giovedì 18 novembre 2010

Agi 18.11.10
Libri: Lombardi, il socialista di ferro nemico del leaderismo

(AGI) - Palermo, 18 nov.- "Combattere oggi per il socialismo non e' uno slogan
desueto e vetusto, ma una necessita' alla quale il nostro partito, spero, non
vorra' mai rinunciare". Cosi' il 23 aprile 1981, a Palermo, Riccardo Lombardi
concluse il suo applauditissimo intervento al XXXIV Congresso del Psi, che fu
una 'arringa' severa nei confronti di Bettino Craxi, definito un anno
prima 'Fuhrerprinzip' per come "guida il partito: fa tutto di testa sua, senza
mai consultare i dirigenti di partito". E nella sua ultima assise congressuale,
tre anni dopo, il 18 settembre 1984, si spegneva e volle esser cremato senza
riti religiosi, ironizzo' sull'autoriforma craxiana per cui il segretario
politico sarebbe stato, d'ora in avanti, non piu' eletto per votazione ma per
acclamazione, "e' un pateracchio", disse, anzi urlo' al microfono puntando il
dito e lo sguardo verso Craxi. Di questo 'siciliano di ferro' nato a
Regalbulto, si racconta sabato prossimo a Palermo "la storia politica ed
umana", quella, "di un grande leader della sinistra italiana", come recita il
titolo dell'incontro in programma alle 16 al Salone Legacoop di via Borrelli,
dove viene presentato il libro di Carlo Patrignani "Lombardi e il fenicottero"
per le edizioni 'L'Asino d'oro'. L'incontro organizzato dal Psi di Palermo vede
la presenza di Turi Lombardo, Giorgio Muscarello, Gim Cassano, Antonello
Miranda, Roberto Sajeva e Antonio Matasso. La polemica con Craxi non ebbe mai
nulla di personale, non fu un conflitto caratteriale, ne' un fatto di
antipatia: semmai di coerenza e correttezza rispetto alla linea congressuale
scelta a Torino nel 1978 imperniata sul binomio 'autonomia' e 'alternanza' che
divennero per Craxi e il gruppo dirigente di quel Psi sempre piu' lontananza
dal Pci e vicinanza alla Dc, fino al ben noto Caf.
"Un Psi cosi' non ha motivo di esistere" sentenzio'
il partigiano Rio, malfermo sulle gambe e con un filo di voce, nel Comitato
Centrale del 30 giugno 1984, sei, sette prima di Tangentopoli. Il libro scritto
in onore di Riccardo 'cuor di socialismo', porta pero' alla ribalta il
fenicottero, Ena Viatto, la donna che gli fu vicina per 52 anni, segnalandogli
i frequentatori del loro umile appartamento, ma colmo di libri, nel quartiere
di Monteverde a Roma, in 'amici compagni' pochi (Antonio Giolitti, Vittorio
Foa, Bruno Trentin, Fausto Vigevani), e in 'compagni' soltanto (i vari
Cicchitto, Signorile, De Michelis...). "Siamo interessati all'impostazione
economica di Lombardi e il suo pensiero economico autonomo ci offre molti
spunti su cui riflettere: soprattutto alla sfida dell'egemonia neoliberista",
afferma il responsabile economico e braccio destro di Pier Luigi Bersani,
Stefano Fassina riferendosi alla geniale proposta lombardiana del 1967, "i
socialisti vogliono la societa' piu' ricca perche' diversamente ricca. E' il
tipo di benessere, il tipo cioe' di consumi che noi vogliamo cambiare, sono
veramente le basi delle aspirazioni e delle preferenze e delle soddisfazioni da
dare a queste preferenze che noi vogliamo cambiare, perche' il socialismo e' un
progetto dell'uomo, soprattutto, e' un progetto dell'uomo diverso, che abbia
diversi bisogni e trovi il modo di soddisfare questi bisogni". E al "grande
leader della sinistra" guarda con simpatia - veramente non da oggi, il
segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, lombardiana da sempre: "Ho le
prove. Durante il congresso di Palermo, quello che sancisce la linea craxiana,
intervenni contro la nuova segreteria". Ecco "la storia politica ed umana di
una grande leader della sinistra" tutta protesa e vissuta nella ricerca quasi
ossessiva di costruire "una societa' socialista, quella che riesce a dare a
ciascun individuo la massima liberta' di decidere della propria esistenza e di
costruire la propria vita". (AGI)



l’Unità 18.11.10
Ieri incontro con Veltroni, che ha espresso preoccupazione sulla strategia delle alleanze
Pronta la bozza di riforma elettorale. Asse con Casini su una “GrosseKoalition” italiana
Bersani blinda il Pd sul governo con Fli e Udc
Vertice del leader Pd con gli altri dirigenti. Decisa la road map per dare la spallata al governo e dar vita a un «governo di responsabilità nazionale», che si dovrà occupare anche di riforma fiscale e manovre economiche.
di Simone Collini


Si sono incontrati alle otto e mezzo del mattino e hanno discusso la road map per mandare a casa Berlusconi, il 14 dicembre. Ma hanno preparato anche il terreno per il dopo, se l’operazione dovesse riuscire. E concordato sul fatto che in una fase delicata come questa vanno evitate divisioni interne, scivoloni sulle primarie, confuse discussioni sulle alleanze.
Bersani ha riunito attorno al tavolo D’Alema, Veltroni, Franceschini, Finocchiaro, Bindi, Marino e i due incaricati di discutere con Fli e Udc di legge elettorale, Violante e Bressa. Il segretario del Pd sa che nei giorni che mancano al voto di fiducia Berlusconi si giocherà il tutto per tutto pur di garantirsi la maggioranza (il leader dell’Idv Di Pietro parla esplicitamente di «mercato delle vacche aperto in Parlamento»), e che solo con un partito unito e con un patto blindato con Fli e Udc si può arrivare alla crisi e poi alla creazione di «un governo di responsabilità nazionale». «Non c’è ancora la Costituzione di Arcore», scuote la testa Bersani quando gli riferiscono che qualche esponente del centrodestra già parla di urne per il 27 marzo. Ma per evitare un voto anticipato che anche Casini definisce «da irresponsabili», bisogna evitare passi falsi e tentennamenti.
Per questo agli altri dirigenti del Pd Bersani ha assicurato che ogni decisione verrà presa negli organismi dirigenti, ma che poi bisogna evitare distinguo in altre sedi. E ieri, prima di partecipare insieme a Casini a un incontro in cui si è evocata una “Grosse Koalition” in salsa italiana («è possibile e auspicabile», ha detto Bersani, sarebbe «un fatto virtuoso», ha detto Casini) il leader del Pd ha chiesto il sostegno di tutti non solo sul governo di transizione insieme a finiani e centristi, ma anche su quelli che dovranno essere i pilastri su cui questo dovrà reggersi per almeno un anno.
NUOVA LEGGE ELETTORALE
Il via libera è arrivato da Veltroni e dagli altri, anche su una legge elettorale che prevede il voto di maggioranza solo per chi dovesse raggiungere il 45%, una quota proporzionale degli eletti del 45% e del 55% con collegi uninominali. Un testo che ora Violante e Bressa discuteranno con finiani e centristi, ma che già nei giorni scorsi era stato discusso con Bocchino (per la precisione nel giorno in cui Bossi incontrava Fini per cercare un accordo). Ma all’incontro di ieri si è raggiunta l’intesa anche sul fatto che il governo «di responsabilità nazionale» in circa un anno dovrà approvare una riforma fiscale (sull’innalzamento delle tasse per le rendite finanziarie c’è già convergenza con Fini e Casini) e una serie di manovre economiche e per l’occupazione.
Se su questo c’è stata unanimità, Bersani ha invece dovuto far fronte alle preoccupazioni espresse da Veltroni sulla strategia delle alleanze. Non c’è solo da chiarire il rapporto con Di Pietro e con Sinistra e libertà, secondo l’ex segretario. Il Pd, ha detto Veltroni, deve evitare lacerazioni tra chi vuole allearsi con Casini e chi con Vendola, e per farlo c’è un solo modo: investire su se stesso, rilanciare il profilo riformista, presentare una propria piattaforma programmatica e solo dopo discutere con le altre forze di un’eventuale alleanza. Bersani non ha contestato il discorso, ma ha anche fatto notare che se non si lavora per unire tutti quelli che oggi fanno opposizione a Berlusconi, difficilmente si riuscirà a mandarlo a casa. Così come sul tema delle primarie, Bersani ha bloccato sul nascere sia chi vorrebbe rivederle a Bologna, Napoli e Torino, sia chi vorrebbe mantenere così com’è questo strumento: «Va data un’aggiustata ma non rinunceremo mai alle primarie», è la rassicurazione data ad ambo le parti.
Ma tutti nel Pd si rendono conto che il primo passo è far cadere il governo. E che sarà possibile se si seminerà il terreno, da qui al 14, di quelle che Franceschini definisce «mine». Per questo c’è stata l’accelerazione sulla mozione di sfiducia a Bondi il 29, che tra l’altro arriva dopo una settimana di passione per il centrodestra, visto che il 22 si voterà la mozione di Fli su Rai e pluralismo e quella dell’Idv per la «revoca di deleghe» a Calderoli.

il Fatto 18.11.10
Il Pd vuol far cadere il governo entro fine mese. Presentata la mozione di sfiducia per Bondi
di Marco Palombi


Far cadere Silvio Berlusconi prima del 14 dicembre, possibilmente tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre. Questo è l’unico attuale interesse del Partito democratico, questo l’unico centro d’iniziativa politica, questo l’orizzonte strategico: in un mese, pensano Pier Luigi Bersani e i suoi, il Cavaliere può tirare fuori il coniglio dal cilindro o un numero di vacche sufficiente a sopravvivere dal relativo mercato. Berlusconi, dunque, deve cadere subito e può farlo solo alla Camera: è quindi a Montecitorio che vanno disseminate le trappole parlamentari. La prima che i democratici sono riusciti a piazzare è la mozione di sfiducia per il ministro della Cultura Sandro Bondi presentata dopo il crollo della Domus dei gladiatori a Pompei: andrà al voto il 29 novembre e tenta assai l’ala più bellicosa dei finiani tipo Fabio Granata (altri, però, vorrebbero uscire dall’aula). Certo un voto del genere sarebbe un atto di sfiducia preventivo da parte di Futuro e libertà, per questo i berluscones sono irritati: così si viola la tregua di un mese per approvare la legge di stabilità, si sono lamentati Cicchitto e Gasparri. C’era poco fa fare però: i democratici hanno rinunciato ad una loro mozione già calendarizzata - sulle madri in carcere - pur di portare in Aula quella contro Bondi. Intanto al Nazareno cercano di aprire nuove falle nella tenuta della maggioranza: PdL e Lega potrebbero avere problemi sulla Finanziaria, sul federalismo fiscale, sulla mozione contro Masi e Minzolini presentata proprio dei finiani (che va al voto lunedì) e anche sulla riforma dell’Università che occuperà la Camera dalla prossima settimana. Ma ogni giorno ormai, è il ragionamento, può essere quello in cui parte la valanga. La questione dei tempi, infatti, non è affatto secondaria. Bersani lo spiega da giorni e lo ha fatto anche ieri mattina in una riunione coi numerosi capibastone del Pd. Entro tre settimane verrà definita a Bruxelles la situazione di Irlanda e Portogallo: default o meno, sarà un’altra mazzata per l’Unione e proprio questa ulteriore situazione di eccezionalità potrebbe essere la leva, tolto di mezzo Berlusconi, per imporre al Parlamento, all’opinione pubblica e al proprio elettorato un governo di salute pubblica con parte dell’attuale maggioranza. Ieri il segretario l’ha accennato pubblicamente parlando di “un percorso da iniziare con l’Udc”, ma è chiaro che serviranno anche i finiani e molti altri. Il Pd, infatti, non ritiene praticabile un’opzione tipo Beppe Pisanu per sostituire il Cavaliere: chiunque appoggiasse un governo così precario passerebbe mesi sotto la contraerea mediatica di un Pdl urlante al “ribaltone” e al “tradimento”. Quel che serve il vicesegretario Enrico Letta lo dice da un po’: “La situazione economica è peggio che nel 1993: allora una grande personalità come Ciampi tirò fuori l’Italia dal pantano. Ora c’è bisogno di un super-Ciampi”. All’epoca, per i più giovani, il futuro presidente della Repubblica guidava la Banca d’Italia, esattamente come Mario Draghi oggi.
Questo è l’orizzonte attorno a cui si muove la segreteria Bersani , certa del benestare di Casini e Fini, mentre il governatore - spiega un dirigente del Pd – potrebbe accettare solo se si creassero le condizioni adatte: via Berlusconi e, come detto, la nascita di una nuova, solida maggioranza sull’onda della crisi in Europa. In questo senso persino la scoppola rimediata alle primarie milanesi potrebbe tornare utile ai democratici: la vittoria del vendoliano Pisa-pia, infatti, lascia una prateria alle velleità di Gabriele Albertini, candidato in pectore del cosiddetto Terzo Polo. In un’ottica da governo di unità nazionale, il Pd potrebbe stringere con Udc e Fli un patto di reciproco sostegno in caso di ballottaggio a Milano. Anche per il prossimo sindaco di Torino il Pd s’attrezza per una soluzione “moderata”: ieri in una riunione si sarebbe deciso di portare alle primarie l’ex ad di Unicredit Alessandro Profumo, che però non ha ancora accettato.

Repubblica 18.11.10
Asse Pd-Udc sul governo di responsabilità
Bersani: "Il voto? Non decide il Pdl". Timori su Fini. L´ipotesi di congelare le primarie
Dopo Milano, i democratici non vogliono correre rischi su Torino, Bologna e Napoli
di Giovanna Casadio


ROMA - Tutto già deciso, per Berlusconi e Bossi. Persino la data delle elezioni, il 27 marzo. Ecco, denuncia il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, «siamo già nella Costituzione di Arcore o di via Bellerio, ma se loro vanno in crisi, come andranno in crisi, prendono su e con le loro gambe vanno al Quirinale, come dice la nostra Costituzione». E a Napolitano i Democratici porteranno una proposta precisa: «Un governo di responsabilità nazionale che metta in sicurezza la democrazia, da fare con l´Udc». Anche con "Futuro e libertà", s´intende. Con Pier Ferdinando Casini, il leader centrista, però la sintonia c´è. Con Fini va creata. Casini per la verità punta oltre, cioè a una Grosse Koalition: «Berlusconi dice o fiducia o voto, ma in realtà vuole dire "o si vota o si vota". E il gioco è talmente scoperto che noi dell´opposizione non possiamo fare i soprammobili». La via d´uscita potrebbe essere «un armistizio, una grande intesa».
Bersani e Casini ne parlano in un dibattito pubblico con Franco Marini (che tentò inutilmente dopo la caduta di Prodi di formare un governo di transizione) e Giorgio Merlo. Ne hanno parlato anche in privato, i leader di Pd e Udc. Ma è soprattutto il Pd a serrare le file con una riunione mattutina, alle 8,30 a Montecitorio, a cui Bersani invita Rosy Bindi, Enrico Letta, Franceschini, Anna Finocchiaro, D´Alema, Veltroni, Ignazio Marino, Migliavacca. Ci sono anche Violante e Bressa che illustrano la bozza di legge elettorale del Pd che è pronta e su cui c´è intesa: collegi uninominali, modifica del premio di maggioranza, quota ampia di proporzionale e diritto di tribuna per chi non supera il 4%. Che una nuova legge elettorale sia necessaria lo dice anche Luca Montezemolo: «È offensivo per i cittadini non potere scegliere chi li deve rappresentare».
Tuttavia i Democratici discutono di un governo di responsabilità, non breve, per affrontare soprattutto l´emergenza economica. Letta lo dice nel vertice: «Deve essere l´economia al centro del governo di transizione e va derubricata la riforma elettorale all´ultimo punto». Chi impersonerebbe questo governo? Nomi formalmente non se ne fanno, ma Draghi è quello di maggiore appeal. Nei prossimi giorni ci saranno incontri con Fli. Adesso doppio è l´allarme: da un lato, per quello che Berlusconi, grazie anche ai media di cui dispone e ai soldi («per la campagna acquisti dei parlamentari»), tenterà di fare da qui alla data della sfiducia, il 14 dicembre; dall´altro, c´è il timore che Fini si convinca a una crisi risolta dentro il centrodestra. «Chi dice che il governo va cercato nel perimetro del centrodestra, sia pure con allargamenti - afferma Bersani - non fa i conti con il fatto che la crisi è nata dentro il centrodestra». No a Tremonti. Ma ci sono molte subordinate, tra cui un governo Schifani, su cui il Pd dovrà ragionare. Veltroni in riunione fissa le condizioni: alleanza al centro e partito all´attacco. Si decide la mossa di inserire il 29 novembre la mozione di sfiducia a Bondi. I big pd stringono un patto, ieri: no a divisioni davanti al disastro. «Pure D´Alema e Veltroni sono d´accordo», scherzano nel vertice. Si parla di primarie, dopo la sconfitta di Milano. D´Alema è per congelare quelle di Torino, Napoli e Bologna. Marino le difende a spada tratta. Bersani: «Primarie da aggiustare ma non rinunceremo».

Repubblica 18.11.10
Per la prima volta dopo molto tempo si profila un ribaltamento dei rapporti di forza tra destra e sinistra. In caso di crisi, il 49% vuole nuove elezioni
Pdl e Lega sorpassati da Pd, Idv e Sel terzo polo a quota 16%
Berlusconi, fiducia giù. Vendola vola
Nella coalizione di centrosinistra conteggiato anche l´apporto di Prc e Comunisti italiani
Sei elettori su dieci scommettono che il governo cadrà. Quasi il 50% dice: rivincerà il Pdl
di Roberto Biorcio Fabio Bordignon


Quasi sei elettori su dieci, oggi, scommettono su una caduta del governo Berlusconi. Se ciò acuisce i sentimenti di insoddisfazione e disorientamento, il fermento che caratterizza il paesaggio partitico disegna scenari inediti: per quanto riguarda l´epilogo della legislatura, ma anche in chiave elettorale.
I dati dell´Atlante Politico, realizzato da Demos, segnalano come i giudizi positivi sull´esecutivo, in netta flessione dopo l´estate, siano rimasti sui livelli di settembre (30%). Si è invece ulteriormente contratto (- 5 punti) il gradimento del premier, ampiamente superato, nel suo stesso schieramento, da Tremonti (46%). In caso di caduta del governo, la maggioranza degli elettori chiede un ritorno immediato alle urne (49%). Per una porzione non trascurabile del campione intervistato, tuttavia, sarebbe preferibile formare un altro governo (39%).
L´esito di eventuali elezioni anticipate appare oggi meno scontato rispetto alle previsioni espresse, ripetutamente, negli ultimi due anni. Quasi metà degli intervistati ritiene ancora probabile una vittoria del centrodestra, ma un terzo del campione intravvede possibilità di successo per il centrosinistra. Questi cambiamenti non si traducono per ora in una crescita delle intenzioni di voto per il Pd (24,8%), mentre crescono i consensi per i suoi alleati: l´Idv (6,8%) e, soprattutto, Sinistra e libertà (6,6%). La progressione del partito di Vendola, che peraltro guida la classifica dei politici più apprezzati (48%), mantiene aperti i problemi sulla leadership della coalizione, caratterizzata proprio dalla competizione tra il segretario del Pd e il governatore pugliese - con quest´ultimo in vantaggio di qualche punto. Interrogata sulla strategia delle alleanze, la maggioranza degli elettori di centrosinistra opta per un fronte elettorale ampio, che spazi dalle forze di centro fino a quelle della sinistra radicale (54%). Ottengono minori preferenze sia l´ipotesi di una coalizione proiettata (esclusivamente) verso sinistra (29%), sia un progetto di alleanze limitato al centro (16%).
La possibile costituzione di un polo autonomo di centro - soluzione particolarmente gradita, peraltro, agli elettori dei partiti che si riconoscono in quest´area - sembra rendere lo spazio elettorale molto più concorrenziale. Le quotazioni della nuova formazione guidata da Fini appaiono in continua ascesa (dal 6,1% di settembre all´8,1%), attraendo ex-elettori del Pdl ma anche significativi consensi provenienti da altre aree politiche. Complessivamente (considerando anche Udc, Mpa e Api), l´ipotetico "terzo polo" raggiungerebbe oggi il 16%, con un incremento di tre punti negli ultimi due mesi. Ciò determinerebbe, indirettamente, il sorpasso del centro-sinistra (40,2%) ai danni del centro-destra (37,3%). Si tratta, naturalmente, di somme di intenzioni di voto per partiti appartenenti alle stesse aree: il quadro potrebbe cambiare in prossimità del voto, in relazione al tipo di coalizioni e ai leader che si confronteranno. Ma è la prima volta, da diversi anni, che si profila un cambiamento nei rapporti di forza fra le coalizioni.

Repubblica 18.11.10
L´Ulivo sorpassa il Pdl e Fini raggiunge l´8%
di Ilvo Diamanti


Silvio Berlusconi non ha mai pensato di aprire la crisi, in queste condizioni. Venire "sfiduciato" dalla Camera, per chi è stato eletto con una larghissima maggioranza, appena due anni fa.
Come spiegarlo agli elettori? Ma c´è un problema ulteriore e forse maggiore. Aggiungere alla sfiducia della Camera quella dei cittadini. Anche se Berlusconi continua a dire che il 60% degli italiani "è con lui", a noi – e non solo a noi – risulta un dato assai diverso: 32%. Meno di un terzo degli italiani. È ciò che emerge dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos, condotto negli ultimi giorni. Un grado di fiducia inferiore a quello di Bersani, ma anche di Tremonti, Casini, Fini. Solo Bossi è meno "amato" di lui. Ma il leader della Lega è, da sempre, uomo di "fazione" e di "frazione". Più che unire, divide.
Si tratta, per Berlusconi, del livello più basso negli ultimi due anni. Dalle elezioni politiche che lo hanno visto trionfatore, a capo del centrodestra. Per questo la prospettiva della crisi lo preoccupa. Teme la trappola dei "governi tecnici" e delle "larghe intese". Anche se invoca nuove elezioni, in caso di crisi, in realtà non le vuole. Non per ora, almeno. Le ritiene rischiose. A ragione, viste le stime elettorali di Demos. Che vedono il Pdl ridotto al 26%. (Meno di Forza Italia – da sola – nel 2001.) Mentre la Lega frena, pur superando il 10%. Insieme il centrodestra supererebbe di poco il 37%. Mentre il Pd, fermo alla soglia del 25%, insieme all´Idv, Sel (entrambe intorno al 7%) e alle altre formazioni di sinistra (Rc e Pdci), toccherebbe il 40%. Con questa legge elettorale, quindi, un centrosinistra "formato Ulivo" potrebbe perfino vincere (grazie al cedimento altrui), conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Alla Camera, almeno. Un´ipotesi, fino a poco tempo fa, comica più che irrealistica.
Al Senato, invece, il sistema elettorale non permetterebbe a nessuna coalizione di ottenere la maggioranza dei seggi. Vista l´ampiezza raggiunta, secondo le stime elettorali, dal Polo di Centro. Circa il 16%, contando, oltre all´Udc, il partito di Fini (e altre formazioni minori: Mpa e Api). Fli, in particolare, continua a crescere. Oggi è intorno all´8%. A (e con) dispetto del Cavaliere e dei suoi uomini. Soprattutto, i reduci di An. Fini, il "traditore". In grado di ridimensionare il Pdl e l´attuale – presunta – maggioranza. I dubbi sull´esito del voto, peraltro, si fanno strada anche fra gli elettori. Benché il 50% ritenga ancora probabile la vittoria del centrodestra e solo il 34% quella del centrosinistra. Un divario di 16 punti. Ma due mesi fa la distanza era ben più ampia: 33 punti (e gli elettori che scommettevano sul successo del Centrodestra erano il 57%).
Naturalmente, i sondaggi non sono elezioni. Ma, in effetti, Berlusconi li sa interpretare – e usare – molto bene. Magari li comunica "a modo suo". D´altronde, siamo in tempi di campagna elettorale permanente. E i sondaggi, oltre a rilevare le opinioni, talora le orientano. Ma oggi gli consigliano di attendere. Cercando di riconquistare la maggioranza. Intanto alla Camera, attraverso una pressante campagna acquisti. Poi, anche presso gli elettori. Preoccupati dall´andamento dell´economia. Delusi dai risultati del governo. Il federalismo annunciato e non ancora ottenuto. I "fatti" annunciati – senza grandi effetti. Le immondizie a Napoli: sparite in dieci giorni. E ricomparse dopo altri cinque. La ricostruzione dell´Aquila. Di cui i residenti non sembrano essersi accorti. E poi, la passione di Berlusconi per le donne e le ragazzine, ammessa senza scuse. Ma, anzi, rivendicata con un certo orgoglio (e un cenno di intesa. Come dire: in fondo voi siete come me, anche se non avete il coraggio di ammetterlo). I due terzi degli italiani la considerano un elemento di debolezza, per un leader. Anzi: il Leader. Il presidente del Consiglio.
Per questo, Berlusconi cerca di tirare avanti. Di allontanare – di un mese – la prova della verifica parlamentare, E spostare il voto a primavera, almeno. Intorno alla sua maggioranza, ormai minoritaria, le opposizioni si preparano. E lavorano: alla ricerca di alleanze e di leadership. Nel centrosinistra – soprattutto nel Pd – è ampia la voglia di ampie intese. Da sinistra fino al centro. Una Santa Alleanza per cacciare il tiranno. Ma, dovendo scegliere, fra gli elettori prevale nettamente l´ipotesi di ricostruire l´Ulivo. Cioè: di allearsi con le sinistre. In particolare con la Sel di Nichi Vendola. La maggioranza degli elettori di centrosinistra (30%), peraltro, vorrebbe il governatore della Puglia leader della coalizione. Un po´ più ridotto (25%) il gradimento per Bersani, il quale resta, comunque, il leader di gran lunga preferito dalla base del Pd. L´alleanza privilegiata con il polo di Centro – secondo i dati dell´Atlante Politico – appare, invece, scarsamente apprezzata dagli elettori di Centrosinistra. Reciprocamente, gli elettori di Centro non sembrano attratti da un´intesa con il Centrosinistra. Preferiscono di gran lunga l´autonomia. Correre da soli. Fare il Terzo Polo. Alla guida di Casini oppure di Fini. In misura molto più limitata, di Luca Cordero di Montezemolo (apprezzato, anche da una quota significativa di elettori del Pd).
Insomma, il sistema politico appare incerto e aperto, come mai lo era stato negli ultimi anni. Almeno dal 1994-96. Tutto appare in movimento. Le alleanze, le leadership e di conseguenza anche gli elettori. Un po´ disorientati, di fronte a un´offerta politica fluida e instabile. Dove i partiti maggiori, due anni fa perni di un bipolarismo bipartitico, appaiono più provati degli altri. Il Pdl, fiaccato dalla defezione di Fini e dai dolori del (sempre) giovane Berlusconi. Mentre il Pd è in preda a una crisi deleteria, in parte incomprensibile. È troppo impegnato a macerarsi all´interno, a logorare ogni leader possibile, presente e futuro. A coltivare la propria eterna vocazione minoritaria e perdente. Così non si accorge che potrebbe diventare maggioranza e – perfino – vincere.

