà, forse martedì. I Democratici al Senato presentano un´interrogazione perché Frattini riferisca sui rapporti con Mubarak dopo la bugia di Berlusconi. La via d´uscita è una governo di transizione per la legge elettorale e altre, poche priorità. Esempio? Fisco e occupazione dei giovani. Senza in alcun modo tirare Napolitano per la giacca e però senza permettere al centrodestra di parlare di golpe: «Non pensiamo a tradimenti e a ribaltoni; il colpo di Stato lo ha fatto il centrodestra tradendo il paese e portandolo nella palude». Comunque è "no" a un governo a guida leghista: «Il Pd non fa da salmeria e da stampella per un governo di centrodestra». E Rosy Bindi: «Berlusconi ha compiuto un abuso di potere mascherato da atto di carità».
Palude e «triste avanspettacolo». Lo dice Nichi Vendola, il leader di Sel, che si sente colpito anche come gay. «Caro Berlusconi - si rivolge al premier in un videomessaggio su suo sito - le tue battute feriscono tutti, sono una minuscola enciclopedia di imbecillità. Se un tuo figlio, un tuo amico, un tuo ministro fosse gay pensa a quanta gratuita sofferenza gli staresti infliggendo». È un triste spettacolo: «Esca con decoro, si dimetta, il tempo delle barzellette è scaduto». Affondo di Di Pietro e pure dell´Udc: «Siamo al delirio, Berlusconi si dimetta», afferma Cesa. Pannella su Fini: «È solo sceso nella mischia, non salito a una politica forte».

l’Unità 3.11.10
Iran, paura per Sakineh «Tutto deciso, giustiziata oggi»
di Rachele Gonnelli


Mercoledì è giorno di forca nel carcere di Tabriz, in Iran. Ed è forte l’allarme per Sakineh, la donna che si trova lì reclusa in attesa di essere giustiziata. L’Europa chiede a Teheran di fermare il boia, commutando la pena.

La corda potrebbe essere appesa oggi per Sakineh Ashtiani. Le voci che in modo tortuoso attraverso le organizzazioni dei fuoriusciti iraniani in Italia, Francia e Germania vengono dal carcere di Tabriz, dove la donna è reclusa, parlano di una sua possibile esecuzione nelle prossime ore. Presto, troppo presto, per attivare tutti i canali della grande mobilitazione che nel luglio scorso aveva consentito che almeno si aprisse un fascicolo per il riesame del suo caso e poi a fine agosto all’annuncio della fine della barbara pratica della lapidazione delle adultere in Iran. Non è bastato a salvarla. Sakineh, inizialmente condannata alla lapidazione per adulterio, ora rischia di essere impiccata per complicità nell’omicidio del marito.
Il presidente dell’associazione di iraniani residenti in Italia Karmi Davood ieri ha dato l’allarme: «Ci sono informazioni fondate che provengono da Tabriz di una accelerazione dell’esecuzione». Le stesse informazioni, non si sa se dalla stessa fonte, sono ribalzate anche dalla Francia, attraverso il sito La Règle du Jeu che fa capo al filosofo Bernard-Henri Lèvy attivista dei diritti umani e molto impegnato nella campagna per la liberazione di Sakineh. Chi ha le prove dell’imminente esecuzione della condanna a morte della donna è Mina Ahadi, portavoce del Comitato contro la Lapidazione con sede in Germania che ha seguito da vicino la vicenda dell’arresto del figlio della donna, Sajjad Ghaderzadeh, insieme al suo avvocato e a due reporte tedeschi che li stavano intervistando. Si tratta di una lettera inviata dall’Alta corte di giustizia di Teheran che darebbe il via libera ai carcerieri della prigione di Tabriz. Mina Ahadi è convinta che queste siano «ore cruciali» per il suo caso. Anche il rilascio del figlio Sajjad e del suo avvocato Houtan Kian sarebbe stato sospeso finchè la donna non sarà giustiziata.
LA CONFESSIONE ESTORTA
Il figlio 22enne di Sakineh si nè battuto come un leone per l’innocenza della madre, parlando con tutti i media occidentali disposti a starlo a sentire. Da quando è in arresto, lo scorso 10 ottobre, si teme sia stato torturato. Ieri sul giornale Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, è apparsa la trascrizione di una confessione di Sajjad nella quale il ragazzo addossa ogni colpa al suo avvocato «interessato solo a ottenere l’asilo all’estero», «in contatto con Mina A., comunista antitedesca, e del suo Comitato gestito da circoli controrivoluzionari di rifugiati». Lui e la sorella sarebbero stati strumentalizzati da Kian come dal legale precedente della madre, Mohammad Mostafavi, ora in Norvegia dove ha seguito il destino di esilio dell’altra portabandiera dei diritti umani in Iran, la Premio Nobel Shrin Ebadi, attaccata anch’essa nell’articolo del giornale governativo.
Mercoledì è giorno di forca a Tabriz. E tutti questi indizi hanno finito per mettere in allarme anche Roma e Bruxelles, anche se a Frattini non risulta niente. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata» ed è tornata a chiedere «all'Iran di fermare l'esecuzione e di commutare la condanna». Una impiccagione non è più «accettabile» di una esecuzione per lapidazione, ha rimarcato, dando seguito alle molte pressioni per un suo immediato intervento per fermare il boia. Anche la diplomazia Usa è in campo. A Parigi, Bruxelles e Roma nella notte sono state riaccese centinaia di candele per Sakineh. Una veglia che si spera non preluda a cose peggiori.

Corriere della Sera 3.11.10
Lo sdegno di Roxana Saberi «E’ una decisione orribile»
di Viviana Mazza


«Come spesso accade nel sistema giudiziario iraniano, penso che il caso di Sakineh Ashtiani non sia stato né trasparente né equo». Roxana Saberi commentava così ieri sera la notizia, non ancora confermata da Teheran, che Sakineh Ashtiani avrebbe potuto essere impiccata oggi. Sono passati 18 mesi dal rilascio di Saberi da Evin, il carcere di Teheran dove vengono spesso rinchiusi i detenuti politici, e il suo libro «Prigioniera in Iran» è uscito da poco in Italia, edito da Newton Compton. E’ un diario dei 100 giorni di reclusione a Evin della giornalista americana accusata di spionaggio, ed è una riflessione sulla verità, dice al Corriere.
«Ashtiani — ricorda Roxana Saberi — era stata condannata alla lapidazione, ma poi le autorità iraniane hanno annunciato che la sua sentenza era stata sospesa, dopo che governi, associazioni dei diritti umani e personaggi influenti di tutto il mondo hanno definito questa condanna "barbara" e "brutale", come sicuramente è. Se le ultime notizie sono vere, ora sarà impiccata: una decisione orribile e biasimevole. Nessuna delle due sentenze, di impiccagione o di lapidazione, è accettabile. Oltretutto, sia l’avvocato che il figlio di Ashiani, che hanno lanciato una campagna per il suo rilascio, sono in prigione».
Sono state proprio le storie di donne come Sakineh a portare Saberi a diventare un’attivista dei diritti umani, dopo il suo rilascio dalla prigione di Evin. Di lei scrissero l’anno scorso i giornali di tutto il mondo. L’ex Miss North Dakota con master in giornalismo e doppia cittadinanza, iraniana e americana, arriva nel 2003 a Teheran, affascinata dalla terra natia del padre, sposato con una patologa giapponese e residente negli Usa. Riceve l’accredito stampa, produce servizi per vari media, dalla radio pubblica Npr alla tv conservatrice Nel 2006 le negano un nuovo accredito, ma lei resta in Iran a fare interviste per un libro. Nel gennaio 2009 l’arrestano con l’accusa di spionaggio.
Dopo due giorni a Evin, Saberi ha confessato d’essere una spia. Altri ex detenuti hanno detto d’aver rilasciato false confessioni sotto tortura. Anche Sakineh ha confessato in tv. La sottoposero a pressioni psicologiche, che considera una forma di tortura. La avvertirono che potevano tenerla lì per vent’anni, che rischiava la forca se non «collaborava», minacciarono la sua famiglia e il suo fidanzato, il regista Bahman Ghobadi. E lei si convinse che le conveniva «confessare». Ma anziché liberarla, la sottoposero a nuovi interrogatori, costringendola ad accusare un amico innocente. In carcere invece conobbe altre donne che non s’erano piegate, rifiutando di confessarsi spie: come Silva Harotonian, che lavorava per un programma di scambio Iran-Usa per la salute di donne e bambini, come Mahvash Sabet e Fariba Kalamabadi di fede bahai. «Credevano in qualcosa al di là di se stesse: la fede, gli amici, l’ideologia». Provando vergogna per aver tradito i suoi princìpi, Roxana ritrattò la «confessione». E quando la condannarono a 8 anni per spionaggio, iniziò lo sciopero della fame mentre una campagna mondiale chiedeva il suo rilascio. Le diedero due anni con la condizionale, e la liberarono. La «chiave», dice, è stata la mobilitazione globale (anche se c’è anche chi ipotizza un accordo, visto che furono rilasciati due mesi dopo 5 iraniani presi in Iraq).
Roxana non è più fidanzata con Ghobadi, che dopo i suoi Gatti persiani, sta girando un film nel Kurdistan iracheno. E non fa più la reporter. «Da giornalista pensavo che il mio compito fosse di dare le notizie evitando di schierarmi. Ma dopo aver vissuto in prima persona le violazioni dei diritti umani in Iran, è difficile per me restare imparziale». Silva Harotonian è stata rilasciata dopo una campagna cui ha contribuito anche lei. Le due donne bahai che ha conosciuto sono ancora in carcere. Come lo è Sakineh. «Non posso restare in silenzio». Roxana l'attivista gira per le università parlando dei diritti umani. A volte porta al collo lo stesso velo turchese che nel giorno del rilascio le incorniciava il volto.

l’Unità 3.11.10
Dopo una marcia lunga cento anni la Cgil si tinge di rosa
Le donne sono il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono a capo di importanti strutture. E oggi, con l’elezione al vertice di Susanna Camusso, cade l’ultimo tabù
di Bruno Ugolini


Non è più il tempo di «Riso amaro», quando le mondine alla Silvana Mangano cantavano «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo». Non è nemmeno più il tempo di Giuseppe Di Vittorio, quando al teatro Apollo di Firenze (gennaio 1954) concludeva la prima «Conferenza nazionale della donna lavoratrice» prendendosela con quanti accusavano le donne di andare a lavorare solo per poter comprare «calze e rossetto». Esclamava il segretario della Cgil: «Noi vogliamo conquistare per tutte le donne del popolo anche le calze di seta!» Non è nemmeno il tempo in cui (sempre anni ‘50) un intellettuale d’avanguardia come Gianni Toti, direttore del «Lavoro», settimanale della Cgil, litigava con la redattrice Lietta Tornabuoni che detestava la tendenza a mettere «donnine» in copertina. Tutto è cambiato rispetto ad allora. Non c’è più la calata in massa delle mondine nelle risaie. Mentre le lavoratrici che producono proprio anche le calze, come le operaie dell’Omsa, si vedono portare via il lavoro ricollocato in Serbia. E si è allargata enormemente la platea delle donne lavoratrici. Una platea che ha combattuto strenuamente anche per avere una rappresentanza adeguata.
Così ora in Cgil sulla sedia occupata da Di Vittorio va a sedersi proprio una donna, Susanna Camusso. Epilogo di una lunga marcia nel cuore di un’organizzazione che pure è considerata un tempio del conservatorismo.
Certo all’inizio, nei gruppi dirigenti del principale sindacato italiano, c’erano solo maschi. Dalla data di nascita (1906) sono trascorsi oltre 70 anni prima che una donna, Donatella Turtura, fosse chiamata da Luciamo Lama a far parte della segreteria confederale. Un salto di qualità che aveva però visto altre donne conquistare un primato nelle categorie. Così Teresa Noce segretaria dei tessili nel 1947. Un’industria prettamente femminile ma dove i primi segretari erano stati (1945) tre uomini. Altre donne importanti, sempre nei tessili, erano state Lina Fibbi e Nella Marcellino (chiamata poi a dirigere gli alimentaristi).
Oggi le donne in Cgil sono circa il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono alla guida di numerose Camere del lavoro e strutture regionali nonché di categorie e organismi nazionali (pensionati con Carla Cantone, funzione pubblica con Rossana Dettori, agroindustria con Stefania Crogi, lavoro atipico e precario con Filomena Trizio, l’Inca con Morena Piccinini). Dopo l’esperienza dei coordinamenti femminili (e prima delle commissioni femminili e dell’ufficio lavoratrici) sono state adottate le cosiddette quote. Prima nella funzione pubblica come ha ricordato Valeria Fedeli, poi nel 1986, sotto, l’egida del segretario generale Antonio Pizzinato, con il 20% dei posti assegnati in comitati direttivi e segreterie. Ed ecco il balzo nella segreteria confederale diretta da Bruno Trentin nel 1990 di tre esponenti del mondo femminile: Maria Chiara Bisogni, Anna Carli, Fiorella Farinelli. Con Sergio Cofferati il raddoppio con sei donne: Carla Cantone, Titti Di Salvo, Nicoletta Rocchi, Marigia Maulucci, Morena Piccinini, Paola Agnello. Ora, l’ascesa di Susanna Camusso. Siamo alla scalata finale.
E’ possibile ritrovare nel tempo l’impronta continua del movimento sindacale femminile e delle sue protagoniste. Alcune delle quali poco conosciute come Argentina Altobelli (tra i fondatori della Federazione nazionale dei lavoratori della terra), l’operaia Abele Bei (sindacato tabacchine), la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato.
Le donne c’erano «ma invisibili» ha scritto Maria Luisa Righi (un saggio nei volumi «Mondi femminili in cento anni di sindacato», Ediesse). L’opinione pubblica sentiva parlare o leggeva di «una massa indistinta di lavoratori, classe operaia, uniforme e asessuata». Solo attraverso le fotografie si vedranno «tante ragazze, le gonne corte e i capelli curati, sorridenti e festanti per le vittorie conseguite».
Generazioni e generazioni di lavoratrici e dirigenti promotrici di battaglie sindacali per il diritto al lavoro delle donne, per la tutela della maternità, per la tutela dell’infanzia, per la parità salariale tra donne e uomini a parità di mansione e di lavoro. Alcune le ho conosciute personalmente come la Donatella Turtura incontrata a Genova nel 1987 mentre affrontava senza tremori un’assemblea infuocata dei «camalli» di Paride Batini molto polemici con la Cgil. O Nella Marcellino che mi ha fatto leggere in anteprima un suo libro di memorie («Le tre vite di Nella», a cura di Maria Luisa Righi, edizioni Sipiel) dove racconta gli scioperi del ’43 e la conquista del diritto d’assemblea nelle fabbriche alimentari nel 1968. Un ruolo decisivo di queste donne anche per leggi come quella sul divorzio nel 1970, sulla tutela delle lavoratrici madri e per gli asili nido nel 1971, sulla riforma del diritto di famiglia nel 1975 e sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza nel 1978. I benedetti anni 70.
Una presenza determinante. Eppure oggi, come ha avuto modo di annotare proprio Susanna Camusso per molti il metro è ancora quello per cui una donna è brava «se ha le palle». Ovverosia se assomiglia al maschio. Speriamo che oggi non si aspettino solo uno sforzo mascolino, quanti guardano con malizie e sospetti alle scelte della nuova Cgil del dopo Epifani. Sarebbe auspicabile invece, una strategia all’altezza dei tempi, in un paese quasi allo sfascio, senza governo e senza politica, e quindi spesso addirittura senza interlocutori contro cui scioperare. Magari avendo sott’occhio un altro verso di quell’antica canzone delle mondine: «E la libertà non viene, perché non c’è l’unione».

l’Unità 3.11.10
L’«Opa» di destra su Pasolini
di Bruno Gravagnuolo


Adesso però questa «neo-destra» civile esagera. Deborda. E per eccesso di neofitismo rischia il dilettantismo e la pacchianeria. Prima ci annunciano mirabilie culturali con il loro «Manifesto d’Ottobre», denso di vaghezze e luoghi comuni. Poi invocano «il giornalismo di destra di una volta». Dimenticando che, ultimo Montanelli a parte, il giornalismo di destra da noi fu sempre codino e reazionario. Oggi infine sul Secolo si annettono Pasolini e ne fanno un profeta reazionario, nobile e di destra ( «sopra le parti», aggiungono). No, cari ragazzi finiani. Pasolini era senz’altro un populista, un (neorealista) romantico. E Asor Rosa, che pure oggi lo rivaluta, aveva ragione nel definirlo tale in Scrittori e Popolo. E però Pasolini si definiva marxista e di un marxismo complesso, intriso di linguistica, psicoanalisi, strutturalismo, volto al riscatto delle plebi, benché non volesse che le energie morali del popolo delle borgate e delle periferie andassero disperse. Travolte dal globalismo e dall’omologazione. E dal potere neutro di un sistema che usava la destra a scopo di, stragi, trame e oppressione. Per questo aveva la fissa di Cefis, burattinaio contornato tra l’altro di ufficiali golpisti di destra e di chierici alla Miglio, il leghista prussiano e seguace di Carl Schmitt adorato da Massimo Cacciari. Insomma Pasolini, già cacciato dal Pci, era sempre dei nostri e restò tale. Perciò salutava fino all’ultimo, sul nostro giornale e in lirica, le povere sezioni del Pci pavesate di bandiere rosse. Invitando a votare Pci. Certo. Che la destra vecchia e nuova lo riscopra, e faccia ammenda, ci rallegra. E si veda su tutto questo il libro Vallecchi in uscita: Una lunga incomprensione. Pasolini tra destra e sinistra, di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna. Ma in conclusione è ridicolo il paragone parapolitico del Secolo con Ezra Pound. O con Mitshima. Fascista antisemita il primo, nazionalista imperiale il secondo. Sennò si finisce nella solita marmellata trasformista. Col trucchetto di «oltrepassare gli steccati». Molto caro pure a certe teste d’uovo «progressiste».

l’Unità 3.11.10
Vendola non è Invictus
di Bruno Magno


Che Nichi Vendola sia sulla cresta dell’onda è indubitabile. Come a volte succede ai “predicatori”. «Ha vinto le regionali in Puglia!», dicono, tacendo sul fatto che ha vinto solo perché la destra si è divisa in due liste. Questo “invictus” fu battuto (pur essendo fortemente sostenuto dai big) persino nel congresso del suo piccolo partito. Addirittura da tale Ferrero, che divenne segretario, e di cui si ricorda soprattutto per dire lo spessore politico una straordinaria iniziativa: la messa in vendita, con grande successo, del pane a euro 1.50 al chilo, per sconfiggere i panettieri affamatori del popolo.
Un “vincitore” di tal fatta non può che vincere le primarie, le elezioni politiche, il Gratta e vinci e il Giro d’Italia.

Corriere della Sera 3.11.10
Il manifesto di Rousseau apprezzato da Kant «Mi insegnò il rispetto per le persone umili»
«Eliminate miseria e opulenza» È il nuovo «contratto»
di Giuseppe Galasso


Di quanti scrittori i giudizi che se ne danno sono quanto mai divergenti? Per Jean-Jacques Rousseau lo si può dire anche di più. Padre fondatore dell’idea moderna di democrazia per gli uni, progenitore prossimo dei molti totalitarismi del XX secolo per gli altri. Padre del giacobinismo robespierrista e del conseguente Terrore nella rivoluzione francese, oppure vero fondatore della democrazia borghese. Individualista libertario o, al contrario, moralista del conformismo sociale. Autentico illuminista o, invece, antilluminista e già tutto romantico. Genio teorico della pedagogia moderna, oppure iniziatore della dissoluzione dei fondamenti dell’azione educativa nel mondo di oggi.
Quel che non è dubbio è, però, il suo rilievo nella storia sia del pensiero e delle esperienze politiche, sia della filosofia. Basta, al riguardo, il debito dichiarato verso di lui da Immanuel Kant, a sua volta autentico iniziatore del pensiero contemporaneo. Era stato Rousseau a svegliarlo dal suo sonno metafisico in materia di morale, così come David Hume in materia di conoscenza. Ma per la morale la questione era in Kant molto più importante. Era, infatti, qui che egli doveva recuperare la dissoluzione di schemi e valori universali operata da lui con la sua «rivoluzione copernicana» in materia di conoscenza. Rousseau fondava la sua morale sul sentimento. Kant capì che non si trattava di sentimentalismo, ma del sentimento della dignità umana, per cui il senso morale è ciò che rende l’uomo appieno e degnamente uomo. «Io sono uno studioso — scrisse — e sento tutta la sete di conoscere che un uomo può sentire. Un tempo credevo che questo costituisse tutto il valore dell’umanità, e disprezzavo il popolo ignorante. A farmene ricredere è stato Rousseau. Quella illusione di superiorità si è dissolta. Ho capito che la scienza è inutile, se non vale a mettere in valore l’umanità».
Si è detto che Rousseau supera tutti gli altri filosofi francesi del suo tempo, ma ciò vale largamente anche oltre i confini francesi. Ricordare Rousseau solo come pedagogista o filosofo politico è, dunque, riduttivo. Certo, Il contratto sociale è al centro del suo pensiero, ma non è l’espressione esclusiva delle sue idee, che su religione, educazione, virtù, libertà, natura, uguaglianza e altro vanno seguite in tutti i suoi scritti di prima e di dopo e non fanno capo solo al Contratto.
Tra l’altro, come quasi mai si dice, Rousseau è, se non il primo, certo uno dei casi più rari di intera presenza di uno scrittore politico nella sua opera. Forse, è nei suoi scritti più personali (le Confessioni, uno dei grandi libri della tradizione autobiografica europea, e le bellissime Rêveries, o Rousseau giudice di Jean-Jacques) che, per alcuni, bisogna cercare la chiave anche del suo pensiero politico.
Difficile è pure dire quale opera di Rousseau abbia avuto maggiore influenza nel suo tempo e dopo, ma certo è al Contratto sociale che per questo bisogna soprattutto rifarsi. Nella Rivoluzione francese non bisognò aspettare l’ora di Maximilien Robespierre per una sua presenza ispiratrice. Già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 l’articolo 6 affermava che «la legge è l’espressione della volontà generale»; e la «volontà generale» è il maggiore pilastro teorico del Contratto sociale.
L’idea di un «contratto», storico o teorico, a base della società era radicata da tempo in Europa. Per Rousseau, l’uomo è felice e libero nello stato di natura, ma a un certo punto «tale stato di natura non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse le condizioni della sua esistenza». È il contratto a legare gli uomini riuniti in società fra loro e nei loro rapporti col governo. Esso non è stipulato tra gli individui che formano la società, e tanto meno fra costoro e un qualsiasi sovrano. Il contratto unisce tutti a tutti, ed è in ciò che consiste il vincolo sociale. «Ciascuno di noi — scrive Rousseau — mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi, in quanto corpo sociale, riceviamo in esso ogni membro come parte indivisibile del tutto. Ogni consociato si unisce a tutti e a nessuno in particolare. Non obbedisce così che a se stesso e resta libero come prima», e il governo non può avere interessi diversi da quelli del corpo sociale e dei suoi membri.
Quello della volontà generale, vero e solo possibile sovrano della comunità, è senza dubbio il concetto politico più originale, ma anche più complesso di Rousseau. Per lui la volontà generale non è una volontà particolare conforme a interessi particolari, ma non è neppure la volontà di una maggioranza, che sarebbe sempre una volontà parziale, e addirittura non è neppure la volontà di tutti, che è una mera sommatoria delle volontà individuali, e pur sempre rispondente, nella sua composizione, a interessi particolaristici. La volontà generale è di una qualità diversa, non è un fatto quantitativo, ha un carattere tutto morale e obbedisce solo all’interesse generale del corpo sociale, che essa, e solo essa, esprime.
A rigor di termini, in teoria, perfino la volontà di una sola persona potrebbe esserne interprete ed espressione. Tutto ciò renderebbe, però, difficile l’esercizio della sovranità da parte del corpo sociale nella sua interezza, e soprattutto renderebbe difficile riconoscere la volontà generale, che, infatti, è sempre stata l’idea di Rousseau più bersagliata, se non derisa, dai suoi critici. Egli aveva in realtà avvertito il problema e aveva suggerito il criterio della maggioranza come volontà dei molti quale mezzo empirico per riconoscere la volontà generale, purché tutti i cittadini avessero ed esercitassero il diritto di voto.
Un compromesso, dunque, che non impedì di obiettare a Rousseau che le sue teorie postulavano una democrazia diretta adatta solo a piccole realtà come la sua natìa Ginevra. Anche questo appare, però, lontano dal suo reale pensiero. La forma del governo si lega per lui alle situazioni locali, come ben si vede nei suoi scritti sulla Polonia e la Corsica. In effetti, è sempre da ricordare che la misteriosa «volontà generale» è definita da lui come espressione dell’interesse generale, distinta anche dalla volontà di tutti. Essa è la volontà sia di tutti che del corpo sociale nel suo insieme. Un concetto che, per noi, porta Rousseau, in modo paradossale, ma non illogico, dalle rive del collettivismo decisionale, o dell’eventuale e possibile unico interprete della volontà generale, alle rive del liberalismo degli interessi generali, che i grandi liberali hanno spesso riaffermato come misura del carattere liberale di un’azione politica e di governo.
Si tratta, quindi, di una democrazia estrema, ma praticabile, in cui il governo è un problema secondario, perché prioritarie sono la libertà e la sicurezza garantite dalla volontà generale, nonché la solidarietà del corpo sociale da perseguire con l’educazione, la religione, la pratica di un ideale di civismo e di patriottismo, di austerità e di virtù. Che tutto ciò abbia portato a interpretazioni collettivistiche o totalitarie del suo pensiero si può capire, ma Rousseau merita una ben maggiore fedeltà. Neppure sul piano sociale lo si deve fraintendere. «Volete rafforzare lo Stato? Fin dove è possibile avvicinate gli estremi, eliminate miseria e opulenza, condizioni ugualmente funeste per il bene comune»: è ancora Il contratto sociale, e, dopo tutto, è quel che liberalismo e democrazia fanno o dovrebbero fare anche oggi.

Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini


Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta

Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte

martedì 2 novembre 2010

l’Unità 2.11.10
La presidente promette di sradicare la povertà e di puntare sulle pari oppurtunità
Brasile, la sfida di Dilma: «Sì, le donne possono»
Sradicare la povertà. Dare più spazio e ancora più potere alle donne. Sono le due sfide della «presidenta»: Dilma Rousseff, la prima donna alla guida del Brasile. Che alle donne dice: «Noi possiamo».
di U D. G.


Promette di sradicare la povertà e annuncia: più spazio alle donne, perché, parafrasando Barack Obama, «le donne possono». È il primo giorno della «presidenta Dilma». «Sradicare la miseria dal Brasile e dare opportunità a tutti»: è l'impegno preso da Dilma Rousseff, che nel suo primo discorso quale presidente eletto del Paese ha sottolineato l'importanza del fatto di essere il primo capo dello Stato donna della nazione sudamericana. Intervenendo in un albergo a Brasilia dopo la vittoria al ballottaggio dell’altro ieri, con un lungo discorso che di fatto è un programma politico, la presidente eletta ha citato una serie di punti che si è «impegnata» a rispettare a partire dal primo gennaio, quando s'insedierà per quattro anni al Planalto, sede della presidenza.
LE PROMESSE
Al primo discorso della «presidenta» Dilma era assente il capo dello Stato uscente Lula. A lui il primo pensiero: «Saluto Lula con emozione, il suo sostegno e la sua saggezza. Un leader appassionato e giusto, so che non sarà mai lontano dal nostro popolo», dice Dilma, che nel pronunciare queste parole si è più volte emozionata, tra gli applausi dei sostenitori del Pt. Rivolgendosi a «tutti i brasiliani in questa notte così speciale», Rousseff ha rilevato che le elezioni dell’altro ieri «sono una dimostrazione dei progressi democratici del Brasile, per la prima volta sarà guidato da una donna. Il mio primo impegno è quindi proprio questo, quello di onorare la fiducia ricevuto dalle donne e di costruire una società con eguali oppor-
tunità per uomini e donne: questo ha sottolineato è un principio chiave della democrazia». Rilevando un altro «impegno» della sua presidenza, l'erede di Lula ha sottolineato di voler «valorizzare la democrazia in tutte le sue dimensioni», lavorando così per dare ai brasiliani «una serie di diritti chiave, dall'alimentazione, ad una dimora degna e alla pace sociale», impegnandosi inoltre a «combattere la droga». «Sarò presidente di tutti i brasiliani ed estendo la mia mano ai partiti dell'opposizione», ha concluso Dilma, sottolineando «l'incredibile capacità di creazione del nostro Paese»,
L’EX GUERRIGLIERA
«Le donne possono», ripete Dilma nel suo primo discorso presidenziale. A rilevare qualche giorno fa l'importanza di un suo arrivo al «Planalto», era stata la stessa ex guerrigliera: «Tutte le brasiliane potranno dire di voler diventare presidente», ha sottolineato, aggiungendo che negli ultimi anni «noi donne siamo uscite di casa per studiare e lavorare, smettendo così di essere solo casalinghe, diventando per esempio infermiere, assistenti sociali, psicologhe. La mia elezione aprirà una nuova strada», aveva assicurato. A caratterizzare le elezioni brasiliane c'è stato tra l'altro non solo il duello finale tra Dilma e Josè Serra, ma la nascita di un nuova star della politica nazionale: un'altra donna, e cioè l'ecologista amazzonica Marina Silva, che al primo turno un mese fa aveva avuto quasi il 20% dei voti, strappando un mare di voti alla Rousseff. In Sudamerica, Dilma può quindi raccogliere il testimone dalle mani della cilena Michelle Bachelet, che all'inizio dell'anno ha concluso il suo mandato al palazzo della Moneda, e da qualche settimana ha avuto l'incarico di presiedere un organismo dell'Onu interamente dedicato proprio alle tematiche relative alle donne.

l’Unità 2.11.10
Conversando con Guglielmo Epifani Segretario generale della Cgil
«Lascio la guida, ma non la Cgil. Oggi la nostra trincea è quella più importante»
di Oreste Pivetta


Dopo otto anni Guglielmo Epifani lascia. Non sarà più segretario della Cgil. Domani sarà il giorno del direttivo, che valuterà l’esito delle consultazioni e poi sarà il voto. Che eleggerà Susanna Camusso, una donna per la prima volta alla guida del sindacato. Il giorno dopo, a Roma, al Teatro Quirino, il doppio saluto: quello del vecchio segretario e quello del nuovo. Un rito: fu così nel settembre 2002, tra Cofferati ed Epifani, al Palasport. Otto anni tempestosi, tra due governi Berlusconi e, in mezzo, il secondo governo Prodi. «Sempre in campo – dice a questo punto Guglielmo Epifani – senza mai abbassare la guardia». Molti lo vedono già in politica. Ma non è così, spiegherà. Continuerà a lavorare per la Cgil, dove arrivò trentacinque anni fa (venti dei quali trascorsi in segreteria). Cominciò in una paese molto diverso, di grandi fabbriche, di radicata cultura operaia, «quando s’avvertivano – ricorda Epifani – passione politica e senso profondo di solidarietà». Tutto il contrario
del presente, lacerato, diviso, in una società dove primeggia l’individualismo, condizionata dalla precarietà, impoverita e incerta, in un paese dove il sindacato è ancora uno degli anelli forti della sopravvivenza democratica... malgrado anche per il sindacato sia tempo di lacerazioni.
Otto anni, Epifani, che si chiudono mostrando quanto non avremmo mai voluto vedere: rottura tra Cisl, Uil e Cgil. Di chi la colpa? «È un problema aperto e l’obiettivo resterà quello di riannodare il filo con Cisl e Uil, un rapporto che si è logorato non per colpa nostra, perché non è una colpa difendere le nostre posizioni di merito, mentre abbiamo vi-
sto gli altri cambiare faccia spesso e troppo rapidamente. Sono stati anni complessi. E’ esplosa la globalizzazione, ci si è cullati nell’ideologia liberista che ha concesso piena libertà alle logiche di mercato, si è precipitati nella più grave crisi finanziaria dal dopoguerra, una crisi che continua a colpire l’economia reale. Ancora ieri il presidente del Fondo monetario internazionale ci ha ricordato che nel mondo si sono persi trenta milioni di posti di lavoro. Sottolineo: senza responsabilità del mondo del lavoro. Per quanto ci riguarda, otto anni che sono cominciati ritrovando il rapporto unitario. I problemi sono venuti con la caduta del governo Prodi. La divisione è figlia del fatto che Cisl e Uil hanno scommesso sulla forza di questo governo e ne hanno pagato la determinazione a spaccare il sindacato. Siamo arrivati così all’accordo separato sul modello contrattuale e alla manifestazione di Cisl e Uil sul fisco, mandando a vuoto il lungo lavoro che proprio sul fisco i tre sindacati insieme avevano realizzato». Confermando molti nell’idea che Cisl e Uil siano solo governativi...
«Costruendo appunto una rappresentazione grottesca del sindacato, una rappresentazione che non fa onore alla loro stessa storia. Malgrado questo si sono firmati unitariamente 50 contratti e unitariamente si continua a lavorare in molte zone, là dove più si avvertono il declino del paese e l’impotenza del governo distratto da ben altre storie... Credo che il primo passaggio per tornare all’unità stia nello stabilire le regole della nostra democrazia».
Lei sostiene che la Cgil non ha colpe... Sull’altro fronte si sostiene che la colpa sia tutta della Cgil. «Ho parlato di fisco. C’era una piattaforma, loro hanno scelto di scendere in piazza da soli. Ho parlato di democrazia e rappresentan-
za e una piattaforma comune era stata disegnata. Se poi ci si riferisce alla questione delle deroghe contrattuali per i metalmeccanici e al caso Pomigliano, non credo proprio che la Cgil abbia torto. Perché una deroga contrattuale apre un varco pericoloso per tutti i contratti e perché a Pomigliano abbiamo sbagliato andando a discutere come lavorare, in assenza di un piano, che dicesse che cosa produrre. Non si fa così. Prima si discute di investimenti e di prodotti, poi di organizzazione del lavoro». Marchionne ha rincarato la dose.
«Gli ultimi dati del mercato dell’auto dicono di una caduta delle vendite e dicono che la Fiat soffre più degli altri. So-
no numeri che ci confermano nell’idea che la Fiat paga la mancanza di modelli: sul piano della ricerca e dell’innovazione non è all’altezza degli altri. Marchionne ci ha distratti: invece di parlare di qualità del prodotto, ci ha fatto intendere che tutto dipende dall’organizzazione del lavoro».
Si è spiegata l’esternazione di Marchionne come una chiamata in causa del governo. «Certo, se ci fosse stato un governo degno di questo nome non saremmo a questo punto. Di fronte alle scelte del più grande gruppo manifatturiero nazionale, un governo serio avrebbe imposto un tavolo di trattativa e costruito una proposta per difendere investimenti e occupazione... Che Marchionne insegua il governo è giusto, ma in questo inseguimento non si rafforza spaccando con la Fiom».
Il risultato più bello di questi otto anni?
«La battaglia per la difesa della Costituzione e la vittoria nel referendum». Il compito più arduo che toccherà al suo successore?
«La questione del lavoro precario. Ma è anche un cruccio mio per il passato: non aver fatto abbastanza contro la precarietà. Ma ci siamo trovati di fronte governi, con l’eccezione del governo Prodi, che hanno sempre perseguito politiche tese ad accentuare la precarietà». Un errore?
«Diciamo che ci lasciamo alle spalle decisioni condivise sulle quali abbiamo sempre tanto riflettuto insieme. Un errore? Forse quando si era al tavolo con Montezemolo e mi sono alzato. Ma avevo capito che si voleva andare a un confronto sul modello contrattuale quando non esisteva ancora una piattaforma sindacale. Una scelta la mia giusta nella sostanza, anche se troppo dura nella forma».
E la politica? Niente, per ora. Epifani resterà al sindacato a capo dell’Istituto Bruno Trentin, che coordinerà l’attività di studio, di ricerca e di formazione di altri istituti come l’Ires e la Fondazione Di Vittorio: «Con il proposito di contribuire alla formazione di un programma, che abbia al centro i temi del lavoro, per un governo all’altezza dei problemi che ha di fronte il paese». Ma su candidature e altro Epifani non risponde. Orgogliosamente ci ripete: «Oggi la nostra trincea è quella più importante».

