martedì 23 novembre 2010

Corriere della Sera 23.11.10
E la Bonino «ritira» i radicali «Non ci sono trattative»
di M. Gu

La finiana Polidori: centristi nel governo

ROMA — «La trattativa tra radicali e Pdl è inesistente». Emma Bonino gela le speranze del centrodestra di incassare, il 14 dicembre, la fiducia dei sei deputati radicali eletti con il Pd. I loro voti «non sono all’asta» ribadisce la vicepresidente del Senato e condanna la «banalizzazione» dell’apertura al dialogo con il Pdl da parte di Marco Pannella.
Il «colpaccio» che avrebbe risolto gli affanni parlamentari del premier è sfumato e ai cacciatori di teste tocca rimettersi all’opera, in vista del voto di fiducia del 14 dicembre. Bersagli privilegiati, l’Mpa e i finiani dialoganti. Catia Polidori, per dire dell’onorevole del Fli più corteggiata dal Pdl, spera che alla sfiducia non si arrivi mai: «Il centrodestra può diventare veramente invincibile se include Casini e i moderati e rilancia l’azione di governo con un Berlusconi bis». La responsabile del settore Attività produttive di Fli si augura che «tutti rinuncino a un pezzetto di gloria personale per il bene dell’Italia». Cautamente aperturista la posizione dell’Mpa. Un nuovo governo guidato dal premier è la soluzione migliore, ritiene Aurelio Misiti, convinto che un esecutivo con l’Udc e con un programma che accolga le istanze del Sud durerebbe tutta la legislatura. «Visti i drammatici conti dell’Italia è meglio andare avanti con questo governo» ragiona Misiti, «più volte avvicinato» da emissari del centrodestra. Ma a Berlusconi una maggioranza di misura non può bastare. E la caccia ai peones inquieti, dietro le quinte, continua. Maurizio Grassano è conteso. Francesco Pionati dell’Adc dice che l’onorevole «ha già firmato», mentre Italo Tanoni — avvistato mentre conversava fitto con Casini — non dispera di convincere il collega a restare con i liberal democratici. L’impressione, al centro, è che nessuno voglia andare a votare. Come dice Saverio Romano, leader degli ex udc che hanno fondato il Pid, «Casini sta provando a tenere buoni i suoi, perché rischia di perdere pezzi».

AGI 20.11.10
LAICITA’: BONINO, TORNARE IN PIAZZA PER LIBERTA' DI SCELTA


(AGI) ‑ Roma, 20 nov. - “La laicità è uno straordinario metodo di governo dei temi eticamente sensibili, i diritti civili, che sono in realtà giganteschi problemi sociali, e vanno sempre protetti, senza soste o tentennamenti. E oggi non mi sembra affatto anacronistico un invito a tornare in piazza per la libertà di scelta, l’autodeterminazione, la difesa della libertà e della identità degli individui. La migliore difesa, ho sempre pensato, è l’attacco”. Con questo appello a una grande mobilitazione di massa, in nome della laicità, Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ha concluso questa mattina al Teatro Eliseo la manifestazione “Per un’Italia più laica”, promossa dal Pd di Roma, da Iniziativariformista e dal settimanale Left. Il punto di partenza del dibattito, al quale hanno preso parte, tra gli altri, Giovanna Melandri, Massimo Teodori e Massimo Fagioli, il disegno di legge Tarzia, presentato ai consiglio regionale del Lazio, che intende affidare la gestione dei consultori ad associazioni di famiglie, sottraendoli di fatto al servizio pubblico, in nome della tutela della vita fino dal concepimento. “La laicità e la libertà sono e devono ricominciare ad essere il nostro strumento di attivazione di massa; sono temi che coinvolgono milioni di persone”, ha affermato la Bonino, rivolta al pubblico, a prevalenza femminile, che qremiva il teatro. In tempi “di vizi privati e pubblici divieti”, ha aggiunto, la sinistra dovrebbe mostrare maggiore coerenza o adottare “comportamenti politici netti, chiari, comprensibili, che vadano oltre i bofonchiamenti e le cose dette a metà, mezze sì e mezze no”.
“Servono idee più chiare alla sinistra”, ha detto subito dopo lo psichiatra Massimo Fagioli, “oltre a una maggiore nettezza di comportamento. A sinistra non vogliono accettare che la vita umana inizia alla nascita con il pensiero, così come la fine della vita non è quando il cuore cessa di battere. Il diritto all’eutanasia? Sono d’accordo, se fatto con l’assistenza del medico e dello psichiatra, se necessario, per stabilire che non si tratti di una depressione”.
“La Legge 40, quella sul testamento biologico, la proposta Tarzia sui consultori, sono anticostituzionali e hanno tutte un fondo persecutorio”, ha detto Giovanna Melandri: "si sta smantellando lo stato sociale e la legge di sistema porterà un segno pesante, in questa direzione. Berlusconi è l'espressione di una cultura che pensa che tutto si può comprare, anche le donne che vanno al consultorio. Invece no, la libertà e l'autodeterminazione sono diritti intangibili, non sono in vendita. L’Italia - ha concluso la parlamentare del Pd ‑ è sotto sopra, bisogna ripartire con battaglie di libertà e autodeterminazione, facendo fronte comune contro questo familismo moralistico e clericale". Massimo Teodorì ("sono un laico archeologico”, si è autodefinito), storico esponente radicale, ha tracciato la storia degli ultimi 45 anni di battaglie in favore dei diritti civili, a partire da quella sul divorzio, iniziata nel 1965, sostenendo “che la questione laica è provocata dall’incalzante offensiva neoclericale e neotradizionalista”. Maurizio Turco, radicale eletto nel Pd alla Camera, ha ricordato che gli attacchi alle libertà civili, in nome della difesa della famiglia, giungano senza tenere conto della realtà, per cui “a Roma, ad esempio, secondo le più recenti statistiche, il 40% delle famiglie è monoparentale, fatto cioè di persone singole”. “Mai come in questo momento ‑ ha concluso Ilaria Bonaccorsi, direttore editoriale di Left ‑ la laicità è sinonimo di libertà. Una laicità netta, rigorosa, rispettosa. Bisogna creare un anello di congiunzione tra intellettuali e ricerca e ricerca scientifica, tra scienza e sviluppo sociale, prassi politica Questo è quanto Left sta tentando di fare”.

l’Unità 23.11.10
Due cortei sabato a Roma. «L’esecutivo cambi agenda. Altrimenti è meglio andare al voto»
Lavoro, diritti e pensioni al centro della giornata. 2100 i pullman organizzati, 13 i treni
Cgil, la prima della Camusso
Con i giovani, contro il governo
Un enorme debito, economico e sociale pesa sulle spalle dei giovani: precari, disoccupati, senza troppe prospettive. Sabato a Roma si parlerà di loro nella manifestazione nazionale promossa dalla Cgil.
di Felicia Masocco


Oggi sono precari, in seguito avranno pensioni da fame, o gli si dà un futuro oppure dovremo assistere a un gigantesco programma di assistenza sociale. Perché nessun Paese si può permettere una o due generazioni sotto il livello di sussistenza. Debito economico, debito sociale: così Susanna Camusso definisce il peso caricato sulle spalle dei giovani italiani, disoccupati o senza un lavoro stabile, condannati a vivere peggio dei genitori per la prima volta dal dopoguerra. Sabato mattina i riflettori si accenderanno su di loro, a Roma, con i due cortei promossi dalla Cgil, una manifestazione che si annuncia «imponente», dice il segretario organizzativo Enrico Panini.
O SI CAMBIA O AL VOTO
È una manifestazione nata prima della crisi di governo aggiunge la segretaria generale e ora va fatta a maggior ragione». La maggioranza è in crisi anche per non aver voluto affrontare i problemi della recessione. «È ora di cambiare l’agenda politica. In alternativa è meglio andare al voto, chiedere ai cittadini che cosa pensano». Nell’agenda, per la Cgil, devono esserci il lavoro, i diritti, i giovani e le giovani: alle donne la mobilitazione di sabato dedica un’attenzione speciale visto che pagano due volte. «La loro condizione è la misura della democrazia di un Paese», dice Camusso. Vale per l’Italia e per il resto del mondo: dal palco di piazza San Giovanni, insieme a lavoratrici e precarie, parlerà una donna afghana.
La manifestazione nazionale è l’ottava dal 2008, tre da allora sono stati gli scioperi generali: Camusso non dice se -come chiede la Fiom -la Cgil è pronta a proclamarne un altro. «Se non avremo le risposte che chiediamo la mobilitazione continuerà», si limita a rispondere.
Sabato sarà il giorno in cui la sindacalista esordirà in piazza da segretario generale. Ed è anche il giorno in cui Corso d’Italia si misurerà con quello che, secondo alcuni, è il suo punto debole, una contraddizione: la partecipazione dei giovani alla Cgil, inferiore a quella dei pensionati. Anche ieri, in conferenza stampa, a Camusso e a Panini è stato chiesto di rendere conto. «Se si vuole capire la composizione degli iscritti alla Cgil basta guardare il Paese ha risposto Camusso -. L’Italia invecchia rapidamente», non c’è da stupirsi se al sindacato sono iscritti moltissimi pensionati. Peraltro non sono un peso per la Cgil, «siamo convinti che dobbiamo difendere chi ha lavorato per una vita e che ora è pensionato» e che, di fronte al precariato galoppante, spesso rappresenta l’ammortizzatore più efficiente.
PADRI E FIGLI
No dunque, alla frattura tar generazioni, a chi vuole mettere contro padri e figli. Da dieci anni gli iscritti attivi in Cgil crescono più dei pensionati, viene spiegato. Quanto ai più giovani «gli ultimi dati giunti all’organizzazione relativi a 47 camere del lavoro (complessivamente 1 milione 200 mila iscritti su quasi 6 milioni) dicono che gli under 35 sono il 22% degli iscritti», precisa Panini. Ed è cominciata in corso d’Italia l’operazione quote: l’ultimo congresso ha stabilito che un quinto degli organismi dirigenti debba essere composto under 33.
Sono oltre 2100 i pullman già organizzati, trasporteranno 120 110-120 mila persone; 13 i treni speciali. Sono gli unici numeri che vengono dati, «sono in crescita afferma Panini la risposta sarà consistente anche dalla città di Roma, la manifestazione imponente». Se il sindacato di Corso d’Italia manterrà la parola, da piazza San Giovanni sabato verrà un esempio che si spera sarà seguito: non saranno diffuse cifre sulla partecipazione. «Non ci lanceremo in questo gioco un po’ fastidioso che sminuisce il valore delle cose e del lavoro che c’è dietro, vogliamo sottrarci a questo circo Barnum -annuncia Camusso-. Abbiamo la certezza che sarà una grande manifestazione e credo che tutti avranno modo di vederlo sui volti delle donne e degli uomini».
Molte le adesioni già arrivate da associazioni, partiti, dal mondo della cultura e dello spettacolo. Quali forze politiche saranno presenti? «Noi non abbiamo chiesto ad alcun partito di intervenire risponde Camusso -. Partecipa chi vuole. Non è il luogo delle passerelle di nessuno».

l’Unità 23.11.10
Gli immigrati sulla gru volevano trasparenza Saranno espulsi


Espulsione immediata senza passare dal Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione). Potrebbe essere questa, riassunta in una frase, la sorte di due delle sei persone immigrate che per 17 giorni hanno protestato a 35 metri di altezza, sul braccio di una gru in un cantiere di Brescia. Una protesta per chiedere, ricordiamolo, che il meccanismo del permesso di soggiorno sia reso più semplice e chiaro. Una iniziativa che rimanda in ultima istanza all’importanza rivestita dalla regolarità della posizione giuridica per tutte le vicende relative alla vita concreta dell’immigrato in Italia. E, infatti, lo straniero viene riconosciuto socialmente solo se è un lavoratore con documenti legali in mano. L’assenza di questa condizione determina in genere l’oscuramento della persona in quanto tale.
E non solo. La riduce a soggetto indesiderato costretto nella marginalità, nella clandestinità o nel Cie. Nel 2009 sono transitate in queste ultime strutture 10913 persone: 4152 delle quali sono state rimpatriate e 3945 sono state rilasciate, al termine del periodo di trattenimento previsto dalla legge, con foglio di via. Gli «ospiti» vivono in un’angosciante attesa perché, fino all’ultimo istante, non sanno a quale dei due gruppi sono destinati: se a quello dei rimpatriati o a quello dei rilasciati con foglio di via. Alcuni protestano e fanno sentire la loro voce. Altri scelgono di ammutolirsi, cucendosi le labbra con ago e filo. Nel caso più recente, avvenuto nel Cie di Torino, si tratta di sei persone originarie del Maghreb, ma in queste strutture episodi di autolesionismo si registrano di frequente. E quei corpi, mortificati e feriti, certificano quale è lo stato di malessere all’interno dei Cie.

l’Unità 23.11.10
Se paura e sicurezza diventano argomenti di campagna elettorale
Calano i reati ma l’insicurezza percepita resta invariata In una ricerca commissionata dal Partito Democratico svelato il bluff di chi vuole governare grazie al terrore
di Felice Diotallevi


Solo un italiano su dieci ha subito un reato, ma più del 40% dei cittadini vive “contaminato” dall’insicurezza. Al punto che mentre negli ultimi 10 anni il numero dei reati è in costante diminuzione, la percezione d’insicurezza dei cittadini è rimasta sostanzialmente invariata. A rivelarlo è la ricerca demoscopica commissionata dai forum Sicurezza e Giustizia del Pd dal titolo “Vivere tra luci e ombre. Gli italiani e le percezione della sicurezza e della legalità”. Secondo i risultati della ricerca, quasi il 30% dei cittadini trova molto pericoloso uscire da solo quando è buio, oltre il 20% la sera a casa presta attenzione a ogni minimo rumore, oltre il 20% quando rientra a casa controlla che non ci siano intrusi. «È evidente che c’è un divaricamento molto netto tra i dati percepiti e i dati reali sulla sicurezza ha spiegato Marco Minniti, del Partito Democratico Così corriamo un rischio molto serio: avere un sentimento di insicurezza che prescinde dalle condizioni reali». Per l’ex viceministro dell’Interno, «questo dovrebbe chiamare a maggiore responsabilità di governa, perché si può vincere una campagna elettorale sull’insicurezza ma è difficile governare un Paese sulla paura». Minniti ha invitato ad «affrontare il tema costituente delle questioni sicurezza e giustizia per un nuovo modello di sicurezza. Quello attuale, vecchio di 60 anni, va ripensato». Allo stesso modo, ha insistito Minniti, ci vuole «un linguaggio di maggior chiarezza sugli immigrati: c’è un rapporto tra clandestinità e criminalità. Bisogna passare dal “porte aperte e pochissimi diritti” al “porte controllate e più diritti”». Per Andrea Orlando non ci sono dubbi: «La protagonista della ricerca è la paura, determinata dallo spaesamento. I dati rivelano che la paura riguarda di più le donne, le periferie, i grandi centri urbani e che la paura è già un limite alle libertà individuali». Il responsabile Giustizia del Pd ha suggerito alla politica un “mea culpa”: «La sinistra non ha riconosciuto questo fenomeno, la destra lo ha agitato. Partiamo dal denunciare la nostra impotenza e proviamo a individuare un cammino comune».
Alla presentazione dei dati del rapporto ha partecipato anche il presidente della Camera Gianfranco Fini secondo il quale l’insicurezza percepita è un sentimento «diffuso nella pubblica opinione, un sentimento di cui bisogna tenere contro senza gli spot propagandistici della politica». «La legalità è un habitus mentale», ha proseguito il leader di Fli, «si è liberi davvero solo se si rispettano i valori che sono nella nostra Costituzione». Importanti le parole del presidente della Camera in tema di immigrazione. SEondo Fini, infatti, «l’equazione fasulla secondo cui immigrazione è uguale a criminalità è un luogo comune duro a morire». Tuttavia, ha notato Fini commentando i dati contenuti nel rapporto, «solo una minima parte degli interpellati individua come soluzione al problema della criminalità quella di cacciare gli immigrati». Secondo la terza carica dello Stato, insomma, «pur permanendo, come frutto di ignoranza, una diffidenza nei confronti degli stranieri, tuttavia si conferma che l'Italia non è un Paese xenofobo».

il Fatto 23.11.10
Sinistra, se ci sei batti un colpo
di Giuseppe Tamburrano


   Fini e Bersani hanno spiegato in tv a otto milioni di italiani che cosa è la destra e che cosa è la sinistra. Fini ha illustrato i valori della destra e Bersani quelli della sinistra: precisazione necessaria perché i discorsi sono interscambiabili e Fini può indossare la giacca di Bersani e viceversa poiché la taglia è la stessa: senso dello Stato, etica pubblica, cultura dei doveri, amare l'Italia, avere fiducia negli italiani, non essere egoisti, ma solidali. Chi dei due non accetterebbe questi valori. E Fini rifiuterebbe i valori di Bersani: pace, lavoro, giustizia sociale, energia pulita, Costituzione, immigrati, operai? Fazio voleva mostrare le differenze tra destra e sinistra e ha esposto il “Pensiero unico” nel quale non c'è più la sinistra, omologata al pensiero dominante.
EPPURE fino a qualche decennio fa la destra e la sinistra erano inconfondibili. La destra voleva conservare lo stato delle cose, con la repressione della protesta – destra reazionaria – e poi col tempo, riconoscendo diritti democratici, nell'ambito del sistema capitalistico.
La sinistra rifiutava il sistema. Cominciarono gli anarchici che volevano spazzare via tutto: papa, re, Parlamento, padroni, generali con un colpo solo, il “grand soir”, ma non sapevano che cosa mettere al loro posto. Erano quattro gatti con qualche fucile, e qualche pistola e pugnale per ammazzare i re.
Poi i lavoratori si organizzarono in partito e altri organismi di classe. Il partito doveva educare le masse, partecipare alla vita democratica per crescere di numero, per denunciare i misfatti del capitalismo dalla tribuna parlamentare e armarsi. I socialisti rivoluzionari diventarono comunisti e accettarono la guida del “primo Stato proletario” (l'URSS).
INSIEME con l'Urss è crollata la Sinistra rivoluzionaria. Quella democratica si è illanguidita e spenta nella gestione del potere, mentre il capitalismo trionfava col mercato libero, senza antagonisti. Il sole dell'avvenire è tramontato: l'avvenire non c'è più o il suo sole tornerà a splendere? Sulla crisi del 2008 è opinione prevalente che il mercato libero “non si autocorregge, ma si autodistrugge” (Samuelson) e che è necessario l'intervento dello Stato: cosa che ha fatto il presidente del paese liberista per eccellenza, gli Stati Uniti. Gli autori sono tanti. Ne cito solo tre: il premio Nobel Joseph Stiglitz (Bancarotta), il grande giurista Richard A. Posner (La crisi della democrazia capitalista, con una lucida prefazione di Guido Rossi) il nostro Edmondo Berselli (L'economia giusta). Nessuna della sinistra ufficiale. Anzi, il liberismo trova sostenitori solo lì. Una crisi così grave del capitalismo avrebbe, in altri tempi, dato slancio e vigore alla sinistra: la rivincita culturale e politica.
Non si è accorta, la “sinistra”, che viene a cadere la pregiudiziale che ha diviso destra e sinistra; che destra e sinistra si ritrovano sullo stesso terreno di confronto circa il ricorso alla strumentazione pubblica nell'economia, riconosciuta necessaria da entrambe, ovviamente per fini e programmi diversi: la destra per conservare e accrescere il dominio del capitalismo, la sinistra per trasformare gradualmente e democraticamente la società.
IL TERRENO comune è la democrazia, il potere dei cittadini di scegliere i progetti e i programmi in concorrenza: il potere pubblico li attua usando soprattutto il mercato che è lo strumento più efficiente delle scelte e delle iniziative economiche e finanziarie. Non più Stato o mercato, ma Stato e mercato. Ma questo è il moderno socialismo riformista che persegue il fine storico di un mondo migliore. Sinistra, se ci sei, batti un colpo!

Corriere della Sera 23.11.10
«Sei un Savonarola». «Tu fai politica vecchia» Vendola-Grillo, scambio di accuse tra ex «amici»
di Fabrizio Roncone


All’origine della lite il diverso giudizio su Saviano
Il governatore: deriva integralista. Il comico: sotto processo metà della sua giunta

ROMA — Allora, l’antefatto è questo.
L’altra sera, nel corso del suo quarto e ultimo show al Gran Teatro di Roma, Beppe Grillo ad un certo punto se ne esce così. «Roberto Saviano, per carità, è bravissimo. Ma "Vieni via con me" è un programma Endemol. E di chi è la Endemol? Di Silvio Berlusconi. Dunque quando Saviano fa audience, a guadagnare è il Cavaliere. Se poi ci aggiungiamo che Saviano lancia accuse a destra e a manca, senza però fare mai mezzo nome, è facile capire perché Silvio goda come un riccio» (in sala, 3.500 persone — tutto esaurito — che restano sorprese, mute, non un accenno di applauso per il comico genovese).
Passano poche ore e arriva la replica. Nichi Vendola — il leader di Sinistra ecologia e libertà, l’ex comunista che per hobby scrive filastrocche e che fu tra i primi a dichiararsi omosessuale, «non gay, sia chiaro», l’uomo colto e sensibile che ha letto Neruda, Pirandello e Pasolini e che secondo alcuni starebbe rosicchiando consensi e voti al Pd — è ospite di Maria Latella su Sky Tg24. E va giù duro.
«Quella di Grillo è una deriva di integralismo. E si tratta, a mio parere, di un fenomeno piuttosto preoccupante: perché se ciascuno sente di possedere il metro per giudicare, si finisce in una sorta di giudizio universale permanente. Insomma — conclude Vendola — io penso che la politica sia il campo della verità con la "v" minuscola, ma se qualcuno pensa di avere sempre la verità con "v" maiuscola, è chiaro che finisce poi per sentirsi Savonarola».
Grillo, adesso, sospira; poi, con la voce che conoscete: «No, dico: lei ha idea di che fine fecero fare a Savonarola?».
Wikipedia: «Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola (Ferrara, 21 settembre 1452 - Firenze, 23 maggio 1498) è stato un religioso e politico italiano. Appartenente all’ordine dei frati domenicani, nel 1947 fu scomunicato da papa Alessandro VI, l’anno dopo fu impiccato e bruciato sul rogo come "eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove"».
Ancora Grillo: «Ora, a parte che se fosse vissuto in quest’epoca, a Savonarola avrebbero organizzato subito una puntata di "Porta a Porta" e così forse sarebbe persino riuscito ad evitare il rogo... il punto è che io, in comune con Savonarola, ho solo una cosa: la parola. Con la differenza che io la uso in Rete, la faccio viaggiare con Internet. Dove non ci sono padroni. E dove il consenso è incontrollabile. Se dici cose giuste, oneste, ti dicono che hai ragione e che sei perbene. Se fai il furbo, ti scoprono dopo mezzo secondo. Un modo di procedere, mi rendo conto, che Vendola, purtroppo, non può capire».
Non sia severo, Grillo. «Senta: sa quanti anni sono che Vendola fa politica? Trenta. Vendola è nato facendo politica». E allora? Se anche fosse? Non è mica reato fare politica per mestiere. «Vede, il fatto è che Vendola fa politica vecchia. Sta lì che promette e fonda partiti, ma non è più tempo di partiti, non c’è più storia del Pci che tenga, o tradizione, o destra e sinistra. Questo è il tempo dei giovani e della loro forza in Rete». Anche Vendola, nella campagna elettorale delle ultime elezioni regionali, ha usato molto Internet. «Vede? Anche lei che mi sta intervistando è vecchio. Lei ha la testa di un vecchio...». Grillo, la prego... «Cosa vuol fare, eh? Vuol dimostrare che io ce l’ho con Vendola? Ma guardi che io sono oltre, capitooo?». Non sarà, mi scusi, che lei invece si rivolge ad un elettorato molto vicino a quello, magari più politicizzato, di Vendola? «Ah ah ah! Ma che dice? Ma di quale elettorato parla? Noi siamo un popolo che sta lì, in Rete. Tutti insieme senza leader. È Vendola che aspira ad essere un leader, non io, non uno solo di noi aspira a questo ruolo». Grillo, è un po’ complicato crederle. «E invece deve! E se non è servo di qualcuno scriva che per candidarsi alle prossime Comunali con il nostro simbolo a cinque stelle basta inviarmi una email e dimostrare di non essere iscritto ad alcun partito e di avere la fedina penale pulita... Lo spieghi anche a Vendola cosa significa avere la fedina penale pulita, lui che in Puglia s’è ritrovato con mezza giunta sotto processo...».
Vendola, amareggiato: «Mi spiace che Grillo usi un linguaggio così violento. Mi addolora la deriva distruttiva del suo impegno. No, non riesco a capire la politica quando diventa, come in questo caso, livore e contumelia».
Per paradosso, alle nove della sera, sul sito personale di Vendola ( www.nichivendola.it) c’è ancora una pagina che comincia così (ma che è ormai superata dagli eventi): «Pubblichiamo un post di Beppe Grillo che esplicita il sostegno a Nichi per la battaglia intrapresa dal presidente della Regione Puglia in difesa dell’acqua come bene comune e contro il nucleare...».

l’Unità 23.11.10
Africani in fuga dal Sinai Israele allarmato costruisce un altro Muro
Un Muro per fermare la «marea africana». È la barriera che Israele intende realizzare ai confini con l’Egitto. La lunghezza complessiva del progetto sarà di 240 chilometri. Ieri l’inizio dei lavori. Tra polemiche infuocate.
di U.D.G.


