venerdì 5 novembre 2010

Corriere della Sera 5.11.10
Sondaggi e disagio dei moderati, Pd fra due fuochi
I dati: gli elettori bocciano l’alleanza con l’Udc, ma per l’area cattolica il partito è troppo a sinistra
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Non vogliamo le elezioni perché con questo sistema elettorale uno con il 34 per cento dei voti può fare il presidente della Repubblica». Quando Pier Luigi Bersani ha pronunciato questa frase, in una conferenza stampa, qualche giorno fa, i giornalisti hanno pensato a un lapsus — freudiano o meno — perché quelle parole equivalevano ad ammettere che il Pd teme ancora che, scandali o non scandali, Berlusconi possa vincere le elezioni.
Ma di lapsus non si è trattato, anche se, naturalmente, una frazione di secondo dopo il segretario ha tentato di rettificare. Già, i sondaggi riservati a disposizione del Partito democratico sono tutt’altro che confortanti e quindi quella frase dal sen fuggita è più che comprensibile. Non si tratta solo della percentuale attribuita al Pd, ma anche dell’immagine che quella forza politica rimanda all’esterno. E gli ultimi dati hanno fatto riflettere il gruppo dirigente.
Li ha portati mercoledì scorso, direttamente al leader, Giacomo Portas che per Contacta si occupa della divisione ricerche e sondaggi d’opinione. In genere la società lavora con le imprese un po’ in tutto il mondo, ma siccome Portas è anche un deputato, eletto con i Moderati per il Piemonte e iscritto al gruppo del Partito democratico, si fanno anche sondaggi che riguardano la politica italiana. I risultati non sono lusinghieri per il Pd. C’è quel 23-24 per cento entro cui oscilla il partito, senza un minimo accenno a una possibile inversione di tendenza. E c’è la percezione che gli elettori hanno del Pd: l’ottanta per cento degli intervistati vede il Pd come una forza decisamente di sinistra, non di centrosinistra, il restante lo percepisce come una forza troppo schiacciata su Casini e Fini.
Spiega Portas (che queste cose le ha dette anche a Bersani per un’ora e mezzo): «Noi abbiamo perso voti sul fronte moderato. Il Pd che con Veltroni inglobava pure quell’elettorato, ora lo ha perso. Del resto se siamo passati dal 33 e rotti per cento al 23-24 un motivo c’è». Bersani ha ascoltato con interesse anche un altro ragionamento, legato a un ennesimo sondaggio. La cui domanda era testualmente questa: «Se domani ci fossero le elezioni, lei voterebbe per un nuovo partito di centro moderato, alleato con il centrosinistra?». Domanda secca, risposta: l’11 per cento lo voterebbe. Ulteriore spiegazione di Portas a Bersani: «C’è un mercato di centro che il Pd non riesce più a cogliere: prima, quando Veltroni si è inventato il partito maggioritario, votavano per noi, ora non più e pensano piuttosto a una nuova formazione». Con Beppe Fioroni, che è suo amico, il deputato è stato ancora più esplicito su quei dati: «Il vestito che indossava Walter ora si è ristretto, prendiamone atto. E noi rischiamo di scendere anche fino al 20 per cento se continuiamo così, con il terzo polo che si presenta autonomamente e ci mangia altri voti. Invece possiamo sperare di risalire al 27-28». Ossia alle percentuali delle regionali. Bersani, comunque, ha ascoltato con attenzione il suo interlocutore. E non solo perché fa sondaggi: con il suo movimento Portas, che fino al 2005 militava in Forza Italia, è riuscito a superare l’Udc a Torino, quindi è un alleato prezioso in un capoluogo dove l’anno prossimo si tornerà a votare. E dove i Moderati torneranno a coalizzarsi con i Democrats, perché, spiega il deputato, «io stimo Bersani e per questo non ho firmato documenti, tipo quello dei 75».
«Se il Pd non riesce ad attrarre i moderati forse sarebbe il caso di creare un’altra gamba di centro — è stata la prosecuzione del ragionamento che Portas ha fatto con il segretario — ma non parlo dell’alleanza con Casini e tanto meno con Fini, che quella non la capiscono proprio. Gli elettori percepiscono l’Udc come ambiguo. Nelle Marche sta con il Pd, nel Lazio con il Pdl e Storace. E infatti nei sondaggi non aumenta. Ci vorrebbe una creatura politica nuova».
Il discorso si è chiuso qui. Ma nella testa di Bersani è suonato un campanello d’allarme. Non è che qualcuno sta seriamente pensando a una mini-scissione per organizzare un altro partito, nel caso in cui non vi siano elezioni? Del resto, molti ex popolari sono in sofferenza: Fioroni ha confidato ai colleghi di partito che «è sempre più difficile tenere tutti dentro: io faccio da freno, ma man mano che ci spostiamo a sinistra, faccio sempre maggior fatica a convincerli a non andarsene». E alcuni moderati, effettivamente, se ne sono già andati: diciotto parlamentari sono usciti dal Pd da quando Bersani è segretario, nonostante la passione e l’impegno con cui il leader sta assolvendo al suo ruolo. Ma non basta, evidentemente.

Repubblica 5.11.10
Pd, ora Bersani non esclude la piazza "Se Fli non rompe ci serve un piano B"
Si valuta la mozione di sfiducia, ma senza Fini è un´arma spuntata
"Se domenica Fini dirà andiamo avanti così toccherà a noi far ballare l´orso"
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Se domenica Fini dirà "andiamo avanti così" toccherà a noi far ballare l´orso». Pier Luigi Bersani prepara il piano B, il brusco cambio di strategia. Basta attendere Godot. Il presidente della Camera non stacca la spina? Toccherà ai democratici farsi sentire. Il punto è come. Lo strumento parlamentare è un´arma a salve. «Potremmo fare una mozione di sfiducia. Ma senza Fli non ci sono i numeri. Le chance sono minime». Il Pd ragiona allora sulla mobilitazione di piazza. «Vedremo. Davanti alla prospettiva del governo tecnico Berlusconi minaccia di portare il popolo in strada. La Lega annuncia la rivolta della sua gente - ricorda Bersani prima di infilarsi in auto dopo un convegno sul welfare - . Ma se davvero vanno avanti così saremo noi a dover usare un mezzo di quel tipo».
La speranza del governo istituzionale sta facendo pagare un prezzo pesante al Partito democratico. A quell´orizzonte complicato si devono in parte i dati allarmanti dei sondaggi e le voci critiche nel mondo del centrosinistra (Renzi e Vendola, innnanzitutto). Bersani non rinnega la proposta di un´alleanza costituzionale: «Se Fini dovesse fare lo strappo un po´ di merito andrebbe anche al nostro pressing». Se però tirano a campare? «Il Pd risponderà», garantisce Bersani. A Largo del Nazareno si ragiona perciò su una manifestazione nazionale. Con l´incognita di doverla organizzare a dicembre, periodo poco propizio per i cortei. Un´altra idea è trasformare l´assemblea convocata a Napoli il 4 dicembre in evento più grande, un raduno di denuncia dello stallo berlusconiano.
Certo, la piazza è uno strumento per niente gradito dai potenziali alleati del governissimo come l´Udc. Ma il Pd non può più permettersi di stare a guardare. Pierluigi Castagnetti lo ha scritto ieri su Europa. «Abbiamo accettato di subordinarci alla strategia di altri con risultati magri - scrive l´ex segretario del Ppi - . Adesso occorre giocare la nostra scommessa. Presentiamo una mozione di sfiducia anche se non funziona. Anzi, una la settimana».
Fino a domenica Bersani insisterà nel suo appello a tutti: a Berlusconi, alla Lega, a Fini. Staccate la spina, voltiamo pagina. «Non per tatticismo, ma per la situazione di non governo. E per un´indignazione anche personale», spiega. Per esempio: «E´ giusto che Berlusconi vada ad aprire la conferenza sulla famiglia? Non per ragioni etico-morali ma per ragioni politiche». Il voto in commissione Bilancio, dove una nuova maggioranza con Fli ha mandato sotto il governo, spinge Dario Franceschini ad annunciare: «La maggioranza non c´è più». Sono le stesse parole di Massimo D´Alema: «Bisogna prenderne atto e girare pagina». Bersani, mercoledì, ha voluto incontrare anche Walter Veltroni. Per serrare le fila del Pd. Dimenticate le polemiche sul gruppo dei 75, insieme hanno fatto il punto della situazione. E nel corso del seminario della fondazione Democratica, con Enrico Letta e Marco Follini, l´ex segretario del Pd rilancia il governo modello Ciampi come aveva fatto su Repubblica: «Andare al voto sarebbe un´avventura pericolosa». Ma Veltroni segnala anche la debolezza del Pd: «Manca un´alternativa vera. Questo dipende anche dal mutamento del Partito democratico». Anche Nicola Zingaretti ha dubbi sull´efficacia dell´azione democratica. «Bersani ha ragione: prima di tutto la ditta - dice a Repubblica Tv - . Ma per difenderla bisogna anche cambiarla. È evidente che c´è qualcosa che non va».

Corriere della Sera 5.11.10
Tra Londra e Israele manette e incidenti
di Francesco Battistini


Certe visite di Stato sembrano solo una photo opportunity. Quella in Israele di William Hague, ministro degli Esteri inglese, è stata un photo finish: una corsa sul filo per evitare che precipitassero i (già non buoni) rapporti fra i due Paesi. È stato all’ultimo minuto che Dan Meridor, vicepremier israeliano, ha dovuto cancellare un contemporaneo viaggio a Londra, perché una denuncia per «crimini di guerra» presentata da un gruppo filopalestinese rischiava di trasformarsi in un clamoroso ordine d’arresto; è stato all’ultimo istante che Avigdor Lieberman, ministro degli Esteri israeliano, s’è vendicato sospendendo il «dialogo strategico» fra i due governi, ovvero una serie d’incontri periodici su difesa e sicurezza; è arrivata sul filo di lana la promessa inglese di rivedere la legge sulla competenza universale, ovvero quella norma che permette a un qualsiasi giudice Garzón del Regno, sulla base di qualsiasi denuncia, di processare qualsiasi leader straniero.
Incidente chiuso? Per nulla. In Gran Bretagna, dalla guerra di Gaza di due anni fa, il tintinnio delle manette per i politici israeliani è diventato una tradizione. Da Olmert a Tzipi Livni, per non dire di Barak che una volta fu quasi costretto alla fuga, il brivido è toccato a tutti. A Gerusalemme sono furiosi: o d’Israele viene riconosciuta una responsabilità penale internazionale, nel dossier Palestina, oppure non si vede perché i suoi dirigenti — quando entrano in quel pezzo dell’Ue — siano trattati come un Milosevic qualsiasi. Nelle università inglesi, tra l’altro, i capi di Hamas vengono invitati senza che rischino nemmeno un interrogatorio. Certo, gl’israeliani ci mettono del loro nello scansare le condanne Onu su Gaza o le inchieste imparziali sulla strage degli attivisti turchi. Ma ci sono altri strumenti per manifestare il dissenso dalle politiche di Netanyahu: Londra, per esempio, ricorre già con efficacia al boicottaggio dell’ortofrutta proveniente dalle colonie illegali. Perché se si vuole prenderli a pomodorate, è un diritto: prendere le impronte digitali, è una sciocchezza.

Corriere della Sera 5.11.10
Protesta contro i tagli alle mostre, il 12 novembre la serrata dei musei
di Edoardo Sassi


Modalità diverse in ogni città. Aderiscono Triennale di Milano, Capitolini, Maxxi, Fai

Porte chiuse per un giorno in un centinaio di musei e monumenti d’Italia, dalla Cappella degli Scrovegni di Padova, al Palazzo Ducale di Venezia, ai Musei Capitolini di Roma.
Anche il mondo della cultura si mobilita contro i tagli del governo Berlusconi, in parte già contenuti nella manovra finanziaria approvata in estate con la legge 122/2010, e sceglie l’Auditorium di Roma — dove fino a oggi si sta svolgendo il Festival del Cinema — per lanciare la sua protesta: un’inedita serrata bipartisan di una parte dei musei civici pubblici decisa per sabato 12 novembre. Un’iniziativa che seguirà dunque la già avvenuta occupazione del red carpet del Festival durante l’inaugurazione di giovedì scorso da parte di registi, attori e altri lavoratori del mondo dello spettacolo, anche loro mobilitati contro il governo.
Stavolta sotto accusa — e ad animare la protesta sono infatti soprattutto gli enti pubblici locali — c’è in particolare una norma della legge 112, quella che riduce al venti per cento (cioè taglia dell’80) il limite imposto alle spese per mostre e altre attività culturali di Regioni, Comuni e Province rispetto a quanto da loro stessi investito nel 2009.
Ad annunciare ieri la mobilitazione nazionale (denominata «12 novembre 2010, Porte chiuse e Luci accese sulla cultura»), con richiesta al ministro per l’Economia Giulio Tremonti di abrogare almeno alcune di queste norme, sono stati l’Anci (Associazione dei comuni italiani), tramite il suo delegato e assessore a Genova Andrea Ranieri, Umberto Croppi, assessore alla Cultura nella giunta Alemanno, e Roberto Grossi, presidente di Federculture, sigla che raggruppa 158 tra enti e aziende per la gestione di servizi legati a cultura e tempo libero (tra i principali e aderenti all’iniziativa, Fondazione Musica per Roma, Triennale di Milano, Maxxi, Fondazione Torino Musei).
Al loro fianco anche il Fai, Fondo ambiente italiano, che ha annunciato per il 12 novembre la chiusura dei suoi tredici siti di norma accessibili: Villa Gregoriana a Tivoli, Villa e collezione Panza di Biumo a Varese e Villa Necchi Campiglio a Milano, tra gli altri. Ampia ma diversificata per ora, data anche l’eterogeneità dei soggetti coinvolti, la partecipazione di amministrazioni, aziende, biblioteche e parchi. Tra i tanti soggetti che hanno già aderito alla protesta, oltre ai Comuni di Roma, Venezia, Torino, Padova e Bari, Unione delle Province, Conferenza delle Regioni e Associazione siti Unesco. E altre adesioni sono state annunciate per le prossime ore.
La serrata non riguarderà comunque musei e aree archeologiche statali dipendenti dal ministero per i Beni culturali (Colosseo, Uffizi, Brera, Pompei..) bensì una parte, neanche tutta, di quelli di competenza locale. Ci sono poi Comuni (e tra questi, stando a quanto detto ieri, Milano) che pur aderendo si stanno orientando verso una protesta più soft, ad esempio promuovendo aperture straordinarie gratuite per un giorno. Lo stesso farà l’Auditorium a Roma per un concerto già in programma. Mentre al Maxxi, Fondazione che dipende dallo Stato, sarà posticipato di un’ora l’ingresso.
L’auspicata serrata totale si scontra in realtà con resistenze politiche, sindacali, organizzative e legali (interruzione di pubblici servizi). Dunque ogni città farà a modo suo. Genova ad esempio chiuderà due musei, Palazzo Bianco e Palazzo Rosso, ma aprirà gratis gli altri. Roma, oltre ai Capitolini, chiuderà Macro e Palaexpò, ma non le Scuderie del Quirinale.

