giovedì 4 novembre 2010

Agi 4.11.10
Pd: Cafagna, puntosul tandem Bersani - Bonino, sono i migliori
(AGI) - Roma, 4 nov. - I socialisti, i riformatori, in Europa e in Italia, dovrebbero prepararsi bene, esser pronti: dopo la ventata neo-liberista puo' riaprirsi un nuovo ciclo. E per l'Italia punto sul tandem Bersani-Bonino, le persone migliori che ci sono in giro. Lo dice Luciano Cafagna, professore emerito di Storia Contemporanea all'Universita' di Pisa, alla vigilia del summit organizzato a Roma - il 5 novembre - dalla 'Foundation for Eurapean Progressive Studies' sull'accattivante tema 'Next Left - Renewing Social Democracy' cui partecipano politici di spicco (da Massimo D'Alema, Presidente della Foundation for European Progressive Studies, all'olandese Sjoera Dikkers, membro del Parlamento Europeo, al tedesco Axel Schafer, del Bundestag ed economisti di livello come Salvatore Biasco, ordinario di Economia internazionale, Università di Roma "la Sapienza"; Claudio De Vincenti, ordinario di Economia, Università di Roma 'la Sapienza'; il tedesco Dierk Hirschel, Capo economista dei Verdi; l'inglese Sunder Katwala, Segretario generale, Fabian Society. Al centro del confronto: la riforma del Welfare, le politiche per l'occupazione, ma in modo particolare le nuove idee e strategie per le sinistre in Europa. Da dove cominciare allora, se non dal 'socialismo come progetto dell'uomo'? E da una memorabile proposta "una societa' ricca perche' diversamente ricca', coniata negli anni '60 da Riccardo Lombardi che contamino' ampi settori della sinistra politica e sindacale, soprattutto la Fiom di Bruno Trentin? "Quei problemi di allora posti da Lombardi e Giolitti e ripresi, approfonditi da Trentin, da Foa e da altri non sono mai usciti, anzi sono ancora all'ordine del giorno - attacca Cafagna - Il socialismo come progetto dell'uomo ha riguardato generazioni intere: piu' che un'Utopia, per me e' un programma a lunga scadenza o distanza".
Indubbiamente quello fu 'il periodo d'oro' per ricerca, analisi, elaborazione e proposizione di idee e strategie nella e per la sinistra. "Si puo' senz'altro dire che in Europa come in Italia, il grande discorso di inizio secolo sia ancora aperto: i problemi non si risolvono in pochi anni per cui appena si spacca, si frantuma la superficie come sta avvenendo oggi in Italia riemergono, tornano fuori - spiega Cafagna - E cosi' se nel corso del tempo abbiamo assistito certamente a fenomeni ed esiti elettorali eversivi per la tradizione socialdemocratica sia in capo economico che sociale, si puo' assistere a fenomeni di segno opposto per cui i socialisti farebbero bene a prepararsi: voglio dire che dobbiamo aspettarci un ritorno alla tradizione socialista ovviamente rivisitata e rivista". Lo storico mette in fila quali, a suo giudizio, sono state le questioni su cui le sinistre sono scivolate e quali quelle da cui ripartire. Nelle prime mette "la crisi economica, politica e sociale e i fenomeni dell'immigrazione che - precisa - seppur ci sono sempre stati, hanno assunto pero' una tale escalation da rendersi poco sopportabili". Lo stesso Welfare, invenzione della socialdemocrazia, non ha retto all'impatto con la pesante crisi economica. "Allora come oggi bisogna, in ogni epoca, fare i conti con la finanza, i suoi flussi ed andamenti - aggiunge Cafagna - per cui certe riforme come il Welfare valide allora, nel corso del tempo possono non reggere, e non hanno retto. Pensiamo alla Riforma Sanitaria in Italia: fatta negli anni '60- '70: essa ha apportato indubbiamente dei grossi progressi ma oggi difetta rispetto agli aspetti organizzativi, cosi' come il Welfare per la disoccupazione definito dai governi di centro-sinistra del passato, risulta oggi incompleto: il gap sta sempre, in ogni epoca, nei mezzi finanziari a disposizione". Il punto di 'svolta' e' un diverso impiego allora delle risorse tra pubblico e privato, tra consumi diversi: o piu' auto e computer o piu' scuole, ospedali, universita' etc. "Quelle idee e proposizioni degli anni '60 e '70 sono ancora all'ordine del giorno", osserva Cafagna. A cominciare, appunto, dal socialismo inteso come sfondo progettuale. "Il Pd e' nato su basi ambigue: invece di assumere tratti e connotati di partito laburista, è partito con contorni troppo sfumati, nel tentativo non riuscito, di far convivere in uno stesso partito la tradizione socialista e la democrazia cattolica - osserva lo storico - Sarebbe stata piu' proficua una semplice alleanza politica fra partiti diversi.". Pero' la partita non e' chiusa. "Bersani e' bravissimo e certamente i problemi che gravano sul Pd non li ha creati lui", prosegue Cafagna che per quanto riguarda le future alleanze, conclude con un vivo apprezzamento per la Bonino e la scelta dei Radicali di non rompere con il Pd: "mi piace moltissimo il tandem Bersani-Bonino, le persone migliori che ci sono in giro".




l’Unità 4.11.10
È vero, il Premier sta male
risponde Luigi Cancrini


Berlusconi ostenta potere e ricchezza attraverso la pervicace esibizione di espressioni e atti di cattivo gusto e maleducazione che incardina e legittima con un potere senza controllo e senza pudore, insofferente al dissenso e agli organi istituzionali di garanzia. Queste sono le azioni di un malato, socialmente e politicamente disturbato. O no?
Gianfranco Pignatelli

RISPOSTA    La moglie ne aveva parlato al tempo di Noemi, Scalfari ha riproposto il tema domenica, i fatti, alla fine parlano. Il premier sta male. Parla di un paese in cui la crisi va combattuta dicendo che non c’è, di rifiuti che scompaiono come cartoni animati di Disney, di uomini anziani che fanno del bene alle ragazze povere e belle, di un Consiglio d’Europa che si è svolto tutto intorno alle sue proposte, di profanatori di minorenni che sarebbero meglio dei gay, di giornali da non leggere. Alle spalle ha due anni in cui è riuscito a distruggere, con una serie di comportamenti impulsivi, l’esercito con cui aveva stravinto le elezioni del 2008. Ma alle spalle ha anche, agli occhi di chi fa un mestiere come il mio, la morte della madre e il fallimento del secondo matrimonio: due eventi utili a spiegare, forse, il perché di questo crollo. È soprattutto nelle persone che utilizzano grandi difese narcisistiche, infatti, che il lutto è così difficile da elaborare. Soprattutto se quello che resta loro intorno è solo il silenzio complice, interessato e confuso di chi pensa di aiutarli facendo finta che stanno bene. Come lui ha fatto con Ruby.

l’Unità 4.11.10
Intervista a Emma Bonino
«La sua vita resta in pericolo Non fermiamo la protesta»
La vicepresidente del Senato: «Possiamo condizionare i regimi autoritari. L’obiettivo è la moratoria della pena capitale»
di Umberto De Giovannangeli


In un mondo globale non c’è nessuno che possa chiudere i “confini”: anche regimi autoritari, come quello iraniano, devono tener conto della pressione e delle proteste internazionali. Occorre non mollare al presa. Non solo perché la vita di Sakineh è ancora in pericolo, ma anche perché non bisogna dimenticare le migliaia di “Sakineh” che rischiano la pena capitale nel mondo. Per loro, per Sakinek come per Tareq Aziz, la via da battere, la battaglia da portare avanti con la massima determinazione è quella dell’estensione della moratoria sula pena di morte». A sostenerlo è Emma Bonino, vice presidente del Senato e leader radicale.
La condanna a morte di Sakineh Mohammadi Ashtiani non è stata eseguita. Le pressioni internazionali hanno dunque sortito effetto?
«Direi di sì. E questo è una indicazione importante che va oltre il caso specifico: significa che in un mondo globale è possibile influenzare anche i regimi più chiusi, autoritari. Le nostre azioni possono incidere. La mobilitazione deve proseguire perché la vita di Sakineh è ancora in pericolo...».
Cosa dovrebbero fare le grandi democrazie per supportare questa pressione? «Partiamo da ciò che non dovrebbero fare. Non dovrebbero offrire pretesti alle dittature...». A cosa si riferisce in particolare? «Penso al discorso di Ahmadinejad all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando, rivolto agli Stati Uniti, ha affermato che non poteva dare lezioni chi aveva condannato a morte ed eseguito la pena una minorata mentale, Teresa Lewis. Certo, Ahmadinejad ha usato strumentalmente questa tragica vicenda, ma è indubbio che questo vulnus esiste e riconoscerlo ci porta ad una considerazione generale...». Quale? «Rilanciare con forza la battaglia di civiltà per la moratoria totale della pena di morte. Ogni caso ha una sua storia, ciò vale per Sakineh come per Tareq Aziz, ma è altrettanto vero che essi ci rimandano ad una questione più generale che come tale va affrontata, anche in nome e per conto delle migliaia di “Sakineh” o di “Aziz” condannati nel mondo alla pena capitale. Sappiamo bene che la strada della moratoria è difficile, piena di ostacoli, ma è quella giusta. C’è da lavorare e tanto perché siano sempre di più i Paesi che dichiarino la moratoria, perché la loro adesione alla moratoria può condizionarne altri. Infine, penso che per questa battaglia di civiltà potrebbe dare un grande contributo il Segretario generale delle Nazioni Unite...».
Quale sarebbe questo contributo?
«la nomina di un inviato speciale, di alto rango, per la promozione della moratoria sulla pena di morte».
Vorrei tornare sull’Iran. il modo per contrastare il regime di Teheran afferma la scrittrice iraniana Azar Nafisi sarebbe quello di impedire ad Ahmadinejad di parlare nei consessi internazionali, legare le sanzioni ai diritti umani più che al nucleare e continuare ad essere vicini agli iraniani...
«Sono assolutamente d’accordo a focalizzare l’attenzione della comunità internazionale sui diritti umani e civili più ancora che sul nucleare, come peraltro ci chiede da tempo, inascoltata, Shirin Ebadi. Non credo invece che sia praticabile la strada dell’impedire ad Ahmadinejad di parlare in consessi internazionali. Non credo che sia possibile al capo di uno Stato di parlare, a meno che non si decida di espellere quello Stato dalle Nazioni Unite. Quanti Stati dovrebbero essere espulsi? Fonderemo allora la “Comunità delle democrazie”, cosa alquanto affascinante ma di scarsa praticabilità...». Continuare ad essere vicini agli iraniani, chiede Azar Nafisi...
«È una richiesta che va accolta e praticata con continuità e determinazione. Come sta cercando di fare “Non c’è pace senza giustizia”. È importante rafforzare gli scambi culturali, tra Università, anche su temi che non superino la “linea rossa”, non lasciando le relazioni solo fra Stati o potentati economici, allargandole invece alla società civile. Un dialogo dal basso che può portare a concrete aperture».

l’Unità 4.11.10
Derive italiane
Quando la verità diventa un bene da disprezzare
(o da evitare a tutti i costi)
Distinzioni Il disprezzo che dilaga nei confronti della verità è altro dal sospendere il giudizio. Così come cancellarla non è considerarla una meta, sebbene irraggiungibile...
di Nicla Vassallo


