martedì 16 novembre 2010

Repubblica 16.11.10
La Costituzione privatizzata
di Gustavo Zagrebelsky

Alcuni "fantasisti della costituzione" immaginano e auspicano che, dalla situazione d´impasse politica che potrebbe nascere da un voto contraddittorio sulla fiducia al Governo espresso dalla Camera e dal Senato, si possa uscire semplicemente e immediatamente con lo scioglimento di quel ramo del Parlamento (nel nostro caso, la Camera dei Deputati) che ha votato la sfiducia. Ma la Costituzione dice tutt´altro. Purtroppo per il lettore, occorrono riferimenti tecnici. I seguenti.
Secondo l´articolo 94, «il Governo deve avere la fiducia delle due Camere». Se la fiducia viene meno, anche solo in una delle due, deve dimettersi. L´obbligo è tassativo. Solo nell´immaginazione di qualche fantasista della costituzione, si può pensare che nel Governo vi sia chi ragiona così: questa Camera, in questa composizione, mi è ostile, ma forse, in un´altra composizione, non lo sarebbe: dunque non mi dimetto (o mi dimetto solo pro forma, restando per l´intanto in carica), ne chiedo lo scioglimento e mi dimetterò effettivamente, se mai, solo dopo le nuove elezioni, nel caso in cui l´esito non mi sia favorevole. Avremmo così un Governo (non dimissionario) che resta in carica con la fiducia di una sola Camera.
Dopo un esplicito voto di sfiducia di una Camera (irrilevante è che l´altra abbia, prima o dopo, votato la fiducia), il Governo deve dunque «rassegnare» le dimissioni nella mani del Presidente della Repubblica: dimissioni che quest´ultimo non può respingere. Un Governo che restasse in carica contro la volontà del Parlamento (anche solo di una sola Camera), sostenuto dalla volontà del Presidente (quello che nella storia costituzionale si chiama «governo di lotta» antiparlamentare) sarebbe un sovvertimento della Costituzione e della democrazia. Nel solo caso di crisi di governo "extraparlamentare", cioè in assenza di un voto, il Presidente può (o forse deve) rinviare il Governo alle Camere perché si pronuncino sulla fiducia con un voto. Ma se vi è un voto è negativo, le dimissioni non possono essere respinte.
Una volta date le dimissioni, entra in gioco il Presidente della Repubblica, il cui compito non è quello di favorire o di ostacolare i disegni di questo o di quel raggruppamento politico, ma di garantire l´integrità e la funzionalità del sistema. Qui si aprono diverse possibilità. Non c´è una strada obbligata. La scelta non è dettata dall´arbitrio o dal capriccio, ma dipende dal fine costituzionale che è - si ripete - l´integrità e la funzionalità del sistema.
La prima possibilità è la formazione di un nuovo governo che disponga del sostegno della maggioranza in entrambe le Camere. «Prima possibilità» sia in senso temporale, sia in senso logico. Se esiste questa possibilità, da verificare per prima, non deve potersi passare alla seconda, lo scioglimento delle Camere. Sarebbe una prevaricazione politica anticostituzionale sciogliere Camere che siano in condizione d´esprimere maggioranze a sostegno di un governo. La legislatura ha una durata prefissata costituzionalmente, che non può essere accorciata se non quando siano le Camere stesse a darne motivo.
Solo dopo avere constatato l´impossibilità per le Camere di portare a termine la legislatura tramite la formazione d´un nuovo governo, dopo quello dimissionario – constatazione che spetta al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi politici presenti in Parlamento - si apre lo scenario dello scioglimento anticipato e delle nuove elezioni. Solo a questo punto, ove vi si arrivi e non prima, si può porre la questione dello scioglimento di entrambe le Camere o di una sola. Potrà piacere o non piacere, ma è la logica del governo parlamentare che è previsto dalla Costituzione.
Lo scioglimento «anche di una sola Camera», invece che di entrambe, è espressamente previsto dall´art. 88 della Costituzione. Anche qui, dunque, si aprono possibilità, ma anche qui la scelta tra l´una e l´altra non dipende dall´arbitrio o dal desiderio di favorire o danneggiare questa o quella forza politica: deve dipendere, ancora una volta, dall´obbiettivo di garantire imparzialmente l´integrità del sistema. Ora, lo scioglimento della sola Camera che abbia espresso la sfiducia al Governo sarebbe un atto palesemente partigiano, che discrimina tra le due Camere, cioè tra le eventuali diverse maggioranze che esistano nell´una o nell´altra. Sarebbe una sorta di abnorme sanzione costituzionale contro la Camera indocile al Governo e, all´opposto, di avallo politico della Camera docile. Ma la docilità parlamentare non è un valore costituzionale. In effetti, quando tra le due Camere si manifesti un così radicale conflitto politico, non si saprebbe quale delle due sciogliere. Il fatto che vi sia un Governo sostenuto dalla fiducia di una non è un motivo per sciogliere l´altra, se questa è in condizione di sostenerne uno diverso. Una scelta del Presidente tra questa o quella sarebbe palesemente una discriminazione, in un sistema in cui il "bicameralismo" è "paritario".
Inoltre, lo scioglimento di una sola Camera, nelle condizioni date, rischia di contraddire la finalità dello scioglimento, finalità che - si ripete ancora una volta - è l´integrità e la funzionalità del sistema. Che succederebbe se la Camera nella nuova composizione fosse disomogenea rispetto all´altra? Bisognerebbe ricorrere ancora alla scioglimento, ma di quale delle due? O forse di tutte due? Ci si potrebbe permettere di entrare in questo percorso da incubo? Ma, anche l´ipotesi fortunata che le elezioni ristabilissero l´omogeneità non sarebbe senza insolubili problemi. La nuova Camera dovrebbe durare cinque anni, ricreandosi quella sfasatura nel tempo rispetto all´altra, che la riforma costituzionale del 1963 ha inteso eliminare per prevenire i rischi d´instabilità politica – cioè di disintegrazione e d´inefficienza - insiti nell´elezione distanziata nel tempo. Oppure, si dovrebbe pensare che la Camera sciolta una prima volta anticipatamente nasca col destino segnato d´essere sciolta una seconda volta prima della scadenza naturale, in concomitanza con la scadenza dell´altra. Un´evidente aberrazione, contraria alla pari posizione costituzionale delle due Camere.
Eppure, si dirà, la possibilità dello scioglimento d´una Camera e non dell´altra è ben prevista dalla Costituzione. Si, ma è stata pensata quando era stabilita una durata diversa delle due Camere e se ne è sempre e solo fatto uso (nel 1953, nel 1958 e nel 1963; mai dopo l´equiparazione delle durate) per rendere contemporaneo il rinnovo dei due rami del Parlamento, non per il contrario. Cioè, se ne è fatto sempre uso per equipararne, non per differenziarne le durate. Nel contesto originario, lo scioglimento "anche di una sola Camera" serviva dunque alla coerenza del sistema; oggi, servirebbe all´incoerenza.
Si diceva all´inizio dei fantasisti della costituzione. Sono coloro che fondano le loro richieste su una costituzione che, per ora, non c´è: una costituzione nella quale un capo eletto direttamente dal popolo sia autorizzato a passare sopra le prerogative degli altri organi costituzionali per assicurarsi a ogni costo la perduranza del potere. La costituzione che hanno in mente è anch´essa ad personam. La bizzarria della richiesta di scioglimento d´una sola Camera, oltretutto senza passare attraverso vere dimissioni e senza l´esplorazione delle possibilità di formare un diverso governo, si spiega con la speciale e triste condizione costituzionale materiale del nostro Paese. Siamo un Paese dove al governo c´è gente che altrove sarebbe politicamente nulla; dove il Governo è tenuto insieme da un uomo solo e dove questa persona è uno che, per ragioni di natura giudiziaria, per non perdere la protezione di cui gode non può permettersi di allontanarsene nemmeno per un pò, facendosi da parte quando le condizioni politiche generali lo richiederebbero. Come l´ostrica allo scoglio. Gran parte delle perturbazioni istituzionali di questi tempi dipende da questa semplice, abnorme e disonorevole per tutti, condizione in cui viviamo.


l’Unità 16.11.10
Intervista a Anna Finocchiaro
«Un governo di transizione è l’unica soluzione»
di Maria Zegarelli


Anna Finocchiaro, Brunetta e Frattini danno per certa la fiducia sia alla Camera e al Senato. Sicuri nel Pd che riuscirete a mandare a casa Berlusconi? «Alla Camera la fiducia se la possono scordare, al Senato probabilmente la otterranno, anche se lo stato di fragilità e disperazione di Berlusconi non aiuta a mantenere compatte le truppe del Pdl. Tuttavia vorrei ricordare al premier che il governo per restare in carica deve avere la fiducia di entrambe le Camere. Altrimenti andrà a casa».
Franceschini ha scritto a Fini chiedendo il rispetto delle regole sul voto delle mozioni. Una guerra di sfiancamento? «Nel Pdl ci provano, ma come al solito prevarranno la Costituzione e la prassi costituzionale, quindi verrà votata la mozione presentata per prima alla Camera, cioè quella di sfiducia del Pd, poi la loro, di fiducia».
Il Pdl ha pronta la contromossa: vuole chiedere a Napolitano lo scioglimento di una sola Camera. Un’altra forzatura? «Lo scioglimento di una sola Camera è un’ipotesi che non sta in piedi. Dimostra la disperazione di chi la propone che forse finge di dimenticare che quella possibilità è da ricollegare all’origine del Parlamento, quando la durata del Senato era diversa da quella della Camera. Lo scioglimento anticipato di una delle due era uno strumento per poter rendere contestuale l’elezione di entrambi i rami del Parlamento».
Esclude l’ipotesi di un Berlusconi bis?
«Sono convinta che ci siano le condizioni per un nuovo esecutivo con un altro premier, ma questo è un passaggio di cui deve occuparsi il Presidente della Repubblica, alla luce delle consultazioni che farà dopo le dimissioni di Berlusconi. Non spetta al premier decidere quando andare a nuove elezioni».
Finocchiaro, chi ci dovrebbe stare in questo nuovo governo? «Tutte le forze che hanno a cuore i principi della democrazia e che vogliono far voltare pagina al nostro Paese, sia del centrodestra sia del centrosinistra. Il Pd sicuramente». Secondo Rosy Bindi, in caso di elezioni anticipate con questa legge elettorale, il Pd dovrebbe fare un’alleanza anche con Fli. I democratici capirebbero?
«Questa è una valutazione che deve essere oggetto di una discussione nel partito. Rosy ha espresso una sua opinione, a me sembra prematuro parlarne in questo momento».
Ma la questione potrebbe porsi molto presto. Dopo la Finanziaria arriverà la sfiducia alla Camera, salvo nuovi colpi di scena, e se non ci sarà una nuova maggioranza si andrà al voto. «In questo momento siamo impegnati a far sì che la legge di stabilità si approvi in tempi brevi, malgrado la nostra opposizione a quel testo. È un impegno che prendiamo perché il Paese non può essere lasciato in questa palude con la crisi aperta e con comportamenti irresponsabili della maggioranza. Poi, sarà meglio per tutti chiudere questa fase, spero con un governo di transizione».
In questa palude scivola giù il consenso del Pdl ma il Pd non riemerge. Perché, secondo lei? «Perché il danno che ha fatto Berlusconi è drammatico. ha avuto un grande credito di fiducia da parte degli italiani e poi lo ha tradito, creando un enorme disamore nel Paese. Ma noi ci siamo e risaliremo la china».

l’Unità 16.11.10
Bersani. La lista di “sinistra”: con gli occhi dei deboli per un mondo migliore
di Pierluigi Bersani


La sinistra è l’idea che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli, puoi fare davvero un mondo migliore per tutti.
Abbiamo la più bella Costituzione del mondo. La si difende ogni giorno. Il 25 aprile si fa festa.
Nessuno può stare bene da solo. Stai bene se anche gli altri stanno un po’ bene. Se pochi hanno troppo e troppi hanno poco l’economia non gira: l’ingiustizia fa male all’economia.
Ci vuole un mercato che funzioni. Ma ci sono beni che non si possono affidare al mercato: la salute, l’istruzione, la sicurezza.
Il lavoro non è tutto, ma questo può dirlo chi il lavoro ce l’ha. Il lavoro è la dignità di una persona. Sempre. E soprattutto quando hai trent’anni e hai paura di passare la vita in panchina. Ma chiamare flessibilità una vita precaria è un insulto. E un’ora di lavoro precaria non può costare meno di un’ora di lavoro stabile.
Chi non paga le tasse mette le mani nelle tasche chi è più povero di lui; e se 100 euro di un operaio, di un pensionano o di un artigiano pagano di più dei 100 euro di uno speculatore, vuole dire che il mondo è capovolto.
Davanti a un problema di salute non ci può essere né povero né ricco, né calabrese né lombardo né marocchino.
L’insegnante che insegue un ragazzo per tenerlo a scuola è l’eroe dei nostri tempi. Indebolire la scuola pubblica è rubare il futuro ai più deboli.
La condizione della donna è la misura della civiltà di un Paese. Calpestarne la vita è l’umiliazione di un Paese.
Dobbiamo lasciare il pianeta meglio di come l’abbiamo trovato perché non abbiamo il diritto di distruggere quello che non è nostro. E l’energia va risparmiata e rinnovata sgombrando la testa da fanta-piani nucleari.
Il bambino figlio di immigrati che è nato oggi, non è né immigrato né italiano. Dobbiamo dirgli chi è: un italiano.
Se devo morire attaccato per mesi a mille tubi, non può deciderlo il
Parlamento. Perché un uomo resta un uomo con la sua dignità anche nel momento della sofferenza.
C’è un modo per difendere la fede di ciascuno, per garantire le convinzioni di ciascuno, per riconoscere la condizione di ciascuno. Questo modo irrinunciabile si chiama laicità.
Per guidare un’automobile, che è un fatto pubblico, ci vuole la patente, che è un fatto privato. Per governare, che è un fatto pubblico, bisogna essere persone perbene, che è un fatto privato.
Infine chi si ritiene di sinistra, e progressista deve tenere vivo il sogno di un mondo in pace, e combattere contro la pena di morte, la tortura e ogni sopraffazione fisica o morale.
Alla fine, essere progressisti
significa combattere l’aggressività che ci abita dentro; quella del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna, di chi ha potere su chi non ne ha. È prendere la parte di chi ha meno forza e meno voce.

Repubblica 16.11.10
Bersani: "Berlusconi si rassegni, è crisi" ma nel Pd è alta tensione sulle alleanze
D’Alema: coalizione fino a Fli. Gentiloni: no al Nuovo Ulivo
di Giovanna Casadio


Letta: serve una riflessione prima che sia troppo tardi. Oggi la segreteria
Bocchino cauto: intese spurie solo se in emergenza, e noi speriamo che il Paese non ci si trovi

ROMA - «Questa è già la crisi. Berlusconi non vuole intenderla ma gliela faremo capire». Nella giornata dell´addio dei finiani al governo, Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd, dice con soddisfazione che il conto alla rovescia per mandare a casa il premier è iniziato. Crisi «conclamata», tanto che anche il leader dell´Udc, Pier Ferdinando Casini pone al Cavaliere l´aut aut: «O si dimette o presenteremo la mozione di sfiducia». Il "terzo polo" - quello di Casini, Fini, Rutelli e dell´Mpa - è col fiato sul collo del premier.
E già si pensa al "dopo". I Democratici sono in mezzo al guado delle alleanze elettorali. Sotto botta per la sconfitta alle primarie di Milano del loro candidato Stefano Boeri, si scatenano nel partito polemiche e divisioni. Il vice segretario, Enrico Letta sul sito della sua associazione "Trecentosessanta" avverte che è tempo di cambiare per il partito, che ci vuole «una riflessione in profondità, altrimenti sarà troppo tardi». In pratica, alleanze da ripensare. Clima teso tra il segretario e il suo vice. Oggi Bersani riunisce la segreteria e domani ci sarà un incontro dei big, prima dell´assemblea dei gruppi parlamentari. Appuntamenti che hanno due convitati di pietra: Vendola e Fini. Il pendolo delle future alleanze del Pd si muove infatti tra queste due aree, sinistra e centro. Lo stato maggiore dei Democratici - segretario e Rosy Bindi in testa - aprono a «una coalizione democratica ampia», anche con Fini, leader oggi di una destra liberale ma erede del Msi di Almirante. La rilancia ieri al Tg2 Massimo D´Alema, avvertendo che «il rischio maggiore per l´Italia è continuare ad avere un governo che non è in grado di fare nulla perché non ha più maggioranza». Se in pratica, non si riesce a fare il governo di transizione per la riforma elettorale e le misure economiche di emergenza, allora la partita è quella delle alleanze elettorali. E «con Fini - assicura l´ex premier - tante cose importanti ci uniscono per voltare pagina».
In realtà, i finiani stessi sono spaccati su quest´ipotesi. Ci sta Briguglio, non Urso. Italo Bocchino è cauto: «Alleanze spurie solo in caso di emergenza e noi ci auguriamo che l´Italia non si trovi in emergenza». La situazione è tale da dare la stura ai dissensi nelle file democratiche, dove sotto accusa è sia lo strumento delle primarie che gli alleati da privilegiare. Marco Follini si sfoga: «Non voglio che il Pd sia sballottato dalle correnti altrui. La crisi l´hanno fatta soprattutto gli altri, ora noi dobbiamo avere la rotta», e ammette di sentirsi fuori posto se non c´è chiarezza. Beppe Fioroni, leader dei Modem (la minoranza di Veltroni e Gentiloni) è ancora più netto: «Il Pd non faccia come il moscone che sbatte contro la finestra perché vede la luce e spera che qualcuno gli apra per uscire. Basta zig zag. Dobbiamo dire con nettezza che vogliamo l´alleanza al centro con Casini e con Rutelli e, se qualcuno pensa a Fini, anche con Fini. No però al "Nuovo Ulivo" con Vendola e Di Pietro, perché si finisce succubi della sinistra. Non si può fare un´alleanza dal diavolo all´acquasanta». Sulle primarie però, nessun ripensamento: «Sono uno strumento, se non funzionano è la politica che va cambiata». Paolo Gentiloni rincara: «Di fronte alla crisi del governo, non possiamo rassegnarci a uno schema minoritario. No ad essere confinati in una coalizione di sinistra nobilitata dall´espressione "Nuovo Ulivo». Sa bene la stessa Bindi che per il Pd si pone un problema serio se si va alle elezioni con questa legge elettorale perché il pericolo - ragiona - è di lasciare praterie o a sinistra o al centro, strattonati da chi nel partito vuole l´una o l´altra rotta. Critica Emma Bonino, la leader radicale: «Questa è una maionese impazzita, con travalicamenti del premier che dice elezioni solo alla Camera e il Quirinale giustamente gli ricorda di chi sono le competenze. Ma non è adeguato neanche il gioco di inseguirsi sulle mozioni fatto dall´opposizione».

Repubblica 16.11.10
"Un segnale per il centrosinistra non si vince aprendo a Fli"
Vendola: non rinunciamo a noi stessi, consultazioni decisive
di Angelo Aquaro


Sono 15 anni che la sinistra perde perché rinuncia alla propria parte
Milano ha ritrovato la coesione di un paesone. Pisapia ha riassunto quest´anima trasversale
Nessuna cooptazione del campo avverso. Sarebbe ingeneroso nei confronti di Gianfranco Fini

NEW YORK - Nichi Vendola guarda a Milano dalla California e già sogna di ricostruire l´Italia con in mente il modello Puglia. «Io l´ho già fatto, ho già aperto all´alleanza al centro, a chi ci sta a lavorare sui contenuti. Ma nessuna cooptazione del campo avverso. Sarebbe ingeneroso per prima cosa nei confronti di Gianfranco Fini» dice il governatore della Puglia volato a Davis su invito del «collega» Arnold Schwarzenegger per partecipare a una conferenza sull´ambiente. Proprio mentre in Italia i finiani escono dal governo e Giuliano Pisapia vince le primarie di Milano.
Che cosa c´entra la svolta di Milano con l´atteggiamento verso Gianfranco Fini?
«Fini cerca una fuoriuscita da Berlusconi ma per fondare una destra europea laica e moderna. Il segnale che ci arriva da Milano è opposto: è la richiesta di rimettere in campo finalmente la sinistra».
Dica la verità: non se l´aspettava.
«È stata una gara bellissima, tutte candidature importanti, sono contentissimo anche per Valerio Onida. Non conoscevo la città ma Milano è stata splendida, ha ritrovato la coesione di un paesone, sì, un bellissimo paesone. Giuliano Pisapia ha saputo riassumere quest´anima trasversale alle classi, l´avvocato di trincea che diventa avvocato di tutti, l´impegno privato che diventa pubblico, civile».
Un segnale per il paese?
«Un segnale in primo luogo per il centrosinistra. Le primarie si confermano un passo importante, guardiamo al dato quantitativo, la voglia di partecipazione malgrado i seggi limitati, quasi tutti all´aperto, in una giornata per giunta piovosa. Settantamila elettori che si mettono in fila sono una bellissima notizia in tempi di pieno rifiuto della politica, di rigetto di questo spettacolo».
Sarebbe questa la sorpresa? La voglia di sfida e confronto anche a sinistra?
«Sicuramente non sono stato io a esibirmi nel gioco delle interdizioni. A Milano come nel resto d´Italia. Io dico: partiamo dalla crisi, partiamo dai problemi, partiamo dai ghetti, dalle periferie, dai centri sociali. Ripartiamo dai programmi. Lasciamo scegliere la gente».
E che cosa dice Milano all´Italia?
«Dice che il Nord è anche questo, anzi è proprio il Nord a chiedere a voce alta di allargare la platea degli attori fondamentali, mettere in campo risorse nuove, giocare la partita con candidati outsider».
Ma allargare la platea non vuol dire allargare anche gli schieramenti? Perché chiudere preventivamente alle alleanze di centro e di destra?
«Io non ci sto a ragionare seguendo schemi che sembrano furbi e sono soltanto politicisti. Come si fa a non distinguere ciò che è destra da ciò che è sinistra?».
Scusi, ma l´obiettivo principale non è mandare a casa Berlusconi?
«Ma un conto è discutere le regole del gioco, rifare l´architettura istituzionale, discutere il superamento della porcata: è bene che questo accada, è bene trovare punti di equilibrio tra gli schieramenti».
Anche se si dovesse votare ora?
«Sono quindici anni che la sinistra perde perché ha rinunciato alla propria parte. Rimettiamo in campo la sinistra e poi alleiamoci sui contenuti. C´è una generazione da ricostruire, un paese dove bastano 12 ore di pioggia per affondare».
È venuto fin qui in California per parlare proprio di clima: la sua Puglia ha vinto il Premio solare europeo 2010 e il governatore Schwarzenegger le ha regalato questa platea. Come farà a spiegargli quello che sta succedendo in Italia?
«Ci vorrebbe un corso accelerato di psicopatologia della politica italiana. E non so se basterebbe. Ma è quello che stiamo pagando per congedarci finalmente dal berlusconismo».
Ricambierà l´invito? Terminator in Puglia...
«Questo sarebbe già più facile».

Repubblica 16.11.10
La lezione di Pisapia
di Miriam Mafai


Il risultato delle primarie di Milano e le successive dimissioni del gruppo dirigente del Partito democratico possono essere lette come la certificazione della fine di un´epoca.
Finisce l´epoca nella quale erano i partiti a decidere la selezione e la promozione delle rispettive classi dirigenti. Si trattava, generalmente, di partiti fortemente radicati nella realtà del paese, nelle sezioni nei circoli o nelle parrocchie, e quindi in grado di individuare e promuovere gli uomini e le donne più legati ai rispettivi territori, più fidati e più capaci. Con la crisi e la fine della Prima Repubblica questo sistema, che si era andato progressivamente esaurendo o corrompendo, è saltato. Se Berlusconi ha scelto, con la legge elettorale definitiva dai suoi stessi autori il "porcellum", la scorciatoia autoritaria della nomina dall´alto del personale politico di Forza Italia, il Pd ha scelto la strada del tutto innovativa delle primarie. Forse chi ha fatto, a suo tempo, questa scelta inserendola nello Statuto del partito, non ne aveva valutato a pieno le conseguenze e i rischi. O, forse, troppo sicuro della propria autorità aveva immaginato di poterne controllare gli esiti. Ora il risultato delle primarie di Milano obbliga il Pd ad una più attenta riflessione. Non parlo del gruppo dirigente locale, ricco di forze nuove e capaci, che ha già convocato per domenica prossima una assemblea dalla quale è possibile, forse augurabile, ottenga un rinnovo del mandato.
Mi sembrerebbe invece opportuno che una riflessione sulle primarie e il loro svolgimento venisse avviata anche a livello nazionale, prevedendo e fissando nelle sedi opportune alcune regole che finora o non sono state fissate o non sono state rispettate. In particolare vanno fissate regole precise per quanto si riferisce alle cosiddette primarie di coalizione, alle quali partecipano candidati indipendenti o appartenenti ad altri partiti. Quando, ad esempio, in Puglia Nichi Vendola ha vinto le primarie regionali che lo contrapponevano al candidato indicato dal Pd, qualcuno aveva pensato che quel risultato fosse soltanto l´esito di una polemica o controversia locale. Da accantonare o dimenticare. Il risultato di domenica di Milano ci dice che non è così: che il candidato sostenuto dal Pd può venire sconfitto da un candidato diverso, che abbia un suo autonomo radicamento nella società.
C´è da chiedersi anche, a questo punto, se sia stato corretto per il Pd, dal punto di vista politico (e anche, visto l´esito finale, dal punto di vista elettorale) mettere la propria "bandierina" su uno dei candidati, tutti degni di concorrere alle prossime elezioni amministrative. È persino possibile che questa ed altre scelte di carattere organizzativo non abbiano favorito ed anzi abbiano danneggiato Stefano Boeri indicato come il candidato del Pd e Valerio Onida che aveva invano chiesto a suo tempo l´elenco dei partecipanti alle precedenti primarie per poter inviare loro il suo materiale elettorale.
Spetta ora al Pd, anche e soprattutto forse a livello nazionale, esaminare se nella gestione di queste primarie ci siano state insufficienze o errori (che spiegherebbero anche una minore partecipazione degli elettori) e alla fine proporre norme capaci di fare delle primarie una occasione di maggiore libertà degli elettori e non una conferma di appartenenza.
Da ieri sera, comunque, accantonate tutte le polemiche, Giuliano Pisapia è il candidato di tutta la sinistra al Comune di Milano. Il candidato di tutti coloro che sperano di chiudere l´epoca confusa e oscura della gestione Moratti.

l’Unità 16.11.10
Bufera primarie sul Pd. I vertici milanesi rimettono il mandato
Una sconfitta pesante: i vertici milanesi del Pd, che alle primarie hanno sostenuto Boeri, rimettono il mandato e aprono una verifica interna. Analisi del voto: meno del 50% degli elettori Pd ha votato l’architetto.
di Laura Matteucci


Pronti a rimettere il mandato e ad affrontare una riflessione su quella che per il Pd milanese si è tradotta in una doppia sconfitta, provocando una sorta di implosione, una specie di tsunami politico le cui eco sono rimbalzate direttamente a Roma: l’affluenza ai seggi delle primarie di Milano inferiore ai livelli attesi, e la vittoria di Giuliano Pisapia, sostenuto dai partiti e movimenti dell’ala più a sinistra dello schieramento, sul candidato ufficiale del Pd Stefano Boeri. Sull’appoggio a Pisapia nessun tentennamento, come del resto assicura anche il segretario Pierluigi Bersani, che ha parlato della necessità di essere uniti intorno al candidato, di allargare il campo oltre il centrosinistra e di aprire una riflessione sulla partecipazione. Dopo i volti scuri dell’altra sera, la prima posizione ufficiale è arrivata ieri mattina dai vertici locali del Pd, i segretari regionale e cittadino Roberto Cornelli e Francesco Laforgia, e dal capogruppo in Consiglio comunale Pierfrancesco Majorino. Hanno deciso di «mettere a disposizione il mandato», di confrontarsi con gli organi dirigenti e in un’assemblea del partito. «Siamo intenzionati dice Cornelli ad aprire una discussione che dovrà dare i suoi frutti nel giro di una settimana», per «non intralciare la campagna di Pisapia». Discussione che vedrà coinvolto anche il segretario regionale Maurizio Martina. Ma sulla quale il coordinatore nazionale di Sel Claudio Fava avverte: «Rispetto l’autonomia del Pd, ma mi sembrano quantomeno ingenerosi, sia verso il gruppo dirigente sia verso i militanti, gli sviluppi delle primarie: il tema vero non è la sconfitta o meno del Pd, ma la vittoria di un candidato autorevole come Pisapia».
PRIME ANALISI
Che Boeri abbia sofferto dell’appoggio ufficiale del Pd emerge anche dalle prime analisi del voto elaborate da Termometro Politico, la società di ricerche torinese appena nata cui si devono gli unici exit poll (azzeccati) di queste primarie: «A quanto ci risulta spiega Lorenzo Pregliasco, responsabile della ricerca tra gli elettori del Pd meno del 50% ha votato Boeri. L’impressione è che la personalità del candidato non sia stata vista come abbastanza forte da ribaltare il malcontento nei confronti del partito». Tra le caratteristiche personali, avrebbe pesato anche il nodo Expo: gli elettori hanno giudicato Boeri troppo coinvolto in un progetto rispetto al quale sono molto critici. Di contro, «a favore di Pisapia hanno giocato qualità riconosciute di onestà e competenza», spiega Pregliasco. Va aggiunto che la maggior parte dei votanti ha superato i 45 anni, un dato che sembra aver influito negativamente sull’architetto. Anche il segretario provinciale Cornelli ha insistito sulle pregiudiziali che hanno trasformato le consultazioni in un test pro o contro il partito: «Ci è arrivato chiaro un segnale politico dice Evidentemente, sono stati fatti degli errori. In più, ci sono state sparate di giovani settantenni rottamatori», aggiunge riferendosi a Valerio Onida che alle primarie ha avuto il 13,41% dei consensi e che si è più volte espresso criticamente nei confronti del Pd.
Chi cerca di spostare il piano della discussione è invece Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano e ora a capo della segreteria politica di Bersani: «Io non mi attarderei dice a dare una lettura punitiva nei confronti di una forza politica. Superiamo rapidamente questa fase perchè serve il Pd in campo a sostegno di Pisapia per battere la Moratti». «Il punto continua è che queste primarie si sono rivelate una straordinaria prova di democrazia». Quanto alla proposta di Massimo Cacciari di candidare Albertini, «Cacciari è interessato: tende a destabilizzare il Pd affinchè si affianchi a un’operazione terzopolista con Albertini», dice.