Repubblica 5.11.10
Il re del mondo
Controlla un quinto della popolazione del pianeta, può spostare fiumi e metropoli. Ecco perché Forbes "incorona" il leader cinese Hu Jintao
di Giampaolo Visetti


Il 2010 è stato un anno formidabile per i cinesi. Che si chiude con l´incoronazione del presidente da parte della rivista Forbes come l´uomo più influente del pianeta. È un passaggio di consegne personale tra lui e Obama, che scivola al secondo posto. Ma anche nazionale: la Cina rileva lo scettro detenuto per sessanta anni dagli Usa come motore del mondo Per gli analisti americani il leader "piega in vari modi la Terra alla sua volontà" Pechino ha il primato delle missioni sullo spazio e delle tecnologie Hu Jintao esercita un controllo dittatoriale su un quinto della popolazione mondiale, è alla guida del più grande esercito della Terra. È in grado di spostare fiumi, costruire e trasferire metropoli, mettere in carcere dissidenti, censurare Internet senza ingerenze burocratiche

Il 2010 sarà ricordato dai cinesi come un anno formidabile. Pechino ha frantumato tutti i record possibili ed è tornata ad essere l´epicentro del pianeta. L´anno della Tigre si era aperto con il sorpasso sul Giappone, che ha proiettato la Cina al secondo posto tra le potenze economiche globali. Si è chiuso idealmente ieri, con l´incoronazione del presidente Hu Jintao quale uomo più potente del mondo. È la prima volta nella storia che un leader cinese raggiunge il vertice della potenza politica, lasciando alle sue spalle i decisori dell´Occidente. Il fatto che a prendere atto di tale cambio di peso sia la rivista americana Forbes, bibbia del costume capitalista, è essenziale. La bussola degli Usa non sancisce solo la somma degli eventi che hanno segnato gli ultimi mesi. Stabilisce un passaggio di consegne. Personale, tra Hu Jintao e Barack Obama, scivolato al secondo posto. Ma soprattutto nazionale e globale, con la Cina motore dell´Oriente che rileva lo scettro detenuto per sessant´anni dagli Stati Uniti anima dell´Occidente.
Leggere una resa nella classifica di Forbes sarebbe però un errore. Che la locomotiva del pianeta, unica grande potenza ad essere uscita rafforzata dalla crisi del 2008, non possa essere condotta da un pilota di secondo piano, è una consapevolezza tardiva. Ma Forbes muove un passo più in là. Per la prima volta segnala che «il potere può essere usato per il bene, ma pure per il male». Evita di inserire Hu Jintao dalla parte dei cattivi, ma spiega i «criteri nuovi» che lo hanno spinto al primo posto tra i 68 individui che rappresentano i 6,8 miliardi che compongono l´umanità. Per i capi di Stato, gli analisti americani hanno considerato le dimensioni della popolazione controllata e la tendenza del Pil nazionale. Su questo piano, con 1,4 miliardi di abitanti e una crescita annua del 10%, la Cina e Hu non hanno rivali.
Forbes quest´anno ha cercato così di capire chi è «il leader che, in vari modi, piega il mondo alla sua volontà». Il segretario generale del partito comunista cinese è stato scelto perché «è il leader politico fondamentale più di chiunque altro per il maggior numero di persone, in quanto esercita un controllo pressoché dittatoriale su un quinto della popolazione mondiale». È un attacco che a Pechino, ancora scossa dal Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo, non è passato inosservato. La rivista Usa ha aggiunto infatti che, «a differenza dei suoi colleghi occidentali, Hu è anche alla guida del più grande esercito del mondo ed è in grado di deviare fiumi, costruire e spostare metropoli, mettere in carcere dissidenti e censurare Internet, senza ingerenze di fastidiosi burocrati, o di tribunali»
Per la Cina, che a tarda sera ha affidato all´agenzia di Stato l´unico commento ufficiale, è l´ennesima prova che «all´imperialismo occidentale non restano che premi simbolici per tentare di fermare la crescita dell´Oriente». La lettura cinese è che «la rivista del lusso in disarmo dell´America», abbia proiettato Hu Jintao sul tetto del mondo per «lanciare l´allarme sul pericolo che il pianeta si stia consegnando nelle mani di regimi autoritari». È una conclusione estrema ma Forbes, riferendosi agli «esseri umani comandati oggi da una sola persona», non ha rinunciato ad una sottolineatura inquietante. «La Cina - scrive la rivista - rifiuta di piegarsi alle pressioni per cambiare tasso di cambio della sua moneta e gestisce la più grande riserva mondiale di valute estere, pari a 2650 miliardi di dollari». Il leader cinese avrebbe cioè conquistato il primato del potere 2010 grazie alla volontà finanziaria di tenere in pugno il destino degli individui della terra attraverso il ricatto della svalutazione competitiva e dell´investimento nei debiti pubblici di Usa, Europa e Giappone.
Proposto sotto tale luce, lo scoop di Forbes è che il capo del regime post-comunista cinese regna già concretamente sul destino non solo dei cinesi, ma su quello di una comunità internazionale che non vuole rendersene conto.
Non sarebbe una buona notizia, per il mondo che cerca faticosamente di smarcarsi dall´unilateralismo americano. Ma è vera? E chi è realmente l´uomo più potente del pianeta, cos´è oggi la Cina che egli impone quale protagonista assoluto del secolo? I cinesi, che non confondono la figura del leader con le dimensioni della loro nazione, sanno che Hu Jintao non può comandare il mondo.
Le ragioni sono quattro. La Cina è ormai il Paese che fa meno figli della terra e, a differenza dell´India, entro trent´anni sarà una nazione di vecchi privi di assistenza. A Pechino non comanda il presidente, ma il «Partito», autentica e unica onnipotenza. Hu cesserà il suo mandato tra poco più di un anno e assieme a lui sarà sostituito anche il potere dei suoi protetti. Il prossimo leader cinese, Xi Jinping, non appartiene alla sua squadra di «tecnocrati riformisti», ma a quella avversaria, formata dai «principi rossi conservatori». Al posto dei «giovani nati poveri» che volevano «modernizzare la nazione», allievi di Deng Xiaoping, andranno i «figli dei rivoluzionari maoisti» decisi a «ristrutturare la patria», secondo le indicazioni di Jiang Zemin. Il fatto che il capo della Cina non venga eletto dal popolo, e che Hu a metà ottobre sia stato rottamato dalla maggioranza del «Partito», che ha voltato le spalle anche al premier Wen Jiabao, significa che Forbes propone all´attenzione globale un leader già sul viale del tramonto e ormai sotto tutela. Una classifica più analitica, decisa a portare il fenomeno-Cina all´attenzione internazionale, avrebbe ignorato la funzione e privilegiato la sostanza, assegnando il primato dell´influenza mondiale al «Partito comunista cinese», o a Xi Jinping, l´uomo oggi realmente più temuto dai cinesi, nonché quello che determinerà la nostra sorte fino al 2022. È chiaro però che nel 2010 l´attenzione non si è rivolta a un individuo, alle soglie dei settant´anni, ma all´universo che egli simboleggia. Hu Jintao è il più grigio burocrate a cui la Cina si sia affidata dopo la morte di Mao Zedong. Non un colpo d´ala, in quasi dieci anni di potere, non una scelta decisiva. I cinesi lo considerano un «reggente di transizione partorito dai veti incrociati dei nuovi lobbisti del business». Il resto del mondo lo ricorda invece per le repressioni in Tibet e nello Xinijang, per la censura e la violenza con cui ha stroncato ogni forma di dissenso. «Ha tenuto il posto - confidano i suoi stessi funzionari - deciso a lasciare ogni problema in eredità al successore».
Lo scenario cambia se si considera invece la Cina, destinatario effettivo della menzione di Forbes. La crescita della sua potenza, nel 2010, è stata impressionante. Tallona ormai gli Usa nell´economia, cresce del 10% da un decennio, è diventato il primo mercato dell´auto, dei treni ad alta velocità e del traffico aereo, il primo esportatore e il primo importatore di beni del mondo. Entro il 2025 sarà la nazione-guida del pianeta e in pochi mesi ha sottratto agli Stati Uniti lo scettro dell´energia verde, quello delle missioni nello spazio, del numero di miliardari e di appartenenti alla classe media. «Made in China» è per la prima volta il computer più veloce, la massa più grande di laureati, il record dei brevetti e la velocità della crescita di banche e mercati finanziari. La Cina si è riaffacciata militarmente nel Pacifico, rivendicando isole e tratti di mare che nel dopo-guerra erano finiti nell´orbita del Giappone, degli Usa, o di altre nazioni del Sudest asiatico.
È diventata il riferimento politico, l´esempio economico e lo sponsor militare delle nazioni emergenti, dall´Africa, all´America Latina, all´Asia.
Questa «Cina-Hu Jintao», dallo sfruttamento della mano d´opera a basso costo, si è spostata infine sull´alta tecnologia e sulla produzione delle nuove materie prime, indispensabili per l´industria del futuro.
Sotto questo aspetto, l´uomo che ufficialmente governa oggi la Cina domina sostanzialmente il presente di tutti. Il mondo però, come segnala Forbes indicando il potere di Bin Laden, o del dittatore nordcoreano Kim Jong-il e di suo figlio, o di un paio di criminali internazionali, non finisce con i tassi di crescita e le riserve delle banche centrali. Il 2010 sarà ricordato soprattutto come l´anno del Nobel a Liu Xiaobo, il dissidente cinese che dal carcere sta svelando l´impotenza reale di Hu Jintao. La reazione di Pechino al premio di Olso ha confermato la fragilità di un sistema, e di una classe dirigente, incapaci di tenere il passo della crescita e della società. L´uomo più potente del mondo ha paura di uno scrittore condannato a 11 anni per aver proposto «riforme politiche e rispetto dei diritti umani» ed è costretto oggi a tenere un premio Nobel in prigione e un altro, il Dalai Lama, in esilio. Ad arrestare e torturare chi esprime le proprie idee e professa la propria fede, a censurare Internet, a rinchiudere nei «campi di rieducazione» milioni di persone e a paralizzare le altre con la propaganda. Il leader che nel 2010 ha governato il pianeta, in patria è un vecchio funzionario prossimo alla pensione, ostaggio di un Partito-Stato sotto choc. Forbes segnala che questo mix di esplosione economica e implosione politica, privo di proposte e di culture nuove, inizia però a decidere per tutti. La Cina di Hu Jintao adesso è in testa: meglio saperlo, piuttosto che continuare a fingere di essere importanti.

Repubblica 5.11.10
 L´esperto Richard McGregor: l´attuale leader del Paese è solo il primo tra pari
"Sbagliato personalizzare chi comanda è il partito"
di Alessandra Baduel

"Questo riconoscimento è giusto, se guardiamo alla crescita impetuosa dell´economia e alla fiducia dei cinesi in se stessi"

«La trovo una scelta quasi esatta, però sarebbe stato meglio indicare il Comitato permanente dell´Ufficio politico del comitato centrale del Partito comunista cinese, perché è il gruppo di quelle nove persone a essere potente. Hu Jintao fra quei nove è un "primo fra pari", come diciamo noi». Richard McGregor è l´autore di The Party, The secret world of China´s Communist rulers, un libro che racconta il mondo segreto del vertice politico, per spiegare al resto del mondo quanto il Partito sia potente in ogni campo della vita cinese.
McGregor, l´idea di Forbes è giusta, allora?
«Sarebbe stato più accurato indicare quei nove tutti insieme, anche se non rientra nel metodo di Forbes, perché formano un circolo. Io li descriverei seduti intorno a un tavolo rotondo del quale il presidente occupa il posto principale, ma in cerchio con gli altri. Comunque sì, se guardiamo l´ondata di crescita impetuosa della Cina e la fiducia dei cinesi in se stessi, in confronto agli Stati Uniti, non si può non essere d´accordo. Hanno anche l´economia dalla loro parte».
Dunque Hu Jintao è davvero l´uomo più potente del mondo?
«L´America, è ovvio, ha una forza militare ben più grande e da quel punto di vista sarà la più potente ancora per molti anni, però il presidente Obama è uscito molto male da queste elezioni, lo sappiamo».
Il successore annunciato, Xi Jingping, erediterà anche il medesimo potere?
«Questo dipenderà dal Partito, dagli equilibri politici interni a un organismo che sa essere duro nel monopolio del potere, ma flessibile attraverso una rete di metodi amministrativi - e non soggetti alla legge».

Repubblica 5.11.10
Pio XII
Pacelli e Hitler quel Papa lacerato tra attrazione e paura
Il Vaticano auspicava un Terzo Reich forte ma era spaventato dai rischi di guerra
Per la Curia la Germania doveva essere una barriera contro la Russia sovietica
di Marco Ansaldo


«Pacelli ha chiarito che certi sviluppi del nazionalsocialismo lo preoccupano. La Chiesa si è sempre prodigata per la pace nell´interesse dei popoli, in particolare ora».
È il 16 dicembre 1943, esattamente due mesi dopo la grande razzia degli ebrei il 16 ottobre nel ghetto di Roma. Ed Ernst Kaltenbrunner, capo della Polizia di sicurezza a Berlino invia con urgenza un rapporto ricevuto da Roma a Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri tedesco. Il documento è classificato come segreto. Oggetto: "La posizione del Papa sull´attuale situazione bellica e sullo Stato nazionalsocialista". «Il Papa - si legge nel dattiloscritto che arriva sul tavolo del ministro del Terzo Reich - è convinto che, fino a questo momento, la controparte tedesca non ha manifestato la seria intenzione di mutare atteggiamento nei confronti della Chiesa».
Possiamo fidarci di Hitler?, si chiede Pio XII a questo punto della guerra. L´atroce dissidio interiore sulla posizione da prendere durante il conflitto è l´ultima traccia che esce dagli archivi sulla figura di Eugenio Pacelli. Una serie di documenti dai quali emerge rafforzato il profondo dilemma del Papa, e soprattutto il suo amore - travagliato - per la Germania.
Il dramma si consuma nell´Appartamento papale, davanti agli occhi dei suoi interlocutori, come si evince dai comunicati che i "V-Mann", cioè gli informatori, le spie dei nazisti in Vaticano, telegrafano subito dopo a von Ribbentrop. «Il Papa si trova ora - si legge in una pagina dedicata a un colloquio che un agente in incognito ha avuto con il vescovo di Friburgo - in un conflitto interiore straordinariamente grave in rapporto alle sue posizioni nei confronti della situazione mondiale e, in specie, del nazionalsocialismo e del bolscevismo».
L´atteggiamento di Pacelli nei confronti dell´Urss è noto («il Papa nutre una profonda diffidenza nei confronti di Stalin - è scritto ancora - che egli considera una persona su cui non è possibile riporre alcuna fiducia»). E in questi estratti, sequestrati dalle truppe alleate a Berlino nel 1945, e reperiti da Mario J. Cereghino dell´Archivio Casarrubea di Partinico presso i National Archives di Kew Gardens a Londra, non ci sono riferimenti diretti alla comunità ebraica. Ma emerge qui, in tutta la sua forza, la vicinanza del Papa alla Germania - una passione dovuta anche al periodo trascorso come nunzio a Monaco di Baviera - e capace di costringerlo spesso a difenderla a ogni costo.
Il 3 settembre 1943 l´ambasciatore presso la Santa Sede, Ernst von Weizsaecker, scrive: «Un vescovo della Curia mi ha confidato che secondo il Papa, per il futuro della Chiesa è assolutamente necessario un Reich tedesco forte. E da una trascrizione attendibile di un colloquio avuto da un pubblicista politico italiano con il pontefice, apprendo che questi, a una domanda sui tedeschi, ha così risposto: "È un grande popolo. Nella lotta contro il bolscevismo ha versato il suo sangue non solo a beneficio dei suoi alleati, ma anche dei suoi attuali nemici"».
L´8 ottobre lo stesso ambasciatore annota che «l´aspetto più inequivocabile della politica estera vaticana è oggettivamente l´avversione al bolscevismo. Come minimo, la Curia desidera che la Germania sia forte, una barriera contro la Russia sovietica».
È il comunismo la preoccupazione di Pacelli. Lo conferma un´informativa spedita il 23 febbraio 1943 dall´Ufficio esteri tedesco di Bruxelles a Berlino, dove si ricorda che «il Papa è angosciato innanzitutto dalla minaccia bolscevica». Alla fine del 1943 l´Office of Strategic Services Usa redige un documento segreto sulla situazione nella Santa Sede al 13 dicembre. Dove durante un colloquio con Weiszaecker, Pio XII parlando, come d´uso, in terza persona dice: «Il Papa si augura che i nazisti mantengano le posizioni sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario, il comunismo sarà l´unico vincitore in grado di uscire dalla devastazione bellica». Pacelli ha dunque valutato le forze in campo e operato una scelta tra quelle più affidabili per il cattolicesimo. Sono forze che, nella schematizzazione ideologica di Pio XII, si oppongono, soprattutto, al comunismo.


l’Unità 5.11.10
Il paradosso di Pier Paolo
La poesia di Pasolini sugli incidenti di Valle Giulia denunciava l’italica tendenza al fratricidio. Invece fu letta come aggressione ai poliziotti-proletari
di Luigi Manconi


«Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano».