Secondo Platone un’affermazione è vera se corrisponde ai fatti, cioè se possiede una base oggettiva nella realtà
Per William James il vero si valuta nel tempo e corrisponde al buono e al conveniente
Dilaga uno sprezzo nei confronti della verità, che poco condivide, nonostante le apparenze, con l’atteggiamento scettico, semplificato da Ponzio Pilato che si lavò le mani di fronte a Cristo. Una cosa è denigrare la verità con discorsi e comportamenti, declassando ogni sua rilevanza, fino a irriderla; altra cosa è sospendere il giudizio; una cosa è cancellare la verità, altra cosa è la consapevolezza di Karl Popper, stando a cui la verità si attesta «il nostro bersaglio irraggiungibile». A importare è che rimanga il nostro bersaglio.
Cosa è la verità? Per la teoria corrispondentista, la più antica, risalente a Platone, un’affermazione è vera se corrisponde ai fatti; nella nota formulazione wittgensteniana (Tractatus logico-philosophicus 4.01), «la proposizione è un’immagine della realtà». In termini intuitivi, la verità dipende da qualcosa nel mondo; le affermazioni vengono rese vere (o false) dalla realtà; la verità non è frutto unico e puro di creatività, fantasia, volontà, tradimenti, bensì ottiene una base oggettiva nei fatti. Noi comuni mortali applichiamo la teoria nelle faccende quotidiane, ma non la riscontriamo in alcune sfere dell’economia, del giornalismo, della politica, altrimenti (tra le tante altre cose) il nostro paese non verrebbe classificato, in relazione alla libertà di stampa, al quarantanovesimo posto, dopo Argentina e Hong Kong, prima di Romania e Cipro Nord, da Reporters sans frontières, al settantacinquesimo posto, tra i paesi parzialmente liberi, dopo Benin e Hong Kong, prima di Bulgaria e Namibia, da Freedom House.
Ad alcune sfere dell’economia, del giornalismo, della politica pare consona la teoria della coerenza. Coerenza con che? Chi soffre di onnipotenza avrebbe la forza di pensare a una coerenza con tutte, proprio tutte, le affermazioni. In tal caso noi comuni mortali non riusciremmo a conseguire alcuna verità, a causa di una mente, la nostra, dalle capacità finite, cui non è consentito contemplare tutte le affermazioni in un tempo infinito.
Chi, invece, si prende gioco di noi, potrebbe sostenere che un’affermazione è vera se e solo se risulta coerente con qualche altra affermazione, cosicché «I Gemelli sono socievoli» sarebbe vera in quanto coerente con le affermazioni astrologiche. Ma noi comuni mortali preferiamo negare che queste ultime siano vere, e abbiamo ben chiaro che, assumendo la coerenza quale unico criterio della verità, finiamo col considerare implausibilmente vere le affermazioni contenute in una qualunque favola – è sufficiente che nella favola non compaia alcuna contraddizione e che le sue affermazioni siano reciprocamente compatibili. No, siamo stanchi delle favole spacciate per verità. Rimane una teoria, quella pragmatista, che magari fa al caso di alcune sfere dell’economia, del giornalismo, della politica: un’affermazione è vera se risulta utile ai nostri fini, o se ha successo. Così, si corre però il rischio di dover ammettere – cosa che noi comuni mortali non intendiamo fare – che le proposizioni della dottrina nazista sarebbero state vere, nel caso in cui il nazismo avesse trionfato nella seconda guerra mondiale. Tra i fautori del pragmatismo, William James suggerisce di valutare successo e utilità su un lungo arco di tempo. Quanto lungo? Fino al punto da stimare vere affermazioni quali «la terra è al centro del sistema solare», poiché si sono attestate a lungo di successo e utili?
William James non si arrende e equipara l’affermazione vera all’affermazione buona, conveniente, vantaggiosa. Buona, conveniente, vantaggiosa per chi? Soltanto per colui che pronuncia una qualsiasi affermazione? Precipitiamo nell’arbitrarietà e soggettività più scontate, trite e ritrite.
However, Bertrand Russell e George Moore rimproverano al pragmatismo di confondere affermazioni vere e affermazioni congeniali. Chiariamoci. Nulla in contrario alle affermazioni congeniali tout court: se vogliamo raggiungere la sede de L’Unità, e bene sapere che si situa in via Francesco Benaglia a Roma; di conseguenza, deve essere vero che si situa lì, non di fronte al Colosseo. Un dubbio: in questo modo non stiamo però sposando la teoria della corriCome sostiene Vita
spondenza? Sackville–West, «Authority has every reason to fear the skeptic, for authority can rarely survive in the face of doubt».
Noi comuni mortali vogliamo conoscere i fatti, desideriamo la verità di per se stessa, al di là dell’autorità, che non equivale, spesso e purtroppo, ad autorevolezza. La desideriamo altresì perché ci conduce verso qualcos’altro, capace di donarci felicità o infelicità. Alcune verità e alcuni fatti ci appagano, risultano utili alla felicità, altri no. La nostra esistenza è disseminata di molte verità liete e di molte verità dolorose, che è preferibile conoscere. Ciò non ci autorizza a credere che la verità coincida esclusivamente con quanto è buono, conveniente, vantaggioso solo per me, a meno che «non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro»: lo scrive Cartesio (Meditazioni metafisiche, Opere filosofiche, vol. 2, Laterza) a proposito della possibilità di ergere uno scetticismo robusto sulla constatazione che i sensi ci ingannano, ma funziona bene anche qui, nell’inganno che ci assicura chi spaccia il buono, conveniente, vantaggioso per un singolo individuo, o per pochi, per il buono, conveniente, vantaggioso per tutti.
In conclusione, non ci rimane che la cara, vecchia teoria della corrispondenza. Risale al Platone de Il Sofista, teoria che si oppone alle altre e, a pensarci, pure a coloro di cui leggiamo nella Repubblica (Opere, vol. II, Laterza): «Se (...)vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il loro bene di lì, dal governo, non è possibile una buona amministrazione: perché il governo è oggetto di contesa e una simile guerra civile e intestina rovina con loro tutto il resto dello
stato».

l’Unità 4.11.10
Come pensava Gregory Bateson? Scienza e poesia, tutto è in circolo
di Beppe Sabaste


Nel documentario «An ecology of mind» della figlia Nora lezioni e interviste sull’antropologo
La regista «Mio padre imparava sempre, da qualunque cosa: da un cane, da un acquario...»

Nora Bateson ha girato un film su suo padre Gregory: «An Ecology of Mind». Siamo sempre in relazione con il qualcos’altro, insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero.

In una spiaggia pietrosa di Big Sur, California, una bambina bionda e un uomo anziano sorridente delicatamente raccolgono conchiglie, granchi, stelle marine. È un gioco e una lezione. Dice l’uomo: «Ora voglio fare un grande salto, farti cioè questa domanda: come pensi?» «Con il cervello, dentro la testa». «Questo può essere la parte che lo fa, ma non il “come”...». Potrebbe essere l’inizio di uno dei meravigliosi «metaloghi» di Verso un’ecologia della mente, e di fatto quell’uomo è Gregory Bateson, uno dei grandi maestri del XX secolo, il cui pensiero è più attuale che mai. La bambina è la sua ultima figlia Nora, avuta con Lois Cannack quando lui aveva 64 anni. Quello che sto guardando è il film di Nora sul padre, An Ecology of Mind, «un film su come pensava Gregory Bateson». Vi si alternano frammenti di memorabili lezioni, interviste, momenti privati e testimonianze su Bateson di vari pensatori e scienziati, tra cui Fritjof Capra e Mary-Catherine Bateson (l’altra figlia nata dal matrimonio con Margaret Mead). Per tornare alla domanda sul pensare – questione ecologica per eccellenza di fatto «la mente è molto più ampia del solo cervello. È la radice dell’albero che cresce attorno a una rocca o il modo di giocare delle lontre», dice Nora parafrasando il padre, è il granchio e la stella marina e la nostra mano e il nostro sguardo, perché anche un animale deve essere pensato come un groviglio di idee che convivono in lui, diceva Gregory. È un esempio di «principio evolutivo», perché l’evoluzione riguarda le idee, non solo gli animali, e «le unità evolutive sono essenzialmente idee, l’anatomia è un corpo di idee», ciò che fa sì che, per esempio, «il cavallo e la tundra sono interconnessi, l’erba ha bisogno del cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba». «Talvolta, per scopi di studio – dice sorridendo Bateson nel film devi lavorare su relazioni piccole, e allora le gente ti rimprovera perché lavori sulle piccole. Quindi lavori sulle grandi, e allora la gente ti rimprovera perché sei un mistico. È sempre la stessa storia».
Biologo, filosofo, antropologo, cibernetico, fondatore del pensiero sistemico, ispiratore della psichiatria (la famosa teoria del double bind, «doppio vincolo», è chiave per comprendere la schizofrenia), in realtà per Bateson non esiste separazione tra le discipline, né tra scienza e poesia. «Imparava sempre racconta Nora – da qualunque cosa, un cane, un acquario di pesci, dagli scienziati che venivano a trovarlo, dalla poesia e dall’arte. Da lui ho imparato che l’apprendimento non cessa mai». «Da bambina mi sedevo per terra e disegnavo, ascoltandolo mentre teneva delle lezioni. Già allora mi sembrava che sbirciasse da una porticina gli ingranaggi più intimi della vita. Ho studiato cinema e non antropologia, per allontanarmi, ma l’idea di fare questo film ce l’ho forse da sempre, ma soprattutto da quando ho aiutato mia sorella nel reperire materiali (video delle sue lezioni) per il convegno del 2004, nel trentennale della morte di Gregory». La domanda ovvia è come sia stato averlo avuto come padre e maestro. «Tutto quello che mi ha insegnato, come era suo stile, era in forme di storie. Non mi trasmetteva conoscenze, ma percezioni, un modo di guardare le cose e il mondo. Gli piaceva molto parlare coi bambini, perché non sono limitati e corrotti da quella che chiamava l’istruzione distruttiva. Anche questo film in fondo è un metalogo, una storia su cosa significhi “comprendere”».
Il film riassume da diverse angolature, come variazioni di un’opera jazz, una biografia intellettuale di per sé inesauribile, lo studio ininterrotto e interminabile di ciò che Bateson chiamò «la struttura che connette», l’interdipendenza di tutto con tutto, la vita, la natura, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco, il sacro e i metodi dell’Anonima Alcolisti, che si chiede «quale struttura il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula, e tutte e quattro con me, e me con voi?» Tutto questo va inoltre connesso col «contesto», cornice più ampia di ogni singola idea e realtà. «Senza contesto, aggiunge Nora, parole e fatti non hanno alcun significato. E questo è vero per tutta la comunicazione – anche quella che dice all’anemone di mare come crescere e all’ameba cosa deve fare il momento successivo».
Nora è sposata col batterista jazz Dan Brubeck, figlio del famoso jazzista Dave Brubeck. Le chiedo se il pensiero di Gregory Bateson, e in fondo la natura stessa, non abbiano somiglianze strutturali col jazz, con le sue variazioni e ripetizioni. Nora sorride: sta in effetti preparando col marito Dan una serie di concerti-seminari per esporre la relazione tra doppio vincolo e improvvisazione. Il jazz è un’ottima metafora del pensiero di Bateson, conferma, perché è un processo creativo, un apprendimento dell’apprendimento.
Siamo sempre in relazione con qualcos’altro, ci insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero. Gli esseri umani si comportano in modi distruttivi per i sistemi ecologici naturali, osservava, senza riuscire a vedere le delicate interdipendenze di un sistema ecologico che gli conferiscono integrità. C’è una attualità politica immensa e scottante nel pensiero educativo di Bateson. E mentre vedevo scorrere nel film i suoi insegnamenti – con quello stile magistrale ricco di metafore, storie, paradossi, poesie, humour, un linguaggio costituito di ciò di cui parla, ovvero una visione olistica ed ecologica della «realtà» – non potevo non pensare con impazienza, confesso a Nora, quanto sarebbe diverso il mondo se i politici (quelli di sinistra: quelli di destra fanno benissimo il loro mestiere) leggessero e rileggessero il pensiero esemplare di suo padre. «Sì, dice Nora, viviamo in un terribile e immenso doppio vincolo, per spezzare il quale occorre la fantasia e il coraggio di un atto creativo». Ma c’è una buona notizia, aggiunge, proprio oggi. Nonostante la sconfitta, in California è stato eletto governatore il democratico Jerry Brown, che nel film di Nora fa un esempio di «doppio vincolo» molto attuale: «L’ineguaglianza cresce e la risposta dei governi è far crescere l’economia ancora più rapidamente, ma così facendo aggraviamo la disuguaglianza e abbiamo un tremendo impatto sul clima e sull’ambiente. Abbiamo bisogno di una visione e di una immaginazione straordinarie, dato che frenare l’economia crea disoccupazione e sofferenza...» (per la cronaca, Jerry Brown fu allievo di Gregory Bateson).