l’Unità 2.11.10
Termini Underground La protesta sotterranea merita tutte le luci


Tutto avviene sottoterra o, meglio, in un sottopasso che attraversa i binari della Stazione Termini di Roma e da una porticina che dà accesso ai locali di un circolo del Dopolavoro Ferroviario. È qui, per iniziativa dell’Associazione Ali Onlus e per simpatia solidale dei soci del Dopolavoro, che i locali si trasformano in palestra e sala prove per una scuola di ballo particolare, frequentata da allievi di ben sedici nazionalità (italiani inclusi). La particolarità di questa palestra sta nel fatto che i ragazzi sono quasi tutti dei rifugiati politici come Farid, afghano di vent’anni fuggito dai sobborghi di Kabul o immigrati alle prese con problemi di regolarizzazione – come nel caso di Anido, venuto in Italia dall’Albania -. Un piccolo miracolo di convivenza, cementato dall’hip hop e dalla gratuità dei corsi e reso complicato dalla decisione delle Ferrovie dello Stato di sfrattare la palestra e mettere a reddito gli angusti locali. Ne nasce una vertenza che vede mobilitarsi anziani del Dopolavoro Ferroviario e ragazzi del corso, e un documentario, presentato alla Festa del Cinema di Roma: Termini Underground, di Emilia Zazza, che racconta l’intrecciarsi della mobilitazione per salvare la scuola e l’allestimento di uno spettacolo, in chiave hip hop, ispirato all’Eneide. Storie che s’intrecciano, Enea che diviene un rifugiato e il protagonista, Farid che, avendo trovato lavoro in un bar, rischia di saltare la “prima”, la festa di un allievo che ottiene la cittadinanza e l’ansia per le decisioni burocraticamente sorde delle FF.SS. Tra qualche settimana i promotori di questa storia rientreranno nei locali, decisi a resistere, purché, da sotterranea, la loro vicenda emerga alla luce del sole.

il Fatto 2.11.10
“Devono setacciare diocesi per diocesi”
Pedofilia: Survivors’s Voice a Roma per chiedere un’operazione verità
di Marco Politi


“Q uando    gli ho parlato, Benedetto XVI guardava a terra. Io pensavo a un dialogo, ma dialogo non c’è stato”. L’americano Bernie McDaid è una delle cinque persone, vittime di abusi da parte del clero, selezionate dal cardinale di Boston Sean O’Malley nel 2008 per incontrare Benedetto XVI al tempo del suo viaggio negli Stati Uniti. Domenica ha guidato insieme al connazionale Gary Bergeron e l’italo-olandese Paola Leerschool la manifestazione a Castel Sant’Angelo per chiedere alle Nazioni Unite di dichiarare lo stupro di minori un “crimine contro l’umanità”. Erano un centinaio, provenienti da tredici nazioni, che agitando cartelli con scritto “Basta”, “Il Papa in tribunale”, hanno respinto il portavoce vaticano Lombardi al grido di “vergogna, vergogna”.
Ma per capire l’origine di questo raduno, destinato a sfociare nella costruzione di una rete mondiale di vittime, bisogna tornare a quell’incontro tra Bernie e il Papa il 17 aprile 2008. Bernie McDaid, come si svolse il colloquio con papa Ratzinger? So che il vostro gruppo gli consegnò un libretto con mille nomi di abusati. Il
pontefice come reagì?
Eravamo nella cappella della nunziatura a Washington. Benedetto XVI prese la parola ed espresse il suo rincrescimento per i fatti accaduti. Allora io andai verso di lui e gli misi una mano sul cuore.
Proprio sul petto?
Esattamente così. Lo guardai negli occhi e gli dissi: c’è un cancro nel gregge dei fedeli, fate qualcosa!
E il papa?
Tenne la testa china e mormorò: sì, sì. Che risposta diede? Non parlò. Noi volevamo un dialogo, ma lui non entrò in dialogo con noi. Ci fu soltanto una preghiera comune, una sorta di meditazione.
Rimase deluso?
Speravo che il Vaticano avrebbe agito e che ad alto livello si sarebbero ammessi i problemi. Invece no.
Benedetto XVI quest’anno ha fatto delle dichiarazioni molto nette sulla necessità di tutelare le vittime e di portare i colpevoli in tribunale. Appunto, sono dichiarazioni. Il Vaticano afferma di fare questo e quello e il mondo pensa che se ne occupa e invece no. Bisogna fare molto di più per la gente che soffre e mettere fine soprattutto al muro di silenzio, che cir-
conda tutta la questione.
Dopo l’incontro di Boston cosa ha fatto? Ho capito che la priorità era di finirla con l’insabbiamento. La Chiesa cattolica è un’istituzione mondiale e se vogliono potrebbero setacciare parrocchia per parrocchia, diocesi per diocesi per scoprire cosa è successo. Avrebbero dovuto farlo da tempo. Io avevo già cercato di parlare con Giovanni Paolo II nel 2003, all’epoca dello scandalo di Boston. Trovai un giudice statunitense, che era amico personale di Dziwisz, il segretario di Wojtyla. Gli telefonò, lo chiamò Stasiu il diminutivo polacco di Stanislao, chiese un appuntamento per me. Ma quando arrivai a Roma, le guardie svizzero mi impedirono fisicamente di salire al suo appartamento in Vaticano. Venne però nel mio albergo un monsignore della segreteria di Stato, mons.
James Green, a cui raccontai tutto. Inutilmente? Quest’anno mi sono deciso a fondare con Gary Bergeron Survivor’s Voice (la Voce dei Sopravvissuti). Siamo venuti a Roma perché si contrasti l’abuso dentro e fuori la Chiesa, perché i leader politici del mondo si mettano all’opera. Portiamo una petizione all’Onu perché l’abuso sia dichiarato crimine contro l’umanità. Serve uno sforzo internazionale. Sabato ho visto migliaia di ragazzi dell’Azione cattolica recarsi a San Pietro e pensavo con timore che il trenta per cento degli adolescenti in tutto il mondo corre il pericolo di abusi. A me è successo come a tanti. Tra gli undici e i tredici anni ero chierichetto e il mio prete abusava di me e di altri ragazzi in tre posti precisi. In sagrestia, quando ci portava alla spiaggia in macchina promettendoci un gelato e nel guardaroba della scuola, dove diceva alle suore che ci riceveva ad uno ad uno per una meditazione. Alla fine andai da mio padre con tre amici come testimoni. Mi credette. Intervenne”.
E cosa successe?
Denunciai la cosa a mio padre in ottobre, ma il prete fu rimosso solo in aprile. La parrocchia gli organizzò persino una festicciola d’addio. Ero disgustato. Non fu mai processato, è già morto. Ma passò attraverso sette parrocchie ancora e abusò di una cinquantina di adolescenti. Quelli noti. Probabilmente la cifra vera è di qualche centinaio. Survivor’s Voice ha già una branca europea e la manifestazione di domenica è il primo passo per creare una rete mondiale. Alla Chiesa chiedono un’operazione verità, il riconoscimento delle responsabilità e un aiuto concreto alle vittime. Lo hanno detto a fine serata anche a padre Lombardi, che hanno incontrato dopo la manifestazione negli uffici della Radio vaticana. Lombardi ha loro consegnato un testo scritto, dicendo che la Chiesa ha già cominciato a fare molto a vari livelli. Bloccati da un robusto e ingiustificato cordone di polizia, i sopravvissuti hanno mandato da Castel Sant’Angelo il loro messaggio di protesta al Papa attraverso le luci di decine e decine di candele. Soltanto a due di loro – Bergeron e Leerschool – è stato concesso di percorrere via della Conciliazione con le fiaccole per lasciare una lettera davanti al Palazzo apostolico. Ma non sarà la polizia a impedire che la protesta vada inesorabilmente avanti finché gli archivi ecclesiastici non saranno aperti. “Non basta processare i colpevoli – dice Bernie McDaid – i danni ai sopravvissuti sono enormi: depressione, suicidi, droga, alcool, delinquenza. La Chiesa deve capire che ha la responsabilità di guarire le vittime”.

il Fatto 2.11.10
Rumorosi silenzi della Chiesa
di Marco Politi


Fino a quando    la Chiesa resterà in silenzio dinanzi al premier bunga-bunga e allo scempio delle istituzioni? Monta il malessere nel mondo cattolico, cresce il disagio tra parroci e vescovi, ma i vertici della Chiesa tacciono. L’istituzione ecclesiastica, che continuamente interviene nei comportamenti delle persone, laddove si tratta delle scelte di vita, di morte, di nascita e di relazioni, non riesce a dare un indirizzo etico per dire qual è il limite nei comportamenti morali di un uomo che governa la nazione, di un leader che per il suo ruolo dovrebbe saper offrire un esempio di decoro.
NON SI SENTE una parola del Papa, non si sente una parola del presidente della Conferenza episcopale né del suo segretario, che pure a suo tempo seppe alzare la voce contro il libertinaggio. Non è in gioco nessun tipo di moralismo, la questione è politica come ammette persino il Foglio: in altre parole tocca il bene comune dello stato. E ha un risvolto etico come ha dovuto confessare l’Avvenire sotto la spinta della coraggiosa denuncia di Famiglia Cristiana e dell’incredibile arroganza di Berlusconi in quel di Bruxelles. Limitarsi a indicare principi generali sulla purezza dell’amore e poi chiudere gli occhi di fronte al clima da basso impero nel proprio Paese, nella terra di cui il pontefice è primate, è un silenzio che svuota l’autorevolezza della gerarchia ecclesiastica. Si sta consumando in questa stagione la parabola discendente del ruinismo L’idea di fondo, dopo il crollo della Prima Repubblica, era di collocare la Chiesa (priva della Dc) al di sopra delle parti per meglio assicurare – seppur lobbisticamente – la realizzazione dei propri valori. È finita, come documenta brillantemente l’ultimo libro di Massimo Franco C’era una volta un Vaticano, con un do ut des basato sul puro interesse più che sui valori. Un compromesso al ribasso in cui non si capisce se Berlusconi è collaterale alla Chiesa o il vertice ecclesiastico sia a lui politicamente subalterno. La verità sta nell’intreccio fra i due soggetti.
“C’È UN SOLO cadavere a cui la Chiesa è attaccata”, diceva Giovanni XXIII, indicando il crocifisso. La Chiesa d’Italia, con il suo silenzio, rischia di rimanere aggrappata al cadavere della credibilità di Berlusconi. Mentre persino il mondo imprenditoriale ne prende clamorosamente le distanze. Non si tratta, com’è chiaro a tutti, persino ai fan azzurri delusi che protestano sul Web, di peccati di pantalone. Sono stati toccati fondamenti etici, che stanno a cuore al cittadino cattolico (e anche a quello diversamente credente). L’idea che un capo del governo non mente alla polizia, non ospita in casa una minorenne per dopocena poco trasparenti. L’idea che una minore in difficoltà, affidata ad una donna indicata dal premier, per di più consigliere regionale come Nicole Minetti, non viene un minuto dopo abbandonata ad altri nella notte, violando gli impegni legali assunti.
Si vorrebbe sapere quale altro limite debba essere raggiunto perché si senta un “basta” da parte della Chiesa. Nessuno domanda alla Chiesa di schierarsi con una fazione e neanche di fare il lavoro dell’opposizione. Ciò che il cittadino interessato ai valori religiosi – anzi, ai valori tout court – ha però il diritto di aspettarsi è che un’istituzione, che fa del “bene” il criterio del suo messaggio, non abbia paura di indicare il “male” quando esplode platealmente sotto i propri occhi.
L’ITALIA non è una dittatura, la Chiesa può parlare – e parla tanto quando vuole – liberamente. Il silenzio è la dimostrazione di una mancanza di visione dei vertici ecclesiastici. Che continuano a vivere in queste ore aggrappati al calcolo delle convenienze, all’angusta certezza che il berlusconismo fissi per legge quei comportamenti sociali e personali che la Chiesa non riesce più a imporre con la formazione delle coscienze. Nella paura del vuoto politico di domani, che si percepisce in tanti monsignori disgustati dal premier ma terrorizzati dalla perdita di un alleato sicuro, la Chiesa non si accorge, o fa finta di non accorgersi, del grande vuoto interiore creato da venti anni di berlusconeide.
Fra una settimana il premier bunga-bunga, che adora proclamarsi cattolico, inaugurerà a Milano la Conferenza nazionale della famiglia. Va bene così? Quell’“agenda per l’Italia”, che le Settimane sociali cattoliche intendevano proporre al paese, prevede anche questa parodia? Non è sfuggito a nessuno che i quadri cattolici, che hanno lavorato per le Settimane sociali, erano molto più coraggiosi nel denunciare la decadenza della classe dirigente prima del convegno di quanto siano stati quando si è tenuto l’incontro nazionale a Reggio Calabria. Nell’intervallo è intervenuta la gerarchia ecclesiastica, che ha proibito persino la partecipazione della stampa all’ascolto dei gruppi di lavoro, come sempre è stato in passato. “Stiamo dimostrando di non avere un rapporto con il respiro del Paese”, mi dice un vescovo. Ha ragione. Il ragionamento ha un corollario.
Quando nel Paese c’è stato un forte movimento nutrito di ideali liberali, socialisti o cattolico-democratici anche la Chiesa è maturata sotto il pungolo della società.
Nel vuoto circostante prospera anche il vuoto ecclesiale.