l’Unità 16.11.10
E ora si accendono le partite di Torino Bologna e Napoli Ingorgo di candidati
Dopo Milano, luci puntate sulle primarie per i sindaci di Bologna, Torino e Milano. I vendoliani sperano nell’effetto domino, ma ancora non hanno i candidati a Torino e Napoli. Sotto la Mole crescono le chances di Fassino.
di Andrea Carugati


Bologna, Napoli, Torino. Le primarie milanesi accendono i riflettori sulle altre tre sfide che si terranno tra fine gennaio e i primi di febbraio, per scegliere i candidati sindaco del centrosinistra. Su Internet i fan di Vendola sognano un effetto domino, dopo l’inattesa vittoria milanese di Pisapia. Per ora, però, i vendoliani non hanno ancora un loro candidato né a Torino né a Napoli, mentre a Bologna Amelia Frascaroli, ex direttrice della Caritas e ex consigliera comunale del Pd, potrebbe giocarsi la partita, grazie anche alle divisioni nel Pd. Di ieri la notizia del ritiro del preside di Agraria Andrea Segrè, civico su cui puntava larga parte del Pd. Che ora si trova diviso tra due candidati, l’ex segretario Andrea De Maria e l’ex assessore di Cofferati Virginio Merola. Un recente sondaggio realizzato dall’agenzia Dire, indicava proprio Segrè in cima alla lista dei più graditi. Tra i candidati rimasti in corsa, Frascaroli è leggermente in vantaggio sia su De Maria che su Merola. Lo stesso sondaggio rileva un boom di Sinistra e libertà, che passerebbe dal 3 al 12%. Solo sondaggi, naturalmente, ma indicano una tendenza.
«FOLLA» DI PAPABILI A TORINO
A Torino la situazione è ancora più complessa. Il rettore del Politecnico Francesco Profumo sembra sul punto di ritirarsi. Poco convinto dalla corsa alle primarie, si dice. Ma anche chi lo ha sostenuto fortemente, sembra ormai rassegnato: il rettore ha bisogno di tempo per ridisegnare la governance del Politecnico, e i «suoi tempi non coincidono con quelli della politica torinese». Due accademici fuori gioco, dunque. E i politici alzano la mano. L’ex presidente del consiglio regionale Davide Gariglio, area Letta, è stato tra i primi a scendere in campo. Così anche l’assessore alla Casa di Chiamparino Roberto Tricarico. E ancora: il vicepresidente del Consiglio regionale Roberto Placido. Si parla con insistenza anche della candidatura di Giorgio Airaudo, ex leader regionale della Fiom da pochi mesi nella segreteria nazionale delle tute blu Cgil. Immediato il sostegno di Prc e Pdci, mentre Sel per ora sta alla finestra. Su tutti questi nomi aleggia quello di Piero Fassino, che esclude un’autocandidatura, ma è in pista. Un sondaggio realizzato dal Pd torinese certifica che è lui ad avere le maggiori chances di vittoria alle elezioni. E l’ex leader Ds gode anche del sostegno del sindaco uscente Chiamparino.
Anche a Napoli per ora un nome ufficiale dei vendoliani non c’è. Sel sta lavorando alla candidatura del professore universitario ed ex parlamentare Ds Guido De Martino, dopo il forfait del magistrato Raffaele Cantone. In casa Pd ci sono già due candidati: Umberto Ranieri, ex sottosegretario agli Esteri, e attuale responsabile Mezzogiorno del Pd, e l’assessore comunale Nicola Oddati. Ma anche l’europarlamentare Andrea Cozzolino, bassoliniano di ferro, potrebbe candidarsi nei prossimi giorni, e così il Pd arriverebbe a quota tre.

il Fatto 16.11.10
Dalla Puglia a Milano, al Pd piace perdere facile
Le sconfitte dei candidati democratici travolti dall’effetto Vendola
di Luca Telese


 “Effetto-Vendola”, scrivono tutti i giornali, a partire dal Corriere della Sera. E l’effetto Vendola ci deve sicuramente essere, se è vero che ancora una volta il leader di Sinistra e libertà è riuscito a partecipare a una vittoria considerata impossibile, quella di Giuliano Pisapia (“Effetto Pisapia”) alle primarie di Milano. Ma questo ennesimo tracollo ripropone anche un altro problema: quello del Pd come un Re Mida al contrario, che tutto quello che tocca trasforma in metallo povero e trascina alla sconfitta. Dopo la disfatta del suo ultimo candidato, il professor Stefano Boeri, battuto di ben cinque punti nel capoluogo meneghino, il Partito democratico si interroga sullo strano paradosso che lo vuole spesso promotore delle primarie, ma quasi sempre incapace di vincerle.
E dire che i segnali – a Milano come a Bari ieri, a Bologna come a Torino domani – ci sono sempre. Quasi sempre il Pd sceglie i suoi uomini “a prescindere”: li sceglie per esigenze di apparato, per contrappesi di equilibrio interni, egemonici, correntizi, o burocratici. Che garanzie di discontinuità poteva dare “l’archistar” Boeri, l’uomo degli appalti al G8 e il grande mattatore dell’Expò? Poche, almeno sul piano simbolico. Eppure fino a ieri, nessuno nel Pd sembrava ascoltare queste argomentazioni. “Abbiamo sbagliato a sottovalutare questo aspetto – dice oggi il segretario regionale Pierfrancesco Majorino – ma da stasera siamo già ventre a terra per Pisapia”.
Altro paradosso: ieri Claudio Fava numero due di Sel e lo stesso Pisapia erano impegnati a ripetere “Senza il Pd non si vince”, per rassicurare il gruppo dirigente. E così, per ricostruire le ragioni di questa crisi bisogna partire da quello che accadde a Roma.
WALTER VELTRONI e il gruppo di comando del Pd nel 2008 scelsero Francesco Rutelli come possibile primo cittadino della Capitale, per risolvere una grana interna, sanare il vuoto di potere lasciato dalla candidatura di Veltroni, garantire l’establishment economico della città.
Quella volta il partito riuscì a negare le primarie, ma gli elettori le celebrarono nelle urne, con due dati clamorosi: nello stesso giorno l’ex diessino Nicola Zingaretti prendeva più voti vincendo la provincia, e al ballottaggio Alemanno prendeva più voti di Rutelli, soprattutto nei quartieri popolari. A Bari le cose andarono ancora peggio: per due mesi – con l’eccezione di Arturo Parisi – la linea del partito fu: “Niente primarie”, per impedire a Vendola di vincerle. Il principale sostenitore del “niet”, come è noto, era Massimo D’Alema, che in quella campagna mise eroicamente la faccia (e altrettanto eroicamente la perse). A imporre la consultazione non furono gli iscritti di Sinistra e libertà ma quelli dello stesso Pd. Come andò a finire è noto: Vendola sbaragliò il candidato paracadutato da Roma, Francesco Boccia con percentuali bulgare, arrivando a toccare il 73% e a vincere persino senza i soldi raccolti con le consultazioni che il Pd per ripicca non mise a sua disposizione. A Firenze accadde ancora di peggio. Matteo Renzi racconta sempre che la spinta decisiva gliela diede Massimo D’Alema, con un invito sarcastico: “Se uno vuole essere eletto si candida e cerca i voti”. Detto fatto, Renzi prese la palla al balzo: e si trovò a correre contro tre candidati che erano altrettanto marziani. Una era l’espressione dell’assessore Cioni (bloccato da una inchiesta), l’altro era l’uomo di D’Alema (Michele Ventura), e l’ultimo (il candidato ufficiale della segreteria) Lapo Pistelli, un simpaticissimo figlio d’arte, che però era espressione della corrente (allora esisteva ancora) Veltroni-Franceschini.
ANCHE A TARANTO , il medico Ippazio Stefàno, già amatissimo parlamentare del Pci (altro pupillo di Vendola) aveva sbaragliato il concorrente designato dalla segreteria: Giovanni Florido. In tutti questi casi il paradosso più grottesco era stato che gli sconfitti avevano vaticinato una immancabile sconfitta dei vincitori, sostenendo che si trattava di leader troppo radicali.
Se scomponete e ricomponete queste storie, scoprite che ci sono delle costanti che si ripetono con allarmante regolarità. La prima è l’illusione di quel gruppo dirigente che gli elettori, se insistono, alla fine si arrenderanno alla forza degli apparati (accade regolarmente il contrario). La seconda è la sovrastima del peso degli apparati sugli elettori. La terza è la drastica distanza di questi apparati dagli umori reali dell’opinione pubblica.
A Bologna, se possibile, la situazione è ancora più complicata, e un sondaggio pubblicato la settimana scorsa dall’agenzia “Dire” ha avuto l’effetto di un detonatore. L’apparato del Pd aveva già opposto una resistenza strenua al suo uomo più popolare (che pure ha la tessera) Maurizio Cevenini. E poi, quando i suoi improvvisi guai cardiaci hanno ridestato il desidero dei notabili, si è prodotto il patatrac. Ancora la settimana scorsa, per esempio, c’era un candidato, di area, molto popolare e stimato, il professor Andrea Segrè, preside di agraria, indicato in testa dalle rilevazioni. Ma Segrè era un esponente della società civile, non controllabile da nessuno e gli apparati del Pd lo hanno accolto con tale freddezza che l’interessato ha gettato la spugna: “Non corro più”. Così, l‘unica alternativa ai tre uomini di area Pd, (fra cui il vero capo del partito, Andrea De Maria) resta la cattolica progressista Amelia Frascaroli, seconda nei sondaggi, sitmatissima. E chi viene a sostenere, il 25 novembre Vendola, non appena tornato dall’America? Proprio lei. Il bello è che la strategia delle primarie Vendola l’aveva nella testa fin dal congresso delle fabbriche in Puglia, quando le sue sembravano fantasie ottimistiche: “A Milano vincerà Pisapia, a Roma vincerò io”. Intanto, lo stesso sondaggio della Dire, cita un dato sconvolgente: Sel sarebbe al 13.5% all’ombra delle due torri. Fino a ieri incredibile. Oggi, dopo Milano, possibile.


Corriere della Sera 16.11.10
L’incubo Vendola tormenta i democratici Torna la tentazione di cestinare le primarie
di Maria Teresa Meli


Gli ultimi sondaggi danno una coalizione solo «rossa» al 44% ma non rallegrano il Pd
ROMA — Sulla carta, anzi, per meglio dire, sui fogli dell’ultimo sondaggio in possesso di Pier Luigi Bersani, il centrosinistra ha tutte le possibilità di vincere le elezioni. Il Pd è intorno al 24 per cento, la Sel di Vendola al 7, Italia dei Valori all’8, i grillini si aggirano intorno al 3 e Rifondazione supera di un soffio il 2. Insomma, uno schieramento che si attesta al 44 per cento.
Ma i numeri sono una cosa, la politica un’altra. Per questa ragione, invece di rallegrarsi per l’ultimo sondaggio, al Pd va in scena il rito dell’autoflagellazione. Colpa dell’esito delle primarie di Milano. Che hanno riaperto una prospettiva che il Partito democratico vive come un incubo. La vittoria di Pisapia potrebbe essere foriera di un’altra vittoria, alle primarie nazionali: quella di Vendola. Che fare? I leader del Pd si interrogano, con un filo d’ansia. E si fa strada l’ipotesi di archiviare questo strumento. Il segretario ragiona così: «A Milano ci si aspettava una maggiore partecipazione e questo pone una questione di motivazione del nostro elettorato sul meccanismo delle primarie, che non va trascurato, a Milano e altrove». Già, anche altrove, perché a Bologna, per esempio, dove al momento il Pd è senza candidati, Sel intende far scendere in campo un proprio rappresentante.
E a questo punto si torna ai numeri. A quelli dell’ultimo sondaggio commissionato dal Pd. I quali, è vero, raccontano di una vittoria possibile, ma rivelano anche che i movimenti della sinistra tutti insieme superano di poco il 20 per cento, e, quindi, se la giocano ormai alla pari con il Pd. Alleati indispensabili, visto che, al di là delle dichiarazioni pubbliche, degli appelli a Fini e Casini, alle elezioni si andrà con tre poli. Alleati ingombranti, che inquietano una gran parte della classe dirigente Pd. Dice Enrico Letta: «Il voto milanese disegna scenari sui quali sarà bene riflettere in profondità prima che sia troppo tardi». Il bersaglio del vice segretario del Partito democratico è Vendola: se non ci si pone un freno sarà il governatore della Puglia a menare le danze nello schieramento. Ma qual è il freno? Abolire le primarie, innanzitutto. Anche se non si può dire così esplicitamente. O, almeno, non tutti lo possono dire con chiarezza. Lo può fare Francesco Boccia, braccio destro di Letta: «Ormai sono diventate un regolamento di conti tra ex Pci». Lo può sostenere Marco Follini: «Il culto delle primarie rischia di trasformare il Pd in un campo di battaglia per le scorrerie di tutti gli altri». E lo dice, a sorpresa, il senatore veltroniano Stefano Ceccanti: «Il Pd è diventato un partito di sinistra, e allora è inutile fare le primarie perché quasi sempre vincerà un candidato minoritario». Non può essere esplicita, invece, Rosy Bindi, che del Partito democratico è la presidente: «Dobbiamo avviare una seria riflessione sullo strumento delle primarie, non per depotenziarlo ma per restituirlo alla sua funzione».
Di «seria riflessione» in «seria riflessione», al Pd si studia come aggirare le primarie, che Parisi difende invece a spada tratta. Difficile evitarle. Vendola le vuole assolutamente: sono la condizione per l’alleanza con il Partito democratico. E Bersani gliele ha promesse nell’incontro conviviale di qualche tempo fa. Arduo rimangiarsi la parola data. A sinistra, però, non si fidano. Figuriamoci, già prima non erano convinti delle mosse del Pd, come dimostra un’intervista di Franco Giordano al manifesto, in cui mette in guardia il Partito democratico: sulle primarie nessun ripensamento.
Ma le primarie, per molti, sono un falso problema. Spiega il dalemiano Matteo Orfini: «La questione è politica, che c’entrano le primarie? A Milano ha vinto il candidato che aveva un profilo più netto, ragioniamo piuttosto su questo». E ragionare vorrebbero i 75. Il problema, secondo loro, è che il Pd si è ridotto in uno «schema minoritario», per dirla con Paolo Gentiloni. E Beppe Fioroni, drastico: «Se facciamo il partito di sinistra, poi gli elettori preferiscono l’originale: Pisapia o Vendola». Walter Veltroni è amaro: «Si sono confermate le mie preoccupazioni». Ossia, spiega Giorgio Tonini, «quelle che ci hanno spinto a scrivere il Manifesto del nostro movimento: un Pd che rinuncia a parlare all’intera società italiana e si stringe in una dimensione esclusivamente di sinistra rischia di non fare il suo mestiere». Il dibattito continuerà. E aggirarlo è difficile.

l’Unità 16.11.10
Immigrati: una alleanza per i diritti
Il caso Brescia e le norme sbagliate
di Livia Turco


L’incolumità dei ragazzi che da 15 giorni sono su una gru a Brescia, è il bene che deve guidare le istituzioni coinvolte in questa vicenda. Per questo, ancora una volta, ci rivolgiamo al prefetto e al questore affinché convincano i ragazzi a scendere. Condanniamo senza esitazione ogni forma di violenza e ci auguriamo che coloro che vogliono bene a quei ragazzi sappiano scegliere le giuste modalità di azione. Non bisogna però eludere il problema, che è quello indicato in modo brutale dal ministro Maroni traendo la conclusione che nulla si può fare e che quei ragazzi devono solo rispettare la legge che non prevede la loro regolarizzazione. Le leggi vanno sempre rispettate. Ma questo non significa chiudere gli occhi quando esse si dimostrano inefficaci o addirittura provocano problemi. È il caso della norma sulla regolarizzazione di colf e badanti e non dei lavoratori dell’edilizia, dell’agricoltura e del manifatturiero dove, per colpa della Bossi-Fini e per la chiusura delle quote di ingressi regolari, si è sedimentato molto lavoro nero. Bisogna cambiare subito la norma sulle regolarizzazioni ed estenderla anche a questi settori lavorativi come prevede una nostra proposta di legge. Brescia è solo la spia di un disagio profondo che colpisce i lavoratori e le imprese. Per questo bisogna agire subito. Bisogna utilizzare l’art. 18 della legge sull’immigrazione voluto dal centrosinistra che prevede un permesso di soggiorno umanitario per chi denuncia i propri sfruttatori. Il governo deve prendere atto che le sue norme sull’ingresso per lavoro sono profondamente inefficaci. Ci riferiamo ai 6 mesi di tempo concessi a chi perde il lavoro per trovarne un altro, pena l’espulsione (Bossi-Fini), alla farraginosità per trovare un lavoro attraverso la chiamata nominativa (Bossi-Fini), il blocco dell’ingresso regolare dal 2009 sulla base della parola d’ordine ‘prima gli italiani’ usando così la crisi economica per giocare una partita ideologica sulla pelle dei deboli che penalizza anche le imprese. È noto che gli immigrati sono il grande serbatoio dei lavori più dequalificati e meno pagati che gli italiani non vogliono fare, neanche in tempi di crisi. Regolarizzazione mirata ai settori produttivi con alto tasso di lavoro nero, estensione anche agli immigrati degli ammortizzatori sociali, lotta allo sfruttamento, estensione del tempo per la ricerca di un nuovo lavoro, riapertura dell’ingresso regolare per lavoro: sono questi i punti di una piattaforma per la dignità e la legalità del lavoro, per costruire una alleanza tra immigrati e italiani. Una alleanza per costruire una Italia migliore.

il Fatto 16.11.10
Dramma nel dramma: cittadini stranieri nelle carceri italiane


Ormai da tempo si parla di sovraffollamento nelle carceri italiane e su un totale di 69mila detenuti, circa il 38%, è composto da stranieri. Per una persona immigrata la difficile realtà detentiva viene resa ancora più gravosa da una preoccupazione: quella dei documenti. Infatti, nonostante sia possibile rinnovare il permesso di soggiorno anche in carcere, questa procedura non avviene mai né automaticamente né facilmente. E così molti, una volta fuori, si ritrovano senza alcuna garanzia di un lavoro, di un’abitazione, di una condizione regolare. In una situazione, a volte, anche peggiore di quella iniziale. Qui di seguito un brano di una testimonianza assai significativa sulla questione: «Il giorno del mio fine pena, viene a prendermi in carcere la polizia che mi trattiene in Questura fino a sera. (...) Un ispettore gentile, dopo molte telefonate, mi dà un foglio dove c’è scritto che ho 15 giorni per andarmene dall’Italia, da solo. Mi dice anche che il permesso di soggiorno è scaduto mentre ero in carcere e che non risulta che abbia chiesto la sanatoria. Ma anche se il permesso fosse stato ancora valido, avrei dovuto lo stesso andare via, perché ho l’espulsione in sentenza (...). Non ci capisco niente. E poi, se sapevano che avevo l’espulsione perché l’assistente sociale e l’educatrice mi hanno anche cercato lavoro (vabbè che non l’hanno trovato) senza dirmi che prima dovevo chiedere la revoca dell’espulsione? Capisco solo che per 15 giorni sono autorizzato a rimanere in Italia: per trovare un lavoro, un alloggio, un permesso di soggiorno, una cosa da niente per un ex detenuto, ex tossicodipendente, extracomunitario». Tratto da Storie e testimonianze dal carcere, dal sito ristrettiorizzonti.it.

l’Unità 16.11.10
Libia, eritrei ancora all’inferno: «Abbiamo paura, l’Italia ci aiuti»
di Umberto De Giovannangeli


In trappola Permessi scaduti per gli oltre 200 immigrati deportati dai libici tre mesi fa
La testimonianza di Don Mussie Zerai: «Li ho sentiti, vivono braccati». Chiuso l’ufficio Onu
Braccati. In clandestinità. Si appellano all’Italia. «Salvateci». L’Unità riapre il caso degli oltre duecento eritrei che erano stati segregati questa estate nei lager libici. Oggi tornano a reclamare giustizia...

Braccati. In clandestinità. Non possono tornare indietro. Se cercano la fuga verso l’Egitto rischiano di morire nel deserto o essere sparati dalle guardie di frontiera egiziane. Dimenticati. Senza speranza né diritti. Sono ancora lì. Vivono alla giornata cercando di non farsi beccare dalla polizia. Invocano l’intervento dell’Italia. Inutilmente. Sono gli oltre duecento eritrei che nell’estate scorsa erano stati segregati per giorni nei lager libici e poi rimessi in «libertà» dopo una campagna di stampa internazionale che aveva costretto le autorità libiche ad allentare la presa. In quei giorni drammatici, l’Unità documentò le violenze e gli abusi che gi oltre duecento eritrei subirono nel carcere di Misratah e nel centro di detenzione di Brak vicino Seba, nel sud della Libia. Sono passati più di tre mesi da quei giorni e sulla vicenda degli ex segregati di Brak è calato il silenzio. Un silenzio pesante. Un silenzio complice. Un silenzio che l’Unità ha inteso spezzare, con la collaborazione di un sacerdote coraggioso: Don Mussie Zerai, eritreo, responsabile dell’ong Habesha, un’associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani.
BRACCATI
«Li ho sentiti per telefono ieri racconta il sacerdote missionario -. Erano disperati. Si sentono abbandonati al loro destino. La loro richiesta all’Italia è sempre la stessa: attivare un piano di reinsediamento». Vivono di espedienti. A far loro compagnia è la paura. Paura di essere fermati in una delle retate organizzate dalle forze di polizia libiche. Il permesso rilasciato loro dalle autorità libiche è scaduto da diversi giorni. «Per ottenere un nuovo permesso spiega a l’Unità Don Zerai devono presentare documenti che vengono rilasciati dall’Ambasciata eritrea, il Paese dal quale sono fuggiti».
CLANDESTINI A FORZA
«Ognuno di loro rimarca Don Zerai ha i requisiti per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiati, ma non hanno avuto la possibilità di far valere le loro ragioni». Pochi giorni fa, il 9 novembre, la Camera dei deputati ha votato un emendamento al Trattato Italia-Libia presentato dal Radicale Pd Matteo Mecacci che chiedeva all’esecutivo di «sollecitare
con forza le autorità di Tripoli affinché ratifichino la Convenzioni Onu sui rifugiati e riaprano l’ufficio dell’Unhcr a Tripoli (chiuso lo scorso 8 giugno, ndr) quale premessa per continuare le politiche dei respingimenti dei migranti in Libia». Quel voto vincola il Governo all’azione. La realtà è ben altra. Quei disperati, racconta Don Zerai, non possono avvicinarsi all’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati di Tripoli perché rischierebbero di essere fermati dai militari che stazionano fuori dell’ufficio. Essere fermati comporterebbe l’arreso immediato e finire in un carcere con criminali comuni. Per il Governo italiano la «pratica» resta chiusa. Alla faccia del pronunciamento parlamentare. Quei duecento rischiano di fare la stessa fine di di sedici ragazzi e cinque ragazze di nazionalità eritrea, tutti profughi, prelevati dalle autorità libiche dalle loro abitazioni nella città di Bengasi, nella notte dello scorso tre settembre: «I ragazzi ricorda Don Zerai mi raccontarono di essere stati messi assieme a persone che hanno commesso reati quali omicidi, stupri, spaccio di droga...Trattati alla stregua di criminali comuni». Questo avveniva nel centro di detenzione di Algedya, mentre le cinque ragazze erano state condotte nel carcere di Kuifia, nei pressi di Bengasi. Anche della loro sorte non se ne sa più niente. «La soluzione per noi insiste il responsabile di Habesha continua a rimanere quella di avviare un programma di reinsediamento. Per tutti i rifugiati e i richiedenti asilo che sono in Libia, l’unica soluzione vera è di essere reinsediati in un Paese che garantisce i loro diritti. È quello che continuano a chiedere: vogliamo essere accolti in un Paese democratico che rispetta i nostri diritti di richiedenti asilo e di rifugiati».
Quello del Governo italiano è un silenzio vergognoso. Tanto più alla luce degli impegni chiesti dal Parlamento. Un silenzio imbarazzato e ingiustificabile, reso ancor più grave dopo la raffica di no «sparata» dalla Libia nei giorni scorsi in sede Onu. Tripoli ha rifiutato di adottare una legislazione sull’asilo a tutela degli immigrati, di ratificare la Convenzione Onu sui rifugiati e continua a respingere un’intesa sulla presenza dell’Unhcr nel Paese. «Lo schiaffo della Libia all’Onu rende sempre più grande il problema politico e l’imbarazzo del governo Berlusconi per i suoi rapporti acritici con il Paese di Gheddafi», osserva Sandro Gozi, capogruppo Pd nella commissione Politiche Ue di Montecitorio. L’eco di quel voto è giunto ai duecento «desaparecidos» eritrei, alimentando una speranza. Che non va uccisa.

il Fatto 16.11.10
I fantasmi dell’ambasciata
Somali senza patria né casa
Migranti cacciati (e tornati) nel cuore di Roma
di Emanuele Piano


Notte fra giovedì e venerdì della settimana scorsa. È all'incirca mezzanotte in Via dei Villini a Roma, placido quartiere di ambasciate e consolati. A turbarne la tranquillità i lampeggianti, le camionette e gli agenti delle forze dell'ordine in assetto anti-sommossa per un'operazione antidroga. Con caschi, scudi e manganelli i poliziotti fanno ingresso in un edificio sede dell'ex ambasciata somala in Italia. Da anni è noto che lo stabile è l'unica casa rimasta alle decine di somali con asilo politico lasciati senza alcuna assistenza dal governo italiano. Le forze dell'ordine mandano avanti i cani e, secondo i testimoni, non esitano a svegliare gli occupanti dello stabile a colpi di manganello e di epiteti come “negro di merda”. Gli agenti forse pensavano che nessuno parlasse italiano – visto che nemmeno un interprete è stato associato all'operazione – ma lì dentro c'era gente che in Italia c'è nata, vi è stata adottata o ci vive da 20 anni. Ad un ragazzo è stato rotto un dente e ad un altro il naso nonostante nessuno abbia opposto resistenza. “E' stata una nostra scelta non opporci alla polizia”. I testimoni parlano di porte buttate giù, di documenti e passaporti diplomatici presenti all'interno dell'ambasciata prelevati dagli agenti e di quasi duecento persone caricate sui pullman con destinazione la Questura. Anche la vecchia targa con l'indicazione dell'ambasciata della Repubblica democratica somala è stata staccata dalle forze dell'ordine. Della droga, che avrebbe giustificato il blitz all'interno dello stabile sino al 2008 riconosciuto come sede diplomatica dal nostro Ministero Affari Esteri, nessuna traccia. Gli accertamenti sui fermati hanno invece dato un esito scontato: tutti erano rifugiati con regolare permesso di soggiorno.
C'era una volta la Somalia, Paese del Corno d'Africa ed ex-colonia italiana. Una guerra civile fratricida in 20 anni è riuscita a disintegrare uno Stato e le sue istituzioni. Le macerie della capitale Mogadiscio, ridotta alla stregua di quei film post-olocausto nucleare, sono l'emblema di un popolo in fuga dalla propria rovina. Una guerra che porta via amici, figli e parenti, che ti porta ad abbracciare un fucile per scelta o mancanza di essa e che infine di detta la via del deserto. Per il Sudan, il Sahara e la Libia. Una barca di fortuna, il mare e l'approdo in Italia. L'asilo politico concesso con facilità e poi il nulla. Nessun sostegno al reddito, nessuna casa, niente. Il passaggio obbligato per tutti i somali diventa quindi l'unico lascito del governo che fu: l'ex ambasciata somala a Via dei Villini.
“Tutti a guardare, nessuno ad aiutare”
AL CANCELLO non ci fanno entrare. Due ragazzi escono con tono minaccioso. Ce l'hanno con i giornalisti dediti al pellegrinaggio della loro miseria. “Tutti vogliono entrare a vedere, ma poi nessuno ci viene ad aiutare”. Non è aria e non è difficile capire perché. Basta navigare su internet per scorgere una realtà di totale degrado. Senza acqua, né luce. Materassi accatastati uno a fianco all'altro in condizioni igieniche disastrose. Trecento persone ammassate al freddo senza riscaldamento e senza servizi sanitari. Nessuna traccia di organizzazioni umanitarie, del Comune di Roma o delle Nazioni Unite. Il risentimento è tanto ed è molto comprensibile. Ci spostiamo a Stazione Termini, diventata ormai un Corno d'Africa in miniatura. Decine di somali, eritrei ed etiopi affollano i portici, le strade ed i piccoli internet point da dove inviano le rimesse a casa. E' qui che incontriamo i ragazzi dell'ambasciata somala. Abderisaq ha una ventina d'anni. Da grande vuole fare il regista ed è venuto in Italia per studiare ed avere una vita migliore, "ma nessuno ci aiuta. Vorrei studiare l'italiano, andare a scuola ed invece sono lasciato in mezzo ad una strada". Come per tutti gli altri, il viaggio verso l'Europa è stato un incubo. "Eravamo 820 somali in un solo carcere libico. I libici ci dicevano di non continuare il viaggio nella terra degli infedeli. Un giorno abbiamo deciso di tentare in massa la fuga. Abbiamo cominciato a correre verso il deserto e i poliziotti hanno cominciato a sparare...". L'obiettivo di Abderisaq, come di tutti gli altri somali arrivati in Italia, è quello di continuare il viaggio verso un altro Paese europeo. Regno Unito, Svezia, Olanda, Norvegia... purché non sia l'Italia. Ci sono però poi i controlli alla frontiera, il registro delle impronte digitali e un governo, quello italiano, che si dice sempre disposto a riprendersi i rifugiati. Senza però specificare che quello che altrove è la norma – una casa, un assegno mensile, la scuola per imparare una nuova lingua ecc. – da noi è pura e semplice utopia.
Tentativi di rifarsi una vita in Europa
ANCHE HUSSEIN ha provato a restare in Svezia. Da sotto i suoi baffetti incipienti da adolescente risuonano parole in svedese ed in uno stentato inglese. Il fisico minuto e la voce flebile sono quelli di un ragazzino che tra tre mesi compierà 17 anni. Arrivato in Italia due anni fa ha proseguito il proprio viaggio verso Stoccolma. Una casa, un assegno di 700 euro mensili e l'iscrizione ai corsi di svedese. Ma non è durata molto la felicità. Le impronte digitali lo hanno tradito. In Svezia sono venuti a prelevarlo a scuola. Non gli hanno dato nemmeno la possibilità di andare a prendere i propri documenti ed è stato messo su un aereo diretto a Roma. Oggi è rimasto senza alcun documento. Hussein però è un minorenne bugiardo. All'arrivo a Lampedusa – sotto consiglio di cattivi maestri – ha mentito sulla propria reale età. "Mi avevano detto gli altri somali che così sarei stato più libero di continuare a viaggiare in Europa. Ho detto di avere 21 anni". Questa bugia gli è costata la mancata assegnazione ai servizi sociali per i migranti minorenni ed un trattamento da adulto per chi adulto non è. Come lui almeno altri quattro bambini vivono nell'ex ambasciata somala.
Chi si è stancato è invece Abdullahi. Arrivato all'aeroporto di Fiumicino con un visto falso comprato per un paio di migliaia di dollari è finito anche lui nel calderone di Via dei Villini. "Sono decine i somali che sono in Italia anche da 20 o 30 anni. Tutti sono finiti a stazione Termini a sprecare le proprie giornate ad ubriacarsi perché hanno perso ogni speranza. Io non voglio fare la stessa fine". Anche Abdullahi ha viaggiato per l'Europa alla ricerca di una sistemazione migliore dell'Italia, ma è sempre stato rispedito al mittente dopo pochi mesi. "Non ho lasciato la mia famiglia in Somalia per questo degrado. Appena avrò un po' più di soldi tornerò a casa dai miei figli".
Dopo essere stati rilasciati dalla Questura i somali sono tornati a dormire sui cartoni accanto al muro di cinta della loro unica casa. Nessuno dal Comune gli ha offerto un alloggio alternativo ed anche la Polizia ha abbandonato il presidio davanti allo stabile occupato. I somali si sono ripresi la loro ambasciata.

Repubblica 16.11.10
Tutti i Mohammed  d’Europa
Ecco la rivoluzione nelle anagrafi del Vecchio Continente: oltre un terzo dei nomi iscritti oggi sono figli degli immigrati
di Anais Ginori


L´avanzata dei Mohammed in Europa è un fenomeno che riguarda quasi tutti i Paesi e riflette il cambiamento della società. Il crescere dei nuovi flussi migratori aiuta a combattere il crollo della natalità. Ma racconta anche la difficoltà dell´integrazione di culture diverse In Francia un bimbo di nome Islam è stato escluso da un gioco a premi televisivo L´onomastica anticipa le mutazioni sociologiche di una nazione Gli immigrati di terza generazione chiamano i figli secondo la cultura d´origine

«Pronto sono Mohammed, anzi volevo dire Alexandre». La crisi di identità è un effetto collaterale da mettere in conto quando sei un ragazzo francese con un nome "strano" e lavori in un call center. «Per vendere al telefono, il tuo nome non va bene» gli aveva detto il direttore dell´azienda. Mohammed, 19 anni, nato a Parigi da genitori marocchini, ha accettato di fingersi Alexandre per qualche settimana. Poi, un giorno, ha deciso di sporgere denuncia per discriminazione. Ma Mohammed e tutti quelli che si chiamano come il Profeta hanno già vinto, è solo questione di tempo. Il suo nome è tra quelli più diffusi in molte parti d´Europa, una corsa inarrestabile. I nuovi nati che si chiamano così sono i più numerosi in città a forte immigrazione come Marsiglia, Bruxelles e Oslo, sono primi anche in Inghilterra e nel Galles, dove hanno superato i classici Oliver e Harry. Nomen omen. Il nome è il presagio, dicevano i latini. Non vale solo per le persone. L´avanzata dei Mohammed d´Europa ci racconta dell´importanza dei flussi migratori nel combattere la denatalità del vecchio continente, e delle difficoltà dell´integrazione di nuove culture, come dimostra il caso dello studente francese.
Qualche mese fa, un bambino di nome Islam è stato escluso dalla selezione di un gioco a premi televisivo, fino a quando la famiglia non ha protestato e i dirigenti del canale si sono dovuti scusare. Molte aziende francesi chiedono curriculum rigorosamente anonimi, proprio per non rischiare discriminazioni. La tendenza al melting pot dei nomi è comunque in aumento. Mentre gli immigrati degli anni Sessanta volevano integrarsi a tutti i costi, e tendevano a dare ai loro figli nomi occidentali, quelli di seconda o terza generazione preferiscono farsi chiamare secondo la loro cultura d´origine.
Da secoli ormai, la scienza dei nomi propri, l´onomastica, anticipa e riflette il cambiamento delle società. I nomi viaggiano insieme ai popoli, vengono modificati oppure riadattati, alcuni nascono e muoiono con le mode, altri si tramandano nei secoli e sono in qualche modo inossidabili. Ogni lingua e ogni nazione ha un repertorio proprio, formato dagli strati linguistici che si sono sovrapposti e incrociati nel tempo. In Europa l´influsso del latino e del cristianesimo, e del greco attraverso l´uno e l´altro, ha costruito un´onomastica comune. A scorrere le classifiche dei nomi più usati nei diversi paesi dell´Ue si nota infatti che le mode corrono parallele e almeno su questo aspetto, il processo di unificazione del continente procede spedito. Se la diffusione di Mohammed non conosce confini europei, i suoi corrispettivi femminili sono Sofia ed Emma, che dominano in Belgio, Spagna, Francia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Olanda, Svezia, Germania.
L´immigrazione, insomma, non spiega da sola la vita (e la morte) dei nomi. «Il punto è stabilire quando un nome è straniero» osserva Enzo Caffarelli, direttore della Rivista Italiana di Onomastica. «Già nella Roma antica si usavano nomi greci in omaggio al prestigio di quella cultura, e nell´Alto Medioevo chi parlava ancora latino assumeva nomi longobardi, ostrogoti e franchi, mescolandosi agli occupatori germanici». Ci abitueremo anche a Mohammed, come in passato abbiamo addomesticato tanti altri nomi. Persino Giuseppe, nome del quale oggi in molti lamentano la progressiva scomparsa, è stato per molti secoli un nome raro e dunque guardato con sospetto. Fino al Concilio di Trento, era concentrato soprattutto nelle comunità ebraiche. «Fu la Chiesa a suggerirlo con forza ai parroci e alle famiglie». Il nome Sara ha incominciato a diffondersi a partire dagli anni Settanta, per via delle influenze americane, dove i protestanti hanno mantenuto, rilanciato e diffuso un gran numero di nomi biblici. Oggi le Sara d´Italia hanno almeno 50 nazionalità diverse: un record. «Molte famiglie di immigrati scelgono infatti nomi italiani» racconta Caffarelli. Tra i 50mila bambini di nazionalità straniera che nascono ogni anno in Italia ci sono molte Alessia, Giulia e Maria, così come Alessandro, Matteo, Marco e Francesco. «Gli stranieri - aggiunge Caffarelli che è anche coordinatore scientifico del Laboratorio Internazionale di Onomastica dell´Università di Roma 2 Tor Vergata - sono portatori di nomi doppi e tripli, per rendere omaggio contemporaneamente alle mode internazionali, alla lingua, religione e agli usi italiani».
L´Istat ha contato circa 4mila nomi differenti. Il nostro repertorio, eredità di una storia di antiche invasioni e dominazioni, è diventato tra i più ricchi nei paesi occidentali, formato da lingue italiche, latino, greco antico e bizantino, longobardo e franco, normanno, catalano, francese. Oggi non bastano 700 nomi per arrivare al 70% della popolazione. «La miopia ci induce a credere che, spariti centinaia di nomi del passato, oggi il repertorio si sia impoverito. Ma nel Trecento o nel Settecento - spiega lo studioso - erano meno di oggi». Nei repertori medievali spesso bastavano 4 o 5 nomi per la metà di una popolazione. Maria o Giovanni potevano arrivare, da soli, fino a un quarto o a un terzo del totale. Oggi per superare il 33% dei nati in un anno bisogna sommare 14 nomi maschili e 17 femminili. Altra particolarità, da noi i nomi di tradizione italiana resistono più che altrove. «Il celtico Kevin non è mai stato tra i primi cinquanta, in Francia è invece arrivato al primo posto» osserva Caffarelli.
Ma attenzione alle facili conclusioni. Le piccole Greta, sempre di più in Italia, non risultano ai primi posti in nessun altro paese europeo, nonostante sia un nome di origine scandinava. I bambini italiani chiamati invece Christian, Gabriele o Riccardo, non trovano riscontri all´estero. «Né è plausibile che l´attuale numero uno nel mondo occidentale possa avere riflessi significativi in Italia: si tratta di Jack». Secondo Caffarelli si può invece prevedere l´arrivo anche da noi dei francesi Léo e Léa, Chloé e di Arthur. Nomi più classici e a rischio desuetudine come Giuseppe o Maria potrebbero invece presto tornare d´attualità in casa nostra, sulla scia di quanto sta accadendo nei paesi dell´Europa centro-settentrionale.
Piaccia o non piaccia, ma il nome è suscettibile alle mode, come un capo d´abbigliamento. «E´ chiaro che se uno si chiama Irish o JR è perché i suoi genitori hanno ascoltato la canzone dei New Trolls o visto la serie Dallas - osserva Caffarelli - ma non si può certo parlare davvero di un fenomeno di massa. E comunque neanche questa è una novità». Prima di tv e cinema c´era il teatro, soprattutto quello lirico, c´era la devozione per i santi patroni, i nomi patriottici risorgimentali, quelli anarchici o socialisti, quelli ideologici fascisti. L´onomastica, comunque, segue alcune regole intramontabili. Per le donne, ad esempio, le scelte sono sempre più varie e numerose, a qualsiasi secolo e luogo. Esiste, poi, quella che viene definita la "carriera sociale" dei nomi di maggior successo. La diffusione è prima lenta, cresce rapidamente quando diventa un "nome associato a bambino", tocca quindi il vertice della parabola, per iniziare la fase discendente fino a scomparire quasi del tutto, perché avvertito fuori del tempo, "nome da persona anziana". «Ma come un mobile vecchio dopo un po´ diventa un pezzo d´antiquariato - aggiunge Caffarelli - così il nome cambia status e riacquista valore. E quelli dei bisnonni e delle trisavole vengono recuperati». Il ciclo dei nomi dura tra i 100 e i 130 anni, con ritardi o anticipi dovuti al traino di altri nomi o di altri fattori. Un secolo fa, ad esempio, i nomi femminili più usati erano Iole, Marcella, Fernanda, Clara, Ada, Elvira. «Non li portano più le bambine di oggi ma suonano familiari - conclude l´esperto di onomastica - perché li portano per lo più le nostre mamme, nonne e bisnonne. Prevedo a breve un loro ritorno". Mentre integriamo i nuovi nomi, succede che riscopriamo anche quelli più antichi. Presto Mohammed e Velia andranno a scuola insieme.

Repubblica 16.11.10
È un destino irreversibile ma la scuola può evitare la nascita di nuovi ghetti
di Renzo Guolo


Le parole parlano. I nomi ancora di più. Non stupisce che in alcune città europee nomi come Mohammed, Fatima, Khalid, siano sempre più diffusi. Nell´attuale fase accelerata della globalizzazione i flussi, in questo caso quelli migratori, investono i luoghi, anche quelli sociali, e li modificano senza posa. Così le città del Vecchio Continente, un tempo alla corda demografica, mostrano nuovi volti e nuovi nomi. Un processo, e un destino, irreversibile: nonostante gli slogan degli xenofobi di turno. Una trasformazione che dev´essere affrontata razionalmente, senza ingenua fiducia che le culture possano giustapporsi senza alcun problema: non è così, hanno un nocciolo duro che si modifica nel tempo; o che, di per sé, siano assolutamente immutabili. Come se la continua interazione tra loro, in uno spazio sociale in cui plurali sono simboli, segni, religioni, usanze, tradizioni, lingue, non potesse mai intaccarne l´essenza. Non è così nemmeno in questo caso, ma confidare nei tempi lunghi della sola trasformazione sociale sarebbe comunque un errore.
In questa particolare fase storica, le politiche pubbliche di sostegno all´integrazione culturale giocano un ruolo chiave per evitare che «quelli con un nome diverso» si chiudano, o siano chiusi, in ghetti identitari. E diventino , per ragioni diverse, attori del conflitto. Non solo a causa della radicalizzazione politica e religiosa ma per frustrazione da speranze emancipative. Con esiti non meno problematici.
La questione dei curriculum, e del nome che vi compare, è una spia del malessere che si avverte soprattutto a livello di seconde generazioni, in Francia come in Italia o Olanda. Chiamarsi Mohammed significa avere poche possibilità di trovare lavoro. Il nome è ancora un marcatore etnico e viene fatto pesare. Anche perché spesso indica una biografia che si avvita, inesorabilmente, su sé stessa. Se Mohammed vive in Francia e abita in una Zus, zona urbana sensibile, a Saint- Denis o a Clichè-sous Bois, quel curriculum verrà rimesso nel cassetto senza troppi problemi, magari dal Jacques di turno. Quel nome e quel luogo, rinvieranno alle banlieues, agli incendi che nelle notti della rivolta delle periferie bruciano le scuole destinate a veicolare il modello assimilazionista; scuole, loro malgrado, trasformatesi in fabbriche della disoccupazione e simboli della mancata promessa di cittadinanza effettiva. Bagliori che danno scacco all´idea che basti la cittadinanza basata sul contratto per diventare come gli altri. E, invece, in questo caso, oltre all´ipoteca della segregazione urbana, quel che pesa è la mancanza di sostegno ai diritti di cittadinanza sociale, senza la quale l´eguaglianza resta meramente formale.
Il problema, dunque, non sono i nomi. Solo i nostalgici del ritorno a un impossibile comunità dei puri, etnicamente mondata da ogni «contaminazione», possono pensarlo. Il problema è come evitare che quei nomi, e quelle identità, non si mescolino solo tra loro. Creando comunità parallele destinate a non incontrarsi mai. Esito reso possibile da fenomeni apparentemente opposti: enfasi sulle dinamiche identitarie e stigmatizzazioni xenofobe. Solo se quei nomi si mescoleranno a altri, assai diversi, sarà possibile aumentare la coesione sociale e fissare un terreno di intese e regole comuni. In caso contrario, vi sarà solo la frantumazione societaria in enclave etniche. E nicchie di autoctoni chiusi nei loro castelli d´avorio. Una prospettiva, quella dell´interazione tra culture, che richiede, in ogni caso, uno sforzo particolare alla scuola, il luogo che, almeno in Italia, se dotato di risorse umane e materiali che servono, può offrire la straordinaria opportunità di fare dei nomi, appunto, solo del nomi: e non identità da contrapporre minacciosamente l´una all´altra.

l’Unità 16.11.10
Istruzione in salsa sarda: soldi pubblici agli oratori e alle scuole private
Mentre l’istruzione pubblica boccheggia grazie ai tagli imposti da Gelmini e Tremonti, quella privata in Sardegna gode di ottima salute grazie ai finanziamenti dell’ex assessore Baire. Fanno festa anche gli oratori...
di Francesca Ortalli


Mentre la scuola pubblica va allo sfascio, in Sardegna si finanziano gli oratori e le scuole private gestite da enti religiosi con sede nella penisola. Era questa la linea dell’ex assessore regionale alla pubblica istruzione Maria Lucia Baire, da molti considerata il braccio operativo del potentissimo arcivescovo di Cagliari mons. Giuseppe Mani. Ma nonostante la fedele assessora sia stata sacrificata lo scorso 5 ottobre per la nascita del Cappellacci bis (la nuova giunta del governatore che per puntellare il suo traballante mandato ha regalato la poltrona in questione all’Udc di cui fa parte il sassarese Sergio Milia ndr) ha lasciato comunque un’eredità pesantissima. Per legge infatti, la n.8 del 4 febbraio 2010, agli oratori dell’isola si assegnano ben venti milioni di euro, cioè cinque milioni spalmati a partire dal 2010 fino al 2013. Questo perché, si legge testualmente, «la Regione riconosce e valorizza la funzione sociale, aggregativa, educativa e formativa svolta dalle parrocchie e dagli enti della Chiesa cattolica mediante attività di oratorio». Seguono poi diverse delibere che rafforzano il concetto. Analizzando i dati per l’anno scolastico 2009/2010 troviamo uno stanziamento di 20 milioni di euro a favore delle scuole pubbliche «di ogni ordine e grado della Sardegna». È la stessa cifra concessa gentilmente anno dopo anno, fino al 2013 ai luoghi dove si insegna la parola cristiana. Peccato che, mentre le sedi scolastiche nell’isola sono in tutto 2.562, gli oratori sono invece, secondo il sito www.oratori.org, solo 777.
Ma la giunta guidata da Cappellacci non si è fermata qui. Un’altra cospicua fetta di finanziamenti è andata agli istituti per l’infanzia, ovviamente privati. Nell’allegato con il programma degli interventi in loro favore, si ratifica nero su bianco uno stanziamento di 22 milioni di euro come totale delle spese per gli oneri di gestione. Si precisa che sarebbe il 43,9% del contributo previsto perché altrimenti gli importi sarebbero lievitati ad oltre 50 milioni. Un bel po’ di soldi da dividere tra undici asili, tutti gestiti da organizzazioni religiose. Nell’elenco stilato dall’assessorato si trovano anche istituti per l’infanzia con sede in Sardegna ma che hanno come intestatario del contributo, testualmente «organismo beneficiario e intestatario p.iva», enti religiosi che stanno oltre mare. Appaiono le suore di carità con sede a Torino o l’istituto Madonna di Bonaria figlie di Maria Ausiliatrice accasato a Roma. Sono cinque in tutto, sparsi tra Roma e Torino, quelli che hanno avuto in regalo i soldi della Regione Sardegna. Secondo Massimo Zedda, consigliere regionale di Sel e vice presidente della commissione Cultura, «la Regione dovrebbe arginare gli effetti disastrosi dei tagli fatti dalla riforma Gelmini. Istruzione, università e ricerca sono fondamentali per uscire dalla crisi ed invece ancora non conosciamo la spesa né la strategia di utilizzo delle risorse per il settore prevista nella finanziaria 2011». Lo sanno bene gli Enti Regionali per lo studio Universitario (Ersu) di Cagliari e Sassari che per l’anno 2011 si sono visti tagliare dalla premiata ditta Gelmini e Tremonti i contributi del 90%. Previsti solo 26 milioni di euro e la borsa di studio è diventata una chimera. Per questo gli studenti si mobiliteranno da domani. Scarseggiano, e non di poco, anche i fondi da inserire nella finanziaria regionale 2011. La mannaia di Tremonti ha fatto mancare all’appello 1 miliardo e 200 milioni. Su circa 6 miliardi da spendere la metà è stata già assorbita dal pozzo senza fondo della sanità. Restano sul tavolo poco più di tre miliardi e duecento milioni di cui l’80% è spesa corrente. Quindi, tirando le somme, rimangono poco più di 600 milioni. Una cifra irrisoria, in parte comunque già promessa con accordi di vario genere per tenere buono chi protesta in difesa del posto del lavoro. La coperta insomma è diventata un fazzoletto e come al gioco della roulette russa, resta da capire chi resterà fuori. E le promesse questa volta non basteranno più.

il Fatto 16.11.10
Berlino, macerie sotto il muro
Ricorre in questi giorni l’anniversario che segnò caduta dei regimi dell’ex Urss I cittadini di quei paesi hanno conquistato le libertà civili: ma non è tutto oro quel che brilla
di Massimo Fini


Ricorre in questi giorni l'anniversario della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e il conseguente crollo dell'Unione Sovietica che allora tutti, in Occidente, salutammo con grande entusiasmo. Si può dire la stessa cosa oggi? Le libertà civili dei cittadini dei Paesi che stavano sotto il tallone dell'Urss e degli stessi russi erano ridotte ai minimi termini. Erano Stati di polizia. Inoltre, se si viveva da quelle parti, si era bombardati quotidianamente da un ideologismo asfissiante che non dava tregua. Sulle principali piazze di Dresda o di Lipsia ho sentito altoparlanti montati sui lampioni che parlavano ininterrottamente per tutto il giorno di "marxismum-leninismum". In compenso i beni essenziali, casa, cibo, studio, anche ad alto livello, lavoro, erano garantiti a tutti. È difficile oggi trovare un immigrato rumeno (che non coincide col rom) sui quarant'anni che non sia almeno diplomato. I più sono laureati anche se da noi sono costretti a fare i lavori più umili. L'intrusione violenta del turbocapitalismo ha disgregato economicamente e socialmente molti di quei Paesi (con l'eccezione della Cechia e della Germania Est che erano culturalmente preparate alla nostra kunkurrenzkampf) e la stessa Russia. Da una parte sono cresciute ricchezze berlusconiane, quasi sempre di origine dubbia se non criminale, dall'altra la maggioranza della popolazione è passata da una povertà dignitosa alla condizione di miserabile. Da una parte Abramovich col suo Chelsea e i russi “nouveau riches”, dall'altra cittadini russi che con lo stipendio di un mese ci possono comprare un mezzo pollo. Quindi criminalità, aumentata in modo sesquipedale in tutti questi Paesi e prostituzione femminile e maschile. L'errore è stato confondere le libertà civili riconquistate e sacrosante col libero mercato. Non sono la stessa cosa. Il libero mercato, se lasciato evolvere a suo comodo, si rivela la peggiore e la più spietata delle dittature.
SUL PIANO internazionale le due Superpotenze, contrapponendosi, si limitavano anche a vicenda. È vero che, cinicamente e vilmente, si facevano la guerra per interposta persona (l'Afghanistan 1979-1989, per esempio, è stato anche questo), ma non potevano spingersi troppo oltre nella loro bramosia imperiale trovando l'una l'opposizione dell'altra. Dopo il crollo dell'Urss l'unica Superpotenza rimasta sul campo, l'America, ha avuto mano libera e in vent'anni ha inanellato cinque guerre di aggressione. La prima fu la Guerra del Golfo del 1990 contro l'Iraq di Saddam Hussein. Aveva una sua legittimazione, perché Saddam aveva invaso il Kuwait, anche se è vero che il Kuwait era uno Stato-fantoccio creato a bella posta dagli americani nel 1960 per i loro interessi petroliferi. Ma anche l'Iraq era uno Stato artificiale disegnato in maniera barbina sulla carta geografica dagli inglesi nel 1930 mettendo insieme tre comunità incompatibili fra loro: i curdi, i sunniti, gli sciiti. In realtà l'unico popolo di quell'area ad avere un diritto a un proprio Stato sono i curdi che abitano da sempre una regione che si chiama, non per nulla, Kurdistan e che sono invece divisi, come minoranze, fra Turchia, Iraq, Iran, Siria e Azerbaijan e che, mazzolati da tutti, non sono mai stati difesi da nessuno perché non hanno santi in Paradiso: non sono arabi, non sono cristiani, non sono ebrei. Il Kuwait era uno Stato rappresentato all'Onu e la guerra fu avallata dalle Nazioni Unite. Ma c'è modo e modo di fare la guerra. Per non affrontare fin da subito l'imbelle esercito iracheno, che era stato battuto persino dai curdi (in soccorso di Saddam intervenne la Turchia) gli americani bombardarono per novanta giorni le principali città irachene e sotto le luminarie che ci faceva vedere il prode Fabrizio Del Noce, assiso sulla terrazza del più importante hotel del nemico (cosa, anche questa, assai curiosa), morirono 160 mila civili, di cui 86.164 uomini, 39.612 donne e 32.195 bambini che non sono meno bambini dei nostri. Ricordo che quando alla trasmissione radiofonica Zapping riferivo questi dati del Pentagono, e quindi al di sopra di ogni sospetto, mi aspettavo da parte del conduttore, Aldo Forbice, dagli altri intervistati e dagli ascoltatori grida di sdegno e invece si tirava dritto come se nulla fosse riprendendo a parlare delle nostre nullità italiche. Poi ci fu una guerra per fermarne un'altra, quella di Bosnia fra serbi, croati e musulmani. La guerra fra le tre etnie bosniache aveva delle buone ragioni. Quando nel 1990, dopo la dissoluzione dell'Urss, Slovenia e Croazia reclamarono la loro indipendenza dalla Jugoslavia la Comunità internazionale fu solerte nel riconoscergliela. Allora i serbi di Bosnia chiesero a loro volta di potersi riunire alla madrepatria di Belgrado, perché una Bosnia multietnica, a conduzione musulmana, aveva senso solo all'interno di una Jugoslavia multietnica che non esisteva più. Ma ai serbi di Bosnia fu negato quello che era stato concesso a sloveni e croati. Allora i serbi scesero in guerra e poiché, sul terreno, sono considerati i migliori combattenti del mondo l'avevano vinta. Ma intervennero gli americani, per la verità su insistenza degli europei, e trasformarono i vincitori in vinti trascinando i loro capi politici e militari davanti al Tribunale internazionale dell'Aja. Mentre il presidente croato Tudjman, autore della più colossale "pulizia etnica" dei Balcani (800 mila serbi cacciati, in un solo giorno, dalle "krajne") è morto tranquillamente nel suo letto. Nel 1999, quando l'11 settembre era di là da venire, ci fu l'aggressione alla Serbia per l'indipendenza del Kosovo, con l'appoggio degli alleati europei, fra cui la canina Italia. C'erano delle buone ragioni da una parte e dall'altra, quella dell'indipendentismo albanese e quella di uno Stato a conservare l'integrità dei propri confini, ma gli americani decisero che le ragioni stavano da una parte sola e per 72 giorni bombardarono una grande capitale europea come Belgrado, facendo 5.500 morti civili. Ma almeno gli americani avevano un obiettivo: creare un corridoio di musulmanesimo moderato (Albania+Bosnia+Kosovo) ad uso del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Gli europei no. Si schierarono contro la Serbia perché aveva la colpa di essere rimasta l'ultimo Stato paracomunista d'Europa. E se, un tempo, per l'intellighenzia europea bastava essere comunisti per avere ragione, adesso era invece sufficiente per avere torto.
NEL 2001 c'è stata l'occupazione dell'Afghanistan col pretesto di prendere Osama bin Laden. Osama non c'è più e i quaedisti, ammesso che esistano, non stanno più in Afghanistan. Ma a 9 anni di distanza, dopo aver causato, direttamente o indirettamente, la morte di più di centomila civili afghani (le stime dell'Onu non sono credibili, Wikileaks ha denunciato 143 casi in cui la Nato non ha dato notizia dei civili uccisi nei bombardamenti o in altro modo), dopo aver disgregato materialmente, economicamente, socialmente e moralmente un Paese e una popolazione, siamo ancora lì "per difendere la Patria dal pericolo terrorista". Nel 2003 c'è stata l'occupazione dell'Iraq. La motivazione originaria era che Saddam possedeva "armi di distruzione di massa" e Saddam non avrebbe mai accettato ispezioni. il rais di Baghdad accettò gli ispettori Onu e le "armi chimiche" non saltarono fuori. Perché, fornitegli un tempo dagli Stati Uniti, dalla Francia e, via Germania Est, dall'Unione Sovietica in funzione antiraniana e anticurda, non le aveva più avendole già usate sui curdi e, in misura minore, sui soldati di Khomeini nel silenzio della stampa occidentale: all'epoca, Hussein era un nostro alleato. Il dittatore di Baghdad era certamente un criminale, ma almeno era un laico (si inventò musulmano durante la seconda guerra del Golfo). Il risultato è che oggi in Iraq, consegnato graziosamente dagli americani agli odiati sciiti iraniani, si dà la caccia ai cristiani facendone ecatombe.
Lo slogan della generazione del Sessantotto, la mia generazione, “pagherete caro, pagherete tutto”, va cambiato in “rimpiangerete caro, rimpiangerete tutto”. Anche la cara, vecchia Unione Sovietica.

Corriere della Sera 16.11.10
Crociati prima delle Crociate La lunga epopea trascurata
di Paolo Mieli


Numerose guerre sante precedono la conquista di Gerusalemme Storie di re dimenticati che contribuirono a costruire l’Occidente

In Italia i papi guidarono la riscossa contro i saraceni tra il IX e il X secolo

Nel 2005 Daniel Johnson ha pubblicato su Commentary, rivis t a de l l ’ Americ a n Jewish Committee, un saggio sulle Crociate assai critico nei confronti della tradizionale descrizione demonizzante — da Edward Gibbon a Steven Runciman — di quelle spedizioni. Interpretazione che in tempi più recenti si è condensata in un celebre articolo pubblicato sul New York Times il 20 giugno del 1999, nel quale, per ricordare l’impresa a novecento anni dalla conquista di Gerusalemme, la si metteva sullo stesso piano dei misfatti hitleriani e di altri genocidi. Nel saggio su Commentary Johnson denunciava il fatto che quelle spedizioni militari avessero lasciato un’immagine di sé così negativa nonostante fossero state assai meno distruttive per la civiltà musulmana di quella mongola del XIV secolo. Secondo l’autore quel pregiudizio ostile non ha ragion d’essere tanto più che quell’esperienza, al di là degli elementi negativi presenti in quella come in tutte le guerre, provocò una vera e propria rivoluzione culturale di cui ha poi beneficiato il mondo intero (compreso quello islamico). In virtù di alcune argomentate considerazioni, Johnson sosteneva che quando gli studiosi di oggi deprecano i crociati, al di là delle loro legittime opinioni, intendono mandare un messaggio in codice sia a Israele sia al mondo islamico; e il messaggio dice che come occidentali non «siamo» disposti a difendere né il mondo cristiano né lo Stato ebraico.
In coincidenza con l’uscita di quel saggio (in realtà la cosa era iniziata già da qualche tempo) sono comparsi in libreria studi di rivalutazione delle Crociate, il più recente dei quali — Gli eserciti di Dio di Rodney Stark (Lindau) — capovolge per intero i luoghi comuni su quei due secoli di confronto non solo militare tra il mondo cristiano e quello musulmano. Di impianto simile — anche se mai inquinato da intenti apologetici — è il nuovo volume di Conor Kostick, L’assedio di Gerusalemme (Il Mulino). La parte più interessante del libro di Kostick, dedicato alla prima crociata, è quella che riguarda la genesi dell’impresa. Quando nel novembre del 1095, al concilio di Clermont, papa Urbano II mise in movimento un esercito di popolo destinato a marciavitandoli a deporre le armi e poi massacrandoli senza pietà. L’imperatore bizantino Alessio Comneno ridusse al minimo i danni del passaggio di quei soldati da Costantinopoli (ma ce ne furono), si rivelò più astuto e concordò con i crociati che le città già appartenutegli, una volta conquistate ai turchi, venissero restituite all’impero senza essere saccheggiate. Ma quando, nel giugno 1097, questo accadde per Nicea, i crociati si domandarono a che pro avevano combattuto senza averne avuto poi alcun compenso. E venne il momento delle «piccole scissioni». Nel settembre 1097, Tancredi e Baldovino (in contrasto tra loro, il secondo con più uomini del primo) si separarono dalla spedizione e marciarono alla conquista di Tarso. Tancredi la conquistò, ma Baldovino ottenne che, sia pur malvolentieri, gliela cedesse. I due, racconta Kostick, erano nobili di incerta posizione, non erano ancora al comando di forze cospicue e servivano sotto signori di maggior rilievo; pertanto erano alla disperata ricerca di quel flusso di entrate che solo il controllo di una città assicurava, così da promuoverli allo stesso livello dei più grandi principi.
Baldovino dunque riuscì a subentrare a Tancredi alla guida della città di Nicea. Ma quando trecento normanni chiesero di entrare in città, Baldovino, non fidandosene, li tenne fuori dalle mura lasciandoli massacrare dai turchi (il che provocò quasi una rivolta anche tra i suoi). Così in ottobre, quando Tancredi conquistò Mamistra e Baldovino gli chiese anche stavolta di cedergliela, i due non trovarono l’accordo e i loro eserciti si scontrarono. Problemi diversi — che però provocarono ugualmente scontri tra cristiani — si ebbero anche al momento della conquire nel nome di Dio, non era neanche pensabile che l’esito sarebbe stato così fruttuoso.
Il tragitto da Parigi a Gerusalemme superava i tremila chilometri, di cui più della metà erano in terre nemiche; le persone che partirono nel 1096 furono all’incirca centomila e quelle che tre anni dopo giunsero ad assediare la città non superavano le ventimila, un quinto di quelle iniziali. Eppure nel volgere di tre anni i crociati cristiani erano riusciti a stabilire un principato cristiano ad Antiochia, un nuovo regno a Gerusalemme e si erano sostituiti al controllo armeno su Edessa. Avevano inoltre sconfitto il potente esercito del califfato selgiuchide di Bagdad e quello pressoché imbattibile del califfato fatimide del Cairo. Molto più di quello che Urbano II avrebbe mai potuto immaginare nei giorni di Clermont.
È interessante ripercorrere il viaggio dell’armata penitenziale guidata da Pietro l’Eremita, il suo braccio destro Gualtieri Senza Averi, il prete tedesco Godescalco, e molti grandi cavalieri, tra cui spiccavano Goffredo di Buglione e suo fratello Baldovino. Anche per comprendere di che natura fu il gorgo che — stenti e malattie a parte — inghiottì i quattro quinti di quell’armata penitenziale. Dapprincipio quel disordinato esercito se la prese con le comunità ebraiche a Colonia, Spira, Worms, Magonza (dove pure gli israeliti furono protetti dal vescovo Rutardo). Questo diede loro un’immagine da predoni che ebbe conseguenze assai nocive. Già nel luglio del 1096, quando i seguaci di Pietro avevano provato ad espugnare la cittadina di Naisso (in Serbia), il governatore della Bulgaria, Niceta, li aveva contrastati e debellati, infliggendo loro grandi perdite. Lo stesso aveva fatto, preventivamente al transito sulle sue terre, Colomanno, re di Ungheria, insta di Antiochia. Boemondo e Baldovino decisero infine di fermarsi ad Antiochia e a Edessa, ciascuno trattenendo con sé la gran parte dei propri uomini. La via per Gerusalemme fu costellata da «scismi e fazioni» che, secondo Kostick, indebolirono l’armata per la liberazione del Santo Sepolcro assai più delle pestilenze. Ma, secondo l’autore, tutto ciò ci dice qualcosa anche della forza ideologica di quell’esercito. «È degno di nota», scrive, «il fatto che gli assedianti si separassero in due fazioni antagoniste; e il fatto che dovettero far fronte a profonde rivalità non soltanto tra principi secolari, ma anche tra i grandi signori e il clero, implica che la condotta dell’esercito crociato fu assai inconsueta per l’epoca». E ancora «la presenza di un colossale numero di non combattenti fu cosa rara negli eserciti assedianti del Medioevo». Ma vinsero ugualmente, dal momento che la caratteristica distintiva dell’assedio di Gerusalemme stette «nella mentalità degli attaccanti». E quella mentalità produsse la rivoluzione culturale di cui si è detto all’inizio.
La gestazione di tale mentalità non fu qualcosa di improvvisato, prodottosi nel giro di pochi mesi o di qualche anno. Essa fu dovuta a secoli di Fede e guerre nella formazione della Cristianità occidentale, come recita il sottotitolo di L’Europa prima delle Crociate (Edizioni Ares) il nuovo libro di Alberto Leoni, già autore dei fortunati La croce e la mezzaluna (Ares) e Storia militare del Cristianesimo (Piemme). Secondo Leoni può essere tenuta nel conto di una precrociata quella dell’imperatore bizantino Eraclio, che, poco meno di cinquecento anni prima del proclama di Urbano II, reagì con una spedizione militare alla conquista di Gerusalemme da parte dei persiani (614) e in particolare al furto della reliquia più sacra del modo cristiano: il legno della Vera Croce. Cosa fu il trauma del 614 lo ha ben sintetizzato Judith Herrin nel suo Bisanzio (Corbaccio): Gerusalemme fu selvaggiamente saccheggiata; dopo il massacro della popolazione locale, il patriarca e i restanti cristiani che custodivano le reliquie della Vera Croce furono avviati alla prigionia in Persia, che essi paragonarono alla cattività babilonese degli ebrei; nel 619 i persiani giunsero ad occupare Alessandria, interrompendo i rifornimenti di grano a Costantinopoli. Non ci fosse stato Eraclio, avrebbe potuto essere la fine della civiltà bizantina.
Eraclio era stato incoronato imperatore nel 610 con l’aiuto del patriarca Sergio, come successore dello spietato Foca, che era stato il primo imperatore orientale ad andare al potere nel 602 con la violenza. Eraclio dedicò i suoi primi anni di comando alla riorganizzazione dell’esercito, poi, con la benedizione dell’autorità religiosa, nel 621 lanciò una controffensiva — efficace come era stata nove secoli prima tra il 331 e il 326 a.C. quella di Alessandro Magno — che lo spinse fin dentro la Persia, dove nel 628 sconfisse Cosroe II, il re dei re, e recuperò la Vera Croce. Nel 630 la reliquia tornò a Gerusalemme. Grande, strepitosa vittoria. Ma paradossalmente quella vittoria, fino a qualche anno prima impensabile, sortì l’effetto di rompere gli equilibri del tempo e consentì a Maometto (che proprio in quegli anni lanciava la sua offensiva) di conquistare una vastissima area. E i successori di Maometto nel 638, pochi anni appena dopo la vittoria di Eraclio, riuscirono ad impadronirsi di Gerusalemme. Il che spiega perché — anche se alla storia della Vera Croce è dedicato il celeberrimo affresco di Piero della Francesca nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo — alla vicenda sia stato dato tradizionalmente minor risalto di quel che avrebbe meritato.
A proposito della storia della Vera Croce, una nota, a parer nostro, stonata del libro di Leoni è nel modo con cui in più occasioni fa riferimento al ruolo svolto all’epoca dagli ebrei. Ad esempio, nel trattare della conquista di Gerusalemme da parte dei persiani, l’autore scrive: «Per tre giorni e tre notti la città fu abbandonata agli invasori che compirono misfatti inauditi; gli ebrei, in particolare, erano così assetati di sangue per i lunghi anni di servaggio e di persecuzione, che arrivarono a comprare dai persiani i prigionieri cristiani per avere la gioia di sgozzarli di propria mano». E cita come unica fonte un libro del 1905 del cattolico tradizionalista Angelo Pernice, L’imperatore Eraclio (Galletti&Cocci). Ora è accertato che gli israeliti collaborarono dapprima con i persiani e poi anche con i musulmani, per reazione alle vessazioni bizantine che avevano fatto seguito all’accusa ad un ebreo di Antiochia di aver profanato un’icona della Vergine (592) e in particolare, ai tempi di Foca, dopo l’assassinio del patriarca Anastasio di cui furono ingiustamente accusati. Ma tali circostanze non legittimano in alcun modo l’uso di una tale terminologia. Anche in considerazione del fatto che l’argomento è oggetto da decenni di analisi più attente alle sfaccettature, caratterizzate dal ricorso ad un linguaggio assai più sobrio. Una per tutte quella contenuta nel volume Bisanzio di Alain Ducellier pubblicato nel 1988 da Einaudi.
Seconda vicenda storica che Leoni prende in considerazione come una precrociata è quella che indusse addirittura un pontefice, Leone IV, a mettersi, nell’849, alla testa di un’armata per sconfiggere i musulmani che dal 652 erano sbarcati in Sicilia, nell’830 avevano attaccato Roma e nell’849 si accingevano a prenderla e devastarla una volta per tutte. Già nell’830 erano state raggiunte le basiliche di San Paolo e di San Pietro, che si trovavano fuori dalle mura aureliane. Scrive Rinaldo Panetta in un libro pubblicato da Mursia qualche tempo fa, I saraceni in Italia, che, in quella occasione, nella difesa di Roma ebbero un ruolo decisivo gruppi di Longobardi, di Frisoni e di Franchi. Ma ciò non impedì ai saraceni di fare razzia di un immenso bottino (censito con grande accuratezza alla metà dell’Ottocento da Gregorovius nella Storia della città di Roma) e li indusse a preparare una seconda impresa che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto essere quella definitiva. Impresa che, osserva Leoni, sarebbe stata resa possibile dalla crisi dell’impero carolingio e dalle difficoltà di quello bizantino.
I veneziani inviarono una flotta per difendere Roma dai saraceni, ma furono travolti al largo di Taranto nell’839. Da quel momento furono scorrerie lungo tutta la costa adriatica: nell’840 fu devastata e incendiata Ancona. In Sicilia, dove già Palermo era caduta nell’831 in mano musulmana, «la resistenza bizantina crollò di schianto»: Messina capitolò nell’843, Ragusa nell’845. In Puglia avevano ceduto sia Bari che Taranto. Il 23 agosto dell’846 una grande flotta di 73 navi con undicimila uomini a bordo approdò a Ostia. Il borgo, racconta Leoni, venne saccheggiato, la guarnigione di mercenari Sassoni e Frisoni travolta a dispetto di una resistenza pari a quella di sedici anni prima. Gli invasori giunsero ai Campi di Nerone, isolando la Basilica di San Pietro dal resto della città: «La chiesa più augusta e sacra della Cristianità fu saccheggiata e profanata come mai fino a quel momento nessuno, né barbaro né eretico, aveva osato fare; i tesori accumulati per secoli furono depredati e perduti per sempre, furono asportate persino le lamine d’oro delle porte». Dopodiché i predoni, che sicuramente avrebbero di lì a breve portato a termine la loro opera, eseguirono come era nei loro principi tattici, una brillante ritirata. Ma in mare li colse una furiosa tempesta di fine estate che colò a picco l’intera flotta. Per questa ragione furono costretti a ritentare l’impresa, anziché dopo qualche settimana, soltanto nell’849.
Stavolta però ad affrontarli c’era una flotta agguerrita, alla cui guida si era messo lo stesso pontefice, Leone IV. Che, a seguito di uno scontro il cui esito non fu chiaro fino all’ultimo momento, riuscì ad annientare le navi saracene. «Per la prima volta», scrive Leoni, «un esercito composto da italici aveva vinto una grande battaglia e l’aveva fatto sotto la guida del Pontefice in una guerra a difesa della Cristianità occidentale; in effetti si può dire che la storia militare della Chiesa nasce quel giorno, così importante da essere celebrato negli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane». E non finì lì. Nell’871 su sollecitazione della Chiesa fu riconquistata Bari. Nell’878 fu emessa una bolla per chiamare alle armi tutti i cristiani a difendere il patrimonio di Pietro (si tratta della «prima assegnazione di un’indulgenza concessa a combattenti per la fede»). I monaci benedettini si armarono a difesa di San Vincenzo al Volturno, ma nell’882 furono sopraffatti dai saraceni. Riuscirono a prevalere invece i frati di San Martino in Marsico. E nel 915 papa Giovanni X si pose alla testa di una coalizione di italici per annientare i saraceni del Garigliano «in una delle prime guerre sante della storia». La campagna durò mesi e si concluse con una strepitosa vittoria della Chiesa. Giovanni X fu in seguito assai criticato per essersi messo alla testa di quelle truppe e per aver sterminato i nemici che aveva sconfitto. Ma, gli riconosce oggi Panetta nel libro già citato sui saraceni in Italia, quel genere di nemici non avrebbe di certo potuto essere vinto «con preghiere, con bolle e con scomuniche, né quella crociata avrebbe avuto esito se i combattenti non fossero stati incoraggiati dalla presenza del Papa e sospinti al combattimento dalla sua tenacia».
In quegli stessi anni si ebbe un’epopea cristiana in Irlanda, Scozia e Galles. E cristiana fu la vittoria di Alfredo di Wessex contro il re vichingo Guthrum nella battaglia di Edington (879). Vittoria che venne dopo innumerevoli peripezie e sconfitte, ma che, proprio per questo, fu assai significativa. Alfredo chiese e ottenne che lo sconfitto Guthrum e 29 suoi vassalli si battezzassero. Quel battesimo è di enorme importanza. La grandezza di Alfredo, per cui ancor oggi è venerato come santo, scrive Leoni, «non risiede solo nella sua capacità militare, per quanto si sia rivelato come un genio tattico e strategico come pochi nella storia; la sua capacità si rivela straordinaria nel saper fare la pace con il proprio nemico, legarlo a sé come alleato e far nascere un popolo da una turba confusa e barbarica».
Da quegli eventi degli ultimi secoli del primo millennio trasse alimento lo spirito della Riconquista in Spagna. Leoni mette in luce l’importanza del 1063, l’anno in cui il re di Castiglia Ferdinando I ristabilì l’unità dei regni cristiani e fu ripresa agli arabi la città di Coimbra. Quello stesso anno, papa Alessandro II emise l’enciclica Eos qui in Hispaniam, che concedeva la remissione dei peccati a tutti coloro che avessero partecipato alla guerra contro i musulmani. Fissa l’attenzione sul 1085, l’anno in cui, forte di quell’enciclica, Alfonso VI di Castiglia riuscì a prendere Toledo. E ripercorre la vicenda di Rodrigo Diaz, passato alla storia come il Cid Campeador, che riuscì a compiere le sue conquiste e ad ampliarle fino al dì della sua morte, il 10 luglio del 1099, cinque giorni prima che Goffredo di Buglione riuscisse a mettere piede sugli spalti di Gerusalemme.
Il fine di questo libro, scrive Leoni, e quello di ricostruire la strada lunga, sanguinosa e drammatica che «portò l’Europa cristiana a proiettarsi fuori dai propri confini» nel corso di secoli «nei quali tutto sembrò perduto dopo la fine dell’Impero romano d’occidente». Anni in cui i cristiani salvarono l’Europa per ben due volte, «sperando contro ogni speranza». L’attenzione, più ancora che ai pontefici che seppero impugnare la spada, è dedicata a uomini politici dell’epoca (oggi alquanto trascurati dai libri di storia), come Eraclio o Alfredo di Wessex, che, ispirati dalla fede, diedero un contributo determinante alla costruzione della civiltà occidentale. E in ciò anticiparono le Crociate.

Corriere della Sera 16.11.10
Allarme di Lucia Zannino

Fondi dimezzati Istituti culturali a rischio chiusura
di Antonio Carioti


Sono di nuovo sul piede di guerra contro il ministero dell’Economia le fondazioni appartenenti all’Associazione delle istituzioni di cultura italiane (Aici). Enti come l’Accademia della Crusca, la Fondazione Basso, l’Istituto Sturzo, la Società geografica italiana. Denunciano il fatto che nel maxiemendamento alla legge di Stabilità (quella che un tempo si chiamava Finanziaria) del governo non è prevista alcuna risorsa supplementare per i beni culturali. «Così molte fondazioni dovranno chiudere al pubblico — avverte la segretaria dell’Aici, Lucia Zannino — e si perderanno centinaia di posti di lavoro tra gli operatori del settore».
La manovra economica varata a metà di quest’anno prevedeva la cessazione dei finanziamenti statali agli enti culturali privati, previsti dalla legge 534 del 1996, con la possibilità di recuperare solo un misero 30 per cento. «Ma noi ci siamo ribellati — ricorda Lucia Zannino — ed è intervenuto il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Così il taglio è sceso dal 70 al 50 per cento. In seguito, nel mese di luglio, lo stesso ministro Bondi ha recuperato risorse su altri capitoli di spesa e la riduzione per il 2010 è stata limitata al 16 per cento. Sono somme minime, pochi milioni di euro, che non incidono certamente sui conti dello Stato. E per giunta vengono erogate sempre con enorme ritardo: finora quest’anno abbiamo incassato solo un terzo di quanto ci spetta, ma ci è stato assicurato che il saldo arriverà. Il buco nero a questo punto riguarda il 2011».
Già, perché per il prossimo anno è confermato il taglio originario del 50 per cento, che rischia di far precipitare molti dei 121 istituti finanziati dalla tabella del ministero dei Beni culturali (Mibac) in una crisi drammatica. Il conto è presto fatto: da 6 milioni e mezzo di euro stanziati nel 2009, per il 2011 si scenderebbe a circa 3 milioni e 250 mila. Una botta micidiale. «Secondo le nostre valutazioni — sottolinea Lucia Zannino — circa il 40 per cento degli enti compresi nella tabella rischia di cessare ogni tipo di servizio al pubblico. Hanno già dovuto ridurre di molto l’accessibilità istituti di notevole prestigio come la Fondazione Querini Stampalia di Venezia, che si trova in uno splendido palazzo nobiliare e dispone di un patrimonio prezioso. So che vive un momento di grave difficoltà la Società di studi valdesi di Torre Pellice, che rappresenta un’importante minoranza religiosa. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito».
In un quadro del genere, l’assenza di somme integrative nel maxiemendamento presentato dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti suona come una sorta di campana a morto. «Si è fatto uno sforzo per gli enti locali — nota Lucia Zannino — e per l’università, ma i Beni culturali non hanno avuto nulla. Se non cambia qualcosa in Parlamento, sarà difficile rimediare in corso d’opera durante il 2011. Trovo assai grave che la cultura sia colpita in questo modo. Il problema del resto non riguarda soltanto noi, ma musei, biblioteche, archivi, siti archeologici. Tutto un patrimonio di cui a parole il nostro Paese va molto fiero, ma che poi viene regolarmente trascurato e penalizzato dalle scelte di governo».

Corriere della Sera 16.11.10
Come non far fallire i teatri d’opera
di Carlo Fontana


Le vicende del Carlo Felice di Genova hanno occupato ampio spazio sui giornali: è stata la prima volta che nel nostro Paese una Fondazione lirica, meglio, un teatro d’opera, ha corso seriamente il rischio di dover «portare i libri in tribunale». Un pericolo che sembra al momento scongiurato con i «contratti di solidarietà»: soluzione che ha riaperto il dialogo tra consiglio di amministrazione e organizzazioni sindacali. La situazione resta tuttavia preoccupante, e non è la sola in Italia. Ciò che è accaduto a Genova è la punta di un iceberg che potrebbe vedere presto o tardi altri gloriosi teatri dover affrontare analoghe difficoltà.
Non c’è da stupirsi. La crisi riguarda, non da oggi, l’intero sistema delle Fondazioni liriche che talvolta scontano, forse, conduzioni non del tutto adeguate e una presenza sindacale troppo invadente, per lo più tesa a conservare normative e abitudini superate. Ma sarebbe ipocrita non ricondurre la prima responsabilità della situazione alla frettolosa trasformazione degli Enti lirici pubblici in Fondazioni di diritto privato, approvata nel 1996 ed estesa nel 1998 a tutti gli Enti, anche a quelli che non ne avevano i requisiti indispensabili. Il decreto legislativo 367 era un abito tagliato su misura per la Scala. Una legge «speciale», concepita per superare le resistenze che avrebbero impedito un provvedimento ad hoc per il nostro massimo teatro d’opera. Fu chiaro da subito, in effetti, che solo la Scala avrebbe potuto contare su costanti e significativi apporti di capitale privato e grazie a ciò raggiungere l’equilibrio economico-finanziario tra pubblico e privato. Le vivaci reazioni dei sovrintendenti, timorosi di un possibile declassamento dei loro teatri, indussero il ministro allora competente a imporre, in nome di un egualitarismo di facciata, un’evoluzione istituzionale generalizzata, che produsse effetti disastrosi. Il definitivo impazzimento della maionese si dovette alle successive, scriteriate, decurtazioni al Fondo unico dello spettacolo (Fus) senza che a ciò corrispondesse un’adeguata incentivazione della partecipazione dei privati, attraverso la defiscalizzazione del loro contributo. Se alla scarsità di finanziamenti diretti (pubblici) si somma l’assenza di finanziamenti indiretti (privati), l’opera non può vivere, come la sua essenza e la sua storia fin dalla nascita spiegano più che eloquentemente. Provvedimenti tampone, ispirati dalle migliori intenzioni, come il recente decreto Bondi, rischiano di lasciare il tempo che trovano, se non si hanno la forza, il coraggio, e le competenze necessarie per affrontare i problemi alla radice.
Ciò significa risolvere una volta per tutte il tema del finanziamento pubblico. La «terza via» italiana, che ispirò la legge sulle Fondazioni, immagina il contributo integrativo dei privati come aggiuntivo alla centralità del contributo pubblico proveniente da Stato ed enti locali. Bene: se si è ancora convinti della validità di una terza via tra il modello del «tutto pubblico», prevalente in Europa, e quello «tutto privato» del sistema statunitense, allora è necessario definire con prospettiva triennale ammontare e tempi dell’erogazione, e mantenere gli impegni presi. Si può e si deve, in tempi di crisi economica, fare di più con meno. Ma a questo fine è indispensabile sapere con certezza quante risorse si avranno a disposizione.
Vorrei ricordare che nella seconda metà degli anni 80, grazie al Fus appena introdotto e positivamente operante secondo le aspettative, tutti gli allora 13 Enti lirici chiudevano bilanci in pareggio: l’intervento pubblico, fattosi puntuale e affidabile, non consentiva più gestioni «disinvolte». E per quanto riguarda i finanziamenti dei «privati», a quanto si è già detto vale la pena di aggiungere che negli Stati Uniti i contributi a sostegno delle istituzioni culturali provengono in misura maggiore da singoli individui che dalle companies.
Una volta risolto questo «problema dei problemi», nella consapevolezza che ogni vera riforma ha un costo, si potrà ridefinire l’assetto complessivo delle Fondazioni liriche partendo dalla presa d’atto che esse non sono tutte uguali, e che la Scala è un’entità a sé. Una forte deregulation in ottica decentrata (federalista, si direbbe oggi) potrebbe consentire a ogni teatro di trovare una sua specificità in rapporto alla sua storia, al territorio in cui opera, con un’offerta produttiva strettamente correlata al proprio bacino d’utenza. E perché non ipotizzare nuove forme organizzative, tali da garantire occupazione e qualità, lasciando al tempo stesso ai teatri la possibilità di rapportare i costi alla loro attività primaria? Il contratto nazionale di lavoro non potrebbe ricondursi a una cornice con poche, rigide, norme per rimettere il resto a una contrattazione locale che tenga finalmente conto delle diverse realtà? E perché mai questo settore non deve poter usufruire di nessun ammortizzatore sociale? Nessuno ha in tasca ricette miracolistiche, ma continuare a sopravvivere con logica gattopardesca è sinceramente impensabile. Se i «tagli» dei contributi pubblici finiscono per tradursi, come ora, in calo della qualità della produzione e in progressiva riduzione del numero di spettacoli, il rischio è che di un sistema di teatri d’opera come quello italiano, già unico al mondo per dimensione e supremazia artistica, si avverta sempre meno l’esistenza. E forse, presto, anche la necessità. sovrintendente del Teatro alla Scala dal 1990 al 2005

Repubblica 16.11.10
Il sintomo è virtuale I nuovi malati immaginari
di Anna Rita Cillis


Oltre 16 milioni di italiani cercano informazioni sanitarie su Internet Ma di questi, una percentuale sempre più alta lo fa in modo compulsivo e si convince di avere qualche patologia: un´emicrania si trasforma in un tumore, il male al braccio in un infarto. Ecco come evitare di cadere nella Rete
In Gran Bretagna uno studio mette in luce che sei adulti su dieci si rivolgono al web anziché al proprio dottore quando avvertono un qualsiasi disturbo

ottor Internet riceve sempre. Ogni volta che si desidera lui è lì pronto a fornire risposte. Su qualsiasi argomento di tipo medico: dai tumori agli attacchi di panico alle diete per contrastare il colesterolo sino alle malattie più rare. Siti, chat, forum, blog, in un moltiplicarsi di informazioni senza confini su patologie le più disparate. L´eden per gli ipocondriaci. Anzi per i cybercondriaci come sono stati ribattezzati i navigatori compulsivi in cerca di notizie e rassicurazioni su malesseri e relativi sintomi. In Italia il popolo dei cacciatori di informazioni sanitarie conta in tutto 16,6 milioni di persone. A metterlo in evidenza è il Censis che rivela anche: il 34% di chi si connette in rete, su 23 milioni di utenti, lo fa per trovare dati di tipo medico. Non solo: per il 18% degli italiani il web rappresenta la prima fonte in questo campo.
Ma per Claudio Cricelli, presidente della Simg, la Società italiana di medicina generale «un conto è chi cerca notizie su una malattia di cui soffre lui o un familiare, un altro è chi si connette perché ogni sintomo anche il più piccolo, genera ansia. Questi ultimi sono una minoranza, e non si tratta di ipocondriaci ma di persone affette da un disturbo maniacale che va oltre il mezzo attraverso il quale si manifesta». Per il presidente della Simg una minoranza che non raggiunge l´uno per cento dei navigatori.
E a dar ragione a Cricelli ci sarebbe anche Google Statistiche e ricerca, il nuovo strumento che offre un ampia panoramica di cosa cliccano gli italiani. Un barometro dal quale si scopre che nell´ultimo mese, per esempio, tra le parole più cercate sono state il tumore in generale, quello al seno e al colon. Alessio Cimmino dell´ufficio comunicazione di Google Italia racconta che «i risultati mostrano una chiara correlazione tra web e la vita di tutti i giorni. Con oltre un miliardo di ricerche sul nostro motore in tutto il mondo abbiamo riscontrato come alcune tipologie di ricerche tendono a ripetersi in determinati periodi dell´anno nel campo della salute - dice - ad esempio nei periodi di diffusione dell´influenza». Uno spunto dal quale è nato un "flu trends" un neonato strumento Google «per ora disponibile solo all´estero», aggiunge Cimmino, «in grado di offrire informazioni in tempo reale sulla diffusione di influenze e pandemie. Flu trends analizza i dati delle ricerche su Google per termini legati a influenze e malattie e li confronta con quelli forniti dagli enti pubblici che partecipano al progetto».
Ma il popolo degli ipocondriaci.net sta prendendo sempre più piede: in Gran Bretagna, ad esempio, un recentissimo studio della società Engage Mutual mette in luce che sei adulti su dieci si rivolgono al web anziché al proprio medico quando avvertono un disturbo. E la metà si convince di essere gravemente ammalata. Secondo Giuseppe Lavenia, docente di psicologia dinamica dell´università di Urbino, esperto in dipendenze, «l´attenzione maniacale al benessere del corpo e l´avvento di Internet non ha fatto altro che predisporre all´ipocondria di massa. Centinai e centinai di informazioni reperibili nei siti che non rassicurano il web-ipocondriaco ma lo portano a ricercare in maniera compulsiva nuove informazioni. Siamo alle prese con un disturbo vecchio - dice lo psicoterapeuta - ma che in Internet aveva già un antenato, l´information overloading, ovvero il sovraccarico-cognitivo, un fenomeno che si verifica quando si ricevono troppe informazioni per riuscire a prendere una decisione o sceglierne una sulla quale focalizzare l´attenzione. Quella sul web - rimarca - non si può definire ipocondria classica: siamo di fronte a una nuova forma. Internet può essere l´amplificatore di un disturbo pregresso e in alcuni casi può generare una forma psicopatologica con tratti ossessivo- compulsivi».
Insomma, va bene la ricerca ma senza esagerare: a sottolinearlo anche Microsoft, che ha condotto uno studio delle ansie prodotte dalle ricerche web in tema di salute. La sintesi dell´analisi? Spesso gli utenti si fermano alle prime pagine trovate, e dopo aver letto il materiale enfatizzano il malessere: un´emicrania si trasforma in un tumore, il male al braccio in un infarto e così via. Non sottovalutare i sintomi va bene: ma il medico resta l´unico in grado di fare diagnosi.

Repubblica 16.11.10
Recenti ricerche svelano che in vista di interventi chirurgici importanti si eseguono rituali di scongiuro o si attivano credenze come la paura di operarsi se c´è luna piena
Quando è la superstizione a guidare medici e pazienti
di Francesco Bottaccioli


Recentemente, il Dipartimento di psicologia dell´Università statale del Kansas, USA, ha avviato una ricerca che ha coinvolto 200 studenti universitari sulla diffusione e sulle caratteristiche della superstizione nel mondo contemporaneo, in particolare in relazione alla salute.
Un tema apparentemente bizzarro, ma in realtà molto attuale. Dai dati preliminari emerge, infatti, una relazione tra uso di pratiche superstiziose e stili di pensiero e tipo di personalità. Gli studenti che sono più inclini alla superstizione sono anche quelli che pensano che la loro vita dipenda in larga misura dal caso e dal destino. Un approccio alla vita caratterizzato quindi da grandissima incertezza e scarso senso di controllo, che costituisce il terreno su cui cresce la superstizione e il pensiero magico come aiuto a ridurre l´incertezza e a dare un senso a quello che accade. Del resto, è noto da tempo il collegamento tra superstizione, rituali magici e disturbi d´ansia. È il caso di vere e proprie patologie, come il "Disturbo ossessivo compulsivo", oppure di stati transitori, anche in persone insospettabili, come è il caso studiato nella divisione di chirurgia plastica e ricostruttiva dell´Ospedale di Shizuoka in Giappone. Qui i chirurghi, prima di iniziare l´intervento, ricorrono a diverse pratiche scaramantiche, come l´uso di amuleti e simili. In questo studio, pubblicato su Journal of reconstructive microsurgery, si dimostra però che solo chi aveva poca esperienza ricorreva ai riti superstiziosi, a dimostrazione che la superstizione serve a ridurre l´ansia.
Ma lo studio davvero più incredibile è quello realizzato, qualche anno fa nel Dipartimento di otorinolaringoiatria della Temple University di Filadelfia che ha indagato quasi 600 tonsillectomie concludendo che le temute emorragie post-chirurgiche non erano più frequenti nei bambini con i capelli rossi, né in quelli che erano stati operati con la luna piena o di venerdì 13.
«Può esistere un popolo libero da qualsiasi pregiudizio superstizioso?», si chiedeva Voltaire alla fine della voce "Superstizione" del suo Dizionario filosofico. La risposta dell´illuminista è lapidaria: «È come domandare: può esistere un popolo di filosofi?».
* Presidente onorario della Società italiana di psiconeuroendocrinoimmunologia