il Fatto 4.11.10
Meravigliosi quei giorni alla Moneda
Il 4 novembredi 40 anni fa Allende entrava nel palazzo presidenziale: fu il primo leader marxista eletto del Sudamerica
di Gianni Perrelli


Il 5 novembre 1970, ventiquattr’ore dopo l’insediamento alla Moneda – di cui oggi ricorre il quarantennale – il nuovo presidente del Cile Salvador Allende tenne un discorso alla nazione nello stadio di Santiago. Proprio il luogo che, per un tragico paradosso, meno di tre anni dopo diventò il lager in cui il golpista Augusto Pinochet rinchiuse migliaia di sostenitori del leader sanguinariamente deposto.
NEL TRACCIARE le linee del governo, il primo presidente marxista legittimamente eletto nell’emisfero occidentale concentrò tutta la sua tensione utopica. Parlò di un’esigenza di riforme forti alla ricerca del progresso e della giustizia sociale: “Quelle prodotte dal cristianesimo primitivo e dal socialismo”. Indicò alla sinistra mondiale una prospettiva che coniugava i valori dell’egualitarismo con i principi della democrazia, gli obiettivi romantici e gli orizzonti rivoluzionari. C’erano inviati di tutto il pianeta, in quei giorni di primavera australe a Santiago, diventata l’ombelico del mondo. Giornalisti famosi e scrittori (fra gli altri Goffredo Parise), accorsi a descrivere una storica svolta a sinistra in un continente tradizionalmente martoriato dai colpi di Stato militari. Un evento che ebbe notevole risonanza anche nel nostro paese, dove si era appena insediato il primo governo (centrosinistra) di Emilio Colombo. Per i marxisti italiani la vittoria di Allende divenne una sorta di stella cometa. L’esperimento, ribattezzato “socialismo in salsa cilena”, animò a lungo il dibattito politico. Soprattutto nel Pci guidato da Luigi Longo, che aveva raccolto l’eredità di Palmiro Togliatti e dopo un paio d’anni avrebbe lasciato il timone del più grande partito comunista d’Occidente a Berlinguer. C’era molto entusiasmo 40 anni fa nelle strade di Santiago. L’alleanza fra operai, minatori e intellettuali che aveva dato vita alla coalizione dell’Unidad Popular (socialisti, comunisti e radicali) era stata una scossa di adrenalina per un paese adagiato sul piccolo cabotaggio del precedente governo democristiano di Eduardo Frei. L’allora 62enne Allende, che aveva fallito già tre volte la corsa alla presidenza, vinse nelle elezioni del 5 settembre con poco più di un milione di preferenze: il 36,3 dei suffragi contro il 34 del liberal-conservatore (ed ex presidente) Jorge Alessandri e il 27,4 del democristiano Rodomiro Tomic. Ma non avendo alcun candidato superato il 50 per cento dei consensi, per la Costituzione la scelta del nuovo presidente spettava al Congresso in una sfida fra il primo e il secondo classificato. La sera stessa Allende festeggiò il provvisorio successo all’Alameda, il grande viale che taglia il centro della capitale. Affacciandosi al balcone della Federazione degli Studenti cileni disse che la vittoria apriva un cammino nuovo per la patria di cui il principale attore era l’intero popolo cileno. “Voi e voi soli siete i trionfatori. I partiti popolari e le forze sociali hanno offerto una grande lezione che si proietta oltre le nostre frontiere”, affermò con uno sfoggio di retorica che rivendicava un ruolo di battistrada mondiale davanti agli osservatori internazionali. Aggiungendo, per recuperare l’armonia interna, che il governo non sarebbe stato comunista, socialista o radicale ma aperto a tutte le forze democratiche.
ERANO PERÒ già in atto i complotti per tarpargli le ali. Richard Nixon premeva da Washington perché Frei, al ballottaggio, appoggiasse Alessandri che si era impegnato a dimettersi dopo la nomina. Alle successive elezioni il fronte di centro destra avrebbe puntato di nuovo su Frei che, per la Costituzione, non aveva potuto candidarsi subito per un secondo mandato consecutivo. Ma Frei non se la sentì di prestarsi alla manovra. Nei giorni successivi un gravissimo attentato, sintomo delle tensioni che attraversavano le elezioni fino a quel momento mediaticamente più seguite del Cile, favorì il balzo finale di Allende. Un gruppo di estrema destra che appoggiava Alessandri uccise il generale René Schneider, capo dell’Esercito e custode rigido della Costituzione. Lo scopo era di gettare il paese nel caos, rilanciando nel clima di psicosi il bisogno di ordine e tradizione meglio rappresentato dal candidato conservatore. Ma Carlos Prats, successore di Schneider, tenne la barra dritta e riuscì a evitare che il paese entrasse in una spirale di violenze. Anche Frei decise di far convergere la Dc su Allende chiedendogli solo di firmare uno statuto di garanzia in cui assicurava che le riforme socialiste non avrebbero stravolto la Costituzione. Il leader del cartello delle sinistre lo accettò, pur consapevole che si sarebbe esposto alle critiche dell’ala più radicale di Unidad Popular, che infatti gli rinfacciò il tradimento degli ideali.
Il 24 ottobre il Congresso elesse alla presidenza Allende con 135 voti contro i 35 di Alessandri e sette astenuti. Il 4 novembre iniziò l’avventura del governo socialista seguita con entusiasmo dalle sinistre di tutto il mondo e con aperta ostilità da Washington e dai governi occidentali conservatori, preoccupati per i legami di Santiago con l’Urss e Cuba e per il programma di nazionalizzazione delle industrie. Un’avventura densa di emozioni e passioni, traumaticamente interrotta dal colpo di Stato dell’11 settembre 1973 che provocò la morte di Allende e precipitò il Cile nelle pagine più tenebrose della sua storia.

il Fatto 4.11.10
Se l’opposizione non c’è
scenda in campo la società civile
di Paolo Flores d’Arcais


Se l’opposizione fosse esistita, il maleodorante regime che vuole fare a pezzi la Costituzione nata dalla Resistenza sarebbe franato da un pezzo. In un editoriale di inizio luglio questo giornale già sosteneva la necessità improrogabile di un governo di “lealtà costituzionale”, senza Berlusconi e contro Berlusconi. A questa prospettiva ha portato domenica il suo riconoscimento anche Repubblica con lo scritto del suo fondatore, la personalità più ascoltata dal Pd e dal centrosinistra. Con una sola differenza: tra le poche e urgenti cose di un governo di “Mister X”, Eugenio Scalfari ne trascura una che a noi sembra essenziale: restituire l’etere al pluralismo, liberarlo dall’appropriazione bulgara di Berlusconi. Ripristinate le condizioni minime della democrazia – se le opposizioni parlamentari almeno di questo saranno capaci – bisognerà però andare al voto. Ma un Berlusconi che vincesse non farebbe prigionieri, saremmo al fascismo per via legale. Purtroppo, il futuro della democrazia italiana è un’equazione facile da descrivere e difficile da risolvere. Dal 1994, vince le elezioni chi conquista la casamatta strategica dell’antipolitica. Oggi è più vero che mai.
Un italiano su tre è fermamente deciso a non votare (“sono tutti uguali, tutti ladri”), e uno su quattro dei rimanenti resterà incerto fino all’ultimo. Oltre metà del paese si riconosce insomma nel partito della “antipolitica”. Etichetta comoda quanto fuorviante: spesso sono cittadini che detestano la partitocrazia, non l’impegno civile e la partecipazione pubblica (anzi!). Perciò, primo dovere di realismo: per porre fine al regime bisogna conquistare una parte consistente di questa “antipolitica”. Al Pd, negli ultimi anni, è riuscito esattamente il contrario, spingere all’astensionismo alcuni milioni di elettori tradizionalmente di sinistra. E allora, primo corollario di realismo: o nel fronte delle opposizioni ci saranno una o più liste della società civile (di cittadini “senza partito”), oppure la sconfitta è assicurata.
SECONDO dovere di realismo: si vince solo con l’alleanza più vasta delle forze disponibili. Questo, ovviamente, nell’ipotesi che si consideri la liberazione da Berlusconi una priorità irrinunciabile. Se si pensa invece che, lui o le opposizioni, è zuppa o pan bagnato, è evidente che si può praticare l’orgoglioso isolamento di un voto a cinque stelle, o anche di più. Ma Berlusconi, se vince, rende Costituzione il governo delle cricche, realizza il suo totalitarismo proprietario. Fascismo post-moderno. Chi non lo capisce è irresponsabile, si chiami pure Grillo con i suoi meriti. Si badi, però: è necessaria l’alleanza più ampia, a patto che nessun nuovo apporto faccia perdere più voti di quanti promette di aggiungerne. L’alleanza con l’Udc porterebbe a un tracollo sulla sinistra di dimensioni ciclopiche, ad esempio.
Insomma, realismo e responsabilità da una parte impongono che movimenti e società civile pretendano che le loro liste siano presenti nell’alleanza delle opposizioni, e dall’altra che queste, dal Pd all’Idv alla Sel, non frappongano rifiuti. Quanto alla giaculatoria che in questo modo non si conquistano i voti moderati, basterà qualche rilievo empirico. Già dopo la manifestazione dei girotondi del 2002 a piazza San Giovanni, un sondaggio di Mannheimer evidenziava come una giornata denunciata da Berlusconi eversiva e platealmente boicottata da D’Alema avesse trovato accoglienza favorevole presso un quarto degli elettori di destra. Dati confermati dopo un’altra manifestazione “eversiva”, quella di Piazza Navona del 2008. Risultati incomprensibili (e perciò rimossi) solo per le nomenklature di centrosinistra, che confondono moderati con Casini e altri Montezemoli. I moderati, in realtà, si conquistano proprio con la coerenza in difesa della Costituzione, accompagnata da candidati estranei a quella che per milioni di moderati realmente esistenti (non la loro controfigura ideologica immaginata dai cacicchi del Pd) è un’autentica bestia nera: i politicanti di mestiere, senza arte né parte. In effetti, cosa c’è di più moderato che la realizzazione della Costituzione? Per la maggioranza antiberlusconiana del paese il programma dunque già c’è. L’ostacolo è dato solo dagli egoismi di bottega dei vertici dei partiti, che considerano una    “irruzione”    della    società civile nell’agone elettorale minaccia di lesa maestà. Si tratta di costringerli. Come? I tempi per una “operazione Lula” non sono maturi. Ma neppure la soluzione Vendola convince. Se la scelta si ridurrà a Vendola, Bersani e Chiamparino voterò Vendola, ovviamente. Nichi resta pur sempre il migliore, ma dentro il mondo dei “politici a vita” (e la nomenklatura ex Rifondazione che lo accompagna è una cartina di tornasole).
ABBOZZO un altro percorso: primo passo, tutte le esperienze DI BASE di democrazia militante di cui l’Italia è ricchissima – movimenti su obiettivi, club di ogni genere, volontariato, liste locali, gruppi “viola”, “meet up” grillini, sezioni e militanti di base di Sel, Pd e Idv – senza mettere da parte le divergenze e le peculiarità, a cui sembrano tenere con gelosissimo orgoglio, si collegano in un Forum permanente. Secondo: pubblicizzano reciprocamente tutte le iniziative, rendendole patrimonio comune e, parallelamente, discutono un “decalogo” delle misure programmatiche prioritarie per “realizzare la Costituzione”. Terzo: si impegnano a una “etichetta” di discussione fondata sull’argomentazione razionale, disprezzando la logica dell’insulto. Quarto: danno vita sul territorio a quanti più incontri “fisici” e iniziative “materiali” comuni possibili. Quinto, fanno così maturare la possibilità di una candidatura comune della società civile per le primarie di coalizione.

Repubblica 4.11.10
“Inghilterra, pericolo arresto per i nostri ministri" Israele congela il "dialogo" con Londra


GERUSALEMME - Israele ha sospeso il dialogo strategico con la Gran Bretagna per protesta contro la legge che permette l´arresto di ogni straniero se denunciato per crimini di guerra o contro l´umanità. Poco dopo l´arrivo in Israele del ministro degli Esteri William Hague, il portavoce Ygal Palmor ha chiarito che gli israeliani vogliono parlare con Hague solo di quella legge, dato che impedisce a molti ministri israeliani di andare in Gran Bretagna. È da poco che il ministro dell´Intelligence israeliano, Dan Meridor, ha dovuto annullare una visita a Londra perché lo attendeva un mandato d´arresto richiesto da attivisti filo-palestinesi.

Repubblica 4.11.10
Riciclaggio e conti sospetti dello Ior anche un monsignore nel mirino dei pm
All’esame della procura di Roma i movimenti di denaro del prelato
di Orazio La Rocca


La terza indagine in poche settimane, a rischio il processo di chiarificazione con Bankitalia

CITTÀ DEL VATICANO - Nuova indagine giudiziaria su un conto corrente "sospetto" aperto all´Istituto per le opere di religione (Ior) da un monsignore in servizio in diversi dicasteri della Santa Sede. La notizia è filtrata ieri mattina - paradossalmente - a margine del summit su finanza internazionale, crisi economica e nuove regole bancarie tenuto a porte chiuse Oltretevere tra il ministro dell´Economia Giulio Tremonti, il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi ed i superiori generali delle congregazioni religiose, titolari di conti correnti presso la stessa banca vaticana.
È la terza inchiesta sullo Ior avviata dalla magistratura italiana nelle ultime settimane. La prima - resa nota il 21 settembre - quando la procura di Roma sequestrò 23 milioni di euro depositati dallo Ior presso una banca romana, senza il presunto rispetto delle norme antiriciclaggio previste dalla Banca d´Italia, accompagnando il provvedimento con un avviso di garanzia al presidente Gotti Tedeschi e al direttore generale Paolo Cipriani. Proprio ieri si è appreso che sta per essere presentato il ricorso in Cassazione contro il mancato dissequestro dei 23 milioni. La seconda inchiesta, il 26 ottobre, su iniziativa della procura di Catania titolare di un´indagine, sempre per riciclaggio, a carico di un prete incardinato a Roma e titolare di un conto Ior, don Orazio Bonaccorsi, nipote di un ex boss condannato per mafia e ora finito sotto inchiesta per truffa e intestazione fittizia di beni. Questa volta, a finire nelle maglie della procura di Roma - dove si apprende che "non sono pochi" i conti correnti della banca vaticana su cui si stanno concentrando le attenzioni degli inquirenti - è un monsignore di origini meridionali, da anni membro di commissioni giudiziarie di tre Congregazioni (Dottrina della Fede, Culto divino e disciplina dei sacramenti, Clero) e presso il Tribunale della Rota Romana. Dunque un prelato giurista col pallino degli affari, che avrebbe movimentato sul suo conto corrente acceso presso lo Ior, attraverso altre banche e con operazioni di sportello, ingenti somme di denaro su cui gli inquirenti stanno indagando alla luce delle norme antiriciclaggio in vigore nel sistema bancario italiano del 2003.
Questa nuova tegola giudiziaria caduta sulla testa della banca vaticana potrebbe rallentare - si teme nei Sacri Palazzi - quel processo di "chiarificazione" con la procura di Roma e la Banca d´Italia più volte assicurato dai vertici dello Ior per permettere lo sblocco dei 23 milioni ancora sotto sequestro malgrado la richiesta di "liberalizzazione" avanzata agli inquirenti italiani dalle autorità pontificie. Un problema sul quale "presto sarà diradata ogni ombra di dubbio" ha più volte assicurato il presidente Gotti Tedeschi. Malgrado assicurazioni tanto autorevoli - in linea con quanto ieri ha fatto capire a latere del summit anche il cardinale Bertone, confidando di essere "preoccupato e fiducioso allo stesso tempo" per il futuro dello Ior - l´inchiesta dei giudici è sempre in piedi e i tempi di vedere inserita la banca del Papa nella cosiddetta White List delle banche internazionali che applicano le norme antiriciclaggio sono inevitabilmente destinati ad allungarsi.
Come saranno altrettanto lunghi i tempi per rinnovare lo Ior con quelle regole di legalità e trasparenza su cui sta lavorando Gotti Tedeschi su mandato del Papa, che proprio ieri, all´udienza generale, forse nemmeno tanto casualmente ha invitato credenti, non credenti e uomini di buona volontà a "pulire la spazzatura che è nelle nostre coscienze e nelle nostre anime, non solo quella che si trova solo nelle nostre strade".

Repubblica 4.11.10
Il futuro del lavoro
di Giorgio Ruffolo


A metà del Ventesimo secolo il capitalismo occidentale sembrò vicino alla definitiva soluzione della questione sociale.
Lo sviluppo economico non seguiva più il modello "marxiano" dello sfruttamento del lavoro; i salari potevano salire nella stessa misura dell´aumento della produttività senza intaccare i profitti, integrandosi nel meccanismo dello sviluppo e integrando i lavoratori nella struttura sociale.
Questa combinazione virtuosa dipendeva da una condizione fondamentale: che i lavoratori disponessero di una loro organizzazione, il sindacato, tanto forte da sostenere i loro rapporti di forza con le imprese capitalistiche.
Questa condizione è venuta meno con la liberalizzazione mondiale dei movimenti di capitale intervenuta verso la fine del secolo, e con la conseguente globalizzazione dell´economia. Le grandi imprese, libere di spostare i loro investimenti in tutto il mondo, sono in grado di "ricattare" i lavoratori dei vari paesi. Questo è il senso del brutale ma ineccepibile vangelo di Marchionne.
La scomparsa della invisibile frontiera tra il capitalismo avanzato dell´Occidente e le economie sottosviluppate del resto del mondo ha risospinto il primo indietro nel tempo, riproponendo condizioni di divisione e di concorrenza tra i proletari di tutti i paesi.
Sembra, oggi, che restino due vie: sottrarsi a questa concorrenza ricorrendo al protezionismo; o accettare per un tempo indefinito la pressione di quella concorrenza con una svalutazione del lavoro, che si manifesta nella flessibilità dei salari e nella precarizzazione dei contratti.
Una alternativa, veramente, c´è: convertire il lavoro da attività più tradizionali, esposte alla concorrenza, ad attività più specializzate e "competenti": un processo che è spontaneamente in corso: ma che è pur sempre condizionato nel tempo (la concorrenza "insegue", spostandosi verso le attività più specializzate) e nello spazio (quel processo non può investire che settori limitati).
C´è però un´altra alternativa, più vasta e radicale, che riguarda non il modo di produzione ma il modo di impiego delle risorse: il rapporto tra consumi privati e spesa sociale. È solo nell´ambito dei primi che agisce la concorrenza tra i produttori. In una società che destinasse ai telefonini la metà della spesa attuale e all´istruzione generale permanente il doppio (assumendo questi due tipi di beni come rappresentativi delle due categorie) il ricatto evangelico di Marchionne sarebbe molto meno efficace. Ciò comporterebbe ovviamente uno spostamento massiccio della tassazione dall´istruzione ai telefonini. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma è proprio un programma così vasto, di riorientamento delle preferenze, delle scelte, dei valori, che dovrebbe costituire l´impegno politico, anzi, propriamente, la ragion d´essere di una sinistra che insegue oggi vanamente la "concretezza" della sua agenda irrisoria.

Repubblica 4.11.10
Abuso di potere
Quando è l’istituzione a violare tutte le regole
di Nadia Urbinati


Gli ultimi casi che hanno coinvolto il premier sono uno degli aspetti dell´anomalia italiana. Perché il superamento dei limiti da parte di chi governa mina la democrazia

Del potere non si può fare a meno; per questo, occorre limitarlo. Scriveva Hannah Arendt che il potere non ha bisogno di giustificazioni «in quanto è inerente a ogni comunitá politica». Ciò di cui ha bisogno è la legittimità. L´esercizio regolato e in pubblico del potere politico consente la limitazione che meglio si accorda con la legittimità e la libertà individuale, ovvero con i principi e la pratica della democrazia costituzionale. Arendt scriveva nel 1971, a commento di quanto l´opinione pubblica americana stava scoprendo, grazie alla stampa: uno schema di abuso sistematico di potere messo in atto dalla Casa Bianca per coprire il ruolo dei servizi segreti e del Dipartimento di Stato in Indocina e in Vietnam a partire dalla Seconda guerra mondiale.
Arendt metteva a nudo la manipolazione delle informazioni, la menzogna scientemente orchestrata, la violazione della costituzione e dei diritti civili. Coprendosi dietro il pretesto di fare gli interessi nazionali, i leader americani si curavano invece di salvaguardare la loro immagine. Coprivano le loro reali intenzioni e azioni per essere creduti limpidi dal pubblico. Presumevano, dunque, che il potere politico fosse pubblico proprio mentre lo usavano come un fatto privato – per questo la loro azione doveva restare nascosta, perché impropria secondo le leggi, ovvero perché un abuso.
L´abuso di potere è un fatto gravissimo perché distrugge una comunità politica trasformando i cittadini in sudditi, facendone oggetto di raggiro, mettendoli nella condizione di non sapere e quindi di non poter giudicare con competenza, lasciando chi governa nella straordinaria libertà di fare ciò che vuole. L´abuso mina alla radice la fiducia senza la quale non si danno relazioni politiche in una società fondata sul diritto. Il liberalismo ha colto al meglio questo problema, poiché ha da un lato assunto che il potere è necessario, e dall´altro che il suo esercizio stimola negli uomini la propensione a non averne mai abbastanza e quindi ad abusarne. Il potere alimenta la passione per il potere con un´escalation fatale verso il monopolio. Le costituzioni moderne partono tutte dalla premessa che ci si debba sempre attendere la violazione e l´abuso da parte di chi esercita il potere e per questo istituzionalizzano le funzioni pubbliche e stringono il potere politico dentro norme rigide e chiare. Da questa concezione liberale ha preso forma l´idea che l´unica legittimità che il potere politico può acquisire è quella che viene dal rispetto delle garanzie di libertà individuale e, quindi, dalla limitazione e dal controllo del potere (limitazione nella durata e nell´intensità grazie alle elezioni, ai controlli di costituzionalità e alla divisione dei poteri) attraverso vincoli che chi governa non può manomettere. Violare i limiti che la difesa di questa libertà impone equivale a mettersi fuori della legge (un fatto di sedizione che indusse John Locke a giustificare la disobbedienza e la ribellione, aggiungendo con toni sconsolati che purtroppo i popoli hanno più capacità a subire gli abusi che a ribellarsi ad essi). Il potere che opera d´arbitrio non è più potere politico, quindi, ma é dominio assoluto e dunque nuda forza che fa di chi lo subisce un servo a tutti gli effetti. La differenza fra dominio e governo sta tutta qui.
Le riflessioni di Hannah Arendt si adattano come un guanto a ciò che sta avvenendo nel nostro paese. Il fatto che invece di una guerra ingiusta ci siano in ballo relazioni erotiche con minorenni e giovani donne non cambia la natura dell´arbitrio. Semmai la rende più sordida e avvilente. Ma anche nel caso italiano la manipolazione, la confezione ad arte dei fatti, e il nascondimento sono le armi usate da un governo, che, ci ha spiegato Giuseppe D´Avanzo, ha istituito un "tavolo di crisi" per riscrivere "la verità del premier sulla telefonata in questura". Al nascondimento del vero si è aggiunto lo stravolgimento studiato dei fatti (con risvolti che mettono l´Italia in pessima luce nelle relazioni internazionali) perché nella telefonata fatta per convincere a rilasciare la minorenne si è detto che la ragazza era la nipote del presidente egiziano Mubarak. Il presidente del Consiglio italiano usa la sua autorità di garante dell´interesse nazionale per coprire una sua azione illecita. Abuso a tutto tondo, e inoltre presa in giro del proprio Stato e coinvolgimento mendace di uno Stato straniero.
In una democrazia costituzionale il Presidente del Consiglio e i ministri (il potere esecutivo) ricevono legittimità dal patto fondativo che detta le regole della loro designazione e della loro durata e, se necessario, della loro destituzione per la possibilità di essere sottoposti alla giustizia ordinaria "per i reati commessi nell´esercizio delle loro funzioni" in seguito all´autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati (Art. 96, il quale nella formulazione originaria del 1947, poi sopposta a revisione nel 1989, era molto più severo e prevedeva la possibilitá della messa in "stato d´accusa", una formula simile all´impeachment americano). Queste regole e questi limiti definiscono quello politico come agire pubblico, stabilendo che esso appartiene alla comunità politica e non a chi lo esercita, il quale non può sostituire il suo personale giudizio su come relazionarsi alle istituzioni a quello definito dalla legge, dalla quale egli dipende. L´abuso blocca proprio la dimensione pubblica del potere rendendone l´esercizio un fatto tutto privato; è a questo punto che il potere si fa nuda forza, discrezione nella mani di chi lo maneggia, come strumento di privilegio. Il governante che viola le norme che regolano il suo operato si impossessa del potere e lo piega ai suoi interessi.

Repubblica 4.11.10
Un regime produce una sua "verità" che non esita a ricorrere a una brutale falsificazione dei fatti per imporsi e diventare dominio. Tutto il Novecento è percorso da episodi di questo tipo di inquinamento
Come si costruisce una verità "fittizia"
La cultura della menzogna
di Aldo Schiavone


Da sempre, il potere intrattiene con la verità e con il suo contrario un rapporto difficile. Il potere si nasconde, e mente e falsifica per conservarsi e crescere. È anche per cercar di sciogliere questo nodo, che è nata la democrazia: con i governanti finalmente in pieno sole, visibili al centro della piazza – e non più nell´ombra dei palazzi o dei templi – sotto lo sguardo vigile del popolo riunito in assemblea, cui non si sarebbe potuto celare nulla.
Il potere è per sua natura asimmetrico: il suo esercizio sospende l´eguaglianza, e produce al suo posto uno squilibrio, un dislivello, un più e un meno. Questa dissimmetria è ineliminabile, ed è come la forza di gravità che curva lo spazio intorno a sé: distorce tutto quello che le sta intorno – rapporti sociali, discorsi, comportamenti. E proprio come la gravità, essa distorce anche la luce, che scivola e devia – assorbita, riflessa, rifratta – tramutando la sua rettilineità originaria in un ingannevole gioco di oscurità, di inganni e di misteri: l´irresistibile segretezza del potere, che ama nascondersi e dissimularsi: questo è la sua verità – gli "arcana imperii", dicevano i Romani, che ne capivano.
Le democrazie moderne hanno costruito nel tempo dispositivi efficaci per ridurre i rischi di questa ineliminabile deriva. Essi ruotano intorno a due assi fondamentali. Da un lato, la libertà della conoscenza, la diffusione dell´informazione, lo sviluppo senza limiti della capacità critica del pensiero e delle opinioni: l´impianto illuministico, insomma. Dall´altro, la sottomissione del potere alla legge e alla regola giuridica – costituzionalismo greco e diritto romano – per stringerlo in una rete dalle maglie sempre più fitte, dalle quali fosse impossibile sfuggire, e che riuscissero a contenere il suo esercizio senza mai trasformarlo nel suo abuso: senza cioè che la dissimmetria diventasse arbitrio. Si è aperta così una partita complicata, e dagli esiti tutt´altro che scontati, i cui movimenti hanno riempito il tempo della nostra modernità. Le vittorie, sono sempre provvisorie. Le sconfitte, rovinose e portatrici di sventure.
È per potersi tramutare in abuso, che il potere mente: per meglio dire, produce un suo regime di verità, che non esita a ricorrere alla più brutale falsificazione dei fatti per imporsi, e diventare dominante. La storia del Novecento è piena di grandi menzogne prodotte da poteri che si erano totalmente trasformati in abusi mostruosi: la menzogna delle razze per aprire la strada allo sterminio; la menzogna dell´Italia come potenza militare e imperiale, per costruire al fascismo un consenso di massa; la menzogna sociale sovietica, per poter sostituire l´irrealizzabilità del comunismo con un regime inetto e dispotico.
Accanto a queste menzogne che chiamerei "di sistema", esistono poi le menzogne e le falsificazioni "locali", d´occasione, ma non meno inquinanti e pericolose, che non escludono a prima vista la democrazia – come le altre – ma anzi sembrano poter convivere con essa, e presentarsi solo come suoi piccoli aggiustamenti. E sono invece tossine micidiali: a non combatterle, se ne resta paralizzati. Menzogne per coprire abusi, e che ne producono altri: in una spirale perversa e inarrestabile. Fino al corto circuito conclusivo: "non leggete i giornali" (come ha detto il nostro Premier) – tutti i giornali, da Repubblica al New York Times: la menzogna che non potendo aver ragione della realtà, distrugge almeno lo specchio, per non vedercisi dentro.

Repubblica 4.11.10
“La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger” in uscita da Ponte alle Grazie
Il disincanto del mondo e la sfida di Ratzinger
di Paolo Flores d’Arcais


Il papa scommette sulle contraddizioni della modernità Se la ricerca e la speranza di un mondo più giusto vengono meno allora rimane solo la Salvezza

Pubblichiamo un brano tratto dal libro di La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger in uscita da Ponte alle Grazie

Ratzinger ha scommesso sul fallimento del post-Illuminismo (liberale, socialista, democratico) in cui noi speravamo di vivere, che prometteva in nome della scienza e di una umanità libera l´appagamento nell´aldiquà, la sicurezza e lo sviluppo per tutti e per ciascuno.
Il papa della Reconquista vede la grande chance per la Verità cattolica nell´impasse di una finitezza senza futuro, che concede a ogni sapiens sapiens solo l´hic et nunc del consumo immediato ed effimero, ma sottrae qualsiasi spessore di senso, qualsiasi radicamento di storia, qualsiasi identità collettiva di solidarietà. Si allungano le aspettative di vita, la medicina consente di prolungare il bios dei corpi organo per organo, ma si dilatano, anziché contrarsi, le paure legate alla nostra materialità: non solo la malattia, la sofferenza, e una morte che anche procrastinata sembrerà prematura, ma l´incubo dell´inadeguatezza, in una hybris asintotica di chirurgia estetica che non darà mai appagamento.
Una modernità «sazia e disperata», come ebbe a dire il cardinal Biffi, si offre allo sguardo del papa teologo quale terra di conquista per una crociata capace di offrirle già oggi la zattera di ciò che le manca, speranza identità e comunione, e domani addirittura un accogliente porto sicuro, se farà il passo cruciale della conversione, il «salto mortale» dalla libertà all´obbedienza. Questa la convinzione e la scommessa. Il mondo annaspa, addirittura è ormai esso stesso «liquido», la Chiesa è invece promessa di terra ferma.
Ratzinger ha capito tutte le debolezze del suo nemico. In apparenza la secolarizzazione ha trionfato. In realtà, se tracolla la speranza della giustizia nell´aldiquà viene meno il futuro stesso, e ritorna ovvio e prepotente il primato della Salvezza (quale che sia). Finché c´è lotta c´è speranza, infatti, ma è vero anche il contrario, e poiché solo la lotta-speranza fornisce identità e senso, con l´estinguersi di ogni speranza-lotta si apre il vaso di Pandora delle identità surrogatorie alla speranza perduta. Sacre o profane che siano, ma quelle sacre possiedono il non trascurabile valore aggiunto dell´eternità.
Aggiungiamo qualche dettaglio.
Sul piano più strettamente politico, si pensi alla crisi del welfare. Chi si affaccia alla vita adulta appartiene alla prima generazione (da secoli!) che vive peggio dei propri genitori. L´Europa è in crisi prima ancora di nascere davvero, visto che ha «integrato» al ribasso, in fatto di diritti sociali, la Gran Bretagna prima e gli Stati dell´est poi. Ernst-Wolfgang Böckenförde ha di che maramaldeggiare con il suo «lo Stato liberale e laicizzato si nutre forse di propositi normativi che esso non è di per sé in grado di garantire?». Aggiungiamo il venir meno del comunismo, ottimo in sé. Era anche, però, l´alibi che ha consentito alle democrazie realmente esistenti di non dover render conto – fino alla scorsa generazione – dei «tradimenti» verso i propri principî. Ora sono chiamate al redde rationem del promesso «perseguimento della felicità», ricamato nelle costituzioni e oltraggiato nei bassifondi della quotidianità di governo.
Perfino più importante quanto Ratzinger è capace di lucrare sul versante culturale della modernità in crisi, squassata dalle aporie che mettono a repentaglio i suoi due architravi, la scienza e l´universalismo.
La scienza, in primo luogo. Che nel suo uso pratico, nella sua «implementazione» come tecnica, non ha mantenuto e anzi ha contraddetto le speranze suscitate. Sotto un duplice profilo: il controllo sempre più pervasivo dell´uomo sulla natura, propiziato da un progresso tecnologico esponenziale, anziché diffondere sicurezza, scatena un sabba di timori, fino al catastrofismo, giustificati dalla dismisura incontrollata, irrazionale, ecologicamente distruttiva del suo incedere. Esso, d´altronde, anziché diffondere una ricchezza più equamente distribuita, accresce in modo abissale la voragine della diseguaglianza (tra i paesi e all´interno di ciascuno). Le due «eterogenesi dei fini» fanno anzi sinergia. In realtà la scienza è incolpevole, se intesa come ricerca matematizzata ed empirica dei «segreti» della natura. Panico e rabbia, più che fondati, nascono dall´uso asociale, per profitto e per potere, che ne fanno gli establishment.
L´universalismo, in secondo luogo (ma non certo per importanza). Di fronte alla incapacità o non volontà dei governi di fornire i presupposti materiali e culturali dell´eguaglianza, e al declinare dei movimenti di lotta che la mantengano all´ordine del giorno come valore per tutti (immigrati compresi), fa strage di cuori la sirena del multiculturalismo, la bandiera dell´eguale dignità che dalle singole irripetibili esistenze che tutti noi siamo, emigra (è il caso di dirlo) alle comunità etnico-culturali. Metamorfosi niente affatto innocua, perché una comunità può essere libera e rispettata, senza che liberi e rispettati siano gli individui che vi appartengono. Il che accade puntualmente per ogni «cultura» illiberale e patriarcale (fino alle identità di fede, sangue, suolo), dove lo slogan accattivante dell´«eguale riconoscimento» occulta rinnovate servitù, fossero anche «volontarie». Della donna, in primo luogo.