Corriere della Sera 18.11.10
Veltroni avverte il Pd: cambi rotta o rischia
L’ex leader: dai sondaggi segnali di perdita del peso politico
di Aldo Cazzullo


Alleanza Sono per un’alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta, di cui il Pd sia il perno. E che sia la più vasta possibile

«Questo governo è finito. È finito il ciclo politico di Berlusconi. Si deve dar vita a un governo di responsabilità istituzionale che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al Paese». In un’intervista al Corriere, Walter Veltroni non esclude «alleanze allargate» per il Pd e auspica che il partito mantenga «l’ambizione maggioritaria» e «accenda un sogno riformista». Altrimenti, «non ce la farà a costruire l’alternativa», mettendo così a rischio il suo «destino». ROMA — Walter Veltroni, che succede al Pd? Ieri la Puglia, ora Milano: ogni volta che si vota alle primarie, vincono gli altri.
«Ci sono volte in cui dispiace aver ragione. Com’è scritto nel documento firmato da 75 parlamentari, la perdita della vocazione maggioritaria del Pd può comportare rischi molto forti per il destino del partito del riformismo italiano. Purtroppo i sondaggi e le primarie confermano che la riduzione delle ambizioni comporta la riduzione del peso politico. Rimango convinto che il Pd non possa non aver dentro di sé un’ambizione maggioritaria, altrimenti non è il Pd. Dev’essere un soggetto capace di accendere un sogno nella società italiana, un razionale e realistico sogno. E l’unico sogno che la storia politica ci ha dimostrato essere realizzabile è quello riformista di Martin Luther King, di Olof Palme, di Brandt, di Obama: il cambiamento radicale del presente non attraverso il racconto di una società altra, ma attraverso la sfida molto più dura di cambiare la società com’è oggi. Se il Pd rinuncia a questa ambizione, se rinuncia a dire alla società italiana che la vuole portare fuori dal tunnel dove si trova da tempo immemorabile, il Pd non è se stesso».
Com’è possibile che il primo partito di opposizione perda consensi proprio mentre li perde il primo partito di maggioranza?
«Ma i sondaggi dicono pure che nessun partito italiano ha un elettorato potenziale grande come il nostro: i numeri si invertono, il 24% diventa il 42. Quel divario dev’essere colmato attraverso il ritorno a un’ispirazione che sia da Pd. Se il Pd si trasforma in una forza a fatica distinguibile, se rinuncia al suo essere più com’è il Partito laburista inglese o il Partito democratico americano che come sono i partiti socialisti europei, non ce la farà a costruire l’alternativa di cui l’Italia ha bisogno».
Bersani come si sta muovendo e come l’ha trovato lunedì sera da Fazio?
«Io apprezzo il lavoro che sta facendo Bersani. Siamo in una fase in cui bisogna garantire il massimo di convergenza, e in questa crisi la convergenza c’è. Però mi è spiaciuto, nel suo intervento a "Vieni via con me" sotto molti aspetti apprezzabile, non sentire mai l’aggettivo "democratico". Bersani ha detto "sinistra", "progressisti"; mai "democratici". Per me non è un aggettivo che si usa per privazione degli altri; democratico è il pensiero politico più forte che la storia del ’900 ci abbia consegnato, ancora valido per essere usato nel tempo successivo: l’unico pensiero politico che abbia radici di cui dobbiamo essere orgogliosi. Essere democratico non è meno che essere di sinistra; è la più radicale delle politiche di cambiamento. Il Pd deve assumere senza equivoci questa identità, coniugata con il suo verbo fondamentale; che non è il verbo "difendere", ma il verbo "cambiare". Il paese ha bisogno di un cambiamento profondo».
Franceschini, Letta, la Bindi sostengono un’alleanza vasta con Fini e Casini. Lei che ne dice?
«La cosa più grave che può accadere al Pd è dividersi tra chi sostiene che bisogna allearsi con Vendola e Di Pietro e chi con Fini e Casini. Solo il fatto che si discuta di questo contraddice il progetto originario, secondo cui dovevano essere gli altri a discutere se allearsi con noi. Il Pd non ritroverà il consenso perduto se non ritorna centrale, se non individua le grandi frontiere di innovazione necessarie all’Italia. Su quelle vediamo chi c’è». Quindi lei non esclude un’alleanza allargata? «Sono per un’alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta. Non cadiamo nel vizio da Prima Repubblica di discutere prima di alleanze che di cose, e in primo luogo di precarietà e legalità, che sono le due cose fondamentali. E potrei continuare: ambiente, scuola. Questi sono i temi su cui il Pd deve ritrovare una fortissima capacità di innovazione, per rappresentare il perno di un’alleanza più vasta possibile in vista delle elezioni. È evidente che non possiamo essere solo noi. Non invoco né l’autosufficienza né l’isolamento. Il punto è la centralità, è se sei tu a indicare la frontiera su cui costruire un’alternativa fondata su un’idea d’Italia, su un messaggio positivo, non solo sul dire che Berlusconi non va bene». Che impressione le fa l’ascesa di Vendola? «Non ho paura di avere altri alla mia sinistra. Se Nichi ha successo è un bene; a condizione che il Pd, forza di centrosinistra, sia capace di intercettare il voto degli astensionisti e i voti in uscita dal centrodestra, anziché mettersi a fare lo stesso mestiere di Vendola. Lui può svolgere una funzione posit i va: evi t ar e c he l ’ esasperazione di una radicalità che rinuncia a una sfida di governo porti a una posizione minoritaria e ininfluente. L’ultima cosa che noi possiamo fare è immaginare una campagna con lo schema del ’94, con i progressisti da una parte, al cui interno prevalgono le posizioni più radicali. Il centro è nato perché al centro si è aperto uno spazio». E i «rottamatori» di Renzi? «L’innovazione è sempre benedetta e benvenuta. Ma si fa con il coraggio di scelte politiche, non agitando l’esigenza di cambiamento di per se stessa. Quando noi andammo oltre il Pci, non pensammo di "rottamare" Tortorella o Chiaromonte; chiedemmo di dar vita a qualcosa di nuovo. E lo facemmo consentendo a quella sinistra, nella coalizione dell’Ulivo, di governare per la prima volta l’Italia».
Si riaffaccia l’ipotesi di un ruolo politico per Saviano. Che ne pensa?
«Il successo di "Vieni via con me" conferma l’esistenza di una nuova maggioranza silenziosa che non ne può più di una politica rissosa, pesante, inconcludente, che si è stancato di Berlusconi e del suo universo orrendo. È una maggioranza di italiani che vorrebbe girare pagina e ogni volta che può esprimersi si esprime, stavolta con un programma tv. È un fatto culturale prima che politico, il segno di un’inversione di tendenza. Saviano è l’espressione di questo mondo che tiene alla legalità e non capisce perché uno scrittore venga sfidato da autorità che dovrebbero essere al suo fianco, perché debba prendersi gli insulti di Maroni e Berlusconi. Ho affetto e stima per Roberto, so come vive, so che ogni volta che i governanti anziché stargli vicino lo scagliano lontano aumentano per lui isolamento e solitudine. Ma so anche che Saviano non è politicamente collocabile. È trasversale, perché la legalità costituisce un pre-valore, che dovrebbe essere comune a tutti».
È vero che il Pd ha trovato una linea comune per la riforma elettorale? Qual è la vostra proposta?
«È nell’Assemblea nazionale che abbiamo votato all’unanimità le linee guida della nostra posizione sulla nuova legge elettorale. E abbiamo confermato le ragioni di una proposta che va nel senso di un sistema sul modello di quello francese. Ma siamo aperti a cercare con gli altri soluzioni che rimuovano le anomalie dell’attuale legge elettorale e consentano all’Italia di avere un sistema stabile».
Si va verso elezioni anticipate?
«Chi vuole le elezioni è nemico dell’Italia. Non lo dico per una forzatura propagandistica, ma perché sento una preoccupazione persino drammatica su quel che accade su scala europea. Quando Van Rompuy dice che sono in gioco in queste ore l’Ue e l’euro, dice una cosa gigantesca, che dovrebbe far fermare tutti a riflettere. Stiamo per vedere incrinata la più grande conquista politica di questo nuovo secolo. L’Italia arriva al momento critico con tutti gli indicatori negativi: crescita di debito, deficit, spesa pubblica; calo delle entrate fiscali. Ricordo che, quando ero al governo con Prodi, ogni giorno Ciampi entrava nella nostra stanza sorridendo, e ci mostrava la differenza in positivo rispetto al giorno prima dello spread tra i Bund tedeschi e i nostri Btp. Oggi il divario è tornato a livelli mai raggiunti dal 2000, da quando siamo nell’euro. Ci attendono manovre di rientro dal debito molto forti. Sento parlare di 45 miliardi di euro per la prossima primavera. In queste condizioni, l’idea di elezioni anticipate è un’idea da nemici dell’Italia».
Chi vincerebbe?
«Sarebbe un voto dall’esito incerto. Nessuno degli schieramenti sarebbe in grado di garantire la modernizzazione e la stabilizzazione necessarie. Rischiamo di perdere sei mesi per ritrovarci in uno stallo peggiore di quello di oggi».
Lei quindi è per un governo tecnico?
«Questo governo è finito. È finito il ciclo politico di Berlusconi, per quante manovre e campagne acquisti possa tentare. Si deve dar vita a un governo di responsabilità istituzionale, che non sia un ribaltone, ma raccolga tutte le forze in Parlamento preoccupate di questa condizione del tutto particolare in cui versano l’Italia e l’Europa, e delle conseguenze sociali sugli italiani che si impoveriscono, sulle aziende che chiudono. Un governo che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al paese, cambi la legge elettorale, prepari il terreno a una dialettica di tipo europeo tra schieramenti diversi».
Quanto dovrebbe durare?
«Non certo un mese. Deve avere il respiro necessario per fare tutto questo, non nell’interesse dei partiti ma dell’Italia. Lo chiedono tutte le forze sociali, dalle organizzazioni degli imprenditori a quelle dei lavoratori. Dobbiamo sancire la fine del berlusconismo ed evitare che Berlusconi trascini nella sua crisi anche le forze del centrodestra. Tutte le forze responsabili diano vita a una fase di transizione, con un governo di altissimo profilo, immagine e autorevolezza; oppure il paese rischia moltissimo».
Chi dovrebbe guidarlo?
«Ho fatto il nome di Ciampi non per caso. Non necessariamente dev’essere la persona che occupa lo stesso ruolo. Ma persone con quella cifra, quella autonomia, quell’indipendenza esistono. L’Italia, ricordiamolo sempre, è molto migliore di come oggi la si rappresenta».

l’Unità 18.11.10
Tremonti per la Chiesa
di Enrico Rota


Proprio adesso che stiamo attraversando un periodo di crisi economica in cui tutti devono fare sacrifici; ed in seguito all’alluvione nel Veneto che ha creato la necessità di reperire urgentemente fondi per riparare i danni; e mentre è in corso un’inchiesta della Corte Europea sulle esenzioni dall’Ici e da altre imposte concesse dal Governo italiano alle attività (anche commerciali) della chiesa cattolica, esenzioni paragonabili ad aiuti di stato e perciò probabilmente illegali; e poco dopo gli enormi tagli fatti ai fondi destinati alle scuole statali, i cui allievi spesso devono adesso addirittura portarsi la carta igienica da casa... cosa fa il nostro governo? Beh, nel maxi-emendamento alla Finanziaria del 12 novembre il ministro dell’Economia Tremonti (a suo tempo geniale ideatore del diabolico meccanismo dell’otto per mille, che da quando è in vigore ha arricchito a dismisura la chiesa cattolica) decide di regalare alla chetichella 245 milioni di euro alle scuole cattoliche paritarie e contemporaneamente di dimezzare i fondi destinati al 5 per mille. Aiuti alla fede e tagli alla scienza insomma – come se fosse la fede quella che ci tirerà fuori dalla crisi economica.

Repubblica 18.11.10
L’attualità di destra e sinistra
di Carlo Galli


È bastata la fortunata trasmissione televisiva di Fabio Fazio, con la sua impressionate audience, a far tornare all´ordine del giorno due categorie "spaziali" della politica, destra e sinistra.
Con il concorso di Fini e Bersani si è così cominciato a restituire cittadinanza, all´interno del discorso politico, a una bipartizione che molti, in buona o in cattiva fede, hanno sdegnosamente ritenuto un´anticaglia ideologica, superata nel tempo postmoderno della globalizzazione.
Nulla di più sbagliato: destra e sinistra permangono perché la politica moderna e contemporanea non è dogmatica o monolitica, ma indeterminata e conflittuale. E il conflitto ancora oggi si gioca proprio là dove la storia l´ha collocato, e dove si è già manifestato, pur in forme molto diverse tra loro: intorno ai presupposti e alle finalità stesse dell´agire politico. Che sono, in sintesi, il primato dei doveri (la destra) oppure dei diritti (la sinistra); ovvero il prevalere di logiche sovrapersonali (la Tradizione, lo Stato, la Nazione, il Mercato, la Sicurezza) a cui l´individuo deve adeguarsi – e dalle diverse abilità di questa adeguazione scaturisce la gerarchia sociale – (la destra), oppure il principio di uguale dignità delle persone che, nelle loro diversità, hanno il diritto di affermare le proprie scelte di vita senza soggiacere a condizionamenti non criticamente conosciuti e non liberamente accettati, qual è, ad esempio, l´ordinamento costituzionale (la sinistra). I temi caldi della politica di oggi, che gravano sulla vita delle persone e delle famiglie – la biopolitica, le nuove forme del lavoro e la sua tutela, il Welfare, l´istruzione pubblica, il multiculturalismo, l´immigrazione, perfino le questioni energetiche e ambientali – non hanno una sola soluzione, tecnica, o algebrica, come vuole la pigrizia qualunquistica e antipolitica. Sono temi complessi, che possono essere risolti in vari modi, che – se ci si pensa – si collocano fra il primato delle istanze "superiori", e la implicita logica gerarchica, e il primato dell´uguale dignità e libertà delle persone.
Il punto, in Italia, è che questa dialettica fisiologica non si è mai manifestata, nel dopoguerra. Dapprima, perché vicende storiche interne e internazionali resero necessario che fosse il Centro, la Dc (molto divisa al suo interno), a rivestire di volta in volta (e anche contemporaneamente) entrambi i ruoli. In seguito, perché la lotta politica si è sviluppata intorno al conflitto fra un´avventura personalistica e al contempo populistica (Berlusconi), da una parte, e, dall´altra, la legalità, lo spirito costituzionale, la sensibilità democratica (il resto dello schieramento politico). Il primo ha unito intorno a sé diverse destre, economiche e politiche, e molti esponenti del vecchio socialismo; e, sull´altro versante, le antiche distinzioni fra destra e sinistra sono scomparse: gli eredi della Dc e del Pci hanno dato vita, insieme, a un nuovo partito il cui collocarsi a sinistra è dubbio (almeno per non pochi suoi esponenti di primo piano), mentre chi ha avuto la pretesa di essere "sinistra" in senso tradizionale, fuori dal Pd, non ha trovato spazio. La lotta politica ne è risultata inasprita e al contempo semplificata e impoverita, ridotta al conflitto del Bene contro il Male, dell´Amore contro l´Odio, del Popolo contro le Istituzioni. Impossibile, nel caso d´eccezione permanente, entrare nel merito dei problemi, sviluppare analisi di destra o di sinistra.
Quello che sta capitando, in queste settimane, in questi giorni, è un duplice processo: da una parte, il fronte costituzionale si arricchisce della sensibilità politica "repubblicana" di Fini e della sua destra "moderna" e europea; e si realizza così una forte convergenza, necessaria davanti all´emergenza democratica che stiamo vivendo, fra responsabilità istituzionali e sensibilità costituzionali. E questo processo potrebbe (il condizionale è d´obbligo) mettere in minoranza il blocco populista di Berlusconi e Bossi. Dall´altra, proprio la crisi di Berlusconi libera la fisiologica dialettica fra destra e sinistra, e consente a questa polarità di dispiegarsi (non caso, rinasce anche il Centro, che quasi sempre è presente nei teatri occidentali della politica, almeno là dove il sistema elettorale lo lascia emergere). Ne è spia l´insistenza con cui Fini afferma la propria vocazione di destra, pur lottando contro la destra di Berlusconi e Bossi; e la voglia di sinistra che soffia dentro e fuori il Pd, di cui il caso Pisapia a Milano, e il successo di Vendola (che però è altra cosa), sono un buon esempio.
Il Pd rischia quindi di pagare caro il fatto non solo d´essere nato all´interno di uno schema bipolare e quasi bipartitico (la vocazione maggioritaria), ma anche di doversi alleare con Fli: scelta obbligata tanto se si riuscirà a dar vita a un governo di fine legislatura, che cambi almeno la legge elettorale quanto se invece si andrà a elezioni anticipate con Berlusconi a Palazzo Chigi e con il Porcellum. Si può immaginare, in questo secondo caso, lo spazio enorme che si aprirà a sinistra; e anche quanto su questa divisione del campo avversario conti Berlusconi.
Ma anche se si votasse con una nuova legge elettorale, che consenta l´emergere di più poli, il Pd avrebbe problemi: si troverebbe infatti sbarrato lo spazio del Centro, presidiato dalla convergenza tra Fini, Rutelli e Casini, e dovrebbe spostarsi a sinistra, mutando sostanzialmente di natura. Ci sarebbe insomma il rischio che il progetto del Pd sia messo in crisi, proprio dalla concretezza della storia, dal ritorno della normalità – cioè di una regolata e civilizzata dialettica politica – , dal riemergere della divisione categoriale e pratica fra destra e sinistra.

l’Unità 18.11.10
Gli studenti in tutto il Paese hanno gridato i loro no alla riforma che uccide la scuola pubblica
Il ministro come un disco rotto dice: ripetono slogan del passato. Al via le occupazioni
200mila giovani in piazza Per Gelmini sono «vecchi»
Le piazze delle principali città italiane ieri erano degli studenti. Duecentomila, anche di più, a protestare contro la riforma Gelmini. Il ministro li ha irrisi: slogan vecchi, erano solo il 3% del totale.
di Gioia Salvatori


«Governo precario, generazione precaria: vediamo chi cade», «Gelmini e Tremonti appesi a un filo, lasciamoli cadere» recita uno striscione dei collettivi link all’ateneo di Bari. La sfida degli studenti all’esecutivo ieri è stata uguale a cento piazze: quelle in cui, in occasione della giornata mondiale per il diritto allo studio, medi e universitari hanno manifestato contro il ddl Gelmini e non solo. Cavalcando la crisi di governo. Non a caso a Roma, dove i cortei sono stati tre, un gruppo di studenti ha superato i confini del percorso autorizzato per finire sotto le finestre di Camera e Senato e urlare alla maggioranza parlamentare e al governo che è ora di «Dimissioni». «È solo l’inizio, non ci fermeremo qui», dicono i manifestanti scesi in piazza con Rds (Rete degli studenti), Link, UdS e UdU, per nulla fiaccati da un mese di mobilitazioni, occupazioni e cortei. Ieri hanno rilanciato manifestando in 200mila in tutta Italia con cortei a Milano, Palermo, Bologna, Napoli, Venezia, Firenze, Ancona. Non solo sfilate ma anche nuove occupazioni: a Torino è stata la volta della facoltà di matematica con l’occupazione di palazzo Campana, uno dei luoghi simbolo del ’68; nel capoluogo torinese i cortei sono stati due e gli studenti medi hanno anche occupato per un paio d’ore i binari a Torino Porta Nuova.
A Roma continuano le occupazioni di quattro storici licei del centro (tra cui Virgilio e Manara), a Catania universitari, studenti e precari della scuola hanno occupato l'ex monastero dei benedettini che ospita Lettere e Lingue. A Trieste corteo e festa: le occupazioni hanno convinto la Provincia a stanziare fondi per l’edilizia scolastica. A Pisa occupato il polo Carmignani, in pieno centro città. A galvanizzare la protesta il rischio chiusura di una mensa universitaria visto il buco di bilancio di 11 milioni nelle previsioni 2011 dell’azienda regionale per il diritto allo studio della Toscana. Sempre a Pisa ieri una ragazza è rimasta contusa durante una carica di alleggerimento contro un gruppo di studenti medi che tentava di oltrepassare i confini del corteo autorizzato per manifestare sotto confindustria. Alla fine sono state uova contro le banche, così come a Milano dove è stata danneggiata una sede della Fideuram. A Milano gli studenti si sono recati anche in via Imbonati in solidarietà ai tre immigrati in protesta alla ex Carlo Erba contro la sanatoria truffa. Nessuno scontro a Roma dove parte degli universitari ha lasciato il corteo principale per finire sotto Montecitorio e un gruppo di liceali delle scuole occupate del centro storico ha bloccato il lungotevere con flash mob e corteo non autorizzato. «Solo vecchi slogan», ha detto Gelmini agli studenti, che hanno replicato definendo «accanimento terapeutico» che il ministro dell’Istruzione dopo tutte le proteste ancora non si dimetta. Le parti degli studenti sono state prese da Pd, IdV, Sel. Altre manifestazioni ci saranno nei prossimi giorni.

l’Unità 18.11.10
Liberarsi dalla paura di non avere futuro
La mobilitazione serve a fermare progetti che stanno mettendo in ginocchio un’intera generazione
di Tefano Vitale


Èla paura di un’intera generazione quella che è scesa in piazza ieri. I tagli a scuola e università, infatti, non sono solo dei correttivi di bilancio, ma rispondono ad una precisa scelta, si legano strettamente ai tagli alla cultura e ai finanziamenti a scuole e università private, che, ovviamente, non mancano mai. C’è chi vuole una generazione ignorante, una generazione piegata alle logiche del consumo e del mercato, precaria e incapace di ribellarsi. A quest’idea di società noi rispondiamo con una rinnovato spirito di protagonismo, vogliamo riscoprire nelle nostre scuole e università la dimensione collettiva da tempo smarrita smarrita. Le tante occupazioni e autogestioni che si stanno susseguendo raccontano proprio questa voglia di partecipazione e cambiamento che vogliamo contrapporre alle logiche dell’individualismo e della guerra tra poveri che ci impongono. C’è una generazione che chiede di essere protagonista del proprio tempo. Altro che bamboccioni, gli studenti oggi vogliono forme di welfare universali, chiedono di potersi emancipare dalla schiavitù della precarietà e di far entrare la nostra società veramente in Europa. Dalle manifestazioni di ieri il governo esce sfiduciato dagli studenti in entrambi i rami del parlamento, in migliaia abbiamo presidiato sia la Camera che il Senato chiedendo a gran voce le dimissioni di questo governo. Sembra proprio che da ieri sia partita una nuova ondata di mobilitazione, le occupazioni non da ultima quella di palazzo Campana a Torino, non occupato dal ’68 lo dimostrano. Saremo di nuovo in piazza il 27 novembre con la CGIL, per rispondere all’attacco ai nostri diritti che vede nel collegato lavoro, approvato poche settimane fa, solo l’ultima rappresentazione legislativa. Come recitava lo striscione romano di ieri, la sfida ormai è lanciata: «Generazione precaria, governo precario. Vediamo chi cade».

l’Unità 18.11.10
La denuncia di Amnesty I tribunali libici emettono sentenze di morte senza giusti processi
Il dossier migranti Ammassati in lager, rimpatriati a forza migliaia di cittadini stranieri
Rifugiati, forca e censura In Libia diritti senza speranza
Torture, pene crudeli, disumane e degradanti. E ancora: restrizioni gravi della libertà di espressioni, oppositori incarcerati, migranti deportati. I diritti umani nella Libia di Gheddafi. Il Rapporto di Amnesty.
di Umberto De Giovannangeli


Le accuse. Tripoli si rifiuta ancora di ratificare la Convenzione Onu
No all’inchiesta. Non accolta la richiesta di un’indagine indipendente nel Paese
Pene corporali. Introdotte negli anni ‘70, mano destra amputata per un furto
Il caso eritrei. Più di 200 immigrati deportati in estate ora vivono braccati

Un messaggio per il Cavaliere e la corte italica degli amici del Colonnello: le speranze per i diritti umani in Libia sono ancora molto lontane». Così Diana Eltahawy, ricercatrice del segretariato internazionale di Amnesty International sul Nord Africa, commenta gli ultimi rifiuti di Tripoli al Consiglio Onu sui diritti umani in tema di asilo e tutela dei rifugiati, nel convegno organizzato ieri a Montecitorio dal titolo «La Libia di domani: quale speranza per i diritti umani?». Lo scorso 12 novembre a Ginevra, in occasione dell'esame periodico universale Onu (il nuovo meccanismo di controllo istituito dal Consiglio sui diritti umani), «la Libia ha detto no alla ratifica della Convenzione Onu sui rifugiati, a un'investigazione indipendente sui diritti umani nel Paese e alla richiesta di abolizione della pena di morte», ricorda Eltahawy, illustrando il rapporto di Amnesty sulla situazione nella Grande Jamahiria presentato lo scorso giugno. «Tripoli aggiunge ha reagito al rapporto dicendo che Amnesty non capisce il sistema politico del Paese, ma senza rispondere alle nostre domande» sulle condizioni dei detenuti, le detenzioni arbitrarie, le condanne a morte, le discriminazioni nei confronti di donne, la mancanza della libertà di stampa e di espressione, l’assenza di tutela dei richiedenti asilo.
CHIUSURA TOTALE
Le autorità libiche «ci hanno invitato a visitare il Paese, ma poi hanno detto che non era il momento: di fronte a questi rifiuti rimarca la ricercatrice credo che le speranze per i diritti umani in Libia siano ancora molto lontane».
RADIOGRAFIA IMPIETOSA
I tribunali libici rimarca il Rapporto continuano a emettere sentenze di morte, soprattutto per omicidio e reati connessi al traffico di droga, spesso nell’ambito di procedimenti legali che non rispettano gli standard internazionali per un giusto processo. Le esecuzioni continuano a essere praticate mediante fucilazione. Le punizioni corporali sono state introdotte a partire dagli anni ‘70, con l’approvazione di una serie di leggi, fra cui la legge n.70 del 1973. Tale legge prevede l’imposizione di una pena di 100 colpi di frusta per gli accusati di zina, definita nella legge libica come un rapporto sessuale fra un uomo e una donna non legati dal vincolo di un matrimonio legale. Fra le altre leggi che in Libia impongono pene corporali ci sono: la Legge n.52 del 1974 sulla had al-qadhaf (diffamazione) punita con al fustigazione; la Legge n.13 del 1425 sul furto, per cui è prevista l’amputazione della mano destra e sulla haraba (rapina o ribellione sulla pubblica via) punita con l’amputazione incrociata (mano destra e piede sinistro) o con la pena di morte, se il condannato ha commesso omicidio. Stando alle informazioni in possesso di Amnesty International, negli ultimi anni, i tribunali hanno continuato a infliggere punizioni corporali fra cui l’amputazione della mano destra e la fustigazione.
Altro capitolo esplosivo è quello dei Rifugiati e richiedenti asilo. La Libia non ha ratificato la Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e il suo Protocollo del 1967. Ad oggi, non esistono procedure con cui i richiedenti asilo possano chiedere il riconoscimento dello status di rifugiati da parte delle autorità libiche. In mancanza di procedure di asilo, in Libia è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) a occuparsi del riconoscimento dello status di rifugiato. L’Unhcr, che è presente il Libia dal 1991, opera senza un protocollo d’intesa ufficiale, il che rileva il Rapporto di AI rende il contesto altamente imprevedibile e mina la capacità di portare avanti in maniera sistematica le proprie funzioni di protezione. Ancor più drammatico è il capitolo su Rifugiati, richiedenti asilo e migranti.
LAGER IN FUNZIONE
Le autorità libiche denuncia Amnesty continuano a detenere migliaia di persone considerate migranti irregolari, compresi rifugiati e richiedenti asilo, in centri di detenzione gravemente sovraffollati, dove l’igiene e le condizioni generali lasciano molto a desiderare. Negli ultimi anni, documenta il Rapporto le autorità libiche hanno arrestato e rimpatriato forzatamente decine di migliaia di cittadini stranieri senza un giusto processo e senza tenere in considerazione il loro bisogno di protezione internazionale. Coloro che sono sospettati di essere entrati o risiedere illegalmente nel Paese subiscono deportazioni, a volte di massa, senza aver accesso a un avvocato né a un servizio di traduzione, senza una valutazione dei loro casi individuali e senza la possibilità di appellarsi contro la decisione di deportarli. Il Rapporto di AI conferma quanto più volte denunciato dall’Unità: i richiedenti asilo e i rifugiati vivono nella paura costante. Nel 2004, le autorità libiche hanno deportato due gruppi di cittadini eritrei. All’arrivo in Eritrea, le 110 persone che formavano il primo gruppo sono state arrestate, detenute in incommunicado e torturate all’interno di prigioni militari segrete. Dalla fine del dicembre 2009 a metà giugno 2010, le autorità libiche hanno concesso agli ufficiali dell’Ambasciata eritrea di avere accesso ad alcuni centri in cui erano detenuti cittadini eritrei. In occasione di queste visite, a questi ultimi veniva chiesto dagli ufficiali di sicurezza libici di riempire dei moduli con i dati anagrafici, scatenando in questo modo il timore che le autorità stessero preparando il loro rimpatrio forzato. Dai lager all’impunità. I retaggi di gravi violazioni dei diritti umani che hanno avuto luogo soprattutto negli anni ‘80 e ‘90 avverte il Rapporto continuano a gettare un’ombra sulla storia dei diritti umani in Libia. Tali violazioni comprendono detenzioni arbitrarie, torture o altre forme di maltrattamento, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali e decessi durante la detenzione causati da torture o altri abusi. In occasione della visita in Italia del leader libico Muammar Gheddafi, lo scorso agosto, la Sezione Italiana di Amnesty International aveva scritto una lettera al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al ministro degli Affari esteri Franco Frattini, chiedendo all'Italia di inserire il tema dei diritti umani nell'agenda degli incontri e, più in generale, al centro delle relazioni bilaterali e della cooperazione tra Italia e Libia. Sono passati tre mesi. Nulla è cambiato. Per il Cavaliere e i suoi sodali il tema non esiste: il Rais libico non va importunato: meglio parlare di affari. O di Bunga Bunga.

Nazismo
l’Unità 18.11.10
Esce in Italia per Bollati Boringhieri uno degli inediti più importanti nella storia della psicologia
Qui annotò il suo percorso interiore. E nel 1959, due anni prima di morire, la pagina d’addio
Sogni, visioni, deliri e paure. Ecco il libro segreto di Jung
Ecco in traduzione italiana il «Libro» in cui il fondatore della psicologia analitica dal 1913 annotò la sua vita interiore. Con un esordio «sanguinario» che gli fece temere la schizofrenia. Invece arrivava la Grande Guerra...
di Romano Madera


Una «cattedrale». Concesse al suo mondo interno un’attenzione da certosino medievale
1913-1914: Si susseguono immagini sanguinarie. Pazzia? No È la Guerra che arriva

Il testo italiano. Dopo gli Usa, da noi Un nuovo corso di studi
Il Libro rosso di Carl Gustav Jung, A cura di Sonu Shamdasani, pagine 371-XXII, euro 150,00, Bollati Boringhieri

Jung lavorò al «Libro rosso» trascrizione in parole e immagini dei sogni e delle visioni che popolarono il suo «viaggio di esplorazione verso l’altro polo del mondo» per oltre sedici anni, dal 1913 al 1930, e ancora in tardissima età egli lo definì una sorta di presagio numinoso, l’opera di fondazione in cui aveva deposto il nucleo vitale e di pensiero della sua futura attività scientifica. Non volle mai autorizzarne la pubblicazione. Dopo la pubblicazione negli Usa lo scorso anno, ecco l’edizione italiana che inaugura una stagione nuova negli studi junghiani.

Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung è un oggetto prezioso e bizzarro insieme. Averlo tra le mani comunica la sensazione di poter sfogliare un codice medioevale, riprodotto con la perfezione della fotografia e delle tecniche tipografiche più moderne. Ma il miniaturista lo ha decorato di immagini sfrenatamente oniriche, dipinte da una mano di inizio Novecento. Una volta, parlando con una sua paziente, Jung le suggerì di trascrivere e disegnare le sue fantasie nel modo più accurato possibile in un libro ben rilegato e costoso. Era quanto aveva fatto lui stesso dal 1913 in poi, prima nei Quaderni Neri e, in seguito, nel Liber Novus, conosciuto poi come Rosso per il colore del cuoio che ne raccoglieva le grandi pagine. Adesso è disponibile la traduzione italiana, edita da Bollati Boringhieri, che riproduce perfettamente, in facsimile, il testo calligrafico e le tavole disegnate da Jung, accompagnate da una utilissima introduzione del curatore, Sonu Shamdasani, lo studioso di storia della psicologia che sta dirigendo, per la fondazione internazionale Philemon, la pubblicazione dei numerosi inediti di Jung e la riedizione critica delle opere già conosciute.
Ma da dove nasce una dedizione così meticolosa ai propri processi interiori, ai sogni, alle fantasie in stato di veglia, ai pensieri che balenano in noi senza essere invitati?
Jung sentì di non avere altra scelta che quella di confrontarsi, nel modo più franco e spietato, con lo scuotimento che faceva vacillare la fiducia nella sua stessa sanità mentale. Si decise a lasciar venire alla luce ciò che lo turbava, anzi, decise di trattarlo come l’ospite di maggior riguardo, consacrandogli il tempo e l’attenzione che un certosino medievale dedicava alla trascrizione e alla miniatura dei libri sacri. Ne parlava come di un libro-cattedrale interiore, pur sapendo che molti, anche suoi colleghi psichiatri e psicoanalisti, avrebbero considerato il suo modo di procedere una tecnica che avrebbe poi chiamato immaginazione attiva, una specie di meditazione e registrazione dei dialoghi con le immagini spontanee della psiche come «una sorta di pazzia». Così scrive nell’ultima pagina, aggiunta nel 1959 e subito interrotta, due anni prima di morire, dopo aver lasciato, per decenni, incompiuto il suo testo. Jung seppe trarre da ciò che è massimamente inquietante una via nuova, nuova come il titolo latino del suo libro, una via insieme psicologica e spirituale.
Dall’ottobre del 1913 al luglio del 1914 si susseguono una serie di visioni e di sogni con un mare di sangue che inonda l’Europa, immagini di guerra, di assassinio, di spaesamento in terra straniera. Lo psichiatra in lui teme un esordio schizofrenico. Ma scoppia la Grande Guerra. Jung comincia a capire, per esperienza diretta, che un legame tanto insondato quanto possente tiene in comunicazione la psiche del singolo con il mondo, di più, che il mondo abita l’uomo, fin nel profondo. Il conflitto distruttivo collettivo lo minaccia così da vicino perché la sua vicenda personale entra in risonanza con esso: la rottura con Freud lo aveva lasciato orfano del padre elettivo; la sua vita familiare e affettiva era stata attraversata dalla difficile relazione di certo amorosa, forse anche sessuale con una sua geniale ex paziente, Sabina Spielrein. Il Libro Rosso è l’elaborazione immaginale, narrativa e concettuale i tre registri si intrecciano continuamente nel testo di questo sciame sismico che annuncia la fine di un mondo, storico e biografico. Mentre la Grande Guerra seppelliva in un’ecatombe tutte le fantasie onnipotenti della borghesia illuminata europea, la personalità dello psichiatra di fama internazionale, del professionista benestante, dello scienziato, perdeva ogni attrattiva interiore e doveva dichiarare fallimento quanto al senso della vita. Il libro incomincia così, con l’abbandono dello «spirito del tempo», legato al successo e alla fama, e con l’ascolto dello «spirito del profondo» che esige di immergersi negli enigmi eterni dell’esistenza: nascita e morte, amore e distruzione, bene e male, naturalità e divinità. Proprio su queste pagine si avvia un confronto con un interlocutore che rappresenta per Jung «un caso che fa epoca», Friedrich Nietzsche, l’annunciatore della morte di Dio e dell’avvento di Dioniso contro il Crocifisso. In un capitolo intitolato Der Weg des Kreuzes la via della croce, uno dei più drammatici del libro, lo Zarathustra di Nietzsche è continuamente evocato e riconosciuto come una inconscia identificazione, posseduta da una rabbiosa violenza, con il crocifisso. E proprio colui che si voleva profeta della terra, Nietzsche-Zarathustra, rimane senza terreno sotto i piedi. Commenta efficacemente e lapidariamente Shamdasani, a proposito delle evidenti somiglianze strutturali fra Libro Rosso e Zarathustra, che là dove Nietzsche proclama la morte di Dio, Jung raffigura la sua rinascita nell’anima.
Shamdasani riporta nella sua «Introduzione» al Libro Rosso, gli appunti di conversazioni con Jung di Cary Baines, una analizzante, amica e collaboratrice, che aveva battuto a macchina nuove parti del testo. Nel gennaio del 1923 Baines scrive che le immagini di Elia e di Filemone, come altre, sembrano essere fasi di quello che Jung avrebbe chiamato «il maestro». Secondo Baines, Jung era sicuro che era questo stesso Maestro ad aver ispirato Buddha, Cristo, Mani, Maometto... e che questi si erano identificati con la sua figura. Identificazione dalla quale Jung era deciso a rimanere ben distante, perché convinto di essere soltanto uno psicologo che aveva capito quale era il processo in atto. Baines replicò che quel che si doveva fare era far capire al mondo la natura di questo processo di rivelazione del maestro, senza che altri credessero di poterlo mettere in gabbia e di averlo a loro disposizione.

Gli appuntamenti. Saggi, presentazione e un convegno a Milano
2 dicembre Uscirà il numero del quarantennale della «Rivista di Psicologia Analitica», diretta da Paolo Aite, intitolato «Nel crogiuolo junghiano», che contiene alcuni saggi su «Il Libro Rosso».
11 dicembre Alla Cappella Farnese di Bologna, «Il Libro rosso» verrà presentato da Laura Briozzo, Federico De Luca Comandini, Alfredo Lopez, Robert Mercurio, Giulia Valerio e Claudio Widmann. Lo stesso giorno ad Asciona, ne parleranno Riccardo Bernardini, Claudio Bonvecchio, Adriano Fabris, Fabio Merlini, Gianpiero Quaglino, Giovanni Sorge e Luigi Zoja
14 dicembre L’Università di Milano-Bicocca ospiterà una giornata di studi dedicata al «Libro Rosso» (tra i partecipanti, oltre a Romano Màdera filosofo e psicoanalista, docente all’Università Bicocca di Milano Giovanni Sorge, Fabio Madeddu, Lella Ravasi, Silvia Lagorio, Claudia Baracchi, Franco Livorsi, Uber Sossi).

Comunismo
l’Unità 18.11.10
Intervista a  Peter Fröberg Idling
«Così il mago Pol Pot rese invisibile l’inferno»
Lo scrittore svedese ha ripercorso il viaggio che negli anni ‘70 quattro connazionali fecero nella Cambogia del genocidio. Restando ciechi...
di Maria Serena Palieri


Estate 1978, un Boeing cinese atterra nel più blindato dei paesi su cui, in quegli anni, splende il sol dell’avvenire, la Kampuchea Democratica. Ne sbarca una delegazione di quattro svedesi ammessa a compiere un pellegrinaggio politico per raccontare al resto del mondo la «verità» sulla Cambogia: sono un infermiere psichiatrico, una studentessa di sociologia, una giornalista e il più influente di tutti, il celebre Jan Myrdal, figlio dei due Nobel per l’economia Alva e Gunnar Myrdal e già autore di un libro, Rapporto da un villaggio cinese, fervente reportage nel 1963 dalla Cina di Mao (in Italia l’aveva tradotto Einaudi). Quasi trent’anni dopo, un giovane cooperante di Göteborg è in una biblioteca di Phnom Penh e lì scopre un libriccino che accalappia la sua attenzione perché strana coincidenza è in svedese, la sua lingua. S’intitola La Kampuchea tra due guerre. Stampato nella primavera del 1979, porta i nomi dei quattro sbarcati allora ed è un resoconto entusiastico della vita nella Cambogia di Pol Pot. Il giovane, come ci racconta ora, esclama nel suo accento della costa occidentale della Svezia: «Ma questi sono fuori di testa, cazzo». Perché, da allora, del mattatoio in cui Salot Sar, nome di battaglia Pol Pot, aveva trasformato la Cambogia abbiamo saputo molto. In corso sono i processi per i «killing fields», i campi (o le carceri) in cui in soli tre anni dal 1975 i khmer rossi uccisero tra un milione e mezzo e due milioni e mezzo di cambogiani. Ma è già da una trentina d’anni che le foto di quelle distese di crani convivono nel nostro immaginario insieme con quelle, singolarmente simili, dei corpi dei sopravvissuti ai lager.
E dunque, si chiede in quella biblioteca campogiana Peter Frö berg Idling, i quattro «pellegrini» svedesi come avevano fatto a visitare il paese e a non accorgersi di niente? Il sorriso di Pol Pot (l’enigmatico dittatore da studente parigino, quand’era Salot Sar, era famoso per il suo candido sorriso) è il libro che racconta, appunto, la ricerca con cui il giovane svedese ha cercato di dare risposta a questo interrogativo. Idling, 38 anni, in senso estetico è quanto di meno estraneo agli anni Settanta possiamo trovare in circolazione oggi: capelli lunghi raccolti a crocchia, stivaletti, maglione a strisce, non è molto diverso da un fricchettone-globetrotter di quei tempi. Però c’è da chiedersi: il suo libro è un’esplorazione a freddo oppure è una resa dei conti generazionale? Perché lui stesso nel libro ci racconta che uno dei suoi primi ricordi è quello, a tre anni, di una marcia in passeggino, spinto dai genitori, mentre con suo gran divertimento tutti gli adulti intorno a lui gridavano qualcosa che a lui sembrava «kiss», cioè pipì in svedese. E invece era «Kissinger». Ovvero nel ‘75 si manifestava contro il golpe in Cile o contro l’invasione di Timor Est? Kissinger boia...
«Il sorriso di Pol Pot» è una sua resa dei conti con la cecità ideologica della generazione giovane negli anni Settanta, quella di suo padre e sua madre, di noi cinquanta-sessantenni? «No, il punto di partenza è stato, concretamente, l’incontro con quel libro di Myrdal e degli altri. La Grande Storia, entrata nella mia infanzia attraverso manifestazioni e slogan, insomma attraverso i miei genitori, su di me esercitava fascino. Però quando dalla Cambogia hanno cominciato ad affiorare i primi scheletri ero un bambino, dunque ero sensibile allo spavento per fantasmi, cadaveri, scheletri appunto. Venticinque anni dopo, quando in Cambogia ho visto i teschi dal vivo, mi sono ricordato di quella impressione. Se la mia infanzia c’entra, in questo libro, è in questo modo». Cosa la colpì quando lì a Phnom Penh sfogliò il reportage uscito in Svezia trent’anni prima?
«Vivevo in Cambogia da un paio d’anni e quello che sapevo sul paese all’epoca di Pol Pot era che si trattava di un’isola blindata e che le scarse immagini in bianco e nero che se ne conservavano erano di pescatori e contadini al lavoro. Persone in uniforme con visi tristi. Insomma, la Kampuchea democratica, per ciò che ne sapevo, era stata un grande campo di concentramento. E ora eccomi lì a leggere di cambogiani sorridenti, ben vestiti e ben pasciuti. Chi aveva ragione?».
Il «pellegrinaggio» accuratamente organizzato è stato uno degli strumenti di propaganda classici dei governi comunisti: in Urss come in Cina. Non lo sapeva?
«Sì. Ma poteva funzionare in paesi grandi e ben organizzati. In una Cambogia così povera e così piccola come facevano, poniamo, a lanciarsi il messaggio da un villaggio all’altro, “arrivano!”. Di sicuro c’era la mucca più grassa, c’erano le persone più floride, costrette a fare da comparse. Ma c’è anche da chiedersi se in realtà il regime di Pol Pot in qualche zona del paese non avesse migliorato la situazione».
I genocidi del Novecento sono avvenuti su base etnica o religiosa. In Cambogia no. Si è fatto un’idea del perché i seguaci di Pol Pot sterminassero i loro compatrioti?
«Credo che si sia trattato di un genocidio non programmato. Il punto di svolta è stata la tortura: torturando costringevano a parlare e a fare nomi, e il cancro si espandeva, ecco altre vittime, ed ecco altri nomi. Molti khmer rossi poi erano bambini-soldato sottoposti al lavaggio del cervello. Il genocidio è stato, credo, il frutto paradossale di un decentramento delle decisioni. Ma ciò non toglie che chi aveva il potere ne sia il vero responsabile».
Lei ha cercato di mettersi in contatto coi quattro «pellegrini» di allora. Con esiti diversi. L’ex-studentessa di sociologia, Edda Ekervald, l’ha accolta. Jan Myrdal non ha gradito. Le diverse reazioni hanno a che fare col carattere, a suo parere, oppure con un diverso prestigio intellettuale da mantenere? «Myrdal è tuttora un opinionista che scrive su giornali importanti. Ma dopo aver sostenuto il governo cinese ai tempi di Tian An Men, la Cambogia di Pol Pot e l’Iran di Khomeini, non ha più il ruolo politico di un tempo. Il fatto è, però, che io mi sono intromesso in un universo che non conoscevo. Da ingenuo. In questi trent’anni fra loro ci sono stati confronti, litigi, separazioni che non conosco. Sono entrato insomma senza accorgermene in un territorio molto intimo. Dopo aver parlato con Edda Ekervald ero convinto che avessimo raggiunto un livello di confidenza. E invece dopo ho capito che aveva raccontato tutta la nostra conversazione a Myrdal. Sono entrato con ingenuità nella loro vita. E loro è come se mi avessero etichettato».
In senso generazionale che effetto le fa? Si è imbattuto in cecità ideologiche di un’altra epoca, chiusa per sempre?
«Non è così diverso da quanto succede oggi. La seduzione per l’utopia c’è sempre e porta a dare risposte semplici a problemi complessi. Negi anni Ottanta è stata la seduzione del liberismo, nei Novanta della New Economy, oggi è quella del mito della libertà e della gratuità di internet.
È bellissimo pensare di fare parte di un mondo nuovo e che esso possa cominciare proprio con te. Viviamo una volta sola e ci dispiace che il nuovo mondo non cominci con noi».

Corriere della Sera 18.11.10
Il Trattato di Spinoza: traduzione sotto accusa
Gli studiosi divisi sul latino
di Armando Torno


Se il nostro è diventato il tempo della critica con fiato corto e unghie smussate, tocca ormai alla stessa editoria pubblicare quelle rare opere puntute che non concedono sconti. Anzi, a volte sono vere e proprie stroncature. È il caso di un libro al vetriolo di Walter Lapini, professore di Lingua e Civiltà greca a Genova, il quale, tra l’altro, dirige con Franco Montanari il Lessico dei Grammatici Greci Antichi. Ha appena pubblicato Spinoza e le inezie puerili (il melangolo, pp. 132, 14). e Il saggio — opera sistematica di demolizione, non raccolta di semplici o vaghi rancori — è un attacco senza sconti alla traduzione del Trattato teologico-politico presente nell’edizione delle Opere di Spinoza pubblicata nel 2007 (e nel 2009 giunta alla terza edizione) nei «Meridiani» Mondadori, curata da Filippo Mignini e Omero Proietti. Lapini analizza riga per riga le 325 pagine del solo Trattato con un risultato da lui stesso descritto: «Davanti all’imponente campionario di errori che vedrà da me riuniti e commentati, il lettore avrà la tentazione di attribuirmi forme di accanimento o di protervia maramalda; pensi invece che la documentazione che adduco è solo una parte di quella che ho raccolto, e che se davvero avessi voluto censire tutti gli sfregi che Spinoza ha ricevuto nel Meridiano che ne porta il nome, un tomo quattro volte più grande non sarebbe bastato».
Mignini e Proietti sono due illustri spinozisti e hanno al loro attivo numerose e stimate pubblicazioni sul filosofo; Lapini è un notevole conoscitore delle lingue classiche e, in questo libro, si trasforma in impietoso censore. La polemica, in verità, iniziò nel 2008 sulla «Rivista di Storia della Filosofia», quando ad un articolo dello stesso Lapini seguì a ruota la risposta di Mignini. E ora è guerra, con la demolizione attuata esaminando semantica, morfologia e sintassi, rafforzata con la denuncia di omissioni, disattenzioni e incoerenze della traduzione mondadoriana. Degli esempi? Come si fa? Lapini li raccoglie in un centinaio di pagine, non ci sembra il caso di piluccare qua e là. Diremo soltanto che aspettiamo la risposta.

Repubblica 18.11.10
Le tre vie che conducono alla pace
di Umberto Veronesi


Da Milano, dalla Conferenza mondiale Science for Peace, parte oggi un appello a non perderci in un presente critico e immobile, rischiando di dimenticare il futuro. La scienza ci indica con decisione e con urgenza che la pace oggi non è un´opzione possibile, ma è una scelta inevitabile e i Paesi che anticipano questa tendenza, saranno quelli all´avanguardia domani. Lo dimostrano gli studiosi da tutto il mondo (tra cui premi Nobel), riuniti per il secondo appuntamento del Movimento Science for Peace, sulla base di due premesse scientifiche.
La prima è che non esiste nel nostro Dna il "gene della conflittualità ", vale a dire l´uomo non è affatto geneticamente predisposto alla violenza e alla sopraffazione; le guerre sono nate nel corso dell´evoluzione per influenze esterne ed essenzialmente per far fronte a situazioni di insicurezza e calamità. La seconda è che la guerra va contro l´innovazione e lo sviluppo, che sono invece gli obiettivi della scienza: nessuna area in stato di conflitto ha mai prodotto progresso economico e scientifico, senza contare che le risorse impiegate in armi vengono inevitabilmente sottratte alla ricerca in ambiti diversi da quello militare, come quello biomedico, che è in costante sofferenza per mancanza di fondi, pur essendo essenziale per il benessere della popolazione.
Viene da chiedersi perché allora il mondo civile ancora ammette la guerra e anzi la progetta e ne studia le strategie. La risposta è semplice: perché manca coscienza e cultura. Coscienza da parte dei cittadini, che per lo più ignorano l´entità dei budget della Difesa, rispetto a quelli della ricerca scientifica e dell´assistenza sociale, e sottovalutano il loro potenziale nell´orientare le scelte politiche strategiche; cultura di pace da parte di istituzioni e governi, che in maggioranza si concentrano nel risolvere le crisi locali, inseguendo gli interessi particolari nel breve termine, e mancano di una visione del futuro.
Cosa si può fare da subito allora per smuovere questo immobilismo e accelerare il processo di pace? Alla Conferenza noi scienziati indichiamo tre vie "di pensiero": il dialogo interreligioso, la valorizzazione del ruolo delle donne, la promozione dell´economia della pace. Tutte le principali religioni promuovono la pace, ma si basano su libri sacri, che sono parte della rivelazione divina ed impongono quindi dei dogmi. Di conseguenza queste religioni difendono la pace come principio, ma ognuna seguendo la propria dottrina, che non esclude gli integralismi e gli estremismi. Sono estremisti i terroristi islamici, lo erano i crociati cristiani o i cattolici che fecero strage degli ugonotti. Per evitare i conflitti legati alle religioni è necessario un dialogo che presuppone la tolleranza di altre fedi e che si estenda anche a chi non ha nessuna fede. La cultura laica è una cultura di pace proprio perché non è dogmatica: il pensiero scientifico si alimenta di dubbi, mentre la fede si alimenta di verità acquisite e imperscrutabili. In assenza di un dialogo fra scienza e fede e fra fedi diverse, difficilmente si può costruire la tolleranza che è la base imprescindibile di una cultura di pace. Le migliori fautrici di questa costruzione oggi sono le donne, che rappresentano la nostra seconda via alla pace: sono biologicamente portate e all´armonia e sanno difendere i diritti dei più deboli con una determinazione che l´uomo raramente sa dimostrare.
Lo abbiamo visto pochi giorni fa con Aung San Suu Kyi, libera dopo quasi 20 anni di soprusi e minacce da parte di un regime antidemocratico, a cui si è fieramente opposta, e alla cui violenza ha sempre reagito con la richiesta imperturbabile di dialogo, senza mai raccogliere una provocazione. Suu Kyi oggi è un simbolo, ma per fortuna non un caso isolato: ovunque nel mondo sono calpestati i diritti umani, troviamo una donna. Per questo la presenza femminile nei governi e nelle istituzioni è una garanzia di progresso.
La terza via scientifica per la pace viene dall´economia. I dati dimostrano che la guerra è una scelta che non conviene. L´aumento costante degli investimenti nelle spese militari mondiali (che raggiungono i 1.531 miliardi all´anno) non porta ad un miglioramento non solo della qualità di vita dei cittadini, ma neppure della loro sicurezza. Le armi più potenti non hanno difeso la popolazione dallo stato di crisi, dall´allarme povertà e neanche dalla criminalità e il terrorismo, che vanno combattuti con strumenti diversi dall´esercito e i carrarmati.
Ai primi posti nella classifica dei Paesi in stato di pace non ci sono quelli che hanno fatto grandi investimenti militari, ma quelli che investono costantemente nell´ambito sociale, culturale, scientifico, sanitario. Oggi vediamo i primi segnali di inversione di tendenza in Europa con una riduzione delle spese militari in Francia, Germania e Gran Bretagna. Il Movimento Science for Peace con i suoi 21 premi Nobel e i numerosi uomini di scienza e di pensiero si impegna perché la nuova tendenza si sviluppi senza regressioni o battute d´arresto e perché il futuro sia più vicino.

Repubblica 18.11.10
Risorgimento
Quel mito fondativo che fa discutere l´Italia
di Massimo L. Salvadori


Si cerca da più parti di riconsiderare l´evento che portò a costruire il nuovo Stato con uno sguardo più critico e problematico
Nonostante le polemiche esiste un "patriottismo costituzionale" dal quale non possiamo prescindere e che è giusto difendere
Mentre si avvicina l´anniversario delle celebrazioni per i 150 anni dell´Unità, saggisti, scrittori e registi s´interrogano sulla vera lettura del periodo storico

Alla fine dell´Introduzione all´ampia antologia da lui curata e ora in uscita dalla Laterza, Nel nome dell´Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Alberto Mario Banti scrive di aver voluto trasmettere al lettore la visione di un Risorgimento come «un movimento ampio, ricco, complesso, contraddittorio», che appare «ancora oggi straordinariamente affascinante e degno di essere attentamente studiato, piuttosto che acriticamente giudicato, enfaticamente esaltato o liquidato senza appello». Meglio di così, alla vigilia della celebrazione del Centocinquantesimo dell´unità d´Italia non si sarebbe potuto dire.
Lo studioso non vuole giustamente sapere del mito del Risorgimento in chiave semplificata e retorica. E perciò invita a considerare la «distanza storica che ci separa dal Risorgimento»: non già per lasciarlo da parte, ma per considerare quell´evento fondativo dell´unità italiana «con maggior freddezza e con minori passioni politiche (positive o negative)». Invita a guardare alle divisioni che opposero i repubblicani ai monarchici, i centralisti ai federalisti, i liberali ai democratici, i clericali prima al processo di unificazione e poi al nuovo Stato, che, appena costituito, si trovò a dover affrontare «una fase di furibonda guerra civile», quella del brigantaggio nel Mezzogiorno.
Detto tutto ciò Banti pone la domanda cruciale (la domanda, appunto che avanzano le varie correnti anti-risorgimentali, a partire dai leghisti): se uno Stato nato da profonde lacerazioni interne non si presenti come «una compagine eticamente marcia dalle fondamenta»: e risponde acutamente che allora si dovrebbero «applicare le stesse considerazioni a qualunque altro Stato che incontriamo nell´Occidente contemporaneo» (e non solo). È questo l´approccio giusto, della ragione storiografica che riflette con un atteggiamento critico, al "problema Risorgimento", contrapposto a quello del facile e intellettualmente inutile mito celebrativo, culminato nella retorica fascista.
Sono passati 150 anni dal 1861, che per un verso – come nota ancora Banti – «hanno effettivamente creato il senso dell´esistenza di una comunità nazionale italiana», per l´altro mostrano e continuano a mostrare quanto l´Italia sia stata e resti percorsa da ininterrotte e profonde disunità. Di qui gli interrogativi sul suo percorso. Orbene, non diamo però l´impressione che sia venuto solo ora chi prende finalmente a riflettere criticamente sul "problema Risorgimento"; poiché si iniziò a farlo sin dall´indomani del compimento dell´unità. Abbiamo alle spalle un robusto deposito di altissima qualità, che fece tutt´altro che suonare le trombe del facile mito.
Si pensi a come tutto il pensiero dei meridionalisti da Pasquale Villari in poi fu un denso e diverso misurarsi sull´eredità lasciata dal Risorgimento; si pensi al dibattito suscitato dalla pubblicazione dei Quaderni di Antonio Gramsci, che oppose in primo luogo Rosario Romeo agli studiosi che al leader comunista si rifacevano, a quello acceso da Denis Mack Smith; e via dicendo. La discussione, critica e acritica, sulla nostra unificazione nazionale la si può vedere ripercorsa nelle pagine del classico volume einaudiano Interpretazioni del Risorgimento di Walter Maturi, pubblicate nel 1962 e recentemente nel saggio edito da Donzelli di Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni. L´antologia curata da Banti si colloca quindi in una scia di interpretazioni che ben rispecchiano le persino opposte tendenze della storiografia.
Due considerazioni finali. La prima per attirare l´attenzione sull´osservazione di Banti che la Lega si è proposta di promuovere essa stessa un suo «risorgimento», quello della Padania. A imitazione in un certo senso delle élite che, con una «invenzione» ideologica e politica, fecero nascere lo Stato nazionale, anche la Lega persegue il fine di inventare la sua nazione; dal che egli avanza l´ipotesi che essa possa essere considerata a suo modo «erede del nazionalismo risorgimentale». Lo studioso esorta a indagare. La seconda considerazione riguarda l´altra osservazione di Banti che gli sforzi di coloro che, come il presidente Ciampi (ma dobbiamo aggiungere il nome del presidente Napolitano), si sono fatti difensori del Risorgimento e dell´unità nazionale alla luce di un «neo-patriottismo "buono"», rischiano col cedere al mito retorico di dar corda alle posizioni opposte degli anti-risorgimentali e dei nazionalisti di destra. Qui mi pare che si prema troppo l´acceleratore. Né l´uno né l´altro presidente – si vedano in proposito i recenti interventi di Napolitano su Cavour e in generale sull´unità italiana – hanno gonfiato il mito retorico. Essi hanno invece invocato – contro le divisioni e i contrasti attuali e quelli stessi ereditati dal 1859-61 – l´esigenza di far prevalere ciò che si definisce il "patriottismo costituzionale"; che è, direi, altra cosa. Discutiamo e ragioniamo, ma nella consapevolezza che l´unità del paese uscita dal Risorgimento con i suoi ulteriori sviluppi è l´unica storia che abbiamo, da cui non possiamo prescindere e da cui dobbiamo in ogni caso partire: certo con gli occhi bene aperti ai problemi della difficile unità italiana.

Repubblica 18.11.10
Forse proprio in questo momento è necessaria la memoria della rivolta che ha spalancato al nostro paese il regno della libertà e i suoi valori. Grazie a quegli anni siamo diventati moderni
È la nostra Rivoluzione
di Lucio Villari


Ora, grazie a Arbasino, rivisiterò con più attenzione la pittura risorgimentale alle Scuderie del Quirinale. La annuserò, anzi, perché Arbasino descrive, su questo giornale, i quadri che rappresentano interni familiari come un insieme di "porcai e cessi", "bimbi lerci e massaie ripugnanti", "padellini bisunti"; e gli esterni storici come "baraonda e bailamme". Insomma, caos, profumi e balocchi, altro che idee di libertà e di unità della nazione. Sì, anche balocchi, perché il quadro di Gerolamo Induno sulla battaglia di Magenta del 1859 mostra tra i soldati francesi delle "truppe inturbantate e africane". E Arbasino si chiede: «Avranno poi "marocchinato" le magentine come nella Ciociara?». La risposta è, certamente sì. Se no perché l´insolita domanda? Insomma, aveva ragione Petrolini. Cosa è stato mai questo Risorgimento se nelle strade di tutte le città d´Italia vi sono targhe con su scritto "via Cavour", "via Garibaldi", "via Mazzini". Cacciamoli via, finalmente, questi signori.
Lo dice anche il politologo Banti (sempre su questo giornale): «Ma ce li avete presenti i protagonisti del "dibattito" sul 150° anniversario dell´Unità d´Italia? Politici, giornalisti, scrittori e intellettuali che parlano di Risorgimento come se fosse un evento accaduto ieri, carico di valori da rispettare e osservare proprio come se fossero in perfetta sintonia con la nostra vita?». La risposta è ancora sì, ce li abbiamo presenti, anche se tra i protagonisti del "dibattito" il politologo non a caso non mette gli storici i quali attualizzano in modo diverso il Risorgimento e hanno qualche dubbio sugli altri "valori" rivendicati come veri, cioè il brigantaggio (del quale, su questo giornale, è stato fatto il rimpianto da Paolo Rumiz) i Borboni, la rivoluzione sociale comunista, le masse contadine ingannate da Garibaldi, eccetera. E non sono neanche convinti che l´Italia, come ha scritto Curzio Maltese, sia in fondo «patria di sudditi divisi ieri come oggi».
Il "succo del nocciolo", (ma il nocciolo ha succo?) è quindi, secondo Banti, che il Risorgimento «avvenne sotto il segno di Cavour e della monarchia sabauda», che «lo Stato che si forma tra il 1859 e il 1860 vede l´opposizione fermissima del papa», che «il Risorgimento è stato un processo complesso, contraddittorio». Queste, sì, sono grandi scoperte… Comunque sia, questa storia non ha da dirci più nulla dato che «il Risorgimento è un paese lontano».
Dunque, questo è, sui giornali, lo stato attuale del "dibattito". Ma non sorprende più di tanto chi sa che a ogni passaggio di regime politico, il Risorgimento è stato messo da inesperti studiosi o giornalisti sotto accusa, ridicolizzato. Lo fu nel 1922, quando crollò il sistema liberale, lo fu venti anni dopo al momento della crisi finale del regime fascista, quando Adolfo Omodeo fu costretto a scrivere una Difesa del Risorgimento e quando, sull´ultimo numero di Primato, la rivista di Bottai, un grande storico liberale, Carlo Morandi, difese il Risorgimento.
E se provassimo allora a immaginare che proprio in questo momento, in Italia, sia più che mai necessaria la memoria dell´unica rivoluzione che ha portato il nostro paese nel regno della libertà e della modernità? E se ricordassimo il Risorgimento con le parole con cui Giansiro Ferrata ne rievocava a Elio Vittorini nel 1946 una pagina particolare ma importante: le Cinque Giornate di Milano? «Fu tutta la vitalità profonda che sta dentro al sangue popolare a dir no alla paura e a dir di sì al sacrificio, a strappare di slancio vittorie in ogni via e ad ogni Porta. Questo è il significato delle Cinque Giornate e i milanesi lo sentono così».

Repubblica 18.11.10
Ci siamo uniti soprattutto contro il regionalismo, i dialetti le culture premoderne e localistiche, contro il delitto d´onore, la "mafia Robin Hood". Avevamo storie separate rispetto a quella cosa fragile che era la nazione
Solo la scuola può darci un´appartenenza nazionale
Un’identità da ristudiare
di Francesco Merlo


E se dovessimo ancora farlo, il Risorgimento? Contro Bossi, che lavora per dividere l´Italia imputando al Sud lo Stato che dal Nord è nato. Contro i "neoterroni", che gli forniscono alimento immaginando un´altra Cassa del Mezzogiorno, un partito del Sud. Contro la riforma della Gelmini, che concentra nella scuola a cui si deve l´unità d´Italia i più vieti e rancorosi luoghi comuni antiunitari.
A partire da Gramsci, tutti gli storici hanno raccontato il Risorgimento come il piccolo movimento militare di un grande gioco internazionale, alla fine del quale i contadini del sud diventarono briganti, periferia senza storia e senza patria e dunque illegale e mafiosa; la Lombardia, che era europea, fu annessa al Piemonte; le altre realtà statali furono unificate con un artifizio da un gruppo di notabili che parlavano francese. L´Italia che ne nacque fu, per tre quarti di secolo, malata: a Nord infestata da pellagrosi e cretinici per via della dieta a base di mais, al sud da contadini devastati da quella malaria che uccise anche Cavour. Nel 1882 il senatore Luigi Torelli imputò il dilagare della malattia - pensate - all´espansione delle ferrovie: «Ci sono troppi ristagni d´acqua negli scavi laterali alle strade ferrate!». Anche il pessimismo verghiano, da cui discenderanno a catena Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa e Sciascia, ha il filo conduttore nella malaria «che vi entra nelle ossa col pane, e se aprite la bocca per parlare, e mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e sole...».
E sono tutte controverse le figure del Risorgimento, che fu passione letteraria e non interesse sociale, mentre è unitaria l´idea antiunitaria di «Roma ladrona», vecchia pulsione vandeana e semplificatoria, la stessa che ispirava il qualunquista Giannini e a sinistra divenne «capitale corrotta / nazione infetta», sino a «la vera mafia sta a Roma». Ed è bene ricordare l´omelia ai funerali del generale Dalla Chiesa: «Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur».
Possiamo fare un Risorgimento? Ci siamo uniti soprattutto costruendo una scuola contro il regionalismo, i dialetti, le culture premoderne e localistiche, contro il delitto d´onore, contro la "mafia Robin Hood"... Avevamo storie separate rispetto a quella cosa fragile che era la nazione. Ed è vero che il federalismo, ideale risorgimentale, avrebbe potuto unirci in maniera più intelligente invece di disunirci in maniera stupida come ora vuole Bossi. Ma se l´Unità l´abbiamo fatta a scuola è a scuola che dobbiamo cominciare a rifarla. Invece il governo ha coltivato il pregiudizio razzista dello studente meridionale ignorante e raccomandato, e del professore terrone che va cacciato dal Nord perché «dequalificato», «non conosce la matematica», «non parla il dialetto della regione dove insegna». E il ministro Brunetta vorrebbe guidare una spedizione garibaldina: mille fantuttoni del Nord contro i fannulloni del Sud. Sottocultura? Folclore? O magari quella onagrocrazia di cui parlava Croce, il potere dei somari.
Ecco: la scuola può ridefinire l´identità italiana, adattare storia, geografia, lingua e religione nell´epoca delle migrazioni. Risorgimento significherebbe edifici scolastici, strumenti di didattica, nuovi stipendi e strategie formative, aprirsi al mondo per restare nel mondo. A che servono le cerimonie se il governo lavora - non ci stancheremo di denunziarlo - per una scuola parteno-siculo-borbonica, un´altra brianzola-austriacante e una papalina-tiberina? Solo la scuola riformata e unitaria può dirozzare leghisti e sicilianisti. E bocciarli.

Repubblica 18.11.10
Calo delle vocazioni e accuse di pedofilia i cattolici fondano parrocchie "alternative"
Messe senza preti l’ultima tentazione dei fedeli in Belgio
"Stiamo opponendo resistenza, come Gandhi. Nella comunità ci sentiamo in pace"
Ma dal Vaticano arriva lo stop: "Abbiamo delle regole che devono essere rispettate"
di Doreen Carvajal


BUIZINGEN (BELGIO) Willy Delsaert è un ex impiegato delle ferrovie ormai in pensione. Ha sessant´anni e soffre di dislessia. Prima iniziare a celebrare la Messa (un rito a cui partecipa da quando era bambino) nella parrocchia cattolica intitolata a Don Bosco si è preparato a lungo. «Chi accetta e mangia questo pane», enuncia con un sussurro mentre spezza un´ostia sotto lo sguardo della moglie, che gli sta a fianco, «dichiara il proprio desiderio di un mondo nuovo». Con queste parole Delsaert e i suoi parrocchiani stanno diffondendo senza far troppo rumore un movimento spontaneo che sfida secoli di dottrina della Chiesa cattolica romana, in quanto celebra e condivide il rito dell´eucarestia senza la presenza di un sacerdote.
Negli ultimi due anni, nelle regioni di lingua olandese del Belgio e dei Paesi Bassi sono sorte una dozzina di chiesa cattoliche "alternative" come la parrocchia di Don Bosco. La loro nascita rappresentano una scomoda reazione a insieme circostanze: la carenza di sacerdoti, la chiusura di alcune chiese, l´insoddisfazione per la nomina da parte del Vaticano di alcuni vescovi conservatori e, infine, lo sgomento di fronte ai tentativi di far passare sotto silenzio gli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti.
Le chiese del movimento si chiamano "ecclesia": una parola che deriva dal verbo greco che significa "convocare". Nei Paesi Bassi lo scorso anno ne sono state fondate cinque, su iniziativa di alcuni fedeli che si erano allontanati dalle rispettive parrocchie di origine. Il loro numero però è destinato ad aumentare, afferma Franck Ploum, che a gennaio ha contribuito alla fondazione di una ecclesia a Breda, nei Paesi Bassi, e ora sta organizzando una rete che colleghi le diverse iniziative sorte nei due Paesi.
In questo solido edificio di mattoni che sorge a sudovest di Bruxelles, uomini e donne vengono preparati a svolgere il ruolo di "direttori" e a presiedere alla Messa e a riti fondamentali come il matrimonio, il battesimo e l´unzione degli infermi. Il loro impegno è iniziato più di un anno fa, quando il pastore della parrocchia andò in pensione senza lasciare un successore, obbligando i fedeli a rimboccarsi le maniche. In Belgio, circa due terzi del clero ha superato i cinquantacinque anni, e un terzo ha superato i sessantacinque. «Stiamo opponendo resistenza, come Gandhi", spiega Johan Veys, un ex sacerdote che oggi è sposato, celebra battesimi e recluta adepti a cui affidare alcune mansioni della parrocchia. «La nostra intenzione non è quella di criticare, ma di vivere correttamente. Spingiamo in avanti, con calma, senza far troppo rumore. È importante avere una comunità dove le persone possano sentirsi a casa e trovare pace e ispirazione».
Lo scontro con il Vaticano e la Chiesa cattolica belga appare però inevitabile. La Chiesa belga ha risentito dello scandalo sessuale che ha coinvolto 475 vittime, e delle dimissioni del vescovo di Bruges Roger Vangheluwe che lo scorso aprile ammise di aver molestato per anni un ragazzo che si è rivelato essere suo nipote.
Secondo Roma, solo i preti consacrati possono celebrare la Messa o presiedere a sacramenti come il battesimo e il matrimonio. «Se alcuni individui o gruppi non si attengono a queste norme, i vescovi competenti – che sono a conoscenza dei fatti – devono cercare di intervenire e spiegare cosa è lecito e cosa non lo è», ha dichiarato padre Federico Lombardi, direttore dell´ufficio stampa del Vaticano.
«Qualcosa sta iniziando a scricchiolare», ha detto padre Gabriel Ringlet, sacerdote ed ex vice rettore dell´Università cattolica di Louvain (l´istituto sta considerando la possibilità di omettere il termine "cattolica" dal proprio nome). «Credo che per la prima volta in quarant´anni, la Chiesa cattolica belga stia vivendo qualcosa di eccezionale. Molti cattolici si stanno svegliando e sono decisi a far sentire la propria voce».
A Bruges, città che è al centro dello scandalo di pedofilia che ha investito la chiesa, un gruppo cattolico alternativo chiamato "De Lier" ("la Lira", in olandese) si occupa di tali scandali durante le proprie funzioni, che si tengono a scadenza settimanale in una cappella scolastica e che vedono coinvolti a rotazione due uomini, due donne e un sacerdote. Durante alcuni recenti incontri, i membri della chiesa hanno letto alcuni stralci tratti dai documenti redatti dalla commissione della chiesa belga che ha esaminato i casi di abusi sessuali su minori. I fedeli hanno poi espresso vergogna per una Chiesa che ha messo a tacere simili accuse e ha impiegato un gergo avvocatesco per evitare di scusarsi.
«Stiamo cercando di vivere la nostra fede in chiave moderna», spiega Karel Ceule, membro della Lier. «Se chiedete qual è la posizione ufficiale della Chiesa, vi diranno che non potremmo fare ciò che facciamo. Dicono che senza prete non può esserci Messa. Cristo però è qui tra noi».
(© New York Times La Repubblica Traduzione di Marzia Porta)

Corriere della Sera 18.11.10
Creata l’antimateria per scoprire se esiste un universo parallelo


MILANO — Gli scienziati del Cern di Ginevra hanno compiuto un passo verso gli anti-mondi. Con l’esperimento Alpha sono, infatti, riusciti a fabbricare e catturare 38 atomi di anti-idrogeno mantenendoli in vita per decimi di secondo; quanto basta per indagare le loro caratteristiche e scoprire la loro natura. Il risultato, illustrato sulla rivista Nature, spalanca per la prima volta la finestra su uno dei misteri più affascinanti e complessi da affrontare.
Alle origini dell’Universo, 13,7 miliardi di anni fa, dopo il Big Bang iniziale si generavano in parti uguali materia e antimateria la quale è diversa per la carica elettrica (un elettrone negativo diventa positivo, cioè un positrone). Ma la materia ebbe il sopravvento creando l’universo di cui facciamo parte, mentre l’antimateria scomparve. Dove sia finita, nessuno lo sa. Sono state avanzate ipotesi seducenti. Ad esempio: l’antimateria ha dato vita ad universi paralleli al nostro che per il momento prendono forma soltanto nei calcoli dei teorici mentre alcun strumento è in grado di cercarli. Ora gli studiosi dell’esperimento Alpha conquistano una tappa importante con alle spalle una lunga storia di decenni. Nella sfida entravano subito da protagonisti gli scienziati italiani: dal Nobel Emilio Segrè ad Antonino Zichichi e altri che al Cern materializzavano nel 1995 i primi atomi anti-idrogeno, i quali però svanivano nel momento in cui nascevano.
«Il sogno era di riuscire a produrli e tenerli in vita — nota Sergio Bertolucci, direttore della ricerca al Cern — unico modo per studiarli e capire le diversità rispetto alla materia ordinaria». L’impresa non è stata facile perché bisognava prima raggiungere due obiettivi determinanti. «Innanzitutto — precisa Bertolucci — la fabbricazione di un certo numero di atomi; la seconda, la realizzazione di una trappola magnetica che li mantenesse confinati, cioè lontani dalle pareti del contenitore per un tempo ragionevole». Il motivo sta nel fatto che se materia e antimateria vengono a contatto si annichilano, cioè di distruggono a vicenda. E’ stato proprio questo tremendo aspetto a suggerire a Dan Brown la storia di «Angeli e demoni» e della bomba di antimateria contro il Vaticano.
«Adesso al Cern abbiamo quattro esperimenti per svelare gli enigmi dell’antimateria — conclude Sergio Bertolucci — E se riusciamo a trovare i finanziamenti necessari potenzieremo la macchina Elena centuplicando il numero di anti-atomi di idrogeno disponibili ampliando le ricerche». Dall’anno prossimo, inoltre, la caccia continuerà pure sulla stazione spaziale con l’esperimento Ams cercando di catturare anti-atomi presenti nel cosmo.

Corriere della Sera 18.11.10
Uno spietato pronto a perdonare le due facce di Simon Wiesenthal
«Giudicava la persona, non l’appartenenza. E volle rimanere austriaco»
di Lorenzo Cremonesi


«Cacciatore di nazisti» ad oltranza, ma anche convinto che la memoria dello sterminio degli ebrei non dovesse assolutamente offuscare quella degli altri, primi tra tutti omosessuali e zingari. Sionista, eppure determinato a restare nella diaspora austriaca. Collaboratore del Mossad, però deciso a rivendicare l’importanza del proprio ruolo autonomo e centrale nelle operazioni più importanti, per esempio la cattura di Adolf Eichmann. Pronto a rintracciare con pazienza e puntiglio infiniti le più remote testimonianze delle vittime, ma nel contempo geloso della sua unicità, in perenne contrasto con figure del calibro di Elie Wiesel, che minacciavano di offuscare la sua aureola di testimone alla ricerca di giustizia contro i responsabili della Shoah. È un Simon Wiesenthal ancora più controverso e contradditorio di quanto non apparisse quando era vivo quello che emerge dalla lunga biografia scritta da Tom Segev da poco pubblicata in ebraico e inglese.
Ovvio sin dalle prime pagine che il noto e dibattuto giornalista-storico israeliano è affascinato dal suo personaggio. Ama esaltarne gli aspetti ambigui, incongruenti, più «politically non correct». «La durezza di Wiesenthal nei confronti degli ebrei collaborazionisti dei nazisti e invece il senso di gratitudine per quei tedeschi che gli salvarono la vita durante l’Olocausto gli insegnò a giudicare gli individui per i meriti personali, piuttosto che per il gruppo di appartenenza», scrive Segev. Un tuffo di novità nell’era determinata dai Goldhagen. E un modo per Segev di ritornare sul tema dell’Olocausto, di cui lui, figlio di ebrei comunisti sopravvissuti ai campi di sterminio dell’Europa cen-tro-oriental e immigrati a Gerusa lemme nei mesi fondativi di Israele, è ormai da molti anni uno studioso allo stesso tempo annoiato dalla strumentalizzazione distorcente che a suo dire ne fa spesso la debordante e sempre crescente letteratura mondiale, ma anche ben consapevole della sua centralità nella storia del Novecento. «Wiesenthal aveva perso quasi tutta la famiglia nei forni crematori, a partire dalla madre. Ma tutto sommato la sua esperienza personale, sebbene più tardi abbia cercato di drammatizzarla nei suoi racconti, fu meno peggio di quella di tanti altri. Condivideva un famoso giudizio di David Ben Gurion, per cui i migliori erano periti. Perché non si poteva sopravvivere restando puri: occorreva vendersi, rubare, collaborare. E per questo aveva maturato un profondo senso di colpa verso i morti. Fu tra i primi a lanciarsi alla caccia dei capi nazisti e dei criminali responsabili dello sterminio sin dall’aprile 1945. Ma a suo modo tentava anche di perdonare, voleva distinguere nel mucchio. Era un ebreo della diaspora europea e aspirava ad essere accettato dalla sua gente in Austria. Si spiega così anche la sua strana amicizia con Albert Speer, l’architetto di Hitler», raccontava poche settimane fa Segev durante una cena a Gerusalemme.
Tra le perle del libro (ricco di una documentazione esclusiva raccolta tra l’altro negli archivi tedeschi, austriaci, israeliani, polacchi e dell’ex servizio segreto della Germania orientale) il suo primo tentativo di catturare Eichmann in Austria già nel 1949. Questi verrà preso in Argentina 11 anni dopo. C’è poi la notizia che Otto Skorzeny (il celebre ufficiale delle SS che liberò Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso) accettò poi di collaborare con il Mossad, purché Wiesenthal lo depennasse dalle sue liste, cosa che questi rifiutò. Ma anche il primo racconto documentato del suo scontro frontale con l’ex cancelliere austriaco Bruno Kreisky, che addirittura si spinse ad accusare Wiesenthal di essere stato un kapò. «Sospetti assurdi, maldicenze. Il governo israeliano considerava Kreisky uno psicotico», sostiene Segev. Sino alla continua propensione di Wiesenthal a mentire, o comunque a rendere più drammatica la realtà cui aveva assistito. Ancora, per esempio, non è chiaro per quanti campi di concentramento sia transitato. Forse 5, ma certamente non i 12 o 15 di cui parlava. Segev esclude categoricamente che sia mai stato ad Auschwitz, come pure lui sostenne in diverse occasioni. «Mentì sempre, in modo più o meno grave, sino alla morte 96enne nel 2005. Una forma mentis diffusa tra i sopravvissuti all’Olocausto e un modo per fare i conti con il buco buio della memoria che non lasciava pace».

Repubblica 18.11.10
"Basta statue mutilate" e Palazzo Chigi trucca Marte e Venere
A Venere il Cavaliere ha fatto aggiungere le mani, a Marte il pene: restauro "proibito" da 70mila euro
Le statue truccate di Palazzo Chigi
di Carlo Alberto Bucci


ROMA. Venere ha riacquistato entrambe le mani. Marte, insieme alla destra, anche il pene perduto da tempo. Miracolo a Palazzo Chigi. Per espressa volontà di Silvio Berlusconi. E in barba alle regole del restauro che vietano ripristini e falsi storici che alterino l´autenticità dell´opera d´arte.
Il celebre gruppo marmoreo, con i ritratti romani di Marco Aurelio e della moglie Faustina innestati sui corpi "greci" degli dei dell´Olimpo, è stato sottoposto a un intervento di chirurgia estetica che rischia di avere pesanti riflessi negativi sulla scultura del 175 dopo Cristo. E sull´immagine della scuola dei restauratori italiani nel mondo. Così, dopo le polemiche per lo spostamento dal Museo delle Terme di Diocleziano a Palazzo Chigi, una nuova bufera sta per abbattersi sui preziosi 1.400 chili di marmo.
Su espressa richiesta del presidente del Consiglio, e su insistenti pressioni del suo architetto Mario Catalano, il ministero dei Beni culturali ha portato a termine un´operazione di "risarcimento" delle parti mancanti della scultura classica che, ritrovata nel 1918 a Ostia, si trova da quest´anno in prestito nella sede del governo. Una scelta che contrasta con la virtuosa via italiana al restauro filologico. E che cozza con l´attuale regime di austerity che il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi e quello dell´Economia Tremonti hanno imposto alla tutela del patrimonio artistico (-46% i fondi per il 2011): è vero che le spese per il restyling sono a carico della presidenza del Consiglio, ma quei 70mila euro potevano tamponare un intervento di massima urgenza nell´Italia delle mille Pompei che franano invece di essere spesi per un maquillage.
«Perché in Cina le sculture appaiono come nuove mentre alle nostre mancano braccia e teste? Completate quelle statue» avrebbe detto il premier all´architetto Catalano dopo essersi visto consegnare, il 25 febbraio, il Gruppo di Marte e Venere, la Statua di Ercole con cornucopia e la Statuetta femminile panneggiata e velata, provenienti dall´aula V del Museo delle Terme di Diocleziano a Roma, già ripuliti in vista del prestito. È stato così che, mentre la "Velata" andava ad abbellire l´appartamento del presidente del Consiglio a palazzo Chigi, il marmo d´età antonina veniva esibito nel cortile d´onore durante la visita del premier cinese Wen Jiabao del 7 ottobre e facendo finta che il tempo non è passato sui corpi delle due imperiali divinità, mutilandole.
Da anni i restauratori italiani tengono lezioni e laboratori in Cina sulla conservazione delle opere d´arte così come arrivano da secoli di storia. Nel caso di Marte e Venere, è come se il maestro si fosse lasciato deviare dall´allievo. Gli arti, i genitali del dio della guerra e le altre parti posticce realizzate in plastilina e marmo, aderiscono quasi senza soluzione di continuità al corpo originario della scultura: traggono così in inganno lo spettatore e contravvengono alle regole del restauro italiano che prevede di "dichiarare" la differenza tra antico e moderno. Con la versione di Marte e Venere voluta da Berlusconi sembra di essere tornati ai secoli in cui i cardinali di Roma facevano completare agli scultori barocchi le statue acefale e monche ritrovate tra le vigne della Città Eterna, anche se oggi nessuno si sogna più di usare perni metallici per sostenere le protesi. Indubbio invece che il cielo azzurro messo come fondale sia frutto del gusto hollywoodiano dell´architetto Catalano: una scenografia che nulla ha a che vedere con la storia, lo stile e il decoro del cinquecentesco edificio appartenuto ai Chigi.
Autorizzato dall´ex soprintendente di Roma Giuseppe Proietti, il "reintegro" ha costretto al lavoro una dozzina di esperti del Collegio romano. Nel tentativo di limitare il falso storico, i tecnici del ministero hanno eseguito studi sulla forma e le misure delle parti mancanti attraverso confronti metrici su statue analoghe: qual è la posizione delle dita di Venere che sfiorano Marte e quanto deve essere lungo il suo membro?
La permanenza del gruppo alto 228 centimetri a palazzo Chigi è però appesa al filo della crisi di governo. E di conseguenza le aggiunte sulla bella dea e il virile compagno. Nel nulla osta del 29 marzo 2009 l´allora soprintendente di Roma Angelo Bottini - preso atto della richiesta giunta dalla presidenza del Consiglio dei ministri dopo che un anno prima il premier era rimasto folgorato dalle statue - disponeva infatti che "il prestito durerà fino alla fine della legislatura". Una volta rientrati alle Terme di Diocleziano, dove si spera finiscano in fretta i lavori di ristrutturazione delle sale, Marte e Venere verranno probabilmente liberati dalle parti reversibili. Nessun museo accetta infatti nelle sue collezioni mani finte e attributi posticci.