Repubblica 2.11.10
Fiction Rai, l´ira degli ebrei "Pio XII patacca assolutoria"
di Orazio La Rocca

Pio XII, gli ebrei attaccano la Rai "Quella fiction è solo propaganda"
Di Segni: una patacca. Ma Bernabei: non è a senso unico
L´occupazione nazista di Roma e i silenzi del pontefice sulla deportazione degli ebrei

 
ROMA. «Una patacca propagandistica, un´opera apologetica a senso unico che fa torto alla storia e alla verità». Non usa mezzi termini il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, quando - dopo averla visionata in anteprima - stronca senza mezzi termini la fiction su Pio XII "Sotto il cielo di Roma" trasmessa dalla Rai in due parti.
Un giudizio fermamente respinto da Ettore Bernabei, presidente della Lux vide, la casa produttrice del film, che controbatte: «Non è un´opera a senso unico, apologetica e nemmeno agiografica, ma il racconto di uno dei momenti storici più tragici di Roma e degli ebrei romani, tanti dei quali furono salvati nei conventi e nelle chiese su decisione del Vaticano».
La ficition - trasmessa da RaiUno domenica e lunedì sera - racconta i tragici mesi dell´occupazione nazista di Roma, della deportazione degli ebrei del Ghetto e del bombardamento del quartiere di San Lorenza da parte degli Alleati. "Sotto il cielo di Roma" non sembra destinato ad essere immune da critiche e riserve, specialmente da parte di chi - come la comunità ebraica romana - pagò prezzi altissimi a causa dell´oppressione nazifascista che culminò, tragicamente, con la razzia degli ebrei del Ghetto del 16 ottobre 1943. Un episodio tra i più drammatici del secondo conflitto mondiale avvenuto a Roma e sul quale ad oltre 60 anni di distanza si è ancora in attesa di una definitiva parola di chiarezza dal punto di vista storico specialmente sul ruolo svolto dall´allora pontefice, Pio XII, che fu accusato di essere stato in "silenzio" di fronte alla razzie degli ebrei romani malgrado i pubblici apprezzamenti della premier israeliana Golda Meir e del congresso ebraico degli Usa.
«Questo sceneggiato è semplicemente una patacca che persegue una finalità ben precisa, cioè quella di dimostrare l´assoluta bontà di quel Pontefice e la giustificazione politica e morale di tutto ciò che ha fatto», taglia corto il rabbino Di Segni in una intervista dedicata a "Sotto il cielo di Roma" che sarà pubblicata su Shalom, il mensile della Comunità ebraica di Roma. Il ruolo di Pio XII durante l´occupazione nazista di Roma, sostiene ancora il rabbino capo, «è una questione quanto mai controversa che non si può esaurire con una discussione rapida e semplificata che finisce con una assoluzione finale ed apologetica, senza mostrare tutti gli aspetti e tutti i dati. Lo dico con particolare rammarico personale avendo collaborato anni fa con la Lux Vide, la società produttrice della fiction, che quando produceva film di argomenti biblici era sempre attenta alle diverse sensibilità». «Non abbiamo raccontato il pontificato di Pio XII, ma solo i mesi dell´occupazione nazista di Roma dal luglio del ‘43 al giugno del ‘44, occupandoci quindi di tutti i problemi della città e della comunità ebraica durante quel periodo, senza fare apologie, ma basandoci su documentazioni storiche», controbatte Ettore Bernabei. «Siamo stati attentissimi a rispettare la sensibilità degli ebrei, ma anche a raccontare gli aiuti che nei conventi e nelle chiese furono organizzati per salvare gli ebrei dai rastrellamenti. Certo, è un film e come tutti i film non può essere perfetto. Ma lo abbiamo fatto con coscienza. Non ho partecipato alla sceneggiatura, ma ho dato un mio contributo di esperienza avendo vissuto direttamente quegli anni, basandomi anche sull´insegnamento di un grande maestro come Giorgio La Pira, universalmente riconosciuto come il profeta moderno delle tre grandi religioni, il cristianesimo, l´ebraismo e l´islam».

Repubblica 2.11.10
Il congresso
Radicali: istituzioni allo sfascio restiamo nel gruppo dei democratici


CHIANCIANO - «É in atto uno sfascio delle istituzioni. Noi siamo alternativi a questo sfascio, perchè animati da intransigenza liberale e democratica. É questo che offriamo al Pd e ci aspettiamo che sappiano raccogliere questa opportunità». I Radicali italiani hanno chiuso il loro nono congresso con una rinnovata denuncia del degrado della vita pubblica e la conferma del loro patto con il Pd, dei cui gruppi parlamentari fanno parte dal 2008. Mario Staderini è stato riconfermato segretario. La mozione da lui proposta dà atto al segretario del Pd Pier Luigi Bersani di aver riservato al movimento radicale «una diversa considerazione». Il congresso ha anche approvato con un´ovazione una mozione dedicata interamente al digiuno della fame e della sete di Marco Pannella contro «l´illegalità nelle carceri», l´impiccagione di Aziz e la pena di morte in generale.

Repubblica 2.11.10
Lutto
Elaborare la perdita, il conforto via web
di Valeria Pini
Oggi è il due novembre, giornata dedicata alla memoria di chi non c´è più Su internet crescono i gruppi di auto-aiuto. Il parere di Bruno Callieri: "Sono il futuro, ma hanno poca efficacia: servono sguardo, contatto, voce"

A volte sembra impossibile tornare ad una vita "normale", dopo la perdita di una persona cara. Resta un senso di vuoto. Siamo sempre impreparati al lutto e ognuno affronta questa realtà in modo diverso; si ricorda e si soffre. E poi arriva il 2 novembre, una ricorrenza dedicata. «Il lutto fa parte del mistero. Non è facile lasciare l´altro e collocarlo nel nostro passato - spiega Bruno Callieri, considerato uno dei padri della psichiatria italiana - C´è un problema di fisicità. Come accettare l´idea di un corpo che muore e pensare che poco prima era animato? L´elaborazione del lutto serve a combattere l´angoscia della morte, che in Occidente è vissuta come un tabù».
Spesso i familiari hanno bisogno di sostegno per affrontare lo shock del distacco. C´è un forte senso di abbandono e di solitudine che colpisce chi perde una persona cara. Oggi su internet sono nate delle vere e proprie community per il lutto. L´ultima è stayinme.com. Ha già 650 utenti. Scorrendo le pagine si leggono messaggi di persone che si scambiano commenti su momenti di sconforto. E poi ci sono siti come, ad esempio, funereas che permette di mettere online un necrologio e ricevere saluti inviati da amici. «I gruppi di auto-aiuto non sono risolutivi, ma sono utili per confrontarsi. Possono essere un supporto per evitare che la persona si isoli, si allontani dalla realtà o finisca addirittura in depressione - spiega Callieri - Quelli sul web rappresentano senz´altro il futuro. Ma si comunica e ci si aiuta "a distanza". Sono meno efficaci. Per ricevere conforto bisogna stare vicini, guardarsi. Lo sguardo è importante, ma anche il tono della voce, i silenzi».
Ognuno affronta il lutto in modo diverso e spesso la reazione cambia in base all´età. «I tempi per elaborare il lutto possono essere molto lunghi: 15, 20 anni. Un uomo di 40-50 che perde la moglie, se molto innamorato, può metterci molto tempo. Così come una madre o un padre che perde il figlio. Un bambino reagisce in modo più veloce. Gli anziani invece sembrano più freddi, perché hanno meno tempo davanti». Con il passare dei mesi, una volta finita la fase di solidarietà da parte di parenti e amici, si cerca di tornate a "una vita normale". È questo uno dei momenti più delicati. «Ci si isola. Si creano incomprensioni. Nelle coppie che hanno perso un figlio, a volte, non riescono più a sostenere lo sguardo e il dolore dell´altro».

Repubblica 2.11.10
Cibo & corpo l´ultima sfida dalla psicologia
di Luciana Sica


Giovani, bulimiche e anoressiche: al Policlinico di Roma un centro specializzato per le cure Ecco i pareri di Loriedo, Liotti e Luc Ciompi
Ogni anno sono cinquecentomila le ragazze che si ammalano una su 10 muore

C´erano una volta le isteriche di Freud che con il loro sintomo camuffavano il profondo disagio di vivere in un mondo al maschile. Oggi ci sono le anoressiche e le bulimiche, icone dei paradossi della postmodernità, che con il loro amore-odio per il cibo mettono in scena un disturbo senz´altro definibile come "alimentare", ma anche una nuova religione del corpo con una sua velatura sacrificale e radicalmente esistenziale. Con piglio pragmatico, i clinici in trincea portano un argomento convincente: si tratta di disturbi gravissimi, poco chiari, e sempre declinati al plurale - senza dimenticare che è la morte ad essere sfidata, e non sempre risulta perdente. Tutt´altro: questi "disordini", con tutto il dolore interno che dissimulano, sono la causa prima che porta le ragazze tra i 15 e i 25 anni a perdere la vita.
Conosce molto bene la sofferenza profonda di chi vive la patologia e di chi si trova a condividerla, Camillo Loriedo, docente di psichiatria all´università La Sapienza di Roma e terapeuta della famiglia. È lui che dirige il Centro specializzato, legato all´università e all´ospedale Policlinico. In questo luogo di eccellenza (minacciato dai tagli) arrivano donne giovanissime in condizioni a volte molto gravi. Alcune sono scheletriche, altre invece piuttosto carine - sembra un paradosso: che ci fanno qui? Lo spiega Loriedo: «Possono essere anche più belle di quelle che vede... E invece sono le più malate, le più numerose, e le più a rischio. Di loro non si parla, sono meno alla moda le bulimiche che - dopo le abbuffate - vomitano, o magari si riempiono di diuretici e di lassativi. Si chiamano "condotte compensatorie", e sono proprio quelle che uccidono: per la mancanza di potassio, ad esempio».
Ogni anno 500mila ragazze si ammalano, e il 10% non sopravvive. Dal ´90 a oggi, il numero si è raddoppiato. Altro segno specifico, le patologie alimentari fanno il loro esordio nell´adolescenza, età sempre più critica e criptica. E le cure? Al Centro romano c´è la possibilità del day hospital e del ricovero (tutto gratuito), oltre a un ambulatorio dove otto sedute costano 40 euro. Dice Loriedo: «Oggi nella cura si tende all´integrazione, combinando elementi di diverse scuole (dal sistemico, coinvolgendo le famiglie, al cognitivista). Lavoro d´équipe e sottoposto a supervisione. Prima si tratta di garantire l´esistenza vitale di queste pazienti, anche intervenendo con integratori alimentari e a volte con farmaci».
In questi casi, è improbabile il ricorso al divano psicoanalitico. L´ossessione del corpo magro - esibito come un trofeo - e la compulsività nel rapporto col cibo non sembrano facilmente "interpretabili", per l´assoluta identificazione con il sintomo. «Spesso i disordini alimentari sono tra le varianti della psicosi, rimandano a una scissione arcaica, a un congelamento della vita, a un odio puro»: come di una delle tante facce che può assumere la follia ne parla Luc Ciompi, psichiatra svizzero di fama internazionale (ma nato a Firenze 81 anni fa). «Ogni caso - tiene a dire - è a sé e la terapia non può essere un abito preconfezionato». L´approccio psicodinamico è invece del tutto escluso da Giovanni Liotti, caposcuola del cognitivismo: «Noi centriamo il lavoro clinico su un "contratto", invitando la paziente a comprendere le mete specifiche del trattamento e ad aderirvi esplicitamente, anche attraverso l´impiego di un diario alimentare. Emozioni e pensieri. Nell´analisi accurata dei dati del diario, lo psicoterapeuta è sempre affiancato dal nutrizionista: vanno anche cercati comportamenti alimentari alternativi».

Repubblica 2.11.10
Un saggio di Battini sui legami tra un certo anti-capitalismo e propaganda contro gli ebrei
Le altre radici dell´antisemitismo
Questo studio ricostruisce un percorso storico che arriva fino a Hitler e Mussolini Così sono stati creati una serie di falsi miti e di leggende
di Adriano Prosperi


Italia, agosto 1944: domanda: «Essere qui capitalista di Palestina?». Risposta: «Gli ebrei stanno lì». Il fascista italiano e il nazista tedesco si intendevano, parlavano una stessa lingua. Che era come tutte le lingue frutto di una storia. Comincia così l´ultimo libro di Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino, 2010, euro 18). Un libro importante. Sarebbe un vero peccato se il titolo allusivo depistasse qualcuno dei molti lettori che gli auguriamo. Perché qui si ricostruisce su basi nuove la lunga storia che porta a Auschwitz.
Ci sono due modi per cancellare dalla storia la Shoah: quello di negare semplicemente che sia esistita come fanno i riduzionisti e i negazionisti e quello di chi guarda a lei con riverenza e terrore come a un tumore maligno o a qualcosa di numinoso che eccede la ragione umana. Dunque sulla verità storica grava un´altissima posta in gioco. Se non si assume la Shoah come qualcosa che appartiene alla nostra storia e che affonda le sue radici nel cuore dell´Europa cristiana ci si condanna a fare a meno della conoscenza storica. Non è certo per caso se nel secondo ´900 la nozione di realtà ha conosciuto tempi difficili con la riduzione della storia a narrazione soggettiva, a romanzo. Da lì è nata la messa in mora della prospettiva storica, per cui il senso del futuro si è annebbiato e si è vissuto il presente come "post-moderno" – un tempo di sopravvissuti, smarriti tra le rovine di quello che fu il mondo moderno. È per questo che ogni tentativo serio di affrontare la genesi dell´antisemitismo razzista non può che passare attraverso l´impresa di ricollocarlo nella storia reale. Una impresa che è in corso e si è sviluppata in due tempi: nel primo tempo c´è stato il racconto dei superstiti, quel "bisogno di raccontare agli altri", che Primo Levi avvertì come un "impulso immediato e violento". La testimonianza dei superstiti e l´impegno di ricerca di storici come Raul Hilberg, Saul Friedländer e molti altri hanno eretto una tale mole di conoscenze da rendere insostenibile ogni forma di negazionismo e con essa ogni via di fuga privata dal peso del fardello che grava sulla coscienza dell´umanità. Il secondo tempo è quello dell´indagine sulle radici profonde della Shoah nella storia e nella cultura europea. Un compito che ci sta ancora davanti. E il libro di Michele Battini è un passo decisivo in quella direzione. Qui la ricostruzione dei legami fra la tradizione antigiudaica dell´Europa cristiana e l´antisemitismo moderno si lega a una vigorosa difesa del principio di realtà come fondamento della conoscenza storica.
Quello che nel 1893 August Bebel aveva bollato come "socialismo degli imbecilli" era la maschera assunta dall´antisemitismo come anticapitalismo: un´ideologia che dopo avere alimentato a lungo il contesto intellettuale e politico francese col mito del complotto ebraico-protestante-massonico, trovò accoglienza nella base popolare e proletaria dei partiti socialisti incanalandosi poi nel "socialismo nazionale" hitleriano e nell´ideologia nazionalistica e corporativistica del fascismo. Lungo il percorso il fiume si era ingrossato: vi era confluita la millenaria tradizione dell´antigiudaismo cristiano veicolata da una Chiesa cattolica in guerra contro l´individualismo religioso, morale e economico figlio dell´Illuminismo e della Rivoluzione francese. Come ha scoperto Battini, fu Louis de Bonald che riportò in auge la dottrina di Bossuet sull´alleanza necessaria fra trono e altare legandola a uno dei più violenti attacchi contro gli ebrei tra quanti se ne videro nell´Europa della Restaurazione. Nella crisi della società di antico regime l´avvento del mercato e dell´individualismo economico si legò all´emancipazione degli ebrei. L´incertezza sociale creata dal vorticoso mutamento della società accese un bisogno di radici e di corporazioni protettive. In questo contesto l´antica polemica cristiana contro l´usura poté essere riproposta in versione di attacco all´ebreo come forza devastante della finanza, colpevole della disgregazione sociale e della miseria. Dall´antico odio religioso si passò all´odio razziale: l´antigiudaismo cristiano aveva già in sé tutti gli ingredienti necessari. Prese corpo così il complotto per l´eliminazione degli ebrei: un complotto vero mascherato e annunziato con la fabbricazione di un complotto falso, quei Protocolli dei Savi anziani di Sion che dovevano segnare le tappe dell´avvicinamento al genocidio. E se il primo terreno di incubazione del mito del complotto giudaico e massonico fu la Francia post-rivoluzionaria, lo ritroviamo poi nei paesi protestanti e in quelli cattolici con l´avanzata dello stato costituzionale e dei governi liberali. In Italia l´attacco "sacrilego" alla Roma papale scatenò i gesuiti della "Civiltà cattolica" contro la "guerra anticristiana" giudaico-massonica. Questi fili si raccolsero nel socialismo antisemita e nell´anticapitalismo antiebraico che ritroviamo specialmente presenti in Italia e riassunti nel percorso politico e intellettuale di Paolo Orano e in quello di Mussolini. L´alleanza del fascismo con la Chiesa avvenne nel segno della trasformazione del Gesù ebraico in un Cristo romano, mentre la propaganda del regime e della Chiesa creava nel paese quei sentimenti di ostilità e di indifferenza che accolsero le leggi razziali del 1938. L´esito è noto. E nel riconoscerne le profonde radici culturali e sociali prendiamo atto delle cause che hanno riportato a galla nel nostro tempo e specialmente nel nostro paese tentazioni razziste e antisemite serpeggianti nel linguaggio politico e in quello religioso. Il nemico non ha smesso di vincere – ha scritto Walter Benjamin – e finché vincerà nemmeno i morti saranno al sicuro. È per questo che nel lucido e appassionato "post scriptum" Michele Battini, sulle orme di Carlo Ginzburg, torna a riflettere sul principio di realtà: contro la strategia della disinformazione e della propaganda che ha portato ad Auschwitz, solo una storia che riaffermi nei fatti quel principio può riconciliarci con l´idea di verità e sviluppare una cultura della giustizia.

Corriere della Sera 2.11.10
E il testamento biologico?
Una legge finita nel cassetto
di Mario Pappagallo


Ma che fine ha fatto la legge sul testamento biologico? Approvata in commissione, il suo iter si è insabbiato. In quale cassetto è finita? Andrà al voto o finirà nel dimenticatoio fino a quando non scoppierà un nuovo caso Eluana Englaro? Sotto i riflettori mediatici, mentre il padre di Eluana si batteva perché la figlia dopo 17 anni di coma fosse «lasciata andare» in pace, sembrava una legge fatta. Urgentissima, perché avrebbe impedito al signor Englaro l’applicazione di quanto riconosciuto dai giudici. Poi, a circa due anni dalla morte della ragazza (9 febbraio 2009), della legge sul testamento biologico non parla più nessuno. Sul diritto di scegliere, in vita e in lucidità, di non essere sottoposti ad accanimento terapeutico nel caso che...
Non si tratta di eutanasia, anche se per la sensibilità di molti lo è. È un’indicazione ai medici di lasciar fare, di non usare macchine, di limitarsi a cure palliative senza eccedere in medicalizzazioni estreme. Sembra però impossibile in Italia, dopo quasi 17 anni di discussioni e tre proposte di legge già «insabbiate», arrivare a un’approvazione parlamentare di un provvedimento che riguarda la vita di ciascun cittadino. Forse qualcuno sperava nell’eutanasia, ma solo per la legge. Ed ecco che torna d’attualità. Una donna veneta di 57 anni è dovuta «emigrare» in Olanda per potere veder rispettata la sua volontà di non essere mantenuta a tutti i costi in vita. Che cosa farà il Parlamento? Farà «rivivere» quanto approvato in commissione? Difficile fare previsioni, ma vale la pena ricordare un sondaggio Eurispes sull’eutanasia (scelta ben più controversa): tra i cattolici 38% favorevoli e 48% contrari, tra i non cattolici 69% favorevoli e 18,6% contrari.
Il testamento biologico non è però l’eutanasia, che è invece la richiesta esplicita e cosciente del malato di porre fine a un’esistenza diventata insopportabile. Il testamento biologico è una decisione che poi, da incoscienti (in coma per esempio), non si può prendere: sì o no a un eventuale accanimento terapeutico. Per molti un diritto costituzionale da applicare comunque.

Corriere della Sera 2.11.10
«Imminente l’impiccagione di Sakineh» I rifugiati politici iraniani lanciano l’allarme
di Stefano Montefiori


Il figlio e l’avvocato in carcere fino all’esecuzione. «Il mondo deve mobilitarsi»

PARIGI — Il regime di Teheran sembra avere deciso di stringere i tempi, la vita di Sakineh è più in pericolo che mai. Gli ambienti dei rifugiati iraniani in Francia e in Italia riferiscono di un’accelerazione: la donna accusata di adulterio e di omicidio potrebbe essere impiccata nelle prossime ore, forse domani. «Ho ricevuto un messaggio da una fonte del tutto attendibile a Tabriz — dice Davood Karimi, presidente dell’Associazione rifugiati politici iraniani in Italia —. Dagli uffici giudiziari è trapelata la notizia che Teheran ha dato ordine di non rilasciare nei prossimi giorni il figlio e l’avvocato di Sakineh, entrambi in carcere dal 10 ottobre scorso, perché occorre trattenerli fino all’avvenuta esecuzione della madre».
Manifestanti davanti all’ambasciata iraniana: il mondo si è mobilitato per salvare la vita di Sakineh Mohammadi Ashtiani
«Abbiamo ricevuto anche noi indicazioni di questo tipo — conferma la presidente del Comitato internazionale contro la lapidazione Mina Ahadi —. Ci sarebbe una lettera dell’Alta Corte di Teheran a Tabriz in cui si chiede di non rilasciare il figlio di Sakineh ed il suo avvocato fintanto che la donna non sarà giustiziata».
Sempre ieri il sito iraniano Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, ha annunciato «la confessione» del figlio di Sakineh. Sajjad Ghaderzadeh, 22 anni, disperato difensore dell’innocenza della madre e per questo da 22 giorni torturato in carcere, accuserebbe ora il suo avvocato e compagno di prigionia Houtan Kian di averlo strumentalizzato «per trovare asilo all’estero». «Houtan Kian ha messo me e mia sorella in contatto con Mina Ahadi — dichiara Sajjad —. Una comunista e controrivoluzionaria, abitante in Germania e portavoce del Comitato internazionale contro la lapidazione, vicina agli ambienti controrivoluzionari stranieri». Secondo Raja News, prima fonte filo-governativa a riconoscere l’arresto del figlio e dell’avvocato di Sakineh, Sajjad avrebbe ammesso l’esistenza di una macchinazione occidentale per montare il caso di Sakineh allo scopo di screditare il regime iraniano. Una nuova mossa per fare definitivamente il vuoto attorno a quanti tentano di salvare la vita di Sakineh.
«Il giorno prima del suo arresto, l’avvocato Houtan Kian è stato interrogato per otto ore — dice Mina Ahadi —. Avrebbe potuto fuggire ma non l’ha fatto per non lasciare a loro stesse Sakineh e le altre condannate alla lapidazione».
La 42enne Sakineh, frustata in carcere, è stata costretta in passato a firmare la sua confessione e a comparire in televisione per autoaccusarsi. La stessa tragica sorte sembra ora toccare a suo figlio Sajjad, che prima dell’arresto aveva corso enormi rischi moltiplicando gli appelli all’Occidente. Nei primi giorni di ottobre a Sajjad è stato consigliato di lasciare l’Iran per mettersi in salvo. Lui ha rifiutato per non abbandonare la madre.
Sakineh si trova oggi senza difesa legale: raggiunto da un mandato di cattura, all’inizio di agosto Mohammad Mostafei è fuggito dall’Iran e si trova oggi in Norvegia, dove ha ottenuto asilo politico. Houtan Kian è stato arrestato, e nessun altro avvocato in Iran ha accettato l’incarico. Il comitato contro la lapidazione parla di «ore cruciali» e chiede la ripresa della mobilitazione internazionale.

«Freud non è di grande aiuto per la comprensione di Lutero»
Corriere della Sera 2.11.10
Il cattolico Lutero rivoluzionario per caso
di Paolo Mieli


Fu trascinato dagli eventi alla rottura con Roma

Fino al 1500 l’Europa, pur travagliat a per secoli da sanguinosi conflitti, è stata caratterizzata da una grande unità culturale. Poi venne Lutero, i conflitti divennero guerre di natura religiosa e quell’unità andò in pezzi. L’Europa stessa andò in frantumi. È questa la ragione per cui, Riforma, il nuovo libro di Diarmaid MacCulloch (docente di Storia della Chiesa a Oxford, allievo del grande Geoffrey Elton) che sta per essere pubblicato da Carocci, ha come sottotitolo «La divisione della casa comune europea (1490-1700)».
Scrive Adriano Prosperi nella prefazione che «oggi l’Europa è per noi casa nostra; dovunque si trovino ruderi romani accanto a chiese cristiane riconosciamo la casa comune; ma è anche una casa dove su alcune cose fondamentali si ragiona in maniera completamente diversa; e questo perché la famiglia che vi abitava a un certo punto si divise. Fu una divisione lacerante, con l’esplosione di sentimenti di odio feroce come solo tra fratelli possono scatenarsi. L’eredità comune fu oggetto di contesa, di infinite contestazioni, di guerre sanguinose. I pezzi di quella eredità si sono disseminati qua e là, trasformati fino a rendersi irriconoscibili». E «poiché l’oggetto del racconto è la divisione di un’eredità comune, un tema primario è l’attenzione ai termini e ai concetti: è necessario restaurare il significato originario delle parole, quello che esse avevano prima che la divisione del patrimonio culturale comune ne spezzasse e alterasse il significato. Quando un patrimonio comune è diviso da eredi in litigio, gli arredi della casa di famiglia se ne vanno a comporre gli interni di case diverse. E in un patrimonio culturale la divisione più radicale è quella dei linguaggi: in conseguenza della frattura le stesse parole significano cose diverse da una parte e dall’altra delle mura divisorie che oggi separano le parti attuali di casa Europa». Cominciamo, dunque, da qui.
MacCulloch sottolinea come dal punto di vista linguistico il termine «cattolico» sia oggi «l’equivalente di una matrioska russa»: può indicare il complesso della Chiesa cristiana fondata in Palestina duemila anni fa, oppure la metà occidentale della Chiesa che si scisse dalla corrente principale della cristianità orientale circa mille anni fa, oppure quella parte della Chiesa occidentale che restò fedele al vescovo di Roma (il Papa) dopo il XVI secolo, «ma potrebbe indicare perfino un europeo cristiano protestante convinto che il vescovo di Roma sia un Anticristo, oppure ancora una fazione anglocattolica moderna originatasi all’interno della Comunione anglicana». Lo stesso vale per il termine «protestante». In un primo tempo la parola «calvinista» (o «picard» dalla Piccardia, per la precisione Noyon, dove era nato Giovanni Calvino) fu un insulto per additare al disprezzo chi condivideva le convinzioni di Calvino. Perfino un termine sfuggente come «anglicano» nacque come un’espressione di disapprovazione pronunciata dal re scozzese Giacomo VI, quando nel 1598 cercava di convincere la Chiesa di Scozia del suo scarso entusiasmo nei confronti della Chiesa d’Inghilterra. E «protestante» deriva dalla protestatio, la mozione che Martin Lutero e Huldrych Zwingli presentarono nel 1529 alla Dieta (l’assemblea imperiale) di Spira nella quale i prìncipi e le città che si ispiravano alla Riforma si erano trovati in minoranza. Nel 1547, quando a Londra si stava preparando l’incoronazione a re del piccolo Edoardo VI, i responsabili incaricati di organizzare la processione dei dignitari che avrebbero dovuto attraversare la città destinarono uno spazio nel corteo per i «protestanti», intendendo con ciò il corpo diplomatico dei tedeschi riformatori che si trovavano nella capitale inglese.
Passando poi a un tema più generale, l’autore sostiene che le numerose tesi avanzate per spiegare il cataclisma del XVI secolo con le quali si è tentato di volta in volta di trovare un fattore determinante — la corruzione della vecchia Chiesa, l’avidità dei monarchi per le ricchezze ecclesiastiche, lo spirito individualista di ricerca proprio dell’umanesimo («forze più o meno indeterminate della modernità») — possono contenere, sì, un fondo di verità, ma nessuna di esse «riesce a sciogliere il nodo centrale degli eventi». Bisogna avere il coraggio di dire che «la Chiesa medievale occidentale non si trovava in una fase finale di decadenza», anche se ai protestanti fece comodo dipingerla in quel modo e lo stesso fu per i cattolici, ai quali risultò utile promuovere la Controriforma ad un tempo per combattere il protestantesimo e per porre rimedio alle presunte pecche della cristianità dei secoli precedenti. Ma non era vero. Secondo MacCulloch ai tempi di Lutero «la vecchia Chiesa era immensamente forte e quella forza avrebbe potuto essere vinta solo grazie alla potenza di un’idea esplosiva, idea che viene a coincidere con una nuova esposizione delle idee agostiniane sulla salvezza». Ecco perché, prosegue, «la mia ricostruzione storica della Riforma comporta il ricorso alla descrizione di un pensiero apparentemente astratto e perché la discussione su questi concetti astratti deve farsi talora estremamente intricata. Monarchi, preti, suore, mercanti, contadini, operai furono tutti colpiti da idee che sconvolsero le loro esperienze e i loro ricordi spingendoli a comportarsi in modi nuovi, talvolta ammirevoli e talora mostruosi. La storia sociale e politica non può fare a meno della teologia per comprendere il XVI secolo».
Non sono, dunque, ammesse scorciatoie. MacCulloch stronca, definendolo «uno studio psicologico tanto abile quanto fuorviante», un fortunato libro del freudiano Erik H. Erikson, Il giovane Lutero (Armando) secondo cui l’atto di sfida di Martin ragazzo contro il padre sarebbe all’origine della sua successiva ribellione nei confronti della Chiesa. Tesi che dagli anni Cinquanta, quando fu pubblicato il libro di Erikson, ha fatto molti proseliti anche in Italia. Cesare Cases, ad esempio, nella prefazione alla Vita di Martin Lutero di Claudio Pozzoli (Rusconi) — un testo che pure prende le distanze da ogni interpretazione psicoanalitica volta a stabilire un nesso tra il rapporto di Lutero con il suo genitore e «taluni aspetti estremi della sua religiosità» — si soffermò su quel rapporto padre-figlio con queste parole: «Diventando monaco, Lutero disobbedisce recisamente al padre, minatore divenuto piccolo imprenditore, che nutriva per il figlio le ambizioni dell’arrampicatore sociale e invece lo vede rientrare nell’idea medievale dell’umile fraticello. Alla cerimonia della prima messa, il padre si presentò in gran pompa per affermare la propria posizione e ricordò a Martin il primo comandamento. Fu questa disobbedienza, inconsciamente sottratta all’ambito paterno e proiettata su altre autorità a fare di Lutero, quasi controvoglia, l’eversore di queste autorità e l’apostolo della libertà di coscienza» (il saggio di Cases è nel libro Il testimone secondario, Einaudi).
Sostiene invece MacCulloch che «Freud non è di grande aiuto per la comprensione di Lutero». Certo, prosegue l’autore, Lutero fu «un uomo irascibile e impulsivo, il quale sentiva emotivamente la propria teologia piuttosto che farla dipendere da un’analisi preliminare delle soluzioni logiche al problema di Dio, finendo così per dar luogo a una teologia piena di paradossi e vere e proprie contraddizioni». In qualunque secolo fosse nato «Lutero sarebbe stato uno di quegli uomini capaci di garantire notti memorabili in compagnia, trascorse tanto in allegri divertimenti quanto in liti furiose». Ma Freud non c’entra. Piuttosto chi vuole capire Lutero — come dicevamo — deve fare i conti con una personalità vissuta oltre mille anni prima di lui, Agostino d’Ippona. Vescovo di una comunità cattolica del Nord Africa ai tempi della caduta dell’Impero romano d’Occidente, impegnato in una lotta per la sopravvivenza contro una Chiesa cristiana rivale, Agostino, nella disputa con Pelagio, sostenne che non le opere terrene ma solo la grazia di Dio avrebbe salvato l’umanità dalla dannazione alla quale era destinata. Le idee di Agostino su salvezza e predestinazione avevano lasciato traccia nel pensiero della Chiesa, soprattutto in Anselmo di Canterbury nel XII e in Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. Idee che mal si accordavano con l’elaborazione della teologia del purgatorio: secondo Agostino gli uomini non erano che esseri indegni votati alla perdizione e non potevano fare nulla di pratico per guadagnarsi la salvezza, meno che mai conquistarsela comprando un pezzo di carta pergamena per abbreviare la loro sosta in una presunta anticamera del paradiso.
E siamo al punto centrale della ricerca di MacCulloch. I più importanti libri sull’iniziatore della Riforma — ad esempio il Lutero di Roland H. Bainton (Einaudi) — danno grande importanza al suo viaggio a Roma nel 1510 e all’impressione che ne ebbe di estrema decadenza della Chiesa. In effetti ci sono prove del fatto che Lutero rimase colpito dall’incompetenza dei preti e dalla corruzione che infestava Roma. Ma per quel che riguardava il culto delle reliquie, il mercato delle indulgenze e la teologia del purgatorio, Lutero fu assai cauto prima di esprimere condanne definitive. Condanne che furono da lui pronunciate molti anni dopo l’esposizione, nel 1517, delle 95 tesi sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg. Anche perché il suo grande protettore, Federico il Savio, elettore di Sassonia (che proteggeva anche Lucas Cranach il vecchio amico di Lutero nonché autore del suo celebre ritratto), aveva ottenuto anche per la chiesa di Wittenberg il privilegio di dispensare indulgenze e addirittura una concessione che accordava la remissione plenaria di tutti i peccati. Per esercitare questo privilegio Federico il Savio aveva costruito un ingente patrimonio di reliquie a cui erano connesse indulgenze di proporzioni enormi. Nella collezione erano compresi un dente di san Girolamo, quattro frammenti di san Giovanni Crisostomo, sei di san Bernardo e quattro di sant’Agostino; quattro capelli della vergine, tre pezzi del suo manto, quattro della sua cintura e sette del velo su cui era schizzato il sangue di Gesù. Le reliquie di Cristo comprendevano un pezzo delle sue fasce di neonato, tredici della mangiatoia, una manciata di paglia, una particella dell’oro portato da uno dei re magi, e tre di mirra, un ciuffo della barba di Gesù, uno dei chiodi piantatigli nelle mani, un residuo del pane usato durante l’ultima cena, un pezzo della roccia da cui era asceso al cielo. E addirittura un ramoscello del roveto ardente di Mosè. Nel 1520 la collezione contava inoltre ben 19.013 ossa di santi. Coloro che visitavano queste reliquie il giorno di Ognissanti (e versavano i contributi stabiliti) ricevevano indulgenze che venivano da un «patrimonio» di riduzione delle pene del purgatorio che ammontava ad oltre diciannovemila secoli (per la precisione 1.902.202 anni e 270 giorni).
A contrariare Federico (e con lui Lutero) non fu dunque il mercato delle indulgenze in sé ma il fatto che papa Leone X per sostenere le spese destinate alla costruzione della Basilica di San Pietro concesse nel 1515, con la bolla Sacrosanctis, un’indulgenza straordinaria, in concomitanza con la quale erano sospese tutte le altre. Inclusa ovviamente quella di Wittenberg. Cosa che, oltretutto, il pontefice fece in base a un patto stipulato con i banchieri Fugger e a vantaggio degli Hohenzollern rivali dei Wettin, al cui casato apparteneva Federico il Saggio. «In realtà», scrive MacCulloch, «Lutero non trovò nulla di speciale da ridire sulla campagna della Sacrosanctis che non fosse altrettanto biasimevole nelle altre pratiche dell’indulgenza; le sue prime proteste apparse in alcuni sermoni del 1516 (l’anno precedente la pubblicazione delle 95 tesi) erano formulate in termini generali, del tutto incuranti del fatto che la stessa Università di Wittenberg beneficiava finanziariamente del sistema che Lutero stava attaccando». La stessa formulazione della tesi 50 («Si deve insegnare ai cristiani che se il Papa conoscesse le estorsioni dei predicatori di indulgenze, preferirebbe che la Basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle») era tale da apparire quasi come un atto di «toccante fede» nei confronti di Leone X. E in ogni caso ben più dure erano state in anni precedenti le critiche al sistema delle indulgenze venute da alcuni dirigenti olandesi del movimento della «Devotio moderna» (Johann von Wesel e Wessel Gansfort) e soprattutto da Thomas Wittelsbach insegnante all’università di Basilea del futuro riformatore Huldrych Zwingli.
In conseguenza di ciò, MacCulloch definisce quella protestante «una rivoluzione scoppiata per caso». Del resto nella Storia della Riforma (il Mulino) anche Joseph Lortz e Erwin Iserloh scrissero anni fa che fino al 1517 Lutero «aveva riscoperto qualcosa di genuinamente cattolico, qualcosa che non doveva necessariamente provocare una lacerazione nella Chiesa»; e che in lui «non c’era l’audace intenzione di promuovere una rottura con la Chiesa» ma anzi «divenne riformatore senza volerlo»; tanto più che il contenuto delle Tesi «non era affatto in contrasto con le dottrine allora sostenute dalla Chiesa».
Sostiene MacCulloch che Leone X considerò le prime controversie successive alla pubblicazione delle tesi alla stregua di momenti della «solita baruffa tra domenicani e agostiniani». E ordinò agli «agostiniani tedeschi di regolare da sé quella fastidiosa faccenda» in una riunione che avrebbero tenuto nell’aprile del 1518. Riunione nel corso della quale Lutero prese la parola e pronunciò un discorso così intenso che un osservatore domenicano, Martin Bucero, ne restò estasiato e passò dalla sua parte. Nel 1519, all’università di Lipsia, Lutero si spinse a riabilitare il riformatore boemo Jan Hus condannato al rogo per eresia un secolo prima, nel 1415 («Sono sicuro che molte delle convinzioni religiose di Hus erano assolutamente evangeliche e cristiane», disse in quell’occasione). L’anno successivo, 1520, Lutero stesso fu condannato per eresia dalla bolla papale Exsurge Domine. Il caso finì all’attenzione di Carlo V, eletto imperatore non ancora ventenne nell’estate del 1519, il quale tuttavia lo gestì con grande accortezza. Convocò il ribelle nella prima riunione della Dieta imperiale fissata a Worms nell’aprile del 1521. Lutero vi giunse dopo un giro trionfale in tutta la Germania e non rinnegò i tre scritti che gli avevano dato quella popolarità: Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa, Della libertà del cristiano. E all’imperatore che gli chiedeva di ritrattare rispose di no con le parole rimaste famose: «Hier stehe ich. Ich kann nicht anders» («Sto qui saldo. Non posso fare altrimenti»). Carlo V si comportò in modo assai diverso da quel che aveva fatto il suo predecessore Sigismondo, al concilio di Costanza, con Jan Hus e, pur condannando Lutero, rese onore alla sua condotta rispettosa. Fece anche di più: consentì a Federico di inscenare un finto rapimento di Lutero così da poterlo nascondere per dieci mesi a Wartburg, in una roccaforte che apparteneva alla sua famiglia.
E fu in quei dieci mesi che si ebbe la vera rivoluzione. È quel che sostengono anche studiosi del tradizionalismo cattolico. Per comprendere le caratteristiche di quel che accadde nei «dieci mesi» torna utile un libro pubblicato qualche anno fa da Roberto de Mattei, A sinistra di Lutero (Città Nuova) che racconta come tra il maggio del 1521 e il marzo del 1522, quando Lutero si trovava nascosto nel castello di Wartburg, cominciò a delinearsi tra i suoi seguaci un’ala radicale, influenzata dalle dottrine dei cosiddetti «profeti di Zwickau», dal nome della cittadina della Sassonia, vicina al confine boemo, da cui provenivano. Guidati da Nikolaus Storch, i «profeti» sostenevano che l’ispirazione dello Spirito Santo era per ogni credente l’unica regola di fede e di condotta; predicavano il battesimo amministrato ai soli adulti, in base alla premessa luterana secondo cui i bambini non possono conoscere la vera fede. Secondo de Mattei le sette radicali che presero piede in quei dieci mesi non furono un fenomeno marginale ma costituirono «la forza propulsiva della rivoluzione religiosa del secolo XVI, prefigurando temi e motivi della seconda grande Rivoluzione, quella francese, trasposizione della rivolta protestante sul piano politico e sociale» (come aveva sostenuto Plinio Correa De Oliveira in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione pubblicato in Italia dalle edizioni Cristianità).
Scrive MacCulloch che Lutero uscì temporaneamente di scena nel maggio del 1521, «lasciando alle sue spalle un mondo in preda a una sbalordita sorpresa». Quando si ripresentò, poi, nel marzo del 1522, «fu nel disperato tentativo di mettere un argine alla rivoluzione che egli aveva provocato». Ma era tardi. Mentre lui era rimasto in volontaria reclusione nel castello di Wartburg, la storia dell’umanità e in particolare quella dell’Europa era irrimediabilmente cambiata.

