domenica 14 novembre 2010

l’Unità 14.11.10
Il Pd: «Vigilanza democratica sui colpi di coda del Caimano»
Finocchiaro: «L’allarme deve essere alto, Berlusconi non conosce limiti»
Franceschini: «I sistemi autoritari sono più pericolosi quando arriva la fine»
di Andrea Carugati


Dal Colle nuovo richiamo alle priorità: fare la finanziaria, e poi toccherà alle mozioni e alla crisi
Ma preoccupa l’agitarsi del premier: «La sua lettera alle Camere è un tentativo disperato»

«Vigilanza democratica», scandiscono in coro Dario Franceschini e Anna Finocchiaro. «Anche se queste parole non si dovrebbero pronunciare in una grande democrazia occidentale», spiega la capogruppo Pd al Senato. Però il momento è grave. «Il livello di allarme deve essere alto, Berlusconi ci ha abituati a qualsiasi stravolgimento delle regole e ad una spregiudicatezza senza limiti». Franceschini è sulla stessa linea: «Tutti i sistemi con qualche venatura autoritaria diventano più pericolosi quando si avviano alla fine».
Passano poche ore e i timori, già alimentati nei giorni scorsi dalle parole del premier da Seul sulla «guerra civile» da scatenare contro un eventuale ribaltone, trovano un’ulteriore conferma, quando Berlusconi annuncia la sua personale road map parlamentare: una lettera ai presidenti delle Camere per forzare le tappe della crisi, e ottenere la fiducia dal Senato prima della sfiducia a Montecitorio.
Un modo chiaro per mettere il Colle davanti al fatto compiuto, e «provare a forzare la mano per il voto anticipato, impedendo la nascita di un governo diverso dal suo», come spiega Maurizio Migliavacca. «Solo chi è nemico dell’Italia può pensare al voto anticipato in questa situazione economica», denuncia Veltroni. E Franceschini: «La lettera del premier è un tentativo disperato e tardivo di evitare la mozione di sfiducia alla Camera, e una grave scorrettezza istituzionale. Non si è mai visto che il presidente del Consiglio, di fronte a una mozione di sfiducia formalmente depositata in una Camera, possa decidere di andare a chiedere la fiducia in un’altra».
IL TIMING DEL QUIRINALE
Un percorso a ostacoli, dunque. Un tramonto berlusconiano che rischia di essere pieno di colpi di coda, persino di macerie. L’unico punto fermo sembrano i tempi. Ieri la moral suasion del Colle ha convinto tutti i protagonisti dello scontro, da Berlusconi e Bersani, a rinviare le ostilità, e la guerra delle mozioni, a dopo la Finanziaria. Nel tardo pomeriggio è arrivata una nota ufficiosa del Quirinale, che plaude alla convergenza delle forze politiche «sulla necessità di dare la precedenza alla necessaria approvazione della legge di stabilità e del bilancio in entrambi i rami del parlamento, per affrontare subito dopo la crisi politica». Esattamente come avvenne nel 1994, fanno notare dal Colle, quando il primo governo Berlusconi entrò in crisi solo dopo l’approvazione della manovra.
Con un timing deciso d’intesa dal Capo dello Stato e dai presidenti delle Camere. L’intervento del Quirinale toglie di scena un rischio: e cioè che Berlusconi ottenesse un voto di fiducia al Senato già nei prossimi giorni, mentre la Camera sarà impegnata sulla Finanziaria. Ora l’orologio della crisi si sposta in avanti, almeno a metà dicembre.
LA “VIGILANZA” DEL PD
Un percorso lungo. E i rischi sui colpi di coda del Caimano restano tutti. L’adunata di piazza, annunciata giovedì dal premier, non spaventa più di tanto il Pd. Ma la mossa della fiducia in Senato sì. «Mi appello alla terzietà istituzionale del presidente del Senato», dice la Finocchiaro. «Quella mozione è un atto ultimo di disperazione, tutto sta crollando e loro vogliono ancora ballare il valzer sul ponte della nave, mostrando un disinteresse intollerabile per il Paese». «Non mi illudo», confida la capogruppo Pd. «Per un uomo così spregiudicato e disperato, temo che neppure l’autorevolezza del Quirinale possa rappresentare davvero un limite». «Non si comporterà come un leader che ha a cuore il suo Paese, userà tutti gli arsenali di fuoco di cui dispone», avverte Pierluigi Castagnetti. Per questo i democratici vogliono «fare in fretta». Il Pd è pronto a utilizzare i gazebo già previsti da ieri e per tutti i weekend di novembre per impugnare la Costituzione. «Difenderemo le sue regole e i suoi equilibri in centinaia di piazze», dice la Finocchiaro. Fino alla manifestazione di San Giovanni l’11 dicembre. «C’è il rischio di un finale “alla Caimano”, Berlusconi è disposto a tutto per di non mollare la preda», rincara Rosy Bindi. «Per lui non finisce solo un governo, ma un’intera stagione politica e sappiamo bene quali sono i suoi timori una volta uscito da palazzo Chigi. Confido sul senso di responsabilità di tutte le altre forze politiche, e spero che anche la Lega prenderà le distanze». I rischi non mancano. «Ma non possiamo rinunciare a muoverci per paura che lui scateni il caos», chiude la Bindi. «È un rischio che dobbiamo correre».

l’Unità 14.11.10
La manifestazione sarà in piazza San Giovanni  Roma
L’11 dicembre l’appuntamento con la piazza


Il “porta a porta” iniziato ieri proseguirà i fine settimana del 20 e 27 novembre: 10mila gazebo e 7.000 circoli mobilitati. In vista di questa mobilitazione sono state spedite un milione de mezzo di lettere agli iscritti ed elettori del Partito e sono state stampate sette milioni e mezzo di brochure.
Il “porta a porta” democratico preparerà il campo alla manifestazione nazionale indetta dal segretario Bersani a Roma il prossimo 11 dicembre che si terrà a Piazza San Giovanni. «È un'Italia che ha voglia di partecipare e di tornare protagonista, quella che abbiamo incontrato in questi giorni di preparazione del nostro porta a porta«ed è questa l'Italia che sarà in piazza l'11 dicembre. La scelta di Piazza San Giovanni è stata quindi rafforzata dalla percezione di un clima, di una consapevolezza e di una voglia di partecipazione che il Pd intende rappresentare» ha detto Nico Stumpo, responsabile organizzazione Pd. Lo sforzo organizzativo sarà tutto sulle spalle del Pd, visto che la Cgil ha già fatto sapere che darà fondo a ogni risorsa per dar vita a una manifestazione imponente, il 27 novembre.

l’Unità 14.11.10
Pierluigi Bersani
L’alternativa: «Non si fa senza il Pd. Senza di noi ci si tiene Berlusconi
«Niente melina, sfiducia dopo la legge di stabilità»
di Simone Collini


«Quello che andremo a dire noi al Quirinale si sa». Pier Luigi Bersani sembra dare per scontato che entro breve si apriranno le consultazioni al Colle (e di fronte a Giorgio Napolitano il segretario del Pd sosterrà la necessità di dar vita a un governo di transizione che in un anno circa approvi una nuova legge elettorale, una riforma fiscale e una serie di
misure per l’occupazione giovanile). Ma dà altrettanto per scontato che ora Berlusconi tenterà «colpi di coda» di ogni tipo, anche piegando le regole istituzionali a suo uso e consumo, «dando pericolosi scossoni ai pilastri costituzionali».
COMBATTIMENTO E NIENTE MELINA
Ecco perché incontrando militanti e simpatizzanti del Pd in un quartiere popolare romano, affiancato dal presidente della Provincia Nicola Zingaretti, avverte: «Ci aspettano settimane di combattimento». Quante? Per Bersani non dovranno essere più di due, massimo tre, perché da questa «palude» bisogna uscire in fretta. «Noi abbiamo presentato la mozione di sfiducia. Ora qualcuno ci dice: “Volete far saltare in aria la Finanzia-
ria?”. No, no... Siamo dispostissimi a far votare la sfiducia in Parlamento dopo l’approvazione della legge di stabilità. A condizione, però, che la destra non faccia melina sulla legge di stabilità».
Al leader del Pd non piace né il «balletto» dell’idea di sciogliere solo una delle due Camere né il tentativo di Berlusconi di far passare la crisi prima per il Senato e poi per la Camera. «Berlusconi deve andare a casa perché è un tappo micidiale per il Paese.
Di case ne ha... scelga lui. Magari la più lontana». Se ci scherza anche su è perché forse qualche segnale in più di ottimismo Bersani inizia a vederlo: «Siamo arrivati a un punto in cui è veramente possibile che Berlusconi vada a casa», dice. «E non pensino d’inventarsi un’uscita dalla crisi interna al centrodestra dice facendo riferimento all’ipotesi di un esecutivo guidato da Tremonti, Alfano o altri esponenti vicini al premier la crisi è di Berlusconi e del centrodestra, la soluzione non può venir da lì».
IL PORTA A PORTA
L’obiettivo del Pd rimane il governo di transizione, ma il clima sa già tanto di campagna elettorale. «Dobbiamo rimettere la politica nelle mani dei cittadini», dice Bersani inaugurando un porta a porta nel vero senso della parola, nel senso che dopo un breve comizio nel cortile di un condominio a Pietralata si infila in un portone e suona campanelli, entra in un paio di case a parlare di lavoro, tasse, scuola dei figli, accettando bicchieri d’acqua e caffè, firma autografi ai bambini che lo bloccano nell’androne («aho mi’ madre la stima troppo»), risponde con un sorriso alle signore che si offrono di cucinare «du’ spaghetti» o che gli dicono che «è più bello che in tv», stringe mani a vecchietti che qui sono la minoranza ma tanto poi passa al centro anziani “1 ̊ maggio” e balla “Romagna mia” con l’ottantacinquenne Annarella, poi va a fare un brindisi al circolo del Pd “14 ottobre” («qui prima c’era una chiesa», gli spiega un dirigente con orgoglio) che è la data delle primarie che incoronarono Walter Veltroni segretario e sancirono la nascita del Pd, un nome scelto dopo un referendum tra gli iscritti ma poi non c’è stata troppa discussione sul fatto che sui muri dovesse rimanere la foto di Antonio Gramsci e una riproduzione del “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo.
A SAN GIOVANNI
Un pomeriggio a stringere mani e distribuire volantini con le proposte programmatiche del Pd sui temi del lavoro, la scuola, il fisco, l’immigrazione, l’ambiente. E che si ripeterà
nei prossimi fine settimana del mese, per creare il massimo della mobilitazione e poi arrivare alla manifestazione nazionale dell’11 dicembre. Dice Bersani: «Avevamo pensato ad altre soluzioni, ma il clima che si respira in tutta Italia ci ha convinto a prendere questa decisione: andremo a San Giovanni». Una scelta che effettivamente non era scontata, visto che la Cgil ha fatto sapere che spenderà tutte le proprie energie e risorse per la sua manifestazione del 27 novembre e visto che all’appello per farne un’iniziativa unitaria di Sinistra e libertà, Verdi e Federazione della sinistra, Bersani ha risposto che «sarà aperta a tutti, ma si farà sulla piattaforma del Pd» (cosa che non è andata giù a Nichi Vendola e soci).
SENZA PD RIMANE BERLUSCONI
Bersani in questa fase vuole infatti giocare anche la carta dell’orgoglio. «Deve essere chiaro a tutti che senza
il Pd l’alternativa non si fa, senza di noi ci si tiene Berlusconi». Un modo per chiedere «rispetto» e per dire al leader dell’Idv Antonio Di Pietro e a tutti quelli che «fanno le pulci» al modo di fare opposizione da parte dei Democratici che «è ora di finirla con le punzecchiature». Anche perché Bersani ci tiene a rivendicare il ruolo svolto dal suo partito per arrivare a questo punto. «Abbiamo lavorato per allargare le contraddizioni dentro il centrodestra», dice. E a questo punto nel suo entourage non si fa neanche più mistero del fatto che è da maggio che si è avviato un dialogo pressoché costante con Gianfranco Fini.
RAPPORTO COL TERZO POLO
Vuol dire che nel Pd stanno tranquilli sul rapporto che si instaurerà con Udc e Fli? Non proprio. Se nelle ultime ore sono stati cancellati i sospetti di un doppio gioco da parte di Fini e Casini, non è fugato il timore che in caso di voto anticipato il cosiddetto Terzo polo vada da solo. Il che renderebbe molto più complicato vincere alla Camera. Per questo il capogruppo alla Camera Dario Franceschini dice che «il Pd deve confrontarsi con questa forza sui contenuti» e il capodelegazione al Parlamento europeo David Sassoli sottolinea la necessità di «costruire un’alleanza stabile fra il centrosinistra e il Terzo polo per ricostruire il Paese».

l’Unità 14.11.10
Immigrati, Maroni fa la faccia feroce: «Con me non avranno il diritto di voto»
di Max Di Sante


Gli immigrati non avranno il diritto di voto, parola di Roberto Maroni. Parla così il ministro dell’Interno mentre ci sono scontri a Brescia in un corteo in sostegno dei lavoratori sulla gru. Manifestazione a Bologna.

«Gli immigrati possono avere tutti i diritti che vogliono, ma fino a quando sarò io ministro non avranno il diritto di voto». Il tono di Roberto Maroni è stentoreo, il messaggio è chiaro: chiudere sui diritti per i migranti, mostrare loro la faccia feroce (sicuramente con un occhio rivolto alle prossime elezioni). E davanti ai critici, il ministro dell’Interno risponde con stile: «Dire che la politica del governo è basata sui respingimenti è una stronzata. Se poi lo dicono gli antirazzisti di professione non mi fa né caldo né freddo... ».
Il nuovo verbo del ministro si inserisce in un clima particolare: un governo in bilico, una Lega per ora fedele al premier (ma con lo sguardo già rivolto allo scenario successivo), l’ipotesi sempre più probabile di elezioni anticipate. Illustrando gli sfolgoranti successi del governo, ma soprattutto del suo dicastero, il ministro aggiunge: «Il Cie di Lampedusa è vuoto ed è perfetto e pulito, mentre le scuole di Lampedusa cadono a pezzi. Potremmo trasformare il Cie di Lampedusa nella scuola dei bambini. A Lampedusa voglio fare un regalo di Natale. Se il Governo regge». Il ministro parla a Milano, durante un convegno della Lega nord.
Pochi chilometri più in là, a Brescia, i problemi legati all’immigrazione hanno un altro volto. Molto più crudo. Alcuni lavoratori extracomunitari, che contribuiscono al pil italiano ma per lo Stato risultano clandestini, manifestano dal 30 ottobre su una gru chiedendo la regolarizzazione. Una manifestazione in loro sostegno finisce on scontri e violenze. È una bomba carta in via San Faustino a innescare i disordini. Che per fortuna sono lievi e finiscono presto (soltanto tre agenti lievemente contusi). La questura parlerà poi di un gruppo di settanta persone che si trovava dietro il presidio di solidarietà, un gruppo esterno ai manifestanti soliti, pare di capire. Ma è comunque un sintomo da condannare e da non sottovalutare, quello della tensione, un sintomo che ci parla però di un paese diverso da quello descritto dal ministro Maroni: un paese incerto, insicuro, lacerato, confuso.
A Bologna migliaia di immigrati partecipano ad una manifestazione contro il razzismo. Secondo gli organizzatori, sono più di seimila. Chiedono solo più diritti, al grido «Siamo tutti sulla gru». Nel corteo un folto gruppo di lavoratori metalmeccanici della Fiom, molti di colore, con caschi e fischietti. I lavoratori che alzano il pil sono, anche qui, in larga misura extracomunitari. Pochi esponenti politici, tra questi Leonardo Barcelò, ex consigliere comunale di origine cilena: «Oggi vorremmo dire che “Siamo tutti nipoti di Mubarak” dice almeno così il governo potrebbe occuparsi di noi... La cosa buffa è che questo governo sta per cadere per via di
un’immigrata come Ruby e non per una legge sull’immigrazione... ». Arrivato in piazza XX Settembre, il corteo non si scioglie subito in attesa di aggiornamenti sugli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in corso a Brescia. Poi, poco dopo appreso che la situazione è tornata tranquilla, i manifestanti lasciano la piazza. Senza diritto di voto.

il Fatto 14.11.10
Sotto la gru torna la battaglia per i migranti
di Elisabetta Reguitti


Ore 17.45, piazzale Cesare Battisti: improvvisamente la calma piatta del quindicesimo giorno di protesta viene rotta dal caos. Pochi minuti in cui vola di tutto. Sassi, pietre, bombe carta e lacrimogeni. Prima le provocazioni fatte anche da persone col volto coperto e bastoni in mano. Poi il tentativo di sfondare il cordone delle forze dell’ordine. Cariche diverse, anche da dietro, nel tentativo di contenere. Scene di una manifestazione trasformata in guerriglia urbana. Fermi e feriti. Tutto è accaduto sotto gli occhi di Arun, Jimi, Rachid e Sajad, che dal 30 ottobre rimangono nella cabina della gru del cantiere della metropolitana di Brescia. Ma come se ne viene fuori? Padre Mario Toffari, il “mediatore degli uomini, non certo della politica e tanto meno delle istituzioni”, aveva urlato dal megafono, rimettendo i piedi a terra quella volta in cui era salito anche lui sulla gru; direttore dell’ufficio migranti della diocesi, vivandiere per gli asserragliati, che però da qualche giorno hanno iniziato anche a diffidare del cibo servito dalla stessa Caritas. “Hanno rifiutato quello della polizia, ma adesso lo fanno anche con il nostro. Ma io non mi faccio usare da nessuno”. Ieri durante i disordini lui stava celebrando la messa. Sa che comunque la questione si sta complicando perché le posizioni sembrano irremovibili. Grazie anche alla sua mediazione si era ottenuta la concessione di un presidio di quindici giorni in posizione altamente visibile, un tavolo di trattativa e il permesso per i “gruisti”, che però hanno rifiutato.
ANCHE il religioso ora non sa quali margine di trattativa possano esserci. Sulla rete continuano a rimbalzare i video degli scontri con la polizia, durante lo sgombero di lunedì del presidio di solidarietà. Chiedono a gran voce le dimissioni del vice questore Emanuele Ricifari. Padre Mario allora sbotta: “Nella rete girano i filmati realizzati solo da una parte, mentre i fatti vanno guardati anche da altre angolazioni”. Ieri poi si è saputo che tra i quattro c’è un migrante la cui pratica è in corso. Qualcuno ricorda che un lavoro i manifestanti l’avevano: in nero, irregolare e sottopagato. Due di loro (Rachid e Arun) prima di decidere di arrampicarsi a 35 metri di altezza distribuivano volantini. Magari anche e proprio durante le campagne elettorali, periodi in cui anche i candidati hanno bisogno di braccia forti, uomini che lavorino e non facciano tante storie. Riforniti all’alba da anonimi e scassati furgoncini, questi fantasmi “senza permesso” riempiono i loro zai-
netti dei faccioni sorridenti della politica. La stessa che fa spallucce di fronte a un problema che, caso Brescia a parte, rimane. Perché i clandestini veri, quelli che i business li sanno fare bene, non li becchi per strada. È la stessa Procura della città lombarda a riferire come i peggiori spacciatori e trafficanti di droga di nazionalità straniera riescano ad aggirare la procedura per la regolarizzazione, a volte sposando donne italiane. Così nei faldoni delle inchieste compaiono sempre più cognomi di “casa nostra”. Quelli che vengono incastrati per strada, insomma, molto spesso sono i disperati che hanno la faccia dei quattro migranti appesi al braccio meccanico e che l’introduzione della circolare Manganelli punisce negando loro la possibilità di ottenere il permesso.
DI NUOVO, allora, come se ne esce? Risponde Manlio Vicini (figlio dell’ex ct Azeglio) l’avvocato che assiste i migranti. “Per i ragazzi sulla gru stiamo cercando di trovare una soluzione che li tuteli e che li convinca a scendere”: una sorta di immunità a patto che denuncino quelli per cui i “senza carta” sono vere galline dalle uova d’oro. Parla di “prudente apertura con la Procura”. Rivendica un merito alla protesta dei migranti sulla gru. Quello di aver riportato alla ribalta nazionale un problema effettivo che può essere risolto solo con precise scelte politiche che vadano nella direzione di regolarizzare quelli che già stanno in Italia. E invece Maroni ieri è tornato a ribadire la linea dura del governo (che stride con le posizioni di Fini): “Finché sarò io ministro non potranno mai avere il diritto di voto”.

il Fatto 14.11.10
Il vero tesoro delle scuole cattoliche
Oltre 250 milioni trovati in finanziaria c’è un fiume di denaro che arriva da Comuni e Regioni
di Gianmaria Pica


L e scuole cattoliche sono “scuole pubbliche non statali” ci tiene a precisare il segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, all'indomani dell'aumento dei contributi alle scuole paritarie previsto dalla legge di stabilità. “L'istituto madre Cabrini e le altre scuole cattoliche di Milano ha sottolineato il cardinale sono scuole pubbliche non statali. Sono paritarie, non private come hanno scritto alcuni giornali. Bisogna mettersi in testa la di-
zione corretta”.
Il problema non è tanto nella dicitura “scuola privata-scuola paritaria”, ma nel fatto che vengono tagliati i contributi all'istruzione pubblica a favore di quella paritaria. L'Istat calcola che le scuole private (dati 2008) sono 12.532, numero che rappresenta il 21,8 per cento del totale delle scuole italiane (57.579). E quelle cattoliche, secondo l'istituto di statistica, sono ben 7.116.
IL MINISTRO dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, ieri ha sottolineato che “le scuole paritarie negli anni scorsi avevano subito una riduzione di trasferimenti molto più forte della scuola pubblica e il provvedimento di questa notte (venerdì notte, ndr) ha integrato i fondi per le paritarie”. Dunque, come in fondo riconosce anche Bertone (secondo cui “le scuole cattoliche sono paritarie”), i contributi andranno anche a quelle gestite dalla Chiesa. La legge 62 del 10 marzo 2000 recita che le scuole paritarie “svolgono servizio pubblico”, cioè quello che dovrebbero fare le scuole statali. E dov'è la differenza tra statali e paritarie? Nei soldi. La scuola paritaria, rispetto a quella statale, è a pagamento, cioè può decidere di aumentare quanto vuole la retta d'iscrizione. A questa facoltà si aggiunge anche il contributo pubblico. Ma non è tutto. Per le paritarie ci sono anche i finanziamenti regionali, provinciali e comunali (che spesso raggiungono il loro picco proprio nei mesi a ridosso delle elezioni amministrative). Vediamo qualche esempio. L'ufficio scolastico regionale del Veneto con atto del 12 novembre 2009 ha disposto l'acconto dei contributi alle scuole paritarie della provincia di Verona per l'anno scolastico 2009-2010. Cifra erogata: 3,7 milioni di euro. Il comitato bolognese “Scuola e Costituzione” denuncia che una sezione di scuola materna paritaria a Bologna, oltre al contributo statale di circa 16mila euro, ha ricevuto in seguito a convenzione comunale, altri 14mila euro; 3mila euro come contributo di miglioramento previsto dalla legge regionale numero 26 del 2001: il totale fa 33mila euro per sezione.
DI CASI SIMILI ce ne sono a migliaia in tutto il paese. Una delle regioni più “generose” è senza dubbio la Lombardia. Per esempio, per il solo anno scolastico 2007-2008, è stato assegnato il contributo di di 2.500 euro a ciascuna delle 185 scuole paritarie di primo grado per un totale regionale di 462.500 euro, cifra a cui si sommano altri 275.647 euro. Altri soldi arrivano per le scuole paritarie che accolgono allievi con handicap: 948.155 euro. Insomma, solo per le scuole secondarie di primo grado paritarie, la Lombardia ha concesso nel 2008 la bellezza di 1,7 milioni di euro.
Dopo l'incremento in Finanziaria di quasi 100 milioni di euro per il contributo alle paritarie, parte dell’opposizione è partita all’attacco, accusandolo di voler affossare definitivamente il sistema di insegnamento pubblico. Ma non tutti dentro al Pd la pensano così. Infatti, secondo l'ex ministro dell'Istruzione Beppe Fioroni che in vista delle elezioni punta ai consensi dei cattolici “la cifra che il governo Berlusconi ha reintegrato è inferiore al consolidato che è stato dato alle scuole paritarie dai governi D'Alema e Prodi: così prendono in giro le scuole cattoliche perché gli danno meno di quello stanziato dai governi di centrosinistra con Rifondazione comunista dentro”.

il Fatto 14.11.10
La Costituzione non va a scuola
di Marina Boscaino


Ricordate “Cittadinanza e Costituzione” e le fanfare mediatiche che ne hanno accompagnato l'annuncio? Da allora missing, sparita. L'1 agosto del 2008 Gelmini esordiva: “Dal prossimo anno scolastico sarà introdotta la disciplina Cittadinanza e Costituzione, oggetto di specifica valutazione” per cui “sono previste 33 ore annuali di insegnamento”. Affermazione singolare: già allora la 133/08 aveva tracciato il taglio di 140.000 posti di lavoro e, quindi, di ore di lezione. Non stupisce dunque la recente marcia indietro in una circolare dall'inaccettabile retorica: “Tale insegnamento rientra nel monte ore complessivo delle aree e delle discipline indicate [il sé, l'area storico-geografica e quella storico-geografica e storico-sociale, rispettivamente in scuola dell'infanzia, primaria e media, superiore, ndr]”. Infine: “Non è una disciplina autonoma e dunque non ha un voto distinto". Insomma, nulla. Ha un nome, ma nella pratica didattica esiste a discrezione dell'insegnante. Per di più gli ambiti disciplinari su cui appiattire quell'insegnamento sono stati tagliati dalla “riforma”. Che lo studio della Costituzione (ma non della Cittadinanza) debba sostanziarsi in un numero di ore preciso, con una propria valutazione, insomma come disciplina autonoma, è convinzione di Gennaro Lopez, presidente del comitato tecnico scientifico di Proteo FareSapere. Che concorda insieme con Marcello Vigli Per la Scuola della Repubblica: Educazione Civica rinnovata (non appiattita e dunque contratta e neutralizzata nelle ore di storia), riferimento costante di ogni disciplina. Propedeutica formativa all'esercizio della sovranità di cui tutti i cittadini sono titolari e della responsabilità di gestione dei valori costituzionali; patrimonio comune – etico e culturale – della società italiana. Il Congresso nazionale di Proteo (a Roma, il 19) presenterà la ricerca – curata assieme al Centro Riforma dello Stato – Indagine sulla conoscenza della Costituzione italiana. Un campione di 7038 studenti, 56% del liceo, prevalentemente delle classi finali del quinquennio, al 50% del Nord. Risposte coerenti con le condizioni della scuola italiana: differenti conoscenze nei vari segmenti dell’istruzione superiore, il professionale –che ospita il numero di gran lunga più significativo di studenti migranti e provenienti da situazioni socio-culturali svantaggiate, il più indebolito dalla recente “riforma”: sarà un caso? sempre buon ultimo. Risposte sbagliate concentrate al Sud, dove la consuetudine (spesso quotidiana) con l’alternativa criminale allo Stato e, al contempo, con pratiche di resistenza civile avrebbe bisogno, urgenza, di sostegno, conoscenza, educazione; di strumenti per sollecitare anticorpi alla rinuncia istituzionalizzata all’esercizio della cittadinanza. Sono scritti sulla Carta. Ma la maggior parte dei ragazzi li ignorano.
In generale, risposte che non intercettano nemmeno lontanamente una rappresentazione dei rapporti di causa-effetto che intervengono nel determinarsi di alcuni eventi storici (la datazione della Costituzione, la sua ratio, persino l’attribuzione al dittatore criminale Mussolini della sua stesura, ad esempio). La costruzione della cittadinanza consapevole nel nostro Paese è un'urgenza, tra ragazzi che per il 42.2% non hanno una Costituzione in casa. Il nome dei costituenti è spesso sconosciuto agli studenti: drammatica mancanza di cultura collettiva rispetto a interessi e principi comuni e identitari, sia a scuola che in famiglia. In questa strana Italia i valori collettivi sono altri. La scuola non può dimenticare che in momenti bui della nostra storia i diritti di libertà sono stati negati e migliaia di donne e uomini si sono impegnati spesso a prezzo della vita perché la Costituzione potesse essere scritta. E quelle vicende fossero per sempre un terribile ricordo del passato. È impegno a cui Proteofaresapere e una parte della scuola democratica si dedicano, non rinunciando all’idea che racconto, ricerca, studio, riflessione sulla Costituzione non siano semplice atto di testimonianza, ma di costruzione attiva e vitale di cittadinanza. E di futuro per questo Paese.

Repubblica 14.11.10
Capitali umani
“Compagni, operai tornate al lavoro"
Nasce a Torino l´archivio che raccoglie un secolo di vita nelle fabbriche: manifesti, volantini, fotografie E così si trovano a convivere, per la prima volta, non solo la voce della lotta ma anche quella del padrone
di Vera Schiavazzi


n unico, grande scrigno per custodire oltre un secolo di memorie del lavoro. Del lavoro com´era, del lavoro in fabbrica, delle battaglie e delle lotte che attorno al lavoro hanno avuto luogo, delle vittorie e delle sconfitte. Accade a Torino, dove per far nascere l´Ismel, il nuovo archivio comune che verrà presentato il 18 e 19 novembre, hanno unito i loro sforzi protagonisti molto diversi tra loro: il Comune e la Fondazione piemontese Gramsci, la Fondazione Nocentini e l´Istituto Salvemini, col sostegno di Cgil, Cisl e Uil, Unione industriale e Archivio storico Fiat. Così, escono dai cassetti più o meno segreti dove erano custoditi documenti mai visti prima, dai manifesti anti-sciopero della Lega industriale del 1920 alle lettere con le quali la Fiat ringraziava, sessant´anni dopo, chi «nonostante le pressioni e il clima di violenza» non aveva scioperato.
Volantini e vecchie foto raccontano anche in che modo le diverse sigle sindacali e le aziende hanno cercato negli anni il consenso dei lavoratori e dei cittadini che alla storia dell´Italia industriale guardavano da fuori. Come faceva la Fiom degli anni Cinquanta, che esortava la Fiat a produrre auto popolari, e poi definiva una «grande vittoria» il successo del modello simbolo del boom economico, la Seicento. O la Cisl, prima tra i sindacati a personalizzare con le foto i manifesti per l´elezione della commissione interna. Un filo lega, al di là dell´ideologia, le icone scelte dai disegnatori chiamati di volta in volta a illustrare manifesti e locandine: ingranaggi, torni, utensili, uomini e donne in tuta, un modo di mostrare il lato rude ed eroico delle macchine e degli operai, il volto duro e grandioso di un Paese che si scontra, si divide, cresce e condivide lo sforzo di diventare una potenza industriale. Uno stile e un linguaggio che richiamano, spesso in modo contraddittorio rispetto alle intenzioni dei promotori, il realismo sovietico, una comunicazione forte e diretta, talora efficacissima.
Al progetto dell´Ismel, del resto, partecipano i principali studiosi della storia del lavoro e dell´industria, da Valerio Castronovo a Giovanni Avonto (il primo presidente, gli altri seguiranno a rotazione), da Sergio Scamuzzi a Gian Vaccarino. L´Ismel avrà presto anche una casa negli ex quartieri militari della città che già ospitano il Museo della Resistenza: la Compagnia di San Paolo ha stanziato sette milioni di euro per ristrutturare gli edifici e digitalizzare cinque chilometri di documenti e quattrocento aziende stanno aderendo al progetto. «Non si tratta soltanto di conservare - dice Tiziana Ferrero, responsabile dell´identità del nuovo istituto - ma di dare uniformità a un enorme patrimonio che per ora resterà di proprietà dei singoli soggetti. L´obiettivo è divulgare i valori del movimento operaio senza restare sordi a quelli dell´impresa». Torino, insomma, celebra il suo prodotto più celebre, il lavoro.

Repubblica 14.11.10
Quando la memoria può essere condivisa
di Luciano Gallino


Nella storia dell´industria e del lavoro, ci sono eventi dei quali i lavoratori (operai, impiegati, tecnici) e gli imprenditori (dirigenti, manager) hanno una memoria comune, e altri di cui hanno una memoria sicuramente differente. Eccoli quando viene varato un bastimento, non importa se nel 1930 o nel 2010. O quando un aereo commerciale compie con successo il primo volo. O nel momento in cui si inaugura una diga costruita tra i monti a fronte di mille difficoltà. È molto probabile che gli uni e gli altri, dinanzi a quell´evento, sentano dentro di sé l´orgoglio di esserci riusciti, di aver fatto insieme un buon lavoro. E con parole simili racconteranno l´evento ai nipoti, mostrando le fotografie di quel giorno.
Vi sono anche eventi drammatici che danno origine a memorie comuni. Davanti alle macerie di una fabbrica bombardata, durante l´ultima guerra, lo scoramento, la rabbia, la voglia di ricominciare, erano probabilmente gli stessi negli operai come nel padrone, e gli uni e l´altro hanno conservato per decenni negli occhi la stessa visione, in petto gli stessi sentimenti. Qualcosa di simile è sicuramente avvenuto anche nelle settimane scorse, dovunque l´alluvione abbia distrutto o danneggiato una fabbrica.
Per contro vi sono eventi la cui memoria dipende dalla parte di essi in cui uno si trova. Una lettera che dice che la fabbrica chiude perché è fallita, o sarà delocalizzata, non è lo stesso evento per chi la firma e per chi la riceve, e diversa sarà la loro memoria. Il manager ricorderà forse il disagio con cui dovette compiere quell´atto non avendo alternative, considerato lo stato del bilancio o gli ordini ricevuti dalla multinazionale soprastante. Nella memoria del lavoratore resterà invece lo sgomento dello scoprire che un pilastro della sua esistenza all´improvviso era crollato. O si prenda il caso di un incidente sul lavoro, anche non letale. Da parte di chi lo subisce c´è il dolore fisico, poi la convalescenza, cui seguono i colloqui con medici, avvocati, funzionari dell´Inps, il dubbio di poter tornare a lavorare. Da parte dell´imprenditore ci sarà dispiacere per il collaboratore ferito, ma anche preoccupazioni per le grane che seguiranno, le indagini della magistratura, o per il costo di misure di sicurezza più efficaci.
Oltre che nelle persone, in cui deperisce e che alla fine scompare con loro, la memoria del lavoro e dell´industria si deposita indirettamente, in volumi assai più corposi, in duraturi oggetti fisici - il vecchio manufatto di una fabbrica - e ancor più in documenti, fotografie, verbali dei Cda, contratti di lavoro, filmati, manifesti, giornali d´azienda, edifici industriali.
Gli storici dell´industria lavorano su questi materiali per ricostruire che cosa è effettivamente accaduto a una grande impresa nel corso del tempo; a una famiglia di imprenditori; a un pezzo di classe operaia o a un tal gruppo di tecnici da cui provennero invenzioni straordinarie. Così facendo ricostruiscono anche la memoria di lavoratori e imprenditori scomparsi da generazioni. Quando si legge nella storia di un´azienda che «tra i dipendenti si diffuse grande gioia all´annuncio che sarebbe stato introdotto il sabato festivo» (è accaduto verso il 1957), oppure che «tra i dirigenti regnava una notevole preoccupazione per il ritardo nel lancio della nuova linea di prodotti», lo storico ridisegna la memoria umana dei protagonisti così come pensa di intravederla nei materiali che sono giunti fino a noi. E ci propone il suo disegno per alimentare in noi la memoria di quello che è stato. È inimmaginabile, e ogni storico lo sa, che arrivi a trasmetterci, attraverso i documenti, quello che i protagonisti della vita di un´azienda, lavoratori e imprenditori, realmente ed esattamente pensarono, sentirono, credettero, quali emozioni e motivi li mossero. Perfino il medesimo individuo che visse un certo evento lo ricorda in modo diverso a distanza di tempo. L´importante è che per costruire il ponte della memoria da coloro che vissero quell´evento alle generazioni successive lo storico abbia a disposizione materiali adeguati per rintracciare quell´evento sia nei suoi contorni fattuali, sia nei modi in cui i protagonisti lo sperimentarono: a volte facendo un´esperienza comune, altre volte traendo da esso esperienze diverse. È qui che si scorge la funzione essenziale di archivi d´impresa, archivi pubblici, musei e altri luoghi della conservazione di documenti nel raccogliere e mettere a disposizione dei ricercatori, ma anche del pubblico, materiali che rinviano tanto agli eventi di cui i protagonisti per primi condivisero la stessa memoria, quanto a quelli di cui essi ebbero per forza di cose, per la posizione che occupavano in un complesso produttivo, una memoria differente e talora conflittuale. Nella nostra memoria deve esserci posto per ambedue le memorie.

l’Unità 14.11.10
Musica che salva i bambini
Da Caracas alle periferie italiane arriva il “sistema Abreu” che insegna a suonare come alternativa al degrado
di Stefano Miliani

Nella nostra Italia in frantumi, Rossini un giorno dovrà ringraziare il Venezuela. Tra i palazzi che fanno letteralmente acqua nel quartiere periferico delle Piagge a Firenze, nel quartiere Sanità di Napoli dove la camorra fa suonare le pistole, nel multietnico San Salvario a Torino, sta per plasmarsi un sogno a forma di oboi e violini suonati da bambini, bambine, ragazze e ragazzi. Nel paese latinoamericano, dove la povertà impazza nonostante il petrolio, dove la criminalità dilaga e le baracche fatiscenti punteggiano le colline di Caracas, dal 1975 esiste il «sistema Abreu»: è il programma inventato dal «maestro» Abreu che ha permeso a 2 milioni di ragazzi e ragazze di apprendere la musica, di suonare in un'orchestra per acquisire fiducia in se stessi, per trovare un'altra via al degrado, alla povertà economica e culturale, e divertendosi. Il «sistema» oggi impegna 400mila ragazzi in 250 orchestre giovanili e 150 infantili. Quell' utopia diventata realtà ora la importiamo nella terra di Monteverdi, Puccini e De André. Dietro la spinta di Claudio Abbado, la Scuola di musica di Fiesole e Federculture ieri hanno tenuto a battesimo qualcosa di unico, audace, perfino da scavezzacollo: tra i cipressi delle colline fiesolane l'istituto musicale e l'associazione hanno organizzato un confronto internazionale quale preludio alla onlus detta «Comitato sistema nazionale delle orchestre e dei cori infantili e giovanili».
Il nome un po' farraginoso non faccia pensare a strutture elefantiache o succhiasoldi. L'obiettivo è altro. La meta è creare «nuclei didattici» nelle cento città e cittadine per rendere la musica accessibile a tutti, per insegnarla a cuccioli d'uomo e donna tra i 4 e i 14 anni. Attenzione però: non si vuole creare ulteriori fabbriche di aspiranti professionisti né tanto meno illusioni televisive stile Talent Show. Si vuole insegnare la musica per imparare a stare insieme, perché – come ama ripetere Riccardo Muti – suonando in gruppo si apprende ad ascoltare gli altri, se stessi e quella convivenza oggi così compromessa.
Il «sistema» italiano vede due piloti principali: il presidente di Federculture Roberto Grossi e il direttore artistico della Scuola fiesolana nonché affermato pianista Andrea Lucchesini. Grossi introduce: «Valorizzeremo le esperienze già vive nella società e ne incoraggeremo di nuove seguendo criteri unitari oltre la logica dei 100 campanili. Non prepareremo musicisti professionisti avvisa non faremo concorrenza ai Conservatori, non saremo una sovrastruttura pesante». «Partiamo sì da zone disagiate, vogliamo dare a chi non ha prospettive, ma per coinvolgere tutti senza esclusioni, compresi i genitori – chiosa Lucchesini – E le lezioni saranno gratuite». Lezioni senza solfeggio, all’inizio, per cantare e suonare subito.
Il «sistema» avrà «nuclei» didattici con docenti-musicisti preparati sia a insegnare sia ai rapporti umani anche in situazioni sociali emarginate. Requisiti: metodi e organizzazione condivisi più l’entusiasmo. Ma l’entusiasmo non paga l’affitto di stanze né i flauti. I soldi? Grossi risponde che, diventati Fondazione, chiederanno sostegno ai ministeri dell’istruzione, delle politiche giovanili e dei beni culturali (auguri), che presenteranno progetti all’Ue, che saranno essenziali le Regioni, i privati e, dando luoghi, strutture, attrezzature, gli enti locali. Grossi confida anche in un disegno di legge bi-partisan con Buttiglione primo firmatario ora in commissione cultura alla Camera (ci permettiamo un certo scetticismo sull’esito concreto), però c’è già chi si muove. Valga citare la Cgil: aderisce quella nazionale e in Toscana offrirà le sue 262 sedi. Piccole viole e cantanti tra le tute blu e i precari.

l’Unità 14.11.10
Le rivelazioni del quotidiano inglese The Guardian sui rapporti tra il Colonnello e Berlusconi
Hostess italiane «odalische» a Tripoli Viaggi dell’amore, sponsor Gheddafi
di Umberto De Giovannangeli

Di tutto si può dire del Colonnello, meno che non mantenga le promesse. Nei suoi imbarazzanti show romani, lo aveva ripetuto alle giovani reclutate da un'agenzia per hostess: «Convertitevi all’Islam...E poi venite in Libia, la terra delle occasioni». Matrimoniali. Muammar Gheddafi è uomo di parola. E di portafoglio generoso. Della «cultura» ha una visione particolare. Il suo amico Silvio B. ha ammesso che ha imparato da lui cosa fosse il Bunga Bunga, ed è forse per questo, oltre che per la «diplomazia degli affari» che li unisce, che il Cavaliere giudica il Colonnello «uno statista pragmatico, un leader moderato» e il Colonnello ricambia dicendo ad una platea estasiata di imprenditori che «l’Italia è fortunata ad aver un premier come Berlusconi...». Ma torniamo alla «cultura» made in Tripoli. A svelarla è il britannico Guardian.
VENITE E MOLTIPLICATEVI
Donne italiane unite in matrimonio a uomini libici, a partire dal nipote Ghazali. A questo mira il Colonnello libico quando promuove tour «culturali» nel suo Paese, scrive The Guardian, «Il leader vuole che persone giovani di altri Paesi visitino gli ospedali e le università libiche e che comprendano la storia del Paese dice Alessandro Londero, direttore dell'agenzia italiana di hostess Hostessweb ma è anche interessato alle storie d’amore tra giovani italiane e libici». Soprattutto a quella del nipote Ghazali con l’attrice metà italiana e metà inglese Clio Evans, 24 anni, che ha già visitato la Libia quattro volte. Il quotidiano britannico ricorda che l’agenzia di Londero ha garantito la presenza di donne italiane ai due incontri sulla cultura islamica tenuti a Roma da Gheddafi, nel 2009 e nell’agosto scorso. Finora, la stessa agenzia ha organizzato sei viaggi in Libia per le sue hostess. L’agenzia, si legge sul sito, è specializzata nel casting on line e capace «di reperire capillarmente figure professionali di qualsiasi genere in tutti gli 8013 comuni d’Italia». Il Colonnello e le hostess odalische. Non è il titolo di un film «pecoreccio». È il succo della due giorni di fine agosto del Raìs libico a Roma. A quell’« evento» partecipò anche Francesca, una delle centinaia di hostess pagate per «onorare» il Colonnello. Francesca dice di aver partecipato solo al primo incontro ̆e racconta che l’agenzia  ̆Hostessweb contattò circa mille sue coetanee telefonicamente o attraverso un annuncio online ̆dimostrando immediatamente che si trattava di una «recita male organizzata» visto che da subito è stato allestito un vero e proprio teatrino per la visita del colonnello libico. Uno spettacolo orrendo, in cui tre «hostess molto vicine all’organizzazione» sono state fatte passare per convertite all’Islam. E sono state pagate di più». Quelle che mostravano «maggiore interesse» per l’iniziativa, aggiunge Francesca, ricevano la promesso di essere inserite nei «tour culturali» in Libia. Tour che magari finiscono con una proposta di matrimonio. O una cosa simile...Perché l’idea di «amore» che anima il Colonnello è molto variegata. Per saperne di più, contattare il signor B. Per avere il suo numero di cellulare, rivolgersi a Ruby Rubacuori...

l’Unità 14.11.10
Mezz’ora in tv per raccontare la verità su Ruby


LA SCELTA    «È stata una decisione molto sofferta e mi rendo conto di ogni possibile conseguenza di questa mia scelta». Lo ha detto il pm dei minori di Milano Annamaria Fiorillo, spiegando la sua partecipazione, oggi, alla trasmissione di Lucia Annunziata “In 1/2h” in onda su Raitre alle 14:30. La Fiorillo, di turno la notte tra il 27 e 28 maggio quando Ruby venne portata in Questura e poi rilasciata, che ha polemizzato con il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha spiegato che quella dell'Annunziata sarà l'unica trasmissione a cui parteciperà. «Per me sarebbe stato più comodo non aver preso pubblicamente alcuna posizione. Ho bisogno di essere ascoltata, senza filtri, in modo tale che la gente vede come sono e comprenda la mia sincerità». «Bene, bene», ha commentato il ministro dell'Interno Roberto Maroni la notizia.

l’Unità 14.11.10
Suu Kyi, finalmente fuori «Ora uniti per la democrazia»
La leader dell’opposizione ha passato 15 degli ultimi 21 anni agli arresti in Birmania

A 65 anni, di cui 15 trascorsi in prigione, è lei la speranza della democrazia in Asia.
di Rachele Gonnelli


Sono le cinque del pomeriggio ora locale quando Aung San Suu Kyi sale su uno scatolone e si aggrappa all’inferriata rossa del cancello per mostrare il suo volto al mondo da donna libera. Tremila mani si alzano per rispondere al suo aggraziato saluto, c’è calca, rumore, qualcuno le offre un mazzo di fiori, lei ne stacca alcuni per metterseli tra i capelli raccolti. «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare inizia appena si fa silenzio si deve lavorare all’unisono, solo così potremo raggiungere i nostri obiettivi». Poi aggiunge più piano: «Non ci vediamo da tanto tempo, abbiamo così tanto di cui parlare». Saluta e torna dentro la casa sul lago che è stata la sua prigione per 15 degli ultimi 21 anni.
Solo una dichiarazione di grande cautela e di richiamo all’unità delle forze che la sostengono. La gioia è nel suo volto radioso, da cui sembrano essere improvvisamente cancellate le tribolazioni che la giunta militare le ha impartito nei suoi 65 anni di vita. La gente festeggerà tutta la notte sulla strada dell’Università dove i sono state alla fine rimosse le jeep della polizia e il filo spinato. E da quel cancello, quando da noi sarà notte fonda, San Suu Kyi uscirà per incontrarsi con i dirigenti del suo partito, la Lega per la Democrazia. Il primo problema sarà, appunto,come riunificare l’opposizione.
I capi della Forza nazionale democratica (Ndf) -il partito nato dalla scissione della Lega per la Democrazia dopo che questa ha scelto di boicottare le elezioni di una settimana fahanno salutato il suo rilascio con dichiarazioni significative. «Siamo elici, lei è la leader del popolo birmano, è la nostra leader», ha detto Khin Maung Swee, uno dei dirigenti più in vista, confermando che il voto di domenica scorsa è stato manipolato. «Non ci aspettavamo elezioni né libere né eque ha detto nei giorni scorsi il presidente dell’Ndf Than Nyein, quasi un’autocritica ma sono state più ingiuste del previsto». Sarà questo il secondo nodo che la leader dovrà affrontare: l’entità dei brogli elettorali.
IL FUTURO DELLA BIRMANIA
Il nuovo partito di governo, l’Usdp formato da ministri e militari in ascesa guidato dal primo ministro Thein Sein, sostiene di aver trionfato nelle urne di queste prime elezioni, pur addomesticate, degli ultimi vent’anni. La stessa liberazione di San Suu Kyialla quale non sarebbero state imposte restrizioni parziali potrebbe significare che al di là delle recriminazione degli sconfitti i militari al potere si sentono relativamente forti. Certamente è ciò che vogliono far apparire.
Tolto il velo da anni di censura la tv di Stato ieri ha persino dato notizia della liberazione della «Lady». Ha detto che il generale Khin Yee le ha letto il mandato di rilascio, compiacendosi delle sue buone condizioni di salute e chiedendole se aveva bisogno di qualche assistenza. Anche l’agenzia ufficiale Xinhua di Pechino ha dato ampio spazio alla notizia e persino alla biografia di San Suu Kyi, auspicando «la prosecuzione del percorso di democratizzazione in sette tappe, di cui la quinta sono state le recenti elezione multi partitiche». Ha solo omesso di ricordare che Suu Kyi ha vinto il Nobel per la Pace nel ‘91, per non dover ricordare lo stesso premio assegnato quest’anno al letterato Liu Xiaobo, tutt’ora lasciato marcire in una fetida prigione nel nord est della Cina.
Aung San Suu Kyi è un simbolo. Se vuole essere un Mandela al femminile deve riuscire ad aggregare anche le etnie come i wa, i karen, i kachin che in lei ripongono la speranza di un avvenire non marginalizzato dalla classe dominante bagan.
E i giovani cresciuti tra corruzione e repressione. Per loro, la prima richiesta da donna libera è stata l’attivazione di un account su Twitter che ha sorpreso non poco i dirigenti del suo stesso partito.

il Fatto 14.11.10
“Ho guardato negli occhi i miei torturatori”
Marco Bechis testimone ai processi dell regime argentino
di Marco Bechis


 Emilio Eduardo Massera è morto prima che i processi per strage a suo carico fossero conclusi. Oggi in
Argentina e in altri paesi tra cui l’Italia si stanno svolgendo molti processi contro i responsabili dei 30mila desaparecidos. È stata la risposta di una nuova generazione che ha reagito alle leggi di Obediencia Debida e Punto Final. A giugno 2010 ho ricevuto un biglietto prepagato da un Tribunale argentino che mi invitava a testimoniare. Ecco una breve cronaca di quel viaggio.
A Buenos Aires il 6 luglio 2010 era un martedì d’inverno. Arrivai alle 9 del mattino al Tribunal Oral Comodoro Py di Retiro, passai il metal detector, mostrai il mio passaporto e attesi l’inizio dell’udienza. Ero uno dei testimoni del processo Abo: Atletico – Banco Olimpo, tre dei tanti campi di concentramento che hanno funzionato, con grande efficienza, tra il 1976 ed il 1982 in Argentina. Entrando nell’aula mi trovai di fronte gli accusati, 15 ex militari, tutti in borghese, tutti in arresto. Sul volo Milano-Frankfurt-Baires mi ero chiesto che cosa avrei fatto quando mi sarei trovato di fronte i responsabili del mio sequestro e della scomparsa di centinaia di compagni.
Prove di deposizione
PER TROVARE una risposta, avevo provato la mia deposizione di fronte a una videocamera, mi ero poi trascritto tutto, ma restava sempre oscuro che cosa mi sarebbe successo. Parlare in un’Aula di Tribunale non è come dibattere a una trasmissione televisiva, mi sono detto. Andai allora ad ascoltare altre testimonianze; a Comodoro Py si svolgono diversi processi contemporaneamente, i campi di concentramento furono più di trecento. Al processo Esma ricordo un cinquantenne, ex operaio del Porto, le sue parole lente, precise, misurate, le lunghe pause che gli permisero di reggere fino alla fine. Raccontò i suoi 22 giorni All’Escuela Mecanica de la Armada, campo di concentramento della Marina Militare, di cui Massera, il Comandante Zero, era il Capo Assoluto. Lui, il Comandante Zero, non era presente in Aula per ragioni di salute. Poi toccò al secondo testimone, che era stato sequestrato insieme al primo. I due ex operai erano stati torturati alternativamente. Ma, a differenza del precedente, il secondo testimone raccontava in modo concitato, gesticolava, si voltava spesso verso gli imputati urlando: “Bravi... coraggiosi questi! Picchiare una donna incinta! Picchiare uomini bendati e legati! Siete proprio coraggiosi!”.
I “funzionari” dell’Esma rimanevano impassibili, ce n’era uno, l’ex capitano della Marina, Ricardo M. Cavallo, che batteva i tasti del suo computer. Mi hanno detto che aggiorna quotidianamente il suo blog durante le udienze. All’improvviso qualcosa si ruppe nella voce del testimone che smise di parlare prendendosi la testa tra le mani. Il presidente diede un quarto d’ora di pausa. Tra il pubblico presente si alzò il figlio del testimone e chiese il permesso di per parlare a suo padre. Da lontano non so cosa si siano detti, ma lo calmò, lo rassicurò, ed il processo riprese. A volte solo i figli possono aiutare i padri.
Per evitare che i testimoni leggano un testo scritto da qualcun altro, il Tribunale Orale non permette fogli scritti, niente appunti. Quella mattina del 6 luglio entrai nell’Aula del Tribunal Oral senza guardare, neanche per un istante, i 16 militari in borghese presenti in aula. Mi chiesero le mie generalità, giurai di dire il vero e mentre il pubblico ministero mi faceva la prima domanda, lo interruppi e rivolgendomi alla signora presidente del Tribunale, chiesi di essere messo alla pari, perché forse questi signori potevano riconoscermi anche se il tempo passa per tutti ma io certamente non potevo farlo, perché nel Club Atletico ero sempre bendato.
Il gioco capovolto
PRETESI QUINDI che quei signori mi fossero presentati in modo da poterli identificare visivamente. La presidente chiese alle parti se avessero qualcosa in contrario, le parti discussero, finalmente la giovane avvocatessa che difendeva gli ex militari acconsentì, ma pretese che quella mia stravagante richiesta fosse messa agli atti. A quel punto tirai fuori dalla tasca un foglio rigorosamente bianco e una Bic; la presidentessa, senza capire bene che cosa io stessi facendo, iniziò ad indicare uno per uno gli imputati, presentandomeli per nome e cognome. Erano 16, e mentre lei me li indicava, io li fissavo severamente e scrivevo il loro nomi e cognomi sul foglio. Uno per uno, come a scuola con i cattivi. E mentre stillavo la mia lista, leggevo nelle loro facce lo sgomento per quel gioco capovolto: avevano di fronte un ex prigioniero che li stava schedando. Poi, teatralmente, ho piegato il foglio, l’ho infilato nel taschino. A quel punto ero sicuro, non temevo più nulla. Il pubblico ministero mi fece la prima domanda.
Il silenzio e l’ergastolo
QUEI 15 UOMINI rischiano l’ergastolo, ma non hanno mai parlato, e come Massera si porteranno i loro segreti nella tomba. Loro sanno dove sono state improvvisati i cimiteri clandestini, sanno chi è stato gettato vivo nell’Oceano, sanno dove sono i neonati oramai trentenni rubati alle loro madri, che vivono sotto falsa identità. Sanno e non parlano, una violenza inaudita. La morte di Massera è, come quella di ognuno di loro, la violenza ultima, perché con la loro morte quel silenzio diventa eterno.

Corriere della Sera 14.11.10
L’altra faccia di Ulisse: segreti e tradimenti di un eroe
di Eva Cantarella


«Il signore degli inganni» di Zachary Mason propone una serie di variazioni sul mito protagonista dell’Odissea

Emerso dai cumuli di immondizia disseccati di Ossirinco, un papiro pretolemaico ci ha restituito quarantaquattro succinte variazioni della storia di Ulisse: così si legge nella Prefazione a Il signore degli inganni. I libri perduti dell’Odissea di Zachary Mason (Garzanti, pp. 223, 15,60, traduzione di Laura Noulian). Una notizia che sconvolgerebbe il mondo dell’antichistica e non solo, se vera. Ma ovviamente non lo è. È un’invenzione letteraria che consente a Mason di presentare una serie di brevi racconti che parlano, o fanno riferimento, al ritorno di Ulisse dalla guerra di Troia. Di riscrivere, insomma, un’Odissea diversa da quella omerica, piena di colpi di scena e di sorprese.
A cominciare da quella di cui al primo racconto. Tornato in patria, Ulisse scopre che Penelope si è risposata. Ovviamente, che in vent’anni le cose potessero essere cambiate se l’era immaginato, e aveva pensato al peggio (la città abbandonata, Penelope morta), ma che lei avesse smesso di sperare nel suo ritorno, questo no, non se lo sarebbe mai aspettato: «Un viaggio così lungo — pensa — e tanti di quei posti in cui avrei potuto fermarmi». Una frase che l’Ulisse omerico avrebbe ben difficilmente detto.
È un personaggio molto diverso da quello che Omero ci ha insegnato a conoscere, quello dei «libri perduti», e diverse sono anche le sue avventure e le sue scelte. Giunto alla terra dei Feaci, per cominciare, sposa la figlia del re, la bella Nausicaa, sedotto non solo dal fascino di lei, ma anche e in primo luogo avendo presenti «i vantaggi di un nuovo matrimonio rispetto agli svantaggi di un mare senza sentieri» (racconto numero 23). Questo Ulisse, inoltre, grazie alla proverbiale astuzia, in una delle «variazioni» (numero 21) riesce a sposare Elena: proprio lei, la causa della guerra. E sempre grazie alla sua astuzia riesce a far sì che a Sparta, come moglie di Menelao, vada la fida Penelope (che tanto fida non era, visto che, a breve distanza dal matrimonio, trovando Menelao insopportabile, si lascia sedurre da Paride, e fugge con lui). Altra sorpresa: le disavventure di Ulisse non sono affatto dovute all’ira di Poseidone, al quale aveva accecato il figlio Polifemo. Dipendevano dal fatto che aveva osato respingere le avances di Atena, la dea sua protettrice (numero 13).
Inutile soffermarsi su altri racconti: a questo punto, le ragioni del successo del libro sono intuibili. Diventato rapidamente un caso letterario, ha entusiasmato la critica anglosassone, che lo ha giudicato (son parole di Simon Goldhill sul TLS) «forse il più rivelatore e brillante incontro in prosa con Omero, dopo James Joyce». Non è mancato chi ha avvicinato Mason a Borges, e chi leggendolo ha pensato a Calvino. E alle suggestioni e agli accostamenti letterari si potrebbe aggiungere un altro merito non da poco: i «libri perduti» aiutano a riflettere sulla natura e il valore del mito. Nati nella civiltà della scrittura, noi tendiamo a pensare ai testi come a qualcosa di immutabile, ma nelle società orali, quale fu la Grecia arcaica (e in notevole misura anche quella classica), chi ripeteva i racconti tradizionali che fornivano argomento ai miti li modificava, oltre che per seguire il proprio estro poetico, a seconda del messaggio che voleva trasmettere.
Di ogni mito esistevano infinite varianti, che a volte raccontavano storie radicalmente diverse. Un esempio fra tanti: secondo una delle versioni della sua storia Elena non aveva mai abbandonato Sparta e Menelao; secondo altri era partita per Troia, ma non vi era mai arrivata: la nave sulla quale era imbarcata era stata gettata sulle coste egiziane da una tempesta, Elena era stata condotta alla reggia di Memphis, dove era rimasta per tutto il tempo della guerra. A Troia era arrivato un eidolon, un suo simulacro fatto d’aria. Per giustificare Elena, queste versioni fanno combattere a greci e troiani una guerra decennale per una nuvola.
Quel che «i libri perduti» dell’Odissea ci ricordano è che il racconto omerico del ritorno di Ulisse è solo uno dei tanti modi di scegliere e organizzare la materia mitica, che i primi a reinventare i miti furono i greci stessi, e che è stata questa continua reinvenzione a renderli immortali. Ben venga dunque, anche per questo, questa nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea.

Corriere della Sera 14.11.10
L’uomo vide il cielo e scoprì se stesso
di Giulio Giorello


Con l’occhio rivolto in alto abbiamo inventato le costellazioni Miti, credenze e riti che ci hanno accompagnato nella storia

«Guarda, amico mio, i segni del cielo. Significano qualcosa, anche se non saprei dirti cosa», dichiarava Oliver Cromwell, il condottiero dei puritani, alla fine della battaglia a un compagno d’armi che aveva appena perso il figlio. Guardando le stelle dal tetto della sua leggendaria cuccia, Snoopy gli fa eco più di tre secoli dopo, nell’America apparentemente innocente e spensierata degli anni Sessanta, che si stava sempre più impelagando nel conflitto del Vietnam. Per i mortali «i tempi stanno cambiando»; anzi, cambiano incessantemente, come cantava allora Bob Dylan; ma gli astri del cielo sembrano rimanere gli stessi e «i cani son sempre cani», come concludeva filosoficamente il bracchetto creato dalla matita di Charles Schulz.
È mai possibile, allora, cogliere un qualche nesso tra le cicliche vicende del cielo e le più turbolente storie di uomini (e di cani)? Da millenni ci ha provato l’astrologia: le stelle non stanno semplicemente a guardare, ma influenzano se non addirittura determinano il nostro destino. Senonché, le scoperte della scienza e le realizzazioni della tecnologia paiono avere preso il posto dei miti e delle favole degli antichi, mentre la divinazione astrologica avrebbe dovuto ormai cedere il passo all’astronomia rigorosa, come già auspicava un giovanissimo Giacomo Leopardi nella sua Storia dell’astronomia (1813).
Il condizionale, però, resta d’obbligo. In un bel romanzo di Ismail Kadaré, I tamburi della pioggia (Corbaccio, 1 997), l’astrologo dell’esercito turco che assedia una fortezza albanese predice una posizione favorevole delle stelle e «luna piena» che indicano l’imminente caduta della cittadella — salvo assistere poco dopo all’ennesima sconfitta degli assedianti: il comandante supremo lo manderà per punizione a scavare gallerie sottoterra, lui che era abituato a scrutare in alto.
Con una certa vena autoironica, qualche anno fa Margherita Hack, tenace avversaria di qualsiasi superstizione parascientifica, citava una vignetta che qualcuno aveva disegnato apposta per lei, ove la nostra scienziata (e sportiva) si spostava in bicicletta mentre un riccone la superava disinvoltamente alla guida di una macchina di lusso. E lui commentava: «La differenza è semplice: io sono un astrologo, lei un’astronoma» (Margherita Hack, Sette variazioni sul cielo, Raffaello Cortina, 1999).
Ora, insieme con Viviano Domenici, per decenni caporedattore delle pagine scientifiche del «Corriere», senza rinunciare alla polemica contro gli astrologi di ogni genere, Margherita invita ancora una volta a contemplare quello che è alla lettera il più grande spettacolo del mondo (Margherita Hack, Viviano Domenici, Notte di stelle. Le costellazioni fra scienza e mito: le più belle storie scritte nel cielo, Sperling & Kupfer, pp. 315, 18): «Tutte le sere, quando si apre il sipario della notte, nel cielo nero si accendono le stelle» e lo show ha inizio. Si replica, è vero, da tempi immemorabili, ma non ha mai cessato di stimolare la fantasia umana. I nostri antenati presero a unire i luminosi puntini della volta stellata, un po’ come fanno i lettori più piccini in un celebre giochetto della settimana enigmistica. «Che cosa apparirà»? Divinità, eroi, unicorni e vergini, ma anche femmes fatales, per non dire di animali più o meno mostruosi. Sono nate così quelle particolari «illusioni» che chiamiamo costellazioni. Chiariscono subito Hack e Domenici che queste «nella realtà astronomica semplicemente non esistono: sono il risultato di un equivoco prospettico, che porta a considerare, come facenti parte di un unico Disegno, corpi celesti che nella realtà sono spesso distanti molti anniluce gli uni dagli altri, ma casualmente brillano nella stessa zona del cielo; e la prospettiva completa l’inganno».
Consideriamo, per esempio, una delle più celebri costellazioni, quella del Cane Maggiore. Qui coabitano Sirio (tecnicamente Alpha Canis Maioris), la stella brillantissima che si trova a «soli» 8,8 anni luce da noi (ovvero, la luce di Sirio ci mette poco meno di nove anni ad arrivare alla Terra) e Delta Canis Maioris, che si trova a ben 1960 anniluce dal nostro Globo (il che vuol dire che la luce di questa stella ci mette quasi due millenni per raggiungerci: più o meno il corso della storia dalla nascita di Gesù a oggi). Non dimentichiamo che gli anniluce misurano delle distanze, e quindi quella costellazione, (come tutte le altre), non è che una «falsa immagine» inventata dall’occhio (e dal cervello) dell’uomo, un po’ come la celebre foto ricordo del turista che a Pisa stende il braccio in un modo che appare sorreggere la Torre pendente. Ma non è certo per questo che il monumento non cade.
Ci vuole una certa tensione dell’immaginazione per scorgere davvero, in quella trama di stelle, un vero e proprio animale, come notava un severo filosofo come Baruch Spinoza, quando sosteneva che — pur usandosi la stessa parola — l’intelligenza umana era così poco simile a quella di Dio quanto era difficilmente somigliante il cane fatto di stelle al cane «animale che abbaia». Eppure, come diceva una romantica canzone del secolo scorso, le illusioni sono «dolci chimere». Non solo perché dicono molto sulla psiche dell’uomo, sulla sua storia, sui suoi desideri più profondi e sulle sue paure recondite. Solo così possiamo spiegarci come nelle vicissitudini della vita quei raggruppamenti di punti luminosi sono diventati Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario e Pesci. Sono i cosiddetti segni zodiacali: lo Zodiaco è una «fascia immaginaria» distesa lungo l’eclittica, che è il piano dell’orbita della Terra intorno al Sole. L’intersezione di questo piano con la volta celeste è un cerchio sul quale vediamo proiettato il Sole che sembra percorrerlo in un anno. Noi sappiamo, dai tempi di Copernico (1473-1543), per non dire di Aristarco di Samo (III secolo a.C.), che in realtà siamo noi, che viaggiamo sull’astronave chiamata Terra, che descriviamo annualmente un giro completo. Per di più, a causa di un fenomeno già noto agli antichi e mirabilmente spiegato da Newton (1643-1727), ovvero la precessione degli equinozi, gli antichi segni non corrispondono più alle costellazioni: «per esempio, il 21 marzo si vede il Sole proiettato in uno dei due punti in cui si intersecano il piano dell’equatore e quello dell’eclittica, detto punto di Ariete, perché un tempo si trovava in quella costellazione, mentre oggi si trova nei Pesci!».
Un’ulteriore stoccata razionale agli irrazionali «fedeli dell’astrologia», i quali non smettono comunque di credere agli oroscopi. Ma a chi ha mentalità scientifica le costellazioni, quelle zodiacali e le altre, restano comunque dei preziosi strumenti di riferimento. Indicano i diversi settori del cielo, utili per catalogare gli oggetti celesti e i fenomeni astronomici che siamo soliti osservare. Così, per esempio, in quello individuato dal Toro, la costellazione che fissava nel cielo il ricordo di alcune avventure erotiche di Zeus, ci sono non pochi elementi di notevole interesse come la celebre nebulosa del Granchio, che è ciò che resta di una supernova esplosa nel 1054: un evento registrato come un’improvvisa apparizione di grande luce dagli astronomi cinesi e giapponesi dell’antico Oriente.
Dopo tutto, nemmeno i cieli sono davvero immutabili. Come ci ricorda Margherita Hack, cui piace molto il settore del Toro, non fosse altro perché da lì ha preso le mosse la sua carriera di «amica delle stelle». Sia lecito aggiungere che il Toro piace anche a me, essendo nato il 14 maggio.

Corriere della Sera 14.11.10
Ciurlionis, la musica dei simboli
Una retrospettiva celebra il mistero e la fantasia dell’artista lituano
Un genio anomalo con la passione per la magia e l’occultismo
di Gillo Dorfles


Le prime opere di Ciurlionis che ebbi occasione di ammirare nella Polonia degli anni Cinquanta mi impressionarono vivamente per la loro estraneità — e al tempo stesso per la loro consanguineità — con quelle di alcuni dei massimi artisti dell’epoca, da Klee a Kandinskij a Munch; e mi parve misterioso il legame che poteva esistere tra la remota Lituania e il «civilissimo» Occidente. Eppure, la sua parentela con l’arte dei Paesi occidentali deve essere sottolineata: penso ad esempio a Turner, anche se tanto precedente, eppure i cui paesaggi fantastici ricordano — anzi anticipano — gli onirici paesaggi dell’artista lituano.
Tuttavia se Ciurlionis può essere ricondotto addirittura a un postimpressionismo fin de siècle, questo non basta a giustificare l’altro lato della sua complessa personalità: quello musicale e insieme misteriosofico che penso sia alla base di tutta la sua weltanschauung; altrimenti non si spregerebbe la presenza — in questa grande mostra odierna a Palazzo Reale di Milano (prodotta dalla Fondazione Antonio Mazzotta e d a l Mus e o Na z i o n a l e Ciurlionis) — di tante opere dove il fattore «spirituale» (si abbia una volta tanto il coraggio di impiegare questo termine sospetto) prevale.
D’altronde — come viene ben sottolineato nelle acute presentazioni dei curatori Gabriella Di Milia e Osvaldas Daugelis, nonché nella nota biografica di Nijole Adomaviciene e nel saggio sulla musica di Michele Strinati — il fatto che l’artista avesse costanti rapporti con alcune correnti teosofiche e spiritualiste è cosa nota e non può sorprendere; già guardando ai temi — e ai titoli — di parecchie sue opere. Non si dimentichi del resto che gli anni e cavallo tra l’Ottocento e il Novecento avevano visto il germogliare di numerose correnti più o meno «iniziatiche», da quella storicizzata da Schuré a quella «praticata» dalla Annie Besant (grande profetessa della teosofia) a quelle più rigorose come l’antroposofia di Rudolf Steiner.
L’altro aspetto che non può essedue arti, proprio attraverso quel suo Clavier à lumière in cui suoni e colori venivano entrambi prodotti e utilizzati, portando a un estremo tentativo di sintesi attraverso la «sinestesia» che tanti artisti avvertono nel loro creare.
Se, a questo punto, ci soffermiamo ad osservare le numerose opere esposte in queste rassegna (settantanove tra tempere e pastelli, 30 acquarelli e numerosi disegni e chine) che coprono il periodo di maggior attività dell’artista, constatiamo come, sin dai primi dipinti del ciclo Creazione del mondo appare evidente la sua volontà di evidenziare, oltre alle immagini «naturalistiche» (paesaggi, alberi, fiori), l’elemento spirituale, magico, arcano. Ecco, ad esempio, la serie della Creazione del mondo rarefatte tempere su carta o su tela, marine, foreste, montagne sempre avvolte da coltri di nebbie evanescenti, il cui «valore» non è certamente soltanto «fisico» e figurativo. Così nella Adorazione del sole, nella Fiaba; e naturalmente — data la tematica — nella Sonata della Piramidi e nella curiosissima Sonata delle stelle dove l’incrociarsi di elementi ovoidali e di stesure orizzontali, fuori da ogni dimensione prospettica, è in sintonia con altre opere più narrative come Il viaggio del Principe. E si veda anche il grande ciclo Il sole attraverso i pianeti dello zodiaco: altra testimonianza dell’illustrare una realtà fiabesca e metafisica.
Un altro ciclo di straordinaria suggestività è quello delle Sonate anche questo sempre legato all’elemento fiabesco. Fino a che punto una «veggenza» paranormale — o anche solo creduta tale — può alimentare delle realizzazioni artistiche interessanti? Naturalmente ogni giudizio dovrà essere tecnico ed estetico e non «spirit ual i s t a » . Sappiamo, purtr oppo, quanta paccottiglia pittorica (e letteraria) è stata smerciata con la giustificazione di una «ispirazione» pseudoesoterica. Ad ogni modo nel caso di Ciurlionis la convergenza tra la raffinatezza pittorica delle sue composizioni nebulose e oniriche e il «contenutismo» dei suoi racconti magici, ancestrali, occulti, ci permette di riconoscere che l’incontro è stato quanto mai fortunato: un grande artista, lontano dalle tendenze delle scuole dell’epoca, che ha saputo illustrare un suo universo immaginario con un’efficacia cromatica e «narrativa» che permette di considerarlo come una delle personalità più anomale, ma positivamente anomale, dell’arte all’inizio del nostro secolo.

Corriere della Sera 14.11.10
«Non è il burqa la prigione delle donne»
di Cecilia Zecchinelli


Parla una delle protagoniste della battaglia per il rispetto dei diritti umani in Afghanistan
Mary Akrami: molti passi in avanti, ma troppe promesse disattese
Mary Akrami è una delle donne coraggiose dell’Afghanistan che hanno deciso di lottare per un Paese libero, pacifico e rispettoso dei diritti umani, schierandosi a fianco delle loro sorelle più deboli. Nel 1999, durante l’esilio in Pakistan ai tempi dei talebani, ha fondato l’attivissimo Centro per lo sviluppo delle capacità delle donne afghane (Awsdc). Con la sua Ong, tornata a Kabul, ha creato nel 2003 il primo rifugio per donne maltrattate, il Khana-e-Amn, la Casa della sicurezza. Da allora si divide tra la capitale afghana e il mondo: rappresentante della società civile afghana alla conferenza di Bonn nel 2001, testimone del «nuovo Afghanistan» nel 2005 al Social Forum in Brasile, insignita nel 2007 dal Dipartimento di Stato Usa del premio International Women of Courage. Venerdì, nel corso della conferenza Science for Peace di Milano, parteciperà all’incontro sulle donne nelle aree di conflitto con altre importanti attiviste, dal Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi alla marocchina Aicha Ech Channa.
Nell’era dei talebani le «afghane prigioniere del burqa» erano diventate il simbolo del regime da abbattere. Poi l’Occidente si è focalizzato sulle donne ancora schiave delle tradizioni o sulle poche con ruoli pubblici. Cos’è cambiato davvero dopo il 2001?
«Fino al 2001 chiunque dissentisse dai talebani era di fatto un "prigioniero", anche gli uomini — sostiene Mary Akrami —. Ma le donne hanno sofferto di più. Molte si sono trovate sole e senza mezzi economici ma era loro vietato lavorare, guadagnare anche il poco necessario per sopravvivere. Il burqa non era il vero problema: è vero che spesso veniva loro imposto ma molte lo sceglievano perché si sentivano protette. E anche oggi tante afghane che lavorano e hanno posizioni importanti continuano ad indossarlo tranquillamente. I problemi sono ben altri». Ad esempio? «Molte sono ancora private dei diritti di base, come l’istruzione, la salute, l’apprendimento di una professione e quindi l’indipendenza economica. Ma è vero che dal 2001 si sono fatti passi enormi. Le donne siedono in Parlamento e nel governo, hanno più accesso all’istruzione, hanno costituito molte organizzazioni, gestiscono centri e Ong, sono inserite nel mondo dei media, sostengono legislazioni che rispettino i loro diritti, che fino ad oggi in Afghanistan erano ignorati da tutti. Le premesse ci sono ma resta molta strada da fare».
Quanto pesa oggi sulla società civile, e femminile in particolare, il deterioramento della sicurezza in Afghanistan?
«L’aumento delle vittime civili crea fortissimo allarme. Gli afghani avevano forse aspettative irrealistiche sul ritorno della pace ma la comunità internazionale ha comunque seguito strategie sbagliate. La percezione generale è che siano i giochi politici a prevalere Tutto quell’insistere sul burqa ad esempio è assurdo: se la comunità internazionale avesse mantenuto i suoi impegni, il fatto che alcune afghane continuino ad indossarlo svolgendo nello stesso tempo un ruolo chiave per lo sviluppo del Paese sarebbe irrilevante». Può parlarci del «rifugio»? «Quando l’abbiamo fondato nel 2003 è stato il primo luogo sicuro dove le donne potessero rifugiarsi. Da allora ne abbiamo ospitate 769, vittime di abusi e violenze terribili, e 740 lo hanno lasciato dopo aver risolto i loro problemi. Ne restano 27, e due — devo ammettere — sono state raggiunte e uccise dalle famiglie. Abbiamo però molti problemi di finanziamento: i fondi attuali dureranno solo sei mesi».
La conferenza Science for Peace sottolinea il ruolo della scienza, dell’istruzione e della cultura nel costruire un mondo di pace. Quanto vale per le donne?
« I talenti migliori sono ovunqueovunque impegnati a costruire armi, se venissero usati in modo migliore il mondo sarebbe un paradiso. E la pace non esiste se non c’è istruzione, che insegna agli esseri umani ad amare la vita. Le donne hanno sempre avuto un ruolo importante in questo senso, le madri sono in fondo la prima "istituzione" educativa nella società. E nella storia dell’Afghanistan ci sono molti esempi della loro capacità di risolvere dispute e conflitti, riconosciuta anche dagli anziani delle tribù».

Corriere della Sera Salute 14.11.10
Psichiatria. Quando è vera «depressione bipolare»
di Daniela Natali


Una patologia che, se è davvero presente, è grave, espone a rischi importanti e va affrontata con serietà
Come capire se gli sbalzi d’umore sono una malattia e che cosa si può fare

Non è il solito su e giù dell’umore, non è quel pizzico di malinconia che prende al calare delle ore di luce, o quell’euforia, un filo eccessiva, durante una festa. È una malattia. Tanto che una recente metanalisi dell’Università di Cambridge (condotta sulla base di altri 14 studi) ha mostrato, con la risonanza magnetica, che è perfino in grado di ridurre il quantitativo di materia grigia cerebrale nelle regioni paralimbiche implicate nei processi emozionali. Stiamo parlando della depressione bipolare, caratterizzata da un’instabilità dell’umore tale da compromettere la vita. In Italia ne soffrono 600-900 mila persone. Non è una patologia facile: né da diagnosticare, perché viene confusa con altre, né da curare perché chi la patisce rifiuta l’idea di essere malato.
«I bipolari nella fase di "ipomania" — chiarisce Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano — sono euforici, creativi, grandi comunicatori, dinamici, grintosi, ma se si arriva alla mania, come accade nei casi più gravi, il coraggio diventa incoscienza, le passioni si accendono. Niente fa più paura: gioco d’azzardo, sesso senza precauzioni, acquisti irresponsabili. Non si avverte più il bisogno di dormire e mangiare. E, mentre calano le capacità cognitive e di concentrazione, ci si sente superiori, padroni del mondo. Chi tenta di porre ostacoli alla realizzazione dei desideri, anche i più folli, viene visto come un nemico da aggredire. E nei casi di mania più gravi si rende addirittura necessario il ricovero. A chi, però, non piacerebbe sentirsi padrone del mondo? Passare qualche giorno da leone? Ecco perché questi pazienti sono difficili da "agganciare"».
«Ma alla fase maniacale succede quella depressiva: può durare anche sei-sette mesi, contro qualche settimana di tono dell’umore elevato — dice Eugenio Aguglia, presidente della Sip, Società italiana di psichiatria —. Depressione senza motivi esterni, profonda: il paziente rifiuta di uscire, preferisce rimanere a letto, perde l’autostima, si sente in colpa. E se nelle fasi "su" si rischia la vita perché ci si sente invincibili, qui il rischio è quello suicidario anche se è proprio in questa fase che il malato accetta più facilmente un aiuto.
«Se non è facile arrivare al malato, non è facile neanche arrivare alla diagnosi, — prosegue Aguglia — possono perfino passare anni dalla comparsa della malattia. La sindrome bipolare, che in genere all’inizio si manifesta con un episodio depressivo, può essere confusa con una depressione tout court. Un errore che costa caro perché, con i classici antidepressivi, usati da soli, i bipolari in fase depressiva reagiscono con il rischio di un nuovo episodio maniacale. Ecco perché è bene prescrivere questi farmaci a dosi basse, per un breve periodo e soprattutto insieme a stabilizzatori dell’umore».
«Diagnosi difficile, certo, ma ci sono caratteristiche che aiutano a individuare il bipolare — puntualizza Mencacci —. Disturbi del sonno, propensione all’irritabilità, all’impulsività, uso di alcol e stupefacenti, stili di vita molti "intensi". Senza dimenticare la familiarità, non determinante, ma importante».
Fatta la diagnosi, quali sono le cure? «Il litio funziona bene nella fase ipomaniacale, ma non in quella depressiva. Più indicato l’uso di farmaci stabilizzatori dell’umore, nati come anticonvulsivanti, in particolare la lamotrigina, efficace anche nel prevenire le ricadute depressive. Recenti studi hanno evidenziato l’efficacia degli antipsicotici atipici sulla depressione bipolare, con buoni risultati sul controllo del rischio suicidario» spiega Aguglia .
Si può parlare di guarigione? Risponde Aguglia: «Se per almeno due anni si ha una stabilizzazione del tono dell’umore si può andare verso una rarefazione della terapia e pian piano perfino verso una sospensione. Ma per la maggioranza dei pazienti si tratta di cure a vita, anche se alla minima dose di farmaco efficace, perché la patologia può essere tenuta sotto controllo, come nel diabete e nell’ipertensione, non guarita».
«Alla terapia farmacologica, che comprende anche gli antips i c ot i c i a t i pi c i , — r i pr e nde Mencacci — vanno comunque abbinate altre forme di aiuto. Dalla psicoeducazione dei familiari, alla psicoterapia. S’insegna al paziente a conoscere e prevenire le ricadute, sempre dietro l’angolo, a gestire gli stili di vita evitando, per quanto possibile quelle situazioni, come il superlavoro o gli ambienti stressanti, che questi malati patiscono molti più della norma. E, se evitare il problema non è possibile, si aiuta il malato a riconoscere i propri punti deboli, gli eventi per lui più stressanti, affinché si prepari per tempo a gestirli al meglio». «Tenere sotto controllo la bipolarità — conclude Mencacci — vuol dire anche tenere i malati lontani dall’abuso di sostanze varie: dalla cocaina, ai cocktail di stupefacenti, all’alcol che usano come "cura"».

sabato 13 novembre 2010

l’Unità 13.11.10
Alle paritarie 245 milioni, cento in più dello scorso anno. Il 5 per mille ridotto a un quarto
Un governo in bolletta dà più soldi alla scuola privata
di Bianca Di Giovanni


Al via il voto in commissione sulla legge di Stabilità. Atteso per oggi il varo per l’Aula. È scontro sui fondi per le paritarie e sui tagli al 5 per mille. Botta e risposta Gasparri-Napolitano. Mpa ancora in prima linea sui Fas.

Sulla legge di Stabilità torna a parlare il Quirinale. Stavolta per rintuzzare le recriminazioni avanzate da Maurizio Gasparri. «Facile esternare, più difficile governare i conti e tenere ferma la spesa», aveva detto il senatore del Pdl. «Il Presidente della repubblica non ha mai sostenuto che “non bisogna fare tagli” alla spesa pubblica», -ha ribattuto il Colle in una nota. Giorgio Napolitano in realtà, aprlando l’altroieri a Padova, aveva messo l’accento su un altro tema, di fatto decisivo per il «gioco» della politica: cioè il «vuoto di riflessione e di confronto sulla questione cruciale: quella delle scelte da compiere e delle priorità da osservare nella destinazione delle risorse pubbliche».
TAGLI SUI PIÙ DEBOLI
Proprio sulle priorità da seguire si è scatenata infatti la bagarre politica nel primo giorno di voto in commissione Bilancio alla Camera. Nella nottata il governo ha depositato la destinazione dettagliata del fondo da 800 milioni, che altrimenti avrebbe rischiato l’inammissibilità. dalla lista delle voci è emerso che alla scuola paritaria sono destinati 245 milioni, quasi il doppio dell’anno in corso (130 milioni), mentre al 5 per mille an-
Francesco Boccia, Pd
dranno appena 100 milioni, quattro volte meno di quanto stanziato nell’anno in corso. Il tutto dopo aver sostanzialmente azzerato tutti i fondi destinati al siociale che avevano creato i governi di centrosinistra. Un taglio di oltre l’80% nel giro di un paio d’anni. Queste le priorità del centrosestra: fare cassa facendo pagare solo i più deboli. Dopo le tariffe dei treni, oggi arriva la sforbiciata all’associazionismo. A questo si aggiungono i pesanti tagli alla sanità, che restano una spada di Damocle sui servizi alle famiglie, nonostante lo stanziamento per eliminare (solo per qualche mese) il ticket sulla diagnostica. Insomma, i più deboli dovranno vedersela da sé per trasporti, servizi, aiuti. Lo Stato se ne va. «Con i tagli al 5 per mille il governo ha messo un altro tassello nella sua strategia di togliere a chi ha più bisogno ha attaccato ieri Rosy Bindi stanziare solo 100 milioni è offensivo perché nessuna associazione potrà portare avanti i progetti di stampo sociale o di ricerca condotti in questi anni e nessuno di conseguenza potrà beneficiarne. Con l'elemosina non si può parlare di sussidiarietà».
Lo Stato se ne va anche dall’istruzione. Aiuta le scuole private, mentre le pubbliche hanno subito già una «cura dimagrante» di 8 miliardi in tre anni, con la cancellazione di qualche centinaio di milioni. «Il governo in agonia completa l’opera di demolizione dell’istruzione pubblica», commenta Mimmo Pantaleo, Flc-Cgil. «Gelmini pensa di salvarsi l’anima, ma dimentica la scuola pubblica», aggiunge Francesca Puglisi del Pd.
Intanto il voto in Commissione inizia con un brivido. Mpa e Fli insistono per distribuire i Fas per il trasporto pubblico locale con la specifica dell’85% di risorse a Sud (come prevede la legge). Il relatore in extremis recupera la formulazione,

l’Unità 13.11.10
Camusso: Cgil con i giovani non più disposti a tutto
di Bruno Ugolini


I manifesti «anonimi» di cui abbiamo parlato celavano la prima iniziativa del sindacato a guida Camusso. Partire dai giovani «invisibili» contro gli attacchi autoritari allo Statuto dei lavoratori.

L’arcano è svelato. Chi ha inondato il web, ma anche le mura delle città con ironici annunci di offerte di lavoro ai precari? Chi ha sottoposto alla pubblica opinione la condizione di una generazione di invisibili? La Cgil di Susanna Camusso. Il neo-segretario del sindacato italiano maggioritario (checché ne pensino Sacconi e Marchionne) ha dato un altro tocco, con questa iniziativa, al proprio biglietto da visita. Lo svelamento è avvenuto durante una conferenza stampa in un cinema romano dove la stessa Camusso, circondata dai giovani della Cgil, ha dato l’annuncio. I promotori sono stati proprio loro, i giovani cigiellini, capeggiati da Ilaria Lani. Hanno dato vita a quella che gli appassionati telematici chiamano, un po’ pomposamente, «Social Guerrilla», una campagna sistematica, circondata da un alone di mistero. È iniziato così un dialogo di massa che ha visto la partecipazione, in poco più di un mese, di oltre 70 mila visitatori al sito «Giovani disposti a tutto» e circa seimila aderenti all’apposita pagina di Facebook. Ragazze e ragazzi che non si sono limitati a leggere, ma che hanno scritto, discusso, interloquito (ben 1.188 commenti e messaggi in bacheca su Facebook). È stata come una pièce teatrale divisa in due tempi. Se nel primo atto i giovani promotori anonimi erano “disposti a tutto” nel secondo (con nuovo sito: www.nonpiu.it) gettano la maschera, pubblicano il talloncino rosso della Cgil, avanzavano alcune proposte (forse un po’ troppe). Ne citiamo alcune: la tassazione delle rendite, investire in ricerca e green economy, puntare sul sistema conoscenza, sbloccare le assunzioni nella scuola, sorpassare le molteplici tipologie di lavoro, aggancio delle retribuzioni di lavoro atipico ai contratti collettivi nazionali di lavoro, un periodo massimo di utilizzo per gli stage, indennità di disoccupazione a tutti i giovani e precari, contribuzione per tutte le tipologie di lavoro e cumulabilità dei contributi versati, garanzia dei versamenti contributivi anche durante i periodi di disoccupazione.
Con l’intenzione di passare dal web alla piazza. Così si è dato vita a  quello che chiamano «FlashMob», forme improvvisate di protesta. Già si sono svolte a Firenze e a Roma davanti a Montecitorio. Altre sono previste a Napoli, Parma. L’appuntamento principale è però a Roma, il 27 novembre, nella giornata nazionale organizzata dalla Cgil. Un appuntamento dedicato in modo particolare al futuro e ai giovani. Anche per questo, come ha affermato Ilaria Lani, saranno organizzati ovunque comitati locali di sostegno. La manifestazione cadrà in un momento di grande suspense per il Paese, mentre dal centrodestra proviene, proprio sui temi del lavoro, un attacco senza precedenti. Susanna Camusso ha citato la volontà autoritaria di cancellare non solo l’articolo 18 bensì l’intero Statuto dei lavoratori. È l’offensiva promossa da chi ha in mente un’idea di società «insopportabile».
Ecco perché è importante quel dialogo partito dal Web. Un’iniziativa che testimonia, ha spiegato Camusso, come nella Cgil non tutto sia diretto dall’alto, ma esistano spazi di autogestione. L’organizzazione, per la prima volta nella storia diretta da una donna, cerca le strade del rinnovamento adottando, come in questo caso, anche un linguaggio nuovo. «Non è stato un modo per nascondersi, ma per essere protagonisti in un altro modo». La Cgil intende così contribuire ad abbattere alcuni pregiudizi che coinvolgono il sindacato spesso considerato solo una specie di fortino degli anziani.
DIALOGO CON I GIOVANI
Il dialogo messo in atto con giovani che spesso rifuggono dal contatto sindacale e che è difficile incontrare perché intrisi di «solitudini», ora potrà proseguire anche in altre forme, anche attraverso la contrattazione sindacale. Non sarà facile, visto i tempi che corrono, con un padrone italo-canadese che addirittura ipotizza soluzioni fascistiche come la espulsione della Cgil dalle fabbriche. Una ragione di più per far diventare quell’adesivo rosso creato da giovani («che animano e abitano la Cgil») un simbolo generale da applicare su se stessi e ovunque. Potrebbe essere adottato anche dai metalmeccanici, da portare a Roma il 27: «Non più disposti a tutto».

l’Unità 13.11.10
Pasolini? Di sinistra ma capiva la destra
di Bruno Gravagnuolo


Pasolini fra destra e sinistra? Il quesito può apparire incongruo e senza senso. Fatti salvi ovviamente i critici di estrema sinistra di sempre alle idee di Pier Paolo Pasolini: Gruppo 63, lo scomparso Sanguineti, Asor Rosa. Invece il quesito un significato ce l’ha. Perché serve a inoltrarsi in una storia letteraria e di vita, fatta di originalità creativa e persino «profetica». E poi perché la vicenda fu accompagnata da ostilità e imbarazzi a sinistra, e da odio a destra, con tardive eccezioni, fino alla riabilitazione che oggi spinge il Secolo d’Italia a scorgere nel poeta un autore di destra, un «profeta reazionario» alla Pound.
Come stanno le cose? Per capirlo occorre leggere il libro appena uscito che qui vi presentiamo: Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra (pr. di Giacomo Marramao, Vallecchi, pp. 342, Euro 16). Scritto da due autori distantissimi, uno di sinistra l’altro di destra, entrambi non pentiti. Che frequentarono anche personalmente il poeta delle Ceneri di Gramsci: Gianni Borgna e Adalberto Baldoni. Il primo già assessore alla cultura con Veltroni, leader della Fgci romana  segnato da un tormentato rapporto col Pci, che pure lo espulse nel 1947, a causa della sua omosessualità. Il che non impedì a Pasolini di professarsi sempre comunista, sebbene in una chiave eretica, apocalittica e nostalgica al futuro di una comuntà di relazioni fraterne ed emancipate, non violente. Proprio l’incontro con i giovani del Pci all’inizio dei 70, che Borgna ci narra in modo appassionato (c’erano Veltroni, Bettini, Lucio Caracciolo, Adornato, oltre a Borgna negli incontri in Via Eufrate col poeta), contribuì a reinserire Pasolini nel rapporto col Pci. Fino al giorno inatteso del suo omicidio oscuro, il 2 novembre 1975. E quegli incontri stanno a testimoniare dell’intelligenza di una Fgci che capiva la crisi del comunismo e si apriva a una diversa idea di sinistra: laica, libertaria, critica dell’omologazione consumista. Interessata alla dignità della «soggettività» e all’autonomia dell’arte. Dentro il nesso con la storia e la liberazione dei subalterni (quel che il Pci era e restava).
Tesi di Baldoni: Pasolini fu maledetto a torto dalla destra italiana, che ne fece la sua bestia nera morale («omosessuale», «comunista», «elitario»). Baldoni stesso racconta di aver tirato uova marce alla prima di un film di Pasolini e di essersi accodato al coro spregevole di allora. Prima di farsi artefice ante litteram della scoperta di Pasolini a destra, in articoli e in un libro Noi rivoluzionari, che usavano vari argomenti per quella riabilitazione. La critica di Pasolini ai giovani del 1968. Il (presunto) superamento della distizione destra/sinistra nel Pasolini critico del Potere degli Scritti corsari. Infine la memoria del passato, le radici e i luoghi e il populismo che tralucevano dal pathos verso gli umili. Buoni argomenti, sbagliati altresì. Perché quello di Pasolini era e restava un populismo non violento teso pur sempre al riscatto dei subalterni dal dominio. Se si vuole, un populismo tolstojano apocalittico contro i consumi e la modernità degenerata. Tragico e un po’ alla Walter Benjamin. Preveggente sul «nuovo fascismo» light ed edonista alle porte. E la sua era una sintesi di sinistra, poetica. Che come ogni forte pensiero di sinistra capisce anche ragioni e sentimenti della destra. Senza farsi irretire. Forse anche per questo «scandalo» la sua morte fu catalogata come banale incidente di percorso di un omosessuale. Tutto più facile così.
Che rapporti aveva con la politica italiana?
«Una lunga incomprensione. Pasolini fra Destra e Sinistra» di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna (Vallecchi editore, pagine 342, euro 16,00) per capire Pier Pasolini da che parte stava: a sinistra o a destra? Baldoni e Borgna ricostruiscono per la prima volta in questo volume la «lunga incomprensione» che caratterizzò i rapporti tra Pasolini e la cultura politica italiana, ma anche l’attenzione con cui molti giovani di tutto il mondo si confrontarono e si confrontano ancora con le sue idee e con il suo lavoro.

il libro di Belpoliti
Repubblica 13.11.10
Gustatevi tutte le salse di Pasolini
Il gusto della bellezza è determinante nella vita. Ammiro le artiste e la loro forza di imporsi
di susanna Nierenstein


Lo scrittore e saggista Marco Belpoliti usa principalmente tre tipi di titoli. 1. Nomi propri, come per il romanzo Italo, per la monografia Primo Levi e per i numeri della rivista Riga che dirige con Elio Grazioli (ultime uscite: Gianni Celati, Kurt Schwitters; Roland Barthes). 2. Singole parole (Crolli, Settanta), anche articolate (La prova) o appena modulate (Doppio zero; Senza vergogna). 3. Titoli in cui si riuniscono le due modalità: L´occhio di Calvino; La strada di Levi; La foto di Moro. Non fanno eccezione Il corpo del capo o il Diario dell´occhio perché in entrambi i casi il nome comune è un´antonomasia: il Capo è Berlusconi, l´Occhio è quello dello stesso Belpoliti.
Quest´ultima è anche la categoria del nuovo Pasolini in salsa piccante (Guanda). Non tutti indovinano al primo colpo la relazione fra Pasolini e la salsa piccante: è dunque un titolo almeno in parte «teaser», stuzzica la curiosità. Soluzione: lo stesso Pasolini ha detto (ha fatto dire al corvo di Uccellacci e uccellini) che «I maestri si mangiano in salsa piccante», piccante per digerirli meglio.
Da un insolito accostamento Belpoliti ha ricavato così un titolo autoreferenziale, che fa già quello che annuncia. Usa una frase di Pasolini per suggerire di trattare Pasolini con meno solennità e vittimismo, in modo da capirlo meglio e, alla fine, meglio assimilarne la lezione. Prosit.

l’Unità 13.11.10
Abbado: “Così non va... Facciamo musica insieme”
Il Sistema Abreu sbarca in Italia, contro il disagio sociale
di Claudio Abbado


Oggi alla Scuola di Musica di Fiesole un convegno presenta il «Sistema nazionale di orchestre e cori giovanili», progetto per combattere il disagio sociale insegnando musica e promosso da Abbado. Ecco il suo saluto.
D esidero     salutare    tutti    gli amici qui riuniti per un progetto nel quale convivono due aspirazioni. La prima è quella di rendere omaggio a José Antonio Abreu e alle sue realizzazioni. Abbiamo cercato, con alcuni amici musicisti, di accrescere e rafforzare ulteriormente «El Sistema» da lui ideato in Venezuela, che coinvolge un numero enorme di ragazzi: oggi sono più di 400.000 e oltre 2 milioni dall’avvio del progetto 35 anni fa. Abbiamo portato la nostra esperienza facen-
Maestro Claudio Abbado do concerti, insegnando, avvicinando sempre più musicisti europei che andassero in Venezuela a portare il proprio contributo. La seconda aspirazione è quella di aiutare a trasferire in Italia i principi fondamentali del Sistema Abreu. Tant’è vero che, a imitazione del modello venezuelano, in ogni Regione italiana sono già sbocciate molte realtà che è bene ora portare in un alveo comune. I motivi per i quali è urgente e necessario importare nel  nostro paese questa realtà sono di-
versi. In primo luogo perché «così non va», qualcosa, nella nostra società, va fatta. Non sono purtroppo assenti, anche da noi, sacche di povertà e disagio dove le prime e più vulnerabili vittime sono i ragazzi. Basterebbero gli esempi segnalati da Roberto Saviano, altra persona a cui tutti dovremmo rispetto per il coraggio con cui continua a denunciare queste situazioni. E allora ecco che fare musica insieme, studiarla e praticarla sono tutti strumenti che rendono possibile il riscatto. Abreu lo ha dimostrato. Una seconda ragione, non meno importante. La gioventù è stata letteralmente depredata da prospettive credibili, per le quali valga lo sforzo e la gioia della realizzazione. Non solo chi è nel disagio, ma forse ancor più chi abita il benessere, viene manipolato per diventare un conformista, un animale compratore, un ebete che si nutre solo di superficialità. Una vita piena di musica e di cultura è sicuramente un argine a tutto ciò. Chi ha avuto il privilegio di crescervi faccia, come proviamo a fare oggi, qualcosa perché altri vi crescano a loro volta.


Repubblica 13.11.10
Amo Israele ma combatto l´illusione delle colonie
Gli insediamenti hanno creato uno stato di apartheid: chi ci vive rifiuta di vederlo
Non si può parlare di letteratura quando si umilia la gente e la si priva dei diritti umani
di David Grossman


"Niente artisti nei Territori occupati amo Israele, ma basta colonie"
Appello di Grossman contro il teatro nell´insediamento di Ariel

La parola "boicottaggio" non compare nella petizione firmata finora da 51 attori, registi di teatro e altri artisti contro il centro culturale di Ariel. Quella del boicottaggio è un´arma grave ed estrema che evoca echi amari nella memoria collettiva ebraica. Considero questa petizione una richiesta di astensione: astensione da qualsiasi iniziativa che oscuri il fatto che Ariel sorge in una zona occupata e la sua esistenza crea una realtà che rischia di portare lo Stato di Israele alla catastrofe. Anche se i coloni proclameranno giorno e notte con squilli di tromba che Ariel esisterà in eterno non saranno in grado di nascondere la loro situazione problematica, sia sul piano morale che pratico, e nemmeno il pericolo – nato dall´enorme e avventata scommessa politica alla base dell´ideologia degli insediamenti – che corre Israele.
Da quando ho scritto Il vento giallo rimango sbalordito dalla capacità di negazione dei coloni che consente loro di convivere con le profonde contraddizioni della situazione in cui si trovano. I più sono indubbiamente lucidi e realistici e le ragioni della loro presenza nei territori occupati non sono sempre ideologiche.
Quindi, il meccanismo psicologico che gli consente di mantenere una vita all´apparenza normale, civile e anche del tutto "borghese" nel cuore di territori occupati, ostili e pieni di violenza, in mezzo a circa due milioni di persone che vivono in condizioni di oppressione e di umiliazione (in larga misura a causa della presenza degli insediamenti) mentre gran parte del mondo si oppone alla loro scelta e alle loro azioni, è estremamente affascinante.
In generale, sembra che quanto più l´ideologia degli insediamenti diventa infondata e pericolosa tanto più i suoi sostenitori sono quasi condannati a esaltarla, a investirla di un sacro senso di missione. A volte mi chiedo se questo sforzo nasca anche dalla paura che filtra in loro, a dispetto di tutto, proprio a causa del loro essere persone lucide, realistiche e corrette in qualunque altro ambito della vita. Una paura causata dalla realtà insostenibile e suicida che il loro modo di agire sta imponendo al paese e a loro stessi.
Se infatti i coloni negano completamente questa realtà insostenibile, nonché le conseguenze dello stato di apartheid che hanno creato, ciò significa che hanno semplicemente e letteralmente perso il contatto con essa. È quasi divertente vedere come, prigionieri del proprio sogno, definiscano "deliranti" o "pazzoidi" i loro oppositori; e la loro paura del risveglio è comprensibile. Quando gli si pone davanti uno specchio che riflette in modo semplice e chiaro l´assurdità e l´avventatezza del processo storico da loro avviato e condotto, non sono in grado di sopportarlo e si fanno prendere da una rabbia parossistica. La petizione è un simile specchio.
Personalmente non "boicotto" i residenti di Ariel, o nessuno dei coloni. Sono interessato a dialogare con loro e nel corso degli anni ho partecipato a numerosi incontri a tale scopo. In gran parte incontri avvincenti e preziosi ma, purtroppo, inutili. Riuscivano a dissipare la diffidenza e l´ostilità, a risvegliare un senso di affetto e di stima, ad abbattere i reciproci stereotipi, ma nessuno dei partecipanti si discostava dalle proprie posizioni. In fin dei conti, anche dopo quattro decenni di dialogo, l´occupazione continua a essere sempre più profonda e ramificata e molti israeliani, tra cui due generazioni già nate in questa realtà, considerano Ariel e tutti i Territori occupati parte legittima e naturale dello Stato di Israele senza capire il motivo di tanto baccano.
La nostra petizione intende minare e scuotere questa illusione, questa menzogna, che è stata ripetuta talmente tante volte da cominciare ad apparire verità. C´è un gruppo di persone qui in Israele, me incluso, per il quale lo Stato ebraico è prezioso quanto la propria anima. Non siamo disposti a rimanere in silenzio quando vediamo il nostro paese dirottato verso il delirio e il fascismo e siamo pronti a pagare un prezzo per la nostra presa di posizione, che sapevamo fin dal principio quanto fosse impopolare. Non demonizziamo i coloni né idealizziamo i palestinesi e conosciamo bene i pericoli e le minacce che Israele deve affrontare. E proprio per questo ci è difficile comprendere come l´ideologia degli insediamenti possa far progredire Israele verso il futuro che merita. Proprio per questo ci mobilitiamo e alziamo un grido.
Sarò felice di condurre un dialogo con i coloni di Ariel qui, in Israele, a casa. Il pensiero di organizzare una "serata letteraria" nel cuore dei Territori occupati, quando a così poca distanza vive gente perennemente umiliata, privata della libertà e dei fondamentali diritti umani, mi appare infatti scandaloso e ripugnante. So bene che ci sono argomenti e ragioni, alcuni molto pesanti, a sfavore della pubblicazione di tale petizione, ma a volte ho il sospetto che alcuni di questi argomenti non siano altro che pretesti per astenersi da un´azione che comporta un caro prezzo a livello personale. E forse, proprio a causa di questa indecisione infinita ed estremamente cauta nell´operare una scelta dolorosa tra i pro e i contro, la maggioranza moderata in Israele ha permesso a una situazione tanto estrema di mettere radici.
Più volte, questa settimana, ho sentito gente che, pur identificandosi con il contenuto della petizione, ritiene che pubblicarla sia stato un "errore tattico". Anche questo è un problema: i sostenitori della pace che temono di essere sospettati di "slealtà" sono sempre più impegnati con la tattica, mentre la destra e i coloni portano avanti una strategia. Sono pochissimi coloro che sono entrati nel merito delle semplici e risolute affermazioni apparse nella petizione. La maggior parte degli israeliani ha reagito con grande sconcerto non alla petizione stessa bensì - così pare - all´ansia che questa ha suscitato e alla sua pretesa nei loro confronti.
Per confrontarsi veramente con il suo contenuto occorre spazzare via l´ondata di kitsch nazionalista che sommerge il paese e lo spinge verso angoli malati e pericolosi. In fin dei conti, se si esamina lucidamente l´incredibile ginepraio entro il quale gli insediamenti hanno spinto Israele e i disastri che possono ancora causare, forse sempre più israeliani avranno il coraggio di reclamare il diritto, un tempo dato per scontato, di vivere in un paese concepibile e realistico.
Ma perché questo avvenga, come i firmatari della petizione hanno cercato di sottolineare, occorre agire, tracciare una linea e colorarla di verde.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)

Repubblica “13.11.10
Sono ebreo, non opero un neonazista"
Germania, un chirurgo interrompe l´intervento: il malato aveva tatuata una svastica
Opinione pubblica divisa: "Così ha tradito il giuramento d´Ippocrate"
di Andrea Tarquini


BERLINO La Memoria dell´Olocausto è tanto forte da poter spingere un medico a tradire il giuramento d´Ippocrate, cioè il dovere di curare qualsiasi malato. È accaduto nella ricca Paderborn, in Germania. Un chirurgo di origini ebraiche, visto il tatuaggio nazista del paziente in sala operatoria, si è rifiutato di operarlo.

Ha obiettato ragioni di coscienza, ha informato la moglie del paziente, e ha chiesto e ottenuto che un collega presente anche lui in sala effettuasse l´intervento. Il quale poi è andato a buon fine, ma i media e l´opinione pubblica si dividono. Si chiedono se la reazione del chirurgo meriti comprensione e sia quindi giustificabile, o se la sua scelta di venir meno al suo dovere sia da sanzionare in nome dell´etica medica e dell´etica in generale.
L´evento è stato raccontato ieri da Bild online, l´edizione internettiana del quotidiano più letto d´Europa, appunto la Bild del gruppo Springer. È andata così: all´ospedale di Paderborn, prospera cittadina di antiche tradizioni nel Nordreno-Westfalia, ci si preparava a un intervento di routine. La notizia apparsa sul sito (www. bild. de) non specifica di quale operazione chirurgica il paziente avesse bisogno. E ovviamente non fornisce nessun nome, né del chirurgo, né dei suoi colleghi che lo hanno sostituito in sala operatoria, né del paziente e della sua famiglia. Le leggi tedesche sulla privacy infatti sono tra le più severe del mondo, e infrangerle è un rischio molto serio, che i media ai assumono solo o quasi solo quando gli scandali o le notizie riservate riguardano i vip della politica, dello spettacolo o dello sport.
Quanto è accaduto a Paderborn invece è, in un certo senso, storia di uno scontro tra gente comune, sconosciuti della porta accanto, anche se improvvisamente divisi dal capitolo più tragico della storia tedesca ed europea contemporanea. Ci si preparava a un´operazione di routine (forse un´ernia, o un´appendicite, o la terapia di ferite causate da un incidente stradale). Ma quando il paziente è stato portato sul tavolo operatorio, il chirurgo, un quarantaseienne appunto di origini ebraiche, ha visto l´enorme tatuaggio nazista sull´avambraccio del paziente. Cioè un´aquila del Reich appollaiata su una croce uncinata.
A quel punto il chirurgo non ci ha più visto. Ha chiesto al collega al suo fianco di operare lui, è uscito dalla sala operatoria, è andato direttamente a parlare con la moglie del paziente, che attendeva la fine dell´intervento. «Io non opererò suo marito, signora, non posso, perché sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette». L´altro chirurgo ha preso il suo posto, tutto è andato bene. Non si sa se il paziente abbia protestato o sporto denuncia, ma forse potrebbe non convenirgli. Per quanto anche l´omissione di soccorso sia perseguita con severità, nella Repubblica federale qualsiasi esibizione di simboli nazisti è reato penale.