Trentacinque anni fa moriva Pier Paolo Pasolini. Qui mi interessa evidenziare uno, e uno solo, dei passaggi importanti della sua straordinaria biografia culturale e politica, che corrisponde peraltro a un grave travisamento del suo pensiero. Col trascorrere dei decenni Pasolini e una sua poesia sono stati piegati, strapazzati e manipolati a tal punto da produrre uno stereotipo che sembra dominare incontrastato. Lo stereotipo presto detto è quello di “Pasolini contro gli studenti”. Di quella celeberrima poesia, Il Pci ai giovani (l’Espresso 16 giugno 1968, poi in Nuovi Argomenti), si è fatto un uso tanto disinvolto da proporla come bandiera di un presunto conflitto, profondo e insuperabile, tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista (che si riconosce nel movimento detto “del ‘68”), e il proletariato e il sottoproletariato identificati nel mestiere e nella vita dell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere in qualche modo. Questa falsa rappresentazione non è stata mai messa in discussione ed è diventata dunque una sorta di verità storico-letteraria accettata dall’intero establishment in tutte le sue componenti culturali e politiche. Eppure di essa c’è da dubitare, eccome. Un bravissimo regista, Davide Ferrario, ha voluto indagare sulla questione e ne ha ricavato una interpretazione tutt’affatto differente. Secondo Ferrario, il senso di quella poesia sarebbe stato completamente ribaltato, da letture interessate, rispetto all’ispirazione originaria. Fu lo stesso Pasolini ad argomentarlo puntualmente. A proposito di quei versi così sprezzanti (riportati all’inizio di questo articolo) scrisse: «Nessuno (...) si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore... su ciò che veniva dopo... dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (...) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti: le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al primo paradosso introduttivo appartenente ai formulari della più ovvia ars retorica», (il Tempo, 17 maggio 1969).
Certo, si può maliziosamente ipotizzare che questa “lettura autentica” a opera dello stesso Pasolini fosse ispirata anche dalla preoccupazione per le reazioni, talvolta assai aspre, che la sua poesia determinò. E tuttavia, come è potuto accadere che l’interpretazione, offerta dalla fonte più autorevole, ovvero l’autore, venisse totalmente ignorata? Resta da fare una considerazione: quella interpretazione «antistudentesca» (e reazionaria, in senso letterale), che ha prevalso in questi decenni conteneva un grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel 1945 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Pasolini mostrava come, negli eventi della fine degli anni ’60 emergesse – intrecciata alla frattura destra/sinistra – una frattura infragenerazionale «di classe». E non perché il movimento degli studenti fosse sociologicamente, o politicamente, borghese o piccolo-borghese (antagonista, dunque, dei «Proletari in Divisa»); ma perché quella stessa lacerazione sociale, che attraversava sotterraneamente il movimento studentesco al suo interno, si riproduceva anche nel rapporto tra il movimento studentesco e gli «altri»: i possibili, riottosi alleati (gli operai, gli «sfruttati» tutti) e i certi, aggressivi nemici (i poliziotti, i carabinieri, i fascisti). Il sovrapporsi di tali fratture (quella destra/sinistra e quella sociale) all’interno della medesima generazione contribuisce a produrre, appunto, una sorta di dinamica fratricida. Il Sessantotto fu anche questo.

il Fatto 5.11.10
Vittorio Sgarbi: “Sono il maestro del sessuoberlusconismo”
di Luca Telese


Ride Vittorio Sgarbi: “Silvio ha scoperto il dongiovannismo tardi. Ha iniziato a praticare la ‘seduzione di massa’ solo dopo la separazione da Veronica. Diciamo pure che oggi si avvicina alla vita che io faccio da anni. Ha l’entusiasmo del neofita, con qualche errore di precipitazione, e gli inevitabili incidenti di percorso di chi improvvisa”. Come si finisce alle 4 del mattino a raccogliere da Sgarbi un incredibile trattato sulla sessualità berlusconiana?
Semplice: scopri da Novella 2000 che il 27 ottobre, il giorno del “Caso Ruby” Vittorio era con Veronica Lario. Una singolare coincidenza, non l’unica, nell’incredibile cortocircuito di vite tra il libertino impenitente di sempre e il libertino premier. Lo chiami di mattina Sgarbi per chiedergli di raccontare. Lui accetta: “Vediamoci all’una”. Gli chiedi dove pranzi, lui ti risponde: “Nooo! All’una di notte!”. Il calendario di Sgarbi merita di essere ricostruito: atterra a Roma, si affaccia a Raidue, passa a Canale 5 Matrix (registrata, che va in onda dopo), esce da Matrix e si fionda ad Exit da Ilaria D’Amico (in diretta, va in onda prima). Esce dagli studi de La7 e va a cena con Gianni Barbacetto e Gioacchino Genchi (erano ospiti con lui). A metà cena scompare. Dov’è andato? Si è seduto ad un tavolo con una coppia di lesbiche. Torna. E l’intervista? “La facciamo ora, mentre andiamo a prendere una ragazza”. Che ragazza? Corsa nella notte, fino al Tuscolano, dove vive la fanciulla in questione, una vecchia fiamma (anche se giovane di età). Si torna verso il centro. La ragazza, che chiameremo “Giulia” è spiritosa e intelligente. Sorride: “Parlate di Berlusconi? Vittorio, perché non racconti di quella volta che nel 2006 mi hai portato da lui?”. Sgarbi si illumina: “Già! La notte della sconfitta”. Giulia: “Che volgare... Appena mi vide, mi palpò i fianchi: ‘Tu che ci fai con Vittorio? Venissi in bagno ti metterei al tappeto’...”. Giulia sospira: “Simpatico, ma molto, molto rozzo. Lui non sa nemmeno cosa sia, l’eleganza di Vittorio con le donne!”. La lezione sul sessuoberlusconismo inizia con un altro colpo di scena.
Tema: le Silvio-girl? (Sorride). Vuoi sapere una cosa curiosa? Certo. Quando i giornali rivelarono di Fini e della Tulliani, feci un salto. Come è noto l’avevo frequentata, nelle notti romane. Lei che mi ossessionava per avere la tessera della Freccia alata...
E Nadia che c’entra?
Vedo la sua foto, un flash: “Anche lei è stata con me!”. Sgarbi con una escort? Non potrei mai pagare una donna! Con me era venuta gratis... Non so lui, ma se io pago non mi tira l’uccello.
Che ricordo hai?
Ci frequentammo, un paio di volte... C’era simpatia. Mi seguì addirittura in un viaggio in Sardegna, concluso da un litigio furibondo.
Litigio furibondo?
Caspita. A Su Gologone, alle tre del mattino, in albergo lei mi tirava di tutto, a partire da piatti e porcellane... Poi era scappata nel bosco. L’abbiamo ritrovata dopo un’ora.
Dove l’avevi conosciuta?
(Ride). “La verità? A Milano, una sera, nel bagno del Bolognese. Ci eravamo rifugiati lì dopo sguardi di intesa.
Quindi hai incrociato sia la Tulliani che la Macrì? Già. Io sono un amatore incallito, loro sono agli inizi, il delta della foce, rispetto alla fonte della sorgente...
Quando è entrato nella... satiriasi Berlusconi? Dopo la fine del matrimonio con Veronica. Nei primi anni 2000 lui vedeva la mia strana libertà e mi rimproverava. Diceva addirittura che Sabrina, la mia fidanzata, era “una martire”.
Vero. Merita una medaglia...
Il nostro è un rapporto non conformista. La cosa più divertente è che per spiegare a Berlusconi la mia teoria, gli ho fornito la legittimazione delle sue future gesta.
E la teoria quale era?
Ci sono uomini che nascono per essere posseduti, come Fini, oggi di proprietà della Tulliani. E uomini che nascono per essere visitati dalle donne, come i musei. Io e te, gli ho detto,
apparteniamo alla seconda categoria. E lui cosa ti ha risposto?
(Sorriso) Vittorio, hai ragione! Credo che in questo periodo, e in questo campo, mi consideri un maestro. Che gusto c’è a cambiare una donna ogni notte?
La chiave della seduzione, per Silvio, è la lusinga. Le donne lo corteggiano, lo cercano, questo lo gratifica.
Semplice, no?
Se a ognuna lascia 7 mila euro, ti credo...
Non vanno solo per soldi, quella è la suburra. Molte cercano vantaggi diversi: comparsate, carriere tv...
Quando inizia tutto?
Credo nel 2005, quando era all’opposizione. Il primo segnale è l’invito a cena di Mara Venier, Bud Spencer e Loredana Lecciso, all’epoca era sulla cresta dell’onda. Per quale altro motivo Berlusconi avrebbe dovuto incontrare Loredana? Però con la D’Addario era già al governo.
Lo so: ma quando inizi non ti fermi più. Alla Lario hai detto questo? Di più. E cioè che secondo me lei poteva essere l’unica vera anti-Berlusconi. L’unica vera antagonista.
Davvero?
...E che il vaso di Pandora che aveva reso pubbliche le mille amanti era stato scoperchiato dalla sua lettera a Repubblica... E lei?
Ha annuito. Però...
Cosa?
Quel giorno, il 27, le ho detto: “Se prendi 3,5 milioni di euro al mese di alimenti cessi di essere antagonista e torni ad essere sottoposta come tutte le altre. Di lusso, certo, ma pure tu sottoposta.
Cosa ha detto lei?
Mi ha guardato con i suoi occhioni, sconcertata. Senza dire nulla.

il Fatto 5.11.10
I missionari di B.
Difensori d’ufficio in azione nei salotti televisivi pronti a tutto pur di coprire le malefatte del premier
di Carlo Tecce

(...)
E poi l’ex direttore di Liberazione e oggi di Calabria Ora, Piero Sansonetti che, per i criteri dei “missionari di B.”, figura come ambidestro. Un giocatore duttile e camaleontico: può partire da sinistra e ritrovarsi a destra, o viceversa. Da giovane sessantottino, dice, non può criticare i costumi trasgressivi. I colleghi sì, però: “La stampa è diventata una ciofeca”.
8...)

il Fatto 5.11.10
Per Tremonti il diritto allo studio va garantito: ai cattolici
Trovati i soldi per le paritarie, ma non per la scuola pubblica
di Caterina Perniconi


É servita addirittura una precisazione ufficiale per rassicurare i cattolici: “Per prassi consolidata – ha scritto il ministero del Tesoro in una nota – negli anni il finanziamento statale alle scuole paritarie è stato sistematicamente integrato con provvedimenti ‘ad hoc’. Sarà così, è già previsto che sia così, anche sul 2011”. Insomma, niente paura, i soldi per le scuole non statali ci saranno. Col plauso del Vaticano che incassa una promessa nero su bianco.
Non statali e cattoliche
INFATTI la legge di stabilità aveva previsto per il prossimo anno un taglio ai finanziamenti per le scuole paritarie di 253 milioni di euro su un totale di 534, ovvero il 47% in meno. “Una parte di questi soldi – spiega Pier Paolo Baretta, capogruppo del Partito democratico in Commissione Bilancio alla Camera – sono relativi alle scuole non statali, come gli asili comunali. Ma la stragrande maggioranza riguardano le scuole cattoliche, a partire dalle primarie. L’ammontare che Tremonti ha proposto per ripianare il taglio sono
proprio 250 milioni, praticamente tutti”. Il titolare del dicastero di via XX Settembre, per l’occasione, si occuperebbe personalmente di tirare fuori i soldi dalle pieghe del suo ministero. La modifica, dato che tutti gli emendamenti alla Finanziaria sono stati respinti, avverrebbe in un decreto successivo, il cosiddetto “milleproroghe”. É toccato al viceministro Giuseppe Vegas parlare con i deputati della Commissione Bilancio e spiegare che in 15 giorni potranno visionarlo. “I bisogni sono sempre superiori alle risorse” ha ammesso Vegas. Quindi in quel decreto di soldi per l’istruzione quanti ce ne saranno? Perché i tagli a scuola e università sono elevatissimi. Il Fondo per il Finanziamento ordinario degli atenei, per esempio, verrà ridotto di 1,5 miliardi, mentre il diritto allo studio subirà il colpo più grosso: dai 246 milioni dello scorso anno si passerà ai 25,7 del prossimo e ai 12,9 di quello successivo. All’università, quindi, ci andrà solo chi se lo potrà permettere, in barba all’articolo 34 della Costituzione, secondo il quale “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Per loro, il 90% di borse in meno, che già oggi erano disponibili solo per il 60% degli idonei.
Promesse impossibili
LA SITUAZIONE è aggravata dal taglio delle risorse agli enti locali. Perché anche le Regioni contribuiscono autonomamente ad aumentare il fondo per il diritto allo studio. Ma da quest’anno hanno dovuto annunciare a loro volta pesanti riduzioni.
“Vi assicuro che non ci sarà alcun taglio delle borse di studio” ha dichiarato ieri il Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Ma forse non ha fatto i conti con Giulio Tremonti, che sembra avere altre priorità. “Quelle della Gelmini sono ordinarie menzogne di un governo impegnato solo a difendere un indifendibile premier – ha dichiarato la responsabile Scuola del Pd, Francesca Puglisi – per aiutare davvero le ragazze e i ragazzi a raggiungere risultati eccellenti occorrono investimenti, non tagli. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, rimarranno al palo, grazie a un governo che riduce il diritto allo studio del 90%, cancella il fondo di 103 milioni di euro per la gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo e alle superiori. Le smentite
del ministro non trovano riscontro nei riferimenti normativi della legge di stabilità”.
D’accordo anche la democratica Manuela Ghizzoni: “Se il ministro Gelmini avesse letto le norme che ha approvato in pochi minuti nel Consiglio dei ministri, si sarebbe accorta che il fondo di intervento integrativo da ripartire tra le regioni per la concessione dei prestiti d’onore e l’erogazione delle borse di studio attualmente ha una dotazione di 25,7 milioni di euro. Con un taglio così il diritto allo studio viene sfregiato”.
L’Unione degli Universitari ha promosso per il 10 e l’11 novembre due giornate di mobilitazione nazionale “per denunciare come il governo stia letteralmente cancellando un diritto costituzionale pilastro fondamentale per il futuro dei giovani e del Paese”.

il Fatto 5.11.10
Fede e Ragione
Dalle crociate  contro eutanasia e aborto all’omertà sulla pedofilia: perché la Chiesa ha chiuso il dialogo con il mondo laico
Ratzinger: ritorno all’oscurantismo

di Paolo Flores d'Arcais

PUBBLICHIAMO alcuni brani del confronto pubblico tra Joseph Ratzinger e Paolo Flores d’Arcais avvenuto nel 2000 e che costituisce la seconda parte del libro, in uscita oggi per l’editore Ponte alle Grazie, “La sfida oscurantista di Josep Ratzinger”.

PAOLO FLORES D’ARCAIS
Il cristianesimo ritiene che le sue verità siano al tempo stesso le verità naturali. Non tutte le sue verità – vi sono poi altre verità a cui la ragione non può arrivare. Ma certamente la retta ragione non può entrare in conflitto, non può dirci cose diverse da quello che ci dice la fede cattolica. Laddove la ragione arrivasse a delle conclusioni opposte, vorrebbe dire che non è retta ragione, ma è una ragione che sta “sbarellando”, cioè che non funziona. E da qui nascono tutti i possibili conflitti.
La chiave di tutto questo è l’idea di legge naturale, legge morale naturale. La norma naturale e morale sarebbe già iscritta nell’essere, nella realtà stessa, costituirebbe una sorta... le norme naturali costituirebbero una sorta di cromosomi dell’universo e della realtà. Per cui si tratterebbe solo, con la nostra ragione, di scoprirle e di obbedire a queste norme.
Io credo che questo sia assolutamente falso e insostenibile. Credo che non esista nessuna legge naturale, che esistano tante leggi umane, che spesso nel corso della storia hanno dei tratti comuni, ma che non hanno mai tutti i tratti comuni, e che quindi la pretesa di identificare con una legge naturale una particolare morale, per quanto alta e nobile, porti con sé tutti i rischi di intolleranza.
Perché credo che non si possa parlare di una legge naturale? Naturale, intendiamo riferita alla natura umana. Se per legge naturale intendiamo qualcosa che tutti gli uomini di fatto hanno sempre saputo fosse male, anche se poi l’hanno violata, bè, questo qualcosa non esiste. Nella storia dell’uomo, l’uomo ha considerato norme valide, addirittura supreme – e nel corso della storia dell’uomo quasi sempre queste norme morali erano anche norme religiose – le cose più diverse. Neanche [la proibizione del]l’omicidio è stato considerato una norma naturale.
Qui, mi piacerebbe avere sottomano una citazione di Pascal che uso sempre, perché è proprio Pascal che dice: l’uomo ha considerato degno di venerazione ogni norma e il suo contrario, e fa un elenco, parricidio, incesto eccetera, delle cose terribili, dicendo: ci sono uomini che le hanno considerate dei valori, non solo le hanno tollerate, le hanno proprio considerate dei valori.
D’altro canto in tante società primitive – erano uomini anche loro! – il cannibalismo rituale è stato considerato un dovere etico-religioso. E potremmo continuare. Quindi, se per natura intendiamo ciò che si intende normalmente, cioè tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens, certamente non vi è una sola norma che sia stata condivisa sempre da tutti gli uomini. Ripeto, non nel senso che sapevano che era bene ma poi la violavano, ma nel senso che non lo consideravano bene, consideravano bene delle cose assolutamente diverse e incompatibili fra di loro.
E allora in che senso diciamo «legge naturale»? Se noi stabiliamo a priori che una parte dell’umanità era contro natura e l’altra parte – guarda caso quella che condivide le nostre norme – quella era vera umanità, capite che facciamo una operazione che ciascuno di noi può fare, con i suoi valori, ma che ha come conseguenza quello di dire che chi non ha condiviso o non condivide quei valori, non solo pecca, ma è addirittura fuori dall’umanità: questa è la logica conseguenza.
(...)

JOSEPH RATZINGER
Questo è un punto sul quale esiste già una controversia stampata tra Flores d’Arcais e me, in quanto Flores d’Arcais aveva condannato duramente un passo dell’enciclica – adesso non so, Evangelium vitae, e forse anche Fides et ratio – dove il Santo Padre dice: ci sono delle cose sulle quali una maggioranza non può decidere, perché sono in gioco valori che non sono a disposizione di maggioranze che cambiano, ci sono delle cose dove finisce il diritto della maggioranza di decidere, perché si tratta dell’umanesimo, del rispetto dell’essere umano come tale.
E Flores d’Arcais aveva risposto: qui il papa si dimostra realmente anti-illuminista – era nell’enciclica, adesso mi ricordo, Fides et ratio – e dimostra che con tutta la sua filosofia non ha da dire niente alla filosofia, alla cultura di oggi, perché si oppone a questa cultura di oggi. A questo ho risposto che io difendo decisamente il fatto che esistono dei valori sottratti al parere e all’arbitrio delle maggioranze. Noi tedeschi abbiamo conosciuto un esempio molto forte, visto che presso di noi è stato detto... noi abbiamo deciso che esistevano vite che non avevano il diritto di vivere e, perciò abbiamo preteso il diritto di “purificare” il mondo da queste vite indegne, per creare la razza pura e l’uomo superiore del futuro. Qui, giustamente il Tribunale di Norimberga dopo la guerra ha detto: ci sono dei diritti che non possono essere messi in discussione da nessun governo. E se fosse anche un intero popolo a volerlo, rimarrebbe comunque ingiusto. E perciò si sono potute condannare, giustamente, delle persone che avevano eseguito leggi di uno Stato che formalmente erano state emanate in modo corretto. Cioè esistono dei valori – e penso che proprio questo è anche un risultato dell’illuminismo: la dichiarazione dei diritti umani inviolabili e validi per tutti in tutte le circostanze, poi definiti nel ‘48 con maggiore precisione, per quanto mi ricordo. È stato un grande progresso dell’umanità, e non dobbiamo perdere questo progresso. Perciò non sono d’accordo con l’argomento “storico”, che per tutti i valori esiste nella storia anche una presa di posizione contraria, e non c’è nessuna cosa considerata da una civilizzazione come crimine che non sia stata considerata in un’altra come valore da eseguire. Questo fatto statistico dimostra il problema della storia umana e dimostra la fallibilità dell’essere umano.
Origene, un padre della Chiesa, si era espresso in questo senso all’inizio del III secolo: io so che presso gli abitanti del Mar Nero esistono leggi che legittimano crimini e, se uno vive in quel contesto, deve ribellarsi contro la legge, perché esiste una realtà assolutamente intoccabile alla quale non possono opporsi le leggi, e le leggi che si oppongono sono male. E mi sembra che questo, almeno, ormai lo sappiamo, dopo questo secolo e i suoi orrori: che c’è la sacralità assoluta della vita    umana,    e    che    le leggi che nel mondo sono sempre esistite – che    si    oppongono    a questa    inviolabilità delle sue... della sua dignità e dei diritti che a questa dignità conseguono, sono ingiuste anche se decise ed emanate in modo formalmente corretto. Perciò mi sembra che questa istanza (che la maggioranza per certe cose non ha l’ultima parola, ma deve rispettare quanto è umano) è fondamentale per il futuro della nostra civilizzazione.
Altra questione, due altre questioni. La prima è: qual è il fondamento di questa inviolabilità di alcuni diritti? La tradizione cattolica dice: è la creazione. Hanno introdotto poi, dalla filosofia greca, la parola “natura”: physis. E forse si potrebbe sostituire questa parola con una parola migliore, non vorrei discutere qui sulla terminologia. Ma l’idea fu che la physis, la natura, non è prodotto di un caso cieco, di una evoluzione cieca, ma nonostante lo svolgersi dell’evoluzione, dietro c’è una ragione, e c’è quindi una moralità dell’essere stesso. Ho trovato molto bella l’espressione di Flores d’Arcais, che quasi sarebbero presenti gli elementi morali nei cromosomi della realtà. Questo non vuol dire che la natura empirica vada canonizzata come legge naturale, ma che esiste una priorità dello spirito rispetto all’irrazionale, ed esiste quindi un fondamento morale che mette barriere a certi comportamenti. Quindi questo è il primo punto: quale è il fondamento della inviolabilità di alcuni diritti e della inammissibilità di certe leggi, quale è il fondamento di questo limite del nostro potere legislativo. Noi diciamo la creazione, la provenienza da una mente, da un logos.
(...)

PAOLO FLORES D’ARCAIS
Io condivido perfettamente l’idea che non basta la maggioranza per decidere qualsiasi cosa. Anzi, io credo che dobbiamo aver chiaro che proprio in democrazia, dove la regola della maggioranza è lo strumento fondamentale per prendere le decisioni, anche e soprattutto in democrazia, non è vero che la maggioranza può prendere qualsiasi decisione. Non a caso, le democrazie moderne sono fondate su delle Costituzioni che pongono dei limiti a qualsiasi maggioranza (...) Quindi, sotto questo profilo l’accordo è totale. Il problema è su che cosa le maggioranze non possono decidere. Cioè: questi diritti umani o civili che fondamento hanno e chi lo stabilisce? (...) Ora, il cardinal Ratzinger ha detto in modo assolutamente esplicito che il fondamento di quelli che vengono chiamati diritti naturali non è la natura, vocabolo che potrebbe essere equivoco, ma ha detto esplicitamente: è la creazione. Questo sarebbe il fondamento di un nucleo di diritti-doveri che nessuna maggioranza può toccare. Ma proprio questo è assolutamente problematico, perché stabilire che il nucleo intoccabile di valori, e quindi di diritti-doveri di ciascuno di noi, è la creazione, significa stabilire un principio religioso. Che non regge, in una società non più fondata sulla religione come principio primo (...) Dove molti non credono, e dove molti pensano che l’universo in cui noi viviamo è nato dal famoso Big Bang, e ha avuto uno sviluppo che non era definito a priori. La scienza, per i suoi più recenti approdi, ci dice che vi è stata un’evoluzione nell’universo che non era stabilito a priori, poteva prendere altre vie. Uno dei più grandi scienziati e divulgatori, Stephen Jay Gould, ha ricostruito ben sette momenti cruciali dell’evoluzione, dal Big Bang alla nascita dell’uomo, in cui l’evoluzione poteva prendere direzioni totalmente diverse e, dice lui, se l’avesse prese – e non c’era nessuna probabilità a favore di quella che ha preso, ne poteva prendere altre – noi non saremmo qui a discuterne.
Quindi da questo punto di vista gli scienziati oggi riconoscono quello che un grandissimo biologo del nostro tempo, Jacques Monod, diceva qualche decennio fa, e cioè: siamo il frutto del caso e della necessità.
E allora, noi non possiamo mettere la creazione a fondamento di questi diritti-doveri inalienabili. Ecco perché io credo che non possiamo oggi dire: sono diritti umani, dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che sono diritti civili, il che non li rende meno irrinunciabili, ma ci fa capire che per affermarsi – due-tre secoli fa – quei valori hanno avuto bisogno di una forma di religione laica, cioè di dire: sono connaturati alla natura dell’uomo. In realtà erano così poco connaturati alla natura dell’uomo, che l’uomo ha vissuto per millenni calpestandoli, e ci sono volute lotte durissime, sacrifici di generazioni e generazioni, per farli provvisoriamente riconoscere. Sono diritti civili, cioè sono una nostra scelta su cui fondare la convivenza (...) è stato fatto l’esempio dell’aborto, ce ne saranno anche altri ancora più drammatici forse, sotto questo profilo... certamente tante persone, non solo qui, avrebbero difficoltà ad andare a cena con qualcuno che si vantasse, che si vantasse, che raccontasse tranquillamente di aver fatto fuori varie persone, di aver ammazzato dei bambini... penso che nessuno di noi accetterebbe di andare a cena, non so, con un ex SS che ci raccontasse come lui buttava i bambini ebrei nei forni crematori. Però ritengo anche che invece normalmente noi andiamo a cena con persone che hanno abortito e possiamo essere d’accordo o non d’accordo [con la loro scelta] e sappiamo che furono in alcuni casi scelte dolorose non pensiamo affatto di andare a cena con degli assassini.
E allora, innanzi tutto è sicuro che esiste una convinzione razionale profonda e diffusa che l’assassinio e l’aborto non sono sullo stesso piano. Certo, per chi crede nella creazione – ma non nella semplice creazione, bensì in tutta una serie di interpretazioni della creazione – questo può essere vero. Perché fra chi crede e chi non crede non ci sarebbe solo questa discrepanza su che cosa sia omicidio. A me, ad esempio, addirittura ripugna l’idea di considerare omicidio un aborto, mai e poi mai lo considererei alla stessa stregua, e trovo anche – io personalmente – trovo immorale chi sostiene una cosa del genere.
Ma anche nell’ambito dei cristiani vi sono opinioni diversi, perché noi siamo abituati a pensare: cristiani uguale cattolici. Ma i cristiani valdesi in Italia non ritengono che l’aborto sia un infanticidio, non ritengono neanche che sia inaccettabile l’eutanasia, tema che dovremmo toccare. E tanto è vero che un cardinale altrettanto importante del cardinal Ratzinger, cioè il cardinal Tettamanzi, che è uno dei grandi studiosi cattolici di bioetica, critica i valdesi proprio su questo (...) Vedete come è assurdo pretendere che un punto di vista di uno dei cristianesimi coincida con la norma naturale. È una pretesa che inevitabilmente porta a disconoscere il pluralismo.

JOSEPH RATZINGER
Ma, per rispondere brevemente. Io ho cercato di mostrare perché per un cristiano si può parlare, a prescindere dalla fede, della priorità della ragione rispetto alla materia, quindi della presenza della ragione nella materia, e quindi della creazione. Ma naturalmente Flores d’Arcais ha ragione, questa convinzione della creazione non è convisa... condivisa da tutti.
In questo senso non sarebbe un fondamento che potrebbe garantire un’azione comune. Perché era già nell’antichità così, cioè i padri della Chiesa hanno tradotto una parola della fede in una parola filosofica, natura, che non è una parola della fede, ma una parola della filosofia, e convenivano su questo punto con lo stoicismo che non conosceva un creatore, neppure una creazione. Però vedeva una certa, diciamo, qualità divina nell’essere stesso, e un messaggio valido per tutti, e perciò quindi la parola “natura” era un veicolo applicabile, accessibile oltre il limite della fede. E questo è il motivo perché la parola “natura” è entrata nel vocabolo della teologia, del magistero, come una indicazione dell’elemento filosofico, di per sé anche separabile da una visione più profonda della fede. In questo senso mi sembra si dovrebbe anche in futuro discutere sulla utilità e sulla razionalità di questo concetto, natura, il quale esprime la convinzione che le realtà portano in sé un messaggio morale e mettono limiti alle nostre disposizioni. E mi sembra che il movimento ecologico, davanti alle distruzioni del mondo e davanti ai pericoli che ci minacciano, ha capito questo: che la natura ci porta un messaggio, e dobbiamo essere attenti a questo messaggio della natura. E penso che forse oggi, proprio con le nostre esperienze di una natura abusata, possiamo, in un modo nuovo, capire questo concetto comune che è un concetto di ragione e di esperienza, essere più attenti a questo messaggio che ci dà un fondamento per il nostro agire, e indica anche un limite per il nostro arbitrio.
E perciò non posso essere d’accordo che questi diritti inviolabili, indicati dai grandi documenti, frutto dell’illuminismo, questi diritti sarebbero solo diritti civili, scelte nostre. Se sono scelte nostre possono essere cambiate. E invece non devono essere cambiate, per non distruggere l’umanità e il senso del rispetto dell’altro. E l’argomento che secoli, forse migliaia di anni, non hanno vissuto questi valori, e allora non potrebbero essere naturali, per me non conta, perché l’uomo è capace di vivere contro la natura, e lo vediamo. Ma il fatto che [l’uomo] non vuole accettare il messaggio della natura, non implica che questo non sarebbe realmente un messaggio. A me sembra che non dovrebbe essere così difficile capire che l’uomo è una creatura, un essere speciale che porta in sé una dignità che dobbiamo rispettare sempre nell’altro, anche se ci appare senza grande valore, antipatico o qualcosa di diverso.
E vorrei dire ancora una parola. Flores d’Arcais ha detto che chi considera l’aborto come omicidio commette un fatto immorale. Questo non l’accetto. Io posso capire le sue esitazioni su questo punto, ma che affermare che c’è di per sé una evidenza che si tratta di un essere umano molto debole, dipendente, e che quindi ucciderlo è uccidere un uomo, mi sembra che dire questo – e così fare appello alla coscienza, alla riflessione dell’altro – non può essere caratterizzato come immorale. E perciò, in conclusione, se [Flores d’Arcais] dice che nessuno dei valori cristiani sarebbe un valore che dovrebbe essere tenuto come valore comune... chiamiamoli cristiani oppure no, questi diritti umani – che sono, penso, il fondamento della civiltà proprio illuminista – sono maturati nel cristianesimo, ma sono al tempo stesso realmente valori umani, e sono la grande eredità della nostra civilizzazione, che dobbiamo difendere con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra ragione.

Il libro
Il 21 settembre 2000, al teatro Quirino di Roma, oltre duemila persone assistettero a un confronto tra Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, e un ospite d’eccezione: Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il futuro papa Benedetto XVI spiegò come il cattolicesimo facesse “appello alla coscienza e alla ragione”. In un lungo saggio che precede la trascrizione integrale di quell’incontro, Flores d’Arcais affronta il tema della “sfida oscurantista” dell’attuale pontefice contro la modernità illuminista in tre capitoli, sotto il profilo della cronaca (“Empiria”), dell’analisi filosofico-teologica (“Teoria”) e della prospettiva storica (“Futuro”). “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger”, Ponte alle Grazie 153 pagg, 13 euro è in libreria da oggi.

giovedì 4 novembre 2010

Agi 4.11.10
Pd: Cafagna, puntosul tandem Bersani - Bonino, sono i migliori
(AGI) - Roma, 4 nov. - I socialisti, i riformatori, in Europa e in Italia, dovrebbero prepararsi bene, esser pronti: dopo la ventata neo-liberista puo' riaprirsi un nuovo ciclo. E per l'Italia punto sul tandem Bersani-Bonino, le persone migliori che ci sono in giro. Lo dice Luciano Cafagna, professore emerito di Storia Contemporanea all'Universita' di Pisa, alla vigilia del summit organizzato a Roma - il 5 novembre - dalla 'Foundation for Eurapean Progressive Studies' sull'accattivante tema 'Next Left - Renewing Social Democracy' cui partecipano politici di spicco (da Massimo D'Alema, Presidente della Foundation for European Progressive Studies, all'olandese Sjoera Dikkers, membro del Parlamento Europeo, al tedesco Axel Schafer, del Bundestag ed economisti di livello come Salvatore Biasco, ordinario di Economia internazionale, Università di Roma "la Sapienza"; Claudio De Vincenti, ordinario di Economia, Università di Roma 'la Sapienza'; il tedesco Dierk Hirschel, Capo economista dei Verdi; l'inglese Sunder Katwala, Segretario generale, Fabian Society. Al centro del confronto: la riforma del Welfare, le politiche per l'occupazione, ma in modo particolare le nuove idee e strategie per le sinistre in Europa. Da dove cominciare allora, se non dal 'socialismo come progetto dell'uomo'? E da una memorabile proposta "una societa' ricca perche' diversamente ricca', coniata negli anni '60 da Riccardo Lombardi che contamino' ampi settori della sinistra politica e sindacale, soprattutto la Fiom di Bruno Trentin? "Quei problemi di allora posti da Lombardi e Giolitti e ripresi, approfonditi da Trentin, da Foa e da altri non sono mai usciti, anzi sono ancora all'ordine del giorno - attacca Cafagna - Il socialismo come progetto dell'uomo ha riguardato generazioni intere: piu' che un'Utopia, per me e' un programma a lunga scadenza o distanza".
Indubbiamente quello fu 'il periodo d'oro' per ricerca, analisi, elaborazione e proposizione di idee e strategie nella e per la sinistra. "Si puo' senz'altro dire che in Europa come in Italia, il grande discorso di inizio secolo sia ancora aperto: i problemi non si risolvono in pochi anni per cui appena si spacca, si frantuma la superficie come sta avvenendo oggi in Italia riemergono, tornano fuori - spiega Cafagna - E cosi' se nel corso del tempo abbiamo assistito certamente a fenomeni ed esiti elettorali eversivi per la tradizione socialdemocratica sia in capo economico che sociale, si puo' assistere a fenomeni di segno opposto per cui i socialisti farebbero bene a prepararsi: voglio dire che dobbiamo aspettarci un ritorno alla tradizione socialista ovviamente rivisitata e rivista". Lo storico mette in fila quali, a suo giudizio, sono state le questioni su cui le sinistre sono scivolate e quali quelle da cui ripartire. Nelle prime mette "la crisi economica, politica e sociale e i fenomeni dell'immigrazione che - precisa - seppur ci sono sempre stati, hanno assunto pero' una tale escalation da rendersi poco sopportabili". Lo stesso Welfare, invenzione della socialdemocrazia, non ha retto all'impatto con la pesante crisi economica. "Allora come oggi bisogna, in ogni epoca, fare i conti con la finanza, i suoi flussi ed andamenti - aggiunge Cafagna - per cui certe riforme come il Welfare valide allora, nel corso del tempo possono non reggere, e non hanno retto. Pensiamo alla Riforma Sanitaria in Italia: fatta negli anni '60- '70: essa ha apportato indubbiamente dei grossi progressi ma oggi difetta rispetto agli aspetti organizzativi, cosi' come il Welfare per la disoccupazione definito dai governi di centro-sinistra del passato, risulta oggi incompleto: il gap sta sempre, in ogni epoca, nei mezzi finanziari a disposizione". Il punto di 'svolta' e' un diverso impiego allora delle risorse tra pubblico e privato, tra consumi diversi: o piu' auto e computer o piu' scuole, ospedali, universita' etc. "Quelle idee e proposizioni degli anni '60 e '70 sono ancora all'ordine del giorno", osserva Cafagna. A cominciare, appunto, dal socialismo inteso come sfondo progettuale. "Il Pd e' nato su basi ambigue: invece di assumere tratti e connotati di partito laburista, è partito con contorni troppo sfumati, nel tentativo non riuscito, di far convivere in uno stesso partito la tradizione socialista e la democrazia cattolica - osserva lo storico - Sarebbe stata piu' proficua una semplice alleanza politica fra partiti diversi.". Pero' la partita non e' chiusa. "Bersani e' bravissimo e certamente i problemi che gravano sul Pd non li ha creati lui", prosegue Cafagna che per quanto riguarda le future alleanze, conclude con un vivo apprezzamento per la Bonino e la scelta dei Radicali di non rompere con il Pd: "mi piace moltissimo il tandem Bersani-Bonino, le persone migliori che ci sono in giro".




l’Unità 4.11.10
È vero, il Premier sta male
risponde Luigi Cancrini


Berlusconi ostenta potere e ricchezza attraverso la pervicace esibizione di espressioni e atti di cattivo gusto e maleducazione che incardina e legittima con un potere senza controllo e senza pudore, insofferente al dissenso e agli organi istituzionali di garanzia. Queste sono le azioni di un malato, socialmente e politicamente disturbato. O no?
Gianfranco Pignatelli

RISPOSTA    La moglie ne aveva parlato al tempo di Noemi, Scalfari ha riproposto il tema domenica, i fatti, alla fine parlano. Il premier sta male. Parla di un paese in cui la crisi va combattuta dicendo che non c’è, di rifiuti che scompaiono come cartoni animati di Disney, di uomini anziani che fanno del bene alle ragazze povere e belle, di un Consiglio d’Europa che si è svolto tutto intorno alle sue proposte, di profanatori di minorenni che sarebbero meglio dei gay, di giornali da non leggere. Alle spalle ha due anni in cui è riuscito a distruggere, con una serie di comportamenti impulsivi, l’esercito con cui aveva stravinto le elezioni del 2008. Ma alle spalle ha anche, agli occhi di chi fa un mestiere come il mio, la morte della madre e il fallimento del secondo matrimonio: due eventi utili a spiegare, forse, il perché di questo crollo. È soprattutto nelle persone che utilizzano grandi difese narcisistiche, infatti, che il lutto è così difficile da elaborare. Soprattutto se quello che resta loro intorno è solo il silenzio complice, interessato e confuso di chi pensa di aiutarli facendo finta che stanno bene. Come lui ha fatto con Ruby.

l’Unità 4.11.10
Intervista a Emma Bonino
«La sua vita resta in pericolo Non fermiamo la protesta»
La vicepresidente del Senato: «Possiamo condizionare i regimi autoritari. L’obiettivo è la moratoria della pena capitale»
di Umberto De Giovannangeli


In un mondo globale non c’è nessuno che possa chiudere i “confini”: anche regimi autoritari, come quello iraniano, devono tener conto della pressione e delle proteste internazionali. Occorre non mollare al presa. Non solo perché la vita di Sakineh è ancora in pericolo, ma anche perché non bisogna dimenticare le migliaia di “Sakineh” che rischiano la pena capitale nel mondo. Per loro, per Sakinek come per Tareq Aziz, la via da battere, la battaglia da portare avanti con la massima determinazione è quella dell’estensione della moratoria sula pena di morte». A sostenerlo è Emma Bonino, vice presidente del Senato e leader radicale.
La condanna a morte di Sakineh Mohammadi Ashtiani non è stata eseguita. Le pressioni internazionali hanno dunque sortito effetto?
«Direi di sì. E questo è una indicazione importante che va oltre il caso specifico: significa che in un mondo globale è possibile influenzare anche i regimi più chiusi, autoritari. Le nostre azioni possono incidere. La mobilitazione deve proseguire perché la vita di Sakineh è ancora in pericolo...».
Cosa dovrebbero fare le grandi democrazie per supportare questa pressione? «Partiamo da ciò che non dovrebbero fare. Non dovrebbero offrire pretesti alle dittature...». A cosa si riferisce in particolare? «Penso al discorso di Ahmadinejad all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando, rivolto agli Stati Uniti, ha affermato che non poteva dare lezioni chi aveva condannato a morte ed eseguito la pena una minorata mentale, Teresa Lewis. Certo, Ahmadinejad ha usato strumentalmente questa tragica vicenda, ma è indubbio che questo vulnus esiste e riconoscerlo ci porta ad una considerazione generale...». Quale? «Rilanciare con forza la battaglia di civiltà per la moratoria totale della pena di morte. Ogni caso ha una sua storia, ciò vale per Sakineh come per Tareq Aziz, ma è altrettanto vero che essi ci rimandano ad una questione più generale che come tale va affrontata, anche in nome e per conto delle migliaia di “Sakineh” o di “Aziz” condannati nel mondo alla pena capitale. Sappiamo bene che la strada della moratoria è difficile, piena di ostacoli, ma è quella giusta. C’è da lavorare e tanto perché siano sempre di più i Paesi che dichiarino la moratoria, perché la loro adesione alla moratoria può condizionarne altri. Infine, penso che per questa battaglia di civiltà potrebbe dare un grande contributo il Segretario generale delle Nazioni Unite...».
Quale sarebbe questo contributo?
«la nomina di un inviato speciale, di alto rango, per la promozione della moratoria sulla pena di morte».
Vorrei tornare sull’Iran. il modo per contrastare il regime di Teheran afferma la scrittrice iraniana Azar Nafisi sarebbe quello di impedire ad Ahmadinejad di parlare nei consessi internazionali, legare le sanzioni ai diritti umani più che al nucleare e continuare ad essere vicini agli iraniani...
«Sono assolutamente d’accordo a focalizzare l’attenzione della comunità internazionale sui diritti umani e civili più ancora che sul nucleare, come peraltro ci chiede da tempo, inascoltata, Shirin Ebadi. Non credo invece che sia praticabile la strada dell’impedire ad Ahmadinejad di parlare in consessi internazionali. Non credo che sia possibile al capo di uno Stato di parlare, a meno che non si decida di espellere quello Stato dalle Nazioni Unite. Quanti Stati dovrebbero essere espulsi? Fonderemo allora la “Comunità delle democrazie”, cosa alquanto affascinante ma di scarsa praticabilità...». Continuare ad essere vicini agli iraniani, chiede Azar Nafisi...
«È una richiesta che va accolta e praticata con continuità e determinazione. Come sta cercando di fare “Non c’è pace senza giustizia”. È importante rafforzare gli scambi culturali, tra Università, anche su temi che non superino la “linea rossa”, non lasciando le relazioni solo fra Stati o potentati economici, allargandole invece alla società civile. Un dialogo dal basso che può portare a concrete aperture».

l’Unità 4.11.10
Derive italiane
Quando la verità diventa un bene da disprezzare
(o da evitare a tutti i costi)
Distinzioni Il disprezzo che dilaga nei confronti della verità è altro dal sospendere il giudizio. Così come cancellarla non è considerarla una meta, sebbene irraggiungibile...
di Nicla Vassallo


Secondo Platone un’affermazione è vera se corrisponde ai fatti, cioè se possiede una base oggettiva nella realtà
Per William James il vero si valuta nel tempo e corrisponde al buono e al conveniente
Dilaga uno sprezzo nei confronti della verità, che poco condivide, nonostante le apparenze, con l’atteggiamento scettico, semplificato da Ponzio Pilato che si lavò le mani di fronte a Cristo. Una cosa è denigrare la verità con discorsi e comportamenti, declassando ogni sua rilevanza, fino a irriderla; altra cosa è sospendere il giudizio; una cosa è cancellare la verità, altra cosa è la consapevolezza di Karl Popper, stando a cui la verità si attesta «il nostro bersaglio irraggiungibile». A importare è che rimanga il nostro bersaglio.
Cosa è la verità? Per la teoria corrispondentista, la più antica, risalente a Platone, un’affermazione è vera se corrisponde ai fatti; nella nota formulazione wittgensteniana (Tractatus logico-philosophicus 4.01), «la proposizione è un’immagine della realtà». In termini intuitivi, la verità dipende da qualcosa nel mondo; le affermazioni vengono rese vere (o false) dalla realtà; la verità non è frutto unico e puro di creatività, fantasia, volontà, tradimenti, bensì ottiene una base oggettiva nei fatti. Noi comuni mortali applichiamo la teoria nelle faccende quotidiane, ma non la riscontriamo in alcune sfere dell’economia, del giornalismo, della politica, altrimenti (tra le tante altre cose) il nostro paese non verrebbe classificato, in relazione alla libertà di stampa, al quarantanovesimo posto, dopo Argentina e Hong Kong, prima di Romania e Cipro Nord, da Reporters sans frontières, al settantacinquesimo posto, tra i paesi parzialmente liberi, dopo Benin e Hong Kong, prima di Bulgaria e Namibia, da Freedom House.
Ad alcune sfere dell’economia, del giornalismo, della politica pare consona la teoria della coerenza. Coerenza con che? Chi soffre di onnipotenza avrebbe la forza di pensare a una coerenza con tutte, proprio tutte, le affermazioni. In tal caso noi comuni mortali non riusciremmo a conseguire alcuna verità, a causa di una mente, la nostra, dalle capacità finite, cui non è consentito contemplare tutte le affermazioni in un tempo infinito.
Chi, invece, si prende gioco di noi, potrebbe sostenere che un’affermazione è vera se e solo se risulta coerente con qualche altra affermazione, cosicché «I Gemelli sono socievoli» sarebbe vera in quanto coerente con le affermazioni astrologiche. Ma noi comuni mortali preferiamo negare che queste ultime siano vere, e abbiamo ben chiaro che, assumendo la coerenza quale unico criterio della verità, finiamo col considerare implausibilmente vere le affermazioni contenute in una qualunque favola – è sufficiente che nella favola non compaia alcuna contraddizione e che le sue affermazioni siano reciprocamente compatibili. No, siamo stanchi delle favole spacciate per verità. Rimane una teoria, quella pragmatista, che magari fa al caso di alcune sfere dell’economia, del giornalismo, della politica: un’affermazione è vera se risulta utile ai nostri fini, o se ha successo. Così, si corre però il rischio di dover ammettere – cosa che noi comuni mortali non intendiamo fare – che le proposizioni della dottrina nazista sarebbero state vere, nel caso in cui il nazismo avesse trionfato nella seconda guerra mondiale. Tra i fautori del pragmatismo, William James suggerisce di valutare successo e utilità su un lungo arco di tempo. Quanto lungo? Fino al punto da stimare vere affermazioni quali «la terra è al centro del sistema solare», poiché si sono attestate a lungo di successo e utili?
William James non si arrende e equipara l’affermazione vera all’affermazione buona, conveniente, vantaggiosa. Buona, conveniente, vantaggiosa per chi? Soltanto per colui che pronuncia una qualsiasi affermazione? Precipitiamo nell’arbitrarietà e soggettività più scontate, trite e ritrite.
However, Bertrand Russell e George Moore rimproverano al pragmatismo di confondere affermazioni vere e affermazioni congeniali. Chiariamoci. Nulla in contrario alle affermazioni congeniali tout court: se vogliamo raggiungere la sede de L’Unità, e bene sapere che si situa in via Francesco Benaglia a Roma; di conseguenza, deve essere vero che si situa lì, non di fronte al Colosseo. Un dubbio: in questo modo non stiamo però sposando la teoria della corriCome sostiene Vita
spondenza? Sackville–West, «Authority has every reason to fear the skeptic, for authority can rarely survive in the face of doubt».
Noi comuni mortali vogliamo conoscere i fatti, desideriamo la verità di per se stessa, al di là dell’autorità, che non equivale, spesso e purtroppo, ad autorevolezza. La desideriamo altresì perché ci conduce verso qualcos’altro, capace di donarci felicità o infelicità. Alcune verità e alcuni fatti ci appagano, risultano utili alla felicità, altri no. La nostra esistenza è disseminata di molte verità liete e di molte verità dolorose, che è preferibile conoscere. Ciò non ci autorizza a credere che la verità coincida esclusivamente con quanto è buono, conveniente, vantaggioso solo per me, a meno che «non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro»: lo scrive Cartesio (Meditazioni metafisiche, Opere filosofiche, vol. 2, Laterza) a proposito della possibilità di ergere uno scetticismo robusto sulla constatazione che i sensi ci ingannano, ma funziona bene anche qui, nell’inganno che ci assicura chi spaccia il buono, conveniente, vantaggioso per un singolo individuo, o per pochi, per il buono, conveniente, vantaggioso per tutti.
In conclusione, non ci rimane che la cara, vecchia teoria della corrispondenza. Risale al Platone de Il Sofista, teoria che si oppone alle altre e, a pensarci, pure a coloro di cui leggiamo nella Repubblica (Opere, vol. II, Laterza): «Se (...)vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il loro bene di lì, dal governo, non è possibile una buona amministrazione: perché il governo è oggetto di contesa e una simile guerra civile e intestina rovina con loro tutto il resto dello
stato».

l’Unità 4.11.10
Come pensava Gregory Bateson? Scienza e poesia, tutto è in circolo
di Beppe Sabaste


Nel documentario «An ecology of mind» della figlia Nora lezioni e interviste sull’antropologo
La regista «Mio padre imparava sempre, da qualunque cosa: da un cane, da un acquario...»

Nora Bateson ha girato un film su suo padre Gregory: «An Ecology of Mind». Siamo sempre in relazione con il qualcos’altro, insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero.

In una spiaggia pietrosa di Big Sur, California, una bambina bionda e un uomo anziano sorridente delicatamente raccolgono conchiglie, granchi, stelle marine. È un gioco e una lezione. Dice l’uomo: «Ora voglio fare un grande salto, farti cioè questa domanda: come pensi?» «Con il cervello, dentro la testa». «Questo può essere la parte che lo fa, ma non il “come”...». Potrebbe essere l’inizio di uno dei meravigliosi «metaloghi» di Verso un’ecologia della mente, e di fatto quell’uomo è Gregory Bateson, uno dei grandi maestri del XX secolo, il cui pensiero è più attuale che mai. La bambina è la sua ultima figlia Nora, avuta con Lois Cannack quando lui aveva 64 anni. Quello che sto guardando è il film di Nora sul padre, An Ecology of Mind, «un film su come pensava Gregory Bateson». Vi si alternano frammenti di memorabili lezioni, interviste, momenti privati e testimonianze su Bateson di vari pensatori e scienziati, tra cui Fritjof Capra e Mary-Catherine Bateson (l’altra figlia nata dal matrimonio con Margaret Mead). Per tornare alla domanda sul pensare – questione ecologica per eccellenza di fatto «la mente è molto più ampia del solo cervello. È la radice dell’albero che cresce attorno a una rocca o il modo di giocare delle lontre», dice Nora parafrasando il padre, è il granchio e la stella marina e la nostra mano e il nostro sguardo, perché anche un animale deve essere pensato come un groviglio di idee che convivono in lui, diceva Gregory. È un esempio di «principio evolutivo», perché l’evoluzione riguarda le idee, non solo gli animali, e «le unità evolutive sono essenzialmente idee, l’anatomia è un corpo di idee», ciò che fa sì che, per esempio, «il cavallo e la tundra sono interconnessi, l’erba ha bisogno del cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba». «Talvolta, per scopi di studio – dice sorridendo Bateson nel film devi lavorare su relazioni piccole, e allora le gente ti rimprovera perché lavori sulle piccole. Quindi lavori sulle grandi, e allora la gente ti rimprovera perché sei un mistico. È sempre la stessa storia».
Biologo, filosofo, antropologo, cibernetico, fondatore del pensiero sistemico, ispiratore della psichiatria (la famosa teoria del double bind, «doppio vincolo», è chiave per comprendere la schizofrenia), in realtà per Bateson non esiste separazione tra le discipline, né tra scienza e poesia. «Imparava sempre racconta Nora – da qualunque cosa, un cane, un acquario di pesci, dagli scienziati che venivano a trovarlo, dalla poesia e dall’arte. Da lui ho imparato che l’apprendimento non cessa mai». «Da bambina mi sedevo per terra e disegnavo, ascoltandolo mentre teneva delle lezioni. Già allora mi sembrava che sbirciasse da una porticina gli ingranaggi più intimi della vita. Ho studiato cinema e non antropologia, per allontanarmi, ma l’idea di fare questo film ce l’ho forse da sempre, ma soprattutto da quando ho aiutato mia sorella nel reperire materiali (video delle sue lezioni) per il convegno del 2004, nel trentennale della morte di Gregory». La domanda ovvia è come sia stato averlo avuto come padre e maestro. «Tutto quello che mi ha insegnato, come era suo stile, era in forme di storie. Non mi trasmetteva conoscenze, ma percezioni, un modo di guardare le cose e il mondo. Gli piaceva molto parlare coi bambini, perché non sono limitati e corrotti da quella che chiamava l’istruzione distruttiva. Anche questo film in fondo è un metalogo, una storia su cosa significhi “comprendere”».
Il film riassume da diverse angolature, come variazioni di un’opera jazz, una biografia intellettuale di per sé inesauribile, lo studio ininterrotto e interminabile di ciò che Bateson chiamò «la struttura che connette», l’interdipendenza di tutto con tutto, la vita, la natura, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco, il sacro e i metodi dell’Anonima Alcolisti, che si chiede «quale struttura il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula, e tutte e quattro con me, e me con voi?» Tutto questo va inoltre connesso col «contesto», cornice più ampia di ogni singola idea e realtà. «Senza contesto, aggiunge Nora, parole e fatti non hanno alcun significato. E questo è vero per tutta la comunicazione – anche quella che dice all’anemone di mare come crescere e all’ameba cosa deve fare il momento successivo».
Nora è sposata col batterista jazz Dan Brubeck, figlio del famoso jazzista Dave Brubeck. Le chiedo se il pensiero di Gregory Bateson, e in fondo la natura stessa, non abbiano somiglianze strutturali col jazz, con le sue variazioni e ripetizioni. Nora sorride: sta in effetti preparando col marito Dan una serie di concerti-seminari per esporre la relazione tra doppio vincolo e improvvisazione. Il jazz è un’ottima metafora del pensiero di Bateson, conferma, perché è un processo creativo, un apprendimento dell’apprendimento.
Siamo sempre in relazione con qualcos’altro, ci insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero. Gli esseri umani si comportano in modi distruttivi per i sistemi ecologici naturali, osservava, senza riuscire a vedere le delicate interdipendenze di un sistema ecologico che gli conferiscono integrità. C’è una attualità politica immensa e scottante nel pensiero educativo di Bateson. E mentre vedevo scorrere nel film i suoi insegnamenti – con quello stile magistrale ricco di metafore, storie, paradossi, poesie, humour, un linguaggio costituito di ciò di cui parla, ovvero una visione olistica ed ecologica della «realtà» – non potevo non pensare con impazienza, confesso a Nora, quanto sarebbe diverso il mondo se i politici (quelli di sinistra: quelli di destra fanno benissimo il loro mestiere) leggessero e rileggessero il pensiero esemplare di suo padre. «Sì, dice Nora, viviamo in un terribile e immenso doppio vincolo, per spezzare il quale occorre la fantasia e il coraggio di un atto creativo». Ma c’è una buona notizia, aggiunge, proprio oggi. Nonostante la sconfitta, in California è stato eletto governatore il democratico Jerry Brown, che nel film di Nora fa un esempio di «doppio vincolo» molto attuale: «L’ineguaglianza cresce e la risposta dei governi è far crescere l’economia ancora più rapidamente, ma così facendo aggraviamo la disuguaglianza e abbiamo un tremendo impatto sul clima e sull’ambiente. Abbiamo bisogno di una visione e di una immaginazione straordinarie, dato che frenare l’economia crea disoccupazione e sofferenza...» (per la cronaca, Jerry Brown fu allievo di Gregory Bateson).

il Fatto 4.11.10
Meravigliosi quei giorni alla Moneda
Il 4 novembredi 40 anni fa Allende entrava nel palazzo presidenziale: fu il primo leader marxista eletto del Sudamerica
di Gianni Perrelli


Il 5 novembre 1970, ventiquattr’ore dopo l’insediamento alla Moneda – di cui oggi ricorre il quarantennale – il nuovo presidente del Cile Salvador Allende tenne un discorso alla nazione nello stadio di Santiago. Proprio il luogo che, per un tragico paradosso, meno di tre anni dopo diventò il lager in cui il golpista Augusto Pinochet rinchiuse migliaia di sostenitori del leader sanguinariamente deposto.
NEL TRACCIARE le linee del governo, il primo presidente marxista legittimamente eletto nell’emisfero occidentale concentrò tutta la sua tensione utopica. Parlò di un’esigenza di riforme forti alla ricerca del progresso e della giustizia sociale: “Quelle prodotte dal cristianesimo primitivo e dal socialismo”. Indicò alla sinistra mondiale una prospettiva che coniugava i valori dell’egualitarismo con i principi della democrazia, gli obiettivi romantici e gli orizzonti rivoluzionari. C’erano inviati di tutto il pianeta, in quei giorni di primavera australe a Santiago, diventata l’ombelico del mondo. Giornalisti famosi e scrittori (fra gli altri Goffredo Parise), accorsi a descrivere una storica svolta a sinistra in un continente tradizionalmente martoriato dai colpi di Stato militari. Un evento che ebbe notevole risonanza anche nel nostro paese, dove si era appena insediato il primo governo (centrosinistra) di Emilio Colombo. Per i marxisti italiani la vittoria di Allende divenne una sorta di stella cometa. L’esperimento, ribattezzato “socialismo in salsa cilena”, animò a lungo il dibattito politico. Soprattutto nel Pci guidato da Luigi Longo, che aveva raccolto l’eredità di Palmiro Togliatti e dopo un paio d’anni avrebbe lasciato il timone del più grande partito comunista d’Occidente a Berlinguer. C’era molto entusiasmo 40 anni fa nelle strade di Santiago. L’alleanza fra operai, minatori e intellettuali che aveva dato vita alla coalizione dell’Unidad Popular (socialisti, comunisti e radicali) era stata una scossa di adrenalina per un paese adagiato sul piccolo cabotaggio del precedente governo democristiano di Eduardo Frei. L’allora 62enne Allende, che aveva fallito già tre volte la corsa alla presidenza, vinse nelle elezioni del 5 settembre con poco più di un milione di preferenze: il 36,3 dei suffragi contro il 34 del liberal-conservatore (ed ex presidente) Jorge Alessandri e il 27,4 del democristiano Rodomiro Tomic. Ma non avendo alcun candidato superato il 50 per cento dei consensi, per la Costituzione la scelta del nuovo presidente spettava al Congresso in una sfida fra il primo e il secondo classificato. La sera stessa Allende festeggiò il provvisorio successo all’Alameda, il grande viale che taglia il centro della capitale. Affacciandosi al balcone della Federazione degli Studenti cileni disse che la vittoria apriva un cammino nuovo per la patria di cui il principale attore era l’intero popolo cileno. “Voi e voi soli siete i trionfatori. I partiti popolari e le forze sociali hanno offerto una grande lezione che si proietta oltre le nostre frontiere”, affermò con uno sfoggio di retorica che rivendicava un ruolo di battistrada mondiale davanti agli osservatori internazionali. Aggiungendo, per recuperare l’armonia interna, che il governo non sarebbe stato comunista, socialista o radicale ma aperto a tutte le forze democratiche.
ERANO PERÒ già in atto i complotti per tarpargli le ali. Richard Nixon premeva da Washington perché Frei, al ballottaggio, appoggiasse Alessandri che si era impegnato a dimettersi dopo la nomina. Alle successive elezioni il fronte di centro destra avrebbe puntato di nuovo su Frei che, per la Costituzione, non aveva potuto candidarsi subito per un secondo mandato consecutivo. Ma Frei non se la sentì di prestarsi alla manovra. Nei giorni successivi un gravissimo attentato, sintomo delle tensioni che attraversavano le elezioni fino a quel momento mediaticamente più seguite del Cile, favorì il balzo finale di Allende. Un gruppo di estrema destra che appoggiava Alessandri uccise il generale René Schneider, capo dell’Esercito e custode rigido della Costituzione. Lo scopo era di gettare il paese nel caos, rilanciando nel clima di psicosi il bisogno di ordine e tradizione meglio rappresentato dal candidato conservatore. Ma Carlos Prats, successore di Schneider, tenne la barra dritta e riuscì a evitare che il paese entrasse in una spirale di violenze. Anche Frei decise di far convergere la Dc su Allende chiedendogli solo di firmare uno statuto di garanzia in cui assicurava che le riforme socialiste non avrebbero stravolto la Costituzione. Il leader del cartello delle sinistre lo accettò, pur consapevole che si sarebbe esposto alle critiche dell’ala più radicale di Unidad Popular, che infatti gli rinfacciò il tradimento degli ideali.
Il 24 ottobre il Congresso elesse alla presidenza Allende con 135 voti contro i 35 di Alessandri e sette astenuti. Il 4 novembre iniziò l’avventura del governo socialista seguita con entusiasmo dalle sinistre di tutto il mondo e con aperta ostilità da Washington e dai governi occidentali conservatori, preoccupati per i legami di Santiago con l’Urss e Cuba e per il programma di nazionalizzazione delle industrie. Un’avventura densa di emozioni e passioni, traumaticamente interrotta dal colpo di Stato dell’11 settembre 1973 che provocò la morte di Allende e precipitò il Cile nelle pagine più tenebrose della sua storia.

il Fatto 4.11.10
Se l’opposizione non c’è
scenda in campo la società civile
di Paolo Flores d’Arcais


Se l’opposizione fosse esistita, il maleodorante regime che vuole fare a pezzi la Costituzione nata dalla Resistenza sarebbe franato da un pezzo. In un editoriale di inizio luglio questo giornale già sosteneva la necessità improrogabile di un governo di “lealtà costituzionale”, senza Berlusconi e contro Berlusconi. A questa prospettiva ha portato domenica il suo riconoscimento anche Repubblica con lo scritto del suo fondatore, la personalità più ascoltata dal Pd e dal centrosinistra. Con una sola differenza: tra le poche e urgenti cose di un governo di “Mister X”, Eugenio Scalfari ne trascura una che a noi sembra essenziale: restituire l’etere al pluralismo, liberarlo dall’appropriazione bulgara di Berlusconi. Ripristinate le condizioni minime della democrazia – se le opposizioni parlamentari almeno di questo saranno capaci – bisognerà però andare al voto. Ma un Berlusconi che vincesse non farebbe prigionieri, saremmo al fascismo per via legale. Purtroppo, il futuro della democrazia italiana è un’equazione facile da descrivere e difficile da risolvere. Dal 1994, vince le elezioni chi conquista la casamatta strategica dell’antipolitica. Oggi è più vero che mai.
Un italiano su tre è fermamente deciso a non votare (“sono tutti uguali, tutti ladri”), e uno su quattro dei rimanenti resterà incerto fino all’ultimo. Oltre metà del paese si riconosce insomma nel partito della “antipolitica”. Etichetta comoda quanto fuorviante: spesso sono cittadini che detestano la partitocrazia, non l’impegno civile e la partecipazione pubblica (anzi!). Perciò, primo dovere di realismo: per porre fine al regime bisogna conquistare una parte consistente di questa “antipolitica”. Al Pd, negli ultimi anni, è riuscito esattamente il contrario, spingere all’astensionismo alcuni milioni di elettori tradizionalmente di sinistra. E allora, primo corollario di realismo: o nel fronte delle opposizioni ci saranno una o più liste della società civile (di cittadini “senza partito”), oppure la sconfitta è assicurata.
SECONDO dovere di realismo: si vince solo con l’alleanza più vasta delle forze disponibili. Questo, ovviamente, nell’ipotesi che si consideri la liberazione da Berlusconi una priorità irrinunciabile. Se si pensa invece che, lui o le opposizioni, è zuppa o pan bagnato, è evidente che si può praticare l’orgoglioso isolamento di un voto a cinque stelle, o anche di più. Ma Berlusconi, se vince, rende Costituzione il governo delle cricche, realizza il suo totalitarismo proprietario. Fascismo post-moderno. Chi non lo capisce è irresponsabile, si chiami pure Grillo con i suoi meriti. Si badi, però: è necessaria l’alleanza più ampia, a patto che nessun nuovo apporto faccia perdere più voti di quanti promette di aggiungerne. L’alleanza con l’Udc porterebbe a un tracollo sulla sinistra di dimensioni ciclopiche, ad esempio.
Insomma, realismo e responsabilità da una parte impongono che movimenti e società civile pretendano che le loro liste siano presenti nell’alleanza delle opposizioni, e dall’altra che queste, dal Pd all’Idv alla Sel, non frappongano rifiuti. Quanto alla giaculatoria che in questo modo non si conquistano i voti moderati, basterà qualche rilievo empirico. Già dopo la manifestazione dei girotondi del 2002 a piazza San Giovanni, un sondaggio di Mannheimer evidenziava come una giornata denunciata da Berlusconi eversiva e platealmente boicottata da D’Alema avesse trovato accoglienza favorevole presso un quarto degli elettori di destra. Dati confermati dopo un’altra manifestazione “eversiva”, quella di Piazza Navona del 2008. Risultati incomprensibili (e perciò rimossi) solo per le nomenklature di centrosinistra, che confondono moderati con Casini e altri Montezemoli. I moderati, in realtà, si conquistano proprio con la coerenza in difesa della Costituzione, accompagnata da candidati estranei a quella che per milioni di moderati realmente esistenti (non la loro controfigura ideologica immaginata dai cacicchi del Pd) è un’autentica bestia nera: i politicanti di mestiere, senza arte né parte. In effetti, cosa c’è di più moderato che la realizzazione della Costituzione? Per la maggioranza antiberlusconiana del paese il programma dunque già c’è. L’ostacolo è dato solo dagli egoismi di bottega dei vertici dei partiti, che considerano una    “irruzione”    della    società civile nell’agone elettorale minaccia di lesa maestà. Si tratta di costringerli. Come? I tempi per una “operazione Lula” non sono maturi. Ma neppure la soluzione Vendola convince. Se la scelta si ridurrà a Vendola, Bersani e Chiamparino voterò Vendola, ovviamente. Nichi resta pur sempre il migliore, ma dentro il mondo dei “politici a vita” (e la nomenklatura ex Rifondazione che lo accompagna è una cartina di tornasole).
ABBOZZO un altro percorso: primo passo, tutte le esperienze DI BASE di democrazia militante di cui l’Italia è ricchissima – movimenti su obiettivi, club di ogni genere, volontariato, liste locali, gruppi “viola”, “meet up” grillini, sezioni e militanti di base di Sel, Pd e Idv – senza mettere da parte le divergenze e le peculiarità, a cui sembrano tenere con gelosissimo orgoglio, si collegano in un Forum permanente. Secondo: pubblicizzano reciprocamente tutte le iniziative, rendendole patrimonio comune e, parallelamente, discutono un “decalogo” delle misure programmatiche prioritarie per “realizzare la Costituzione”. Terzo: si impegnano a una “etichetta” di discussione fondata sull’argomentazione razionale, disprezzando la logica dell’insulto. Quarto: danno vita sul territorio a quanti più incontri “fisici” e iniziative “materiali” comuni possibili. Quinto, fanno così maturare la possibilità di una candidatura comune della società civile per le primarie di coalizione.

Repubblica 4.11.10
“Inghilterra, pericolo arresto per i nostri ministri" Israele congela il "dialogo" con Londra


GERUSALEMME - Israele ha sospeso il dialogo strategico con la Gran Bretagna per protesta contro la legge che permette l´arresto di ogni straniero se denunciato per crimini di guerra o contro l´umanità. Poco dopo l´arrivo in Israele del ministro degli Esteri William Hague, il portavoce Ygal Palmor ha chiarito che gli israeliani vogliono parlare con Hague solo di quella legge, dato che impedisce a molti ministri israeliani di andare in Gran Bretagna. È da poco che il ministro dell´Intelligence israeliano, Dan Meridor, ha dovuto annullare una visita a Londra perché lo attendeva un mandato d´arresto richiesto da attivisti filo-palestinesi.

Repubblica 4.11.10
Riciclaggio e conti sospetti dello Ior anche un monsignore nel mirino dei pm
All’esame della procura di Roma i movimenti di denaro del prelato
di Orazio La Rocca


La terza indagine in poche settimane, a rischio il processo di chiarificazione con Bankitalia

CITTÀ DEL VATICANO - Nuova indagine giudiziaria su un conto corrente "sospetto" aperto all´Istituto per le opere di religione (Ior) da un monsignore in servizio in diversi dicasteri della Santa Sede. La notizia è filtrata ieri mattina - paradossalmente - a margine del summit su finanza internazionale, crisi economica e nuove regole bancarie tenuto a porte chiuse Oltretevere tra il ministro dell´Economia Giulio Tremonti, il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi ed i superiori generali delle congregazioni religiose, titolari di conti correnti presso la stessa banca vaticana.
È la terza inchiesta sullo Ior avviata dalla magistratura italiana nelle ultime settimane. La prima - resa nota il 21 settembre - quando la procura di Roma sequestrò 23 milioni di euro depositati dallo Ior presso una banca romana, senza il presunto rispetto delle norme antiriciclaggio previste dalla Banca d´Italia, accompagnando il provvedimento con un avviso di garanzia al presidente Gotti Tedeschi e al direttore generale Paolo Cipriani. Proprio ieri si è appreso che sta per essere presentato il ricorso in Cassazione contro il mancato dissequestro dei 23 milioni. La seconda inchiesta, il 26 ottobre, su iniziativa della procura di Catania titolare di un´indagine, sempre per riciclaggio, a carico di un prete incardinato a Roma e titolare di un conto Ior, don Orazio Bonaccorsi, nipote di un ex boss condannato per mafia e ora finito sotto inchiesta per truffa e intestazione fittizia di beni. Questa volta, a finire nelle maglie della procura di Roma - dove si apprende che "non sono pochi" i conti correnti della banca vaticana su cui si stanno concentrando le attenzioni degli inquirenti - è un monsignore di origini meridionali, da anni membro di commissioni giudiziarie di tre Congregazioni (Dottrina della Fede, Culto divino e disciplina dei sacramenti, Clero) e presso il Tribunale della Rota Romana. Dunque un prelato giurista col pallino degli affari, che avrebbe movimentato sul suo conto corrente acceso presso lo Ior, attraverso altre banche e con operazioni di sportello, ingenti somme di denaro su cui gli inquirenti stanno indagando alla luce delle norme antiriciclaggio in vigore nel sistema bancario italiano del 2003.
Questa nuova tegola giudiziaria caduta sulla testa della banca vaticana potrebbe rallentare - si teme nei Sacri Palazzi - quel processo di "chiarificazione" con la procura di Roma e la Banca d´Italia più volte assicurato dai vertici dello Ior per permettere lo sblocco dei 23 milioni ancora sotto sequestro malgrado la richiesta di "liberalizzazione" avanzata agli inquirenti italiani dalle autorità pontificie. Un problema sul quale "presto sarà diradata ogni ombra di dubbio" ha più volte assicurato il presidente Gotti Tedeschi. Malgrado assicurazioni tanto autorevoli - in linea con quanto ieri ha fatto capire a latere del summit anche il cardinale Bertone, confidando di essere "preoccupato e fiducioso allo stesso tempo" per il futuro dello Ior - l´inchiesta dei giudici è sempre in piedi e i tempi di vedere inserita la banca del Papa nella cosiddetta White List delle banche internazionali che applicano le norme antiriciclaggio sono inevitabilmente destinati ad allungarsi.
Come saranno altrettanto lunghi i tempi per rinnovare lo Ior con quelle regole di legalità e trasparenza su cui sta lavorando Gotti Tedeschi su mandato del Papa, che proprio ieri, all´udienza generale, forse nemmeno tanto casualmente ha invitato credenti, non credenti e uomini di buona volontà a "pulire la spazzatura che è nelle nostre coscienze e nelle nostre anime, non solo quella che si trova solo nelle nostre strade".

Repubblica 4.11.10
Il futuro del lavoro
di Giorgio Ruffolo


A metà del Ventesimo secolo il capitalismo occidentale sembrò vicino alla definitiva soluzione della questione sociale.
Lo sviluppo economico non seguiva più il modello "marxiano" dello sfruttamento del lavoro; i salari potevano salire nella stessa misura dell´aumento della produttività senza intaccare i profitti, integrandosi nel meccanismo dello sviluppo e integrando i lavoratori nella struttura sociale.
Questa combinazione virtuosa dipendeva da una condizione fondamentale: che i lavoratori disponessero di una loro organizzazione, il sindacato, tanto forte da sostenere i loro rapporti di forza con le imprese capitalistiche.
Questa condizione è venuta meno con la liberalizzazione mondiale dei movimenti di capitale intervenuta verso la fine del secolo, e con la conseguente globalizzazione dell´economia. Le grandi imprese, libere di spostare i loro investimenti in tutto il mondo, sono in grado di "ricattare" i lavoratori dei vari paesi. Questo è il senso del brutale ma ineccepibile vangelo di Marchionne.
La scomparsa della invisibile frontiera tra il capitalismo avanzato dell´Occidente e le economie sottosviluppate del resto del mondo ha risospinto il primo indietro nel tempo, riproponendo condizioni di divisione e di concorrenza tra i proletari di tutti i paesi.
Sembra, oggi, che restino due vie: sottrarsi a questa concorrenza ricorrendo al protezionismo; o accettare per un tempo indefinito la pressione di quella concorrenza con una svalutazione del lavoro, che si manifesta nella flessibilità dei salari e nella precarizzazione dei contratti.
Una alternativa, veramente, c´è: convertire il lavoro da attività più tradizionali, esposte alla concorrenza, ad attività più specializzate e "competenti": un processo che è spontaneamente in corso: ma che è pur sempre condizionato nel tempo (la concorrenza "insegue", spostandosi verso le attività più specializzate) e nello spazio (quel processo non può investire che settori limitati).
C´è però un´altra alternativa, più vasta e radicale, che riguarda non il modo di produzione ma il modo di impiego delle risorse: il rapporto tra consumi privati e spesa sociale. È solo nell´ambito dei primi che agisce la concorrenza tra i produttori. In una società che destinasse ai telefonini la metà della spesa attuale e all´istruzione generale permanente il doppio (assumendo questi due tipi di beni come rappresentativi delle due categorie) il ricatto evangelico di Marchionne sarebbe molto meno efficace. Ciò comporterebbe ovviamente uno spostamento massiccio della tassazione dall´istruzione ai telefonini. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma è proprio un programma così vasto, di riorientamento delle preferenze, delle scelte, dei valori, che dovrebbe costituire l´impegno politico, anzi, propriamente, la ragion d´essere di una sinistra che insegue oggi vanamente la "concretezza" della sua agenda irrisoria.

Repubblica 4.11.10
Abuso di potere
Quando è l’istituzione a violare tutte le regole
di Nadia Urbinati


Gli ultimi casi che hanno coinvolto il premier sono uno degli aspetti dell´anomalia italiana. Perché il superamento dei limiti da parte di chi governa mina la democrazia

Del potere non si può fare a meno; per questo, occorre limitarlo. Scriveva Hannah Arendt che il potere non ha bisogno di giustificazioni «in quanto è inerente a ogni comunitá politica». Ciò di cui ha bisogno è la legittimità. L´esercizio regolato e in pubblico del potere politico consente la limitazione che meglio si accorda con la legittimità e la libertà individuale, ovvero con i principi e la pratica della democrazia costituzionale. Arendt scriveva nel 1971, a commento di quanto l´opinione pubblica americana stava scoprendo, grazie alla stampa: uno schema di abuso sistematico di potere messo in atto dalla Casa Bianca per coprire il ruolo dei servizi segreti e del Dipartimento di Stato in Indocina e in Vietnam a partire dalla Seconda guerra mondiale.
Arendt metteva a nudo la manipolazione delle informazioni, la menzogna scientemente orchestrata, la violazione della costituzione e dei diritti civili. Coprendosi dietro il pretesto di fare gli interessi nazionali, i leader americani si curavano invece di salvaguardare la loro immagine. Coprivano le loro reali intenzioni e azioni per essere creduti limpidi dal pubblico. Presumevano, dunque, che il potere politico fosse pubblico proprio mentre lo usavano come un fatto privato – per questo la loro azione doveva restare nascosta, perché impropria secondo le leggi, ovvero perché un abuso.
L´abuso di potere è un fatto gravissimo perché distrugge una comunità politica trasformando i cittadini in sudditi, facendone oggetto di raggiro, mettendoli nella condizione di non sapere e quindi di non poter giudicare con competenza, lasciando chi governa nella straordinaria libertà di fare ciò che vuole. L´abuso mina alla radice la fiducia senza la quale non si danno relazioni politiche in una società fondata sul diritto. Il liberalismo ha colto al meglio questo problema, poiché ha da un lato assunto che il potere è necessario, e dall´altro che il suo esercizio stimola negli uomini la propensione a non averne mai abbastanza e quindi ad abusarne. Il potere alimenta la passione per il potere con un´escalation fatale verso il monopolio. Le costituzioni moderne partono tutte dalla premessa che ci si debba sempre attendere la violazione e l´abuso da parte di chi esercita il potere e per questo istituzionalizzano le funzioni pubbliche e stringono il potere politico dentro norme rigide e chiare. Da questa concezione liberale ha preso forma l´idea che l´unica legittimità che il potere politico può acquisire è quella che viene dal rispetto delle garanzie di libertà individuale e, quindi, dalla limitazione e dal controllo del potere (limitazione nella durata e nell´intensità grazie alle elezioni, ai controlli di costituzionalità e alla divisione dei poteri) attraverso vincoli che chi governa non può manomettere. Violare i limiti che la difesa di questa libertà impone equivale a mettersi fuori della legge (un fatto di sedizione che indusse John Locke a giustificare la disobbedienza e la ribellione, aggiungendo con toni sconsolati che purtroppo i popoli hanno più capacità a subire gli abusi che a ribellarsi ad essi). Il potere che opera d´arbitrio non è più potere politico, quindi, ma é dominio assoluto e dunque nuda forza che fa di chi lo subisce un servo a tutti gli effetti. La differenza fra dominio e governo sta tutta qui.
Le riflessioni di Hannah Arendt si adattano come un guanto a ciò che sta avvenendo nel nostro paese. Il fatto che invece di una guerra ingiusta ci siano in ballo relazioni erotiche con minorenni e giovani donne non cambia la natura dell´arbitrio. Semmai la rende più sordida e avvilente. Ma anche nel caso italiano la manipolazione, la confezione ad arte dei fatti, e il nascondimento sono le armi usate da un governo, che, ci ha spiegato Giuseppe D´Avanzo, ha istituito un "tavolo di crisi" per riscrivere "la verità del premier sulla telefonata in questura". Al nascondimento del vero si è aggiunto lo stravolgimento studiato dei fatti (con risvolti che mettono l´Italia in pessima luce nelle relazioni internazionali) perché nella telefonata fatta per convincere a rilasciare la minorenne si è detto che la ragazza era la nipote del presidente egiziano Mubarak. Il presidente del Consiglio italiano usa la sua autorità di garante dell´interesse nazionale per coprire una sua azione illecita. Abuso a tutto tondo, e inoltre presa in giro del proprio Stato e coinvolgimento mendace di uno Stato straniero.
In una democrazia costituzionale il Presidente del Consiglio e i ministri (il potere esecutivo) ricevono legittimità dal patto fondativo che detta le regole della loro designazione e della loro durata e, se necessario, della loro destituzione per la possibilità di essere sottoposti alla giustizia ordinaria "per i reati commessi nell´esercizio delle loro funzioni" in seguito all´autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati (Art. 96, il quale nella formulazione originaria del 1947, poi sopposta a revisione nel 1989, era molto più severo e prevedeva la possibilitá della messa in "stato d´accusa", una formula simile all´impeachment americano). Queste regole e questi limiti definiscono quello politico come agire pubblico, stabilendo che esso appartiene alla comunità politica e non a chi lo esercita, il quale non può sostituire il suo personale giudizio su come relazionarsi alle istituzioni a quello definito dalla legge, dalla quale egli dipende. L´abuso blocca proprio la dimensione pubblica del potere rendendone l´esercizio un fatto tutto privato; è a questo punto che il potere si fa nuda forza, discrezione nella mani di chi lo maneggia, come strumento di privilegio. Il governante che viola le norme che regolano il suo operato si impossessa del potere e lo piega ai suoi interessi.

Repubblica 4.11.10
Un regime produce una sua "verità" che non esita a ricorrere a una brutale falsificazione dei fatti per imporsi e diventare dominio. Tutto il Novecento è percorso da episodi di questo tipo di inquinamento
Come si costruisce una verità "fittizia"
La cultura della menzogna
di Aldo Schiavone


Da sempre, il potere intrattiene con la verità e con il suo contrario un rapporto difficile. Il potere si nasconde, e mente e falsifica per conservarsi e crescere. È anche per cercar di sciogliere questo nodo, che è nata la democrazia: con i governanti finalmente in pieno sole, visibili al centro della piazza – e non più nell´ombra dei palazzi o dei templi – sotto lo sguardo vigile del popolo riunito in assemblea, cui non si sarebbe potuto celare nulla.
Il potere è per sua natura asimmetrico: il suo esercizio sospende l´eguaglianza, e produce al suo posto uno squilibrio, un dislivello, un più e un meno. Questa dissimmetria è ineliminabile, ed è come la forza di gravità che curva lo spazio intorno a sé: distorce tutto quello che le sta intorno – rapporti sociali, discorsi, comportamenti. E proprio come la gravità, essa distorce anche la luce, che scivola e devia – assorbita, riflessa, rifratta – tramutando la sua rettilineità originaria in un ingannevole gioco di oscurità, di inganni e di misteri: l´irresistibile segretezza del potere, che ama nascondersi e dissimularsi: questo è la sua verità – gli "arcana imperii", dicevano i Romani, che ne capivano.
Le democrazie moderne hanno costruito nel tempo dispositivi efficaci per ridurre i rischi di questa ineliminabile deriva. Essi ruotano intorno a due assi fondamentali. Da un lato, la libertà della conoscenza, la diffusione dell´informazione, lo sviluppo senza limiti della capacità critica del pensiero e delle opinioni: l´impianto illuministico, insomma. Dall´altro, la sottomissione del potere alla legge e alla regola giuridica – costituzionalismo greco e diritto romano – per stringerlo in una rete dalle maglie sempre più fitte, dalle quali fosse impossibile sfuggire, e che riuscissero a contenere il suo esercizio senza mai trasformarlo nel suo abuso: senza cioè che la dissimmetria diventasse arbitrio. Si è aperta così una partita complicata, e dagli esiti tutt´altro che scontati, i cui movimenti hanno riempito il tempo della nostra modernità. Le vittorie, sono sempre provvisorie. Le sconfitte, rovinose e portatrici di sventure.
È per potersi tramutare in abuso, che il potere mente: per meglio dire, produce un suo regime di verità, che non esita a ricorrere alla più brutale falsificazione dei fatti per imporsi, e diventare dominante. La storia del Novecento è piena di grandi menzogne prodotte da poteri che si erano totalmente trasformati in abusi mostruosi: la menzogna delle razze per aprire la strada allo sterminio; la menzogna dell´Italia come potenza militare e imperiale, per costruire al fascismo un consenso di massa; la menzogna sociale sovietica, per poter sostituire l´irrealizzabilità del comunismo con un regime inetto e dispotico.
Accanto a queste menzogne che chiamerei "di sistema", esistono poi le menzogne e le falsificazioni "locali", d´occasione, ma non meno inquinanti e pericolose, che non escludono a prima vista la democrazia – come le altre – ma anzi sembrano poter convivere con essa, e presentarsi solo come suoi piccoli aggiustamenti. E sono invece tossine micidiali: a non combatterle, se ne resta paralizzati. Menzogne per coprire abusi, e che ne producono altri: in una spirale perversa e inarrestabile. Fino al corto circuito conclusivo: "non leggete i giornali" (come ha detto il nostro Premier) – tutti i giornali, da Repubblica al New York Times: la menzogna che non potendo aver ragione della realtà, distrugge almeno lo specchio, per non vedercisi dentro.

Repubblica 4.11.10
“La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger” in uscita da Ponte alle Grazie
Il disincanto del mondo e la sfida di Ratzinger
di Paolo Flores d’Arcais


Il papa scommette sulle contraddizioni della modernità Se la ricerca e la speranza di un mondo più giusto vengono meno allora rimane solo la Salvezza

Pubblichiamo un brano tratto dal libro di La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger in uscita da Ponte alle Grazie

Ratzinger ha scommesso sul fallimento del post-Illuminismo (liberale, socialista, democratico) in cui noi speravamo di vivere, che prometteva in nome della scienza e di una umanità libera l´appagamento nell´aldiquà, la sicurezza e lo sviluppo per tutti e per ciascuno.
Il papa della Reconquista vede la grande chance per la Verità cattolica nell´impasse di una finitezza senza futuro, che concede a ogni sapiens sapiens solo l´hic et nunc del consumo immediato ed effimero, ma sottrae qualsiasi spessore di senso, qualsiasi radicamento di storia, qualsiasi identità collettiva di solidarietà. Si allungano le aspettative di vita, la medicina consente di prolungare il bios dei corpi organo per organo, ma si dilatano, anziché contrarsi, le paure legate alla nostra materialità: non solo la malattia, la sofferenza, e una morte che anche procrastinata sembrerà prematura, ma l´incubo dell´inadeguatezza, in una hybris asintotica di chirurgia estetica che non darà mai appagamento.
Una modernità «sazia e disperata», come ebbe a dire il cardinal Biffi, si offre allo sguardo del papa teologo quale terra di conquista per una crociata capace di offrirle già oggi la zattera di ciò che le manca, speranza identità e comunione, e domani addirittura un accogliente porto sicuro, se farà il passo cruciale della conversione, il «salto mortale» dalla libertà all´obbedienza. Questa la convinzione e la scommessa. Il mondo annaspa, addirittura è ormai esso stesso «liquido», la Chiesa è invece promessa di terra ferma.
Ratzinger ha capito tutte le debolezze del suo nemico. In apparenza la secolarizzazione ha trionfato. In realtà, se tracolla la speranza della giustizia nell´aldiquà viene meno il futuro stesso, e ritorna ovvio e prepotente il primato della Salvezza (quale che sia). Finché c´è lotta c´è speranza, infatti, ma è vero anche il contrario, e poiché solo la lotta-speranza fornisce identità e senso, con l´estinguersi di ogni speranza-lotta si apre il vaso di Pandora delle identità surrogatorie alla speranza perduta. Sacre o profane che siano, ma quelle sacre possiedono il non trascurabile valore aggiunto dell´eternità.
Aggiungiamo qualche dettaglio.
Sul piano più strettamente politico, si pensi alla crisi del welfare. Chi si affaccia alla vita adulta appartiene alla prima generazione (da secoli!) che vive peggio dei propri genitori. L´Europa è in crisi prima ancora di nascere davvero, visto che ha «integrato» al ribasso, in fatto di diritti sociali, la Gran Bretagna prima e gli Stati dell´est poi. Ernst-Wolfgang Böckenförde ha di che maramaldeggiare con il suo «lo Stato liberale e laicizzato si nutre forse di propositi normativi che esso non è di per sé in grado di garantire?». Aggiungiamo il venir meno del comunismo, ottimo in sé. Era anche, però, l´alibi che ha consentito alle democrazie realmente esistenti di non dover render conto – fino alla scorsa generazione – dei «tradimenti» verso i propri principî. Ora sono chiamate al redde rationem del promesso «perseguimento della felicità», ricamato nelle costituzioni e oltraggiato nei bassifondi della quotidianità di governo.
Perfino più importante quanto Ratzinger è capace di lucrare sul versante culturale della modernità in crisi, squassata dalle aporie che mettono a repentaglio i suoi due architravi, la scienza e l´universalismo.
La scienza, in primo luogo. Che nel suo uso pratico, nella sua «implementazione» come tecnica, non ha mantenuto e anzi ha contraddetto le speranze suscitate. Sotto un duplice profilo: il controllo sempre più pervasivo dell´uomo sulla natura, propiziato da un progresso tecnologico esponenziale, anziché diffondere sicurezza, scatena un sabba di timori, fino al catastrofismo, giustificati dalla dismisura incontrollata, irrazionale, ecologicamente distruttiva del suo incedere. Esso, d´altronde, anziché diffondere una ricchezza più equamente distribuita, accresce in modo abissale la voragine della diseguaglianza (tra i paesi e all´interno di ciascuno). Le due «eterogenesi dei fini» fanno anzi sinergia. In realtà la scienza è incolpevole, se intesa come ricerca matematizzata ed empirica dei «segreti» della natura. Panico e rabbia, più che fondati, nascono dall´uso asociale, per profitto e per potere, che ne fanno gli establishment.
L´universalismo, in secondo luogo (ma non certo per importanza). Di fronte alla incapacità o non volontà dei governi di fornire i presupposti materiali e culturali dell´eguaglianza, e al declinare dei movimenti di lotta che la mantengano all´ordine del giorno come valore per tutti (immigrati compresi), fa strage di cuori la sirena del multiculturalismo, la bandiera dell´eguale dignità che dalle singole irripetibili esistenze che tutti noi siamo, emigra (è il caso di dirlo) alle comunità etnico-culturali. Metamorfosi niente affatto innocua, perché una comunità può essere libera e rispettata, senza che liberi e rispettati siano gli individui che vi appartengono. Il che accade puntualmente per ogni «cultura» illiberale e patriarcale (fino alle identità di fede, sangue, suolo), dove lo slogan accattivante dell´«eguale riconoscimento» occulta rinnovate servitù, fossero anche «volontarie». Della donna, in primo luogo.

Corriere della Sera 4.11.10
Le battaglie di Teresa Noce e le braccianti la lunga storia delle sindacaliste-donne
di Bianca Beccalli


Anche se le lavoratrici sono una parte notevole dell’occupazione e dei dipendenti sindacalizzati, il vertice è sempre stato largamente composto da uomini
Perché la Cgil nel momento più difficile si affida oggi a Susanna Camusso

 Teresa Noce con il segretario del Pci Luigi Longo (dal quale si era separata un anno prima): fu la leader del sindacato dei tessili 1913 Argentina Altobelli fu il capo della Federazione nazionale dei lavoratori della terra dal 1906 sino all’avvento del fascismo

Una donna alla guida della Cgil, uno dei più importanti sindacati europei, pone due interrogativi. Primo: com’è potuto avvenire? È stato il frutto di una combinazione casuale di forze e circostanze o di una lunga marcia in cui hanno giocato tradizioni culturali antiche e innovazioni organizzative recenti? Secondo: che differenza fa? Si limiterà Camusso a proseguire il lavoro di Epifani o introdurrà nell’azione sindacale temi legati alla sua sensibilità come donna e alla sua esperienza di militante femminista?
Non si è trattato di un evento casuale. Il mondo del sindacato è un mondo maschile, più di quello dell’impresa, della politica, della scienza, delle professioni. Anche se le donne sono state e sono una parte notevole dell’occupazione e dei lavoratori sindacalizzati, il vertice del sindacato è sempre stato largamente composto da uomini. E maschile è stato, fino ad anni recenti, il principale riferimento ai lavoratori rappresentati: i capi famiglia dell’industrializzazione di massa, di quella fase «fordista» sulla quale si è costruita la grande forza del sindacato italiano a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Nella tradizione della Cgil ci sono però sempre stati degli anticorpi. La stessa, antica, ambizione di rappresentare l’intero mondo del lavoro e non solo gli interessi dei lavoratori organizzati ha generato una apertura insolita a problemi di natura generale, l’aspirazione ad una società più egualitaria, più favorevole all’emancipazione dei suoi ceti più svantaggiati. Va nella stessa direzione la politicizzazione del sindacato, la sua vicinanza ai partiti politici della sinistra, ciò che spiega l’inconsueta presenza, nella storia della Cgil, di sindacalisti provenienti dalla politica e di intellettuali senza una esperienza diretta di lavoro di fabbrica (Vittorio Foa, Bruno Trentin). E spiega anche l’inconsueta presenza di figure femminili in ruoli direttivi.
Argentina Altobelli, un’intellettuale socialista, fu il capo della federazione nazionale dei lavoratori della terra dal 1906 sino all’avvento del fascismo — i braccianti erano allora la principale categoria sindacale — e altre donne istruite (le famose «maestrine socialiste») dirigevano alcune Camere del lavoro, la struttura portante del sindacalismo territoriale di quegli anni. Quasi mezzo secolo dopo Teresa Noce fu la segretaria del sindacato dei tessili, il più importante sindacato di categoria dell’immediato dopoguerra. Teresa Noce era politica e proletaria, non una borghese come la Altobelli — aveva fatto la «sartina» nella Torino del primo dopoguerra — e come politica, non come operaia tessile, si impegnò nel sindacato: «povera, brutta e comunista» dice di se stessa nella sua commovente autobiografia. Camusso è bella, borghese e socialista, ma è parte della stessa storia. Una storia nella quale si è inserito negli ultimi quarant’anni un filone importante, quello del femminismo, di cui Camusso è stata una delle protagoniste e da cui probabilmente è stata avvantaggiata: le quote femminili negli organi direttivi (per carità, non chiamiamole «quote rosa») sono state una cosa seria. Ma il suo impegno non si è limitato al sindacato: essa è stata una delle organizzatrici di «Usciamo dal silenzio», un’iniziativa che ha portato in piazza a Milano, all’inizio del 2006, duecentomila persone provenienti da tutto il Paese «per la libertà femminile», in difesa della legge 194 sul diritto di aborto. Di nuovo, si tratta di una miscela di professionismo sindacale e di azione politica a sostegno di diritti generali che è tipica della tradizione della Cgil.
Ma veniamo al secondo interrogativo. Una donna, in quanto donna, farà differenza? In passato l’ha fatta. Le battaglie di Teresa Noce nell’immediato dopoguerra, talora in contrasto con il capo carismatico della sua organizzazione, il grande Di Vittorio — per l’eguaglianza del punto di contingenza tra uomini e donne, per la parità salariale, e allo stesso tempo per il riconoscimento della differenza, per la protezione delle lavoratrici madri — sono ormai storia. Oggi i temi per i quali il gusto per l’eguaglianza può essere una bussola importante — le donne lo posseggono in modo spiccato, consce delle discriminazioni che continuano a subire — sono altrettanto evidenti di allora. Ed è ancora insoddisfacente, per usare un eufemismo, il riconoscimento delle esigenze delle lavoratrici madri, della difficile conciliazione tra il lavoro esterno e il lavoro di cura. La cosa più importante è che gusto per l’eguaglianza può essere stimolato dalla condizione femminile ma non si ferma lì. Mol t e donne fanno lavori precari e molte sono immigrate: ma i problemi della precarietà e del-l’i mmigrazione non riguardano solo le donne e rappresentano una delle grandi sfide che il sindacato deve affrontare, se non vuole ridursi ad una rappresentanza degli i nsiders e dei pensionati. Una sfida, una difficoltà, ma anche una prospettiva, una nuova frontiera.
Poi ci sono i problemi di cui parlano giustamente i giornali. La gestione difficile di una gravissima situazione economica che erode le conquiste sindacali del passato: quali sono vantaggi acquisiti sui quali si può negoziare alla luce dell’emergenza e quali diritti sui quali non si transige? I conflitti tra i sindacati e i complessi rapporti con la politica, proprio in un momento in cui ci sarebbe bisogno della massima unità sindacale. Un disegno insoddisfacente delle relazioni industriali e l’annosa querelle sulla verifica della rappresentatività sindacale. E tanti altri ancora. Il gusto dell’eguaglianza ha il suo ruolo anche in questi problemi. Ma qui Susanna Camusso dovrà giocare non come donna, ma come leader.


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Corriere della Sera 1.11.10
E Alemanno rende omaggio a Pasolini


Il sindaco all’Idroscalo a 35 anni dalla morte del poeta

Una visita all’Idroscalo, dove fu ammazzato Pasolini. E poi, presso la sede del XIII municipio, l’inaugurazione di una mostra fotografica dedicata all’autore degli «Scritti corsari».
È quel che il sindaco Alemanno prevede stamane per commemorare il 35˚ anniversario della morte del poeta. Giorni fa, piuttosto a sorpresa, il primo cittadino aveva annunciato l’intenzione di voler realizzare proprio all’Idroscalo «un museo in ricordo di Pasolini: è giusto che Roma si riappropri della sua memoria». Il luogo è già stato individuato, sarà alla Torre di San Michele, attribuita aMichelangelo, proprio davanti alla stele deposta dallo scultore Mario Rosati sul luogo dell’omicidio. Due milioni di euro è il costo previsto per l’opera.
Assieme alla mostra, che terminerà a fine novembre, le biblioteche comunali di Ostia e Acilia organizzeranno dei «reading» delle opere di Pasolini che saranno lette anche nelle scuole.

Il Sole 24 Ore 25.10.10
Marco Belpoliti
Pasolini, l'attrazione fatale

Saggista e docente. Ha studiato lo scrittore friulano ano affrontando il tema dell'omosessualità
di Stefano Salis


Pasolini si aggira come uno spettro sulla cultura italiana. Non cessa di essere presente nel dibattito, spesso citato a sproposito, spesso visto come un martire, in ogni caso ancora saldamente al centro del panorama intellettuale, il 2 novembre ricorreranno i 35 anni dalla sua scomparsa tragica nella spiaggia di Ostia. Un assassinio che ha segnato un'epoca, anche culturale, della nostra nazione. E per quella data uscirà un libro destinato a far discutere: Pasolini in salsa piccante (Guanda) di Marco Belpoliti, autore che ha studiato a fondo il poeta friulano.

Belpoliti, perché occuparsi ancora di Pasolini? Cosa c'è di ancora non detto?

Si tratta di riportare il discorso su un aspetto che viene sostanzialmente rimosso nella critica a Pasolini: la sua omosessualità. Che è la radice prima della sua attività letteraria. Non è solo fatto umano. Era differente da tutti gli altri intellettuali.

Questa sua diversità si riverbera ancora sulla cultura italiana. Come?

La sua diversità è ancora un problema serio. E la cultura italiana, soprattutto quella di sinistra, non lo ammette. L'aspetto dell'omosessualità di Pasolini è stato indagato solo all'interno del movimento omosessuale, ma non nell'ambito della critica letteraria e sociale. E tra l’altro il movimento gay ha respinto Pasolini. Lui, per esempio, non sarebbe stato a favore del i matrimonio gay. Per lui essere omosessuale significava essenzialmente essere un adulto che va con dei ragazzi eterosessuali non con gli omosessuali per fare sesso.

Questo cosa cambia?

Moltissimo. Le famose «lucciole», infatti, sono proprio loro, i ragazzi di vita. La sua etica della mutazione antropologica si fonda sulla sua visione omosessuale. Sono cose delicate: Pasolini è diventato un martire, una sorta di profeta dei tempi che cambiano. Ma viene rimosso il fatto che il più grande intellettuale italiano, poeta, cineasta, romanziere, giornalista, editorialista, è stato anche, in qualche modo, un pedofilo: un tema tabù. A maggior ragione se questo fatto è la radice stessa del suo poetare.

Chi ha interesse a rimuovere questo problema?

La pruderie intellettuale ne ha fatto un martire politico. Scrittori come Nico Naldini o Walter Siti hanno in parte affrontato questo problema, ma siamo ben lontani dal prenderne coscienza.

Perché parlarne proprio ora?

Perché è tornata fuori la tesi del suo omicidio come un omicidio politico. Facendolo entrate nel gioco dei "complotti" italiani. Lui è stato ucciso perché da intellettuale "sapeva" cose proibita, come la verità sul caso Mattei e altro. Non è così. E ora di prenderne atto.

Pasolini in salsa piccante, di Marco Belpoliti. In libreria. L'uscita è prevista per il 2 novembre, a 35 anni dalla morte