Corriere della Sera 2.11.10
«Tutti insieme turchi, neri e gialli» E Voltaire inventò l’Onu
di Giulio Giorello


La lezione del filosofo anticipa il dibattito sul relativismo e la convivenza tra diverse fedi

Si può essere perseguitati… anche da esseri che non esistono. Sotto «le palme che ornano le sponde dell’Eufrate» il babilonese Zadig, giovane di corpo elegante e di mente sottile, capace di intuire la natura di un qualsiasi animale, domestico o selvaggio, dai più piccoli indizi lasciati sulla sabbia, passa da una disavventura all’altra per la crudeltà e l’insensatezza dei propri simili. Il peggio gli viene dagli altezzosi sapienti che lo incastrano in «una grande disputa circa una legge di Zoroastro che proibisce di mangiare carne di grifone». Gli uni sostengono che la disputa è inutile, perché i grifoni sono solo creature immaginarie; gli altri si rifiutano di credere che il fondatore della loro religione abbia dato una disposizione totalmente vuota. Zadig cerca di mettere pace: «Se i grifoni esistono, non mangiamoli, e se non esistono, non li mangeremo di sicuro! In entrambi i casi obbediremo tutti al profeta». Il nostro eroe rischia di finire impalato. Se la cava (grazie alle arti di una bella fanciulla che lo ammira) con la fuga; prende la via dell’esilio senza risentimento alcuno per chi lo ha cacciato. Dopotutto, «non si deve infierire nemmeno sui cani quando mordono».
Nella parabola di Zadig (1745-1747) c’è tutto il Voltaire della difesa teorica della tolleranza e della protezione pratica delle vittime dell’oppressione politica e del fanatismo religioso. La Babilonia di quel leggendario personaggio, degno delle Mille e una notte, non è molto diversa dalla Francia del Settecento, ove la sopraffazione imperversa sulla carne dei più deboli. Voltaire ha le idee chiare: «Se la religione non causa più guerre civili, il merito è tutto della filosofia che ci ha insegnato a considerare le diatribe teologiche alla stregua delle baruffe di Gilles e Pierrot», scrive nel Dizionario filosofico. E ancora: «Se si fosse completamente convinti di qualcosa, non si sarebbe intolleranti. Si è intolleranti solo perché in fondo al cuore si comprende che ci si sta sbagliando».
È l’esercizio stesso della filosofia che svela la radice profonda di ogni dogmatismo. La ragione mette in luce l’arbitrarietà delle prigioni intellettuali in cui gli esseri umani finiscono per rinchiudersi. A suo tempo Blaise Pascal, colpito dalla fragilità della creatura umana, l’aveva definita come un giunco che il vento piega verso il fango, ma è però dotato della meravigliosa capacità di pensare. In un ideale contrappunto Voltaire aggiunge che sarebbe ben stolto che uno di questi giunchi minacciasse gli altri perché osano «strisciare» in un modo diverso dal proprio!
Nelle Lettere filosofiche (1734) Voltaire si compiace di sottolineare che «un qualsiasi inglese, da uomo libero, va in cielo per la strada che sceglie da sé». È la pluralità delle confessioni che ha migliorato la coesistenza civile al di là della Manica: «Se ci fosse in Inghilterra una sola religione, si dovrebbe temere il dispotismo; se ve ne fossero due si taglierebbero la gola; ma ve ne è una trentina e vivono in pace e felicemente». L’isolamento e la mancanza di cultura cementano la presunzione di essere i soli possessori della verità; il contatto con altre forme di vita e la conoscenza scientifica instillano, invece, il senso della relatività di religioni e ideologie.
C’è da sospettare che perfino oggi Voltaire sarebbe tacciato di essere un «relativista»; e per di più gli si rinfaccerebbe pure una sorta di sdegnosa indifferenza nei confronti delle «sublimi» concezioni circa grifoni e… altri enti che popolano i tomi di filosofi e teologi. Si dimentica, però, così che la tolleranza per Voltaire non è un lusso intellettuale di qualche spirito aristocratico bensì è la risposta, politicamente audace e coraggiosa, a secoli di sangue versato in nome di Dio, magari del Dio d’amore dei cristiani. È questa la consapevolezza che traspare in modo maturo nell’opera che va in edicola con il «Corriere», il Trattato sulla tolleranza (1763): «Osiamo credere, a onore del secolo in cui viviamo, che non vi sia in tutta Europa un solo uomo illuminato che non consideri la tolleranza come un diritto di giustizia, un dovere prescritto dall’umanità, dalla coscienza, dalla religione; una legge necessaria alla pace e alla prosperità degli Stati».
Non c’è da stupirsi troppo, allora, della tagliente battuta di Denis Diderot: «Se ci fosse un Cristo, ti assicuro che Voltaire sarebbe salvato!». Pur non risparmiando il sarcasmo per le forme storiche del cristianesimo, Voltaire, infatti, non dimentica mai il suo Dio garante di giustizia e fondamento dello stesso ordine politico. Questo è anche il suo limite, almeno agli occhi di una critica che vede nella prospettiva del Trattato sulla tolleranza un arretramento rispetto ad alcuni temi già presenti nell’Illuminismo.
Per esempio, Jonathan Israel, autore di libri come Radical Enlightenment (Oxford University Press, 2001) ed Enlightenment Contested (Oxford University Press, 2006), sostiene che l’età dei Lumi cominci negli anni Sessanta del Seicento, in particolare con gli scritti di Baruch Spinoza e degli altri della sua cerchia di «libertini» — libertari e repubblicani, sostenitori dello Stato solo come garante della più piena libertà di coscienza. Riemergerebbe quindi nel primo Settecento in una versione assai più moderata, deista e filomonarchica, sospettosa degli eccessi «libertini» che potrebbero scivolare pericolosamente nell’anarchia — trovando un’espressione esemplare nell’«anglomania» di parecchi intellettuali del continente europeo, affascinati sia dalla scienza di Isaac Newton sia dalla filosofia di John Locke. Come Dio nei cieli, così il potere sovrano sulla Terra. Per dirla ancora con Voltaire: «Guardate il Gran Turco, governa ghebri, baniani, cristiani greci, nestoriani, romani. Il primo che vuole suscitare tumulto, è impalato, e tutti stanno tranquilli».
È questo dispotismo illuminato che consente di esercitare il principio voltairiano per eccellenza: «Continuate a essere tolleranti: è il vero mezzo per piacere all’Essere degli Esseri, che è ugualmente il padre dei turchi e dei russi, dei cinesi e dei giapponesi, dei negri, dei castani e dei gialli, e dell’universa natura». Soluzioni legislative a parte, potrebbe sembrarci un embrione di qualcosa come l’Onu. Tuttavia, dall’ideale Palazzo di vetro di Voltaire sarebbero esclusi gli atei — quegli stessi spiriti forti a cui invece un Pierre Bayle nei suoi Pensieri sulla cometa (1682) riconosceva qualche chance nel costruire una società di liberi e uguali.
Ma prima di liquidare Voltaire come l’antesignano di una burocrazia di funzionari che in nome di questo o quello Stato, o perfino dell’intera Umanità, avrebbe istituzionalizzato forme di coesistenza che salvano la diversità, guardandosi bene dal favorire «la libertà di pensiero, di critica e di condotta», non possiamo non apprezzare in Voltaire l’arguzia e l’ironia, la leggerezza dello stile e la profondità degli argomenti, la passione per la conoscenza e il sentimento di pietà per le debolezze umane. Il tutto mai separato dal senso del piacere, come mostra un aneddoto assai caro al filosofo, che riguarda lo scienziato olandese Christiaan Huygens, attento osservatore di Saturno e dei suoi anelli. «Si applicò anche a osservare Venere e scoprì mademoiselle Ninon Lenclos». Voltaire citava divertito i versi «vagamente geometrici» del grande astronomo e matematico: «Ella ha cinque strumenti di cui sono innamorato:/ i primi due, le sue mani; gli altri due, i suoi occhi./ Per il più bello di tutti, il quinto che rimane,/ bisogna essere focosi e disinvolti». Non ci pronunciamo su Huygens, ma certo Voltaire era entrambe le cose, e in modo eccellente.

Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini


Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta

Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte