lunedì 15 novembre 2010

«il centrosinistra dovrà fare ora i conti con una affluenza ai seggi inferiore ai numeri annunciati, e sperati, fino a sabato... Quasi uno scontro per procura fra Bersani e Vendola, che infatti si sono spesi anima e corpo nel sostengo ai rispettivi candidati»
Repubblica 15.11.10
La nuova speranza della sinistra
di Curzio Maltese


Le decine di migliaia di votanti che hanno sfidato una giornata d´inferno per scegliere lo sfidante di Letizia Moratti, sono una delle poche buone notizie della vita pubblica in questi mesi. E questo anche se erano di meno rispetto alle primarie precedenti. Sono una buona notizia perché segnalano che la politica non è soltanto trame di palazzo, guerre televisive, macchine del fango e altre porcherie, ma soprattutto libertà e partecipazione, come cantava un grande milanese onorario, Giorgio Gaber. Ma poi perché la partita milanese, da qui alle comunali, è destinata a riscrivere i destini nazionali.
Come sempre, viene da dire. Tanto per cominciare, le primarie milanesi sono la prova generale delle primarie nazionali del centrosinistra. Quasi uno scontro per procura fra Bersani e Vendola, che infatti si sono spesi anima e corpo nel sostengo ai rispettivi candidati, Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Vendola è addirittura piombato a Milano alla vigilia del voto per il comizio finale di Pisapia, con mossa tanto teatrale quanto efficace. In una battaglia all´ultimo voto, ha vinto Pisapia.
Ma il Pd non dovrebbe pentirsi di queste primarie, semmai riflettere. A Milano, come in Puglia e a Firenze, le candidature del Pd pagano l´ambiguità delle scelte o delle non scelte, la distanza crescente dei gruppi dirigenti dagli umori dell´elettorato. A parte queste diatribe interne al centrosinistra, le primarie di ieri hanno avuto un sicuro effetto positivo: la prova di vitalità della sinistra milanese che deve uscire dall´angolo e risorgere.
La sinistra si era ritirata da Milano, ovvero dalla trincea più moderna del Paese, negli anni Ottanta, ed è stato un modo rapido per uscire dalla storia italiana. Queste primarie, belle, nervose e vivaci, con candidati di qualità presi dal mondo delle professioni, l´avvocato Giuliano Pisapia, l´architetto Stefano Boeri, il costituzionalista Valerio Onida e il fisico Michele Sacerdoti, hanno restituito al centrosinistra milanese dignità, smalto e appeal persi nel tempo e fra mille errori.
Il candidato espresso dal voto di oggi potrebbe avere per la prima volta da molto tempo una possibilità concreta di battere la destra. Lo testimoniano anche il nervosismo del sindaco Moratti, le divisioni interne fra Lega e Pdl, la tentazione del terzo polo di candidare l´ex sindaco Albertini. Da feudo del centrodestra, Milano può così tornare ad essere un laboratorio centrale della vita politica italiana. Un laboratorio che potrebbe decretare fra quattro mesi la fine del berlusconismo, così come ne aveva salutato la nascita. Attraverso il libero voto e non per un´alchimia di palazzo. Da oggi si torna a Milano per capire dove andrà il Paese, com´è stato in tutte le svolte decisive della storia repubblicana, dalla Liberazione al primo centrosinistra, da Tangentopoli all´invasione leghista e alla nascita della seconda repubblica. Era questa la speranza di una Milano democratica che per tanti anni ha assistito allo scempio di cattive amministrazioni populiste e reazionarie senza perdere mai la voglia di combattere. Era la speranza di gente come Riccardo Sarfatti, la personalità che forse si è più spesa per arrivare alle primarie milanesi ed è morto due mesi fa in un incidente stradale, senza poter vedere il risultato dei propri sforzi. Un grande milanese, Sarfatti, una bella persona.

Repubblica 15.11.10
Il Pd apre all´alleanza fino a Fli stop da Di Pietro e Vendola
Letta: punto fermo se si va alle urne. I veltroniani frenano
Franceschini: "Oggi accadono cose che sembravano impensabili solo qualche mese fa"


ROMA - Potrebbero ritrovarsi alleati Bersani e Fini. Se Berlusconi forza verso una «deriva antidemocratica», come sta facendo in queste ore infischiandosene delle prerogative di Napolitano, e dietro l´angolo ci fossero le urne - invece del "governo di transizione" invocato dalle opposizioni - ebbene, il segretario del Pd pensa a «un´alleanza per la democrazia», da Vendola e Di Pietro fino alla destra di Fini. Idea bocciata subito da Di Pietro; gelo dei Modem, la minoranza democratica di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. Né ci sta Vendola.
«Con il Pd alleato con Udc e Fini non si esce dalla crisi - è l´altolà di Di Pietro - I centristi e "Futuro e libertà" sono complici di chi sta uccidendo l´Italia». E per il leader di Idv bisogna semplicemente tornare a votare. Ma il vice segretario democratico Enrico Letta rilancia l´appello alla «parte buona del Pdl». È sicuro, Letta, che una volta sfiduciato Berlusconi, si farà «un governo e sarà politico, non tecnico. E le mosse al limite del golpismo di Berlusconi obbligheranno secondo e terzo polo, rinforzato da altre fughe da destra, a convergere in Parlamento». Un passo alla volta, insomma. «Comunque - aggiunge - l´asse con il terzo polo è un punto fermo». Più esplicito Dario Franceschini, il capogruppo del Pd: «Impensabile un´alleanza con Fini? Anche le cose che stanno accadendo oggi sembravano impensabili solo qualche mese fa. La priorità è chiudere a ogni costo con Berlusconi. Siamo a una emergenza democratica. Ci ritroveremmo su basi comuni, come la difesa della legalità, il senso dello Stato, il ritorno alle regole. Alla fine di questo percorso, si torna a una normale alternanza tra centrosinistra e centrodestra». Anche per Franceschini il governo di transizione «nascerà», però se si fosse costretti a votare con questa legge elettorale, allora si va alleati in una «coalizione di emergenza». Ovviamente con Fini. Anche Massimo D´Alema aveva parlato di una legislatura costituente.
Secco invece il commento di Beppe Fioroni, uno dei leader della minoranza: «Improponibile pensare a legami che arrivino fino a gruppi comuni in un nuovo Parlamento con Vendola e Di Pietro. Bene invece allearci con Casini e Rutelli. Fini ha detto "mai con il Pd". Fermiamoci a questo. Quando cambierà idea, vedremo». Anche il veltroniano Giorgio Tonini è per la massima cautela: «Rendiamoci conto dove ci siamo cacciati. La vocazione maggioritaria del Pd di Veltroni significava un partito che costruiva uno schieramento attorno a sé. Ora potremmo trovarci o ad andare dietro a Vendola e Di Pietro oppure con Casini e Fini e non saremmo noi a guidare la coalizione. Raccogliamo quello che non abbiamo seminato. Sarà il 2011 un anno di grande difficoltà per l´Italia, in cui l´Europa chiede il pieno rientro del debito. È più che necessario un governo di transizione. Ma se si andasse alle urne, personalmente non ho una preclusione assoluta verso Fini perché saremmo davanti a un passaggio drammatico». Arturo Parisi, strenuo difensore del bipolarismo, è scettico sul collante del terzo polo. «Ma il Pd avvii subito un confronto trasparente».
(g.c.)

Repubblica 15.11.10
"Accordo in nome della Costituzione i democratici capiranno"
Se si va a votare con questa legge elettorale, non possiamo fare l´errore del 1994: andare alle urne con tre poli
di Giovanna Casadio


ROMA - «Gli elettori democratici capirebbero. Un´alleanza con Fini e Casini sarebbe in nome della Costituzione per battere la degenerazione politica a cui ci ha condotti Berlusconi». Rosy Bindi, la presidente del Pd, è una "pasionaria". Non è facile per lei prevedere - se si dovesse andare alle urne - un´alleanza elettorale con Gianfranco Fini, leader di una destra che ha le sue radici nel Msi di Almirante.
Cosa succede ora, onorevole Bindi?
«È indiscutibile che ci sia una crisi conclamata. Siamo a una sorta di morte assistita del governo: si approva la legge di stabilità e, quindi, se ne decreta la fine».
Non state vendendo la pelle dell´orso prima di averlo ucciso? Il premier è sicuro della fiducia al Senato.
«Berlusconi può anche avere ripreso la compravendita dei parlamentari e continuare a fare comizi. Ma una volta dato il via libera alle legge di bilancio, cadrà. Alla Camera non ha la fiducia. Penso che non bisogna sottovalutare la reazione che lui ha annunciato. Anche Prodi avrebbe potuto chiedere il voto solo per il Senato, dove era stato sfiduciato. Quando c´è un sistema di bicameralismo perfetto, però, la fiducia è necessaria in tutte e due le Camere, per chi conosce l´abc della Costituzione. E questo la dice lunga sul fatto che Berlusconi ha veleno anche nella coda. Su tutto ciò tra l´altro decide il presidente della Repubblica. Il Cavaliere ha un comportamento profondamente anticostituzionale. Calpesta i principi fondamentali della nostra vita democratica».
Se le vostre aspettative di un governo di transizione, di "ripartenza", restano lettera morta, vi alleereste con Fini?
«Faremo di tutto per rendere possibile un governo di solidarietà nazionale, così come ci opporremo a un tentativo di rincollare la maggioranza, magari con la stampella dell´Udc. Ma se Berlusconi ci porta a votare con questa legge elettorale, minacciando la Costituzione, non possiamo fare l´errore del 1994. Già allora proposi al mio partito, che era il Ppi, e al Pds di non andare separati alle elezioni e infatti vinse Berlusconi. Dovremmo allearci perciò con Fini e Casini, che tentano di costituire il terzo polo, nel nome della Costituzione e della democrazia. Non solo in funzione antiberlusconiana, ma per salvare la democrazia parlamentare. Certo va verificata la possibilità di condividere alcune scelte economiche e sociali, da assumere subito dopo il voto. La crisi internazionale non aspetta la politica italiana».
Non teme che i vostri elettori non digeriscano una scelta così?
«Sono scelte difficile da spiegare. Sappiamo anche che gli elettorati non sempre si sommano. In questo momento tuttavia si stanno confondendo: poiché Fini è ritenuto essenziale per la spallata a Berlusconi, nei sondaggi il leader di Fli sta raccogliendo consensi anche nel centrosinistra. Ritengo però che gli elettori capiranno, se l´alleanza sarà del tutto transitoria, e nel nome della Costituzione».
Di Pietro non ci sta e anche il Pd è diviso.
«Se la prendano loro la responsabilità, in una situazione di emergenza democratica, di consegnare il paese al caos».
Non c´è più differenza tra sinistra e destra?
«Sì che c´è. Comincia a profilarsi una sana differenza, dentro una condivisione di alcuni principi fondamentali come il rispetto delle regole costituzionali, la legalità, il no al conflitto d´interessi».






Corriere della Sera 15.11.10
Da Milano «schiaffo» al Pd A sorpresa Pisapia batte Boeri
di Elisabetta Soglio


MILANO — È un terremoto e la Puglia, al confronto, è nulla. Alle primarie del centrosinistra l’avvocato Giuliano Pisapia batte l’architetto Stefano Boeri, dandogli 5 punti di distacco, e sbaraglia il Pd che lo ha sostenuto a tutti i livelli. Forte del suo impegno civico e della sua passione, Pisapia ha rovesciato i pronostici: «È la vittoria della democrazia delle primarie», ha commentato a caldo ieri sera. Poi, le lacrime e il ringraziamento ai suoi competitor (oltre a Boeri, primo a chiamare per congratularsi, il professor Valerio Onida e l’ambientalista Michele Sacerdoti) «con i quali c’è stato un leale confronto e con cui insieme dobbiamo battere la Moratti», e ai partiti che lo hanno sostenuto (Sel e Federazione della Sinistra), ma anche «al Pd che continua a essere la componente principale di un centrosinistra rigenerato, in grado di sconfiggere il centrodestra».
Giuliano Pisapia era stato il primo a scendere in campo per le primarie. «Bisogna spenders i per cercare di rendere i l mondo migliore e farlo in tutti i modi in cui si può», aveva scritto sul suo sito poche ore prima del voto. Un messaggio raccolto soprattutto ascoltando Francesco, il figlio della compagna Cinzia e i sette nipoti: la squadra di ragazzi tra i 12 e i 30 anni che più di tutto e di tutti è stata decisiva sulla scelta finale.
In fondo, Pisapia aveva già sperimentato la fatica e il sacrificio che spesso ti chiede la politica: eletto deputato indipendente per Prc nel ’96, il penalista ha presieduto la commissione Giustizia ed è stato rieletto nel 2001. Poteva bastare. Invece no: e così in giugno, mentre già impazzava il toto-candidati, l’avvocato per bene, con i modi gentili, ha rotto gli indugi: «Ci sono». Lo ha fatto per amore della città, spinto da tanti milanesi «stanchi di vedere Milano andare a pezzi». Una corsa continua, che lo ha sfinito anche fisicamente, ma che ha coinvolto sempre più persone.
Partito svantaggiato rispetto a Boeri, Pisapia ha capito che poteva farcela quando ha cominciato a raccogliere messaggi di incoraggiamento di persone che da tempo avevano smesso di votare e che invece hanno accarezzato il sogno di sconfiggere il centrodestra nella terra di Berlusconi e Bossi. Poi c’è stata la sera magica, quella del 6 novembre, quando Nichi Vendola (che ieri notte ha commentato dagli Stati Uniti: «Una lezione di buona politica in un Paese sgomento») è arrivato a Milano a dichiarare stima, affetto e sostegno a Pisapia. Una sera magica, appunto, con migliaia di persone uscite dalla routine del sabato amici-cena-cinema per assieparsi al Teatro dal Verme, dentro tutto pieno all’inverosimile e fuori altre migliaia di uomini e donne, giovani e di mezza età in piedi a condividere e ribadire la voglia di cambiamento.
«Per me la politica è soprattutto servizio», ha ripetuto fino alla fine facendo tesoro degli insegnamenti della madre Margherita, cattolica e attenta ai più deboli, e del padre Giandomenico, avvocato e sostenitore del tema dei diritti. Per questo ha voluto tenere lontane le polemiche e bassi i toni, anche quando le primarie hanno avuto momenti di asprezza e tensione, anche quando alcuni dei suoi collaboratori avrebbero voluto contestare duramente l’invasione di campo del Pd, che ha mobilitato tutti, dal segretario nazionale Pierluigi Bersani alla maggioranza degli eletti nelle istituzioni, per garantire sostegno a Boeri.
Pisapia, che ha precisato di essere «uomo di sinistra ma non comunista», potrebbe però faticare a raccogliere consensi moderati. Per questo, l’esito delle primarie apre le porte alla possibilità di una candidatura di centro. E il nome gettonato è sempre quello: Gabriele Albertini, che da oggi riprende incontri tra Milano e Roma.

Corriere della sera 15.11.10
Torna l’effetto Vendola
Le difficoltà dell’area riformista
di Michele Salvati


Ora ci si attende che l'area politica entro la quale le primarie si sono svolte (senza quell’affluenza di votanti immaginata alla vigilia) lo sostenga non solo lealmente, ma con impegno. Così come l'area politica che fa riferimento al Partito Democratico Usa ha sostenuto Barack Obama dopo che si era divisa tra lui e Hillary Clinton nelle primarie presidenziali del 2008. Ma sono veramente confrontabili le primarie americane con quelle che si svolgono in Italia? In particolare con le primarie di coalizione, come questa di Milano o quella che ha portato al successo Nichi Vendola in occasione delle elezioni regionali in Puglia? E se confrontabili non sono, ha fatto bene il maggior partito del centro-sinistra a organizzare le primarie che ho menzionato (e altre simili) e ad appoggiare in maniera esplicita un candidato che poi è stato sconfitto?
Circa il primo interrogativo la risposta è ovviamente no, non sono confrontabili. Le primarie americane sono primarie di un singolo partito, in un contesto in cui i partiti sono due, e sono regolate dalle leggi dei singoli Stati della Federazione. I due partiti non sono poi paragonabili a quelli europei: non sono organizzati in modo permanente sul territorio mediante personale stabile, non hanno una struttura di associazione ed organi statutari sempre attivi (assemblee, comitati direttivi locali e centrali, e segretari, a livello territoriale e nazionale). E neppure hanno una linea politico-ideologica definita, come l'hanno invece i partiti europei. Sono istituzioni contendibili da parte della società civile e la loro linea politica - se più di "sinistra" o più di "destra", se più radicale o più moderata - è definita da chi vince le primarie. Insomma, in una primaria americana i partiti, in quanto contenitori vuoti, non "appoggiano", né possono appoggiare, un candidato, come in questo caso ha fatto il Pd per Boeri o Sinistra e Libertà per Pisapia: per ognuna delle due grandi aree politico-ideologiche in cui si divide la politica americana c'è un unico partito, le candidature emergono dalla società civile, le primarie le vince chi ha più soldi per una campagna efficace e/o indovina meglio gli umori dell' intera area, e chi le vince rappresenta poi il partito nella prova elettorale contro il partito avverso.
Ha fatto bene il Pd, come partito maggioritario dell'area di centrosinistra, a spendersi per primarie di coalizione e ad appoggiare un candidato? Il vantaggio delle primarie sulla tradizionale alternativa (negoziazione di vertice con le altre forze politiche e scelta di un candidato comune) è indubbio se i candidati sono espressione di una coalizione ampia, se tutti accettano il risultato e se il candidato vincente è vicino alla linea politica del partito: le primarie sono una procedura più democratica, più mobilitante e più efficace da un punto di vista mediatico. Comprensibilmente i partiti più piccoli, di solito, non le accettano: perché legarsi le mani in una gara nella quale prevarrà il candidato sostenuto da un partito che dispone di un maggior consenso elettorale e maggiori capacità organizzative? Un partito più piccolo, una corrente politica minoritaria, si impegneranno soltanto se intuiscono che il candidato da loro favorito, per i suoi caratteri personali, o per la debolezza dei candidati di diverso orientamento politico, o per la frammentazione delle candidature, ha serie possibilità di prevalere. Ed è questo che è avvenuto sia in Puglia, sia a Milano. In Puglia per la debolezza del candidato sul quale il Pd aveva puntato le sue carte e per il grande fascino di Nichi Vendola. A Milano per la frammentazione del campo riformistico, per la presenza di candidati realmente espressi dalla società civile, contro la tutela e la regia del Pd. Per restare a Milano, l'effetto finale è che l'area riformistica di questa città sarà rappresentata da un candidato cui sarà possibile rimproverare - ingiustamente oggi, ma efficacemente se si tiene conto della sua storia - di collocarsi su posizioni estreme. O almeno, questa è la convinzione che circola in ambienti pd.
Il Pd non ha fatto male a sostenere un candidato: questo è il ruolo che la Costituzione e la tradizione politica europea gli assegnano. Come in Puglia, così a Milano, non è però stato in grado di convincere l'area riformista, di cui è il principale esponente politico, delle ragioni che lo inducevano ad avversare la candidatura di Pisapia e a scoraggiare la frammentazione delle candidature. Ha manifestato incertezze e ritardi, insieme ad una evidente carenza di egemonia culturale, si sarebbe detto una volta. Insomma, ha subito una secca sconfitta politica.


Repubblica 15.11.10
Il governo americano ha protetto per anni i vertici delle SS La verità in un documento del Dipartimento di giustizia
Così la Cia ha coperto i criminali nazisti
di Angelo Aquaro


Uno scienziato tedesco fu insignito dalla Nasa. In realtà aveva guidato la fabbrica di munizioni di Mittelwerk
Il ruolo di Otto Von Bolschwing, braccio destro di Adolf Eichmann nella caccia agli ebrei e sul libro paga dei Servizi

NEW YORK. Lo scalpo del dottor Mengele nel cassetto del Dipartimento di Giustizia sembra il particolare di un film di Tarantino: e invece è la prova di uno scandalo tenuto nascosto per anni. Il governo degli Stati Uniti ha taciuto la verità nella caccia ai nazisti. Non solo ha fatto niente o poco per assicurarsi la cattura dell´Angelo della Morte di Auschwitz. Addirittura ha coperto per decenni i criminali di Hitler offrendo sicuro riparo da questa parte dell´Atlantico. Di più. Tributando ad alcuni tutti gli onori del caso: come dimostra la vicenda di uno scienziato tedesco che contribuì alla conquista dello spazio e fu insignito dalla Nasa con la più alta delle sue onorificenze.
La storia segreta e parallela della vera caccia ai nazisti è stata scoperta e denunciata in un rapporto dello stesso Dipartimento di Giustizia che però è rimasto incompleto e - anche questo - nascosto per quattro anni. Il principale imputato è - per la verità senza grandi sorprese - la Cia. Da sempre si è parlato della connivenza del servizio segreto americano con i vecchi nazisti che in molti casi furono utilizzati durante la Guerra Fredda. Ma un conto è la ricostruzione romanzata di tanti gialli e film. Un altro mettere per iscritto «la collaborazione del governo con i persecutori» nazisti come fa il rapporto della commissione.
Il documento nasce da un´idea di Richard Clarke. L´avvocato del Dipartimento persuase nel 1999 l´allora ministro della giustizia di Bill Clinton, Janet Reno, a indagare sull´attività dell´Office of Special Investigations, che era stato creato vent´anni prima sotto la spinta di Simon Wiesenthal per dare la caccia ai nazisti. Ma l´avvocato è morto senza vedere realizzato il suo sogno di pubblicare le carte. Solo sotto la minaccia di una causa, intentata dai suoi amici, nel nome di quel Freedom of Information Act che prevede negli Usa la pubblicazione dei documenti segreti, il mega-rapporto è stato finalmente svelato. Barack Obama ha scelto di delegare al Dipartimento la divulgazione dei documenti dopo la promessa di trasparenza fatta in campagna elettorale. Soltanto il New York Times è riuscito però ad avere una copia completa del documento: senza gli omissis che coprivano comunque le informazioni più scandalose. E compromettenti: come la "prova" raccolta e tenuta nascosta dagli americani che davvero la Svizzera si era impossessata dell´oro sporco dei nazisti.
Gli investigatori dell´Office of Special Investigation, svela ora il documento, scoprirono anche che a tanti nazisti «era stato garantito l´ingresso» negli Stati Uniti. «L´America che orgogliosamente si dipingeva come un porto sicuro per i perseguitati divenne, in misura minore, anche un porto sicuro per i persecutori».
Un porto trafficatissimo. Tra i primi a imbarcarsi c´è quell´Arthur L. Rudolph che nella sua Germania aveva comandato la fabbrica di munizioni di Mittelwerk. Rudolph viene spedito nel 1945 negli Usa grazie all´Operazione Paperclip che recluta gli scienziati nazisti che sarebbero potuti essere utili all´America. Peccato che Rudolph non fosse un pesce piccolo come in un primo tempo avevano creduto gli yankee: i rapporti parlano di crudeltà nella gestione di quella fabbrica di munizioni che impiegava gli schiavi ebrei di Hitler. Un particolare che non impedì allo scienziato di sviluppare quel razzo Saturno V che divenne una delle armi della conquista spaziale: un traguardo per cui fu onorato dalla Nasa.
Ancora più imbarazzante il ruolo di Otto Von Bolschwing. Questo signore a libro paga della Cia era stato il braccio destro di Adolf Eichmann nella pianificazione della caccia agli ebrei. C´è un memo degli 007 che negli anni 70 lanciano l´allarme: che facciamo se salta fuori il suo passato? Il signorino muore nel 1981 quando, a 72 anni, gli americani stanno segretamente cercando di deportarlo.
Più avventurosa e angosciante la vera storia del dottor Josef Mengele. Per anni si è favoleggiato del suo ingresso negli Usa (ricordate "I ragazzi venuti dal Brasile"?) ma solo dopo un´analisi del suo Dna gli americani poterono accertare che era davvero morto nel 1979 in Sudamerica. Nel cassetto di un funzionario rimase nascosta una ciocca di capelli che doveva servire per accertare se fosse ancora vivo o morto. E pensare che Quentin Tarantino era stato accusato di aver esagerato immaginando nel suo "Inglourious Basterds" quei cacciatori di nazisti che raccoglievano i loro scalpi.

Corriere della sera 15.11.10
Quei nemici invisibili Che uccidono per niente
di Vittorino Andreoli


Siamo circondati da nemici e sono pronti a ucciderci, per un nonnulla, per una banalità. E appena si sente uno sparo o un urlo di dolore tutti scappano senza chiedersi se qualcuno abbia bisogno di aiuto perché sta morendo. La morte dell’altro non ci riguarda, e ammazzare non attira l’attenzione a meno che l’omicida non sia Michele Misseri o la figlia Sabrina personaggi di una «telenovela» che si guarda come spettacolo dal salotto.
È finita la voglia di comprensione e non si attiva più l’aiuto: i due grandi ingredienti di una moralità sociale, del mutuo soccorso e del rispetto dell’altro. La fine di due principi, capisaldi di una civiltà. E così ci troviamo dentro una guerra combattuta nelle città in cui si muore per aver preso sotto un cane che passeggiava e per aver toccato con la propria lo specchietto retrovisore di un’altra auto. Schegge di violenza che possono colpire chiunque, vittima così di un nessuno e della banalità. Una violenza pulsionale, come se l’uomo avesse perso i freni inibitori.
È in corso una metamorfosi antropologica e si profila un uomo pulsionale, istintivo e selvaggio, senza più il senso di colpa, senza il rimorso, senza sapere cosa sia la vita e la morte, senza etica se non la spinta al proprio profitto e alla difesa del proprio piccolo mondo fatti di stupidità, di oggetti e non di senso, di forza e non di valore umano e di amore. In questa degenerazione della specie, l’uomo funziona più o meno così: vorrebbe essere potente e avere successo, ma i livelli raggiunti, non importa quali, sono poco rispetto al desiderato e allora predominano le frustrazioni. La frustrazione è una sensazione di mal d’essere che si prova nel mondo, nella esistenza ordinaria: sul lavoro, quando c’è, e a casa. E la frustrazione è un debito di violenza. Si accumula e ad un certo momento si libera, diventa azione, nei confronti del minimo fastidio e della causa più insensata. Serve solo un oggetto su cui esprimersi: un figlio, o la moglie, un passante, chiunque permetta di compensare il senso di insoddisfazione e mostrarsi decisi, forti. E uccidere è un gesto titanico: solo agli dei si attribuiva il potere di vita e di morte. Adesso non serve essere dio, ma basta avere uno specchietto retrovisore ferito. E si tratta di persone che mutano repentinamente, come in una metamorfosi agita da un demone con una bacchetta del male. C’è in ciascuno di noi un serbatoio di frustrazione che può fare una strage e manca la percezione del male, poic hé è stato coperto di spettacolo. Il male come fascino, come avventura, come trasgressione i n una società in cui i ladri si chiamano furbi, le prostitute escort dove vince la raccomandazione e non il merito, dove la falsità è occasione non di riprovazione, ma di strategia esistenziale. Una società dove il denaro diventa la misura dell’uomo e del suo potere.
La psichiatria, che era la disciplina che si occupava di comportamenti sani e malati e che si proponeva di curare chi si comportava in maniera pericolosa, è confusa e non sa più delineare nulla poiché il tutto va legato alle circostanze e così l’uomo è anche buono oltre che cattivo e sano oltre che folle. Quel tale che ha sparato per lo specchietto fratturato (un danno di qualche decina di euro) è una guardia giurata, uno che «dona» la propria vita per la sicurezza. Del resto nelle processioni per i patroni delle città del Sud, il primo posto davanti al Santissimo a volte è occupato dai mafiosi. Forse nemmeno i santi e i beati sono più esempi di vita. Hanno alleanze pericolose.

Corriere della Sera 15.11.10
«Un sindaco per Pompei Così salveremo quel tesoro»
di Andrea Carandini


Il presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali affronta il caso a «Florens 2010»
Una mappa casa per casa per monitorare il sito
Goethe Pompei attesta l’anelito culturale di tutto un popolo quale oggi neppure gli intellettuali più evoluti saprebbero comprendere
Chateaubriand Si imparerebbe meglio la storia della civiltà romana in poche gite a Pompei restaurata che con la lettura di tutte le opere antiche
Da pagina 1 In primo luogo a Pompei: la civiltà greca nulla ha di simile. Pompei fu scoperta nel 1748 e da allora i suoi scavi accompagnano la nostra vita, per cui alla storia antica della città — dal VI secolo a.C. fino al 79 d.C. — si aggiungono i 262 anni del nostro tempo. Finché fu protetta dai lapilli, Pompei era salva. Gli scavi l’hanno restituita crollata ma ricostruibile nei piani alti e ai piani terreni intatta. Quale messe per lo studio dei moeurs! Il disvelamento di questa antichità palpitante, diversa da quella sontuosa ma più rovinata di Roma, ha reso gli scavatori voraci, al punto da divorare con pala e piccone novantotto isolati. Divorare scavando presupporrebbe la digestione scientifica della materia ingurgitata, che purtroppo non è avvenuta, e poi naturalmente la tutela, anch’essa difettosa. Numerosi sono stati gli studi, che tuttavia non hanno rappresentato Pompei nel suo insieme.

Rimangono da scavare parti notevoli di alcune delle nove regioni in cui è stata suddivisa la città, che continuano per fortuna a covare la loro realtà incorrotta, ma grande parte di quanto è stato portato alla luce è rimasta senza tetto, per cui pioggia e sole consumano ogni giorno le rovine, come avviene a L’Aquila terremotata.
La responsabilità che ha l’Italia riguardo a Pompei è colossale, perché si tratta di una realtà unica, culturalmente necessaria per il globo: oggi sono soprattutto stranieri e asiatici a visitarla. Ma il Paese non è stato all’altezza e la città antica vive in una emergenza perpetua, che ha giustificato l’intervento di un Commissario. Va aggiunto che si tratta di uno dei casi più complessi di tutela e di gestione che si possa immaginare. È possibile voltar pagina?
Voltar pagina significa mettere al centro e risolvere in tempi brevi la questione conoscitiva. Senza conoscere Pompei, senza minuziosamente rilevarla anche negli elevati e scrutinarla scientificamente in maniera integrata e sistematica, ci si limiterà a imitare il passato. Solo un’analisi, casa per casa, può restituire il valore culturale di Pompei e dirci, al tempo stesso, quale muro è pericolante, quale affresco sta per cadere. Conoscendo questi dettagli e gerarchizzando gli interventi, è possibile varare finalmente una «manutenzione programmata», regione per regione, isolato per isolato, numero civico per numero civico, attuata da una squadra fissa da ultimo immaginata e da istituire: l’«Opera di Pompei»; e diventa anche possibile selezionare secondo ragione i restauri e le valorizzazioni da affrontare. Pompei non è solo degli studiosi, è dei visitatori! I dieci anni trascorsi, lavori del commissario compresi, servano per progettare cosa fare, fin da oggi, nei prossimi cinque-dieci anni. Poi sarà tardi.
Un «sistema informativo territoriale» è stato creato dalla Soprintendenza, ma è inadeguato nei rilievi, è rimasto inutilizzato e da alcuni anni non viene aggiornato. Tutte le conoscenze e ogni intervento devono essere memorizzati in questo cervello, che va dotato di personale e di mezzi adeguati — i soldi a Pompei non mancano —, cervello che va posto al centro della tutela, della gestione e del cuore dei funzionari, perché solo lì si custodisce l’interesse generale immateriale della città.
Pompei, oltre a tradursi lentamente in polvere e in alcuni punti a collassare, si trova in zona sismica: pochi anni prima dell’eruzione fu colpita gravemente da un terremoto e infine vi è stato quello del 1980. E se tornasse un cataclisma? Nelle condizioni attuali sarebbe la fine del sito, perché mancano gli studi e le documentazioni che potrebbero surrogare le perdite. La città infatti è in grande parte inedita, anche perché le pitture sono state studiate a parte, non come apparato decorativo fissato alle murature. Serve pertanto una campagna impegnativa, proceduralmente ordinata e sistematica di documentazione e di studio delle costruzioni, finanziata annualmente, onde ricavare, grazie ai rapporti stratigrafici tra le strutture, la storia di ciascun isolato, e rilevare perfettamente le unità costruttive, riattribuendo alle singole stanze gli oggetti mobili rinvenuti. Le parti conservate vanno riunite a quelle mentalmente da ricostruire, in una ricomposizione fra architetture, decorazioni e rinvenimenti. Bisognerebbe che dieci équipe nazionali e internazionali «digerissero» almeno dieci isolati l’anno. Avremmo allora una reduplicazione scientifica informatizzata che, comunicata puntualmente sul web, consentirebbe al mondo di entrare in tutte le case, le botteghe e gli edifici pubblici, come mai sarà possibile fare sul sito. Questa è anche la migliore assicurazione contro l’usura del tempo e il rischio sismico. Pompei sarebbe salva e per sempre, almeno dal punto di vista conoscitivo, narrativo e comunicativo. Ogni fondo dello stato destinato all’archeologia dell’area vesuviana deve essere speso per risolvere i suddetti problemi, non per ampliarli.
Si tratta anche di immaginare per Pompei forme organizzative adatte alle necessità dell’archeologia attuale e del nuovo pubblico, in cui gli archeologi collaborino con un manager cui va affidata la gestione: anche Pompei ha bisogno di un sindaco. Bisogna insomma fare squadra tra competenze diverse, al di sopra degli interessi corporativi, per il bene generale di questo dono del fato dovuto a una tragedia. La tutela deve restare nelle mani dei Soprintendenti.

Corriere della Sera 15.11.10
Perché Palmiro Togliatti fu traduttore di Voltaire
risponde Sergio Romano


Il primo volume della serie «I classici del pensiero libero» — il Trattato sulla
tolleranza di Voltaire — è apparso con una sua prefazione. Posseggo una precedente edizione dell’opera, pubblicata da Editori Riuniti nel 1949 con la prefazione, nientemeno, di Palmiro Togliatti. Conosciamo l’abilità del «Migliore» nel vendere al suo ipnotizzato pubblico le verità apodittiche della «Via al socialismo». Credo tuttavia che meriti un commento la sua tesi secondo cui «tra il razionalismo illuministico e il marxismo la differenza è senza dubbio grande», essendo «la nostra dottrina del tutto nuova».
Gianni Celletti, Ravenna

Caro Celletti,
Togliatti non si limitò a scrivere una prefazione al Trattato. Ne fu anche il traduttore. Eravamo, come lei ricorda, nel 1949, vale a dire in una fase in cui gli scontri della guerra fredda erano particolarmente aspri. Il Pci era stato estromesso dal governo De Gasperi nel 1947. Un anno dopo, nel 1948, i comunisti si erano impadroniti del potere a Praga con un colpo di Stato. E nei mesi in cui Togliatti traduceva Voltaire, l’Italia firmava a Washington il Patto Atlantico. Ma non erano quelle le ragioni per cui il segretario del Pci decise di dedicarsi alla traduzione del più famoso libello politico di Voltaire. Nella sua prefazione spiegò ai lettori che il Trattato sulla
tolleranza era un lucido atto d’accusa contro il fanatismo religioso, l’arroganza della Chiesa, lo strapotere del clero. Può sembrare, continuava Togliatti, una battaglia del passato, ormai vinta. Ma è resa nuovamente attuale da «recenti episodi» e dal «risorgere di una baldanza clericale al servizio di una estrema resistenza e reazione capitalista». Devo aggiungere che Togliatti aveva una parte di ragione. La Chiesa non era al servizio del capitalismo, ma sembrava decisa a governare i costumi italiani con un pugno di ferro e a servirsi della Democrazia cristiana perché l’Italia assomigliasse alla Spagna di Franco e al Portogallo di Salazar più che ai Paesi del continente con cui avrebbe tentato di lì a poco la strada dell’integrazione europea.
Dopo avere difeso Voltaire e l’utilità del trattato nella situazione italiana di allora, Togliatti dovette tuttavia sfumare il suo pensiero. I philosophes francesi erano gli eredi del razionalismo europeo e avevano il grande merito di avere spinto più in là le frontiere della ragione. Erano quindi dei precursori a cui era giusto rendere omaggio. Ma «la nostra dottrina è del tutto nuova, perché trova nella realtà stessa e nel suo sviluppo la ragione e la molla del rinnovamento del mondo». Tra l’Illuminismo e il materialismo dialettico vi era quindi un salto di qualità, un cambiamento di passo. La «nuova storia», salutata da Goethe sul campo di battaglia di Valmy, non cominciava dalla presa della Bastiglia, ma dal grande manifesto che Marx e Engels avevano scritto nel 1848. L’esperienza razionalista restava tuttavia fondamentale. Chi la ignora, concludeva Togliatti, finisce «per mettere capo ancora una volta al passato o aprire la strada alla sua resurrezione». Scrivendo queste parole Togliatti non si rese conto che potevano essere utilizzate per l’Unione Sovietica. Nella sua prefazione vi è a questo proposito un passaggio in cui descrive il processo intentato contro Jean Calas (il protestante di Tolosa falsamente accusato di avere ucciso un figlio), «uno di quei processi che disonorano i giudici e la giustizia, e ancora oggi e troppo di frequente offendono gli animi onesti». Capì che queste parole si adattavano perfettamente ai grandi processi staliniani degli anni Trenta?

domenica 14 novembre 2010

l’Unità 14.11.10
Il Pd: «Vigilanza democratica sui colpi di coda del Caimano»
Finocchiaro: «L’allarme deve essere alto, Berlusconi non conosce limiti»
Franceschini: «I sistemi autoritari sono più pericolosi quando arriva la fine»
di Andrea Carugati


Dal Colle nuovo richiamo alle priorità: fare la finanziaria, e poi toccherà alle mozioni e alla crisi
Ma preoccupa l’agitarsi del premier: «La sua lettera alle Camere è un tentativo disperato»

«Vigilanza democratica», scandiscono in coro Dario Franceschini e Anna Finocchiaro. «Anche se queste parole non si dovrebbero pronunciare in una grande democrazia occidentale», spiega la capogruppo Pd al Senato. Però il momento è grave. «Il livello di allarme deve essere alto, Berlusconi ci ha abituati a qualsiasi stravolgimento delle regole e ad una spregiudicatezza senza limiti». Franceschini è sulla stessa linea: «Tutti i sistemi con qualche venatura autoritaria diventano più pericolosi quando si avviano alla fine».
Passano poche ore e i timori, già alimentati nei giorni scorsi dalle parole del premier da Seul sulla «guerra civile» da scatenare contro un eventuale ribaltone, trovano un’ulteriore conferma, quando Berlusconi annuncia la sua personale road map parlamentare: una lettera ai presidenti delle Camere per forzare le tappe della crisi, e ottenere la fiducia dal Senato prima della sfiducia a Montecitorio.
Un modo chiaro per mettere il Colle davanti al fatto compiuto, e «provare a forzare la mano per il voto anticipato, impedendo la nascita di un governo diverso dal suo», come spiega Maurizio Migliavacca. «Solo chi è nemico dell’Italia può pensare al voto anticipato in questa situazione economica», denuncia Veltroni. E Franceschini: «La lettera del premier è un tentativo disperato e tardivo di evitare la mozione di sfiducia alla Camera, e una grave scorrettezza istituzionale. Non si è mai visto che il presidente del Consiglio, di fronte a una mozione di sfiducia formalmente depositata in una Camera, possa decidere di andare a chiedere la fiducia in un’altra».
IL TIMING DEL QUIRINALE
Un percorso a ostacoli, dunque. Un tramonto berlusconiano che rischia di essere pieno di colpi di coda, persino di macerie. L’unico punto fermo sembrano i tempi. Ieri la moral suasion del Colle ha convinto tutti i protagonisti dello scontro, da Berlusconi e Bersani, a rinviare le ostilità, e la guerra delle mozioni, a dopo la Finanziaria. Nel tardo pomeriggio è arrivata una nota ufficiosa del Quirinale, che plaude alla convergenza delle forze politiche «sulla necessità di dare la precedenza alla necessaria approvazione della legge di stabilità e del bilancio in entrambi i rami del parlamento, per affrontare subito dopo la crisi politica». Esattamente come avvenne nel 1994, fanno notare dal Colle, quando il primo governo Berlusconi entrò in crisi solo dopo l’approvazione della manovra.
Con un timing deciso d’intesa dal Capo dello Stato e dai presidenti delle Camere. L’intervento del Quirinale toglie di scena un rischio: e cioè che Berlusconi ottenesse un voto di fiducia al Senato già nei prossimi giorni, mentre la Camera sarà impegnata sulla Finanziaria. Ora l’orologio della crisi si sposta in avanti, almeno a metà dicembre.
LA “VIGILANZA” DEL PD
Un percorso lungo. E i rischi sui colpi di coda del Caimano restano tutti. L’adunata di piazza, annunciata giovedì dal premier, non spaventa più di tanto il Pd. Ma la mossa della fiducia in Senato sì. «Mi appello alla terzietà istituzionale del presidente del Senato», dice la Finocchiaro. «Quella mozione è un atto ultimo di disperazione, tutto sta crollando e loro vogliono ancora ballare il valzer sul ponte della nave, mostrando un disinteresse intollerabile per il Paese». «Non mi illudo», confida la capogruppo Pd. «Per un uomo così spregiudicato e disperato, temo che neppure l’autorevolezza del Quirinale possa rappresentare davvero un limite». «Non si comporterà come un leader che ha a cuore il suo Paese, userà tutti gli arsenali di fuoco di cui dispone», avverte Pierluigi Castagnetti. Per questo i democratici vogliono «fare in fretta». Il Pd è pronto a utilizzare i gazebo già previsti da ieri e per tutti i weekend di novembre per impugnare la Costituzione. «Difenderemo le sue regole e i suoi equilibri in centinaia di piazze», dice la Finocchiaro. Fino alla manifestazione di San Giovanni l’11 dicembre. «C’è il rischio di un finale “alla Caimano”, Berlusconi è disposto a tutto per di non mollare la preda», rincara Rosy Bindi. «Per lui non finisce solo un governo, ma un’intera stagione politica e sappiamo bene quali sono i suoi timori una volta uscito da palazzo Chigi. Confido sul senso di responsabilità di tutte le altre forze politiche, e spero che anche la Lega prenderà le distanze». I rischi non mancano. «Ma non possiamo rinunciare a muoverci per paura che lui scateni il caos», chiude la Bindi. «È un rischio che dobbiamo correre».

l’Unità 14.11.10
La manifestazione sarà in piazza San Giovanni  Roma
L’11 dicembre l’appuntamento con la piazza


Il “porta a porta” iniziato ieri proseguirà i fine settimana del 20 e 27 novembre: 10mila gazebo e 7.000 circoli mobilitati. In vista di questa mobilitazione sono state spedite un milione de mezzo di lettere agli iscritti ed elettori del Partito e sono state stampate sette milioni e mezzo di brochure.
Il “porta a porta” democratico preparerà il campo alla manifestazione nazionale indetta dal segretario Bersani a Roma il prossimo 11 dicembre che si terrà a Piazza San Giovanni. «È un'Italia che ha voglia di partecipare e di tornare protagonista, quella che abbiamo incontrato in questi giorni di preparazione del nostro porta a porta«ed è questa l'Italia che sarà in piazza l'11 dicembre. La scelta di Piazza San Giovanni è stata quindi rafforzata dalla percezione di un clima, di una consapevolezza e di una voglia di partecipazione che il Pd intende rappresentare» ha detto Nico Stumpo, responsabile organizzazione Pd. Lo sforzo organizzativo sarà tutto sulle spalle del Pd, visto che la Cgil ha già fatto sapere che darà fondo a ogni risorsa per dar vita a una manifestazione imponente, il 27 novembre.

l’Unità 14.11.10
Pierluigi Bersani
L’alternativa: «Non si fa senza il Pd. Senza di noi ci si tiene Berlusconi
«Niente melina, sfiducia dopo la legge di stabilità»
di Simone Collini


«Quello che andremo a dire noi al Quirinale si sa». Pier Luigi Bersani sembra dare per scontato che entro breve si apriranno le consultazioni al Colle (e di fronte a Giorgio Napolitano il segretario del Pd sosterrà la necessità di dar vita a un governo di transizione che in un anno circa approvi una nuova legge elettorale, una riforma fiscale e una serie di
misure per l’occupazione giovanile). Ma dà altrettanto per scontato che ora Berlusconi tenterà «colpi di coda» di ogni tipo, anche piegando le regole istituzionali a suo uso e consumo, «dando pericolosi scossoni ai pilastri costituzionali».
COMBATTIMENTO E NIENTE MELINA
Ecco perché incontrando militanti e simpatizzanti del Pd in un quartiere popolare romano, affiancato dal presidente della Provincia Nicola Zingaretti, avverte: «Ci aspettano settimane di combattimento». Quante? Per Bersani non dovranno essere più di due, massimo tre, perché da questa «palude» bisogna uscire in fretta. «Noi abbiamo presentato la mozione di sfiducia. Ora qualcuno ci dice: “Volete far saltare in aria la Finanzia-
ria?”. No, no... Siamo dispostissimi a far votare la sfiducia in Parlamento dopo l’approvazione della legge di stabilità. A condizione, però, che la destra non faccia melina sulla legge di stabilità».
Al leader del Pd non piace né il «balletto» dell’idea di sciogliere solo una delle due Camere né il tentativo di Berlusconi di far passare la crisi prima per il Senato e poi per la Camera. «Berlusconi deve andare a casa perché è un tappo micidiale per il Paese.
Di case ne ha... scelga lui. Magari la più lontana». Se ci scherza anche su è perché forse qualche segnale in più di ottimismo Bersani inizia a vederlo: «Siamo arrivati a un punto in cui è veramente possibile che Berlusconi vada a casa», dice. «E non pensino d’inventarsi un’uscita dalla crisi interna al centrodestra dice facendo riferimento all’ipotesi di un esecutivo guidato da Tremonti, Alfano o altri esponenti vicini al premier la crisi è di Berlusconi e del centrodestra, la soluzione non può venir da lì».
IL PORTA A PORTA
L’obiettivo del Pd rimane il governo di transizione, ma il clima sa già tanto di campagna elettorale. «Dobbiamo rimettere la politica nelle mani dei cittadini», dice Bersani inaugurando un porta a porta nel vero senso della parola, nel senso che dopo un breve comizio nel cortile di un condominio a Pietralata si infila in un portone e suona campanelli, entra in un paio di case a parlare di lavoro, tasse, scuola dei figli, accettando bicchieri d’acqua e caffè, firma autografi ai bambini che lo bloccano nell’androne («aho mi’ madre la stima troppo»), risponde con un sorriso alle signore che si offrono di cucinare «du’ spaghetti» o che gli dicono che «è più bello che in tv», stringe mani a vecchietti che qui sono la minoranza ma tanto poi passa al centro anziani “1 ̊ maggio” e balla “Romagna mia” con l’ottantacinquenne Annarella, poi va a fare un brindisi al circolo del Pd “14 ottobre” («qui prima c’era una chiesa», gli spiega un dirigente con orgoglio) che è la data delle primarie che incoronarono Walter Veltroni segretario e sancirono la nascita del Pd, un nome scelto dopo un referendum tra gli iscritti ma poi non c’è stata troppa discussione sul fatto che sui muri dovesse rimanere la foto di Antonio Gramsci e una riproduzione del “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo.
A SAN GIOVANNI
Un pomeriggio a stringere mani e distribuire volantini con le proposte programmatiche del Pd sui temi del lavoro, la scuola, il fisco, l’immigrazione, l’ambiente. E che si ripeterà
nei prossimi fine settimana del mese, per creare il massimo della mobilitazione e poi arrivare alla manifestazione nazionale dell’11 dicembre. Dice Bersani: «Avevamo pensato ad altre soluzioni, ma il clima che si respira in tutta Italia ci ha convinto a prendere questa decisione: andremo a San Giovanni». Una scelta che effettivamente non era scontata, visto che la Cgil ha fatto sapere che spenderà tutte le proprie energie e risorse per la sua manifestazione del 27 novembre e visto che all’appello per farne un’iniziativa unitaria di Sinistra e libertà, Verdi e Federazione della sinistra, Bersani ha risposto che «sarà aperta a tutti, ma si farà sulla piattaforma del Pd» (cosa che non è andata giù a Nichi Vendola e soci).
SENZA PD RIMANE BERLUSCONI
Bersani in questa fase vuole infatti giocare anche la carta dell’orgoglio. «Deve essere chiaro a tutti che senza
il Pd l’alternativa non si fa, senza di noi ci si tiene Berlusconi». Un modo per chiedere «rispetto» e per dire al leader dell’Idv Antonio Di Pietro e a tutti quelli che «fanno le pulci» al modo di fare opposizione da parte dei Democratici che «è ora di finirla con le punzecchiature». Anche perché Bersani ci tiene a rivendicare il ruolo svolto dal suo partito per arrivare a questo punto. «Abbiamo lavorato per allargare le contraddizioni dentro il centrodestra», dice. E a questo punto nel suo entourage non si fa neanche più mistero del fatto che è da maggio che si è avviato un dialogo pressoché costante con Gianfranco Fini.
RAPPORTO COL TERZO POLO
Vuol dire che nel Pd stanno tranquilli sul rapporto che si instaurerà con Udc e Fli? Non proprio. Se nelle ultime ore sono stati cancellati i sospetti di un doppio gioco da parte di Fini e Casini, non è fugato il timore che in caso di voto anticipato il cosiddetto Terzo polo vada da solo. Il che renderebbe molto più complicato vincere alla Camera. Per questo il capogruppo alla Camera Dario Franceschini dice che «il Pd deve confrontarsi con questa forza sui contenuti» e il capodelegazione al Parlamento europeo David Sassoli sottolinea la necessità di «costruire un’alleanza stabile fra il centrosinistra e il Terzo polo per ricostruire il Paese».

l’Unità 14.11.10
Immigrati, Maroni fa la faccia feroce: «Con me non avranno il diritto di voto»
di Max Di Sante


Gli immigrati non avranno il diritto di voto, parola di Roberto Maroni. Parla così il ministro dell’Interno mentre ci sono scontri a Brescia in un corteo in sostegno dei lavoratori sulla gru. Manifestazione a Bologna.

«Gli immigrati possono avere tutti i diritti che vogliono, ma fino a quando sarò io ministro non avranno il diritto di voto». Il tono di Roberto Maroni è stentoreo, il messaggio è chiaro: chiudere sui diritti per i migranti, mostrare loro la faccia feroce (sicuramente con un occhio rivolto alle prossime elezioni). E davanti ai critici, il ministro dell’Interno risponde con stile: «Dire che la politica del governo è basata sui respingimenti è una stronzata. Se poi lo dicono gli antirazzisti di professione non mi fa né caldo né freddo... ».
Il nuovo verbo del ministro si inserisce in un clima particolare: un governo in bilico, una Lega per ora fedele al premier (ma con lo sguardo già rivolto allo scenario successivo), l’ipotesi sempre più probabile di elezioni anticipate. Illustrando gli sfolgoranti successi del governo, ma soprattutto del suo dicastero, il ministro aggiunge: «Il Cie di Lampedusa è vuoto ed è perfetto e pulito, mentre le scuole di Lampedusa cadono a pezzi. Potremmo trasformare il Cie di Lampedusa nella scuola dei bambini. A Lampedusa voglio fare un regalo di Natale. Se il Governo regge». Il ministro parla a Milano, durante un convegno della Lega nord.
Pochi chilometri più in là, a Brescia, i problemi legati all’immigrazione hanno un altro volto. Molto più crudo. Alcuni lavoratori extracomunitari, che contribuiscono al pil italiano ma per lo Stato risultano clandestini, manifestano dal 30 ottobre su una gru chiedendo la regolarizzazione. Una manifestazione in loro sostegno finisce on scontri e violenze. È una bomba carta in via San Faustino a innescare i disordini. Che per fortuna sono lievi e finiscono presto (soltanto tre agenti lievemente contusi). La questura parlerà poi di un gruppo di settanta persone che si trovava dietro il presidio di solidarietà, un gruppo esterno ai manifestanti soliti, pare di capire. Ma è comunque un sintomo da condannare e da non sottovalutare, quello della tensione, un sintomo che ci parla però di un paese diverso da quello descritto dal ministro Maroni: un paese incerto, insicuro, lacerato, confuso.
A Bologna migliaia di immigrati partecipano ad una manifestazione contro il razzismo. Secondo gli organizzatori, sono più di seimila. Chiedono solo più diritti, al grido «Siamo tutti sulla gru». Nel corteo un folto gruppo di lavoratori metalmeccanici della Fiom, molti di colore, con caschi e fischietti. I lavoratori che alzano il pil sono, anche qui, in larga misura extracomunitari. Pochi esponenti politici, tra questi Leonardo Barcelò, ex consigliere comunale di origine cilena: «Oggi vorremmo dire che “Siamo tutti nipoti di Mubarak” dice almeno così il governo potrebbe occuparsi di noi... La cosa buffa è che questo governo sta per cadere per via di
un’immigrata come Ruby e non per una legge sull’immigrazione... ». Arrivato in piazza XX Settembre, il corteo non si scioglie subito in attesa di aggiornamenti sugli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine in corso a Brescia. Poi, poco dopo appreso che la situazione è tornata tranquilla, i manifestanti lasciano la piazza. Senza diritto di voto.

il Fatto 14.11.10
Sotto la gru torna la battaglia per i migranti
di Elisabetta Reguitti


Ore 17.45, piazzale Cesare Battisti: improvvisamente la calma piatta del quindicesimo giorno di protesta viene rotta dal caos. Pochi minuti in cui vola di tutto. Sassi, pietre, bombe carta e lacrimogeni. Prima le provocazioni fatte anche da persone col volto coperto e bastoni in mano. Poi il tentativo di sfondare il cordone delle forze dell’ordine. Cariche diverse, anche da dietro, nel tentativo di contenere. Scene di una manifestazione trasformata in guerriglia urbana. Fermi e feriti. Tutto è accaduto sotto gli occhi di Arun, Jimi, Rachid e Sajad, che dal 30 ottobre rimangono nella cabina della gru del cantiere della metropolitana di Brescia. Ma come se ne viene fuori? Padre Mario Toffari, il “mediatore degli uomini, non certo della politica e tanto meno delle istituzioni”, aveva urlato dal megafono, rimettendo i piedi a terra quella volta in cui era salito anche lui sulla gru; direttore dell’ufficio migranti della diocesi, vivandiere per gli asserragliati, che però da qualche giorno hanno iniziato anche a diffidare del cibo servito dalla stessa Caritas. “Hanno rifiutato quello della polizia, ma adesso lo fanno anche con il nostro. Ma io non mi faccio usare da nessuno”. Ieri durante i disordini lui stava celebrando la messa. Sa che comunque la questione si sta complicando perché le posizioni sembrano irremovibili. Grazie anche alla sua mediazione si era ottenuta la concessione di un presidio di quindici giorni in posizione altamente visibile, un tavolo di trattativa e il permesso per i “gruisti”, che però hanno rifiutato.
ANCHE il religioso ora non sa quali margine di trattativa possano esserci. Sulla rete continuano a rimbalzare i video degli scontri con la polizia, durante lo sgombero di lunedì del presidio di solidarietà. Chiedono a gran voce le dimissioni del vice questore Emanuele Ricifari. Padre Mario allora sbotta: “Nella rete girano i filmati realizzati solo da una parte, mentre i fatti vanno guardati anche da altre angolazioni”. Ieri poi si è saputo che tra i quattro c’è un migrante la cui pratica è in corso. Qualcuno ricorda che un lavoro i manifestanti l’avevano: in nero, irregolare e sottopagato. Due di loro (Rachid e Arun) prima di decidere di arrampicarsi a 35 metri di altezza distribuivano volantini. Magari anche e proprio durante le campagne elettorali, periodi in cui anche i candidati hanno bisogno di braccia forti, uomini che lavorino e non facciano tante storie. Riforniti all’alba da anonimi e scassati furgoncini, questi fantasmi “senza permesso” riempiono i loro zai-
netti dei faccioni sorridenti della politica. La stessa che fa spallucce di fronte a un problema che, caso Brescia a parte, rimane. Perché i clandestini veri, quelli che i business li sanno fare bene, non li becchi per strada. È la stessa Procura della città lombarda a riferire come i peggiori spacciatori e trafficanti di droga di nazionalità straniera riescano ad aggirare la procedura per la regolarizzazione, a volte sposando donne italiane. Così nei faldoni delle inchieste compaiono sempre più cognomi di “casa nostra”. Quelli che vengono incastrati per strada, insomma, molto spesso sono i disperati che hanno la faccia dei quattro migranti appesi al braccio meccanico e che l’introduzione della circolare Manganelli punisce negando loro la possibilità di ottenere il permesso.
DI NUOVO, allora, come se ne esce? Risponde Manlio Vicini (figlio dell’ex ct Azeglio) l’avvocato che assiste i migranti. “Per i ragazzi sulla gru stiamo cercando di trovare una soluzione che li tuteli e che li convinca a scendere”: una sorta di immunità a patto che denuncino quelli per cui i “senza carta” sono vere galline dalle uova d’oro. Parla di “prudente apertura con la Procura”. Rivendica un merito alla protesta dei migranti sulla gru. Quello di aver riportato alla ribalta nazionale un problema effettivo che può essere risolto solo con precise scelte politiche che vadano nella direzione di regolarizzare quelli che già stanno in Italia. E invece Maroni ieri è tornato a ribadire la linea dura del governo (che stride con le posizioni di Fini): “Finché sarò io ministro non potranno mai avere il diritto di voto”.

il Fatto 14.11.10
Il vero tesoro delle scuole cattoliche
Oltre 250 milioni trovati in finanziaria c’è un fiume di denaro che arriva da Comuni e Regioni
di Gianmaria Pica


L e scuole cattoliche sono “scuole pubbliche non statali” ci tiene a precisare il segretario di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, all'indomani dell'aumento dei contributi alle scuole paritarie previsto dalla legge di stabilità. “L'istituto madre Cabrini e le altre scuole cattoliche di Milano ha sottolineato il cardinale sono scuole pubbliche non statali. Sono paritarie, non private come hanno scritto alcuni giornali. Bisogna mettersi in testa la di-
zione corretta”.
Il problema non è tanto nella dicitura “scuola privata-scuola paritaria”, ma nel fatto che vengono tagliati i contributi all'istruzione pubblica a favore di quella paritaria. L'Istat calcola che le scuole private (dati 2008) sono 12.532, numero che rappresenta il 21,8 per cento del totale delle scuole italiane (57.579). E quelle cattoliche, secondo l'istituto di statistica, sono ben 7.116.
IL MINISTRO dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, ieri ha sottolineato che “le scuole paritarie negli anni scorsi avevano subito una riduzione di trasferimenti molto più forte della scuola pubblica e il provvedimento di questa notte (venerdì notte, ndr) ha integrato i fondi per le paritarie”. Dunque, come in fondo riconosce anche Bertone (secondo cui “le scuole cattoliche sono paritarie”), i contributi andranno anche a quelle gestite dalla Chiesa. La legge 62 del 10 marzo 2000 recita che le scuole paritarie “svolgono servizio pubblico”, cioè quello che dovrebbero fare le scuole statali. E dov'è la differenza tra statali e paritarie? Nei soldi. La scuola paritaria, rispetto a quella statale, è a pagamento, cioè può decidere di aumentare quanto vuole la retta d'iscrizione. A questa facoltà si aggiunge anche il contributo pubblico. Ma non è tutto. Per le paritarie ci sono anche i finanziamenti regionali, provinciali e comunali (che spesso raggiungono il loro picco proprio nei mesi a ridosso delle elezioni amministrative). Vediamo qualche esempio. L'ufficio scolastico regionale del Veneto con atto del 12 novembre 2009 ha disposto l'acconto dei contributi alle scuole paritarie della provincia di Verona per l'anno scolastico 2009-2010. Cifra erogata: 3,7 milioni di euro. Il comitato bolognese “Scuola e Costituzione” denuncia che una sezione di scuola materna paritaria a Bologna, oltre al contributo statale di circa 16mila euro, ha ricevuto in seguito a convenzione comunale, altri 14mila euro; 3mila euro come contributo di miglioramento previsto dalla legge regionale numero 26 del 2001: il totale fa 33mila euro per sezione.
DI CASI SIMILI ce ne sono a migliaia in tutto il paese. Una delle regioni più “generose” è senza dubbio la Lombardia. Per esempio, per il solo anno scolastico 2007-2008, è stato assegnato il contributo di di 2.500 euro a ciascuna delle 185 scuole paritarie di primo grado per un totale regionale di 462.500 euro, cifra a cui si sommano altri 275.647 euro. Altri soldi arrivano per le scuole paritarie che accolgono allievi con handicap: 948.155 euro. Insomma, solo per le scuole secondarie di primo grado paritarie, la Lombardia ha concesso nel 2008 la bellezza di 1,7 milioni di euro.
Dopo l'incremento in Finanziaria di quasi 100 milioni di euro per il contributo alle paritarie, parte dell’opposizione è partita all’attacco, accusandolo di voler affossare definitivamente il sistema di insegnamento pubblico. Ma non tutti dentro al Pd la pensano così. Infatti, secondo l'ex ministro dell'Istruzione Beppe Fioroni che in vista delle elezioni punta ai consensi dei cattolici “la cifra che il governo Berlusconi ha reintegrato è inferiore al consolidato che è stato dato alle scuole paritarie dai governi D'Alema e Prodi: così prendono in giro le scuole cattoliche perché gli danno meno di quello stanziato dai governi di centrosinistra con Rifondazione comunista dentro”.

il Fatto 14.11.10
La Costituzione non va a scuola
di Marina Boscaino


Ricordate “Cittadinanza e Costituzione” e le fanfare mediatiche che ne hanno accompagnato l'annuncio? Da allora missing, sparita. L'1 agosto del 2008 Gelmini esordiva: “Dal prossimo anno scolastico sarà introdotta la disciplina Cittadinanza e Costituzione, oggetto di specifica valutazione” per cui “sono previste 33 ore annuali di insegnamento”. Affermazione singolare: già allora la 133/08 aveva tracciato il taglio di 140.000 posti di lavoro e, quindi, di ore di lezione. Non stupisce dunque la recente marcia indietro in una circolare dall'inaccettabile retorica: “Tale insegnamento rientra nel monte ore complessivo delle aree e delle discipline indicate [il sé, l'area storico-geografica e quella storico-geografica e storico-sociale, rispettivamente in scuola dell'infanzia, primaria e media, superiore, ndr]”. Infine: “Non è una disciplina autonoma e dunque non ha un voto distinto". Insomma, nulla. Ha un nome, ma nella pratica didattica esiste a discrezione dell'insegnante. Per di più gli ambiti disciplinari su cui appiattire quell'insegnamento sono stati tagliati dalla “riforma”. Che lo studio della Costituzione (ma non della Cittadinanza) debba sostanziarsi in un numero di ore preciso, con una propria valutazione, insomma come disciplina autonoma, è convinzione di Gennaro Lopez, presidente del comitato tecnico scientifico di Proteo FareSapere. Che concorda insieme con Marcello Vigli Per la Scuola della Repubblica: Educazione Civica rinnovata (non appiattita e dunque contratta e neutralizzata nelle ore di storia), riferimento costante di ogni disciplina. Propedeutica formativa all'esercizio della sovranità di cui tutti i cittadini sono titolari e della responsabilità di gestione dei valori costituzionali; patrimonio comune – etico e culturale – della società italiana. Il Congresso nazionale di Proteo (a Roma, il 19) presenterà la ricerca – curata assieme al Centro Riforma dello Stato – Indagine sulla conoscenza della Costituzione italiana. Un campione di 7038 studenti, 56% del liceo, prevalentemente delle classi finali del quinquennio, al 50% del Nord. Risposte coerenti con le condizioni della scuola italiana: differenti conoscenze nei vari segmenti dell’istruzione superiore, il professionale –che ospita il numero di gran lunga più significativo di studenti migranti e provenienti da situazioni socio-culturali svantaggiate, il più indebolito dalla recente “riforma”: sarà un caso? sempre buon ultimo. Risposte sbagliate concentrate al Sud, dove la consuetudine (spesso quotidiana) con l’alternativa criminale allo Stato e, al contempo, con pratiche di resistenza civile avrebbe bisogno, urgenza, di sostegno, conoscenza, educazione; di strumenti per sollecitare anticorpi alla rinuncia istituzionalizzata all’esercizio della cittadinanza. Sono scritti sulla Carta. Ma la maggior parte dei ragazzi li ignorano.
In generale, risposte che non intercettano nemmeno lontanamente una rappresentazione dei rapporti di causa-effetto che intervengono nel determinarsi di alcuni eventi storici (la datazione della Costituzione, la sua ratio, persino l’attribuzione al dittatore criminale Mussolini della sua stesura, ad esempio). La costruzione della cittadinanza consapevole nel nostro Paese è un'urgenza, tra ragazzi che per il 42.2% non hanno una Costituzione in casa. Il nome dei costituenti è spesso sconosciuto agli studenti: drammatica mancanza di cultura collettiva rispetto a interessi e principi comuni e identitari, sia a scuola che in famiglia. In questa strana Italia i valori collettivi sono altri. La scuola non può dimenticare che in momenti bui della nostra storia i diritti di libertà sono stati negati e migliaia di donne e uomini si sono impegnati spesso a prezzo della vita perché la Costituzione potesse essere scritta. E quelle vicende fossero per sempre un terribile ricordo del passato. È impegno a cui Proteofaresapere e una parte della scuola democratica si dedicano, non rinunciando all’idea che racconto, ricerca, studio, riflessione sulla Costituzione non siano semplice atto di testimonianza, ma di costruzione attiva e vitale di cittadinanza. E di futuro per questo Paese.

Repubblica 14.11.10
Capitali umani
“Compagni, operai tornate al lavoro"
Nasce a Torino l´archivio che raccoglie un secolo di vita nelle fabbriche: manifesti, volantini, fotografie E così si trovano a convivere, per la prima volta, non solo la voce della lotta ma anche quella del padrone
di Vera Schiavazzi


n unico, grande scrigno per custodire oltre un secolo di memorie del lavoro. Del lavoro com´era, del lavoro in fabbrica, delle battaglie e delle lotte che attorno al lavoro hanno avuto luogo, delle vittorie e delle sconfitte. Accade a Torino, dove per far nascere l´Ismel, il nuovo archivio comune che verrà presentato il 18 e 19 novembre, hanno unito i loro sforzi protagonisti molto diversi tra loro: il Comune e la Fondazione piemontese Gramsci, la Fondazione Nocentini e l´Istituto Salvemini, col sostegno di Cgil, Cisl e Uil, Unione industriale e Archivio storico Fiat. Così, escono dai cassetti più o meno segreti dove erano custoditi documenti mai visti prima, dai manifesti anti-sciopero della Lega industriale del 1920 alle lettere con le quali la Fiat ringraziava, sessant´anni dopo, chi «nonostante le pressioni e il clima di violenza» non aveva scioperato.
Volantini e vecchie foto raccontano anche in che modo le diverse sigle sindacali e le aziende hanno cercato negli anni il consenso dei lavoratori e dei cittadini che alla storia dell´Italia industriale guardavano da fuori. Come faceva la Fiom degli anni Cinquanta, che esortava la Fiat a produrre auto popolari, e poi definiva una «grande vittoria» il successo del modello simbolo del boom economico, la Seicento. O la Cisl, prima tra i sindacati a personalizzare con le foto i manifesti per l´elezione della commissione interna. Un filo lega, al di là dell´ideologia, le icone scelte dai disegnatori chiamati di volta in volta a illustrare manifesti e locandine: ingranaggi, torni, utensili, uomini e donne in tuta, un modo di mostrare il lato rude ed eroico delle macchine e degli operai, il volto duro e grandioso di un Paese che si scontra, si divide, cresce e condivide lo sforzo di diventare una potenza industriale. Uno stile e un linguaggio che richiamano, spesso in modo contraddittorio rispetto alle intenzioni dei promotori, il realismo sovietico, una comunicazione forte e diretta, talora efficacissima.
Al progetto dell´Ismel, del resto, partecipano i principali studiosi della storia del lavoro e dell´industria, da Valerio Castronovo a Giovanni Avonto (il primo presidente, gli altri seguiranno a rotazione), da Sergio Scamuzzi a Gian Vaccarino. L´Ismel avrà presto anche una casa negli ex quartieri militari della città che già ospitano il Museo della Resistenza: la Compagnia di San Paolo ha stanziato sette milioni di euro per ristrutturare gli edifici e digitalizzare cinque chilometri di documenti e quattrocento aziende stanno aderendo al progetto. «Non si tratta soltanto di conservare - dice Tiziana Ferrero, responsabile dell´identità del nuovo istituto - ma di dare uniformità a un enorme patrimonio che per ora resterà di proprietà dei singoli soggetti. L´obiettivo è divulgare i valori del movimento operaio senza restare sordi a quelli dell´impresa». Torino, insomma, celebra il suo prodotto più celebre, il lavoro.

Repubblica 14.11.10
Quando la memoria può essere condivisa
di Luciano Gallino


Nella storia dell´industria e del lavoro, ci sono eventi dei quali i lavoratori (operai, impiegati, tecnici) e gli imprenditori (dirigenti, manager) hanno una memoria comune, e altri di cui hanno una memoria sicuramente differente. Eccoli quando viene varato un bastimento, non importa se nel 1930 o nel 2010. O quando un aereo commerciale compie con successo il primo volo. O nel momento in cui si inaugura una diga costruita tra i monti a fronte di mille difficoltà. È molto probabile che gli uni e gli altri, dinanzi a quell´evento, sentano dentro di sé l´orgoglio di esserci riusciti, di aver fatto insieme un buon lavoro. E con parole simili racconteranno l´evento ai nipoti, mostrando le fotografie di quel giorno.
Vi sono anche eventi drammatici che danno origine a memorie comuni. Davanti alle macerie di una fabbrica bombardata, durante l´ultima guerra, lo scoramento, la rabbia, la voglia di ricominciare, erano probabilmente gli stessi negli operai come nel padrone, e gli uni e l´altro hanno conservato per decenni negli occhi la stessa visione, in petto gli stessi sentimenti. Qualcosa di simile è sicuramente avvenuto anche nelle settimane scorse, dovunque l´alluvione abbia distrutto o danneggiato una fabbrica.
Per contro vi sono eventi la cui memoria dipende dalla parte di essi in cui uno si trova. Una lettera che dice che la fabbrica chiude perché è fallita, o sarà delocalizzata, non è lo stesso evento per chi la firma e per chi la riceve, e diversa sarà la loro memoria. Il manager ricorderà forse il disagio con cui dovette compiere quell´atto non avendo alternative, considerato lo stato del bilancio o gli ordini ricevuti dalla multinazionale soprastante. Nella memoria del lavoratore resterà invece lo sgomento dello scoprire che un pilastro della sua esistenza all´improvviso era crollato. O si prenda il caso di un incidente sul lavoro, anche non letale. Da parte di chi lo subisce c´è il dolore fisico, poi la convalescenza, cui seguono i colloqui con medici, avvocati, funzionari dell´Inps, il dubbio di poter tornare a lavorare. Da parte dell´imprenditore ci sarà dispiacere per il collaboratore ferito, ma anche preoccupazioni per le grane che seguiranno, le indagini della magistratura, o per il costo di misure di sicurezza più efficaci.
Oltre che nelle persone, in cui deperisce e che alla fine scompare con loro, la memoria del lavoro e dell´industria si deposita indirettamente, in volumi assai più corposi, in duraturi oggetti fisici - il vecchio manufatto di una fabbrica - e ancor più in documenti, fotografie, verbali dei Cda, contratti di lavoro, filmati, manifesti, giornali d´azienda, edifici industriali.
Gli storici dell´industria lavorano su questi materiali per ricostruire che cosa è effettivamente accaduto a una grande impresa nel corso del tempo; a una famiglia di imprenditori; a un pezzo di classe operaia o a un tal gruppo di tecnici da cui provennero invenzioni straordinarie. Così facendo ricostruiscono anche la memoria di lavoratori e imprenditori scomparsi da generazioni. Quando si legge nella storia di un´azienda che «tra i dipendenti si diffuse grande gioia all´annuncio che sarebbe stato introdotto il sabato festivo» (è accaduto verso il 1957), oppure che «tra i dirigenti regnava una notevole preoccupazione per il ritardo nel lancio della nuova linea di prodotti», lo storico ridisegna la memoria umana dei protagonisti così come pensa di intravederla nei materiali che sono giunti fino a noi. E ci propone il suo disegno per alimentare in noi la memoria di quello che è stato. È inimmaginabile, e ogni storico lo sa, che arrivi a trasmetterci, attraverso i documenti, quello che i protagonisti della vita di un´azienda, lavoratori e imprenditori, realmente ed esattamente pensarono, sentirono, credettero, quali emozioni e motivi li mossero. Perfino il medesimo individuo che visse un certo evento lo ricorda in modo diverso a distanza di tempo. L´importante è che per costruire il ponte della memoria da coloro che vissero quell´evento alle generazioni successive lo storico abbia a disposizione materiali adeguati per rintracciare quell´evento sia nei suoi contorni fattuali, sia nei modi in cui i protagonisti lo sperimentarono: a volte facendo un´esperienza comune, altre volte traendo da esso esperienze diverse. È qui che si scorge la funzione essenziale di archivi d´impresa, archivi pubblici, musei e altri luoghi della conservazione di documenti nel raccogliere e mettere a disposizione dei ricercatori, ma anche del pubblico, materiali che rinviano tanto agli eventi di cui i protagonisti per primi condivisero la stessa memoria, quanto a quelli di cui essi ebbero per forza di cose, per la posizione che occupavano in un complesso produttivo, una memoria differente e talora conflittuale. Nella nostra memoria deve esserci posto per ambedue le memorie.

l’Unità 14.11.10
Musica che salva i bambini
Da Caracas alle periferie italiane arriva il “sistema Abreu” che insegna a suonare come alternativa al degrado
di Stefano Miliani

Nella nostra Italia in frantumi, Rossini un giorno dovrà ringraziare il Venezuela. Tra i palazzi che fanno letteralmente acqua nel quartiere periferico delle Piagge a Firenze, nel quartiere Sanità di Napoli dove la camorra fa suonare le pistole, nel multietnico San Salvario a Torino, sta per plasmarsi un sogno a forma di oboi e violini suonati da bambini, bambine, ragazze e ragazzi. Nel paese latinoamericano, dove la povertà impazza nonostante il petrolio, dove la criminalità dilaga e le baracche fatiscenti punteggiano le colline di Caracas, dal 1975 esiste il «sistema Abreu»: è il programma inventato dal «maestro» Abreu che ha permeso a 2 milioni di ragazzi e ragazze di apprendere la musica, di suonare in un'orchestra per acquisire fiducia in se stessi, per trovare un'altra via al degrado, alla povertà economica e culturale, e divertendosi. Il «sistema» oggi impegna 400mila ragazzi in 250 orchestre giovanili e 150 infantili. Quell' utopia diventata realtà ora la importiamo nella terra di Monteverdi, Puccini e De André. Dietro la spinta di Claudio Abbado, la Scuola di musica di Fiesole e Federculture ieri hanno tenuto a battesimo qualcosa di unico, audace, perfino da scavezzacollo: tra i cipressi delle colline fiesolane l'istituto musicale e l'associazione hanno organizzato un confronto internazionale quale preludio alla onlus detta «Comitato sistema nazionale delle orchestre e dei cori infantili e giovanili».
Il nome un po' farraginoso non faccia pensare a strutture elefantiache o succhiasoldi. L'obiettivo è altro. La meta è creare «nuclei didattici» nelle cento città e cittadine per rendere la musica accessibile a tutti, per insegnarla a cuccioli d'uomo e donna tra i 4 e i 14 anni. Attenzione però: non si vuole creare ulteriori fabbriche di aspiranti professionisti né tanto meno illusioni televisive stile Talent Show. Si vuole insegnare la musica per imparare a stare insieme, perché – come ama ripetere Riccardo Muti – suonando in gruppo si apprende ad ascoltare gli altri, se stessi e quella convivenza oggi così compromessa.
Il «sistema» italiano vede due piloti principali: il presidente di Federculture Roberto Grossi e il direttore artistico della Scuola fiesolana nonché affermato pianista Andrea Lucchesini. Grossi introduce: «Valorizzeremo le esperienze già vive nella società e ne incoraggeremo di nuove seguendo criteri unitari oltre la logica dei 100 campanili. Non prepareremo musicisti professionisti avvisa non faremo concorrenza ai Conservatori, non saremo una sovrastruttura pesante». «Partiamo sì da zone disagiate, vogliamo dare a chi non ha prospettive, ma per coinvolgere tutti senza esclusioni, compresi i genitori – chiosa Lucchesini – E le lezioni saranno gratuite». Lezioni senza solfeggio, all’inizio, per cantare e suonare subito.
Il «sistema» avrà «nuclei» didattici con docenti-musicisti preparati sia a insegnare sia ai rapporti umani anche in situazioni sociali emarginate. Requisiti: metodi e organizzazione condivisi più l’entusiasmo. Ma l’entusiasmo non paga l’affitto di stanze né i flauti. I soldi? Grossi risponde che, diventati Fondazione, chiederanno sostegno ai ministeri dell’istruzione, delle politiche giovanili e dei beni culturali (auguri), che presenteranno progetti all’Ue, che saranno essenziali le Regioni, i privati e, dando luoghi, strutture, attrezzature, gli enti locali. Grossi confida anche in un disegno di legge bi-partisan con Buttiglione primo firmatario ora in commissione cultura alla Camera (ci permettiamo un certo scetticismo sull’esito concreto), però c’è già chi si muove. Valga citare la Cgil: aderisce quella nazionale e in Toscana offrirà le sue 262 sedi. Piccole viole e cantanti tra le tute blu e i precari.

l’Unità 14.11.10
Le rivelazioni del quotidiano inglese The Guardian sui rapporti tra il Colonnello e Berlusconi
Hostess italiane «odalische» a Tripoli Viaggi dell’amore, sponsor Gheddafi
di Umberto De Giovannangeli

Di tutto si può dire del Colonnello, meno che non mantenga le promesse. Nei suoi imbarazzanti show romani, lo aveva ripetuto alle giovani reclutate da un'agenzia per hostess: «Convertitevi all’Islam...E poi venite in Libia, la terra delle occasioni». Matrimoniali. Muammar Gheddafi è uomo di parola. E di portafoglio generoso. Della «cultura» ha una visione particolare. Il suo amico Silvio B. ha ammesso che ha imparato da lui cosa fosse il Bunga Bunga, ed è forse per questo, oltre che per la «diplomazia degli affari» che li unisce, che il Cavaliere giudica il Colonnello «uno statista pragmatico, un leader moderato» e il Colonnello ricambia dicendo ad una platea estasiata di imprenditori che «l’Italia è fortunata ad aver un premier come Berlusconi...». Ma torniamo alla «cultura» made in Tripoli. A svelarla è il britannico Guardian.
VENITE E MOLTIPLICATEVI
Donne italiane unite in matrimonio a uomini libici, a partire dal nipote Ghazali. A questo mira il Colonnello libico quando promuove tour «culturali» nel suo Paese, scrive The Guardian, «Il leader vuole che persone giovani di altri Paesi visitino gli ospedali e le università libiche e che comprendano la storia del Paese dice Alessandro Londero, direttore dell'agenzia italiana di hostess Hostessweb ma è anche interessato alle storie d’amore tra giovani italiane e libici». Soprattutto a quella del nipote Ghazali con l’attrice metà italiana e metà inglese Clio Evans, 24 anni, che ha già visitato la Libia quattro volte. Il quotidiano britannico ricorda che l’agenzia di Londero ha garantito la presenza di donne italiane ai due incontri sulla cultura islamica tenuti a Roma da Gheddafi, nel 2009 e nell’agosto scorso. Finora, la stessa agenzia ha organizzato sei viaggi in Libia per le sue hostess. L’agenzia, si legge sul sito, è specializzata nel casting on line e capace «di reperire capillarmente figure professionali di qualsiasi genere in tutti gli 8013 comuni d’Italia». Il Colonnello e le hostess odalische. Non è il titolo di un film «pecoreccio». È il succo della due giorni di fine agosto del Raìs libico a Roma. A quell’« evento» partecipò anche Francesca, una delle centinaia di hostess pagate per «onorare» il Colonnello. Francesca dice di aver partecipato solo al primo incontro ̆e racconta che l’agenzia  ̆Hostessweb contattò circa mille sue coetanee telefonicamente o attraverso un annuncio online ̆dimostrando immediatamente che si trattava di una «recita male organizzata» visto che da subito è stato allestito un vero e proprio teatrino per la visita del colonnello libico. Uno spettacolo orrendo, in cui tre «hostess molto vicine all’organizzazione» sono state fatte passare per convertite all’Islam. E sono state pagate di più». Quelle che mostravano «maggiore interesse» per l’iniziativa, aggiunge Francesca, ricevano la promesso di essere inserite nei «tour culturali» in Libia. Tour che magari finiscono con una proposta di matrimonio. O una cosa simile...Perché l’idea di «amore» che anima il Colonnello è molto variegata. Per saperne di più, contattare il signor B. Per avere il suo numero di cellulare, rivolgersi a Ruby Rubacuori...

l’Unità 14.11.10
Mezz’ora in tv per raccontare la verità su Ruby


LA SCELTA    «È stata una decisione molto sofferta e mi rendo conto di ogni possibile conseguenza di questa mia scelta». Lo ha detto il pm dei minori di Milano Annamaria Fiorillo, spiegando la sua partecipazione, oggi, alla trasmissione di Lucia Annunziata “In 1/2h” in onda su Raitre alle 14:30. La Fiorillo, di turno la notte tra il 27 e 28 maggio quando Ruby venne portata in Questura e poi rilasciata, che ha polemizzato con il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha spiegato che quella dell'Annunziata sarà l'unica trasmissione a cui parteciperà. «Per me sarebbe stato più comodo non aver preso pubblicamente alcuna posizione. Ho bisogno di essere ascoltata, senza filtri, in modo tale che la gente vede come sono e comprenda la mia sincerità». «Bene, bene», ha commentato il ministro dell'Interno Roberto Maroni la notizia.

l’Unità 14.11.10
Suu Kyi, finalmente fuori «Ora uniti per la democrazia»
La leader dell’opposizione ha passato 15 degli ultimi 21 anni agli arresti in Birmania

A 65 anni, di cui 15 trascorsi in prigione, è lei la speranza della democrazia in Asia.
di Rachele Gonnelli


Sono le cinque del pomeriggio ora locale quando Aung San Suu Kyi sale su uno scatolone e si aggrappa all’inferriata rossa del cancello per mostrare il suo volto al mondo da donna libera. Tremila mani si alzano per rispondere al suo aggraziato saluto, c’è calca, rumore, qualcuno le offre un mazzo di fiori, lei ne stacca alcuni per metterseli tra i capelli raccolti. «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare inizia appena si fa silenzio si deve lavorare all’unisono, solo così potremo raggiungere i nostri obiettivi». Poi aggiunge più piano: «Non ci vediamo da tanto tempo, abbiamo così tanto di cui parlare». Saluta e torna dentro la casa sul lago che è stata la sua prigione per 15 degli ultimi 21 anni.
Solo una dichiarazione di grande cautela e di richiamo all’unità delle forze che la sostengono. La gioia è nel suo volto radioso, da cui sembrano essere improvvisamente cancellate le tribolazioni che la giunta militare le ha impartito nei suoi 65 anni di vita. La gente festeggerà tutta la notte sulla strada dell’Università dove i sono state alla fine rimosse le jeep della polizia e il filo spinato. E da quel cancello, quando da noi sarà notte fonda, San Suu Kyi uscirà per incontrarsi con i dirigenti del suo partito, la Lega per la Democrazia. Il primo problema sarà, appunto,come riunificare l’opposizione.
I capi della Forza nazionale democratica (Ndf) -il partito nato dalla scissione della Lega per la Democrazia dopo che questa ha scelto di boicottare le elezioni di una settimana fahanno salutato il suo rilascio con dichiarazioni significative. «Siamo elici, lei è la leader del popolo birmano, è la nostra leader», ha detto Khin Maung Swee, uno dei dirigenti più in vista, confermando che il voto di domenica scorsa è stato manipolato. «Non ci aspettavamo elezioni né libere né eque ha detto nei giorni scorsi il presidente dell’Ndf Than Nyein, quasi un’autocritica ma sono state più ingiuste del previsto». Sarà questo il secondo nodo che la leader dovrà affrontare: l’entità dei brogli elettorali.
IL FUTURO DELLA BIRMANIA
Il nuovo partito di governo, l’Usdp formato da ministri e militari in ascesa guidato dal primo ministro Thein Sein, sostiene di aver trionfato nelle urne di queste prime elezioni, pur addomesticate, degli ultimi vent’anni. La stessa liberazione di San Suu Kyialla quale non sarebbero state imposte restrizioni parziali potrebbe significare che al di là delle recriminazione degli sconfitti i militari al potere si sentono relativamente forti. Certamente è ciò che vogliono far apparire.
Tolto il velo da anni di censura la tv di Stato ieri ha persino dato notizia della liberazione della «Lady». Ha detto che il generale Khin Yee le ha letto il mandato di rilascio, compiacendosi delle sue buone condizioni di salute e chiedendole se aveva bisogno di qualche assistenza. Anche l’agenzia ufficiale Xinhua di Pechino ha dato ampio spazio alla notizia e persino alla biografia di San Suu Kyi, auspicando «la prosecuzione del percorso di democratizzazione in sette tappe, di cui la quinta sono state le recenti elezione multi partitiche». Ha solo omesso di ricordare che Suu Kyi ha vinto il Nobel per la Pace nel ‘91, per non dover ricordare lo stesso premio assegnato quest’anno al letterato Liu Xiaobo, tutt’ora lasciato marcire in una fetida prigione nel nord est della Cina.
Aung San Suu Kyi è un simbolo. Se vuole essere un Mandela al femminile deve riuscire ad aggregare anche le etnie come i wa, i karen, i kachin che in lei ripongono la speranza di un avvenire non marginalizzato dalla classe dominante bagan.
E i giovani cresciuti tra corruzione e repressione. Per loro, la prima richiesta da donna libera è stata l’attivazione di un account su Twitter che ha sorpreso non poco i dirigenti del suo stesso partito.

il Fatto 14.11.10
“Ho guardato negli occhi i miei torturatori”
Marco Bechis testimone ai processi dell regime argentino
di Marco Bechis


 Emilio Eduardo Massera è morto prima che i processi per strage a suo carico fossero conclusi. Oggi in
Argentina e in altri paesi tra cui l’Italia si stanno svolgendo molti processi contro i responsabili dei 30mila desaparecidos. È stata la risposta di una nuova generazione che ha reagito alle leggi di Obediencia Debida e Punto Final. A giugno 2010 ho ricevuto un biglietto prepagato da un Tribunale argentino che mi invitava a testimoniare. Ecco una breve cronaca di quel viaggio.
A Buenos Aires il 6 luglio 2010 era un martedì d’inverno. Arrivai alle 9 del mattino al Tribunal Oral Comodoro Py di Retiro, passai il metal detector, mostrai il mio passaporto e attesi l’inizio dell’udienza. Ero uno dei testimoni del processo Abo: Atletico – Banco Olimpo, tre dei tanti campi di concentramento che hanno funzionato, con grande efficienza, tra il 1976 ed il 1982 in Argentina. Entrando nell’aula mi trovai di fronte gli accusati, 15 ex militari, tutti in borghese, tutti in arresto. Sul volo Milano-Frankfurt-Baires mi ero chiesto che cosa avrei fatto quando mi sarei trovato di fronte i responsabili del mio sequestro e della scomparsa di centinaia di compagni.
Prove di deposizione
PER TROVARE una risposta, avevo provato la mia deposizione di fronte a una videocamera, mi ero poi trascritto tutto, ma restava sempre oscuro che cosa mi sarebbe successo. Parlare in un’Aula di Tribunale non è come dibattere a una trasmissione televisiva, mi sono detto. Andai allora ad ascoltare altre testimonianze; a Comodoro Py si svolgono diversi processi contemporaneamente, i campi di concentramento furono più di trecento. Al processo Esma ricordo un cinquantenne, ex operaio del Porto, le sue parole lente, precise, misurate, le lunghe pause che gli permisero di reggere fino alla fine. Raccontò i suoi 22 giorni All’Escuela Mecanica de la Armada, campo di concentramento della Marina Militare, di cui Massera, il Comandante Zero, era il Capo Assoluto. Lui, il Comandante Zero, non era presente in Aula per ragioni di salute. Poi toccò al secondo testimone, che era stato sequestrato insieme al primo. I due ex operai erano stati torturati alternativamente. Ma, a differenza del precedente, il secondo testimone raccontava in modo concitato, gesticolava, si voltava spesso verso gli imputati urlando: “Bravi... coraggiosi questi! Picchiare una donna incinta! Picchiare uomini bendati e legati! Siete proprio coraggiosi!”.
I “funzionari” dell’Esma rimanevano impassibili, ce n’era uno, l’ex capitano della Marina, Ricardo M. Cavallo, che batteva i tasti del suo computer. Mi hanno detto che aggiorna quotidianamente il suo blog durante le udienze. All’improvviso qualcosa si ruppe nella voce del testimone che smise di parlare prendendosi la testa tra le mani. Il presidente diede un quarto d’ora di pausa. Tra il pubblico presente si alzò il figlio del testimone e chiese il permesso di per parlare a suo padre. Da lontano non so cosa si siano detti, ma lo calmò, lo rassicurò, ed il processo riprese. A volte solo i figli possono aiutare i padri.
Per evitare che i testimoni leggano un testo scritto da qualcun altro, il Tribunale Orale non permette fogli scritti, niente appunti. Quella mattina del 6 luglio entrai nell’Aula del Tribunal Oral senza guardare, neanche per un istante, i 16 militari in borghese presenti in aula. Mi chiesero le mie generalità, giurai di dire il vero e mentre il pubblico ministero mi faceva la prima domanda, lo interruppi e rivolgendomi alla signora presidente del Tribunale, chiesi di essere messo alla pari, perché forse questi signori potevano riconoscermi anche se il tempo passa per tutti ma io certamente non potevo farlo, perché nel Club Atletico ero sempre bendato.
Il gioco capovolto
PRETESI QUINDI che quei signori mi fossero presentati in modo da poterli identificare visivamente. La presidente chiese alle parti se avessero qualcosa in contrario, le parti discussero, finalmente la giovane avvocatessa che difendeva gli ex militari acconsentì, ma pretese che quella mia stravagante richiesta fosse messa agli atti. A quel punto tirai fuori dalla tasca un foglio rigorosamente bianco e una Bic; la presidentessa, senza capire bene che cosa io stessi facendo, iniziò ad indicare uno per uno gli imputati, presentandomeli per nome e cognome. Erano 16, e mentre lei me li indicava, io li fissavo severamente e scrivevo il loro nomi e cognomi sul foglio. Uno per uno, come a scuola con i cattivi. E mentre stillavo la mia lista, leggevo nelle loro facce lo sgomento per quel gioco capovolto: avevano di fronte un ex prigioniero che li stava schedando. Poi, teatralmente, ho piegato il foglio, l’ho infilato nel taschino. A quel punto ero sicuro, non temevo più nulla. Il pubblico ministero mi fece la prima domanda.
Il silenzio e l’ergastolo
QUEI 15 UOMINI rischiano l’ergastolo, ma non hanno mai parlato, e come Massera si porteranno i loro segreti nella tomba. Loro sanno dove sono state improvvisati i cimiteri clandestini, sanno chi è stato gettato vivo nell’Oceano, sanno dove sono i neonati oramai trentenni rubati alle loro madri, che vivono sotto falsa identità. Sanno e non parlano, una violenza inaudita. La morte di Massera è, come quella di ognuno di loro, la violenza ultima, perché con la loro morte quel silenzio diventa eterno.

Corriere della Sera 14.11.10
L’altra faccia di Ulisse: segreti e tradimenti di un eroe
di Eva Cantarella


«Il signore degli inganni» di Zachary Mason propone una serie di variazioni sul mito protagonista dell’Odissea

Emerso dai cumuli di immondizia disseccati di Ossirinco, un papiro pretolemaico ci ha restituito quarantaquattro succinte variazioni della storia di Ulisse: così si legge nella Prefazione a Il signore degli inganni. I libri perduti dell’Odissea di Zachary Mason (Garzanti, pp. 223, 15,60, traduzione di Laura Noulian). Una notizia che sconvolgerebbe il mondo dell’antichistica e non solo, se vera. Ma ovviamente non lo è. È un’invenzione letteraria che consente a Mason di presentare una serie di brevi racconti che parlano, o fanno riferimento, al ritorno di Ulisse dalla guerra di Troia. Di riscrivere, insomma, un’Odissea diversa da quella omerica, piena di colpi di scena e di sorprese.
A cominciare da quella di cui al primo racconto. Tornato in patria, Ulisse scopre che Penelope si è risposata. Ovviamente, che in vent’anni le cose potessero essere cambiate se l’era immaginato, e aveva pensato al peggio (la città abbandonata, Penelope morta), ma che lei avesse smesso di sperare nel suo ritorno, questo no, non se lo sarebbe mai aspettato: «Un viaggio così lungo — pensa — e tanti di quei posti in cui avrei potuto fermarmi». Una frase che l’Ulisse omerico avrebbe ben difficilmente detto.
È un personaggio molto diverso da quello che Omero ci ha insegnato a conoscere, quello dei «libri perduti», e diverse sono anche le sue avventure e le sue scelte. Giunto alla terra dei Feaci, per cominciare, sposa la figlia del re, la bella Nausicaa, sedotto non solo dal fascino di lei, ma anche e in primo luogo avendo presenti «i vantaggi di un nuovo matrimonio rispetto agli svantaggi di un mare senza sentieri» (racconto numero 23). Questo Ulisse, inoltre, grazie alla proverbiale astuzia, in una delle «variazioni» (numero 21) riesce a sposare Elena: proprio lei, la causa della guerra. E sempre grazie alla sua astuzia riesce a far sì che a Sparta, come moglie di Menelao, vada la fida Penelope (che tanto fida non era, visto che, a breve distanza dal matrimonio, trovando Menelao insopportabile, si lascia sedurre da Paride, e fugge con lui). Altra sorpresa: le disavventure di Ulisse non sono affatto dovute all’ira di Poseidone, al quale aveva accecato il figlio Polifemo. Dipendevano dal fatto che aveva osato respingere le avances di Atena, la dea sua protettrice (numero 13).
Inutile soffermarsi su altri racconti: a questo punto, le ragioni del successo del libro sono intuibili. Diventato rapidamente un caso letterario, ha entusiasmato la critica anglosassone, che lo ha giudicato (son parole di Simon Goldhill sul TLS) «forse il più rivelatore e brillante incontro in prosa con Omero, dopo James Joyce». Non è mancato chi ha avvicinato Mason a Borges, e chi leggendolo ha pensato a Calvino. E alle suggestioni e agli accostamenti letterari si potrebbe aggiungere un altro merito non da poco: i «libri perduti» aiutano a riflettere sulla natura e il valore del mito. Nati nella civiltà della scrittura, noi tendiamo a pensare ai testi come a qualcosa di immutabile, ma nelle società orali, quale fu la Grecia arcaica (e in notevole misura anche quella classica), chi ripeteva i racconti tradizionali che fornivano argomento ai miti li modificava, oltre che per seguire il proprio estro poetico, a seconda del messaggio che voleva trasmettere.
Di ogni mito esistevano infinite varianti, che a volte raccontavano storie radicalmente diverse. Un esempio fra tanti: secondo una delle versioni della sua storia Elena non aveva mai abbandonato Sparta e Menelao; secondo altri era partita per Troia, ma non vi era mai arrivata: la nave sulla quale era imbarcata era stata gettata sulle coste egiziane da una tempesta, Elena era stata condotta alla reggia di Memphis, dove era rimasta per tutto il tempo della guerra. A Troia era arrivato un eidolon, un suo simulacro fatto d’aria. Per giustificare Elena, queste versioni fanno combattere a greci e troiani una guerra decennale per una nuvola.
Quel che «i libri perduti» dell’Odissea ci ricordano è che il racconto omerico del ritorno di Ulisse è solo uno dei tanti modi di scegliere e organizzare la materia mitica, che i primi a reinventare i miti furono i greci stessi, e che è stata questa continua reinvenzione a renderli immortali. Ben venga dunque, anche per questo, questa nuova, bellissima riscrittura dell’Odissea.

Corriere della Sera 14.11.10
L’uomo vide il cielo e scoprì se stesso
di Giulio Giorello


Con l’occhio rivolto in alto abbiamo inventato le costellazioni Miti, credenze e riti che ci hanno accompagnato nella storia

«Guarda, amico mio, i segni del cielo. Significano qualcosa, anche se non saprei dirti cosa», dichiarava Oliver Cromwell, il condottiero dei puritani, alla fine della battaglia a un compagno d’armi che aveva appena perso il figlio. Guardando le stelle dal tetto della sua leggendaria cuccia, Snoopy gli fa eco più di tre secoli dopo, nell’America apparentemente innocente e spensierata degli anni Sessanta, che si stava sempre più impelagando nel conflitto del Vietnam. Per i mortali «i tempi stanno cambiando»; anzi, cambiano incessantemente, come cantava allora Bob Dylan; ma gli astri del cielo sembrano rimanere gli stessi e «i cani son sempre cani», come concludeva filosoficamente il bracchetto creato dalla matita di Charles Schulz.
È mai possibile, allora, cogliere un qualche nesso tra le cicliche vicende del cielo e le più turbolente storie di uomini (e di cani)? Da millenni ci ha provato l’astrologia: le stelle non stanno semplicemente a guardare, ma influenzano se non addirittura determinano il nostro destino. Senonché, le scoperte della scienza e le realizzazioni della tecnologia paiono avere preso il posto dei miti e delle favole degli antichi, mentre la divinazione astrologica avrebbe dovuto ormai cedere il passo all’astronomia rigorosa, come già auspicava un giovanissimo Giacomo Leopardi nella sua Storia dell’astronomia (1813).
Il condizionale, però, resta d’obbligo. In un bel romanzo di Ismail Kadaré, I tamburi della pioggia (Corbaccio, 1 997), l’astrologo dell’esercito turco che assedia una fortezza albanese predice una posizione favorevole delle stelle e «luna piena» che indicano l’imminente caduta della cittadella — salvo assistere poco dopo all’ennesima sconfitta degli assedianti: il comandante supremo lo manderà per punizione a scavare gallerie sottoterra, lui che era abituato a scrutare in alto.
Con una certa vena autoironica, qualche anno fa Margherita Hack, tenace avversaria di qualsiasi superstizione parascientifica, citava una vignetta che qualcuno aveva disegnato apposta per lei, ove la nostra scienziata (e sportiva) si spostava in bicicletta mentre un riccone la superava disinvoltamente alla guida di una macchina di lusso. E lui commentava: «La differenza è semplice: io sono un astrologo, lei un’astronoma» (Margherita Hack, Sette variazioni sul cielo, Raffaello Cortina, 1999).
Ora, insieme con Viviano Domenici, per decenni caporedattore delle pagine scientifiche del «Corriere», senza rinunciare alla polemica contro gli astrologi di ogni genere, Margherita invita ancora una volta a contemplare quello che è alla lettera il più grande spettacolo del mondo (Margherita Hack, Viviano Domenici, Notte di stelle. Le costellazioni fra scienza e mito: le più belle storie scritte nel cielo, Sperling & Kupfer, pp. 315, 18): «Tutte le sere, quando si apre il sipario della notte, nel cielo nero si accendono le stelle» e lo show ha inizio. Si replica, è vero, da tempi immemorabili, ma non ha mai cessato di stimolare la fantasia umana. I nostri antenati presero a unire i luminosi puntini della volta stellata, un po’ come fanno i lettori più piccini in un celebre giochetto della settimana enigmistica. «Che cosa apparirà»? Divinità, eroi, unicorni e vergini, ma anche femmes fatales, per non dire di animali più o meno mostruosi. Sono nate così quelle particolari «illusioni» che chiamiamo costellazioni. Chiariscono subito Hack e Domenici che queste «nella realtà astronomica semplicemente non esistono: sono il risultato di un equivoco prospettico, che porta a considerare, come facenti parte di un unico Disegno, corpi celesti che nella realtà sono spesso distanti molti anniluce gli uni dagli altri, ma casualmente brillano nella stessa zona del cielo; e la prospettiva completa l’inganno».
Consideriamo, per esempio, una delle più celebri costellazioni, quella del Cane Maggiore. Qui coabitano Sirio (tecnicamente Alpha Canis Maioris), la stella brillantissima che si trova a «soli» 8,8 anni luce da noi (ovvero, la luce di Sirio ci mette poco meno di nove anni ad arrivare alla Terra) e Delta Canis Maioris, che si trova a ben 1960 anniluce dal nostro Globo (il che vuol dire che la luce di questa stella ci mette quasi due millenni per raggiungerci: più o meno il corso della storia dalla nascita di Gesù a oggi). Non dimentichiamo che gli anniluce misurano delle distanze, e quindi quella costellazione, (come tutte le altre), non è che una «falsa immagine» inventata dall’occhio (e dal cervello) dell’uomo, un po’ come la celebre foto ricordo del turista che a Pisa stende il braccio in un modo che appare sorreggere la Torre pendente. Ma non è certo per questo che il monumento non cade.
Ci vuole una certa tensione dell’immaginazione per scorgere davvero, in quella trama di stelle, un vero e proprio animale, come notava un severo filosofo come Baruch Spinoza, quando sosteneva che — pur usandosi la stessa parola — l’intelligenza umana era così poco simile a quella di Dio quanto era difficilmente somigliante il cane fatto di stelle al cane «animale che abbaia». Eppure, come diceva una romantica canzone del secolo scorso, le illusioni sono «dolci chimere». Non solo perché dicono molto sulla psiche dell’uomo, sulla sua storia, sui suoi desideri più profondi e sulle sue paure recondite. Solo così possiamo spiegarci come nelle vicissitudini della vita quei raggruppamenti di punti luminosi sono diventati Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario e Pesci. Sono i cosiddetti segni zodiacali: lo Zodiaco è una «fascia immaginaria» distesa lungo l’eclittica, che è il piano dell’orbita della Terra intorno al Sole. L’intersezione di questo piano con la volta celeste è un cerchio sul quale vediamo proiettato il Sole che sembra percorrerlo in un anno. Noi sappiamo, dai tempi di Copernico (1473-1543), per non dire di Aristarco di Samo (III secolo a.C.), che in realtà siamo noi, che viaggiamo sull’astronave chiamata Terra, che descriviamo annualmente un giro completo. Per di più, a causa di un fenomeno già noto agli antichi e mirabilmente spiegato da Newton (1643-1727), ovvero la precessione degli equinozi, gli antichi segni non corrispondono più alle costellazioni: «per esempio, il 21 marzo si vede il Sole proiettato in uno dei due punti in cui si intersecano il piano dell’equatore e quello dell’eclittica, detto punto di Ariete, perché un tempo si trovava in quella costellazione, mentre oggi si trova nei Pesci!».
Un’ulteriore stoccata razionale agli irrazionali «fedeli dell’astrologia», i quali non smettono comunque di credere agli oroscopi. Ma a chi ha mentalità scientifica le costellazioni, quelle zodiacali e le altre, restano comunque dei preziosi strumenti di riferimento. Indicano i diversi settori del cielo, utili per catalogare gli oggetti celesti e i fenomeni astronomici che siamo soliti osservare. Così, per esempio, in quello individuato dal Toro, la costellazione che fissava nel cielo il ricordo di alcune avventure erotiche di Zeus, ci sono non pochi elementi di notevole interesse come la celebre nebulosa del Granchio, che è ciò che resta di una supernova esplosa nel 1054: un evento registrato come un’improvvisa apparizione di grande luce dagli astronomi cinesi e giapponesi dell’antico Oriente.
Dopo tutto, nemmeno i cieli sono davvero immutabili. Come ci ricorda Margherita Hack, cui piace molto il settore del Toro, non fosse altro perché da lì ha preso le mosse la sua carriera di «amica delle stelle». Sia lecito aggiungere che il Toro piace anche a me, essendo nato il 14 maggio.

Corriere della Sera 14.11.10
Ciurlionis, la musica dei simboli
Una retrospettiva celebra il mistero e la fantasia dell’artista lituano
Un genio anomalo con la passione per la magia e l’occultismo
di Gillo Dorfles


Le prime opere di Ciurlionis che ebbi occasione di ammirare nella Polonia degli anni Cinquanta mi impressionarono vivamente per la loro estraneità — e al tempo stesso per la loro consanguineità — con quelle di alcuni dei massimi artisti dell’epoca, da Klee a Kandinskij a Munch; e mi parve misterioso il legame che poteva esistere tra la remota Lituania e il «civilissimo» Occidente. Eppure, la sua parentela con l’arte dei Paesi occidentali deve essere sottolineata: penso ad esempio a Turner, anche se tanto precedente, eppure i cui paesaggi fantastici ricordano — anzi anticipano — gli onirici paesaggi dell’artista lituano.
Tuttavia se Ciurlionis può essere ricondotto addirittura a un postimpressionismo fin de siècle, questo non basta a giustificare l’altro lato della sua complessa personalità: quello musicale e insieme misteriosofico che penso sia alla base di tutta la sua weltanschauung; altrimenti non si spregerebbe la presenza — in questa grande mostra odierna a Palazzo Reale di Milano (prodotta dalla Fondazione Antonio Mazzotta e d a l Mus e o Na z i o n a l e Ciurlionis) — di tante opere dove il fattore «spirituale» (si abbia una volta tanto il coraggio di impiegare questo termine sospetto) prevale.
D’altronde — come viene ben sottolineato nelle acute presentazioni dei curatori Gabriella Di Milia e Osvaldas Daugelis, nonché nella nota biografica di Nijole Adomaviciene e nel saggio sulla musica di Michele Strinati — il fatto che l’artista avesse costanti rapporti con alcune correnti teosofiche e spiritualiste è cosa nota e non può sorprendere; già guardando ai temi — e ai titoli — di parecchie sue opere. Non si dimentichi del resto che gli anni e cavallo tra l’Ottocento e il Novecento avevano visto il germogliare di numerose correnti più o meno «iniziatiche», da quella storicizzata da Schuré a quella «praticata» dalla Annie Besant (grande profetessa della teosofia) a quelle più rigorose come l’antroposofia di Rudolf Steiner.
L’altro aspetto che non può essedue arti, proprio attraverso quel suo Clavier à lumière in cui suoni e colori venivano entrambi prodotti e utilizzati, portando a un estremo tentativo di sintesi attraverso la «sinestesia» che tanti artisti avvertono nel loro creare.
Se, a questo punto, ci soffermiamo ad osservare le numerose opere esposte in queste rassegna (settantanove tra tempere e pastelli, 30 acquarelli e numerosi disegni e chine) che coprono il periodo di maggior attività dell’artista, constatiamo come, sin dai primi dipinti del ciclo Creazione del mondo appare evidente la sua volontà di evidenziare, oltre alle immagini «naturalistiche» (paesaggi, alberi, fiori), l’elemento spirituale, magico, arcano. Ecco, ad esempio, la serie della Creazione del mondo rarefatte tempere su carta o su tela, marine, foreste, montagne sempre avvolte da coltri di nebbie evanescenti, il cui «valore» non è certamente soltanto «fisico» e figurativo. Così nella Adorazione del sole, nella Fiaba; e naturalmente — data la tematica — nella Sonata della Piramidi e nella curiosissima Sonata delle stelle dove l’incrociarsi di elementi ovoidali e di stesure orizzontali, fuori da ogni dimensione prospettica, è in sintonia con altre opere più narrative come Il viaggio del Principe. E si veda anche il grande ciclo Il sole attraverso i pianeti dello zodiaco: altra testimonianza dell’illustrare una realtà fiabesca e metafisica.
Un altro ciclo di straordinaria suggestività è quello delle Sonate anche questo sempre legato all’elemento fiabesco. Fino a che punto una «veggenza» paranormale — o anche solo creduta tale — può alimentare delle realizzazioni artistiche interessanti? Naturalmente ogni giudizio dovrà essere tecnico ed estetico e non «spirit ual i s t a » . Sappiamo, purtr oppo, quanta paccottiglia pittorica (e letteraria) è stata smerciata con la giustificazione di una «ispirazione» pseudoesoterica. Ad ogni modo nel caso di Ciurlionis la convergenza tra la raffinatezza pittorica delle sue composizioni nebulose e oniriche e il «contenutismo» dei suoi racconti magici, ancestrali, occulti, ci permette di riconoscere che l’incontro è stato quanto mai fortunato: un grande artista, lontano dalle tendenze delle scuole dell’epoca, che ha saputo illustrare un suo universo immaginario con un’efficacia cromatica e «narrativa» che permette di considerarlo come una delle personalità più anomale, ma positivamente anomale, dell’arte all’inizio del nostro secolo.

Corriere della Sera 14.11.10
«Non è il burqa la prigione delle donne»
di Cecilia Zecchinelli


Parla una delle protagoniste della battaglia per il rispetto dei diritti umani in Afghanistan
Mary Akrami: molti passi in avanti, ma troppe promesse disattese
Mary Akrami è una delle donne coraggiose dell’Afghanistan che hanno deciso di lottare per un Paese libero, pacifico e rispettoso dei diritti umani, schierandosi a fianco delle loro sorelle più deboli. Nel 1999, durante l’esilio in Pakistan ai tempi dei talebani, ha fondato l’attivissimo Centro per lo sviluppo delle capacità delle donne afghane (Awsdc). Con la sua Ong, tornata a Kabul, ha creato nel 2003 il primo rifugio per donne maltrattate, il Khana-e-Amn, la Casa della sicurezza. Da allora si divide tra la capitale afghana e il mondo: rappresentante della società civile afghana alla conferenza di Bonn nel 2001, testimone del «nuovo Afghanistan» nel 2005 al Social Forum in Brasile, insignita nel 2007 dal Dipartimento di Stato Usa del premio International Women of Courage. Venerdì, nel corso della conferenza Science for Peace di Milano, parteciperà all’incontro sulle donne nelle aree di conflitto con altre importanti attiviste, dal Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi alla marocchina Aicha Ech Channa.
Nell’era dei talebani le «afghane prigioniere del burqa» erano diventate il simbolo del regime da abbattere. Poi l’Occidente si è focalizzato sulle donne ancora schiave delle tradizioni o sulle poche con ruoli pubblici. Cos’è cambiato davvero dopo il 2001?
«Fino al 2001 chiunque dissentisse dai talebani era di fatto un "prigioniero", anche gli uomini — sostiene Mary Akrami —. Ma le donne hanno sofferto di più. Molte si sono trovate sole e senza mezzi economici ma era loro vietato lavorare, guadagnare anche il poco necessario per sopravvivere. Il burqa non era il vero problema: è vero che spesso veniva loro imposto ma molte lo sceglievano perché si sentivano protette. E anche oggi tante afghane che lavorano e hanno posizioni importanti continuano ad indossarlo tranquillamente. I problemi sono ben altri». Ad esempio? «Molte sono ancora private dei diritti di base, come l’istruzione, la salute, l’apprendimento di una professione e quindi l’indipendenza economica. Ma è vero che dal 2001 si sono fatti passi enormi. Le donne siedono in Parlamento e nel governo, hanno più accesso all’istruzione, hanno costituito molte organizzazioni, gestiscono centri e Ong, sono inserite nel mondo dei media, sostengono legislazioni che rispettino i loro diritti, che fino ad oggi in Afghanistan erano ignorati da tutti. Le premesse ci sono ma resta molta strada da fare».
Quanto pesa oggi sulla società civile, e femminile in particolare, il deterioramento della sicurezza in Afghanistan?
«L’aumento delle vittime civili crea fortissimo allarme. Gli afghani avevano forse aspettative irrealistiche sul ritorno della pace ma la comunità internazionale ha comunque seguito strategie sbagliate. La percezione generale è che siano i giochi politici a prevalere Tutto quell’insistere sul burqa ad esempio è assurdo: se la comunità internazionale avesse mantenuto i suoi impegni, il fatto che alcune afghane continuino ad indossarlo svolgendo nello stesso tempo un ruolo chiave per lo sviluppo del Paese sarebbe irrilevante». Può parlarci del «rifugio»? «Quando l’abbiamo fondato nel 2003 è stato il primo luogo sicuro dove le donne potessero rifugiarsi. Da allora ne abbiamo ospitate 769, vittime di abusi e violenze terribili, e 740 lo hanno lasciato dopo aver risolto i loro problemi. Ne restano 27, e due — devo ammettere — sono state raggiunte e uccise dalle famiglie. Abbiamo però molti problemi di finanziamento: i fondi attuali dureranno solo sei mesi».
La conferenza Science for Peace sottolinea il ruolo della scienza, dell’istruzione e della cultura nel costruire un mondo di pace. Quanto vale per le donne?
« I talenti migliori sono ovunqueovunque impegnati a costruire armi, se venissero usati in modo migliore il mondo sarebbe un paradiso. E la pace non esiste se non c’è istruzione, che insegna agli esseri umani ad amare la vita. Le donne hanno sempre avuto un ruolo importante in questo senso, le madri sono in fondo la prima "istituzione" educativa nella società. E nella storia dell’Afghanistan ci sono molti esempi della loro capacità di risolvere dispute e conflitti, riconosciuta anche dagli anziani delle tribù».

Corriere della Sera Salute 14.11.10
Psichiatria. Quando è vera «depressione bipolare»
di Daniela Natali


Una patologia che, se è davvero presente, è grave, espone a rischi importanti e va affrontata con serietà
Come capire se gli sbalzi d’umore sono una malattia e che cosa si può fare

Non è il solito su e giù dell’umore, non è quel pizzico di malinconia che prende al calare delle ore di luce, o quell’euforia, un filo eccessiva, durante una festa. È una malattia. Tanto che una recente metanalisi dell’Università di Cambridge (condotta sulla base di altri 14 studi) ha mostrato, con la risonanza magnetica, che è perfino in grado di ridurre il quantitativo di materia grigia cerebrale nelle regioni paralimbiche implicate nei processi emozionali. Stiamo parlando della depressione bipolare, caratterizzata da un’instabilità dell’umore tale da compromettere la vita. In Italia ne soffrono 600-900 mila persone. Non è una patologia facile: né da diagnosticare, perché viene confusa con altre, né da curare perché chi la patisce rifiuta l’idea di essere malato.
«I bipolari nella fase di "ipomania" — chiarisce Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano — sono euforici, creativi, grandi comunicatori, dinamici, grintosi, ma se si arriva alla mania, come accade nei casi più gravi, il coraggio diventa incoscienza, le passioni si accendono. Niente fa più paura: gioco d’azzardo, sesso senza precauzioni, acquisti irresponsabili. Non si avverte più il bisogno di dormire e mangiare. E, mentre calano le capacità cognitive e di concentrazione, ci si sente superiori, padroni del mondo. Chi tenta di porre ostacoli alla realizzazione dei desideri, anche i più folli, viene visto come un nemico da aggredire. E nei casi di mania più gravi si rende addirittura necessario il ricovero. A chi, però, non piacerebbe sentirsi padrone del mondo? Passare qualche giorno da leone? Ecco perché questi pazienti sono difficili da "agganciare"».
«Ma alla fase maniacale succede quella depressiva: può durare anche sei-sette mesi, contro qualche settimana di tono dell’umore elevato — dice Eugenio Aguglia, presidente della Sip, Società italiana di psichiatria —. Depressione senza motivi esterni, profonda: il paziente rifiuta di uscire, preferisce rimanere a letto, perde l’autostima, si sente in colpa. E se nelle fasi "su" si rischia la vita perché ci si sente invincibili, qui il rischio è quello suicidario anche se è proprio in questa fase che il malato accetta più facilmente un aiuto.
«Se non è facile arrivare al malato, non è facile neanche arrivare alla diagnosi, — prosegue Aguglia — possono perfino passare anni dalla comparsa della malattia. La sindrome bipolare, che in genere all’inizio si manifesta con un episodio depressivo, può essere confusa con una depressione tout court. Un errore che costa caro perché, con i classici antidepressivi, usati da soli, i bipolari in fase depressiva reagiscono con il rischio di un nuovo episodio maniacale. Ecco perché è bene prescrivere questi farmaci a dosi basse, per un breve periodo e soprattutto insieme a stabilizzatori dell’umore».
«Diagnosi difficile, certo, ma ci sono caratteristiche che aiutano a individuare il bipolare — puntualizza Mencacci —. Disturbi del sonno, propensione all’irritabilità, all’impulsività, uso di alcol e stupefacenti, stili di vita molti "intensi". Senza dimenticare la familiarità, non determinante, ma importante».
Fatta la diagnosi, quali sono le cure? «Il litio funziona bene nella fase ipomaniacale, ma non in quella depressiva. Più indicato l’uso di farmaci stabilizzatori dell’umore, nati come anticonvulsivanti, in particolare la lamotrigina, efficace anche nel prevenire le ricadute depressive. Recenti studi hanno evidenziato l’efficacia degli antipsicotici atipici sulla depressione bipolare, con buoni risultati sul controllo del rischio suicidario» spiega Aguglia .
Si può parlare di guarigione? Risponde Aguglia: «Se per almeno due anni si ha una stabilizzazione del tono dell’umore si può andare verso una rarefazione della terapia e pian piano perfino verso una sospensione. Ma per la maggioranza dei pazienti si tratta di cure a vita, anche se alla minima dose di farmaco efficace, perché la patologia può essere tenuta sotto controllo, come nel diabete e nell’ipertensione, non guarita».
«Alla terapia farmacologica, che comprende anche gli antips i c ot i c i a t i pi c i , — r i pr e nde Mencacci — vanno comunque abbinate altre forme di aiuto. Dalla psicoeducazione dei familiari, alla psicoterapia. S’insegna al paziente a conoscere e prevenire le ricadute, sempre dietro l’angolo, a gestire gli stili di vita evitando, per quanto possibile quelle situazioni, come il superlavoro o gli ambienti stressanti, che questi malati patiscono molti più della norma. E, se evitare il problema non è possibile, si aiuta il malato a riconoscere i propri punti deboli, gli eventi per lui più stressanti, affinché si prepari per tempo a gestirli al meglio». «Tenere sotto controllo la bipolarità — conclude Mencacci — vuol dire anche tenere i malati lontani dall’abuso di sostanze varie: dalla cocaina, ai cocktail di stupefacenti, all’alcol che usano come "cura"».