Corriere della Sera 4.11.10
Le battaglie di Teresa Noce e le braccianti la lunga storia delle sindacaliste-donne
di Bianca Beccalli


Anche se le lavoratrici sono una parte notevole dell’occupazione e dei dipendenti sindacalizzati, il vertice è sempre stato largamente composto da uomini
Perché la Cgil nel momento più difficile si affida oggi a Susanna Camusso

 Teresa Noce con il segretario del Pci Luigi Longo (dal quale si era separata un anno prima): fu la leader del sindacato dei tessili 1913 Argentina Altobelli fu il capo della Federazione nazionale dei lavoratori della terra dal 1906 sino all’avvento del fascismo

Una donna alla guida della Cgil, uno dei più importanti sindacati europei, pone due interrogativi. Primo: com’è potuto avvenire? È stato il frutto di una combinazione casuale di forze e circostanze o di una lunga marcia in cui hanno giocato tradizioni culturali antiche e innovazioni organizzative recenti? Secondo: che differenza fa? Si limiterà Camusso a proseguire il lavoro di Epifani o introdurrà nell’azione sindacale temi legati alla sua sensibilità come donna e alla sua esperienza di militante femminista?
Non si è trattato di un evento casuale. Il mondo del sindacato è un mondo maschile, più di quello dell’impresa, della politica, della scienza, delle professioni. Anche se le donne sono state e sono una parte notevole dell’occupazione e dei lavoratori sindacalizzati, il vertice del sindacato è sempre stato largamente composto da uomini. E maschile è stato, fino ad anni recenti, il principale riferimento ai lavoratori rappresentati: i capi famiglia dell’industrializzazione di massa, di quella fase «fordista» sulla quale si è costruita la grande forza del sindacato italiano a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Nella tradizione della Cgil ci sono però sempre stati degli anticorpi. La stessa, antica, ambizione di rappresentare l’intero mondo del lavoro e non solo gli interessi dei lavoratori organizzati ha generato una apertura insolita a problemi di natura generale, l’aspirazione ad una società più egualitaria, più favorevole all’emancipazione dei suoi ceti più svantaggiati. Va nella stessa direzione la politicizzazione del sindacato, la sua vicinanza ai partiti politici della sinistra, ciò che spiega l’inconsueta presenza, nella storia della Cgil, di sindacalisti provenienti dalla politica e di intellettuali senza una esperienza diretta di lavoro di fabbrica (Vittorio Foa, Bruno Trentin). E spiega anche l’inconsueta presenza di figure femminili in ruoli direttivi.
Argentina Altobelli, un’intellettuale socialista, fu il capo della federazione nazionale dei lavoratori della terra dal 1906 sino all’avvento del fascismo — i braccianti erano allora la principale categoria sindacale — e altre donne istruite (le famose «maestrine socialiste») dirigevano alcune Camere del lavoro, la struttura portante del sindacalismo territoriale di quegli anni. Quasi mezzo secolo dopo Teresa Noce fu la segretaria del sindacato dei tessili, il più importante sindacato di categoria dell’immediato dopoguerra. Teresa Noce era politica e proletaria, non una borghese come la Altobelli — aveva fatto la «sartina» nella Torino del primo dopoguerra — e come politica, non come operaia tessile, si impegnò nel sindacato: «povera, brutta e comunista» dice di se stessa nella sua commovente autobiografia. Camusso è bella, borghese e socialista, ma è parte della stessa storia. Una storia nella quale si è inserito negli ultimi quarant’anni un filone importante, quello del femminismo, di cui Camusso è stata una delle protagoniste e da cui probabilmente è stata avvantaggiata: le quote femminili negli organi direttivi (per carità, non chiamiamole «quote rosa») sono state una cosa seria. Ma il suo impegno non si è limitato al sindacato: essa è stata una delle organizzatrici di «Usciamo dal silenzio», un’iniziativa che ha portato in piazza a Milano, all’inizio del 2006, duecentomila persone provenienti da tutto il Paese «per la libertà femminile», in difesa della legge 194 sul diritto di aborto. Di nuovo, si tratta di una miscela di professionismo sindacale e di azione politica a sostegno di diritti generali che è tipica della tradizione della Cgil.
Ma veniamo al secondo interrogativo. Una donna, in quanto donna, farà differenza? In passato l’ha fatta. Le battaglie di Teresa Noce nell’immediato dopoguerra, talora in contrasto con il capo carismatico della sua organizzazione, il grande Di Vittorio — per l’eguaglianza del punto di contingenza tra uomini e donne, per la parità salariale, e allo stesso tempo per il riconoscimento della differenza, per la protezione delle lavoratrici madri — sono ormai storia. Oggi i temi per i quali il gusto per l’eguaglianza può essere una bussola importante — le donne lo posseggono in modo spiccato, consce delle discriminazioni che continuano a subire — sono altrettanto evidenti di allora. Ed è ancora insoddisfacente, per usare un eufemismo, il riconoscimento delle esigenze delle lavoratrici madri, della difficile conciliazione tra il lavoro esterno e il lavoro di cura. La cosa più importante è che gusto per l’eguaglianza può essere stimolato dalla condizione femminile ma non si ferma lì. Mol t e donne fanno lavori precari e molte sono immigrate: ma i problemi della precarietà e del-l’i mmigrazione non riguardano solo le donne e rappresentano una delle grandi sfide che il sindacato deve affrontare, se non vuole ridursi ad una rappresentanza degli i nsiders e dei pensionati. Una sfida, una difficoltà, ma anche una prospettiva, una nuova frontiera.
Poi ci sono i problemi di cui parlano giustamente i giornali. La gestione difficile di una gravissima situazione economica che erode le conquiste sindacali del passato: quali sono vantaggi acquisiti sui quali si può negoziare alla luce dell’emergenza e quali diritti sui quali non si transige? I conflitti tra i sindacati e i complessi rapporti con la politica, proprio in un momento in cui ci sarebbe bisogno della massima unità sindacale. Un disegno insoddisfacente delle relazioni industriali e l’annosa querelle sulla verifica della rappresentatività sindacale. E tanti altri ancora. Il gusto dell’eguaglianza ha il suo ruolo anche in questi problemi. Ma qui Susanna Camusso dovrà giocare non come donna, ma come leader.


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Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini


Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta

Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte

mercoledì 3 novembre 2010

Repubblica 3.11.10
Bersani: paese nel caos, i finiani si sveglino
di Givanna Casadio

"Il Cavaliere come Sansone". Vendola: pensa se tuo figlio fosse gay
Martedì Maroni dovrebbe rispondere alla Camera su Ruby. Cesa: siamo al delirio, il presidente del Consiglio si dimetta
ROMA - Bersani ha sentito più volte Fini nei giorni scorsi. Gli ha detto quello che ieri - nella conferenza stampa convocata dopo le uscite di Berlusconi sui gay, le donne e Ruby - rilancia: «Il premier come Sansone vuole abbattere tutto con tutti i Filistei. Porta il paese nel caos sotto il profilo politico, morale, economico e sociale. Nasce nel discredito della politica e intende morire nel discredito della politica». Il "mayday" del segretario del Pd davanti al paese che affonda, è un´ultima chiamata per Fli, il movimento di Fini: «Si sveglino, vedo tatticismi, cabotaggio, aspettano domenica per la riunione di Fli, ma così non si può andare avanti». Però l´appello è anche alla Lega e agli ex forzisti che hanno senso di responsabilità per il bene del paese. Non è più questione di «settimane o mesi ma di giorni, di ore; chi ha voglia di fare qualcosa, questo è il tempo».
È circostanziato l´atto d´accusa di Bersani. Parla, il leader Pd, della cultura machista del premier che vede «la donna come un dopolavoro del maschio e gli omosessuali che devono essere disprezzati. Con i minorenni poi si può ragionare così: li salvo dalla polizia per salvare me stesso e dopo li metto sulla strada». E sul Rubygate, il capogruppo Dario Franceschini ha chiesto formalmente che il ministro Maroni venga in Parlamento. Ci sarà, forse martedì. I Democratici al Senato presentano un´interrogazione perché Frattini riferisca sui rapporti con Mubarak dopo la bugia di Berlusconi. La via d´uscita è una governo di transizione per la legge elettorale e altre, poche priorità. Esempio? Fisco e occupazione dei giovani. Senza in alcun modo tirare Napolitano per la giacca e però senza permettere al centrodestra di parlare di golpe: «Non pensiamo a tradimenti e a ribaltoni; il colpo di Stato lo ha fatto il centrodestra tradendo il paese e portandolo nella palude». Comunque è "no" a un governo a guida leghista: «Il Pd non fa da salmeria e da stampella per un governo di centrodestra». E Rosy Bindi: «Berlusconi ha compiuto un abuso di potere mascherato da atto di carità».
Palude e «triste avanspettacolo». Lo dice Nichi Vendola, il leader di Sel, che si sente colpito anche come gay. «Caro Berlusconi - si rivolge al premier in un videomessaggio su suo sito - le tue battute feriscono tutti, sono una minuscola enciclopedia di imbecillità. Se un tuo figlio, un tuo amico, un tuo ministro fosse gay pensa a quanta gratuita sofferenza gli staresti infliggendo». È un triste spettacolo: «Esca con decoro, si dimetta, il tempo delle barzellette è scaduto». Affondo di Di Pietro e pure dell´Udc: «Siamo al delirio, Berlusconi si dimetta», afferma Cesa. Pannella su Fini: «È solo sceso nella mischia, non salito a una politica forte».

l’Unità 3.11.10
Iran, paura per Sakineh «Tutto deciso, giustiziata oggi»
di Rachele Gonnelli


Mercoledì è giorno di forca nel carcere di Tabriz, in Iran. Ed è forte l’allarme per Sakineh, la donna che si trova lì reclusa in attesa di essere giustiziata. L’Europa chiede a Teheran di fermare il boia, commutando la pena.

La corda potrebbe essere appesa oggi per Sakineh Ashtiani. Le voci che in modo tortuoso attraverso le organizzazioni dei fuoriusciti iraniani in Italia, Francia e Germania vengono dal carcere di Tabriz, dove la donna è reclusa, parlano di una sua possibile esecuzione nelle prossime ore. Presto, troppo presto, per attivare tutti i canali della grande mobilitazione che nel luglio scorso aveva consentito che almeno si aprisse un fascicolo per il riesame del suo caso e poi a fine agosto all’annuncio della fine della barbara pratica della lapidazione delle adultere in Iran. Non è bastato a salvarla. Sakineh, inizialmente condannata alla lapidazione per adulterio, ora rischia di essere impiccata per complicità nell’omicidio del marito.
Il presidente dell’associazione di iraniani residenti in Italia Karmi Davood ieri ha dato l’allarme: «Ci sono informazioni fondate che provengono da Tabriz di una accelerazione dell’esecuzione». Le stesse informazioni, non si sa se dalla stessa fonte, sono ribalzate anche dalla Francia, attraverso il sito La Règle du Jeu che fa capo al filosofo Bernard-Henri Lèvy attivista dei diritti umani e molto impegnato nella campagna per la liberazione di Sakineh. Chi ha le prove dell’imminente esecuzione della condanna a morte della donna è Mina Ahadi, portavoce del Comitato contro la Lapidazione con sede in Germania che ha seguito da vicino la vicenda dell’arresto del figlio della donna, Sajjad Ghaderzadeh, insieme al suo avvocato e a due reporte tedeschi che li stavano intervistando. Si tratta di una lettera inviata dall’Alta corte di giustizia di Teheran che darebbe il via libera ai carcerieri della prigione di Tabriz. Mina Ahadi è convinta che queste siano «ore cruciali» per il suo caso. Anche il rilascio del figlio Sajjad e del suo avvocato Houtan Kian sarebbe stato sospeso finchè la donna non sarà giustiziata.
LA CONFESSIONE ESTORTA
Il figlio 22enne di Sakineh si nè battuto come un leone per l’innocenza della madre, parlando con tutti i media occidentali disposti a starlo a sentire. Da quando è in arresto, lo scorso 10 ottobre, si teme sia stato torturato. Ieri sul giornale Raja News, vicino ai Guardiani della Rivoluzione, è apparsa la trascrizione di una confessione di Sajjad nella quale il ragazzo addossa ogni colpa al suo avvocato «interessato solo a ottenere l’asilo all’estero», «in contatto con Mina A., comunista antitedesca, e del suo Comitato gestito da circoli controrivoluzionari di rifugiati». Lui e la sorella sarebbero stati strumentalizzati da Kian come dal legale precedente della madre, Mohammad Mostafavi, ora in Norvegia dove ha seguito il destino di esilio dell’altra portabandiera dei diritti umani in Iran, la Premio Nobel Shrin Ebadi, attaccata anch’essa nell’articolo del giornale governativo.
Mercoledì è giorno di forca a Tabriz. E tutti questi indizi hanno finito per mettere in allarme anche Roma e Bruxelles, anche se a Frattini non risulta niente. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, si è detta «molto preoccupata» ed è tornata a chiedere «all'Iran di fermare l'esecuzione e di commutare la condanna». Una impiccagione non è più «accettabile» di una esecuzione per lapidazione, ha rimarcato, dando seguito alle molte pressioni per un suo immediato intervento per fermare il boia. Anche la diplomazia Usa è in campo. A Parigi, Bruxelles e Roma nella notte sono state riaccese centinaia di candele per Sakineh. Una veglia che si spera non preluda a cose peggiori.

Corriere della Sera 3.11.10
Lo sdegno di Roxana Saberi «E’ una decisione orribile»
di Viviana Mazza


«Come spesso accade nel sistema giudiziario iraniano, penso che il caso di Sakineh Ashtiani non sia stato né trasparente né equo». Roxana Saberi commentava così ieri sera la notizia, non ancora confermata da Teheran, che Sakineh Ashtiani avrebbe potuto essere impiccata oggi. Sono passati 18 mesi dal rilascio di Saberi da Evin, il carcere di Teheran dove vengono spesso rinchiusi i detenuti politici, e il suo libro «Prigioniera in Iran» è uscito da poco in Italia, edito da Newton Compton. E’ un diario dei 100 giorni di reclusione a Evin della giornalista americana accusata di spionaggio, ed è una riflessione sulla verità, dice al Corriere.
«Ashtiani — ricorda Roxana Saberi — era stata condannata alla lapidazione, ma poi le autorità iraniane hanno annunciato che la sua sentenza era stata sospesa, dopo che governi, associazioni dei diritti umani e personaggi influenti di tutto il mondo hanno definito questa condanna "barbara" e "brutale", come sicuramente è. Se le ultime notizie sono vere, ora sarà impiccata: una decisione orribile e biasimevole. Nessuna delle due sentenze, di impiccagione o di lapidazione, è accettabile. Oltretutto, sia l’avvocato che il figlio di Ashiani, che hanno lanciato una campagna per il suo rilascio, sono in prigione».
Sono state proprio le storie di donne come Sakineh a portare Saberi a diventare un’attivista dei diritti umani, dopo il suo rilascio dalla prigione di Evin. Di lei scrissero l’anno scorso i giornali di tutto il mondo. L’ex Miss North Dakota con master in giornalismo e doppia cittadinanza, iraniana e americana, arriva nel 2003 a Teheran, affascinata dalla terra natia del padre, sposato con una patologa giapponese e residente negli Usa. Riceve l’accredito stampa, produce servizi per vari media, dalla radio pubblica Npr alla tv conservatrice Nel 2006 le negano un nuovo accredito, ma lei resta in Iran a fare interviste per un libro. Nel gennaio 2009 l’arrestano con l’accusa di spionaggio.
Dopo due giorni a Evin, Saberi ha confessato d’essere una spia. Altri ex detenuti hanno detto d’aver rilasciato false confessioni sotto tortura. Anche Sakineh ha confessato in tv. La sottoposero a pressioni psicologiche, che considera una forma di tortura. La avvertirono che potevano tenerla lì per vent’anni, che rischiava la forca se non «collaborava», minacciarono la sua famiglia e il suo fidanzato, il regista Bahman Ghobadi. E lei si convinse che le conveniva «confessare». Ma anziché liberarla, la sottoposero a nuovi interrogatori, costringendola ad accusare un amico innocente. In carcere invece conobbe altre donne che non s’erano piegate, rifiutando di confessarsi spie: come Silva Harotonian, che lavorava per un programma di scambio Iran-Usa per la salute di donne e bambini, come Mahvash Sabet e Fariba Kalamabadi di fede bahai. «Credevano in qualcosa al di là di se stesse: la fede, gli amici, l’ideologia». Provando vergogna per aver tradito i suoi princìpi, Roxana ritrattò la «confessione». E quando la condannarono a 8 anni per spionaggio, iniziò lo sciopero della fame mentre una campagna mondiale chiedeva il suo rilascio. Le diedero due anni con la condizionale, e la liberarono. La «chiave», dice, è stata la mobilitazione globale (anche se c’è anche chi ipotizza un accordo, visto che furono rilasciati due mesi dopo 5 iraniani presi in Iraq).
Roxana non è più fidanzata con Ghobadi, che dopo i suoi Gatti persiani, sta girando un film nel Kurdistan iracheno. E non fa più la reporter. «Da giornalista pensavo che il mio compito fosse di dare le notizie evitando di schierarmi. Ma dopo aver vissuto in prima persona le violazioni dei diritti umani in Iran, è difficile per me restare imparziale». Silva Harotonian è stata rilasciata dopo una campagna cui ha contribuito anche lei. Le due donne bahai che ha conosciuto sono ancora in carcere. Come lo è Sakineh. «Non posso restare in silenzio». Roxana l'attivista gira per le università parlando dei diritti umani. A volte porta al collo lo stesso velo turchese che nel giorno del rilascio le incorniciava il volto.

l’Unità 3.11.10
Dopo una marcia lunga cento anni la Cgil si tinge di rosa
Le donne sono il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono a capo di importanti strutture. E oggi, con l’elezione al vertice di Susanna Camusso, cade l’ultimo tabù
di Bruno Ugolini


Non è più il tempo di «Riso amaro», quando le mondine alla Silvana Mangano cantavano «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo». Non è nemmeno più il tempo di Giuseppe Di Vittorio, quando al teatro Apollo di Firenze (gennaio 1954) concludeva la prima «Conferenza nazionale della donna lavoratrice» prendendosela con quanti accusavano le donne di andare a lavorare solo per poter comprare «calze e rossetto». Esclamava il segretario della Cgil: «Noi vogliamo conquistare per tutte le donne del popolo anche le calze di seta!» Non è nemmeno il tempo in cui (sempre anni ‘50) un intellettuale d’avanguardia come Gianni Toti, direttore del «Lavoro», settimanale della Cgil, litigava con la redattrice Lietta Tornabuoni che detestava la tendenza a mettere «donnine» in copertina. Tutto è cambiato rispetto ad allora. Non c’è più la calata in massa delle mondine nelle risaie. Mentre le lavoratrici che producono proprio anche le calze, come le operaie dell’Omsa, si vedono portare via il lavoro ricollocato in Serbia. E si è allargata enormemente la platea delle donne lavoratrici. Una platea che ha combattuto strenuamente anche per avere una rappresentanza adeguata.
Così ora in Cgil sulla sedia occupata da Di Vittorio va a sedersi proprio una donna, Susanna Camusso. Epilogo di una lunga marcia nel cuore di un’organizzazione che pure è considerata un tempio del conservatorismo.
Certo all’inizio, nei gruppi dirigenti del principale sindacato italiano, c’erano solo maschi. Dalla data di nascita (1906) sono trascorsi oltre 70 anni prima che una donna, Donatella Turtura, fosse chiamata da Luciamo Lama a far parte della segreteria confederale. Un salto di qualità che aveva però visto altre donne conquistare un primato nelle categorie. Così Teresa Noce segretaria dei tessili nel 1947. Un’industria prettamente femminile ma dove i primi segretari erano stati (1945) tre uomini. Altre donne importanti, sempre nei tessili, erano state Lina Fibbi e Nella Marcellino (chiamata poi a dirigere gli alimentaristi).
Oggi le donne in Cgil sono circa il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono alla guida di numerose Camere del lavoro e strutture regionali nonché di categorie e organismi nazionali (pensionati con Carla Cantone, funzione pubblica con Rossana Dettori, agroindustria con Stefania Crogi, lavoro atipico e precario con Filomena Trizio, l’Inca con Morena Piccinini). Dopo l’esperienza dei coordinamenti femminili (e prima delle commissioni femminili e dell’ufficio lavoratrici) sono state adottate le cosiddette quote. Prima nella funzione pubblica come ha ricordato Valeria Fedeli, poi nel 1986, sotto, l’egida del segretario generale Antonio Pizzinato, con il 20% dei posti assegnati in comitati direttivi e segreterie. Ed ecco il balzo nella segreteria confederale diretta da Bruno Trentin nel 1990 di tre esponenti del mondo femminile: Maria Chiara Bisogni, Anna Carli, Fiorella Farinelli. Con Sergio Cofferati il raddoppio con sei donne: Carla Cantone, Titti Di Salvo, Nicoletta Rocchi, Marigia Maulucci, Morena Piccinini, Paola Agnello. Ora, l’ascesa di Susanna Camusso. Siamo alla scalata finale.
E’ possibile ritrovare nel tempo l’impronta continua del movimento sindacale femminile e delle sue protagoniste. Alcune delle quali poco conosciute come Argentina Altobelli (tra i fondatori della Federazione nazionale dei lavoratori della terra), l’operaia Abele Bei (sindacato tabacchine), la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato.
Le donne c’erano «ma invisibili» ha scritto Maria Luisa Righi (un saggio nei volumi «Mondi femminili in cento anni di sindacato», Ediesse). L’opinione pubblica sentiva parlare o leggeva di «una massa indistinta di lavoratori, classe operaia, uniforme e asessuata». Solo attraverso le fotografie si vedranno «tante ragazze, le gonne corte e i capelli curati, sorridenti e festanti per le vittorie conseguite».
Generazioni e generazioni di lavoratrici e dirigenti promotrici di battaglie sindacali per il diritto al lavoro delle donne, per la tutela della maternità, per la tutela dell’infanzia, per la parità salariale tra donne e uomini a parità di mansione e di lavoro. Alcune le ho conosciute personalmente come la Donatella Turtura incontrata a Genova nel 1987 mentre affrontava senza tremori un’assemblea infuocata dei «camalli» di Paride Batini molto polemici con la Cgil. O Nella Marcellino che mi ha fatto leggere in anteprima un suo libro di memorie («Le tre vite di Nella», a cura di Maria Luisa Righi, edizioni Sipiel) dove racconta gli scioperi del ’43 e la conquista del diritto d’assemblea nelle fabbriche alimentari nel 1968. Un ruolo decisivo di queste donne anche per leggi come quella sul divorzio nel 1970, sulla tutela delle lavoratrici madri e per gli asili nido nel 1971, sulla riforma del diritto di famiglia nel 1975 e sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza nel 1978. I benedetti anni 70.
Una presenza determinante. Eppure oggi, come ha avuto modo di annotare proprio Susanna Camusso per molti il metro è ancora quello per cui una donna è brava «se ha le palle». Ovverosia se assomiglia al maschio. Speriamo che oggi non si aspettino solo uno sforzo mascolino, quanti guardano con malizie e sospetti alle scelte della nuova Cgil del dopo Epifani. Sarebbe auspicabile invece, una strategia all’altezza dei tempi, in un paese quasi allo sfascio, senza governo e senza politica, e quindi spesso addirittura senza interlocutori contro cui scioperare. Magari avendo sott’occhio un altro verso di quell’antica canzone delle mondine: «E la libertà non viene, perché non c’è l’unione».

l’Unità 3.11.10
L’«Opa» di destra su Pasolini
di Bruno Gravagnuolo


Adesso però questa «neo-destra» civile esagera. Deborda. E per eccesso di neofitismo rischia il dilettantismo e la pacchianeria. Prima ci annunciano mirabilie culturali con il loro «Manifesto d’Ottobre», denso di vaghezze e luoghi comuni. Poi invocano «il giornalismo di destra di una volta». Dimenticando che, ultimo Montanelli a parte, il giornalismo di destra da noi fu sempre codino e reazionario. Oggi infine sul Secolo si annettono Pasolini e ne fanno un profeta reazionario, nobile e di destra ( «sopra le parti», aggiungono). No, cari ragazzi finiani. Pasolini era senz’altro un populista, un (neorealista) romantico. E Asor Rosa, che pure oggi lo rivaluta, aveva ragione nel definirlo tale in Scrittori e Popolo. E però Pasolini si definiva marxista e di un marxismo complesso, intriso di linguistica, psicoanalisi, strutturalismo, volto al riscatto delle plebi, benché non volesse che le energie morali del popolo delle borgate e delle periferie andassero disperse. Travolte dal globalismo e dall’omologazione. E dal potere neutro di un sistema che usava la destra a scopo di, stragi, trame e oppressione. Per questo aveva la fissa di Cefis, burattinaio contornato tra l’altro di ufficiali golpisti di destra e di chierici alla Miglio, il leghista prussiano e seguace di Carl Schmitt adorato da Massimo Cacciari. Insomma Pasolini, già cacciato dal Pci, era sempre dei nostri e restò tale. Perciò salutava fino all’ultimo, sul nostro giornale e in lirica, le povere sezioni del Pci pavesate di bandiere rosse. Invitando a votare Pci. Certo. Che la destra vecchia e nuova lo riscopra, e faccia ammenda, ci rallegra. E si veda su tutto questo il libro Vallecchi in uscita: Una lunga incomprensione. Pasolini tra destra e sinistra, di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna. Ma in conclusione è ridicolo il paragone parapolitico del Secolo con Ezra Pound. O con Mitshima. Fascista antisemita il primo, nazionalista imperiale il secondo. Sennò si finisce nella solita marmellata trasformista. Col trucchetto di «oltrepassare gli steccati». Molto caro pure a certe teste d’uovo «progressiste».

l’Unità 3.11.10
Vendola non è Invictus
di Bruno Magno


Che Nichi Vendola sia sulla cresta dell’onda è indubitabile. Come a volte succede ai “predicatori”. «Ha vinto le regionali in Puglia!», dicono, tacendo sul fatto che ha vinto solo perché la destra si è divisa in due liste. Questo “invictus” fu battuto (pur essendo fortemente sostenuto dai big) persino nel congresso del suo piccolo partito. Addirittura da tale Ferrero, che divenne segretario, e di cui si ricorda soprattutto per dire lo spessore politico una straordinaria iniziativa: la messa in vendita, con grande successo, del pane a euro 1.50 al chilo, per sconfiggere i panettieri affamatori del popolo.
Un “vincitore” di tal fatta non può che vincere le primarie, le elezioni politiche, il Gratta e vinci e il Giro d’Italia.

Corriere della Sera 3.11.10
Il manifesto di Rousseau apprezzato da Kant «Mi insegnò il rispetto per le persone umili»
«Eliminate miseria e opulenza» È il nuovo «contratto»
di Giuseppe Galasso


Di quanti scrittori i giudizi che se ne danno sono quanto mai divergenti? Per Jean-Jacques Rousseau lo si può dire anche di più. Padre fondatore dell’idea moderna di democrazia per gli uni, progenitore prossimo dei molti totalitarismi del XX secolo per gli altri. Padre del giacobinismo robespierrista e del conseguente Terrore nella rivoluzione francese, oppure vero fondatore della democrazia borghese. Individualista libertario o, al contrario, moralista del conformismo sociale. Autentico illuminista o, invece, antilluminista e già tutto romantico. Genio teorico della pedagogia moderna, oppure iniziatore della dissoluzione dei fondamenti dell’azione educativa nel mondo di oggi.
Quel che non è dubbio è, però, il suo rilievo nella storia sia del pensiero e delle esperienze politiche, sia della filosofia. Basta, al riguardo, il debito dichiarato verso di lui da Immanuel Kant, a sua volta autentico iniziatore del pensiero contemporaneo. Era stato Rousseau a svegliarlo dal suo sonno metafisico in materia di morale, così come David Hume in materia di conoscenza. Ma per la morale la questione era in Kant molto più importante. Era, infatti, qui che egli doveva recuperare la dissoluzione di schemi e valori universali operata da lui con la sua «rivoluzione copernicana» in materia di conoscenza. Rousseau fondava la sua morale sul sentimento. Kant capì che non si trattava di sentimentalismo, ma del sentimento della dignità umana, per cui il senso morale è ciò che rende l’uomo appieno e degnamente uomo. «Io sono uno studioso — scrisse — e sento tutta la sete di conoscere che un uomo può sentire. Un tempo credevo che questo costituisse tutto il valore dell’umanità, e disprezzavo il popolo ignorante. A farmene ricredere è stato Rousseau. Quella illusione di superiorità si è dissolta. Ho capito che la scienza è inutile, se non vale a mettere in valore l’umanità».
Si è detto che Rousseau supera tutti gli altri filosofi francesi del suo tempo, ma ciò vale largamente anche oltre i confini francesi. Ricordare Rousseau solo come pedagogista o filosofo politico è, dunque, riduttivo. Certo, Il contratto sociale è al centro del suo pensiero, ma non è l’espressione esclusiva delle sue idee, che su religione, educazione, virtù, libertà, natura, uguaglianza e altro vanno seguite in tutti i suoi scritti di prima e di dopo e non fanno capo solo al Contratto.
Tra l’altro, come quasi mai si dice, Rousseau è, se non il primo, certo uno dei casi più rari di intera presenza di uno scrittore politico nella sua opera. Forse, è nei suoi scritti più personali (le Confessioni, uno dei grandi libri della tradizione autobiografica europea, e le bellissime Rêveries, o Rousseau giudice di Jean-Jacques) che, per alcuni, bisogna cercare la chiave anche del suo pensiero politico.
Difficile è pure dire quale opera di Rousseau abbia avuto maggiore influenza nel suo tempo e dopo, ma certo è al Contratto sociale che per questo bisogna soprattutto rifarsi. Nella Rivoluzione francese non bisognò aspettare l’ora di Maximilien Robespierre per una sua presenza ispiratrice. Già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 l’articolo 6 affermava che «la legge è l’espressione della volontà generale»; e la «volontà generale» è il maggiore pilastro teorico del Contratto sociale.
L’idea di un «contratto», storico o teorico, a base della società era radicata da tempo in Europa. Per Rousseau, l’uomo è felice e libero nello stato di natura, ma a un certo punto «tale stato di natura non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse le condizioni della sua esistenza». È il contratto a legare gli uomini riuniti in società fra loro e nei loro rapporti col governo. Esso non è stipulato tra gli individui che formano la società, e tanto meno fra costoro e un qualsiasi sovrano. Il contratto unisce tutti a tutti, ed è in ciò che consiste il vincolo sociale. «Ciascuno di noi — scrive Rousseau — mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi, in quanto corpo sociale, riceviamo in esso ogni membro come parte indivisibile del tutto. Ogni consociato si unisce a tutti e a nessuno in particolare. Non obbedisce così che a se stesso e resta libero come prima», e il governo non può avere interessi diversi da quelli del corpo sociale e dei suoi membri.
Quello della volontà generale, vero e solo possibile sovrano della comunità, è senza dubbio il concetto politico più originale, ma anche più complesso di Rousseau. Per lui la volontà generale non è una volontà particolare conforme a interessi particolari, ma non è neppure la volontà di una maggioranza, che sarebbe sempre una volontà parziale, e addirittura non è neppure la volontà di tutti, che è una mera sommatoria delle volontà individuali, e pur sempre rispondente, nella sua composizione, a interessi particolaristici. La volontà generale è di una qualità diversa, non è un fatto quantitativo, ha un carattere tutto morale e obbedisce solo all’interesse generale del corpo sociale, che essa, e solo essa, esprime.
A rigor di termini, in teoria, perfino la volontà di una sola persona potrebbe esserne interprete ed espressione. Tutto ciò renderebbe, però, difficile l’esercizio della sovranità da parte del corpo sociale nella sua interezza, e soprattutto renderebbe difficile riconoscere la volontà generale, che, infatti, è sempre stata l’idea di Rousseau più bersagliata, se non derisa, dai suoi critici. Egli aveva in realtà avvertito il problema e aveva suggerito il criterio della maggioranza come volontà dei molti quale mezzo empirico per riconoscere la volontà generale, purché tutti i cittadini avessero ed esercitassero il diritto di voto.
Un compromesso, dunque, che non impedì di obiettare a Rousseau che le sue teorie postulavano una democrazia diretta adatta solo a piccole realtà come la sua natìa Ginevra. Anche questo appare, però, lontano dal suo reale pensiero. La forma del governo si lega per lui alle situazioni locali, come ben si vede nei suoi scritti sulla Polonia e la Corsica. In effetti, è sempre da ricordare che la misteriosa «volontà generale» è definita da lui come espressione dell’interesse generale, distinta anche dalla volontà di tutti. Essa è la volontà sia di tutti che del corpo sociale nel suo insieme. Un concetto che, per noi, porta Rousseau, in modo paradossale, ma non illogico, dalle rive del collettivismo decisionale, o dell’eventuale e possibile unico interprete della volontà generale, alle rive del liberalismo degli interessi generali, che i grandi liberali hanno spesso riaffermato come misura del carattere liberale di un’azione politica e di governo.
Si tratta, quindi, di una democrazia estrema, ma praticabile, in cui il governo è un problema secondario, perché prioritarie sono la libertà e la sicurezza garantite dalla volontà generale, nonché la solidarietà del corpo sociale da perseguire con l’educazione, la religione, la pratica di un ideale di civismo e di patriottismo, di austerità e di virtù. Che tutto ciò abbia portato a interpretazioni collettivistiche o totalitarie del suo pensiero si può capire, ma Rousseau merita una ben maggiore fedeltà. Neppure sul piano sociale lo si deve fraintendere. «Volete rafforzare lo Stato? Fin dove è possibile avvicinate gli estremi, eliminate miseria e opulenza, condizioni ugualmente funeste per il bene comune»: è ancora Il contratto sociale, e, dopo tutto, è quel che liberalismo e democrazia fanno o dovrebbero fare anche oggi.

Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini


Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta

Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte