lunedì 8 novembre 2010

l’Unità 8.11.10
Bersani chiede coerenza al leader Fli: «Crisi conclamata, risposta illusoria»
Sulla manifestazione dell’11 dicembre convoca i big del Pd: «Se ne discuta subito»
«Irresponsabile gioco del cerino, mentre il Paese va allo sbando»
di Simone Collini


Bersani convoca il Coordinamento del Pd. Per l’11 dicembre i Democratici pensano a un corteo che arrivi poi a riempire San Giovanni. I veltroniani: «Attenzione, il discorso di Fini è stato il Lingotto del centrodestra».

«Crisi conclamata, risposta illusoria». A Bersani bastano quattro parole per commentare il lungo intervento di Fini. Il leader del Pd giudica «non sufficienti» le mosse del presidente della Camera, se è vero che c’è (Fini dixit) «un governo che non governa». Per Bersani ora Fini deve mostrare «coerenza», e sia lui che Berlusconi devono smetterla con lo «stucchevole e irresponsabile gioco del cerino». Anche perché «a furia di passarselo il cerino si sta spegnendo, mentre il Paese va allo sbando».
Il segretario del Pd sta già lavorando alla preparazione della manifestazione dell’11 dicembre, che stando alle ambizioni dovrebbe prevedere un corteo che arrivi poi a riempire Piazza San Giovanni. Lo sforzo organizzativo sarà tutto sulle spalle del Pd, visto che la Cgil ha già fatto sapere che darà fondo a ogni risorsa per dar vita a una manifestazione imponente, il 27 novembre, e che altre forze del centrosinistra, a partire da Sel di Vendola, hanno già annunciato che non aderiranno. Bersani è però convinto che la risposta alla chiamata in piazza «la manifestazione è aperta a tutti quelli che hanno a cuore le sorti del Paese», è il messaggio sarà all’altezza della situazione. L’importante è però che anche dai vertici del partito venga una risposta univoca.
CONVOCATI TUTTI I BIG
Per questo il leader del Pd ha convocato per mercoledì il Coordinamento del partito, cioè l’organismo ristretto di cui fanno parte tutti i big. Bersani vuole che eventuali perplessità, così come ogni tipo di proposta, vengano messe sul piatto subito, per essere discusse, accolte, risolte, nella sede opportuna. Se ha già sciolto il primo nodo sollevato da Veltroni la manifestazione avanzi proposte e non solo proteste, ha detto l’ex segretario e Bersani ha già chiarito che si parlerà di «democrazia, lavoro e solidarietà» ora diversi esponenti di Movimento democratico vicini a Veltroni (da Tonini a Verini a Ceccanti) evidenziano un’altra questione: il rischio che se il Pd ora non insiste maggiormente sul profilo riformista e sui temi legati all’innovazione, Fini incassi consensi in quegli stessi bacini elettorali che si erano mostrati interessati alla nascita del Pd. «Il discorso di Fini è stato il Lingotto del centrodestra italiano», dice Tonini giudicando «un paradosso amaro» se la vocazione maggioritaria, il riformismo programmatico e l’innovazione della forma partito «davanti agli occhi degli elettori» fossero «abbandonati» dal Pd e «raccolti» da Fli.
Un discorso che non convince Bersani, che la prossima settimana presenterà le proposte del Pd su lavoro, fisco e patto di stabilità a sindacati, Confindustria, Rete imprese Italia. Per non parlare del fatto che Fini, secondo il segretario del Pd, si sta muovendo con «tatticismi» a questo punto non più sostenibili. Dice parlando alla trasmissione televisiva “In mezzora”, subito dopo l’intervento di Fini: «Oggi ha fatto un passo in avanti, piuttosto lungo, ha riconosciuto che il berlusconismo si sta spegnendo. È stato un passo ulteriore verso l’evidenza di una crisi politica. Ma siamo ai tatticismi, anche se si sta accelerando la dinamica della crisi».
Ma perché la crisi si apra formalmente serve un voto in Parlamento. Bersani sa bene che le forze dell’opposizione non sono sufficienti per raggiungere il risultato. E sa anche che una mozione di sfiducia targata centrosinistra, su cui spinge il leader dell’Idv Di Pietro, rischia di compattare il centrodestra e trasformarsi in un boomerang. L’operazione potrebbe però anche scattare, se lo scaricabarile tra i due fondatori del Pdl dovesse continuare, per «stanare» Fini. Non subito però. Tra due settimane ci saranno alla Camera alcuni passaggi che potrebbero portare il governo in minoranza e far scattare la crisi. Sono infatti calendarizzate per il 22 sia la proposta di legge del Pd di riforma fiscale (sull’aumento della tassazione delle rendite da capitale si sono detti favorevoli sia Casini che Fini) che la proposta di legge di Fli sulla Rai, il pluralismo e la libertà d’informazione.

Repubblica 8.11.10
È arrivato il 25 aprile
di Massimo Giannini


Sembra impossibile, eppure il 25 aprile è arrivato davvero. Gianfranco Fini chiude il sipario, su Berlusconi e sul berlusconismo. Scaduto il tempo delle segrete trame di palazzo, gli oscuri riti bizantini, i vecchi tatticismi da Prima Repubblica. Esaurito lo spazio per i giochi del cerino, le partite a scacchi, lo sfoglio dei tarocchi. Quello che va in scena non è più il solito "teatrino della politica" che il Cavaliere esecra abitualmente a parole, rappresentandolo quotidianamente nei fatti. È invece il dramma pubblico di una maggioranza che si dissolve. L´ultimo atto, esibito sul palcoscenico delle tv, di un governo che muore. La cerimonia degli addii collettivi ad un partito mai nato. Non sappiamo esattamente come e quando cadrà il Berlusconi IV. Stavolta sappiamo però che la fine è imminente. Questione di ore, tutt´al più di giorni. E il Paese si libererà anche di questa ennesima, fallita messinscena cesarista. Di questo ulteriore, disastroso esercizio di leaderismo populista.
Dovrà ricredersi, chi da Perugia si aspettava un Fini ambiguo e attendista sul destino del governo, o prudente e possibilista sul futuro della maggioranza. Il presidente della Camera è stato netto e inequivoco, sul primo e sul secondo.
Il famoso "Patto di legislatura" che Berlusconi gli ha riproposto mercoledì scorso durante la direzione del Pdl è una cambiale in bianco che nessuno potrebbe firmare, perché ormai palesemente scaduta. Era stato lo stesso Fini a fare al premier un´analoga offerta, a Mirabello, in un estremo tentativo di ricucire uno strappo che già allora si intuiva non più ricomponibile. Anche questo risibile ping pong, adesso, è finito. Il leader di Futuro e Libertà chiede al premier di prenderne atto. Di salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni, di riconoscere di fronte all´Italia che il governo non ce l´ha fatta e che ne serve un altro, con una nuova agenda, un nuovo programma e soprattutto con una maggioranza più ampia e allargata all´Udc. Pena il ritiro della delegazione del Fli dall´esecutivo.
Quello di Fini è stato, innanzi tutto, un atto di coraggio politico. Non era facile, per l´erede di Giorgio Almirante, consumare fino in fondo la rottura con l´alleato che, dal 1994, ha definitivamente sdoganato la destra post-missina nell´arco costituzionale, ha fatto entrare An nella stanza dei bottoni e il suo capo nell´ufficio di presidenza della Camera dei deputati. Non era scontato, per il co-fondatore del Pdl, decretarne unilateralmente la definitiva bancarotta politica, addebitandone tutta intera la responsabilità al fondatore. Era il 17 novembre di tre anni fa, a Piazza San Babila, quando il Cavaliere lanciava la Rivoluzione del Predellino. Non erano le "comiche finali", come le liquidò troppo frettolosamente lo stesso Fini. Era invece l´inizio di una "commedia politica" che lui stesso avrebbe contribuito a rappresentare nei molti mesi successivi, dentro il Partito del popolo delle Libertà. Ma oggi è proprio questo progetto che è fallito, perché non è stato capace di dare anima e corpo alla "rivoluzione liberale" che aveva promesso, e perché ha esaurito la sua missione nel momento in cui ha costruito se stesso sull´illusione che l´intera destra italiana potesse riflettersi e riassumersi in Silvio Berlusconi, e che tutto il resto fosse un orpello ridondante, quando produceva condivisione, o un intralcio ingombrante, quando esprimeva dissenso. Fini lo ha capito e lo ha detto, facendo mea culpa. L´uomo è il messaggio: su questa scorciatoia falsamente carismatica e smaccatamente populista è fallito il Pdl.
E con il partito è fallito il governo. Non "governo del fare", piuttosto "governo del fare finta". Governo che "non ha più il polso del Paese", che galleggia sulle emergenze, che "vive alla giornata". Senza vedere, ma anzi spesso contribuendo a creare l´indebolimento dell´identità nazionale, la caduta della coesione sociale, il crollo di competitività dell´economia, la diffusione della cultura dell´arbitrio e dell´illegalità, il decadimento morale e la perdita di decoro delle istituzioni infangate dal Ruby-gate. Di nuovo: Fini lo ha capito e lo ha detto, denunciando lo scandalo pubblico che interroga e pregiudica la nostra democrazia. Raccontando agli italiani tutto quello che sta accadendo sotto i loro occhi, e che solo un sistema televisivo addomesticato dal regime finge di non vedere e si sforza di nascondere. E ha avuto la forza di dire basta.
Ma quello di Fini è stato anche un atto di posizionamento strategico. Il leader futurista sapeva di correre un rischio mortale. Che il suo obiettivo di "staccare la spina" al governo, cioè, potesse esser letto come una banale manovra di palazzo. Una disinvolta forma di "intelligenza col nemico", per far fuori il "Tiranno" e sostituire il suo governo con una nuova e un po´ spuria "macchina da guerra" guidata da molte, troppe mani: Fli e Pd, Udc e Idv, Mpa e Sinistra e Libertà. Una specie di "Cln", che desse effettivamente corso a un atteso 25 aprile, ma che avesse un respiro troppo corto e un orizzonte troppo confuso. Anche su questo, Fini ha mostrato coraggio, raccogliendo una sfida allo stesso tempo più circoscritta, ma più alta. La sfida è più circoscritta, perché il presidente della Camera ha tracciato con nettezza assoluta i confini di una forza politica, la sua, che nasce, cresce e si consolida rigorosamente nella metà campo del centrodestra. Certo, un centrodestra che si rifà al popolarismo europeo, e dunque costituzionale, repubblicano, laico. Ma pur sempre un centrodestra. Cioè una forza politica che rivendica i suoi valori fondativi, e che per questo non vuole essere né la zattera di tutti i naufraghi dell´indistinto anti-berlusconiano.
Ma la sfida è anche più alta. Quando ripete che Futuro e Libertà è una formazione che punta a raccogliere il consenso dei moderati italiani, confermando che la sua costituency politica è e resta la destra italiana e che a quel mondo vuole parlare e in quel mondo vuole prendere voti, Fini osa l´inosabile. Si candida ad esserne il leader. Dunque il prudente Gianfranco, sempre incline all´attacco e poi al ripiegamento, stavolta rompe gli ormeggi. E si lancia subito, qui ed ora, "oltre Berlusconi". È un passaggio cruciale. Che lo vedrà in mare aperto, forse a navigare insieme ai Bersani e ai Di Pietro contro il "vascello fantasma" del Cavaliere. Ma è e resta pur sempre un passaggio provvisorio. Affondata la nave berlusconiana, Fini riprenderà la sua rotta, che è quella di dare forma e sostanza a "un´altra destra" italiana, finalmente risolta e compiutamente europea. Apertamente anti-leghista e naturalmente post-berlusconiana. È importante che il leader futurista l´abbia chiarito. Per sgombrare il campo dagli equivoci, sul durante e sul dopo crisi di governo. Ci potrà essere un nuovo esecutivo, tecnico, istituzionale, di salute pubblica, sostenuto da una maggioranza eterogenea che vari una nuova legge elettorale e tenga salda la barra del timone dell´economia. Ma sarà molto più difficile che, in caso di voto anticipato e sotto le stesse insegne multi-partitiche, nasca un "cartello elettorale" che veda insieme Fini da una parte, e i Vendola, i Ferrero e i Bonelli dall´altra.
Vedremo ora come, quando e dove precipiterà la rottura. Il premier non può accettare l´ultimatum finiano, che lo inchioda ben al di là del "compitino dei cinque punti" richiesto in Parlamento agli "scolaretti" del centrodestra. Per questo ha già risposto picche. Sia pure chiedendo, com´è logico e giusto, che l´eutanasia del governo si realizzi comunque in Parlamento. Andreottianamente parlando: Berlusconi non può più tirare a campare, può solo tirare le cuoia. Capiremo presto se dopo la crisi arriveranno altri governi o elezioni anticipate. Nel frattempo ci sarebbe da brindare a champagne, a questo 25 aprile imminente. Ma c´è poco da festeggiare: il "conto" di questi rovinosi due anni e mezzo, purtroppo, li ha pagati e li pagherà l´Italia.

Repubblica 8.11.10
Se nessuno ricorda cos´era "Giovinezza"
di Mario Pirani


L´indecorosa iniziativa di far suonare a Sanremo «Giovinezza» e «Bella ciao» è stata saggiamente bloccata dal CdA della Rai, eppur tuttavia sento il bisogno di spendere ancora qualche parola perché il tentativo rivela, a me pare, qualcosa di più pericoloso di una vassallata in chiave musicale. I commenti che abbiamo letto, tranne quello di Michele Serra e di pochissimi altri che si sono soffermati sull´inammissibilità della ricorrente equiparazione tra nazi-fascisti e patrioti, ebbene quasi tutti gli altri hanno affrontato «il montare della piccola polemica sanremese», come una inutile «querelle». Il culmine della faccia tosta lo ha toccato il ministro della Difesa, La Russa, che «in nome dei milioni d´italiani» i quali durante il ventennio intonarono «Giovinezza» ha proclamato di «non avere più la coda di paglia». Certamente se non la coda di paglia denota il sollievo di chi, ormai libero di rinnegare il lavacro di Fiuggi, può di nuovo inalberare i simboli del regime mussoliniano. Non sarà Berlusconi a redarguirlo.
Ma il discorso non si ferma qui. Quanti hanno parlato di «inno goliardico», di un revival sonoro dove accanto a «Potessi avere mille lire al mese» andavano ascoltati con lo stesso spirito i «refrain» dei giovani fascisti e i cori partigiani, ebbene costoro, fra cui tanti probabilmente in buona fede, non sapevano quel che andavano dicendo, perché nati poco prima o dopo la caduta del regime. Mentre oggi, in realtà, solo gli ultra ottantenni, per averla ai loro tempi ascoltata obbligatoriamente in piedi e sull´attenti sanno che «Giovinezza» non era affatto una canzone giovanilistica ma l´inno nazionale dell´Italia fascista, le cui note risuonavano in ogni occasione ufficiale, immediatamente in sequenza dopo le prime battute della «Marcia reale», che fungeva da brevissima ouverture. Per aver rifiutato di eseguirla alla Scala e al Comunale di Bologna, Arturo Toscanini – come ha ricordato Vittorio Emiliani in una lettera a "Repubblica" – venne schiaffeggiato dalle camicie nere e per protesta emigrò negli Stati Uniti. Voler reintrodurre «Giovinezza» non è, quindi, prova di vacua leggerezza ma un artifizio per presentare un paradigma politico mass-mediatico che tende a riportare in auge i simboli, gli inni e quant´altro è recuperabile in chiave fascista, al fine di distinguere Storace e gli ex colonnelli, dal «traditore» Fini. In questo quadro gli inni, le celebrazioni della X Mas, le lezioni di negazionismo e quant´altro fanno parte di una squallida messa in scena ad uso politico. Un paragone su cui riflettere è quello tedesco. Anche a Berlino l´avvento di Hitler segnò una variazione nell´inno nazionale. Il «Deutschland, Deutschland ueber alles» («Germania, Germania sopra ogni cosa»), su musica composta da Haydn, dopo il 1933 venne accompagnato, in sequenza a mo´ di completamento politico, dallo «Horst-Wessel-Lied», il canto delle SS e del partito nazista, assurto anch´esso al rango di inno nazionale. Dopo la disfatta di Hitler la Repubblica federale adottò il vecchio Deutschlandlied, vietandone, però, la prima strofa, quella della Germania «sopra tutti nel mondo», cantare la quale è considerato reato, così come è considerato reato, non solo ogni forma di ricostituzione di un partito nazista, ma anche il saluto a braccio teso e l´esposizione di ogni simbolo evocante il regime ed i suoi organi. Fin nei dettagli: i modellini degli aerei del Reich della Seconda guerra mondiale, costruiti in GB e in Usa, portano in tutto il mondo la svastica sul timone, tranne quelli destinati al mercato tedesco, dove la vendita con l´insegna hitleriana è proibita. Come è noto la Germania è un paese serio e la democrazia è vissuta anche come un dovere. Così la grande maggioranza degli elettori, per quanto moderati, non tollera connubi con le formazioni di estrema destra. e crede nell´art. 1 della Costituzione che recita: «La dignità della persona umana è inviolabile e al suo rispetto va subordinato l´esercizio di ogni potere».

Repubblica 8.11.10
Pompei a rischio possibili nuovi crolli
di Cristina Zagaria


POMPEI - Il disastro della Domus dei Gladiatori potrebbe non rimanere isolato. «A Pompei nuovi crolli potrebbero riguardare altri edifici, soprattutto nella parte dell´area archeologica che si affaccia sulle zone scoperte e non ancora restaurate», ha spiegato ieri Sandro Bondi, annunciando che riferirà al Parlamento sull´accaduto. Il ministro per i Beni culturali ha anche risposto alle critiche anche dal presidente Napolitano: «Se avessi la certezza di avere responsabilità in quanto accaduto mi dimetterei. Ma rivendico invece il grande lavoro fatto».

Il ministro Bondi piomba a Pompei, per un sopralluogo sui resti della Domus dei Gladiatori crollata e sul sito archeologico. Spiega le cause del cedimento e cerca di limitare i danni, almeno quelli di immagine. «Le cause sono chiare: le infiltrazioni d´acqua e un restauro effettuato negli anni ‘50 con una copertura di cemento armato. Forse gli affreschi si potranno recuperare e si potrà perfino ricostruire l´edificio della Schola Armaturarum», spiega. Ma, mentre il ministro, preceduto dai tecnici, cammina per la strada dell´Abbondanza, un gruppetto di operatori, a viso duro, cerca lo scontro: «Vergogna. Dimettiti. Qui cade tutto a pezzi». Il ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi va avanti e li ignora. Poi, in conferenza, al «vergogna» del presidente della Repubblica e all´eco degli operatori di Pompei risponde: «Se avessi la certezza di avere delle responsabilità nell´accaduto, mi dimetterei. Riferirò subito in parlamento». Rassicurazioni a parte resta il problema della manutenzione dei circa 1500 edifici del sito archeologico. E lo stesso Bondi deve ammettere: «Sono possibili altri crolli soprattutto nella parte che si affaccia sulle case scoperte e non ancora restaurate». Il ministro annuncia un piano straordinario per la manutenzione degli edifici pompeiani e un gruppo di lavoro scientifico per affiancare la Sovrintendenza (retta ad interim fino al 31 dicembre da Jeannette Papadopoulos). Nega che i problemi di gestione siano legati alle scarse risorse («dai visitatori Pompei ricava 20-25 milioni all´anno. Forse non si usano bene»). Rilancia l´idea di aprire ai privati la gestione dei Beni culturali. E pensa di affiancare ai Sovrintendenti «nuove figure professionali». «No a commissari, leggi speciali e stanziamenti d´emergenza, ma nuovi finanziamenti strutturali con la prossima Finanziaria», chiede, invece, il Fai. Intanto nel sito archeologico di Pompei molti dei progetti avviati, come quello per facilitare l´accesso ai disabili e contro il randagismo, non sono più operativi. Due uffici turistici su tre d´inverno sono chiusi. Gli affreschi non sono protetti e all´ingresso dell´Anfiteatro spiccano, abbandonate, le due strutture in plexiglas realizzate quest´estate per ospitare una mostra dalla Protezione civile.

Repubblica 8.11.10
Sotto le ceneri di Pompei
In una giornata affollata di turisti tra le macerie della Schola Armaturarum coperte con un lenzuolo. Così muore il capolavoro romano
di Conchita Sannino


Viaggio nel cuore malato dell´antica Pompei il giorno dopo il crollo della Schola Armaturarum. Tra muri puntellati e affreschi esposti alle intemperie, cavi elettrici abbandonati ai margini del Foro e mute di cani randagi che scorrazzano lungo le insule. Il campionario del degrado è vasto. E a poco servono i ritocchi all´immagine e le promozioni prodotte dalla gestione commissariale della Protezione civile Le ultime rovine sono state coperte con un lenzuolo, come le vittime di una mattanza Nel sito la gestione emergenziale promette ovunque servizi che non ci sono ancora

Macerie sotto copertura. Hanno adagiato tre teli bianchi sul disastro che non ha responsabili. Una coltre troppo sottile occulta la vergogna di Pompei, come il lenzuolo che, dopo un agguato, nasconde il rivolo di sangue di una comunità colpita.Ma la macchia bianca stesa in via dell´Abbondanza, nel cuore dell´antica Pompei dove quarantotto ore fa si è sfarinata la Schola Armaturarum -trascinandosi dietro nodi e contraddizioni di una gestione emergenziale targata Protezione civile o inefficace o inutile- ormai fa il contrario: distingue e separa le rovine fresche di incuria ed omissioni da quelle pietosamente lasciate dalla natura. E segnala altri dieci, cento cedimenti che si affacciano dalle colonne sghembe e dai muri puntellati proprio di fronte ala Porta di Stabia. Il crollo fa da richiamo alle transenne in legno fradicio o ai graffiti originari ancora esposti alle intemperie a ridosso di via della Fortuna. Rende più evidenti i cinquemila metri quadri di edifici puntellati di case importanti come quella dei Vetti, illumina gli isolati attraversati da crepe, i cavi elettrici dei vecchi impianti lasciati ai margini del grande Foro, per non parlare delle mute di cani che continuano a scorrazzare rabbiosi lungo le insule e alle calcagna dei visitatori, campionario di un degrado spalmato ma vario.
E di rischi trattenuti già a lungo sotto lo stesso cielo archeologico, su cui si posa adesso la carezza autoassolutoria di un ministro. «Ma perché le pietre di un cedimento archeologico sono coperte? Forse per nascondere i pezzetti di affreschi, per raccontare balle? Mah, sarebbe come se a L´Aquila avessero coperto le macerie», sbotta un esigente Pietro Armeni, veneto, al seguito di famiglia ed amici, uno dei 3770 visitatori di ieri, una media ben inferiore agli altri mesi autunnali e agli altri periodi storici. Ma certo: per il fato ostile di un giorno, colpa dell´inverno malinconico che sembra d´un tratto non rispondere più alle invitanti rappresentazioni di Pompei risorta, come dovevano attestare i 79 milioni di euro spesi negli ultimi due anni e mezzo. Denaro mirato in gran parte su spettacolari concerti, iniziative di promozioni, efficaci promozioni, assai meno per il monitoraggio dei rischi e la messa in sicurezza del sito. È oltre queste transenne che, in una domenica livida, i turisti assaporano il gusto di affacciarsi su macerie millenarie e insieme freschissime. Chissà che lì intorno, anzi lì sotto, nella vertigine tra i crolli di ieri e di oggi, non si aggiri furioso il fantasma di Crescenzio, gladiatore cui inneggiavano le scritte sui muri "parlanti" della città antica, lo stesso atleta che l´eruzione avrebbe sorpreso con la nota dama dal collier di smeraldi, ingioiellata di troppi monili per essere lì, alla settima ora, più o meno l´una del pomeriggio del 24 agosto dopo Cristo, nel quadriportico di Porta di Stabia. Lo racconta anche ieri Mattia Buondonno, la guida dei record, il "Philipe Leroy" degli Scavi che suscita le emozioni dei visitatori illustri, da Bill Clinton al lupanare a Mel Gibson che gli parla in aramaico, da Meryl Streep al matematico Nash che gli faceva, in ogni casa, sempre la stessa domanda.
Ma è abbacchiato anche lui, stavolta. Dallo stesso ingresso da cui, ogni giorno, "Philipe Leroy" dipana la sua favola per cultori e turisti, comincia invece una storia triste, forse preoccupante. Partendo dal Teatro Grande furiosamente rifatto in pochi giorni e tante notti di lavoro dallo staff della Protezione civile. La visita al cuore malato di Pompei.
Proprio a ridosso del teatro, ecco lo spreco e l´abbandono, insieme. Lo spreco di quei grandi prefabbricati trasformati in eterni camerini per attori, lasciati lì, impatto non sostenibile al costo di alcuni milioni di euro, che adesso insistono sull´area del Quadriportico. L´abbandono è quello, a pochissimi metri, dei graffiti antichi, uno di un gladiatore, l´altro raffigura una nave, che stanno sui muri come duemila anni fa: zero copertura sulla parete, zero protezione. Ancora più avanti, prima di svoltare sulla via di Stabia, ecco le assi di legno che chiudono alcuni accessi, sghembe, pericolose, chiodi in evidenza. Sono anomalie su cui indaga, da tre mesi, la Procura della Repubblica di Torre Annunziata. Che stamane, tra l´altro, aprirà un fascicolo «dovuto» sul crollo della Schola Armaturarum. «Il disastro riporta con i piedi per terra lo Stato, ammesso che lo voglia vedere - spiega Biagio De Felice, architetto, voce della Cgil nel grande parco archeologico -. Ci avevano imposto finora la Pompei delle emergenze, poi quella delle apparenze, con decine di milioni spesi nella sola comunicazione. Qui non si tratta di individuare capri espiatori, perché la gestione della Protezione civile, tra sprechi e opinabilissime scelte, ha migliorato alcuni servizi. Qui si tratta di capire quali sono le priorità e a quale prezzo "vendere", o fingere di vendere, il prodotto Pompei. E infine: a beneficio di chi?».
Il denaro speso in questi anni, a sentire De Felice, «ha svuotato la cassa della Soprintendenza, non un soldo dal governo». Prima le gare ad evidenza pubblica dell´allora commissario Renato Profili, l´anziano prefetto poi "destituito" senza motivazioni ufficiali e morto un anno fa; poi la gestione del supercommissario Marcello Fiori e del suo gruppo, uno staff non privo di competenze irrituali, come quella del geometra Nicola Mercurio, già autista del ras del Pdl campano, Nicola Cosentino, e poi capogruppo di quel partito nel piccolo centro di Sant´Antonio Abate, dove almeno grazie a Mercurio arrivavano un po´ di fondi per i resti romani dell´antica Villa in paese. Pazienza se gli archeologici avevano immaginato addirittura di seppellirlo di nuovo, quel sito, pur di non disperdere i fondi in troppi rivoli.
Invece. «Pompei viva», recita continuamente la scritta scolpita nel bronzo dei cancelli nuovi, levigati e bruniti, sugli ingressi di casa del Menandro o dei Casti Amanti, uno slogan che resta il timbro della gestione commissariale, dei poteri in deroga e di una managerialità controversa sulla gestione di materia delicata come la città disabitata, eppure viva, dei pompeiani. Ma basta inoltrarsi lungo gli altissimi lastroni, avanzare sul cocciopesto vero delle antiche dimore o su quello finto prodotto dallo staff dell´ultima gestione romana, e ti accorgi che le Pompei sono due, almeno. Una è la versione patinata, un po´ hollywood, un po´ Adro per via di quel simbolo «Pompei Viva» ripetuto ossessivamente sugli spazi riaperti, stesso titolo della Fondazione (omonima) che non c´è ancora, e di un pacchetto di distinte e affascinanti fruizioni che non ci sono (ancora). L´altra, è la Pompei che si ripiega, a rischio di sbriciolamento.
Alla Regio VI, tredicesima insula, altre quattro assi in legno fradicio ostruiscono il passaggio a una casa. Otto metri oltre, è l´insula XII a denunciare il bisogno di consolidamento: la lunga colonna che sostiene il piano superiore appare gravemente lesionata, il blocco appare letteralmente spaccato in più parti eppure miracolosamente regge: sta in piedi grazie alla forza di gravità che ne impedisce il collasso orizzontale. Ma se arrivasse una scossa di terremoto, neanche tanto elevata di grado, sicuramente queste pietre rotolerebbero giù. Per fortuna, il vulcano non gioca.

Repubblica 8.11.10
Il dovere di salvarla per i nostri figli
di Robert Harris


La notizia che a Pompei è crollata la casa dei gladiatori mi ha scioccato e mi ha fatto orrore. Ma non mi ha sorpreso.
Una città che ti strega e ti cambia per sempre. Ma si deve intervenire per salvarla dal degrado

È tanto tempo che venivano lanciati allarmi su un simile rischio per numerosi edifici di questa città che è la più impressionante testimonianza rimasta dell´epoca romana. Evidentemente le autorità non hanno preso le misure necessarie, nonostante il pericolo fosse ben chiaro. Il paradosso di Pompei è che essa è rimasta perfettamente conservata fino a che l´uomo l´ha lasciata sepolta sotto le ceneri e la terra; poi, quando l´abbiamo riscoperta e fatta riapparire alla luce del sole, ha iniziato a dissolversi. Siamo così di fronte a un dilemma: più gente visita Pompei, più Pompei viene distrutta.
Occorre dunque trovare un equilibrio tra il desiderio e direi la necessità di visitare queste magnifiche vestigia del passato, e l´esigenza di preservarle per sempre o perlomeno il più a lungo possibile, per le generazioni future. Milioni di persone visitano Pompei ogni anno. Credo in effetti che sia il sito archeologico più visitato del mondo. Sarebbe ingiusto impedire questa curiosità, questa voglia di apprendere da dove veniamo, come eravamo, così utile per comprendere chi siamo oggi. Ma occorre proteggere meglio Pompei, con iniziative di intervento conservazionista sulle sue rovine, e forse anche ripensando il modo in cui il luogo è aperto al pubblico. Può darsi che non sia più proponibile permettere un accesso illimitato a qualsiasi ora, consentire alla gente di muoversi liberamente, per le strade dell´antica città. Può darsi che sia venuto il momento di regolare l´accesso stabilendo quote numeriche per le diverse fasce orarie della giornata e visite guidate su determinati percorsi.
Io stesso ho visitato Pompei molte volte, per interesse personale e per preparare il mio romanzo che porta il nome della città. Ho passato lunghe ore nelle sue strade. Ho imparato a conoscerla bene, come una città ancora viva. È un luogo magico, incantato. È impossibile non sentirsi emozionati e direi anche cambiati, dopo averla visitata. Ed è utile visitarla, specialmente per i bambini e gli studenti in genere, è il modo migliore per incoraggiare lo studio della storia, la conoscenza del passato. Però, ripeto, nei dieci anni in cui ho frequentato assiduamente Pompei, ho sentito continuamente storie sul pericolo che potesse crollare e gradualmente scomparire. Bisognava fare qualcosa prima che accadesse. È urgente fare qualcosa adesso, dopo questo crollo.
Sono arrivato a immaginare un romanzo su Pompei in via obliqua. Volevo in realtà scrivere un libro sugli Stati Uniti, su come una grande potenza, la più grande superpotenza della terra, si senta invulnerabile, ma sia in realtà vulnerabile ugualmente, sottoposta alle leggi della natura e a minacce di altra natura. Era prima dell´attacco terroristico dell´11 settembre. Cominciai a scrivere quel libro, ma non mi convinceva. Poi ebbi l´idea di affrontare lo stesso tema in modo allegorico, parlando della più grande superpotenza dell´antichità, l´Impero romano, e della tragica fine di Pompei vista come un segnale di fragilità, un sintomo di quella decadenza che poi sarebbe venuta anche per Roma. Visitandola, ho scoperto quanto fosse avanzata la civiltà romana. Quanto Pompei fosse simile a una città moderna, avendone in effetti tutti gli aspetti, tutte le caratteristiche.
Il mio romanzo ha avuto successo, è stato tradotto in tante lingue. Sicché in un certo senso mi sento responsabile anch´io di avere creato ancora più curiosità per Pompei, di avere spinto altra gente a visitarla e in tal modo a renderla più fragile, più esposta. Ma non si può negare alle nuove generazioni di conoscerla Dobbiamo, tuttavia, fare in modo che possano visitarla anche i nostri figli e i figli dei nostri figli, e coloro che verranno dopo. La buona notizia è che gli scavi non hanno fatto emergere tutta Pompei, ce n´è una parte ancora sepolta, nascosta. Lasciamola lì, in attesa che nuovi metodi di conservazione vengano scoperti, affinché Pompei possa continuare a esistere anche nel futuro.
(testo raccolto da Enrico Franceschini)
Robert Harris è l´autore di Pompei edito in Italia da Mondadori

l’Unità 8.11.10
La denuncia di una Ong che si occupa di infanzia: censiti 38 casi di attacchi violenti su minori
Bambini palestinesi uccisi e abusati Rapporto shock sui coloni israeliani
Le violenze sessuali.Sono il 4% dei casi Per i colpevoli completa impunità
di Umberto De Giovannangeli


Pestaggi, attacchi armati, abusi sessuali. È agghiacciante il quadro tracciato dall’Ong Defence for Children. Il rapporto prende in esame il biennio 2008-2010. Almeno 38 casi di violenza. Tre bimbi uccisi.

I palestinesi come Nemici mortali. E non importa se il nemico è un ragazzo o un bambino. Vanno colpiti, se possibile eliminati. Agghiacciante. Documentato. Si moltiplicano le denunce di aggressioni compiute da coloni israeliani contro ragazzi e bambini palestinesi in Cisgiordania. A rivelarlo è un rapporto di Defence for Children International (Dci), un'organizzazione non governativa (ong) che si occupa di diritti umani e tutela dell'infanzia. Nel rapporto, che l'Unità ha potuto visionare in anteprima nella sua interezza, si sottolinea come all'aumento della violenza corrisponda l'impunità pressoché totale dei responsabili.
BIENNIO NERO
Stando al rapporto, che prende in esame la situazione dell'ultimo biennio, dal 2008 sono almeno 38 gli episodi censiti di attacchi violenti perpetrati da coloni contro minorenni palestinesi, con un bilancio di tre ragazzi uccisi e alcune decine di feriti. In 13 circostanze risulta che i coloni abbiano usato anche armi da fuoco, mentre in una minoranza di casi (otto) i fatti si sarebbero svolti sotto gli occhi (e talora con la complicità) di soldati israeliani presenti sul posto. Le aggressioni, a quanto ha potuto accertare l'ong, sono concentrate soprattutto nella zona di Hebron e di Nablus, roccaforti degli insediamenti più militanti inseriti nella galassia dell'ideologia ultranazionalista ebraica. Gli autori del rapporto riferiscono delle preoccupazioni manifestate anche dalle autorità civili o militari israeliani per alcune delle aggressioni più clamorose, ma notano come nessuno dei 38 episodi descritti abbia trovato finora un qualsiasi colpevole condannato in tribunale.
Un ragazzo di quindici anni, Mohammed, e suo fratello Bilal, di un anno maggiore, sono stati arrestati a casa loro alle due di notte. Decine di poliziotti erano andati a cercarli, col viso coperto e nascosti tutt' intorno alla casa. Mohammed, dopo essere stato minacciato e picchiato per quattro ore, ha finito per ammettere di essere effettivamente colpevole... colpevole di aver lanciato delle pietre contro i cani dei coloni ebrei insediati dall'altra parte della strada. È stato per questo condannato a sette mesi di prigione. Suo fratello, Bilal, in seguito all'interrogatorio, è stato ricoverato in ospedale per le contusioni interne riportate ed è stato condannato a un anno di prigione per avere lanciato sassi contro le case dei coloni. Un'altra storia emblematica è quella di Mufid Mansur, un bambino palestinese di 8 anni che era stato investito, l'8 ottobre, da un colono israeliano mentre lanciava pietre contro la sua auto. Quattro giorni dopo, il bimbo è stato prelevato all'alba dalla sua abitazione di Silwan, quartiere periferico di Gerusalemme Est abitato da arabi, ed è stato impedito al padre di accompagnarlo in commissariato. Mufid era stato investito nei giorni scorsi mentre colpiva con delle pietre l'auto di David Beeri, leader di un'organizzazione di estrema destra israeliana, il quale dopo l'incidente è stato fermato e poi rilasciato dalla polizia. Il colono si è giustificato sostenendo di aver investito il bimbo involontariamente, per cercare di sfuggire alla sassaiola di alcuni ragazzini contro la sua vettura. Il padre del bambino aveva invece detto che il bambino non aveva fatto in tempo a scansarsi dalla strada mentre l'auto procedeva ad alta velocità.
CENTO CASI
Solo nel 2009, Dci ha investigato su 100 dichiarazioni sotto giuramento rilasciate da bambini palestinesi: il 97% dei bambini hanno dichiarato di avere avuto le mani legate durante gli interrogatori; il 92% hanno detto che avevano gli occhi bendati o che era stato messo loro un cappuccio nero; l'81% hanno detto di essere stati forzati a confessare;69% hanno detto di essere stati picchiati e di aver ricevuto dei calci; il 65% che erano stati arrestati tra la mezzanotte e le 4 del mattino; il 50% di essere stati insultati; il 49% che erano stati minacciati o avevano tentato di persuaderli; il 32% sono stati obbligati a firmare delle confessioni scritte in ebraico, lingua che essi non comprendevano; il 26% hanno detto che erano stati obbligati a restare in una posizione assai penosa; il 14% hanno detto di essere stati tenuti in isolamento; il 12% sono stati minacciati di abusi sessuali;
E il 4% è stato vittima di abusi sessuali, come quello di stringere loro i testicoli fino alla confessione o di minacciare dei bambini di 13 anni di stupro se avessero rifiutato di confessare «di aver lanciato pietre sulle auto dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata». Nel maggio 2010, Defence for Children International ha chiesto al Rapporteur speciale dell’ONU sulla tortura di aprire un’inchiesta su 14 casi di abusi sessuali dei quali avevano avuto conoscenza e che erano stati commessi da soldati, investigatori e poliziotti dal gennaio 2009 ad aprile 2010. I bambini vittime di questi abusi avevano da 13 a 16 anni ed erano stati arrestati per aver lanciato pietre che non avevano ferito nessuno.

Corriere della Sera 8.11.10
Frontiere aperte ad albanesi e bosniaci
di Luigi Ofeddu


Oggi la decisione dei ministri degli Interni della Comunità europea. Basterà un passaporto valido
Da dicembre non avranno più bisogno del visto, come avvenne per i romeni nel 2007

BRUXELLES — Il linguaggio burocratico non è certo dei più seducenti: dice che oggi e domani alle ore 10 si terrà a Bruxelles la riunione n.3043 del Giai, il consiglio che raccoglie i 27 ministri degli Interni della Ue. Primo punto all’ordine del giorno, la bozza «di emendamento al Regolamento Ue n.539/2001 che elenca i Paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso di visto quando varcano i confini esterni, e quelli i cui cittadini sono invece esenti da tale requisito».
Frasi in codice, quasi. Ma dietro il gergo piatto piatto comune a tutte le burocrazie, la notizia c’è, eccome: fra oggi e domani un’altra piccola (grande) porta dovrebbe aprirsi nel bastione dell’Unione Europea; quella stessa riunione del Giai dovrebbe infatti abolire l’obbligo del visto per i cittadini albanesi e bosniaci che intendano viaggiare nei Paesi dello spazio definito dagli accordi di Schengen. Cioè in tutti i Paesi Ue, escluse Irlanda e Gran Bretagna (che da tempo si sono ritagliate un loro spazio giuridico autonomo), e comprese invece Norvegia, Islanda, e Svizzera, che comunque sono considerate parte dello spazio economico e legislativo della Ue.
Formalizzata la decisione politica, la misura entrerà poi tecnicamente in vigore alla vigilia di Natale. In due parole: da quel momento, i viaggiatori di nazionalità bosniaca e albanese in possesso di un valido passaporto digitale — come già da prima serbi, macedoni e montenegrini — potranno entrare in un qualunque Paese Schengen senza più dover passare prima alla relativa ambasciata, e potranno trattenersi fino a 3 mesi per un soggiorno di tipo turistico o anche svolgendo un lavoro temporaneo. È la stessa decisione che nel gennaio 2007 divenne operativa per i cittadini romeni e bulgari, con il ciclone di polemiche che ne seguì per gli sviluppi politici e di cronaca legati alle migrazioni delle comunità Rom, soprattutto in Francia e in Italia. Era il 3 gennaio 2007, quando in Italia una circolare del ministero dell’Interno v e nne di f f us a con un «telegramma urgentissimo» a tutti i questori e prefetti: «…Si forniscono gli ulteriori elementi informativi di carattere operativo. Dalla predetta data i cittadini romeni e bulgari non potranno essere più considerati "stranieri"…».
Oggi, il quadro sembra sensibilmente diverso. Romania e Bulgaria, nel 2007, erano appena diventate Stati-membri della Ue mentre Albania e Bosnia non lo sono ancora, e secondo le autorità di polizia europee ancora non hanno adempiuto completamente agli impegni in tema di lotta alla corruzione e di rafforzamento dei diritti umani (anche se l’Europarlamento, all’inizio di ottobre, si è detto certo del contrario). Bruxelles ha deciso di accelerare ugualmente i tempi anche su impulso della «locomotiva» d’Europa, la Germania, che ha ormai consolidato in tutti i Balcani una massiccia presenza economica. Sono state compiute una serie di verifiche presso i ministeri degli Interni, e si è concluso che le conseguenze della nuova apertura potranno essere solo positive. Non c’è unanimità, naturalmente, in questa decisione, e il voto di oggi dovrebbe essere preso a maggioranza. Contraria è la Francia, con altri Paesi che per ora non vengono allo scoperto: sono tutti quei Paesi che temono una nuova ondata di profughi più o meno permanenti. Ma la speranza di Bruxelles è che, soprattutto per la Bosnia, il cancello che si apre sul resto del continente possa contribuire anche alla stabilizzazione interna del Paese.
Il tema è delicato, una sfida per tutti. A ottobre, nel dare il suo «sì» con 538 voti a favore e appena 47 contrari (più 41 astensioni) l’Europarlamento attraverso la sua relatrice Tanja Fajon concluse che questa decisione «rafforzerà la fiducia fra la gente e accelererà le riforme». E che «è il momento di inviare un messaggio positivo a questi Paesi, abbattendo le mura del visto... la gente lo merita più che mai. E poi, un giorno o l’altro, verrà anche il momento di affrontare — sul piano politico, non solo militare — il nodo più scottante di tutti i Balcani, il rompicapo chiamato Kosovo.

Corriere della Sera 8.11.10
Dalla quattordicesima settimana
La «diretta» sui gemelli: si tengono compagnia già prima di nascere
di Mario Pappagallo


Per gli psicologi la spiccata natura sociale dell’uomo si caratterizza fin dalla nascita. In realtà comincia prima. La specie umana inizia a interagire con gli altri già dal grembo materno. Alla 14 settimana di gestazione un feto sarebbe in grado di avvertire la differenza tra sé e la parete uterina o tra sé e l’eventuale gemello con cui condivide quel primo spazio sociale. L’«animale politico» aristotelico avvia subito la perlustrazione. Tocca in modo diverso il suo viso rispetto a quello del feto gemello, che quasi accarezza. Consapevole di un’altra presenza. E’ capace di emozioni? Questo non è possibile stabilirlo. Il lavoro scientifico, italiano, per ora ha registrato le prime socializzazioni neuro-motorie.
Un lavoro pubblicato dalla rivista scientifica PLos One. Il gruppo di ricerca era coordinato da Umberto Castiello (docente di psicobiologia a Padova). Coautori: Vittorio Gallese (docente di fisiologia umana a Parma, tra gli scopritori dei neuroni specchio) e Cristina Becchio (università di Torino).
Che hanno visto? Che l’interazione con i nostri simili può cominciare già nel grembo materno, quando ci si trovi «in compagnia» come accade ai gemelli. E che avviene più in ritardo per i feti singoli, che non hanno modo di socializzare: 8 settimane dopo rispetto ai gemelli. Inoltre: con il progredire della gravidanza, i movimenti «sociali» tendono ad incrementare rispetto a quelli verso sé stessi.
«La tecnica utilizzata — spiega Castiello — è innovativa: si basa sull’applicazione dell’analisi cinematica. I movimenti fetali sono stati ripresi con l’ecografia quadridimensionale (4D), che consente di osservare i movimenti nel tempo». Dieci i gemelli studiati. «Quando abbiamo intrapreso la ricerca, sapevamo già che dopo 11 settimane i feti cominciano a toccare — dice Cristina Becchio —. Dovevamo stabilire se questi contatti fisici erano casuali o se pianificati e controllati». Uno dei parametri essenziali è la decelerazione. Spiega Gallese: «Il rallentamento del gesto è indice di un movimento più controllato e accurato».
Nel film dei ricercatori le immagini parlano da sole: i feti gemelli si accarezzano. Lo studio dei movimenti prenatali correlati con quelli dopo la nascita apre, infine, nuove frontiere scientifiche. «Per esempio la diagnosi precoce di malattie comportamentali come l’autismo», è l’idea di Gallese.

Repubblica 8.11.10
Ginevra, la prima volta del Big Bang in miniatura
Migliaia di miliardi di gradi: la temperatura dei primi istanti dell´universo ricreata in laboratorio
Successo del test nel più grande acceleratore di particelle del mondo
di Elena Dusi


ROMA - Il Big Bang è una fontana di colori. O almeno così lo ha dipinto l´ultimo esperimento del Cern, il più incredibile per le energie raggiunte e il più ambizioso perché getta lo sguardo proprio al centro di quel caos primordiale.
La "grande esplosione" è stata riprodotta, ma in miniatura: nello spazio occupato da un nucleo di atomo. In questo punto cento metri sotto terra e a poca da distanza da Ginevra, l´acceleratore di particelle Lhc (Large hadron collider) ha iniziato ieri a far scontrare nuclei di atomi di piombo. Elementi così pesanti, ricchi di protoni e neutroni, quando entrano in contatto a una velocità quasi uguale a quella della luce si fondono, liberando i mattoni più piccoli della materia (quark e gluoni) in una "zuppa" di migliaia di miliardi di gradi che è esistita solo fino a 10 milionesimi di secondo dopo il Big Bang. Poi tutto si è raffreddato ed è scomparso dalla nostra vista. Almeno fino a ieri è, quando è tornato davanti agli occhi dei fisici del Cern sotto forma di spettacolari fontane multicolori.
«Le collisioni fra nuclei di elementi pesanti sono state studiate anche da altri acceleratori. Ma Lhc a Ginevra raggiunge energie molto superiori. Non avevamo mai realizzato nulla di simile» spiega Paolo Giubellino, lo scienziato dell´Istituto di fisica nucleare di Torino che guida Alice, l´esperimento del Cern concepito proprio per "guardare" il Big Bang. «La temperatura nel punto delle collisioni è pari a 100mila volte quella del centro del Sole, il calore 10mila volte superiore al cuore di un reattore a fusione nucleare. Continueremo con questi esperimenti per un mese, aumentando sempre più il numero di collisioni, poi ci fermeremo alcune settimane per migliorare ancora i rivelatori».
Quando la "zuppa" (che tecnicamente si chiama "plasma di quark e gluoni") si raffredda pochi istanti dopo essersi formata, emette una serie di particelle ad alta energia che gli strumenti di Lhc sono in grado di etichettare e seguire nelle loro traiettorie. «In queste prime ore siamo partiti da misure molto semplici, per capire quante particelle sono state prodotte e come sono distribuite. Ma già nei prossimi giorni aumenteremo i dettagli delle nostre osservazioni», spiega Federico Antinori, dell´Istituto nazionale di fisica nucleare di Padova, che si occupa dell´analisi dei dati di Alice.
Alice non è l´unico esperimento del Cern guidato da un italiano. Al momento tutti e quattro i grandi "occhi" costruiti per osservare le collisioni ad alta energia di Lhc hanno un responsabile del nostro paese. Oltre a Giubellino capo di Alice, completano il poker Fabiola Gianotti dell´esperimento Atlas, Guido Tonelli di Cms e Pierluigi Campana di LhcB. Nella democrazia del Cern, sono gli stessi fisici a votare il loro direttore. All´interno di Lhc - costruito in una ventina di anni, costato circa 6 miliardi di euro e inaugurato nel 2008 - lavorano 7mila scienziati da 40 paesi del mondo.

Corriere della Sera 8.11.10
Lucio Ceva ricostruisce il conflitto terminato nel 1939 con la vittoria del dittatore Franco
Così fascisti e nazisti affilarono le armi per la guerra mondiale
Spagna, prove per la catastrofe
di Cesare Segre


Le persone anziane hanno vivo il ricordo della guerra di Spagna (1936-1939). Se ne parlava molto nei nostri giornali, e s’era cercato di creare un clima eroico, analogo a quello suscitato durante la conquista dell’Etiopia. Pareva quasi che la guerra di Spagna fosse un’iniziativa italiana, e combattuta soprattutto dagli italiani, gloriosamente. Il film L’assedio dell’Alcazar (1940) di Augusto Genina rispecchiò bene quel clima. Solo dopo la caduta del fascismo i fatti ritornarono a posto e ripresero le giuste proporzioni, anche se molti particolari sono ancora oggetto di discussione, e una communis opinio manca.
La guerra civile, che diede occasione agli interventi stranieri, era scoppiata in seguito al golpe di un gruppo di militari spagnoli ribelli alla Repubblica democratica nata in Spagna nel 1931 e dominata dalla sinistra in seguito alle elezioni del 1936. La Germania nazista e l’Italia fascista entrarono subito in azione in appoggio ai golpisti, di cui aveva preso la guida il generale Francisco Franco, allora alla testa di truppe coloniali in Marocco. Fu una guerra lunga e sanguinosa, che anticipò le guerre imperialistiche di Adolf Hitler, i cui prodromi, come l’annessione dell’Austria (1938), furono contemporanei alle fasi delle operazioni in Spagna. Decisivo il fatto che a favore della Repubblica si batterono delle Brigate internazionali composte da antifascisti di tutta Europa e, direttamente, la Russia comunista, a favore degli insorti si schierarono i due Stati fascisti, Germania e Italia, mentre gli altri Stati europei, soprattutto Francia e Inghilterra, sceglievano una politica di non intervento ( appeasement), mostrando però simpatia per la Repubblica.
Fare la storia di questi avvenimenti è difficile, perché occorre tener presenti la situazione sociale della Spagna liberata dalla dittatura di Miguel Primo de Rivera e le spinte riformistiche, e in parte rivoluzionarie, che agitavano gli spagnoli; capire i motivi della reazione antidemocratica, che ebbe l’appoggio deciso degli ecclesiastici spagnoli (più cauto il Vaticano di Pio XI) e di parte dell’esercito, che la Repubblica aveva cercato di sveltire e controllare; tener presente lo stato degli armamenti e l’organizzazione militare; seguire gli avvenimenti nell’arena internazionale.
Un quadro estremamente complesso, sul quale riesce a portare un chiaro ordine Lucio Ceva, con il volume Spagne 1936-1939. Politica e guerra civile, edito da Franco Angeli (pagine 450, € 48). Si sa che Ceva, dopo una grande carriera di avvocato, è passato a insegnare Storia delle istituzioni militari nell’Università di Pavia. E questo è evidente nelle informazioni che fornisce sulle posizioni degli schieramenti avversi e sui loro movimenti, nonché sul numero dei combattenti, sulle armi impiegate, sulle tecniche militari. Ma il massimo impegno riguarda il panorama internazionale, dai disegni strategici alle sottigliezze della diplomazia. Perché la Seconda guerra mondiale, anche secondo Ceva, ha avuto inizio nella guerra di Spagna; mentre la successiva «guerra fredda» allungò poi la vita del dittatore Franco, necessario alla strategia americana.
Ci sono molte pagine indimenticabili, come quelle sul tentativo dei golpisti d’impossessarsi di Barcellona la notte del 19 luglio 1936: mosse e contromosse sono descritte momento per momento, luogo per luogo, con un’alternanza angosciante di successi e di scacchi che termineranno con la momentanea vittoria dei repubblicani. Ma indimenticabili anche le pagine sui miglioramenti tecnici, che fecero di quella guerra un crudele collaudo dei mezzi e delle strategie (collaudo pagato dagli abitanti di Guernica, vittime di un bombardamento degli aerei tedeschi, e da quelli di Barcellona, decimati dai bombardamenti italiani). Sulla concorrenza tra i grandi fabbricanti di velivoli, come Fiat e Caproni, sull’abbandono dei duelli aerei, resi ormai impossibili dalla maggiore velocità degli apparecchi, sul confronto tecnico fra gli aerei tedeschi e quelli italiani, si trovano notizie estremamente interessanti.
Perché è caratteristica di Ceva l’attenzione ai particolari spesso decisivi. Calcolare ad esempio il prezzo d’ingaggio e gli stipendi, piuttosto cospicui, dei militari italiani (circa 40 mila), spiega l’alto numero di «volontari». Spesso si trattava di uomini fatti, con famiglie numerose, rassegnati a rischiare la vita per assicurare la pagnotta ai loro cari. I veri volontari erano dall’altra parte, quella degli antifascisti, e pagavano sempre di persona. In caso di cattura da parte dei fascisti, il trattamento fissato da Mussolini, come racconta anche Galeazzo Ciano, era lineare: "Mi ordina di farli fucilare tutti", ed aggiunge: "I morti non raccontano la storia"». Ma intanto l’antifascismo, anche italiano, prese per la prima volta le armi, e si assuefece agli anni duri che si preparavano pure da noi.

Il libro di Marco Belpoliti
Corriere della Sera 8.11.10
Se anche Pasolini è assediato dai Ris
di Pierluigi Battista


Fate di Pasolini quello che credete: annettetevelo, strumentalizzatelo, «stiracchiatelo» (come scrive Bruno Pischedda) a vostro uso e consumo. Inventatevi un Pasolini di destra. Rielaborate un Pasolini di sinistra. Un santino religioso. Un’icona laica. Fatene l’uso che più vi aggrada, ma sottraete la sua memoria e il suo corpo maciullato alla mesta, mediocre, nauseabonda storia dei casi giudiziari da riaprire. Lasciatelo in pace, non rendete Pasolini ostaggio della guerricciola politico-storiografica che non si arresta nemmeno davanti al macabro grottesco delle tombe rivoltate, dei cadaveri dissepolti. Fate i critici letterari seri, non le raccogliticce truppe d’appoggio delle indagini infinite di una squadra dei Ris.
È appena uscito un libro molto bello di Marco Belpoliti, edito da Guanda con il titolo Pasolini in salsa piccante. In buona sostanza Belpoliti esorta sì a fare i conti con Pasolini, a studiarlo, a divorarlo «in salsa piccante» come si fa con i grandi maestri. Tuttavia, aggiunge, «fare del poeta, come accade, oltre che un santo e un martire, anche lo scandaglio dei misteri italiani, mi pare eccessivo, e credo lontano dal vero». Lui scrive un «credo» dubitativo solo per una forma di estrema cortesia e di concessione alle ragioni dell’interlocutore. In realtà ne è assolutamente certo. È assolutamente certo, malgrado i presunti capitoli pasoliniani di Petrolio trafugati, annunciati e poi mai esibiti da Marcello Dell’Utri; malgrado Walter Veltroni e Gianni Borgna e la loro assoluta determinazione con cui vorrebbero che i Ris, distolti dai lavori su delitti come, per dire, quello di Garlasco, lavorassero sul cadavere assassinato di Pasolini; malgrado le certezze dogmatiche di Carla Benedetti, malgrado tutto questo, è certo che il mistero non è un mistero, che l’inedito non è inedito. E che questa insistenza maniacale sul delitto «politico» che avrebbe assassinato il poeta che «sapeva» non tiene conto di alcuni, elementari fatti.
Prima di tutto il fatto che, spiega Belpoliti, basta leggere le note della curatrice dei Meridiani Mondadori di Pasolini (2005) Silvia De Laude per appurare che ciò che Pasolini sapeva sul petrolio, su Cefis, su Mattei e su tutte le cose che i dietrologi compulsivi considerano essere il vero motivo dell’assassinio di Pasolini, era ricavato da: articoli di giornali; libri già pubblicati; volumi fotocopiati e a disposizione dello psicanalista Elvio Fachinelli che ne aveva promosso la diffusione; lavori già ampiamente citati da giornalisti e studiosi. «Si uccide uno scrittore per questo?» si domanda retoricamente Belpoliti. Ovviamente no. Non sembra quello di Belpoliti un argomento che dovrebbe mettere a tacere dietrologie lambiccate e fantasiose? Temo di no. Il complottismo rifugge dalla prova di realtà. Anzi, considera la realtà un ostacolo fastidioso. Facciano come credano, ma lo lascino finalmente in pace, il povero corpo martoriato di PPP.

Repubblica 8.11.10
I discorsi dello statista per Roma capitale del regno
Cavour a Pio IX “Niente crociate”
di Massimo L. Salvadori

Quegli interventi, ripubblicati a cura di Pietro Scoppola, furono il suo canto del cigno. Il conte illustrava perché si dovesse arrivare a una "libera Chiesa in libero Stato"

Il 10 agosto di quest´anno è caduto il bicentenario della nascita di Cavour, che - nonostante tutte le distrazioni che il nostro paese, in preda ad crisi di identità e tanto occupato a seguire le squallide vicende del primo ministro e di chi lo circonda, ha verso la sua storia e in particolare il Centocinquantesimo dell´unità d´Italia – è stato degnamente ricordato e celebrato dal Capo dello Stato, in importanti convegni e con la pubblicazione di libri, tra i quali voglio qui menzionare due titoli. Il primo: Camillo Benso di Cavour. Autoritratto. Lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di Adriano Viarengo, con prefazione di Giuseppe Galasso (BUR, pagg. XLIX-757, euro 16); il secondo Camillo Cavour, Discorsi per Roma capitale, con introduzione di Pietro Scoppola (Donzelli, pagg. 110, euro 15).
Viarengo, che poco prima aveva pubblicato presso la Salerno una bella biografia di Cavour, con l´Autoritratto ha offerto al largo pubblico uno strumento davvero utile per conoscere a tutto tondo colui che più di ogni altro ha impresso la sua orma sull´Italia unita quale uscita dal Risorgimento e dalla vittoria del partito liberale monarchico su quello democratico e repubblicano di Mazzini, Garibaldi e Cattaneo. Vorrei subito segnalare un aspetto dell´antologia apprestata da Viarengo, che è di dedicare lo spazio dovuto sia al Cavour imprenditore, pubblicista, politico e uomo di governo, sia all´uomo, alle sue relazioni familiari, alle sue amicizie e avversioni umane e, last but not least, ai suoi amori, che furono non pochi e alcuni assai passionali. È certo nulla più di un luogo comune dire che Cavour, la cui personalità complessiva Viarengo e Galasso presentano efficacemente, è stato un grand´uomo. Ma sia dato osservare che seguirne l´intera e multiforme vicenda in questa denso e ricco Autoritratto consente, bando alla retorica, di rendersi conto di quanto grande in effetti egli sia stato. Fu insieme un idealista e un realista, un uomo di pensiero – tutto versato sul campo delle questioni sociali, economiche e politiche – e un uomo d´azione: capace di dominare governo e parlamento, abile, determinato e, quando lo ritenesse necessario, anche di pochi scrupoli per conseguire i propri scopi. Pare che non fosse un Demostene nel pronunciare i suoi discorsi, eppure essi risultano a leggerli vigorosi e, in tanti momenti, ricchi di pathos. E così i saggi, le numerosissime lettere, le note di diario cui sono consegnati molti privati intimi pensieri. Nell´ultimo decennio della sua breve vita (1810-1861) veramente consumò la sua fibra prima al servizio del Piemonte e poi per pochi mesi dell´Italia unita. Cresciuto nell´ideale della libertà, nella fede in un progresso identificato con il liberalismo conservatore e il riformismo (il "giusto mezzo") e il liberismo in economia, combatté in maniera intransigente quelli che chiamava i "rossi" e i "neri" del suo tempo (i democratici repubblicani e i clericali), mostrando in particolare un´implacabile e persino ingenerosa ostilità, venendone del tutto ripagato, verso il suo maggiore avversario: Mazzini. Ben presto si infiammò per l´ideale dell´indipendenza d´Italia dallo straniero, solo tardi perseguì lo scopo della sua unità dopo l´iniziativa dei Mille nel Mezzogiorno e morì travagliato dai difficili problemi posti dall´unificazione dell´intera penisola.
I memorabili Discorsi per Roma capitale, pronunciati in Parlamento tra il marzo e l´aprile 1861 furono il suo canto del cigno. Vi illustrò le ragioni per cui gli italiani non potevano rinunciare a fare della gran città la loro capitale, esortò vanamente Pio IX a non scatenare una crociata contro il nuovo Stato e a comprendere che la Chiesa cattolica avrebbe avuto motivo di rinascita religiosa con la fine del potere temporale e pronunciò la celebre frase: «Noi siamo pronti a proclamare nell´Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato». Fu un importante messaggio lasciato al paese dal laico Cavour, che, ed è un aspetto da ricordare, fin dall´emanazione dello Statuto nel 1848 aveva espresso il suo vivo rammarico per l´articolo primo che, in pieno contrasto con i principi liberali, stabiliva il cattolicesimo «la sola religione dello Stato».

Corriere della Sera 8.11.10
Sogni e ricchezze, le quattro età dell’uomo
di Carlo Maria Martini, cardinale...


Esce martedì da Mondadori il nuovo volume dell’arcivescovo emerito di Milano. Anticipiamo i testi introduttivi ai capitoli
Il cardinale Martini riflette sulle tappe della vita: un percorso oltre i dati biografici

BAMBINI I fanciulli si pongono tante domande che nascono dalla curiosità e dalla meraviglia che suscita in loro l’esperienza dell’essere. Spesso queste domande non vengono prese sul serio dagli adulti; invece emergono dal profondo e sono da tenere in considerazione: il continuo interrogare dei più giovani è indice di una capacità spontanea e innata di vedere a fondo le cose. Mi pare che anche per questo i bambini siano lodati da Gesù e proposti come modelli. L’episodio in cui tali domande emergono con particolare vigore, e sono fondate, valutate e accolte, è quello che narra la permanenza di Gesù al tempio all’insaputa dei suoi genitori. Qui Gesù sperimenta la forza che lo lega al Padre e che si esprime anche nelle istituzioni del tempio. Ma tale presenza del divino è spesso ostacolata: Gesù nella sua vita pubblica si scontrerà sovente con questo ostacolo, che emergerà anche nel rapporto con la classe sacerdotale, e sarà una delle cause che lo porteranno alla crocifissione.
L’atteggiamento di Gesù mostra l’importanza che può assumere la decisione di un dodicenne. Di fronte a tale scelta noi abbiamo la sensazione di procedere su un terreno sacro, a cui bisogna avvicinarsi con rispetto. Anche i fanciulli sono quindi capaci di conoscere Dio spontaneamente e di avvicinarsi a lui. Essi sono abilitati a essere uditori della Parola e sono capaci di compiere scelte coraggiose.
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GIOVANI La giovinezza è l’età dei grandi sogni, che presentano un quadro ideale della vita dell’uomo, ed è per questo che i giovani sono di solito molto critici del mondo così com’è. Bisogna saperli aiutare rispettando le loro esigenze di perfezionismo e condurli, nello stesso tempo, a non spaventarsi di fronte alle realtà della vita. La giovinezza è anche il tempo dei grandi amori e delle grandi speranze.
È necessario non deludere le attese dei ragazzi, saperne sfruttare l’idealità e insegnare loro che la realizzazione di un ideale di solito richiede tempi lunghi. Bisogna inoltre accompagnarli verso l’accettazione del fatto che noi non siamo perfetti. La figura concreta di questa idealità è Gesù che si reca nel tempio a pregare e scaccia i mercanti, che rendono quel luogo una spelonca di ladri. La giovinezza può pure essere il tempo della contestazione, della ribellione e del rifiuto, come è normale che sia.
Ma secondo un proverbio indiano, questa è anche un’età in cui si è chiamati a insegnare: ciò comporta una responsabilità che fa da contrappeso alla voglia di respingere la tradizione. Tale responsabilità ha un grande valore per sostenere le persone nella vita.
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ADULTI L’età adulta viene definita da quello stesso proverbio indiano come un ritirarsi nel bosco. L’adulto deve saper riconoscere i suoi limiti e fare anche un passo indietro, se necessario. L’adulto ha una visione complessiva di come vanno le cose in questo mondo. Ciò, però, non deve diventare motivo per limitare gli ideali, ma deve essere stimolo per giungere a una visione esatta della realtà. Bisogna considerare che ci sono almeno due tipi di adulti: quelli che si lasciano trascinare dal vortice degli impegni e quelli che sanno prendere tempo per far maturare i propri principi. Solo quest’ultimi meritano in pieno il titolo di adulto. Quanto più uno cresce in responsabilità, tanto più sono necessari momenti di ritiro e silenzio. L’adulto è in grado di riflettere su di sé e ciò gli dà la possibilità di confrontarsi con la propria fede.
È difficile uscire del tutto da sé per effettuare quella che è chiamata la «conversione», perché essa comporta un totale rivolgimento della visione della realtà. Ci si domanda quanti uomini giungano alla piena conoscenza di sé. Secondo gli psicologi tale conoscenza non può aversi prima dei trentacinque/ quarant’anni, ma non molti giungono a un simile punto di maturazione. È questo il motivo per cui si diffondono visioni semplicistiche del mondo e dell’uomo. Perciò il parere della maggioranza non è senz’altro una garanzia per la verità.
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ANZIANI Per la spiritualità indù la rinunzia ai propri beni significa la capacità di presentarsi con la mano destra aperta per ricevere umilmente il pane quotidiano. Tradotto nel linguaggio della cultura occidentale significa che occorre sempre più riconoscere che la nostra vita dipende dagli altri e godere di questo fatto.
È certamente difficile per i ricchi sopportare di diventare poveri, come dimostrano gli esempi evangelici di Nicodemo e del giovane ricco, ma in questo si può gustare una partecipazione più autentica al Vangelo. Fa parte di tale impoverimento anche l’indebolimento fisico cui si va incontro con il passare degli anni. Perciò il Vangelo di Giovanni, che esemplifica il cammino del cristiano ed è un Vangelo segnato dalla profondità mistica, riduce tutto all’essenziale. I vecchi devono imparare a ritirarsi dalle loro responsabilità e contemplare maggiormente l’unità delle cose. In questo senso l’anzianità può durare molto meno delle altre fasi della vita e non dipende dall’età anagrafica.
Ciò significa che le età della vita non possono ridursi solamente alla biografia. Esse hanno una durata diversa che non è possibile determinare a priori. Bisogna interpretare ciascuno alla luce di un cammino spirituale che tenga conto della maturità raggiunta. Anche lo stile di preghiera varia nelle diverse età della vita. È molto importante vedere se la nostra preghiera corrisponde o meno alla nostra età. La preghiera, infatti, matura via via con la ricchezza interiore, ma nel tempo della vecchiaia può tornare a essere semplice e spontanea come quella dei fanciulli.

Repubblica 7.11.10
Appunti di viaggio verso l´abisso
di Antonio Gnoli


Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati da strane premonizioni. Poco più che trentenne, cominciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi erano colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovunque e fiumi di sangue scorrere per l´Europa. Pensò di essere pazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva di provare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi a semplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso di sognare una figura che la voce della madre definiva il «divoratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte portava lo scompiglio nella testa del giovane Carl?
Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell´esperienza allucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica dimensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il disorientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare una spiegazione che andasse oltre la pura ragione e la semplice esperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annotare, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadeva nel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, ma anche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi torturati, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l´arte, le religioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e misterioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce ora l´edizione italiana.
Nelle intenzioni di Jung, quel testo - per decenni considerato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana - avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua personalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbene agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichissimo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stessi occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti bizzarrie, di visioni e perfino di mostruosità che talvolta ci portiamo dentro. Era consapevole che non si trattava di semplici allucinazioni, ma di un mondo simbolicamente ricchissimo che l´epoca moderna aveva tentato di cancellare.
Il Libro rosso (o Liber novus) mette il lettore di fronte a due situazioni: gli fa conoscere Jung attraverso Jung; e contemporaneamente lo introduce a un metodo di lavoro che può illuminare la sua vasta produzione. È noto che egli fu allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre che l´amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto - proprio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua opera più intima - si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall´Associazione psicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu più di un motivo. C´era, innanzitutto, quella che Jung definì l´ortodossia freudiana e l´eccesso di dogmatismo dottrinario; c´era il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libido era riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale; mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichiche); c´era la diversa lettura che entrambi davano dell´inconscio (per Freud all´inizio una tabula rasa su cui via via vengono depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung viceversa l´inconscio è già definito fin dall´origine); infine il metodo freudiano era soprattutto un´analisi retrospettiva, tendeva cioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osservato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua complessità simbolica e immaginativa. Di qui l´importanza che agli occhi dell´ex allievo assunsero alcuni archetipi: "Persona", "Ombra", "Anima", "Sé", che egli interpretò come manifestazioni differenti della personalità.
Il Libro rosso può dunque esser letto anche come il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente approccio junghiano alla vita psichica, includeva l´esistenza di un conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso del distacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflettere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustra di Nietzsche. Ne concluse che - grazie all´anima - il dio che muore rinasceva nelle sue multiformi espressioni.
Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine del Novecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesura negli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche in quella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fu inaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo considerasse pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di Sonu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbene la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, il grande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoi frutti più esoterici. D´altro canto, il Libro rosso rivela un mondo che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezione a civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterranei che mostrano l´immenso talento di chi li ha saputi creare. Più che un monumento alla psicologia, o un semplice documento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti sanno guardare l´abisso della follia senza esserne inghiottiti.

Repubblica 7.11.10
Il libro rosso di Jung tra Dio e abisso
Dio nella mia anima draghi nel mio cuore
di Carl Gustav Jung


 Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant´anni ed è un uomo realizzato: ha "fama, potere, ricchezza, sapere". Ma all´improvviso incominciano incubi e visioni apocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegnerà per tutta la vita su un quaderno che diventerà il "Libro rosso" Uno stupefacente diario intimo, monumento all´inconscio, testo alchemico di straordinaria ricchezza. L´opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia

Quando, nell´ottobre 1913, ebbi la visione dell´alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all´età di quarant´anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d´orrore. La visione dell´alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui.
o scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c´è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com´è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine».
Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l´aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all´anima umana. Pensavo e parlavo molto dell´anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l´avevo giudicata e resa oggetto della scienza. Credevo che la mia anima potesse essere l´oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo spirito del profondo mi costrinse a parlare all´anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la mia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l´anima: la vede come una creatura vivente, dotata di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l´anima è una cosa dipendente dall´uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto la mia anima, bensì un´inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all´anima come se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io stesso esistevo.
Giunge al luogo dell´anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall´orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l´angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia e si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa si trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell´anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione.
Se possediamo l´immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L´immagine del mondo costituisce la metà del mondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine, possiede soltanto la metà del mondo, poiché l´anima sua è povera e indigente. La ricchezza dell´anima è fatta di immagini. Chi possiede l´immagine del mondo, possiede la metà del mondo, anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame trasforma l´anima in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l´anima, per non allevarvi draghi e diavoli in cuore.
Traduzione Marianna Massimello

Corriere della Sera 7.11.10
Il romanzo della mamma di Pasolini
di Paolo Di Stefano


È un’autentica sorpresa, questa saga familiare di Susanna Colussi, madre di Pier Paolo Pasolini. E dunque ha fatto benissimo Graziella Chiarcossi a consegnare a Rosellina Archinto le carte de Il film dei miei ricordi, rimaste nel cassetto di un comò almeno dal primo febbraio 1981, data della morte dell’autrice, novantenne. Per la verità, come ci informa Chiarcossi nella nota di apertura, si tratta di 21 quaderni di quinta elementare, fittamente scritti a penna e compilati a partire da metà anni 50 («sicuramente Susanna ha cominciato a scrivere quando abitava con il figlio nel quartiere di Monteverde Vecchio a Roma») fino all’inizio dei 70. La stesura avvenne, probabilmente, all’oscuro di Pier Paolo, il quale però doveva conoscere la vocazione della madre per la scrittura (non mancano brani epistolari di lei che somigliano a certe ispirate pagine descrittive del libro). Chiamata dal figlio «Capinera Solitaria» in versione poetica, oppure alternativamente «cicciona», «mammetta», «pitinicia», «picinina» nelle lettere, la maestra di Casarsa, Susanna Colussi in Pasolini, deve aver raccontato al suo Pier Paolo le vicende storiche della sua famiglia, tant’è vero che lo scrittore riprese qua e là alcuni di quegli episodi nella sezione I Colùs de La meglio gioventù, come puntualmente segnalato da Chiarcossi. A questi va aggiunto il dramma in friulano I Turcs tal Friùl — scritto agli inizi del ’44 e pubblicato postumo — che evoca la fine cruenta di un giovane Colùs abbattuto dai Turchi decisi, nel 1499, a oltrepassare l’Isonzo: episodio cui la madre dedica, nel suo memoriale, un’ampia digressione.
In realtà — salvo quest’ultimo flashback storico — Il film dei miei ricordi percorre un centinaio d’anni, prendendo avvio dalla campagna di Russia della Grande Armée napoleonica e andando a concludersi all’alba della Prima guerra mondiale, quando Susanna diventa maestra. Dunque, il titolo è solo in parte fededegno, visto che la voce narrante non fa che riportare in buona parte le memorie della nonna (sua omonima), almeno finché, come per un passaggio di testimone, il ricordo — senza più filtri — diventa vivo e diretto. A quel punto siamo ormai alla fine dell’800 e ben oltre la metà del libro, allorché la narratrice rievoca: «La più lontana visione nel film dei miei ricordi: un pomeriggio domenicale di fine estate, in camera di mia madre, Centin, forse sei anni, io non più di tre, siamo seduti ben composti sul gran letto, fermi buoni per non sgualcire i nostri vestiti nuovi». Centin è il fratello maggiore, che sta al centro dell’ultimo capitolo. La sua storia, no intere vite, ma da Casarsa spesso si parte in battaglia, in fuga o in cerca di lavoro. Ci sono molti giovani in fuga, come Vincenzo che in groppa a un cavallo bianco parte senza voltarsi indietro per arruolarsi tra le truppe di Napoleone, si ritrova agonizzante nella neve, viene raccolto dalla dolce Susanna, che lo curerà, fuggirà in Italia con lui e sposerà lo sconosciuto, rinunciando a un promesso sposo ricchissimo.
Nonna Maria (alle cui sottane era sempre atcome quelle di Visèns, di Beputi, di Pauli, di Cenci, di Beputi II e di Minuti negli altri sei capitoli, si intreccia con una sarabanda di altre storie e di altri personaggi (maschili e femminili), ma il fuoco di tutto è il paese agricolo di Casarsa della Delizia, il cui primo nucleo venne fondato dalla «tribù» degli stessi Colussi, vassalli del patriarca di Aquileia, destinati ad aprire una distilleria dalle alterne fortune. A Casarsa si vivono e si muoiotaccata la piccola Susanna) apre bauli e mostra oggetti alla sua nipote, vecchie foto e documenti. Ne vengono fuori, come da un cappello magico, racconti felici e racconti dolorosi, come la breve vita del patriota antiaustriaco Beputi (fratello minore di Maria), finito in prigione per ragioni politico-amorose. Ma ci sono anche racconti picareschi di alcuni scavezzacolli di famiglia: è il caso di Cenci, classe 1844, primogenito di nonna Maria: il suo buon cuore non sapeva resistere all’inquietudine e alla voglia di cambiare aria, fino a condurlo in Francia (dopo molte peripezie), dove avrà successo importando l’attività familiare della distilleria. La sua storia si intreccia con due bellissime figure femminili, l’amata e infelice Pierrette (che finirà suicida) e la ricca Jacqueline che sposerà controvoglia prima di arruolarsi tra i francesi e sparire nel nulla. Il temperamento caldo di Cenci tornerà anni dopo con Centin, che finirà emigrato in America più per inquietudine che per necessità. C’è il generosissimo Beputi II, pronto a regalare i suoi vestiti agli straccioni.
Susanna Colussi sa raccontare, conosce il ritmo narrativo, ha il dono del ritratto fulminante e del dialogo, sa dosare il suo dialetto dentro un italiano affabile e piano, che ricorda quello di narratrici di saghe come Rosetta Loy. Sa descrivere le atmosfere, gli umori, le feste, i cambi di stagione, i giochi infantili, l’adulterio boccaccesco di cui sono vittime due uomini di casa, l’ideale anarco-comunista del falegname di paese, il carattere sempre più cupo di sua madre e l’ottimismo ingenuo del padre. Certo, è quasi inevitabile leggere queste cinquecento pagine senza pensare a Pier Paolo, magari per tentare di individuare negli avi materni i precedenti del suo carattere, del suo genio e della sua irregolarità. E qualcosa si trova, a ben guardare. Ma in fondo con questo libro Susanna merita di uscire dall’ombra del figlio.

Repubblica 10.4.10
Pier Paolo Pasolini. I giovani, l’amore, il sesso
Viaggio nell’Italia anni ’60
di Michel Foucault


Ecco la recensione scritta da Michel Foucault nel 1977 al film-inchiesta del regista di "Comizi d´amore". Un ritratto del Paese e dei suoi cambiamenti Qualcuno si decide, risponde esitando. Si avvicinano, borbottano, le braccia sulle spalle, volto contro volto. Risa e tenerezza. Qualcuno manifesta anche il timore che molti comportamenti ora verranno tollerati. Verrà meno una specie di ecosistema

Come nascono i bambini? Li porta la cicogna, da un fiore, li manda il buon dio, o arrivano con lo zio calabrese. Guardate il volto di questi ragazzini, invece: non danno affatto l' impressione di credere a ciò che dicono. Con sorrisi, silenzi, un tono lontano, sguardi che fuggono a destra e sinistra, le risposte a tali domande da adulti possiedono una perfida docilità; affermano il diritto di tenere per sé ciò che si preferisce sussurrare. Dire "la cicogna" è un modo per prendersi gioco dei grandi, per rendergli la loro stessa moneta falsa; è il segno ironico e impaziente del fatto che il problema non avanzerà di un solo passo, che gli adulti sono indiscreti, che non entreranno a far parte del cerchio, e che il bambino continuerà a raccontarsi da solo il "resto". Così comincia il film di Pasolini. Enquête sur la sexualité (Inchiesta sulla sessualità) è una traduzione assai strana per Comizi d' amore: comizi, riunioni o forse dibattiti d' amore. È il gioco millenario del "banchetto", ma a cielo aperto sulle spiagge e sui ponti, all' angolo delle strade, con bambini che giocano a palla, con ragazzi che gironzolano, con donne che si annoiano al mare, con prostitute che attendono il cliente su un viale, o con operai che escono dalla fabbrica. Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull' amore. Dopo tutto, la strada è la forma più spontanea di convivialità mediterranea. Al gruppo che passeggia o prende il sole, Pasolini tende il suo microfono come di sfuggita: all' improvviso fa una domanda sull' "amore", su quel terreno incerto in cui si incrociano il sesso, la coppia, il piacere, la famiglia, il fidanzamento con i suoi costumi, la prostituzione con le sue tariffe. Qualcuno si decide, risponde esitando un poco, prende coraggio, parla per gli altri; si avvicinano, approvano o borbottano, le braccia sulle spalle, volto contro volto: le risa, la tenerezza, un po' di febbre circolano rapidamente tra quei corpi che si ammassano o si sfiorano. Corpi che parlano di loro stessi con tanto maggior ritegno e distanza quanto più vivo e caldo è il contatto: gli adulti parlano sovrapponendosi e discorrono, i giovani parlano rapidamente e si intrecciano. Pasolini l' intervistatore sfuma: Pasolini il regista guarda con le orecchie spalancate. Non si può apprezzare il documento se ci si interessa di più a ciò che viene detto rispetto al mistero che non viene pronunciato. Dopo il regno così lungo di quella che viene chiamata (troppo rapidamente) morale cristiana, ci si poteva aspettare che nell' Italia di quei primi anni sessanta ci fosse un certo qual ribollimento sessuale. Niente affatto. Ostinatamente, le risposte sono date in termini giuridici: pro o contro il divorzio, pro o contro il ruolo preminente del marito, pro o contro l' obbligo per le ragazze a conservare la verginità, pro o contro la condanna degli omosessuali. Come se la società italiana dell' epoca, tra i segreti della penitenza e le prescrizioni della legge, non avesse ancora trovato voce per raccontare pubblicamente il sesso, come fanno oggi diffusamente i nostri media. «Non parlano? Hanno paura di farlo», spiega banalmente lo psicanalista Musatti, interrogato ogni tanto da Pasolini, così come Moravia, durante la registrazione dell' inchiesta. Ma è chiaro che Pasolini non ci crede affatto. Credo che ciò che attraversi il film non è l' ossessione per il sesso, ma una specie di timore storico, un' esitazione premonitrice e confusa di fronte a un regime che allora stava nascendo in Italia: quello della tolleranza. È qui che si evidenziano le scissioni, in quella folla che tuttavia si trova d' accordo a parlare del diritto, quando viene interrogata sull' amore. Scissioni tra uomini e donne, contadini e cittadini, ricchi e poveri? Sì, certo, ma soprattutto quelle tra i giovani e gli altri. Questi ultimi temono un regime che rovescerà tutti gli adattamenti, dolorosi e sottili, che avevano assicurato l' ecosistema del sesso (con il divieto del divorzio che considera in modo diseguale l' uomo e la donna, con la casa chiusa che serve da figura complementare alla famiglia, con il prezzo della verginità e il costo del matrimonio). I giovani affrontano questo cambiamento in modo molto diverso: non con grida di gioia, ma con una mescolanza di gravità e di diffidenza perché sanno che esso è legato a trasformazioni economiche che rischiano assai di rinnovare le diseguaglianze dell' età, della fortuna e dello status. In fondo, i mattini grigi della tolleranza non incantano nessuno, e nessuno vede in essi la festa del sesso. Con rassegnazione o furore, i vecchi si preoccupano: che fine farà il diritto? E i "giovani", con ostinazione, rispondono: che fine faranno i diritti, i nostri diritti? Il film, girato quindici anni fa, può servire da punto di riferimento. Un anno dopo Mamma Roma, Pasolini continua su ciò che diventerà, nei suoi film, la grande saga dei giovani. Di quei giovani nei quali non vedeva affatto degli adolescenti da consegnarea psicologi, ma la forma attuale di quella "gioventù" che le nostre società, dopo il Medioevo, dopo Roma e la Grecia, non hanno mai saputo integrare, che hanno sempre avuto in sospetto o hanno rifiutato, che non sono mai riuscite a sottomettere, se non facendola morire in guerra di tanto in tanto. E poi il 1963 era il momento in cui l' Italia era entrata da poco e rumorosamente in quel processo di espansione-consumotolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo, nei suoi Scritti corsari. La violenza del libro dà una risposta all' inquietudine del film. Il 1963 era anche il momento in cui aveva inizio un po' ovunque in Europa e negli Stati Uniti quella messa in questione delle forme molteplici del potere, che le persone sagge ci dicono essere "alla moda". E sia pure! Quella "moda" rischia di rimanere in voga ancora per un po' di tempo, come accade in questi giorni a Bologna. Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr

domenica 7 novembre 2010

l’Unità 7.11.10
Davanti ai segretari di circolo fissa la data dell’11dicembre per la manifestazione contro il governo
Bersani chiama la piazza: «Il Pd sarà il primo partito»
«Lega e Berlusconi ci fanno un baffo». Il segretario attacca il premier: non è degno di ricoprire una carica pubblica. E legge l’articolo 54 della Costituzione che richiede «disciplina e onore».
di Simone Collini


«Non consentirò che da fuori o da dentro il Pd qualcuno ci manchi di rispetto. Perché fra non molto, faccio una scommessa, saremo il primo partito del Paese. E nessuno può tirarci per la giacca». Pier Luigi Bersani parla per un’ora, lanciando la manifestazione dell’11 dicembre e attaccando il premier, ma gli basta questo passaggio di una decina di secondi per mandare un chiaro messaggio a governo, alleati, aspiranti rottamatori e autolesionisti vari. Prima di lui vanno al microfono i segretari di circolo del Pd, in duemila a Roma per l’Assemblea nazionale. Non mancano critiche per un partito che qualcuno definisce remissivo sui temi del lavoro e che qualcuno vorrebbe si mostrasse meno incerto, mentre in molti criticano i «rottamatori» e parlano anche di un lavoro fatto sul territorio che poi viene vanificato da qualche intervista rilasciata per distinguersi. Bersani ascolta e poi chiude i lavori rivolgendosi a ognuno di loro «da segretario a segretario»: «Voi siete più vicini alle persone e avete un di più di senso, di coraggio, di forza. Man mano che ci allontaniamo da lì c’è un avvitamento anche nostro nel circuito politico-mediatico che ci fa perdere un po’ di vista la realtà». È a loro che Bersani chiede di prendere una decisione su un’iniziativa di cui ha già discusso nei giorni scorsi con Franceschini, Finocchiaro e altri big.
«Il Paese è allo sbando, Berlusconi si deve dimettere», ripete di nuovo Bersani parlando però per la prima volta con certi toni del premier come di uomo non degno di ricoprire una carica pubblica (legge anche l’articolo 54 della Costituzione, che richiede «disciplina e onore»): «Un minore è un minore anche se non ti sembra e non puoi sbatterlo su una strada tuona al microfono facendo riferimento al caso Ruby non possiamo far correre idee così devastanti, non si possono pensare e dire certe cose e dirigere un Paese». Ribadisce anche che «chi ha senso di responsabilità deve staccare la spina», che il Pd offre la sua «disponibilità» a dar vita a un governo di transizione e che nei tre prossimi fine settimana ci sarà un porta a porta per far arrivare «in ogni luogo di vita e di lavoro» le idee del Pd.
IN PIAZZA
Ma, aggiunge arrivando alla proposta che lancia ai duemila segretari di circolo, «la situazione richiede qualcosa in più»: «Chiedo a voi se siete d’accordo, perché se lo siete l’11 dicembre facciamo a Roma una grande manifestazione nazionale». Non termina la frase e scatta un’applauso che non finisce più. «Ho capito, ho capito». Bersani sorride, anche perché se qualcuno nel gruppo dirigente era pronto a criticare la chiamata alla piazza, ora avrà qualche difficoltà nel farlo. E se Veltroni dal Veneto, dov’è andato per presentare il Movimento democratico, dice che l’importante è il «tono» che avrà la piazza, se cioè verranno avanzate delle proposte oltre che delle proteste, Bersani scioglie sul nascere anche questo nodo assicurando che la manifestazione non sarà soltanto contro il governo ma verrà costruita attorno a tre parole su cui il Pd vuole caratterizzarsi: democrazia, lavoro e solidarietà.
L’iniziativa serve a mettere in campo un ulteriore elemento di pressione nei confronti di chi, Fini in testa, pur criticandolo sta mantenendo in vita il governo. Ma sarà anche una prova di forza nei confronti di Pdl e Lega «ci fanno un baffo» e anche di qualche alleato che non ha capito che «indebolire il Pd è uno sport che non porta medaglie» e che è ora di smetterla con i «tatticismi per lucrare un punto in più nei sondaggi». Bersani lo dice anche guardando a certi «autolesionismi nostri»: «Oggi abbiamo visto che è possibile far vivere un orgoglio del Pd, che senza di noi ci si tiene Berlusconi». Orgoglio e «rispetto», ripete in più di un passaggio, perché presto si vedrà che il Pd è «il primo partito». E rispetto, «per la ditta e per i suoi membri», chiede anche a chi vorrebbe rottamare gli attuali dirigenti. «Avanti la nuova generazione, ma c’è bisogno anche di chi ha memoria ed esperienza», dice tra gli applausi. Che crescono di intensità quando continua così: «Benissimo il confronto, ma non verrà consentito che fuori o dentro il partito ci si manchi di rispetto».

Corriere della Sera 7.11.10
Bersani chiama il Pd in piazza: chi non rispetta i minori vada via
di Monica Guerzoni


Dalla platea dei circoli democratici fischi ai «rottamatori»

ROMA — Il «nuovo» Bersani, più aggressivo e grintoso, si affida alle note di Neffa che canta «Cambierà» e alza vistosamente i toni, nella speranza che la spallata finale sia vicina davvero. Davanti ai duemila segretari di circolo pigiati nell’auditorium della Conciliazione, troppo piccolo per accoglierli tutti, il segretario del Pd sfoglia la Costituzione, legge l’articolo 54 che chiede «disciplina e onore» a chi governa e quindi affonda. «Se vuoi avere la patente per fare l’uomo pubblico devi essere una persona per bene — sferza a distanza Berlusconi —. Un minore è un minore, anche se non ti sembra. E non puoi sbatterlo sulla strada. Non sono mica noccioline, queste». Risate amare, applausi e Bersani riparte: «Se uno ha 15 anni ha 15 anni, se ne ha 17 ne ha 17... È un aspetto drammatico di come immaginiamo l’adolescenza, è una vergogna! Non si possono fare e dire certe cose e governare un Paese».
Sono le tre del pomeriggio e Bersani non è mai stato così carico. Sprona Fini a staccare la spina al governo, scatena le ire dei leghisti, accusa i grillini di «tirare la volata a Berlusconi», si scaglia contro i «rottamatori» di Matteo Renzi e chiama gli elettori a scendere in piazza l’11 dicembre, per chiudere l’era berlusconiana nel nome della «democrazia, del lavoro e della solidarietà». Quasi un’ora di orgoglio democratico e poi venti minuti di autografi, mentre il nuovo inno del Pd propizia la svolta: «Di questi tempi si vende/qualsiasi cosa anche la verità/ma non sarà così sempre/perché tutto cambierà».
Critiche ne ha incassate anche lui. I segretari di base hanno chiesto al leader identità e coraggio delle scelte, più unità e meno ambizioni personali, poche chiacchiere da salotto e molte facce nuove. Eppure, al nome di Matteo Renzi, sono partiti (più volte) fischi sparsi e ululati. E Bersani, che ha convocato l’assemblea per limitare i danni del meeting fiorentino, ha chiesto ai rottamatori rispetto per la ditta: «Da adesso in poi io lo pretendo. Avete un segretario non permaloso, ma non consentirò che ci si manchi di rispetto. Fra non molto saremo il primo partito di questo Paese e non lo si tira per la giacca. Indebolire il Pd è uno sport che non porta medaglie».
Lui però la giacca a Gianfranco Fini la tira, eccome. Se Berlusconi non si dimette «chiunque ha senso di responsabilità stacchi la spina», perché «traccheggiare è portare allo sbando il Paese». Il simbolo di Futuro e libertà non gli è piaciuto, come non gli piacciono i partiti personali. «Sul simbolo del Pd — e qui scatta l’ovazione — io Bersani non ce lo scrivo, è chiaro?». E ce n’è anche per Bossi, al quale dà del «sottovaso» del premier. «A noi che abbiamo 6800 circoli e facciamo duemila feste l’anno — galvanizza i suoi il segretario — la Lega e Berlusconi ci fanno un baffo!». Assicura di non cercare ribaltoni però invoca un governo di transizione che scongiuri l’elezione del Cavaliere al Quirinale. «Rompiamo ’sto muro del suono, mettiamoci fiducia...».
I «big» del partito, tranne Franco Marini e pochi altri, non sono venuti. Autorottamazione? «Io sono qui...», scherza Sergio D’Antoni. E non passa inosservata l’assenza della minoranza, giacché Veltroni, Gentiloni e Fioroni sono in Veneto per l’assemblea regionale di Movimento democratico. Da Mogliano l’ex segretario dice che Berlusconi «non uscirà di scena in punta di piedi, ci farà soffrire ancora moltissimo». Anche per questo Veltroni dà il via libera alla piazza, purché non sia solo una giornata di protesta. Così fu al Circo Massimo due anni fa, rivendica, «la più grande manifestazione di un partito in Italia». Ma all’assemblea di ieri Veltroni è stato attaccato dal segretario di un circolo milanese. Si chiama Cosimo Palazzo e studia da leader. «Basta con le interviste per contrastare le decisioni del partito — ha strappato la standing ovation l’avvocato, che ha 36 anni —. Due minuti bastano a distruggere il nostro lavoro...».

Corriere della Sera 7.11.10
La svolta «pride» del leader: saremo il primo partito
Dietro la nuova strategia i sondaggi che segnalano il «sorpasso in frenata» sul Pdl
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Sono stufo del fatto che si descriva sempre il Pd come un partito vecchio e sono stanco dei nostri autolesionismi»: Pier Luigi Bersani non ci sta a indossare panni che gli hanno ritagliato altri. Il segretario è pimpante, carico e convinto che l’appuntamento romano non sia meno importante di quello di Firenze. Anzi.
È il giorno del «Bersani-pride» all’Auditorium di via della Conciliazione. Nell’entourage del segretario si respira un curioso ottimismo. Forse è per quei sondaggi riservati e nuovissimi commissionati a Ipsos, Swg ed altri istituti di ricerca. Sono freschi freschi e segnalano quello che in gergo della Formula uno si chiama sorpasso in frenata. Il Pd resta al palo (anche se ci sono segnali di inversione di tendenza), oscillando, a seconda delle rilevazioni, dal 23,5 al 26 e rotti. Ma il Pdl è in calo.
Calo significativo, tant’è vero che il Partito democratico lo sorpasserebbe. Di uno 0,4 per cento in un sondaggio, di un punto e mezzo in un altro. E anche l’intero centrosinistra sorpasserebbe il centrodestra (che però viene calcolato senza il contributo di Futuro e libertà). È l’astensionismo il tallone d’Achille di Silvio Berlusconi. Secondo altri sondaggi, poi, una simulazione delle elezioni con l’attuale sistema farebbe mancare ben trenta senatori al centrodestra (sempre nel caso in cui Futuro e libertà non si presenti in quello schieramento). Nello staff del segretario non vogliono ancora crederci. E infatti si guardano bene dal diffondere quei dati. Meglio aspettare un po’ e vedere se è una tendenza durevole o se, piuttosto, solo un incidente di percorso del Pdl, dopo il caso Ruby. Ma il leader non resiste alla tentazione di dire dal palco dell’Auditorium: «Stiamo diventando il primo partito del Paese». Però non pronuncia un’altra parola — «elezioni» — che forse la platea a questo punto vorrebbe da un Pd che tenta di dare di sé un’immagine vincente e, infatti, i militanti regalano un applauso più che tiepido al passaggio sul governo di transizione.
 In attesa di vedere se il vento cambi davvero e, soprattutto, di verificare se il Pd è in grado di raggranellare qualche consenso in più — cosa che finora non accade — il segretario perfeziona la sua nuova strategia. Cioè quella di tentare «la presa diretta» con il suo elettorato, quasi scavalcando il partito.
C’è un vago sentore di berlusconismo, in tutto ciò. Che ricorre in alcune frasi del discorso di Bersani. Il segretario dice di voler uscire dalla «foto di gruppo del politicismo». Una versione bersaniana del berlusconiano teatrino della politica. E ancora, il leader spiega di non volersi giocare la sfida «dentro i salotti di una riunione politica». Proprio così, testuale. E infatti l’obiettivo è quello di trovare un «contatto diretto tra la politica e il Paese».
Del resto, non è da ieri che il segretario ha impresso una virata. Sui manifesti del Pd sempre più spesso compare lui e solo lui. Certe decisioni ormai le prende senza consultare gli organismi dirigenti come si usava fare un tempo. È accaduto con la proposta, criticata dai 75 nel merito e nel metodo, di costituire gruppi parlamentari unici con Italia dei valori e Sel. Bersani ne ha ovviamente parlato ai fedelissimi, ma non «nei salotti di una riunione politica». Piuttosto ha preferito dirlo a Bruno Vespa. Anche sul governo di transizione non c’è stato nessun incontro formale dei dirigenti del Pd in cui si sia discusso. Eppure ormai quell’ipotesi è passata. E ancora: nessun problema a indire la manifestazione di piazza San Giovanni in contemporanea con la convention organizzata dai 75.

Repubblica 7.11.10
Bersani contro il premier "Minorenni come noccioline" 

Casini: Silvio stacchi la spina. Pdl: lui resta il capo  Le reazioni    La Russa sul discorso che Fini terrà oggi "Dormo sonni tranquilli"
di Giovanna Casadio

ROMA - Alza i toni Pier Luigi Bersani e conduce un attacco frontale a Berlusconi: «Se vuoi la patente per fare l´uomo pubblico devi essere una persona perbene. Non ci si può dimenticare che una minorenne è una minorenne, anche se non lo sembra, e non lo puoi sbattere sulla strada. Non sono mica noccioline queste cose qua: sono idee devastanti». Su Ruby, i festini, le telefonate per farla rilasciare dalla Questura di Milano costringendola poi a cavarsela da sola, non si può davvero glissare con il giudizio: "Sono faccende private". Il fatto che siano coinvolti minori «è drammatico e, al di là di tutto il chiacchiericcio, questo non è venuto fuori. Ma dico - scuote il segretario del Pd - come l´immaginiamo l´adolescenza in questo paese? È una vergogna. Non si possono fare e dire certe cose e governare un paese». Né continuare a parlare dei problemi «notturni e diurni» del Cavaliere, scudo Alfano incluso.
All´assemblea dei circoli del Pd, ieri, il leader democratico legge l´articolo 54 della Costituzione, quello in cui si dice: "I cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore" e richiama il decoro istituzionale. È insomma il momento di farla finita con questo capo del governo e la sua équipe.
E tutti gli occhi sono puntati su Fini. L´opposizione fa pressing perché il leader di "Futuro e libertà" si decida a staccare la spina al governo; la maggioranza blandisce o minaccia, in definitiva spera che una tregua tra Berlusconi e Fini sia ancora possibile. Bersani spiega che non è una posizione attendista la sua: «Non è che noi stiamo chiedendo Fini qui e là... noi stiamo dicendo una cosa semplice, il paese sta andando allo sbando. Berlusconi si dimetta e se non lo fa chiunque abbia senso di responsabilità, a cominciare da chi lo ha criticato fino adesso, stacchi la spina». Del resto il Pd ha lanciato la sfida al governo, appellandosi alla piazza con la manifestazione dell´11 dicembre. La spallata - o per usare le parole di Bersani "la spina da staccare" - è nelle mani del paese che «non ne può più».
Anche il leader dell´Udc, Pier Ferdinando Casini ritiene che il momento è giunto: «Continuano a dire che devono governare, ma questa è una maggioranza ormai ex che non vuole prendere atto che c´è bisogno di staccare la spina». Il messaggio di Casini a Fini è: «Assumano la responsabilità di dire basta, apriamo una fase politica nuova, perché non ce la facciamo».
Sull´altro fronte, nel centrodestra, il discorso oggi di Fini alla convention di Fli provoca un mix di attesa e insofferenza. Dal capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto dichiarazioni minacciose: «Il leader del centrodestra resta Berlusconi. E se Fini non dà «una risposta positiva e costruttiva alla proposta positiva e costruttiva del presidente Berlusconi» - ovvero a quel patto di legislatura che gli è stato offerto - «se si dovesse manifestare un aperto dissenso, l´unica via sono le urne». La Russa, l´ex "colonnello" finiano, ora coordinatore del Pdl e ministro, minimizza: «Dormirò tranquillo, non credo che nel discorso di Fini ci sarà nulla di risolutivo». Maria Stella Gelmini, ministro della Scuola, invita Fini: «Sta a lui cogliere la volontà di dialogo di Berlusconi». Mentre il ministro Rotondi si augura l´allargamento della maggioranza, «la ricomposizione con Fini non necessariamente nello stesso partito» e «la pace con Casini meglio se nello stesso partito».

Repubblica 7.11.10
L’ultima partita a scacchi del cavaliere
di Eugenio Scalfari


MA ADESSO che succede? Questa domanda se la rimpallano tutti, è addirittura diventata una domanda da bar, perfino tra persone che di solito non si occupano di politica e discutono semmai, ai bar dello sport, sulla formazione delle squadre e di Totti o di Cassano. Segno che qualche cosa di nuovo è accaduto, qualche cosa che è fuoriuscita dalla bolla del politichese ed ha raggiunto l´uomo comune, cioè la pancia del Paese.
A conferma di quanto scrivo ci sono i più recenti sondaggi sugli umori del "popolo sovrano": il livello delle astensioni, quelli che non hanno alcuna intenzione di votare, oscilla tra il 15 e il 20 per cento come è sempre stato. Aumenta invece il numero degli indecisi che viaggia al di sopra del 30 per cento. Gli indecisi sono appunto quelli che ti chiedono: «E adesso che succede?».
La domanda viene da sinistra, dal centro, da destra. Soprattutto da destra, dove è sempre più diffusa la sensazione che il ciclo berlusconiano sia concluso.
È un ciclo che dura da almeno 25 anni, perciò è sbagliato pensare che sia cominciato nel ‘94, con il primo governo del Cavaliere. È cominciato molto prima, quando ebbe inizio l´ascesa televisiva della Fininvest e l´incubazione del berlusconismo nelle vene della nazione.
Naturalmente anche altri fatti concorsero a cambiare radicalmente il profilo antropologico degli italiani: il ristagno dell´economia, la caduta della competitività nell´industria pubblica e privata, la corruzione diventata sistema di governo, il crescente distacco tra Nord e Sud, l´implosione del comunismo e la caduta del Muro di Berlino.
In una società frastornata da questi traumi e dai conseguenti disagi, il berlusconismo arrivò con un´irruenza imprevista guidando quella mutazione antropologica che ha assunto le dimensioni d´una vera e propria metamorfosi. Scomparvero le classi tradizionali, crollò il modello Iri, la grande industria si ridusse a pochissime nicchie senza più forza propulsiva, aumentarono le diseguaglianze. Tra i ricchissimi e i poveri si frappose un ceto medio gelatinoso con una tendenza all´impoverimento, dominato dalla paura di retrocedere e bisognoso di appoggiarsi alla speranza del miracolo e a qualcuno che su quella speranza costruisse il suo mito. Appoggiati cioè alla favola che ogni sera veniva messa in onda sugli schermi della televisione.
Quel ciclo è finito lasciando un paese pieno di guai materiali e di rovine morali, al punto che la parola "morale" è ormai oggetto di lazzi e sberleffi. Ogni discorso pubblico, da qualunque parte provenga, comincia sempre con la frase: «Non farò del moralismo», o con l´insulto: «Sei un moralista». Se si vuole una misura del degrado, sta tutta nell´impronunciabilità di quella parola.
E adesso che succede?
* * *
Il cambiamento morale, culturale ed economico passa - piaccia o non piaccia - per l´imbuto della politica e si svolge intorno a due nomi, al massimo tre: Berlusconi, Fini, Bossi. Sullo sfondo naturalmente c´è tutta l´opposizione da Casini fino a Di Pietro. Senza l´opposizione nulla si potrà fare ma il suo comportamento è obbligato. Vendola per il momento sta fuori dal perimetro della partita, come pure i vari Chiamparino e Renzi. Entreranno semmai in campo quando si andrà a votare perché nell´agone parlamentare, dove per ora la partita si svolge, loro non ci sono.
Berlusconi è finito, la coscienza nazionale che si sta lentamente risvegliando gli ha già notificato il cartellino giallo, ma il rosso dell´espulsione immediata ancora no; quindi è ancora in campo e giocherà molto duro proprio perché è consapevole che sarà fuori nei prossimi match.
Se volessimo adottare a mo´ d´esempio il gioco degli scacchi, direi che lui è il re che lotta per evitare lo scacco matto, Fini è la regina avversaria che può muovere in molte direzioni, Bossi gioca con una torre in difesa del re. Alfieri e cavalli distribuiteli come vi pare tra gli altri comprimari della partita, tenendo presente che molti di quei pezzi sono stati eliminati dalla scacchiera.
Berlusconi tenta di riagganciare Fini proponendogli un patto di legislatura. Se Fini accettasse, Casini dovrebbe seguirlo perché da solo al centro non ha prospettive. Ma io credo che Fini non accetterà e la ragione è semplice: se rientrasse nell´alleanza lascerebbe al suo avversario due anni di tempo, spunterebbero altri delfini e soprattutto, con questa legge elettorale, nel 2013 Berlusconi potrebbe ancora sperare di scalare il Quirinale. Allora il cartellino rosso non verrebbe mai più.
Fini parlerà oggi a Perugia. Per quello che penso io, e per ciò che abbiamo appreso ieri dalle parole durissime di Italo Bocchino, direi che tra lui e il presidente del Consiglio non c´è più terreno comune. Il nuovo partito finiano voterà i provvedimenti che riterrà utili al Paese e voterà contro per quelli che riterrà dannosi e quando venisse posto il problema della fiducia i finiani decideranno sul merito del provvedimento e non della fiducia.
Questo io penso che Fini debba fare e credo che lo farà. Ma potrebbe anche cedere alle lusinghe e alla pressione di quelli dei suoi che non vogliono rompere. Se questo dovesse avvenire, Fini entrerà in un tritacarne e nel 2013 ne uscirà ridotto a una polpetta.
Bossi. Poiché gioca con una torre, può andare soltanto in verticale o in orizzontale sulla scacchiera. Tradotto in termini politici: può sopportare a tempo indefinito che Fini faccia cuocere Berlusconi a fuoco lento e insieme con lui anche la Lega oppure può esser lui a staccare la spina tra gennaio e febbraio. La mia sensazione è che staccherà la spina o obbligherà Berlusconi a farlo.
A quel punto (cioè tra tre mesi) che succede?
* * *
A quel punto il gioco si sposta nella mani del presidente della Repubblica che ha un diritto-dovere: prima di sciogliere le Camere deve verificare se esista una maggioranza alternativa. Si può star certi che Napolitano quella verifica la farà, crollasse il mondo. Ma esiste una maggioranza alternativa?
C´è sicuramente alla Camera se Fini è pronto a dar vita insieme a Casini ad un governo che comprenda ovviamente anche il Pd e l´Italia dei valori.
Al Senato questo schieramento non raggiunge la maggioranza ma è più che probabile che parecchi senatori del Pdl passino al centro di Fini-Casini. Questo sarà il punto più difficile della verifica di Napolitano. Molto dipenderà da chi sarà la persona incaricata di sondare i vari gruppi e gruppetti di Palazzo Madama. L´altra volta il sondaggio lo fece Marini e rispose negativamente, la maggioranza alternativa non c´era. Questa volta l´incaricato della verifica dovrebbe essere una personalità del centrodestra che riscuota anche la fiducia di Fini-Casini e dell´opposizione di sinistra affinché il Quirinale e le parti in causa siano sicuri dell´obiettività della verifica.
Se la risposta sarà negativa Napolitano dovrà sciogliere le Camere, se sarà positiva si farà il nuovo governo con il centro e la sinistra. Domenica scorsa scrissi che il presidente di questo governo avrebbe dovuto essere una personalità al di sopra delle parti e dotata del massimo di autorevolezza e lo chiamai "Mister X". Ma potrebbe anche essere una personalità di centrodestra autorevole e accettata da tutti.
Noi possiamo fare previsioni ma ad un certo punto dobbiamo fermarci quando entrano in gioco le prerogative del Capo dello Stato e qui siamo arrivati a quel punto e infatti ci fermiamo.
* * *
Possiamo però ipotizzare che quel nuovo governo si faccia e la legislatura non venga sciolta. Per quanto tempo? Con quale programma?
Walter Veltroni, nella sua intervista a "Repubblica" di qualche giorno fa, ha ricordato il governo Ciampi quando in piena Tangentopoli il presidente Oscar Luigi Scalfaro incaricò il Governatore della Banca d´Italia di guidare la legislatura fuori dalle secche morali e politiche nelle quali era incappata.
Il ricordo è pertinente, l´emergenza che stiamo attraversando è anche maggiore di quella di allora per la semplice ragione che allora al governo c´era una uomo di notevoli capacità, Giuliano Amato, il quale fu il primo a indicare Ciampi al Capo dello Stato.
Oggi a Palazzo Chigi c´è un populista di pessimo conio che per di più da qualche tempo sembra anche piuttosto frastornato di testa. L´ultima uscita sugli omosessuali, se si pensa ai casi specifici, lo dimostra con evidenza.
Un Ciampi è molto difficile trovarlo ma non impossibile. Oppure, come s´è detto, un personaggio del centrodestra che dia garanzie a tutti.
È evidente che il Presidente della Repubblica ha l´interesse, anzi l´obbligo costituzionale di fare un governo senza limiti di tempo. L´ipotesi di un Ministero di cento giorni è fuori dal quadro. Quindi il programma. Non può che essere una nuova legge elettorale, un federalismo che rafforzi e non indebolisca l´unità nazionale, una gestione intelligentemente rigorosa della pubblica finanza, una nuova struttura del welfare che tuteli tutti i lavoratori e i giovani e le famiglie in particolare.
Poi, quando si andrà alle elezioni politiche, avremo un centrodestra repubblicano e costituzionale il quale si opporrà ad un centrosinistra riformatore. Il primo batterà sul binomio libertà-eguaglianza e il secondo sul binomio eguaglianza-libertà. La fraternità va bene per tutti e due.
Mi direte che questi sono sogni. Rispondo anzitutto che un po´ di sogno ci vuole. E poi rispondo che una nazione è sempre lo specchio della sua classe dirigente. Se il presidente del Consiglio e i ministri si comportano sulla base d´una visione etico-politica del bene comune, anche la nazione non considererà più la morale come una parolaccia.

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono che cosa penso di Lupi e di Ghedini che molti di loro hanno visto nei vari salotti televisivi. Che cosa penso di loro e del racconto che fanno di quanto avviene.
Io penso così: Ghedini è l´avvocato del presidente del Consiglio, Lupi è un esponente di primo piano del Pdl ed in più è anche un militante cattolico della cattolicissima Comunione e Liberazione.
Ghedini è diventato patetico nelle sue performance televisive. Ripete costantemente: «Non è vero» anche quando gli leggono un verbale firmato dal questore o da un magistrato inquirente. Sull´aspetto morale delle azioni del suo cliente si limita a dire: «Non è reato». Del resto è lui l´inventore dell´"utilizzatore finale" una frase che da anni è entrata nel gergo comune.
Il caso di Lupi è più complesso per via della sua militanza cattolica e della sua fede che lui dichiara (e noi gli crediamo) intensa e attuata nella pratica della sua vita. La sua narrazione dei fatti non differisce da quella di Ghedini e fin qui problema loro, anche se contrasta vistosamente con la realtà documentata. Ma ad un cattolico è lecito chiedere anche un giudizio morale. Ebbene, Lupi si rifiuta di darlo. Pubblicamente. Sostiene che il problema non è quello. Il problema non è morale ma di efficienza e lui sostiene che l´efficienza (di Berlusconi) c´è e questo basta perché la morale non ha ingresso nella politica.
Questo non lo diceva neppure Machiavelli che da buon fiorentino era un anti-papista per eccellenza. Non lo diceva neppure il cardinale Mazarino. Lupi invece lo dice: l´efficienza per lui cattolico fa premio sulla morale. Mi pare il massimo.
In realtà sia Lupi sia Ghedini sanno che quando Berlusconi uscirà di scena anche loro usciranno è dunque in gioco la loro sopravvivenza come uomini di potere. Perciò sono pronti a dire che l´asino vola e che Berlusconi riceve le "escort" perché ha buon cuore. La sopravvivenza è la sopravvivenza. La morale l´hanno smarrita da tempo, ma io ho scritto qualche anno fa un libro intitolato «Alla ricerca della morale perduta» perciò li perdono sperando che la ritrovino.

Corriere della Sera 7.11.10
Legge elettorale, cosa fare
di Giovanni Sartori


In uno Stato ben ordinato debbono esistere punti fermi e problemi risolti. Per esempio la Costituzione (la regola delle regole) e anche il sistema elettorale. Invece la nostra Costituzione viene sempre più stravolta da interpretazioni «materiali» di natura populistica che appunto la stravolgono. E ora torna prepotentemente in ballo il sistema elettorale.
La Prima Repubblica adottò un sistema proporzionale che funzionò discretamente fino alla caduta del potere democristiano. Ma il proporzionalismo è esposto a due degenerazioni: la trasformazione del sistema parlamentare in un sistema assembleare ingovernabile perché troppo frantumato e anche perché troppo indisciplinato. In Italia queste degenerazioni furono bloccate sia dalla malfamata «partitocrazia», sia perché il pericolo comunista non consentiva voti sprecati. Così la proporzionale non moltiplicò il nostro sistema partitico oltre misura. La Prima Repubblica fu governata da più o meno cinque partiti, uno dei quali, la Dc, era dominante. Ma questo edificio crollò con la fine del comunismo sovietico.
Io raccomandai, a quel tempo, un sistema maggioritario a doppio turno, come in Francia. Invano. Fu adottato, invece, il Mattarellum, un sistema per 3/4 maggioritario e per 1/4 proporzionale. Secondo i promotori di questa pensata il Mattarellum avrebbe prodotto anche in Italia un sistema bipartitico all’inglese. E quando il bipartitismo non arrivò (come si sapeva benissimo) la colpa fu addossata al «misto», al 25 per cento di proporzionale. Accusa ridicola, tanto più che se distribuita sulle due C a mere lasuaincidenza complessiva si riduceva a un misero 12,5 per cento. In realtà il Mattarellum produsse la frantumazione del nostro sistema partitico. Tanto vero che il secondo governo Prodi dovette imbarcare una sconnessa ammucchiata di partitini che lo fecero franare nell’inconcludenza.
Riacciuffato il potere, il governo Berlusconi-Bossi inventò un sistema inedito, il Porcellum, fondato su uno smisurato e inaccettabile premio di maggioranza. Un premio in virtù del quale la maggiore minoranza (anche se fosse soltanto, per esempio, del 30 per cento dei voti) conquista il 55 per cento dei seggi in Parlamento. Si capisce che questo sistema piaccia al Cavaliere, che lo dichiara intoccabile. E siccome nuove elezioni potrebbero essere prossime, ecco che si moltiplicano le proposte per farlo saltare. Tra queste l’iniziativa di ieri (su questo giornale) del professor Stefano Passigli, già senatore, è quella che mi convince di più. Passigli preannunzia un referendum abrogativo della legge vigente, del Porcellum, che in sostanza ne cancella il premio di maggioranza.
Si potrebbe fare di più e anche di meglio. Ma è già emerso dall’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere del 12 ottobre che i nostri esperti continuano a essere in disaccordo e anche a proporre sistemi elettorali fantasiosi. So bene che il referendum è un grosso sforzo ma produrrebbe una soluzione accettabile e sensata per tutti. Sarebbe l’ora.

l’Unità 7.11.10
Da Brescia a Milano, migranti «sospesi» per la regolarizzazione
In migliaia hanno manifestato a Brescia per i migranti «truffati» dalla sanatoria su colf e badanti del 2009. Stesse scene a Milano, dove in sette da due giorni sono saliti su una ciminiera per ottenere la regolarizzazione.
di Giuseppe Vespo


«Ieri Brescia, oggi Milano, domani in tutta Italia», cantano e sperano gli immigrati raccolti sotto la ciminiera di via Imbonati, a pochi passi da piazzale Maciachini, periferia Nord di Milano densamente abitata da stranieri. Sopra i loro occhi, a circa quaranta metri d’altezza sette ragazzi protestano da due giorni: chiedono una «sanatoria per tutti», perché «immigration is not a crime», spiega uno striscione pendente dall’ex camino industriale della farmaceutica «Carlo Erba».
Dopo Brescia, anche a Milano i migranti manifestano per ottenere la regolarizzazione. Sospesi, sulla ciminiera, ci sono cinque egiziani, un argentino e un marocchino, tutti sotto i quarant’anni. Sul piazzale un gazebo, due tende e un centinaio di persone a dargli sostegno. Fa freddo, soprattutto di notte, ma loro dicono di voler andare avanti fino a quando non avranno dal governo le risposte che aspettano. A mediare è la prefettura. Le richiesta sono sei, dice Najat Tantaoui, combattiva portavoce del Comitato Immigrati in Italia, presidente dell’associazione Dialogo, titolare di una cartoleria e mamma di quattro bambini «nati in Italia e che si sentono italiani, cosa di cui sono fiera». Sei richieste, dicevamo. Innanzitutto un passo indietro rispetto alla «sanatoria truffa del 2009», quella che permetteva di mettere in regola colf e badanti.
Continua Najat: «Molti di noi da lavoratori hanno cominciato a pagare i contributi Inps ma aspettano ancora la regolarizzazione. Tanti altri invece hanno denunciato i datori di lavoro che chiedono di essere pagati per avviare le pratiche». Una sorta di pizzo sui documenti. Ma non ci sono solo colf e badanti. C’è la richiesta del diritto di voto per chi è residente da almeno cinque anni. Il diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia. Il prolungamento dei termini di scadenza del permesso di soggiorno quando si perde il lavoro. Riprende Najat: «Quelli che hanno perso il posto per via della crisi hanno solo sei mesi per trovare un’altra occupazione. Scaduto il permesso devono andare via. Noi chiediamo un proroga di due anni». Infine «il riconoscimento dei rifugiati politici come esseri umani».
MIGLIAIA A BRESCIA
Rivendicazioni simili a quelle avanzate dai cinque stranieri di Brescia che da più di una settimana si trovano su una gru nel cantiere della metropolitana di piazzale Cesare Battisti, in centro città. Sono saliti a 35 metri d’altezza dopo lo sgombero di un loro presidio e gli scontri con le forze dell’ordine. Dopo il «no» del prefetto alla richiesta di permesso di soggiorno, con loro ieri alcune migliaia di persone hanno manifestato
con un corteo. Nella folla c’era anche un gruppo di genitori di Adro, il comune famoso per la scuola in cui sono stati collocati circa 700 simboli del sole delle Alpi. La giornata di proteste migranti ha fatto registrare anche una manifestazione a Sassari, dove qualche giorno fa due stranieri sono stati aggrediti. Circa duecento persone hanno sfilato dietro lo striscione «No violenza, no razzismo».

Repubblica 7.11.10
Clandestini, espulsioni flop rimpatriato solo uno su tre
di Vladimiro Polchi


Mihai è moldavo. A Roma, lavora come piastrellista e imbianchino. Sua moglie è in regola: fa l´infermiera. Mihai, invece, i documenti non ce li ha. La polizia l´ha pure fermato e gli ha consegnato un foglio di via. Ma lui non ci pensa a tornare a casa. Resta in Italia, da invisibile. Mihai è il granello di sabbia che blocca l´ingranaggio, è il fallimento della politica delle espulsioni.
Nel 2009 su oltre 52mila irregolari fermati, solo 18mila (il 34,7%) sono stati effettivamente rimpatriati. E´ il dato più basso dal 1999. Stando all´Ocse, oggi in Italia vivono e lavorano oltre mezzo milione di immigrati irregolari. Il loro allontanamento dovrebbe avvenire o direttamente alle frontiere (respingimenti) o dopo l´ingresso sul territorio italiano (rimpatri). I risultati? Nel 2009 i respingimenti sono stati 4.298, in netto calo rispetto agli anni precedenti: 20.547 nel 2006, 11.099 nel 2007 e 6.358 nel 2008. Quali sono le nazionalità più respinte? Dopo l´ingresso di Romania e Bulgaria nella Ue, in testa ci sono gli albanesi (471 casi nel 2009), seguono i marocchini (320), i cinesi (196), i brasiliani (196) e i tunisini (186). La maggioranza dei respingimenti avviene negli aeroporti (2.719), seguono le coste (911) e le frontiere di terra (668).
Stessa curva discendente si registra per i rimpatri: erano 24.902 nel 2006, 15.680 nel 2007, 17.880 nel 2008 e solo 14.063 nel 2009. Insomma, come denuncia l´ultimo Dossier Caritas/Migrantes, l´anno scorso su un totale di 52.823 irregolari fermati dalle forze dell´ordine, solo 18.361 (tra respinti e rimpatriati) sono stati effettivamente allontanati: pari al 34,7%. Il che conferma il trend decrescente dal lontano 1999.
Le cose non andrebbero meglio nel 2010: stando a quanto dichiarato il 16 agosto scorso dal ministro dell´Interno, Roberto Maroni, dall´inizio del 2010 sono stati espulsi solo 9mila irregolari. Non è tutto.
Neanche i Centri d´espulsione paiono davvero funzionare, nonostante dal 2009 il tempo massimo di trattenimento sia passato dai due ai sei mesi. Se, infatti, da un lato è diminuito il numero degli irregolari trattenuti (16mila nel 2005, 10.913 nel 2009), la quota dei rimpatriati è crollata: erano il 68,6% dei trattenuti nei Cie nel 2005, solo il 38% nel 2009. E ancora: gli irregolari fermati e sanzionati nel 2009 sono stati 52.823, dunque solo un decimo degli immigrati senza documenti presenti in Italia, secondo l´Ocse.
Il calo di respingimenti e rimpatri potrebbe trovare spiegazione nella diminuzione del numero di irregolari presenti oggi in Italia? In fondo, stando ai dati del Viminale, dal 1 agosto 2009 al 31 luglio di quest´anno gli sbarchi sono diminuiti di ben l´88%. Peccato, però, che solo una minoranza degli immigrati che finiscono nella clandestinità arriva via mare. L´Istat, per esempio, ha calcolato che gli sbarchi nel 2008 hanno inciso solo per il 5,4% sugli ingressi irregolari in Italia. Il 65% degli immigrati, infatti, entra con un regolare visto turistico e alla scadenza resta da irregolare: li chiamano overstayers. Un altro 30% arriva via terra, attraverso le frontiere degli accordi di Schengen. E allora?
«La creazione della sacca di irregolarità - sostiene Franco Pittau, coordinatore del Dossier Caritas/Migrantes - non avviene a seguito degli sbarchi, ma degli ingressi regolari in Italia. La strategia di contrasto della clandestinità allora non può ridursi alla chiusura delle rotte via mare, ma deve ricorrere ad altri strumenti: una maggiore flessibilità nelle quote d´ingresso e il prolungamento da 6 a 12 mesi del permesso di soggiorno per attesa occupazione, nel caso in cui il lavoratore straniero perda il lavoro».

l’Unità 7.11.10
La morte di Tolstoj
Una profezia del Novecento
di Roberto Brunelli


L’anniversario Oggi cent’anni fa, nella stazionicina ferroviaria di Astopovo, morì lo scrittore più grande , al termine di una folle fuga in treno da tutto e da tutti. Un gesto fortemente emblematico: quasi un’ipotesi di modernità

Fu un’allucinazione? Di certo fu una fuga verso la morte, forse non consapevole, ma violentemente emblematica. Non a caso se ne accorse in tempo reale tutto il mondo: vennero qui, per il primo grande reality show della storia, i corrispondenti delle grandi testate nazionali, i fotografi e i primi cineoperatori di un secolo breve che aveva appena compiu-
to i dieci anni, lì nella stazioncina di Astopovo, dove la corsa a zig zag attraverso un pezzetto di Russia coperta di neve finì tra i colpi di tosse di un’ovvia polmonite. Un piccolo snodo ferroviario, qualche freddo vagone di terza classe per non farsi scoprire, notti e giorni febbrili passati a girovagare in un raggio di non oltre centocinquanta chilometri, l’intreccio di lettere con i figli che cercano di convincere l’anziano padre a tornarsene a casa e metter fine a questa follia, poi i giornali con i titoli a caratteri cubitali, l’arrivo della moglie Sof’ja cui solo quando il grand’uomo aveva perso conoscenza fu permesso di vederlo, la folla venuta a veder morire il più grande scrittore di tutti i tempi.
Tolstoj è morto oggi cent’anni fa e per certi versi è come fosse accaduto ieri. Accompagnato dall’immensa sua barba bianca, dal proprio medico e dalla figlia Aleksandra, l’ottantadueenne Lev Nikolaevic, scappato poche notti prima dalla propria tenuta di Jasnaja Poljana, costruì con la sua morte un pezzo di modernità. O, se non altro, la morte dell’uomo che aveva consegnato al mondo Guerra e Pace è piena di suggestioni assolutamente novecentesche, tanto da appassionare negli anni gente come Thomas Mann, Rainer Marias Rilke, Stephan Zweig, George Orwell: il mito della fuga, per esempio, il «road movie», la ribellione dal fortissimo stampo utopistico, il «reality show» come impropriamente abbiamo detto, il rapporto del tutto fuori dal comune con la moglie Sof’ja, sommamente conflittuale eppure lontanissimo dalle usanze dell’epoca, al tempo stesso rigonfio di echi provenienti dalla Sonata a Kreutzer.
Pare di ritrovarsi magicamente infilati in mezzo ad un suo romanzo, il che non è strano se si pensa che i suoi romanzi sono pieni di Tolstoj. Immaginatevelo, il vecchio utopista, l’impenitente moralista pieno di dubbi, lo scrittore celebre in tutto il mondo che oppresso dalla vita familiare e perseguitato dalle proprie aspirazioni di una vita «pura» e in povertà fugge dopo aver sentito, di notte, il fruscio di Sof’ja che fruga tra le sue carte. Così come si può credere a quelle che si dicono esser state le sue ultime parole, sul lettino sul quale l’avevano sistemato lì ad Astopovo: «Bisogna svignarsela... Svignarsela! La verità... Io amo tanto... come loro...». Nei giorni dell’agonia aveva ripetuto: «Andrò in qualche posto, che nessuno me lo impedisca, lasciatemi in pace».
Tolstoj, in vita e in morte, era i suoi romanzi. Prendete Pierre Bezuchov: come lui, aveva cercato migliorare le condizioni dei suoi contadini, incontrando la stessa diffidenza, come lui sembrava un candido quando viene messo a confronto con il potere. E c’è moltissimo di Tolstoj in Levin (Anna Karenina), dedito alla terra come Tolstoj, il quale piantò di persona non si sa quante centinaia di alberi a Jasnaja Poljana, e non è un caso che volesse essere sepolto in uno dei boschetti della tenuta: «Quando l’uomo nasce è flessibile e debole: quando è rigido e forte, muore. Quando gli alberi nascono, sono flessibili e teneri: quando sono secchi e duri, muoiono. La rigidità e la forza sono compagne della morte. La morbidezza e la debolezza sono compagne della vita».
VIOLENZA E ASTRAZIONE
C’è chi quest’aspetto della galassia tolstojana lo chiama «panteismo naturalista»: quel che è sicuro è che ci sono visioni, in Tolstoj, legate alla natura, che oggi definiremmo psichedeliche, per esempio proprio nella descrizione del lavoro nei campi di Levin in Anna Karenina, visioni che appaiono e scompaiono, immagini fluttuanti che contengono in sé elementi di trance, pulsazioni mistiche con una fortissima carica imaginifica. Chi lo capì benissimo fu Sergej Bondarciuk, il regista cui riuscì l’immane compito di trasformare Guerra e Pace per il grande schermo, facendone, peraltro, un nuovo capolavoro. Non solo nelle immagini di piante, alberi o nelle infinite lande russe trasfigurate e pulsanti come fosse la stessa Russia una unica immensa creatura vivente, ma anche, specularmente, nelle immagini di battaglia: dapprima, in mezzo agli spari, al sangue, ai corpi che cadono, la macchina da presa si alza, si muove sopra le teste dei soldati russi e di quelli francesi fino a diventare una ripresa aerea nella quale le differenze tra i combattenti si assottigliano sempre di più tanto da annullarsi, diventando le fughe e le avanzate dei vari pezzi di esercito una sorta di vortice sempre più astratto, sempre più insensato. Una specie di allucinazione, forse. Certamente la verità assoluta di Tolstoj.

il Fatto 7.11.10
“Il destino naturale di un Paese a pezzi”
L’archeologo De Simone: “Incuria criminale”
di Stefano Caselli


“Un crollo di questa portata, purtroppo, è il naturale risultato di almeno dieci anni di incuria gestionale da parte della sovrintendenza. Io sono stato sovrintendente per troppo poco tempo, non ho avuto il tempo di fare ciò che avrei voluto, ma non intendo fare polemica, quel che è accaduto è grave”. Antonio De Simone, docente di Archeologia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, socio onorario dell’Associazione nazionale archeologi, tra i massimi esperti in campo internazionale dell'archeologia dell’area vesuviana, appreso del crollo della Domus dei Gladiatori, non nasconde un amaro fatalismo: “Si tratta di episodi che non sono certo la regola, ma nemmeno una rarità”.
Professor De Simone, che cosa abbiamo perso? La Domus dei Gladiatori è una delle tante abitazioni di Pompei che, come tutti sappiamo, è una vera città, non un semplice sito archeologico. Ad essere sinceri, non è uno dei punti di maggior interesse, nel senso che non si va a Pompei per vedere proprio quella cosa lì. Tuttavia è – o meglio, era – un tassello importante del disegno urbano della città, perché stiamo parlando di un isolato ad angolo retto che si affaccia su via dell’Abbondanza, la principale arteria di Pompei. Dunque, nel disegno complessivo, è un danno indubbiamente molto grave.
Un danno irrecuperabile?
Non saprei, dovrei vedere con i miei occhi. Di certo, quando crolla un pezzo di patrimonio artistico, cercare di ricostruire – per quanto possibile – è un obbligo morale. Pensiamo, ad esempio, al portico della chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma: la bomba mafiosa del 28 luglio 1993 l’aveva quasi completamente distrutto, ma per fortuna siamo riusciti a ricostruirlo. Per Pompei deve va-
lere la stessa cosa. Si tenga conto che la Domus dei Gladiatori fu già gravemente danneggiata durante la Seconda guerra mondiale, perché i caccia alleati, di ritorno dalle incursioni su Napoli, avevano l’esigenza di liberare il carico prima di rientrare alla base e purtroppo qualche bomba cadde anche su Pompei. Ma tutto fu prontamente restaurato, dipinti compresi.
Il tetto fu ricostruito in cemento armato. È normale sistemare – e mantenere – un carico simile su un edificio di quasi duemila anni?
Non si tratta di un intervento anomalo, diciamo che è una tecnica sorpassata, come tante altre. Al Partenone di Atene, per fare un esempio, stanno sputando sangue per eliminare i ferri inseriti nelle colonne. Negli anni ‘20 del secolo scorso, era normale intervenire con il cemento armato, che era considerato non solo utile dal punto di vista conservativo, ma anche di pregio. Ora si cerca di toglierlo; ma la Domus non è crollata per il peso del cemento armato, è collassata per una banalissima carenza di manutenzione ordinaria: il soffitto non impermeabilizzato, dunque infiltrato d’acqua, e l’incuria cui sono stati abbandonati i muri, il peso del cemento armato non c’entra.
L’incuria è una conseguenza della mancanza di risorse?
Le risorse sono fondamentali e non c’è dubbio che siano carenti. Ma prima delle risorse vengono le idee, e se le idee sono buone camminano con le loro gambe. È necessario por mano a un restauro complessivo della città, intesa come unicum. Ma non si può fare tutto e subito, ci vogliono tempo e programmazione, partendo dalla consapevolezza che la città antica è un organismo debole e un intervento conservativo complessivo non può durare pochi mesi o qualche anno, ma deve essere programmato sul lungo periodo, con risorse scaglionate per periodi brevi. Se fossi l’amministratore e mi dessero tutti i soldi in una volta, li darei indietro, perché rischierei di spenderli in fretta e male. Bisogna agire per gradi, anche perchè Pompei è un luogo aperto al pubblico e non avrebbe senso chiuderlo per cinque, sei anni di fila.
Quando costerebbe un intervento conservativo efficiente? Credo che per un intervento davvero serio servirebbe una cifra non inferiore ai 500 milioni di euro, spalmati su 20-25 anni di operazioni mirate. Se qualcuno pensa che siano troppi, è sufficiente ricordare che 500 milioni sono una cifra risibile in confronto ai costi di una linea ferroviaria ad alta velocità o di qualche decina di chilometri di una normale autostrada.
Se Pompei cade a pezzi è anche colpa della politica? Sicuramente è un problema politico, ma soprattutto culturale. Il patrimonio artistico è la risorsa più importante del nostro territorio, lasciarlo deperire è semplicemente delittuoso, oltre che stupido. Tuttavia, quello che accade al patrimonio artistico italiano è, purtroppo, lo specchio di quello che è il nostro Paese. La riforma dell’Università funziona? La riforma (o supposta tale) della Giustizia che si vuole è quella giusta? In Italia sta andando tutto a rotoli, perché i beni culturali dovrebbero fare eccezione?

il Fatto 7.11.10
Achille Bonito Oliva
“Non abbiamo memoria di niente”
di Eduardo Di Blasi


“In Italia i beni    archeologici vengono ritenuti dei beni naturali, come se fossero piante, o rocce. Si pensa che ne abbiamo a sufficienza e che quindi, non dobbiamo preoccuparcene. Così, quando avvengono vicende come quella del crollo della Domus dei gladiatori di Pompei, sopravviene l’idea che non sarà poi questo grande guaio. In fondo, lasci che le dica, se ne dispiaceranno più i turisti inglesi e tedeschi che venivano a visitarli, che non i nostri concittadini”. Achille Bonito Oliva, professore, critico d’arte di statura internazionale, campano di nascita, non se la prende con i tagli del governo o con la malagestione degli ultimi cinque, dieci o venti anni. Se a Pompei un’infiltrazione d’acqua ha fatto crollare uno degli stabili di via dell’Abbondanza, un tassello del patrimonio dell’umanità, questo dipende anche dall’atteggiamento “da civiltà contadina” che gli italiani hanno maturato rispetto alle meraviglie architettoniche che ci ha lasciato la storia: “È come quando c’è un lutto in una famiglia molto numerosa. Ci si dispiace, ma non è un dramma. Come dire? Gli italiani non hanno una corretta misura di questi valori perché ritengono di possederne in abbondanza. Si ritiene che basti lasciarli lì dove sono, senza toccarli”.
E la politica?
La politica soffre dello stesso male. Chi ci amministra a Pompei viene più volentieri per vedere il santuario della Madonna che gli scavi della città distrutta dal Vesuvio. È gente che a Venezia va a piazza San Marco a fare le foto con i piccioni.
E intanto c’è un patrimonio artistico che va sbriciolandosi sotto i nostri occhi... Io sono più preoccupato dell’indifferenza con cui questi crolli vengono accolti. È passata un’idea proprietaria dei beni culturali, come se questi fossero di chi li amministra in un dato momento. Non è così. Pompei non è di chi la gestisce oggi, o di chi lo ha fatto ieri: è un bene collettivo, dell’umanità, che appartiene a tutti. Ed è per questa ragione che deve essere tutelata.
Non essendo una cosa di nostra proprietà, o non riconoscendone l’importanza, lei afferma, finiamo per dimenticarcene...
Credo che a questo contribuisca anche l’abbaglio televisivo, che in qualche modo finisce per sostituire il reale. La virtualità nella quale viviamo finisce per appianare qualunque dolore estetico. Se io ho fissato Pompei in un videogioco o in un documentario, è di quello che serbo memoria. Anche perchè, spesso, non conserviamo memoria di questi luoghi perchè questi luoghi non sono da noi frequentati.
I siti archeologici figurano ai primi posti in Italia per numero di visitatori... Il nostro patrimonio antico è rispettato e onorato dai turisti che arrivano dalla Germania, dalla Francia, dal resto dell’Europa. Noi continuiamo a vivere nel mito di “Roma, capitale dell’Impero”, e quello ci basta. È nel resto dell’Europa che è sopravvissuta una cultura da “grand tour”, quella che nel 1600 muoveva i figli delle buone aristocrazie a spingersi verso il viaggio di formazione. Se oggi va a Pompei, o a Ercolano, o anche a Piazza Armerina, trova tantissimi viaggiatori che arrivano da altri Paesi europei, e pochissimi italiani.
Il quadro che lei disegna è sconfortante: non c’è un interesse per
dei beni che il resto d’Europa ci invidia. E in questo disinteresse collettivo questi stessi beni si sfaldano. Come se ne esce?
Io credo che si debba cominciare dalla scuola, come per la raccolta differenziata. Fino ad oggi, nel nostro Paese, non c’è stato nessun tentativo pedagogico di questo tipo. Probabilmente si dovrebbe cominciare a farlo.

Repubblica 7.11.10
Uno scandalo mondiale
di Salvatore Settis


Nelle guerre si contano i morti e si dimenticano le cause. Il crollo della schola armatorum a Pompei è una notizia che sta facendo il giro del mondo, come è successo negli ultimi mesi a Roma coi crolli della Domus Aurea e del Colosseo.
Ma la vera notizia è che molto altro, a Pompei ed Ercolano come a Roma, ancora "regge", a dispetto dell´incuria, dei brutali tagli di bilancio, delle continue riduzioni del personale, della mancanza di turn over. Altri crolli, altre rovine, altri disastri arriveranno, immancabili. Il punto è se vogliamo rassegnarci a tenere il conto dei monumenti condannati alla distruzione, o interrogarci sulle cause.
Quando il governo annunciò, col decreto-legge 112 (luglio 2008), un taglio ai Beni Culturali per oltre un miliardo e 200 milioni di euro nel triennio, fummo in pochi a denunciare l´enormità dello scippo a un bilancio già drammaticamente inferiore alle necessità di un patrimonio enorme come il nostro. Ma quasi nessuno volle capire che a un taglio di tale portata non potevano che seguire disfunzioni e problemi d´ogni sorta; anzi, a ogni nuovo disastro non manca chi cade dalle nuvole e si chiede "come mai?", senza collegare gli effetti con le cause. Come se dovessimo fare le meraviglie per l´insorgere della carestia in una zona di estrema povertà. L´irresponsabile taglio dei finanziamenti è dunque una causa primaria di questi e altri crolli, ma non la sola. Da vent´anni governi di ogni colore hanno fatto poco o nulla per rinnovare i quadri delle Soprintendenze, lasciando invecchiare i funzionari senza sostituirli. Si è fatto anzi di tutto per svuotare gli organici, spedendo in pensione d´autorità eccellenti archeologi e storici dell´arte allo scadere dei 40 anni di servizio. Emblematica la situazione di Pompei: andato in pensione Piero Guzzo, uno dei migliori soprintendenti italiani, si sono succeduti nel giro di un anno e mezzo ben tre soprintedenti ad interim (uno dei quali al tempo stesso doveva reggere la Soprintendenza archeologica di Roma), creando ovvie discontinuità di gestione.
Come se non bastasse, i soprintendenti di Pompei (e non solo) sono stati ripetutamente esautorati e delegittimati mettendo al loro fianco un commissario straordinario del Ministro: il primo fu un prefetto in pensione (Profili), il secondo un funzionario della Protezione Civile (Fiori). Come mai si possa affidare Pompei a un prefetto in pensione, e non invece ritardare di un solo giorno il pensionamento di un archeologo, è un mistero in attesa di soluzione. Pompei è fra i siti archeologici più visitati al mondo, e ha introiti annui di circa 20 milioni di euro. Nei corridoi del Ministero si ritiene evidentemente che siano troppi, dato che il 30% sono dirottati su altri poli museali; inoltre, il commissario ha incamerato almeno 40 milioni di euro destinandoli in buona parte non all´archeologia, ma a eliminare i cani randagi, a illuminare strade malfamate e ad altre operazioni di facciata, peraltro a quel che pare con scarso successo. È di pochi mesi fa l´apertura di un´inchiesta della Corte dei Conti sulle procedure di emergenza adottate a Pompei.
Anziché affrontare questi ed altri problemi, anziché reperire nuove risorse, chi ci governa si accontenta di annunciare periodicamente l´avvento di prodigiose Fondazioni (che non esistono), la pioggia di capitali privati (che non arrivano), gli imminenti miracoli della Protezione Civile, credibili quanto la fine dell´emergenza spazzatura in Campania. Ingabbiati in un effetto-annuncio autoreferenziale, ministri e sottosegretari forse non riescono più nemmeno a vedere il nesso elementare fra il taglio delle risorse e il crescere dei problemi; o forse sono ancor più colpevoli, perché lo vedono e lo nascondono ai cittadini. Non fanno nulla per rimediare alle crescenti, drammatiche carenze di personale. Intanto la delegittimazione delle Soprintendenze ha fatto un altro passo avanti: il Consiglio di Stato ha appena cestinato la tutela del sito archeologico di Saepinum (Molise), con una sentenza che offende il Codice dei Beni Culturali e la Costituzione, autorizzando una centrale eolica contro il divieto della Direzione Regionale ai Beni culturali. Italia Nostra ha già elevato in merito una vibrata protesta: l´affermata priorità di un permesso comunale sulle esigenze di tutela è gravissima non solo perché condanna a morte un sito archeologico di primaria importanza ma perché costituisce un pericoloso precedente, quasi il prevalere della Costituzione immaginaria vagheggiata da Tremonti, dove la libertà d´impresa sarebbe il principio supremo, sulla Costituzione reale e vigente secondo cui la libertà d´impresa non dev´essere «in contrasto con l´utilità sociale» (art. 41), e la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione» (art. 9) è un valore primario e assoluto.
Per affrontare degnamente i problemi della tutela in Italia basterebbe recuperare meno dell´1% della gigantesca evasione fiscale (la più grande del mondo occidentale in termini assoluti e relativi). Di fronte a Pompei che crolla, a Saepinum invasa dalla pale eoliche, che cosa intende fare il governo? Fino a quando

il Fatto 7.11.10
Pubblica devastazione
Nell’indifferenza delle istituzioni, Gelmini e Brunetta sferrano l’attacco definitivo alla scuola italiana: un’aggressione che gli studenti e i sindacati affrontano opponendosi anche con l’ironia
di Marina Boscaino


Settimane calde per la scuola.
Dopo gli studenti, dopo il Coordinamento Precari, il 6 novembre è stato il turno della CGIL Funzione Pubblica, con presidi a cui partecipano anche gli insegnanti. Risposta a 300.000 unità di taglio annunciate da Brunetta e alla prossima entrata in vigore del suo decreto sulle nuove sanzioni disciplinari per il personale della scuola, che intanto Gelmini continua indisturbata e autoreferenziale a delegittimare. Tocca ai dirigenti scolastici, disobbedienti potenziali. Va detto, in minima parte: la maggioranza si è dimostrata, in questi anni di mobilitazione per la scuola pubblica, più realista del re, assecondando (se non anticipando) la volontà del ministro. Prevenire è meglio che curare e Brunetta ha ottimi vaccini; ad esempio, il “bavaglio”. Azioni di repressione vera e propria nei confronti di chi nei collegi-docenti si batte per procedure legittime, autonomia e prerogative degli organi collegiali: è il caso del docente di Carpi, Mele, e del suo scontro con Limina, direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Emilia Romagna, promulgatore di circolari e editti liberticidi, uno dei luogotenenti che Gelmini usa per tacitare il dissenso, di cui Il Fatto si è occupato. Ora dirigenti diffidati dall’esprimere pareri in contrasto con le strategie ministeriali.
LA DIZIONE è ambigua: le esternazioni considerate “manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’amministrazione, salvo che siano espressione della libertà di pensiero” porteranno alla “sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di 3 giorni a un massimo di 6 mesi” (e nel frattempo la scuola cosa fa?). Il sottile limite tra libertà e ingiuria sarà stabilito dai Direttori Regionali (tra cui Limina, appunto). Il Codice Disciplinare, pubblicato sul sito del Miur, prevede anche pene per il preside reo di coprire comportamenti irregolari da parte di personale Ata o docenti. Concretizza così il doppio vincolo di randello tra le mani di chi (privo di autorevolezza culturale, carisma personale e consapevolezza della propria funzione politica come dirigente di una scuola pubblica) vorrà sanare frustrazioni pregresse, in un esercizio di potenza, i cui limiti sono lasciati alla libera interpretazione di funzionari alle dipendenze del ministero. O di strumento per scoraggiare – in temperamenti pavidi – contributi alla mobilitazione. In entrambi i casi, utilissimo per diffondere un clima da “pensiero unico” (solo minacce e repressione possono far inghiottire l’amara pillola della dismissione della scuola pubblica) sotto le mentite spoglie di etichette apparentemente neutre: valutazione, rispetto, controllo, rendicontazione sociale. Imporre alla scuola pubblica –luogo di laicità e pluralismo – limitazioni alla libertà di pensiero è l’aspetto più drammatico dell’equivoco strumentale (ma compenetrato nel Dna di questa classe dirigente) tra autorevolezza e autoritarismo. Voltiamo pagina: un’indagine Acri-Ipsos, in occasione dell’86esima Giornata del Risparmio, rivela che una buona parte degli italiani ritiene indesiderabile il taglio non solo di sanità e pensioni, ma anche di istruzione e ricerca. Un’altra indagine, “Consumi e consumatori dentro la Crisi”, realizzata dalla Provincia di Roma, con l’Università Roma Tre Facoltà di Economia (prof. Trezzini e dr. Naccarato), dimostra che le spese per l’istruzione, sacrificate dal 20% delle famiglie interpellate, hanno comunque “tenuto” molto più di altre. Le famiglie di qualsiasi provenienza socioeconomica ritengono essenziali le spese per istruzione e libri non scolastici, anche per guadagnare stima sociale. L’istruzione, insomma, è considerata bene irrinunciabile. La risposta a questi nobili bisogni si sta concretizzando nel taglio di 8mld alla scuola. E nelle conseguenze che studenti, lavoratori e pubblica istruzione quotidianamente affrontano. Due facce della stessa medaglia: avvertimenti di direzioni contrarie alla costruzione della civiltà della cultura e della libera espressione. Ricordo divertita e sottoscrivo lo slogan della bella manifestazione napoletana di una settimana fa: ‘Vogliamo un’eruzione di Pubblica Istruzione’. Controproposta al mondo grigio di Gelmini e Brunetta.

Corriere della Sera 7.11.10
Le parole per raccontare la bellezza del mondo
di Jean Starobinski


Come dire e descrivere la bellezza del mondo? Per far questo, afferma Proust alla fine di Combray, bisogna superare «il disaccordo tra le nostre impressioni e la loro espressione». Ma che cosa significa accordo tra impressione ed espressione? In base a quale criterio si può apprezzarne la giustezza? Proust sa bene che l’emozione non si comunica in virtù della sua sola intensità. Essa deve conquistare i mezzi, verbali o pittorici, che la interpreteranno per manifestarla. Per nascere, i poteri della parola richiedono un percorso di apprendistato, un progresso iniziatico. Il romanzo di Proust, come è ben noto, ripercorre, con gli strumenti della maturità infine raggiunta, tutta la serie semi-fittizia dei tentativi ingenui, degli errori, dei traviamenti, delle ferite che precedettero la chiara consapevolezza del compito da svolgere. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo. La padronanza tardiva è stata pagata con l’accettazione di molte perdite, e soprattutto con l’ammissione del soccorso della memoria involontaria che va di pari passo con l’ascesi volontaria e con il rifiuto di ogni «idolatria». Solo una volta invecchiato, l’adolescente esaltato che avrà ormai attraversato tanti paesaggi, tanti lutti, tante futilità mondane, potrà descrivere con ironia l’emozione provata nei dintorni di Combray alla fine di una giornata in cui il mondo aveva svelato davanti ai suoi occhi un fugace sprazzo della sua bellezza: «Il tetto di tegole creava nello stagno, che il sole aveva reso di nuovo specchiante, una marezzatura rosa alla quale, prima, non avevo mai fatto attenzione. E vedendo che sull’acqua e sulla superficie del muro un pallido sorriso rispondeva al sorriso del cielo, gridai in preda all’entusiasmo, brandendo il mio parapioggia arrotolato: "Accipicchia, accipicchia!" Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto».
Pierre-Auguste Renoir «L’Estaque» 1882. All’inizio degli anni 80 dell’Ottocento, Renoir e Cézanne dipingono talvolta insieme in Provenza. Affrontano il medesimo soggetto paesaggistico da angolazioni diverse e in ore diverse
La testimonianza del ricordo porta con sé, nello stesso istante, un compito etico: il senso di un dovere, e un imperativo di conoscenza, «vedere più chiaro», vengono distintamente percepiti, al di là del trasporto estetico. Il narratore se ne rende conto solo molto più tardi: una sensazione di inquietudine aveva accompagnato l’ebbrezza, incapace di manifestarsi se non attraverso un’esclamazione ripetuta, quasi un grido di dispetto. Il giovane del passato era stato il testimone — affascinato, inerme, colpevole — della bellezza, apparsa tra cielo e terra in un gioco di immagini e di luci. Attraverso la memoria riflessiva, in risposta al ricordo di quella visione, il narratore riconquista lo spettacolo a cui aveva assistito allora e insieme il turbamento che la bellezza del luogo e del momento aveva suscitato in lui. Retrospettivamente, comprende che il dispetto, le esclamazioni banali, il gesticolare ridicolo, erano stati solo gli antecedenti amorfi di ciò che, più tardi, si sarebbe dispiegato, sulla pagina che stiamo leggendo, in una scrittura «letteraria» perfettamente articolata. Il dovere viene tardivamente soddisfatto, la conoscenza è acquisita: giustizia è infine resa a quell’istante miracoloso del passato, quando gli «ori» del sole, succedendo alla pioggia, avevano fuggevolmente rischiarato un angolo di campagna francese quale avrebbe potuto portarlo sulla tela il pennello di Théodore Rousseau o di Claude Monet.
Il primo saluto alla bellezza del mondo, per il giovane Marcel, ha dunque rotto a mala pena il silenzio, o per meglio dire lo ha rotto in maniera così rumorosa da entrare in dissonanza con esso. Fu solo l’esplosione di una gioia confusa, attraversata da un sentimento di insufficienza, e dalla delusione di riuscire a dare a quella bellezza soltanto una risposta afasica. Una risposta del corpo al paesaggio, risposta pienadistupore macieca,prigioniera dell’opacità interiore e di conseguenza incapace di costruire la minima frase simile alla luce esterna. La narrazione offerta ai lettori del testo romanzesco paga dunque un debito antico, consegnando al nostro sguardo la descrizione un tempo impossibile e, contemporaneamente, la raffigurazione ironica di un «io» anteriore, ignorante e meravigliato. Proust fa uso, qui, di una figura retorica di cui si può dire che tutto il suo romanzo è l’illustrazione: la preterizione. Ma si tratta di una preterizione di un tipo molto particolare. Nel suo uso tradizionale, la preterizione consiste nel dire una cosa dichiarando di non volerla dire. È un’astuzia dell’arte oratoria che così finge di giungere più in fretta al termine: «Non ti dico…». Il narratore della Recherche, da parte sua, pratica la preterizione al passato. Descrive un paesaggio, poi una scena, mentre dichiara di non essere stato, allora, in grado di descriverli, di comprenderli, di dargli il loro vero significato. Gli erano sfuggiti. «Non ho saputo dire…». La parola letteraria cerca di riparare una perdita ritrovando (o dichiarando ritrovato) il «tempo perduto» che raccoglie luoghi e persone. L’opera letteraria salda un debito. Espia, in un certo senso, un tempo in cui la verità della sensazione non era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione che sul momento non aveva potuto incarnarsi in un’espressione.
Ma esistono descrizioni del paesaggio che non siano preteritive? L’espressione è sempre in ritardo sull’impressione. Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due momenti. Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato. E per giunta questo passato è una finzione: quello che leggiamo è un romanzo. Il supremo miraggio letterario consiste nel rendere credibile il gesto che ricattura, nel far credere che lo scrittore non sia interamente passato accanto alla vita, e alla verità.
 Proust non è stato il primo né il solo a sperimentare il «disaccordo» tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte di quel mondo che lo incanta, sente di non avere la forza di registrarlo e di fissarlo. Nella sua Histoire des artistes vivants, Théophile Silvestre riporta un’affermazione di Corot che esprime questa delusione con forza e semplicità: «Quando mi trovo in mezzo alla natura, provo rabbia verso i miei quadri».
La retorica dell’ineffabile, il ricorso sistematico ai prefissi negativi degli epiteti (inesprimibile, indicibile, inaudito...) appartiene sia alla teologia negativa sia al vocabolario che celebra la bellezza del mondo dichiarandola fuori portata per i nostri mezzi espressivi. Questo vocabolario ha l’evidente effetto di segnalare un limite: designa l’ostacolo che ci vieta di metterci sullo stesso piano dell’essere che si manifesta a noi nella sua magnificenza o nella sua estrema delicatezza. Ha la funzione di segnalare che ci sentiamo votati allo scacco perché siamo sensibili a ciò che ci eccede. Ma ricorrendo al prefisso di negazione, che umilia il linguaggio, il nostro spirito si attribuisce implicitamente il potere di riconoscere l’insuperabile, e in tal modo di superarlo. «Saper salutare la bellezza», secondo l’espressione di Rimbaud, significa saper conservare nelle parole stesse il silenzio che ci è imposto da quanto va al di là della nostra esistenza. La descrizione del paesaggio è una delle occasioni in cui la parola letteraria può fare l’esperienza del proprio limite e allo stesso tempo elevarsi fino al «sublime». In Proust, il grido di dispetto è un momento preliminare, che si apre verso il futuro. Ma Proust conosce anche, come molti altri artisti, un grido finale: quello del Marsia scorticato che si intravede in secondo piano in una delle più belle scene pastorali di Claude Lorrain.
Ricordiamo l’ultima frase del poema in prosa intitolato Il confiteor dell’artista: «Lo studio della bellezza è un duello in cui l’artista grida di sgomento, prima di essere vinto». Baudelaire introduce, in un poema in prosa, ovvero nell’opera d’arte stessa, il grido che confessa la disfatta dell’arte. È la versione moderna di ciò che, al di là dell’ineffabile, ritrova l’infandum: l’impronunciabile perché sacro.
 Traduzione di Monica Fiorini

Corriere della Sera 7.11.10
«Il manifesto muore, ci salvi un magnate come con Le Monde»
di M. Gu.


Il fondatore del quotidiano comunista: forse non riusciremo a festeggiare i 40 anni. Anche per colpa nostra

ROMA — Valentino Parlato, lei ha scritto che il manifesto sta morendo. Davvero il quotidiano dell’eresia comunista ha tre mesi di vita?
«Siamo in crisi, una crisi molto brutta. Il governo ha tagliato i finanziamenti, un atto che per un giornale piccolo come il nostro è mortale».
E lei, sulla prima pagina di ieri, si è appellato a un magnate come Xavier Niel, il self made man francese che ha salvato Le Monde. Ha qualche nome in testa?
«Purtroppo no, perché in Italia troppe volte i magnate sono magnaccia. Se ho citato Niel è solo per vedere se ci viene qualche aiuto».
Ci vorrebbe un riccone...
«C’è un riccone in Italia che può comprare il manifesto per farlo restare così com’è? Un tempo c’erano gli Agnelli, i Pirelli... Quando ero giovane i grandi capitalisti guardavano al futuro, ora pensano tutti alla mezz’ora prossi ma. L’Italia non ha più ideali».
E così, per scongiurare che il manifesto muoia di «grande depressione», lei chiede una «longa manus» ai lettori-editori.
«Il 28 aprile dell’anno prossimo facciamo quarant’anni e chissà se festeggiamo il compleanno. Le vendite calano e forse è anche per nostro demerito, dobbiamo confessarlo. Ma io penso che ci sia dell’altro». Ragioni politiche? «In questa crisi della sinistra, la cui critica alla destra è debole, un giornale storico come il nostro rischia di saltare. La crisi dei partiti investe anche noi, che eravamo sinistra sinistrissima». Eravate? «Continuiamo a chiamarci "quotidiano comunista" quando solo Berlusconi usa ancora quel termine».
Basterebbe modificare la testata...
«No, piuttosto lascio la presidenza. Non credo che sia la parola comunista ad allontanare i lettori. Ma devo riconoscere che la qualifica oggi è in difficoltà». Perché non la toglie? «Perché credo ancora nel comunismo come speranza di cambiamento».
Vendola dice che la sinistra può cambiare l’Italia.
«Il problema è che Vendola, come Diliberto o Ferrero, attacca Berlusconi con formule berlusconiane. Mentre il governatore della Banca d’Italia avverte che il Paese sta morendo di precariato, noi ci occupiamo di Ruby».
Cosa dovrebbe fare la sinistra?
«Sa cosa temo, io? Un 25 luglio senza un 25 aprile».
La caduta di Mussolini senza la Liberazione...