Più che un Paese in trincea, appare sempre più un Paese «murato». Quel Paese è Israele. La crescente infiltrazione in Israele di africani provenienti dal Sinai in cerca di lavoro rappresenta ormai «un pericolo demografico esistenziale» per lo Stato ebraico: ad affermarlo è il ministro degli Interni Ely Yishai (Shas) in un infuocato dibattito alla Knesset nel giorno in cui le ruspe hanno avviato i lavori di costruzione lungo il confine con l’Egitto di una imponente barriera. La ricerca dei fondi necessari (almeno 1,35 miliardi di shekel, circa 270 milioni di euro) ha richiesto tempo prezioso e dunque la costruzione della barriera, annunciata all’inizio del 2010, prende le mosse solo adesso.
LA LUNGA BARRIERA
La lunghezza complessiva del progetto sarà di 240 chilometri e nel settore nord si congiungerà con la barriera anti-contrabbando costruita dall’Egitto nei 20 chilometri di confine fra il Sinai e la Striscia di Gaza. La prima fase del progetto israeliano prevede la costruzione di 140 km di reticolati, torrette di avvistamento e piste per le pattuglie, che richiederà almeno un anno e mezzo. Negli altri 100 km saranno disposti ostacoli di carattere diverso, a seconda del carattere topografico della zona. Nel frattempo il flusso degli infiltrati africani cresce in maniera che i dirigenti israeliani giudicano «allarmante». Se nel 2009 il numero complessivo degli africani giunti dal Sinai in Israele è stato di 4.341, nel 2010 fino all’inizio di novembre ne sono stati contati 10.858. Entro la fine dell’anno gli ingressi si saranno dunque triplicati e il flusso riferisce la polizia è in continua crescita. In tutto si stima che 30 mila africani vivano ormai in pianta stabile in Israele da dove inviano ai loro congiunti i tremila dollari a testa necessari per pagare i contrabbandieri beduini che garantiscono il loro passaggio dal Sinai in Israele. Un traffico lucroso, dunque, di milioni di dollari. Secondo il ministro della giustizia Yaakov Neeman in Egitto 2,5 milioni di africani sono in procinto di partire verso Israele e dunque occorre decidere fin d’ora severe misure di dissuasione. Fra di essi la percentuale di profughi è stimata del 3-5 per cento: tutti gli altri dice il governo vanno assolutamente respinti. Al dibattito parlamentare ha preso parte il sindaco di Eilat la città turistica affacciata sul mar Rosso, vanto d’Israele dove la presenza degli africani è più sentita. «Quando fa buio racconta il sindaco Meir Yitzhak ha-Levy da noi la gente non esce più di casa, la paura serpeggia». Lo stesso, secondo Yishai, avviene anche in quartieri sottoproletari di Tel Aviv.
Proprio Yishai ha peraltro approvato la settimana scorsa l’immigrazione in Israele di ottomila Falashmura, cittadini etiopi di lontana origine ebraica. Per fermare la «marea africana», è stato detto al Parlamento, oltre alla barriera si renderanno necessari anche mezzi coercitivi: un grande campo di detenzione a Ketziot (Neghev) capace di ospitare 10 mila persone; multe pesanti a chi sia scoperto a dare lavoro agli infiltrati e un meccanismo che consenta di rimpatriare quanti oggi si trovano illegalmente in Israele.

l’Unità 23.11.10
Una mostra curata da Scientology. Insorgono gli psichiatri


Il presidente della provincia di Verona ha rilasciato una dichiarazione pubblicata domenica sul Corriere di Verona in cui dice di essere stato «ingannato», ma intanto il pastrocchio è stato fatto. La provincia infatti ha dato il patrocino alla mostra Psichiatria un viaggio senza ritorno ospitata per la quarta volta a Verona, fornendo agli organizzatori anche uno spazio prestigioso come il Palazzo della Gran Guardia. La mostra si occupa di «orrori ed errori psichiatrici», attraverso filmati e immagini particolarmente forti che presentano la psichiatria come un’associazione a delinquere, una pratica che si basa su tortura, reclusione, psicofarmaci letali e che produce suicidio. Insorgono gli psichiatri: «Le persone più fragili e sensibili – spiega Michele Tansella psichiatra e preside della facoltà di medicina dell’università di Verona – sono quelle più facili da convincere e sono anche quelle che fanno più fatica a farsi curare». Il rischio è che immagini di questo genere facciano aumentare la diffidenza nei confronti dei servizi di salute mentale e allontanino le persone che hanno bisogno d’aiuto.
Ma chi è il curatore della mostra? Il Comitato dei cittadini per i diritti umani, che sarebbe un «ente internazionale a tutela dei diritti umani nel campo della salute mentale» secondo quanto si legge sui manifesti. Ma ancora ne sappiamo troppo poco. Qualcosa in più lo troviamo su internet. Scopriamo così che il comitato è strettamente legato a Scientology, il culto (che molti considerano una vera e proprio setta) da anni al centro di polemiche e coinvolto in vicende giudiziarie che riguardano reati come la circonvenzione d’incapace e l’abuso della professione medica. Tuttavia, il nome Scientology non appare in nessun luogo: né sui manifesti, né sulle installazioni.
Il presidente della provincia di Verona non sapeva nulla, ma è in buona compagnia: la mostra è già passata per Trento, Milano, Firenze, Jesolo, Trieste, Padova, Torino, Cagliari. E quasi ovunque ha ottenuto il patrocinio della provincia o della regione o del comune. Consigliamo ai nostri amministratori di scegliere un po’ meglio le iniziative da sostenere. CRISTIANA PULCINELLI

l’Unità 23.11.10
Piano Solo
L’idea fu di Segni
Lo storico Franzinelli ricostruisce il tentativo di colpo di Stato del ’64: fu il Presidente che ordinò a De Lorenzo di attivare i carabinieri
di Nicola Tranfaglia


Ma    chi ha attentato, nei primi anni sessanta, alla democrazia repubblicana, mettendo con le spalle al muro il governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro e facendo parlare Pietro Nenni, vice-presidente del Consiglio, di un “tintinnio di sciabole” nell’estate 1964? E che cosa era, in realtà, il “Piano Solo”, elaborato dal generale Giovanni De Lorenzo, d’intesa o su ordine, del Capo dello Stato Antonio Segni per far intervenire “solo” i carabinieri contro il paventato assalto dell’opposizione socialista e comunista al governo della Repubblica? Sugli avvenimenti legati a quel tentativo per cinquant’anni si è discusso, quasi senza interruzione, per mezzo secolo da parte dei giornalisti ma anche degli storici per comprendere non soltanto la dinamica dei fatti ma i ruoli ricoperti dai politici al centro della vicenda (il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, alcuni ministri), dai militari (a cominciare da De Lorenzo) e dai servizi segreti più volte chiamati in causa. Ed aveva prevalso in alcune opere pure attendibili come la Storia d’Italia degli Einaudi degli anni Settanta e l’ampia sintesi di Simona Colarizi Storia del Novecento pubblicata nel 2007 da Rizzoli, l’idea che fossero stati i vertici dei carabinieri e, in particolare, lo stesso De Lorenzo che fu poi senatore del Movimento Sociale Italiano ad avere la responsabilità principale del tentativo di colpo di stato, subito abortito per il cedimento del governo di centro-sinistra e dei socialisti sostenitori delle riforme più ardite costrette a rientrare di fronte alla forte intimidazione dei militari.
Mimmo Franzinelli, storico del fascismo e dell’Italia repubblicana che conosciamo già per molti libri importanti come Tentacoli della Piovra (Bollati Boringhieri, 1999) e il Delitto Rosselli (Mondadori, 2007), ha ora scritto un libro per molti aspetti definitivo (Il piano Solo, Mondadori, pagine 380, venti euro) che ricostruisce in duecentocinquanta pagine seguite da centocinquanta pagine di note e apparati archivistici e bibliografici, l’intera vicenda spiegando con grande chiarezza l’intrico complesso che conduce il primo governo organico di centro-sinistra a cedere il passo a una minaccia che parte anzitutto dal presidente della Repubblica Antonio Segni e quindi dai servizi segreti e dai carabinieri di cui de Lorenzo era stato nominato da poco comandante generale. Ma da dove partiva il progetto di Segni eseguito da De Lorenzo per formare un governo di emergenza guidato dal presidente dimissionario del Senato Cesare Merzagora e sostenuto dalla Confindustria e dalla Banca d’Italia, oltre che da alcuni ministri come il doroteo Emilio Colombo? E quale ruolo ebbero nella crisi una istituzione importante della società italiana come il Vaticano e l’alleato più importante dell’Italia, gli Stati Uniti di America, in un periodo ancora centrale della guerra fredda tra l’Unione Sovietica e l’alleanza occidentale?
Grazie agli epistolari e ai diari di personalità importanti come Andreotti, Carli, Fanfani, La Malfa, Nenni, Segni e Taviani oltre che al memoriale di Aldo Moro trovato nel covo di via Montenevoso a Milano (e le carte ancora in parte coperte dal segreto di Stato ma in parte disponibili presso l’Archivio Centrale dello Stato), lo storico bresciano è in grado di indicare i punti essenziali del tentativo messo in atto da Segni: fu lui che ordinò a De Lorenzo di intervenire con la divisione corazzata dei carabinieri. Una versione dei fatti dunque diversa da quella che la Dc aveva voluto far credere ai tempi delle inchieste militari e parlamentari che, sia pure con grande difficoltà, vennero condotte quando l’acceso contrasto politico e verbale tra il Capo dello Stato e il ministro degli Esteri Saragat, condusse, durante un colloquio fatale, il presidente all’ictus e poi alla lunga, irreversibile malattia che ne avrebbe decretato l’uscita di scena e la morte. Dalla ricostruzione di Franzinelli emerge con chiarezza il contrasto politico e programmatico tra i dorotei di Segni e Colombo come il governatore della Banca d’Italia Carli e il capo del governo Moro, come il vicepresidente Nenni, sull’indirizzo politico del governo e l’esito dello scontro che si concluse, ai primi di agosto, con un voto di fiducia del governo alla Camera e il ricompattarsi della maggioranza parlamentare. «Sul piano politico commenta alla fine l’autore hanno ottenuto un buon risultato il governatore Carli, il commissario Cee Marjolin, il ministro Colombo e il segretario democristiano Rumor, le cui istanze sono state sostanzialmente recepite. La tattica del logoramento e del condizionamento ha prevalso su quella dello sfondamento. Il piano Solo si è rivelato lo strumento vincente nello scontro con i socialisti».

Corriere della Sera 23.11.10
«Ricostruirò la mia Bagdad» La promessa dell’esule Zaha
di Lorenzo Cremonesi


Sfide
La signora dell’architettura è già al lavoro sulla nuova Banca Centrale. E dal governo iracheno arrivano altre offerte
Hadid sogna di riprogettare la capitale del suo Paese

Il suo sogno sarebbe «ricostruire il piano urbanistico di Bagdad dall’inizio, pianificarlo dalle fondamenta». Ma per ora si limita a puntare tutto sulla progettazione dell’edificio della Banca Centrale nel cuore della capitale. In agosto ha vinto la gara aperta a tutti i più grandi studi di architettura mondiali. «È un primo passo. Ci sono altre offerte da parte del governo iracheno. Devo ancora valutarle con attenzione», spiega Zaha Hadid da Londra. Sarebbe la controrivoluzione architettonica nell’era della democrazia contro quella della dittatura. Come Saddam Hussein tra gli anni Settanta e Ottanta fece radere al suolo i quartieri storici della capitale per imporre la sua visione dell’impero in stile assiro-babilonese, così l’architetta cresciuta nella diaspora occidentale, proiettata allo zenit dei nuovi design più avveniristici, pensa di ridare alla città la sua antica dimensione umana.
Un nome che è garanzia d’eccellenza. Nata a Bagdad nel 1950 ed emigrata sin da bambina con la famiglia all’estero, Zaha Hadid ha studiato matematica a Beirut, prima di laurearsi a pieni voti alla Scuola di Architettura di Londra e quindi insegnare a lungo nelle migliori università americane. Lavoro, impegno e grandi successi internazionali sono poi arrivati a cascata. Da quando nel 2004 ricevette il «Pritzker Architecture Prize», il premio Nobel nel suo campo, viene definita la «donna architetto più famosa al mondo». Tra le realizzazioni più note: il trampolino da sci di Innsbruck, il ponte a farfalla di Saragozza, gli uffici centrali della Bmw a Lipsia, il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra nel 2012. In Italia ha all’attivo almeno sei progetti maggiori, tra cui il Museo delle Arti Contemporanee di Roma inaugurato l’anno scorso e il complesso City Life a Milano.
Pure, non è strano che la figlia per eccellenza dei circoli più cosmopoliti dell’intellighenzia contemporanea guardi adesso alla «sua» Bagdad come a una grande sfida. «Non ci sono mai tornata dalla mia partenza da bambina. Spero di visitarla, presto. Ma ancora non ho fissato una data», confida. Un anno fa sembrava tutto più facile. Le grandi operazioni militari americane del 2007-8 avevano fatto diminuire sangue e massacri ai minimi storici dalla guerra del 2003. Si sperava che le elezioni parlamentari dello scorso marzo avrebbero dato una qualche stabilità. Non è stato così. Il prolungarsi del braccio di ferro tra sciiti, sunniti e curdi per la formazione del nuovo governo è terminato solo una settimana fa e con esiti ancora molto incerti. Nel frattempo gli attentati, specie contro cristiani e sciiti, hanno riacceso le vecchie paure. La Hadid cerca di non parlare di politica. Ma non nasconde che il Paese è ancora immerso sino al collo in un «sacco di gravissimi problemi». Memore dei disastri degli ultimi trent’anni e dello sfascio urbanistico, l’architetto parla da professionista: occorre pianificare tutto da capo. «La prova del nove sta nella volontà del governo centrale di lanciare una nuova pianificazione urbana. L’Iraq necessita di un onnicomprensivo progetto di opere pubbliche che ripensi il Paese dalle macerie in cui è affondato».
La sfida è aperta. Nel 1991 lo scrittore architetto Kanan Makiya appena fuggito a Londra dall’Iraq pubblicò un volume, « I l Monumento», con lo pseudonimo di Samir al-Khalil in cui illustrava la grandiosità aggressiva e militaresca dell’architettura imposta da Saddam. Era una durissima critica contro gli Albert Speer iracheni. Vi si riprendeva il tema sempre attuale della strumentalizzazione del paesaggio urbano al servizio della dittatura. Oggi la Hadid vorrebbe davvero cambiare le coordinate di quel periodo. L’Iraq è in ginocchio. Ma non è un Paese del terzo mondo. Le scuole di artisti e scultori hanno riaperto. Le università funzionano. L’embargo internazionale è terminato. Si può volare a Bagdad direttamente da Parigi, Istanbul, Amman, il Kuwait e altri scali sono in apertura. Ecco la speranza: «Il governo vorrà ricostruire musei, teatri e biblioteche. Noi potremo esserci».

Corriere della Sera 23.11.10
Diari del Duce, la saga infinita
Scoop e falsi, il duello Mondadori-Rizzoli, il fascino del male
di Enrico Mannucci


La caccia ai diari del Duce è una saga nazionale che nasce praticamente il 25 luglio 1943, con la seduta del Gran Consiglio che decreta la fine del regime fascista. E che continua fino a oggi, quotidianamente e sotterraneamente perenne, pubblica e clamorosa nelle ricorrenti puntate capaci sempre di conquistare l’attenzione del pubblico. Il caso scoppia nel 1957, riesplode dieci anni dopo nel 1967, si intravede come incombente nel 1983 (salvo restare in sordina per la malaugurante concomitanza dei diari attribuiti a Hitler e rovinosamente sbugiardati), torna alla grande nel 1994 dopo sette anni di laboriosa gestazione, arriva all’apoteosi con l’intervento di un personaggio controverso come Dell’Utri nel 2007, e da lì occupa la scena fino a questi giorni, con la decisione della Bompiani di pubblicare la serie di agende ritrovate, «vere o presunte» che siano. Ovvero, se non azzeriamo la memoria nel vortice quotidiano dell’informazione, questa vicenda accompagna le cronache italiane per tutta la prima e anche la seconda Repubblica.
Quando poi è davvero apparsa qualche pagina dei presunti diari — nelle molte versioni, talora sovrapposte — si sono scatenate le letture e le interpretazioni. Su un binario doppio e costante: edulcorazione della figura del Duce, oppure assoluta banalità di quel che vi è scritto; inattendibilità per giudizi troppo distaccati dalla realtà del regime, oppure approfondimento di aspetti finora solo intuiti.Anche questo riguarda l’eventuale dibattito conseguente alla «messa in piazza» di un primo testo. E non abbiamo le competenze per entrarci (anche se non possiamo non notare l’intrinseca contraddittorietà di alcuni giudizi: insignificante e scontato, o sconcertante e giustificativo?). Ci basta ricostruire un’appassionante opera collettiva che in Italia si va scrivendo da sessant’anni.
Fra le infinite — e contraddittorie — pagine sugli eventuali lasciti documentari di Mussolini (diari, memoriali, carteggi, preferibilmente con Winston Churchill) c’è un aspetto generalmente trascurato: a innescare la caccia concorse assai una competizione editoriale dai marcati accenti personalistici, quella fra Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli. Entrambi in gara per accaparrarsi l’ultima «verità» su un tema che appassionava instancabilmente i lettori e anche, magari, per assicurarsi prove inconfutabili sugli intrecci col regime durante il Ventennio del concorrente rivale.
Nati a distanza di due giorni l’uno dall’altro (e moriranno entrambi nel giro di nove mesi), Angelo Rizzoli, il «cumenda», e Arnoldo Mondadori ebbero due vite di parallelo successo e di precoci e reciproche antipatie. Il secondo si rifiutava persino di fare il nome del primo. Lo chiamava «R», fingeva di non tenerne conto ma, in fondo, lo temeva, perché l’altro era più strafottente e più ricco. Partiti dalla miseria entrambi, socialisti da giovani, una volta diventati «padroni» importanti, potenti e milionari, nel Ventennio avevano intimamente intrecciato la loro storia col regime, ascoltando i suggerimenti del Duce, manovrando nell’editoria d’intesa con lui e con i gerarchi, addirittura associandosi, anche se per soli sei mesi, in un’impresa che a Mussolini stette per qualche tempo a cuore: «Omnibus», lo splendido settimanale — il primo rotocalco italiano — inventato da Leo Longanesi. Alla stampa popolare Rizzoli era arrivato per primo, ma Mondadori lo seguì a ruota. E quando, nel dopoguerra, il regime caduto diventò un motore di grandi tirature — spiato dall’interno, meglio ancora se raccontato con diari sensazionali e memorie confidenziali — i due si fecero una concorrenza spietata per conquistare gli scoop migliori. Anche perché ognuno cercava le prove della compromissione col regime dell’altro.
Nota Renzo De Felice in Rosso e nero: «La Rizzoli, ma soprattutto la Mondadori, nel dopoguerra sono state il grande nodo ferroviario dei traffici editoriali e politici che si sono svolti intorno alle carte di Mussolini. Arnoldo è stato un grandissimo capostazione. Fu la Mondadori che, prima di pubblicarli, studiò e smascherò i falsi delle Panvini, le famose Rosetta Panvini Rosati e sua figlia Amalia detta Mimì». E Pasquale Chessa ha precisato, in un articolo sull’«Unità» del 2007: «C’è stata una vulgata "anti-antifascista", speculare alla cosiddetta "egemonia della sinistra" nella storiografia, che ha dominato la narrazione nazionalpopolare del fascismo e del suo tempo. Una specie di patto di Yalta della memoria collettiva. Per dire: da una parte Einaudi e gli Editori Riuniti e dall’altra "Oggi" e poi "Gente". Attraverso questa divulgazione di massa, il Paese ha saputo ritrovare un ambito — una valvola di sfogo — nel quale anche la memoria dei vinti potesse trovare ascolto».
Nella fortuna di quello che può, a ragione, essere definito un «genere» concorrono, del resto, anche altre ragioni. Una si potrebbe definire «sistema Corona», facendo riferimento all’uso dell’immagine emerso con le inchieste recenti che hanno coinvolto diverse agenzie fotografiche. Una caccia a documenti scottanti utile alla pubblicazione, ma anche — in prima battuta — a guadagnarsi obblighi, riconoscenza, contropartite più o meno confessabili se il materiale viene imboscato avanti di arrivare sulle pagine. Solo che, invece delle foto, all’epoca il traffico riguardava documenti. La classe dirigente del dopoguerra non aveva esitato a cooptare, in tutti gli schieramenti, personaggi che avevano avuto a che fare col regime nelle più diverse maniere: certificare compromissioni e legami diventati «sconvenienti» poteva rappresentare un utilissimo strumento di pressione.
C’è poi, potente, la fascinazione del male. Robert Harris con I diari di Hitler (Mondadori) ha costruito un libro notevole riguardo alla «presa sull’immaginario collettivo in tutto il mondo» che la figura del Führer continua ad avere. Ora spiega: «I diari hanno sempre un grande potere d’attrazione perché offrono l’opportunità di vedere da vicino, dal loro lato più personale, le celebrità. Nel caso dei dittatori, poi, si tratta di un osservatorio privilegiato sul male, sul demonio. I falsi diari di Hitler dettero la misura di quanto fosse forte questo appetito pubblico». Il ragionamento vale anche nel caso del Duce e del fascismo.

Repubblica 23.11.10
Il ritrovamento di un epistolario dal suo rifugio in Egitto riapre i dubbi sulla sorte del "medico" di Mauthausen e giovedì, a pochi mesi dal processo, è morto Samuel Kuntz, accusato degli stermini nel lager di Belzec
 Mistero sulle lettere il Dottor Morte Heim potrebbe essere vivo
di Andrea Tarquini


Sarebbe stato dato per morto nel 1992 Ma il Centro Wiesenthal lo cerca ancora

Lo chiamavano "il Dottor Morte", pronunciavano il suo nome con terrore. Il dottor Aribert Heim compì spietati esperimenti criminali sui deportati nel lager di Mauthausen, poi riuscì a sopravvivere al nazismo che aveva servito fedele e ai processi degli alleati. Anche se 95enne, potrebbe essere ancora vivo. Le sue lettere segrete dal nascondiglio in Egitto alla famiglia rimasta in Europa, a un medico ebreo, Robert Braun, e a politici tedeschi, pubblicate da El Paìs, riaprono il dubbio sulla sua sorte. E con il mistero sul destino di Aribert Heim riemerge uno dei capitoli più atroci del Terzo Reich.
«Heim fu in Egitto almeno fino all´inizio degli anni Novanta, io non posso dichiararlo morto finché non ne ho la certezza scientifica, quindi per me il caso non è chiuso», dice al telefono da Gerusalemme il dottor Efraim Zuroff, l´erede di Simon Wiesenthal, direttore appunto del Centro Wiesenthal per la caccia ai criminali nazisti ancora a piede libero. La caccia ai nazisti di Zuroff è sempre più una corsa contro il tempo: ieri un altro dei suoi ricercati, Samuel Kunz, ex guardia del lager di Belzec, è morto in libertà in Germania qualche mese prima del processo contro di lui per crimini contro l´umanità. Ancora a piede libero sono altri super-ricercati, dall´ungherese collaborazionista Sandor Kepiro al croato, ex guardiano di lager, Milivoj Asner. Ma Aribert Heim, nella lista del centro Wiesenthal, è una delle figure più mostruose.
«Caro dottor Braun», scrisse negli anni ´80 il "Dottor Morte" al medico ebreo, «lei capisce che le accuse contro di me sono assurde, opera delle fantasie di fanatici. Io non avrei mai potuto compiere crimini così mostruosi contro pazienti o prigionieri, il giuramento d´Ippocrate me lo avrebbe impedito. Fui volontario nelle SS, ma non sono un criminale né un mostro». Dall´Egitto Heim inviò lettere anche a Lothar Spaeth, cavallo di razza della Cdu, per rivendicare la sua innocenza, dipingendosi come «vittima di fanatici sionisti».
Le testimonianze dei sopravvissuti all´inferno di Mauthausen narrano altro: ad alcuni prigionieri, Heim aprì il ventre senza anestesia strappando loro il fegato, ad altri estrasse a vivo il cuore o altri organi. Altri ancora furono narcotizzati in parte da lui, poi aperti sul tavolo operatorio, per ricevere un´iniezione letale di benzene nei muscoli cardiaci. Lui studiava tempi e decorso della loro morte, conservò come fermacarte i crani di alcuni giovani prigionieri ebrei finiti nella sua famigerata "sala operatoria". Almeno trecento deportati morirono sotto i suoi ferri.
Dopo la disfatta nazista, Heim trascorse due anni prigioniero degli americani. Ma, come fecero anche Mengele, il principale responsabile dell´uso dei deportati come cavie, e l´ingegnere dell´Olocausto Adolf Eichmann, anche lui riuscì a spacciarsi per un militare come tanti altri e fu rilasciato. Solo nel 1962 alcuni testimoni lo identificarono, e lui finì nel mirino della giustizia. Fuggì in America Latina, poi in Egitto. Le sue lettere segrete sono un eccezionale documento del suo continuo tentativo di trovare, dal rifugio al Cairo, presunte prove a sua discolpa. «Cara Gerda», scriveva alla sorella Hertak, chiamandola in codice come faceva con tutti i destinatari, «mettiti in contatto con la famiglia Thyssen perché ti confermino che nell´estate del ‘42 vissi da loro, alcune settimane o due o tre mesi, non ricordo». Dall´Egitto, si mostrava anche spavaldo, lui che aveva stroncato tante vite: «La lotta per la vita va presa come uno sport, succeda quel che succeda, si vive una volta sola, mai dimenticare l´umorismo».

Repubblica 23.11.10
Pompei, L´accusa dell´Unesco "colpa delle autorità italiane"
Il direttore Irina Bukova: ora andranno i nostri ispettori e Roma deve prendere dei provvedimenti


ROMA «Quello che è successo a Pompei rappresenta per tutti una tragedia». Il direttore generale dell´Unesco, Irina Bokova, arriva nella capitale per una serie di incontri istituzionali ma la prima cosa che deve affrontare è il crollo della Casa dei Gladiatori. L´Unesco, annuncia, interverrà per garantire la tutela del sito archeologico, classificato dal 1997 come Patrimonio mondiale dell´Umanità. «La responsabilità ricade in primo luogo sulle autorità italiane», ammette senza mezze misure l´ex ambasciatrice bulgara, 58 anni, eletta un anno fa, dopo un´aspra battaglia diplomatica, alla guida dell´organizzazione delle Nazioni Unite per l´Educazione, la Scienza e la Cultura. «Ma noi non vogliamo chiamarci fuori. Abbiamo proposto al governo massima collaborazione: spenderemo su Pompei le nostre energie migliori».
Dopo le polemiche, è tempo di agire. Già nei prossimi giorni, gli esperti dell´Unesco saranno in Campania. Non soltanto per constatare i danni alla Casa dei Gladiatori ma per verificare eventuali rischi per altri reperti. Gli ispettori hanno infatti il compito di stilare un raffronto con le condizioni documentate tredici anni fa, segnalando quindi casi di degrado nella zona archeologica. «È una ricognizione al quale seguirà un rapporto», precisa Giovanni Puglisi, presidente della Commissione italiana dell´Unesco. Sulla base di questa nuova indagine, il Comitato dell´organismo potrà valutare se inserire o meno Pompei nella famigerata lista rossa dei siti patrimonio dell´umanità in pericolo, cosa finora mai avvenuta in Italia.
Il nostro paese detiene il più alto numero di siti riconosciuti dall´organizzazione. «Capisco la difficoltà della tutela per un patrimonio ricco come il vostro - commenta Bokova - e penso anche che lo Stato dovrebbe appoggiarsi di più al settore privato per quanto concerne la gestione e la promozione dei siti». Un eventuale pronunciamento del Comitato dell´Unesco, che denunci l´incuria nel sito archeologico, non è comunque atteso a breve. La priorità, infatti, è collaborare con le autorità italiane per evitare nuovi danni. L´organismo Onu ha proposto di fornire i suoi mezzi e la sua esperienza per scongiurare il peggio. «Pompei forse non rischia ancora di finire in questa lista di siti in pericolo - cerca di tranquillizzare Bokova - ma è chiaro che l´Italia deve dimostrare di voler prendere provvedimenti immediati». Il direttore generale dell´Unesco, che ieri ha incontrato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha lanciato un allarme sui tagli alla cultura in Europa e che toccano fortemente anche l´Italia. «Purtroppo la crisi economica sta penalizzando i fondi pubblici per questo settore», ha commentato Bokova. «Bisogna cambiare prospettiva. Non parlare più di spesa, ma di investimenti in un´industria che può essere produttiva tanto quanto le altre. Promuovere la cultura è un modo di garantire lo sviluppo e la modernizzazione del vostro paese».

Repubblica 23.11.10
Per secoli la Royal Society ha escluso le studiose Adesso un libro racconta le invenzioni al femminile
Dall’astronomia alla matematica Londra riscopre le donne scienziate
In età vittoriana i colleghi uomini facevano di tutto per sminuirne il valore
di Enrico Franceschini


Fondata nel 1660 per discutere le idee del filosofo Francis Bacon, la Royal Society non è solo l´accademia delle scienze inglese e una delle confraternite di scienziati più antiche e prestigiose del mondo: è anche, e soprattutto, il simbolo della scienza intesa come progresso umano, come costante avanzamento della società in cui viviamo. Ma c´è un campo in cui l´illustre istituto londinese è avanzato poco, tardi e male per gran parte della sua storia: quello della parità dei sessi. La lista dei suoi cervelloni, da Isaac Newton in poi, è un elenco maschile, come se fossero stati soltanto gli uomini a scrivere la storia delle scoperte e della sperimentazione. Solo nel 1945, in effetti, la Royal Society ha emendato le proprie norme ammettendo le donne fra i soci (prima fece un´eccezione per la regina Vittoria, nominata membro onorario). E perfino oggi, nelle celebrazioni per il 350esimo anniversario della sua fondazione, fra i tanti seminari, mostre e pubblicazioni che hanno festeggiato l´evento, risaltava una vistosa assenza: quella delle scienziate, sebbene ora nelle sue file ce ne siano sessanta su 1200 membri, tra cui l´italiana Rita Levi Montalcini.
Non si tratta di semplice dimenticanza o indifferenza. Uno storico inglese, Richard Holmes, il primo a ottenere libero accesso agli archivi della Royal Society, ha portato alla luce una politica di deliberata discriminazione nei confronti delle donne e di occultamento del loro ruolo. C´erano anche delle scienziate, studiose di matematica, astronomia, botanica e altre discipline, nell´era del grande progresso scientifico: ma i loro colleghi uomini, a dispetto dell´ambiente illuminato dell´accademia delle scienze, facevano di tutto per sminuirne il valore e tenerle nascoste. Giunge dunque come atto riparatore il libro di Holmes, The lost women of Victorian science (Le donne dimenticate della scienza vittoriana), pubblicato in questi giorni in Gran Bretagna.
Nell´Inghilterra vittoriana, il concetto di donne impegnate nella ricerca scientifica veniva regolarmente ridicolizzato, scrive l´autore. Un famoso studioso del tempo, il naturalista Thomas Henry Huxley, soprannominato "il bulldog di Darwin", così scriveva nel 1860 a un collega geologo: «I cinque sesti delle donne si fermano allo stato evolutivo delle bambole, degradando qualsiasi cosa in cui si intrufolano». Gli unici settori in cui veniva tollerata la loro presenza erano la geologia e la botanica, sebbene quest´ultima fosse giudicata dai puritani moralmente pericolosa, a causa dell´esame degli apparati sessuali delle piante. Molti scienziati, ha appurato Holmes frugando negli archivi, condividevano il luogo comune secondo cui il cervello femminile sarebbe "fisiologicamente inadatto" al lavoro scientifico, alle procedure di laboratorio, alla matematica.
In realtà era adatto, eccome. Da Caroline Herschel, l´astronoma scopritrice di comete, ad Ada Lovelace, la matematica autrice dell´algoritmo poi considerato il primo "programma per computer", da Anna Barbauld, la chimica che notando le reazioni ai test di laboratorio scrisse il primo trattato sui diritti degli animali, a Jane Marcet, autrice dei primi manuali scolastici per popolarizzare la chimica e la botanica, da Mary Sommerville, che coniò il temine "scienziato", a Margaret Cavendish, autrice del primo racconto di fantascienza, le donne diedero un contributo fondamentale allo sviluppo della scienza, afferma il libro-denuncia dello storico. Un contributo riassumibile nelle parole dell´astronoma Maria Mitchell: «Anche la scienza ha bisogno di immaginazione. In essa non c´è solo matematica e logica, ma pure bellezza e poesia». Un uomo, da solo, non ci sarebbe mai arrivato.

Repubblica 23.11.10
Se l´Italia diventa un Paese di figli unici
Crescere senza fratelli. Il sorpasso del figlio unico
In Italia è il trionfo della famiglia cortissima. Lo ha sancito l´Istat. Ecco come è nata l´ultima rivoluzione demografica nel nostro Paese
di Maria Novella De Luca


Mamma, papà e il loro bambino I nuclei con figli unici ormai sono il 46,5% e superano quelli con una prole numerosa. Un fenomeno che in Italia è più marcato rispetto agli altri Paesi europei. È il trionfo della famiglia cortissima Ecco il mondo del mono-bimbo Una rivoluzione demografica annunciata Anna Oliverio Ferraris: le coppie si fermano a uno perché vogliono dargli il massimo.

Un bambino per due genitori e quattro nonni. Cioè uno per sei. Più un paio di zii. Aggiungiamo se va bene due o tre cugini. Fine. Ecco l´Italia del figlio unico, delle "famiglie verticali", quelle del formato a tre, mamma, papà e un bambino solo, la maggioranza ormai, lo conferma l´Istat, il sorpasso c´è stato, le coppie con un figlio e basta sono il 46,5% contro il 43,0% delle famiglie con due figli, e il 10,5% di quelle (rare) dove i fratelli sono tre o anche di più. È questa l´ultima rivoluzione demografica italiana, annunciata da tempo ma oggi diventata realtà, la famiglia cortissima con il bambino singolo, prima generazione di ragazzini senza fratelli. Una metamorfosi di massa, dove il ritratto classico del figlio unico si polverizza e moltiplica per migliaia di figli unici, che in qualche modo poi diventano, anche, fratelli. Studi recentissimi dimostrano che nel mondo ammalato di sovrapopolazione non è poi così male essere figli unici, anzi. I numeri però sembrano invece quelli di una sconfitta, perché chi decide di fare famiglia nell´80% dei casi afferma di volere "due o più figli" e invece poi ci si ferma ad uno soltanto, e l´avanzata del modello "monobambino" sembra inarrestabile.
Un bambino per due genitori più quattro nonni. Cioè uno per sei. Solo in una folla di adulti. Aggiungiamo se va bene un paio di zii e due o tre cugini. Fine. Ecco l´Italia del figlio unico, delle "famiglie verticali", quelle del formato a tre, mamma, papà e un bambino solo, la maggioranza ormai, lo conferma l´Istat, il sorpasso c´è stato, le coppie con un figlio e basta sono il 46,5% contro il 43,0% delle famiglie con due figli, e il 10,5% di quelle (rare) dove i fratelli sono tre o anche di più. È questa l´ultima rivoluzione demografica italiana, annunciata e temuta da tempo ma oggi diventata realtà, la famiglia cortissima con il bambino singolo, prima generazione di ragazzini senza fratelli, costretta a inventarsi reti sociali e parentele del tutto nuove. Una metamorfosi di massa, dove il ritratto classico del figlio unico si polverizza e moltiplica per migliaia di figli unici, che in qualche modo poi diventano, anche, fratelli.
Studi recentissimi dimostrano che nel mondo ammalato di sovrappopolazione non è poi così male essere "unici", anzi. I numeri però sembrano invece i numeri di una sconfitta, perché chi decide di fare famiglia nell´80% dei casi afferma di volere "due o più figli" e invece poi ci si ferma a uno soltanto, e l´avanzata del modello "mono-bambino" sembra inarrestabile. In un intreccio dove, dicono demografi e sociologi, la mancanza di welfare e di servizi «si uniscono a una cultura dove al figlio si deve dare il più possibile, anche in termini materiali, e dunque farne due può diventare impossibile». Ma dietro l´esercito dei figli unici, fenomeno crescente anche in altre zone della Ue, dalla Spagna alla Grecia, dalla Germania all´Austria, per Letizia Mencarini, professore associato di Demografia all´università di Torino, « c´è anche il tempo troppo lungo che passa dalla nascita del primo figlio alla decisione di metterne al mondo un altro, che poi magari non arriva più...».
«È la vera peculiarità delle coppie italiane: aspettare anni per replicare una maternità, iniziata magari già oltre i 30 o i 35. Ma dietro ci sono ragioni forti e sostanziali - chiarisce Mencarini - perché in Italia la legge sulla maternità è seria e protettiva, ma poi la conciliazione non esiste, i numeri delle donne che non riescono più a rientrare nel mondo del lavoro dopo la nascita del primo figlio sono ancora altissimi, e quindi prima di fare il secondo ci si pensa bene». Non solo però. «Nel nostro paese - continua Mencarini - se da una parte cresce la domanda di asili nido, di scuole materne, è ancora forte la cultura per cui è meglio che almeno fino a tre anni i bimbi restino a casa con la mamma e con la nonna... Basta girare sui blog delle neo-mamme per rendersene conto. Senza pensare all´investimento economico su questi bambini, che devono avere le stanze più accessoriate e i corredi più belli. Vincoli vecchi e nuovi che rendono già enormemente impegnativo mettere al mondo un figlio, figuriamoci due». «E forse - conclude Letizia Mencarini - se i padri collaborassero un po´ di più in casa magari sarebbe più facile avere qualche figlio in più».
Le statistiche però dicono che più cresce il numero dei figli, più si è a rischio povertà. Tanto che nel milione e mezzo di italiani che vivono secondo l´Istat in condizioni di "grave indigenza", senza nemmeno il denaro per mangiare a sufficienza, circa il 30% è costituito dalle famiglie numerose, oltre i tre figli, considerati la massima soglia sopportabile per una famiglia media. Adele è una mamma-blogger che nel suo sito ha descritto giorno dopo giorno l´attesa, poi la nascita, e poi l´entrata nel mondo del suo primogenito Andrea, tre anni il mese scorso, felicemente inserito al primo anno di scuola di materna. «Sono tornata a lavorare quando Andrea aveva dodici mesi, sono impiegata in una piccola azienda privata, mio marito insegna alle scuole medie... Lavoriamo a Milano, ma viviamo fuori, a 50 chilometri. Possiamo contare, ma non a tempo pieno, su due nonne, più una baby sitter due giorni a settimana. Già così, tra il mutuo della casa, la benzina, i costi generali, arriviamo alla fine del mese con le risorse al limite. Vorrei fortemente un secondo bambino, ma ho già 38 anni, se mi allontano dall´azienda rischio di perdere il posto, e continuiamo a rimandare. Andrea resterà figlio unico? Forse. Però mi sembra sereno e io faccio i salti mortali per fargli incontrare altri bambini. Sento che per adesso è tutto quello che posso dare».
Il problema però è la distanza tra i figli reali e i figli desiderati. «È per questo - aggiunge Ivo Colozzi, ordinario di Sociologia all´università di Bologna - che la famiglia italiana non è libera. Non è libera cioè di fare i bambini che vorrebbe. E non è soltanto una questione di servizi, che pure aiutano ma non bastano. Bisogna agire sul fisco, renderlo più lieve, altrimenti sarà ben difficile invertire la tendenza. I genitori si pongono il problema di quanto potranno sostenere i figli nel futuro, sanno magari di avere sufficienti risorse per uno soltanto, per farlo studiare, mandarlo all´università, avviarlo nel difficilissimo mondo del lavoro. E per questo si fermano». Certo dietro il "sorpasso" del figlio unico, c´è anche la maternità che viene rimandata, «ma soprattutto - osserva Colozzi - la mancanza storica di politiche per la famiglia. Basta guardare la Francia, oggi in testa ai Paesi europei come tasso di natalità: lì erano arrivati ai minimi storici di fecondità, come nel nostro Paese, ma con delle politiche giuste hanno ribaltato la situazione. Mi sembra però difficile oggi, con le risorse a zero, invertire in Italia l´inevitabile avanzata dei figli unici».
Ma come si cresce senza fratelli? E che adulti saranno questi bimbi che non dividono la loro stanzetta con nessuno, cuore, centro e anima di genitori, nonni e zii tutti protesi unicamente verso di loro? Viziati, capricciosi, o invece diversi, nuovi, capaci di creare reti di amicizie autonome? Anna Oliverio Ferraris, ordinario di Psicologia dello sviluppo all´università La Sapienza di Roma, non nasconde la sua nostalgia per un´infanzia divisa tra fratelli e sorelle, prima palestra di vita per un bambino, costretto sì a conquistarsi spazi e giochi, ma poi di certo più forte. «Il rischio dei bambini unici è la solitudine da una parte, e l´essere al centro del mondo dall´altra. Su di loro si riversano montagne di attenzioni, di affetto, ma anche di aspettative, di troppi adulti. E nel futuro per questi figli unici non sarà facile diventare autonomi, svincolarsi dalla famiglia, senza contare che saranno loro, da soli, a dover sostenere il peso dei genitori che invecchiano». Il dato nuovo però è che oggi i figli unici sono sempre di più. «E quindi troveranno il modo di ricreare attraverso gli amici quello che un tempo si faceva con i fratelli. Qui però conta molto il ruolo delle mamme e dei papà - afferma Oliverio Ferraris - quanto si sforzano di farli socializzare, tra la scuola, lo sport, le attività, una casa aperta ai coetanei. Perché una cosa è certa: i bambini vogliono dei compagni di giochi. Non è un caso che spesso a 3 o 4 anni comincino a chiedere ai genitori "quando mi dai un fratellino o una sorellina?"». Con la consapevolezza però che nel mondo mono-bambino non avere fratelli è ormai una realtà comune, a differenza di 15 o 20 anni fa, quando essere "uno" non era, ancora, la norma. «Una cosa che spesso ho consigliato ai genitori di figli unici è stata quella di comportarsi come se di figli ne avessero due o tre: ossia con naturalezza, anche con severità, cercando di non viziare e soffocare questi bambini. Ma nello stesso tempo penso che nonostante tutti i problemi oggettivi si potrebbe rischiare un po´ di più nel fare i figli. I bambini - dice con un po´ di ironia Anna Oliverio Ferraris - non hanno bisogno di così tanti oggetti, spesso le coppie si fermano a uno soltanto perché vogliono dargli il massimo. E se invece il dono più grande fosse un fratello, rinunciando magari a qualcosa?».

Repubblica 23.11.10
Spesso non hanno amici, aiutiamoli a socializzare
di Chiara Saraceno


Non vi è perfetta coincidenza tra numero di famiglie in cui è presente un solo figlio e numero di coppie che hanno avuto solo un figlio. La rarefazione delle nascite, unitamente all´allungamento dell´intervallo tra l´una e l´altra, fa sì che, così come aumenta il numero delle coppie che per lunghe fasi della vita non hanno ancora, o non più, un figlio che vive con loro, aumenti anche il numero di quelle che per un periodo più o meno lungo ha presso di sé un solo figlio, anche se ne ha avuti, o ne avrà, più di uno. Se è vero che aumentano i figli unici, infatti, ancora oggi buona parte dei figli ha almeno un fratello/sorella. Tuttavia, soprattutto al Nord, l´esperienza del figlio unico è ormai diffusa da tempo. Inoltre, l´allungamento dell´intervallo tra le nascite fa sì che questa esperienza sia sperimentata per un numero di anni significativo anche da una parte di primi figli, prima che arrivi loro un fratello o una sorella.
In aumento anche la rarefazione delle nascite, con primogeniti per molto tempo soli
Quella del figlio unico è una condizione che incide profondamente sul modo in cui si vive come figli e in cui si diventa grandi. Come tutti i primi figli, i figli unici sono oggetto delle ansie e dell´inesperienza dei neo-genitori. Ma, in quanto unici, sono anche oggetto di aspettative e investimenti emotivi che non possono condividere con altri. Certo, spesso, proprio per questo, c´è il rischio che diventino piccoli tiranni viziati. Ma anche quello che, man mano che crescono, si sentano schiacciati dal peso di questa concentrazione di aspettative e attenzione, che talvolta non riguarda solo i genitori, ma anche nonni e zii. Soprattutto, a differenza di chi ha fratelli o sorelle, non sperimentano nella routine della vita familiare la diversificazione delle posizioni, capacità, ruoli, legati all´età e non solo alla generazione. Non ci sono fratelli/sorelle - e talvolta neppure cugini - più piccoli o più grandi con cui confrontarsi e con i quali imparare a diventare grandi, oltre a condividere con loro attenzione e affetto di genitori e nonni, facendo i conti con, ed elaborando, gelosia e invidia. La crescita per i figli unici è un percorso solitario, protetto dalla competizione sulla attenzione e gli investimenti dei genitori da parte di fratelli/sorelle, ma anche potenzialmente privo di confronti e mediazioni. I bambini sono diventati rari non solo per gli adulti, ma anche per loro stessi. È una mancanza che sentono istintivamente anche i bambini, quando esprimono il desiderio di avere un fratellino/sorellina: un compagno, diverso, ma anche simile nella comune posizione di figlio/a.
Non voglio con questo sostenere che la condizione di figlio unico sia da compiangere o da considerare a rischio. Piuttosto segnalare che la sua diffusione non riguarda solo la demografia, ma un profondo mutamento nelle configurazioni relazionali ed emotive famigliari e soprattutto nell´esperienza di essere figli lungo tutto il corso della vita, rispetto al quale occorre che la società, e non solo gli individui e le famiglie, si attrezzino culturalmente e organizzativamente.
Due esempi per tutti, uno riferito all´età infantile e l´altro all´età matura. Proprio la rarefazione dei bambini entro la rete famigliare rende indispensabili luoghi di socialità in cui i bambini possano confrontarsi tra loro, imparare gli uni dagli altri e allentare il peso della propria unicità. Ciò vale non solo per organismi come gli scout o simili, ma anche per nidi, scuole dell´infanzia, scuole elementari e medie, che vanno pensati non solo come luoghi di cura per i piccoli e di istruzione verticale per i più grandicelli, ma, appunto, come luoghi di socialità tra pari. Per quanto riguarda l´età matura, già ora, a causa della riduzione delle nascite, un numero ridotto di figli si trova a fronteggiare le domande di cura di un numero crescente di anziani fragili. Quando il figlio è unico, la situazione può diventare insostenibile e con conseguenze negative sia per la figlia/o che per i genitori. Il semplice affidamento alla famiglia della responsabilità in questo campo, come avviene in Italia, appare del tutto cieco rispetto a questi dati demografici, rischiando di provocare sia sovraccarichi iniqui che deficit di cura.

Adnkronos 20.11.10
Indagine ministero, in Italia sempre meno consultori

Roma, 20 nov. (Adnkronos Salute) - Pochi, sempre meno, e con un organico ridotto: è la fotografia scattata dal ministero della Salute sulla situazione dei consultori familiari in Italia, strutture finalizzate ad assicurare informazione e assistenza psicologica, sanitaria e sociale per la maternità, la paternità e la procreazione responsabile. A 35 anni dalla loro istituzione, ne risultano attivi solo 1.911 (dato 2009). Pochi, considerando che secondo la legge ce ne dovrebbero essere più di tremila. E invece di aumentare, la loro presenza sul territorio sembra ridursi. Nel 2007 se ne contavano 2.097, quindi in due anni ne sono stati chiusi o accorpati ben 186. Analizzando l'indagine pubblicata sul sito web del ministero della Salute, si scopre poi che solo in 6 Regioni (Piemonte, Provincia autonoma di Bolzano, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Sicilia) è presente in tutte le Asl un budget vincolato per l'attività dei consultori. Ma non è solo un problema di strutture. A scarseggiare è anche il personale che lavora all'interno dei consultori familiari. Secondo l'analisi, solo il 21% delle strutture dispone di 6-7 figure professionali, così come previsto dal Pomi (Progetto obiettivo materno infantile). Nel 45% dei casi il consultorio dispone di un'equipe di 4-5 figure, con le quali è possibile svolgere un lavoro "sufficiente anche se incompleto". Nel 23% delle strutture l'equipe è invece composta da 1-3 professionisti fondamentali, "il che - secondo il ministero - lascia intendere che in questi consultori non si riesce a lavorare in maniera multidisciplinare". Le figure più presenti sembrano essere: l'ostetrica, lo psicologo, l'assistente sociale e il ginecologo. A scarseggiare sono: i pediatri, le infermiere pediatriche e le assistenti sanitarie. Analizzando i dati Regione per Regione, emerge che realtà consultoriale in Italia è estremamente disomogenea. Rapportando infatti la popolazione residente con il numero dei consultori rilevati nel 2007, emerge che la metà circa delle Regioni si trova molto distante da quella popolazione di riferimento di 20 mila abitanti in area urbana e 10 mila in area rurale, che è indicata dalla legge 34 del 1996. Se, infatti, nel 2007 esisteva in media un consultorio ogni 28.431 abitanti nel 2009 tale rapporto è ulteriormente sceso a 1 ogni 31.197 nel 2009. E comunque, il dato significativo che emerge dall'indagine del ministero è che, ad esclusione di Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Sardegna che fanno registrare un incremento del numero dei consultori nel 2009, nella stragrande maggioranza delle Regioni i consultori sono diminuiti o comunque risultano riaccorpati funzionalmente. Il monitoraggio ha preso in esame anche il numero dei locali all'interno dei consultori pubblici. Secondo la legge, queste strutture dovrebbero disporre di: locale per l'accoglienza degli utenti; segreteria e informazioni; locale per la consulenza psicologica diagnostica e terapeutica; locale per le visite ostetrico-ginecologiche e pediatriche; locale per le riunioni; lo spazio archivio. Ebbene, solo la Valle d'Aosta, la Provincia autonoma di Bolzano, quella di Trento, il Friuli Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Sicilia hanno una media superiore all 50% di consultori con 5 o più locali. Il 18% delle Regioni non ha inviato risposta riguardo a questo quesito. Secondo l'indagine, La qualità dei consultori è giudicata dagli operatori buona per il 55%, mediocre per il 29% e solo il 3% delle sedi consultoriali viene definito fatiscente. "Questo - spiega il ministero nelle sue conclusioni del Rapporto - è un dato molto importante in quanto ci dice che con risorse contenute si potrebbe migliorare la qualità strutturale delle sedi". La maggior parte dei consultori è provvisto di personal computer, anche se è basso il numero di quelli che dispongono di posta elettronica o di rete intranet predisposta a scambiare dati, condividere informazioni e facilitare la comunicazione all’interno della struttura e tra strutture. Sulla disponibilità nell'offerta dei giorni e degli orari di apertura tra le varie Regioni, si è infine riscontrato una omogeneità nell'apertura mattutina dai 3 ai 5 giorni alla settimana, mentre vi è una flessione nell'apertura pomeridiana che si riduce ad 1-2 pomeriggi alla settimana in quasi tutte le Regioni. Rara l'apertura nel giorno di sabato.

Repubblica Salute 23.11.10
"Sento delle voci" parlarne fa bene
Amichevoli o minacciose, temporanee o totalizzanti: non sempre significano malattia mentale. Alcune strategie per affrontarle in un percorso terapeutico E il ruolo dei gruppi di auto-aiuto in un convegno della Rete a Milano
di Francesco Cro*


Sentire "le voci" è un´esperienza più comune di quanto si possa pensare, e non è necessariamente un sintomo di malattia mentale. Il problema è il rapporto tra la persona e le sue "voci": queste possono essere amichevoli o minacciose, e possono assorbire completamente l´attenzione dell´individuo. Con adeguate strategie, però, l´uditore di voci può recuperare la padronanza di sé e trasformarle in interlocutori con cui è anche possibile dialogare. Se ne è parlato recentemente nell´inconto della Rete italiana degli uditori di voci, a Milano.
Non è necessaria la scomparsa completa del sintomo per riconquistare un soddisfacente livello di benessere: si può anche arrivare a sentire solo le voci positive, o a sentirle tutte ma con un senso di maggior controllo della situazione. Per conseguire questi obiettivi possono essere impiegate strategie semplici, come ascoltare la musica con la cuffia per mettere a tacere le voci spiacevoli, o più complesse, come cercare di individuare e gestire gli stati emotivi associati alle diverse voci. Un supporto fondamentale può essere fornito dai gruppi di auto-mutuo aiuto: parlare delle proprie voci con chi non ha avuto esperienze simili, anche se si tratta di una persona cara, può essere, infatti, molto difficile. Confidarsi con lo psichiatra può essere problematico: molti professionisti della salute mentale tendono, infatti, a considerare automaticamente le voci il sintomo di una grave malattia mentale, e sembrano interessati solo a stabilire se siano presenti o meno, per poi intervenire con i farmaci adatti. È invece di fondamentale importanza scoprire, insieme con l´uditore di voci, quali e quante sono le voci che sente quotidianamente; in quali momenti della giornata o in quali condizioni psicofisiche si manifestano; con quale tono gli si rivolgono e di cosa gli parlano; se provengono dall´esterno o dall´interno del suo corpo; che emozioni gli provocano e cosa lo spingono a fare; quale spiegazione egli si dà di questa insolita esperienza, che mette in crisi tutte le certezze possedute prima, e che lo spinge a dubitare dei propri sensi o, in alternativa, a sviluppare teorie esplicative lontane dalla realtà, come la convinzione di essere collegato ad apparecchi ricetrasmittenti o in comunicazione con entità aliene o superiori. Per Rufus May, psicologo del Centre for Citizenship and Community Mental Health di Bradford (Regno Unito), ex uditore di voci con diagnosi di schizofrenia, «dare voce alle voci», affrontarle e dialogare con esse, interrogandosi sul loro significato simbolico e sul messaggio che possono dare al paziente e a chi condivide con lui il percorso terapeutico, può essere di vitale importanza per ridare un senso alla propria esperienza, ritrovare la sicurezza in se stessi e rientrare in contatto con gli altri.
* Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

lunedì 22 novembre 2010

AGI 20.11.10
LAICITA’: BONINO, TORNARE IN PIAZZA PER LIBERTA' DI SCELTA


(AGI) ‑ Roma, 20 nov. - “La laicità è uno straordinario metodo di governo dei temi eticamente sensibili, i diritti civili, che sono in realtà giganteschi problemi sociali, e vanno sempre protetti, senza soste o tentennamenti. E oggi non mi sembra affatto anacronistico un invito a tornare in piazza per la libertà di scelta, l’autodeterminazione, la difesa della libertà e della identità degli individui. La migliore difesa, ho sempre pensato, è l’attacco”. Con questo appello a una grande mobilitazione di massa, in nome della laicità, Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ha concluso questa mattina al Teatro Eliseo la manifestazione “Per un’Italia più laica”, promossa dal Pd di Roma, da Iniziativariformista e dal settimanale Left. Il punto di partenza del dibattito, al quale hanno preso parte, tra gli altri, Giovanna Melandri, Massimo Teodori e Massimo Fagioli, il disegno di legge Tarzia, presentato ai consiglio regionale del Lazio, che intende affidare la gestione dei consultori ad associazioni di famiglie, sottraendoli di fatto al servizio pubblico, in nome della tutela della vita fino dal concepimento. “La laicità e la libertà sono e devono ricominciare ad essere il nostro strumento di attivazione di massa; sono temi che coinvolgono milioni di persone”, ha affermato la Bonino, rivolta al pubblico, a prevalenza femminile, che qremiva il teatro. In tempi “di vizi privati e pubblici divieti”, ha aggiunto, la sinistra dovrebbe mostrare maggiore coerenza o adottare “comportamenti politici netti, chiari, comprensibili, che vadano oltre i bofonchiamenti e le cose dette a metà, mezze sì e mezze no”.
“Servono idee più chiare alla sinistra”, ha detto subito dopo lo psichiatra Massimo Fagioli, “oltre a una maggiore nettezza di comportamento. A sinistra non vogliono accettare che la vita umana inizia alla nascita con il pensiero, così come la fine della vita non è quando il cuore cessa di battere. Il diritto all’eutanasia? Sono d’accordo, se fatto con l’assistenza del medico e dello psichiatra, se necessario, per stabilire che non si tratti di una depressione”.
“La Legge 40, quella sul testamento biologico, la proposta Tarzia sui consultori, sono anticostituzionali e hanno tutte un fondo persecutorio”, ha detto Giovanna Melandri: "si sta smantellando lo stato sociale e la legge di sistema porterà un segno pesante, in questa direzione. Berlusconi è l'espressione di una cultura che pensa che tutto si può comprare, anche le donne che vanno al consultorio. Invece no, la libertà e l'autodeterminazione sono diritti intangibili, non sono in vendita. L’Italia - ha concluso la parlamentare del Pd ‑ è sotto sopra, bisogna ripartire con battaglie di libertà e autodeterminazione, facendo fronte comune contro questo familismo moralistico e clericale". Massimo Teodorì ("sono un laico archeologico”, si è autodefinito), storico esponente radicale, ha tracciato la storia degli ultimi 45 anni di battaglie in favore dei diritti civili, a partire da quella sul divorzio, iniziata nel 1965, sostenendo “che la questione laica è provocata dall’incalzante offensiva neoclericale e neotradizionalista”. Maurizio Turco, radicale eletto nel Pd alla Camera, ha ricordato che gli attacchi alle libertà civili, in nome della difesa della famiglia, giungano senza tenere conto della realtà, per cui “a Roma, ad esempio, secondo le più recenti statistiche, il 40% delle famiglie è monoparentale, fatto cioè di persone singole”. “Mai come in questo momento ‑ ha concluso Ilaria Bonaccorsi, direttore editoriale di Left ‑ la laicità è sinonimo di libertà. Una laicità netta, rigorosa, rispettosa. Bisogna creare un anello di congiunzione tra intellettuali e ricerca e ricerca scientifica, tra scienza e sviluppo sociale, prassi politica Questo è quanto Left sta tentando di fare”.

L’Unità 20.11.10
«La piazza del Pd argine contro la deriva del berlusconismo»
Il leader democratico scrive a l’Unità in occasione della mobilitazione di oggi «Basta lezioni e scetticismi siamo l’unico partito presente in tutto il territorio che sceglie i dirigenti con le primarie e che fa della democrazia la sua bandiera»
di Pierluigi Bersani


Oggi, in tutta Italia, i militanti e i simpatizzanti del PD sono in piazza per parlare con i propri concittadini. Migliaia di democratici sono impegnati a spiegare le proposte programmatiche che il PD sta mettendo a punto per dare un futuro all’Italia, a ricordare i fallimenti e le bugie del governo, a invitare tutti alla manifestazione nazionale che il PD terrà l’11 dicembre a Roma, in piazza San Giovanni.
Questa mobilitazione, che abbiamo chiamato porta a porta perché è destinata a portare la politica tra le persone, non è solo uno sforzo organizzativo. Al contrario, è un’iniziativa che ha un obiettivo politico fondamentale ai fini della democrazia, oltre a testimoniare la rivendicazione del ruolo che il PD ha avuto nella spinta per voltare pagina.
Non dobbiamo dimenticare che il PD ha capito per primo che cosa stava accadendo nel paese, ha visto per primo la possibilità di lavorare per far maturare una crisi del centrodestra, ha indicato da molto tempo una strategia capace di provocare il cambiamento ed è riuscito a imporre i temi da mettere al centro dell’agenda politica per il bene dell’Italia. Senza tacere le difficoltà e, se si vuole, anche le debolezze che pure ci sono state, il PD può rivendicare che ciò che sta accadendo è per non poca parte frutto della propria iniziativa.
Molti di coloro che oggi danno lezioni e consigli come fossero il CT di una nazionale di calcio che ha vinto ogni torneo, criticarono, come fosse un’idea fuori dal mondo, la linea indicata dal PD di fare argine a una deriva populista invitando ad un comune senso di responsabilità, se necessario, tutte le forze che tengono alla Costituzione. Il PD incontrò uno scetticismo forte quando disse che la crisi economica sarebbe stata lunga e profonda e quando indicò nella riforma della legge elettorale il passaggio necessario per garantire la democrazia. Lo stesso accadde quando il PD previde la rottura della maggioranza; una previsione che non si basava sulle case di Montecarlo o sui divertimenti diurni e notturni del premier, ma sul fatto che questo centrodestra non era e non è in grado di incrociare i problemi reali del paese, a cominciare da quello del lavoro. E’ per questa consapevolezza che da tempo diciamo che è utile un governo di transizione per affrontare subito alcuni temi urgenti: una nuova legge elettorale che ridia il potere di scelta in mano ai cittadini, una riforma del fisco e alcune misure urgenti per l’occupazione.
Il fatto che la maggioranza di centrodestra sia entrata effettivamente in crisi e che, tranne la Lega e il Pdl, tutti affermino oggi che la legge elettorale attuale costituisce un problema per la democrazia, non significa tuttavia che la partita sia finita. L’astro di Berlusconi è in declino, ma il presidente del Consiglio ha ancora potere. Lo userà per i propri interessi: i problemi marciscono, ma a lui importa solo di restare a galla. E in caso di sconfitta il suo motto sarà: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. Berlusconi, nato come fenomeno politico dal discredito della politica, oggi rischia di concludere il suo ciclo portando al discredito la politica.
Alcuni sondaggi danno oggi il centrosinistra sopra al centrodestra, con in mezzo le forze di centro. Ma sbaglia chi presta ogni giorno attenzione al punto in più o in meno nei sondaggi. Il dato importante è un altro: il 40 per cento degli elettori non vuole più andare a votare. C’è tensione e paura per il futuro, perché la crisi morde. Ma non ci si fida più della politica.
Ecco dunque il senso della mobilitazione di questi giorni e della manifestazione nazionale dell’11 dicembre: rompere il muro del silenzio che si è creato tra la politica e la società, andare fra i cittadini, spiegare che è possibile cambiare, far capire che c’è una politica positiva la quale, pur con i suoi limiti, si sforza di dare risposte per il bene di tutti. E solo il PD può svolgere questa missione.
Il PD è l’unica forza politica presente in tutto il paese. E’ l’unico partito i cui militanti sono capaci di organizzare oltre duemila feste politiche. E’ l’unico partito che, pur con tutti i limiti, elegge i propri dirigenti, a cominciare dal segretario nazionale, con il metodo delle primarie. E’ il PD la testimonianza che la democrazia è difficile, perché presuppone la libertà di parola, di critica, di organizzazione, perfino di contesa nei gruppi dirigenti, ma è anche la strada più efficiente e più giusta per affrontare i problemi che abbiamo di fronte, con l’occhio al bene della collettività.
Noi soli possiamo farlo. Con la nostra passione, siamo l’unico partito che fa della democrazia la sua bandiera anche interna. Noi il presidio nelle piazze d’Italia della democrazia.
L’orgoglio, la responsabilità, la pazienza, la tenacia in questa battaglia lunga non fanno difetto ai militanti del PD. Mettiamole in campo e chiediamo a tutti di venire con noi a Roma l’11 dicembre per voltare pagina, per dare all’Italia un futuro migliore.

L’Unità 22.11.10
MANIFESTAZIONE NAZIONALE CGIL
SABATO 27 NOVEMBRE IN PIAZZA S. GIOVANNI
A Roma per il futuro


Si stanno preparando a partire per Roma e sono tanti: migliaia di lavoratrici e lavoratori, di cassintegrati e disoccupati, di giovani e di studenti, di immigrati, di pensionati. Vanno nuovamente nella capitale per lottare contro il degrado del paese, per rivendicare un futuro decente per sé e per i propri cari, perché sperano che le cose possano cambiare, che la crisi economica possa essere superata senza lasciare sul campo milioni di posti di lavoro, come sta avvenendo oggi. La manifestazione nazionale di sabato prossimo 27 novembre in piazza S. Giovanni,    che sarà conclusa da Susanna Camusso, da meno di venti giorni segretario generale della CGIL, ha un titolo significativo: “Il futuro è dei giovani e del lavoro”. Ed è proprio la lotta allo sfruttamento di milioni di ragazze e ragazzi, al lavoro nero, al precariato, alle flessibilità selvagge la prima ragione della manifestazione, che giunge al culmine di una lunga stagione di mobilitazioni, con iniziative nazionali e territoriali e tre scioperi generali. La CGIL, non a caso, ha lanciato la campagna “Giovani non più disposti a tutto”, che ha molto colpito per la chiarezza del linguaggio tantissimi ragazzi, che l’hanno ripresa negli striscioni e nei manifesti che aprivano le cento manifesta-
zioni per il diritto alla conoscenza, allo studio, alla cultura di mercoledì scorso 17 novembre. “Più diritti e più democrazia” è l’altro obiettivo di fondo della manifestazione, per rimettere al centro – come ha detto Camusso – il lavoro, la contrattazione, per rivendicare sviluppo, giustizia sociale, equità e riforma fiscale    e per imporre scelte che facciano uscire il
paese dalla crisi. Una crisi che ha causato un grande disagio sociale, con un governo, ormai “alla frutta”, che non si è preoccupato né dell’emergenza occupazionale, né del rilancio del sistema produttivo. Tanto che le stesse associazioni delle imprese hanno detto basta. L’unica strada è stata quella dei tagli, spesso indiscriminati.
Due i cortei previsti a Roma, che parti-
ranno sabato 27 alle ore 9 da piazza della Repubblica e da piazza dei Partigiani e che insieme confluiranno a piazza S. Giovanni. Una manifestazione dopo la quale la CGIL “misurerà le risposte” per decidere, come ha indicato il Comitato direttivo, “la prosecuzione della mobilitazione e il sostegno alla piattaforma anche attraverso lo sciopero generale”.

L’Unità 22.11.10
Annunciata una massiccia presenza di insegnanti e studenti alla manifestazione del 27 novembre
Investire sulla scuola pubblica, sull’università, sulla formazione, sulla ricerca
La conoscenza in piazza


Saranno tantissimi, molte migliaia, gli studenti medi e universitari, gli insegnanti, le lavoratrici e i lavoratori della scuola, dell’università, della ricerca, dell’Afam, della formazione professionale che scenderanno in piazza sabato 27 novembre insieme al mondo del lavoro che si riconosce nella CGIL. Dopo le proteste studentesche della scorsa settimana, organizzate dalla Flc e da organizzazioni come Udu, Rdes, Link, Uds, si parte per Roma per rivendicare gli investimenti necessari a sostenere la qualità della formazione e
della conoscenza pubbliche. Il successo delle manifestazioni nelle cento piazze d’Italia e l’eco avuto dalla campagna della CGIL sui “Giovani non più disposti a tutto”, hanno galvanizzato tutto il settore. Gli studenti ricorderanno che “si muore sotto le macerie di edifici scolastici fatiscenti, si cancellano le borse di studio, ci costringono a studiare in classi da 35 alunni, vogliono privatizzare gli atenei e la formazione professionale. Vorrebbero farci insegnare cose che non hanno niente a che fare con ciò che viviamo fuori dalle mura delle nostre scuole, rendendo il nostro diritto allo
studio inaccessibile e il nostro percorso scolastico angosciante e privo di significato”. In piazza anche i lavoratori del settore per gridare che “la conoscenza è il motore dello sviluppo e della modernità”. La Flc CGIL chiede misure urgenti per “sconfiggere il precariato che uccide il lavoro nei nostri settori”, il rinnovo dei contratti e stipendi “come nel resto d’Europa”. Una battaglia, che si annuncia ancora molto dura, per il diritto allo studio, per la qualità del nostro sistema formativo, dalla scuola dell’infanzia all’università e perrilanciarelaricerca.

L’Unità 22.11.10
No alle espulsioni selvagge


Ci saranno anche molti immigrati alla manifestazione nazionale della CGIL a Roma di sabato prossimo. Lavoratori stranieri, molti dei quali lavorano da anni nel nostro paese, ma che rischiano l’espulsione in quanto clandestini, per le assurde norme che limitano la regolarizzazione, specie di chi ha perso un posto di lavoro a causa della crisi. Le proteste dei giorni scorsi in alcune città, come Brescia e Milano, indicano una situazione delicatissima, che può esplodere da un momento all’altro. Per questa ragione, la CGIL ha organizzato la scorsa settimana una giornata di mobilitazione sul tema dei migranti: presidi, sit in, volantinaggi si sono svolti in molte città con    la partecipazione di numerose associazioni laiche e cristiane. “Sono purtroppo tante – ha rilevato una nota della CGIL – le storie degli immigrati legate al reato di clandestinità, alla mancata regolarizzazione, allo sfruttamento e al lavoro nero”. Contro il lavoro nero e i diritti dei migranti, la confederazione ha chiesto ai ministri Maroni e Sacconi di aprire un tavolo urgente di trattativa “che possa individuare soluzioni serie e strutturali, dando priorità a: il contrasto allo sfruttamento attraverso il recepimento della direttiva europea (numero 52); l’applicazione e l’estensione dell’articolo 18 del testo unico anche a chi denuncia di essere stato costretto all’irregolarità del lavoro; un percorso di emersione strutturale che, oltre a riconoscere il permesso di soggiorno a chi è stato truffato nel corso dell’ultima sanatoria, offra la possibilità di uscire dalla schiavitù e dallo sfruttamento a centinaia di migliaia di migranti, costretti alla clandestinità; una proroga del permesso di soggiorno per chi oggi ha perso il lavoro e fatica a reperirne uno nuovo, senza che incomba la minaccia di espulsione; un intervento sulla situazione di estrema difficoltà in cui versano gli sportelli unici per l’immigrazione che, per effetto della manovra finanziaria e dei tagli, sono costretti a licenziare 1.300 operatori, pari a oltre il 50 per cento del totale degli addetti”. Una piattaforma che è al centro della manifestazione della CGIL.

Corriere della Sera 22.11.10
La caccia ai deputati I radicali più freddi Il finiano: sfiducia mai
Polverini: con la Bonino no
di Monica Guerzoni


ROMA — «Voi votate la fiducia, entrate al governo e facciamo la riforma della giustizia come la volete... Diglielo a Pannella, mi raccomando». Giovedì nell’Aula della Camera il ministro Angelino Alfano ha puntato dritto al bersaglio grosso e, nell’orecchio di Rita Bernardini, ha consegnato la sua proposta per risolvere i problemi numerici della maggioranza. «Il Guardasigilli ha fatto una battuta — assicura la deputata radicale, tra i deputati più attivi nel combattere lo "sfascio" delle carceri —. Con il Pdl non c’è nessuna trattativa. Noi teniamo al Pd e domani Pannella incontrerà Bersani, vogliamo parlare di contenuti e non di pallottoliere». Eppure al vertice del Pdl c’è ancora ottimismo sulla possibilità di conquistare, in vista della fiducia, i voti dei sei radicali eletti con i democratici. Un pacchetto di consensi che farebbe impennare le quotazioni dei berlusconiani, ma scontenterebbe esponenti illustri come Renata Polverini. La presidente del Lazio è contraria e lo dice con chiarezza: «È una cosa senza senso contare sui voti radicali. Io ho avuto Emma Bonino come avversaria ed è stato uno scontro crudo. Sui valori fondamentali, dal quoziente familiare alle questioni etiche, non vedo possibilità di dialogo». Ma il Pdl va avanti. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha annunciato che presto andrà in missione a Bagdad con Pannella, per «parlare con le autorità irachene della sorte di Tareq Aziz». Ma nel pomeriggio il leader radicale, parlando alla Radio del partito nel consueto appuntamento domenicale con Massimo Bordin, si è mostrato piuttosto freddo: «Non so se posso andare in Iraq con Frattini, lo farò solo se potremo vedere Tareq Aziz». Al segretario del Pd, Pannella consegnerà un dossier su tutto quel che è andato storto nei rapporti tra le due forze dal 2005 a oggi. Sotto il titolo «Breve storia di pratica "democratica" anti-radicali», un dettagliato elenco di veti, esclusioni e «patti traditi». Il clima è teso, ma questo non vuol dire che i radicali stiano andando inesorabilmente verso l’abbraccio con il centrodestra. «Non esiste una trattativa sei voti sei posti — prende le distanze Maurizio Turco —. Ai radicali interessano le riforme per il Paese, non i posti al governo». Per quanto l’ex udc Saverio Romano giuri che «l’accordo con i radicali è cosa fatta», il rischio che a Berlusconi non riesca il colpaccio di agganciare Pannella è concreto. Eppure Daniela Santanchè, che per conto del premier lavora ad allargare la maggioranza, non sembra preoccupata: «Le trattative vanno avanti, resto molto ottimista sulla fiducia». Nei prossimi giorni, a sentire Souad Sbai, che ha lasciato Fini per tornare dal premier, «arriveranno rinforzi e non solo da Futuro e libertà». Si era fatto il nome del centrista Angelo Compagnon, il quale però smentisce categoricamente: «Non esiste, nessuno mi ha avvicinato. Io sostengo la linea di Casini e non ho crisi di coscienza. Berlusconi si dimetta, poi valuteremo offerte di responsabilità». Francesco Pionati aspetta ancora nell’Adc Maurizio Grassano, ma il liberal democratico è pieno di dubbi e prende tempo. Chi ha certezze è invece il finiano Gianpiero Catone. Lui resta con Fli, però non voterà la sfiducia. «Mi auguro che non ci si arrivi — spera l’ex dc —. Sfiduciamo Berlusconi e poi che facciamo? È chiaro che non presenteremo la mozione. Io la penso come Menia, Moffa, Consolo...». Giuseppe Consolo, al lavoro per scongiurare la resa dei conti, è convinto che raccoglierà presto i frutti della sua mediazione: «L’accordo tra Fini e Berlusconi è vicino».

l’Unità 22.11.10
Marco, non farlo, per favore!
di Massimiliano Coccia

Mi auguro vivamente che Marco Pannella e gli eletti radicali alla Camera e al Senato rispettino il mandato e il programma che li ha portati all'elezione nelle liste del Partito Democratico e non votino la fiducia al Governo Berlusconi. Dare fiducia a questo Governo significa tradire decenni di storia Radicale e dare ossigeno al Governo peggiore dell'Italia Repubblicana. Risolva Pannella i problemi di sopravvivenza del suo ceto politico in altro modo, non certamente sulle spalle di milioni di italiani stanchi, di giovani sfiduciati e di una nazione umiliata in ogni sede internazionale.

Repubblica 22.11.10
Ferrero: "Per battere Berlusconi sì anche a Casini, ma no a Fini"
Unità con Diliberto: niente governo tecnico
di Antonio Fraschilla


Il congresso della Federazione della sinistra: subito al voto con un´alleanza che liberi il Paese dal berlusconismo e che difenda la Costituzione

ROMA - «Diciamo sì a una grande alleanza elettorale contro Berlusconi anche con l´Udc, ma non con Fini e i suoi di Futuro e libertà». È questa la linea scelta dalla neonata Federazione della sinistra, che ieri a Roma ha riunito in una casa comune Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, Comunisti italiani di Oliviero Diliberto e Socialismo 2000 di Cesare Salvi. «Siamo contrari a un governo tecnico, e per questo chiediamo di andare al voto con un´alleanza che liberi l´Italia dal berlusconismo e difenda Costituzione», dice Ferrero.
Dopo l´estate calda del 2008 che ha visto andare in scena la diaspora della sinistra alternativa, ieri è stata la giornata di un primo passo, non ancora verso una riunificazione, ma almeno verso la costruzione di una «casa comune nella quale confrontarsi». «Con la nascita della Federazione non sciogliamo i singoli partiti, noi rimaniamo comunisti con falce e martello, ma costruiamo un tavolo di discussione autonomo dal Partito democratico per portare avanti insieme certi temi sul lavoro, contro la guerra e il nucleare - dice Ferrero - Speriamo che a questo tavolo si sieda anche Sel di Vendola. E lo spero per due motivi: insieme possiamo incidere sul programma elettorale e ottenere anche risultati interessanti alle urne, come dimostrano le primarie di Milano che hanno visto noi e Sel portare alla vittoria la candidatura di Pisapia».
La Federazione della sinistra ha già approvato una linea comune sulla delicata situazione politica attuale e manda un messaggio chiaro al Pd: «Non siamo d´accordo a qualsiasi governo tecnico di transizione - continua Ferrero - Chiediamo quindi di andare al voto: noi faremo la nostra parte sostenendo un´alleanza democratica che sia costruita sulle basi del Comitato di liberazione nazionale. Non ci deve essere quindi la destra e specie quei finiani che sono parte integrante del berlusconismo da quasi venti anni. In caso di vittoria, non chiediamo poltrone e di entrare al governo, anche perché non vogliamo ripetere gli errori del passato, ma dall´esterno sosterremo singoli provvedimenti, a partire dalla riforma della legge elettorale».
Il congresso che ha sancito la nascita della Federazione ha eletto come portavoce Oliviero Diliberto, che ha già indicato le prime tappe. Partecipazione alla manifestazione di piazza dell´11 dicembre indetta dal Pd e richiesta di uno sciopero nazionale perché «oltre a Berlusconi in Italia c´è da sconfiggere anche Marchionne».

Corriere della Sera 22.11.10
La Federazione della sinistra al Pd: impegnatevi con noi sulle questioni-chiave
di Dino Martirano


Diliberto sarà il portavoce: «Ai democratici non chiediamo un patto di governo, non ci sono le condizioni»

ROMA — Di nuovo in marcia con la Federazione della sinistra, verso il partito unico dei comunisti. Rieccoli uniti con la mano tesa al Pd, ma con l’occhio rivolto al «cugino pugliese» Nichi Vendola considerato un concorrente, per un patto programmatico-selettivo, soprattutto ora che l’Udc chiude ogni spiraglio a un governo del ribaltone. Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto sono tornati «sul luogo del delitto», stavolta però per una ricomposizione delle eterne frazioni che dominano da sempre il mondo comunista: così, nella sala dell’hotel Ergife di Roma, è nata la Federazione della Sinistra che poi è la somma di ciò che rimane di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani, di Socialismo 2000 di Cesare Salvi e dello spicchio più radicale della Cgil.
Il destino ha voluto che quella sala sotterranea sia la stessa del ’98, quando ci fu la scissione tra Rifondazione comunista e i Comunisti italiani che non volevano far cadere il governo Prodi.
Oggi quelle fratture pesano ancora nelle dinamiche interne. Cesare Salvi cede il testimone di portavoce a Diliberto che, più del «conservatore» Ferrero, vorrebbe accelerare il processo finalizzato alla nascita di un vero partito unico senza più alcun riferimento alle ragioni sociali del Prc e del Pdci: «Ai democratici non chiediamo un patto di governo perché non ci sono le condizioni e sappiamo bene che su alcuni temi è inutile aprire una riflessione. Ma su altre questioni — elevare l’obbligo scolastico a 18 anni, un fisco più equo, lotta al precariato del lavoro — chiediamo al Pd di impegnarsi, anche se, ripetiamo, non faremo parte di un eventuale esecutivo di centrosinistra. Questa è la nostra sfida».
Per Paolo Ferrero, invece, oltre a dialogare con il Pd, pur restando fuori da eventuali governi di centrosinistra, il compito della Federazione è quello di «ricostruire un movimento di lotta delle classi sociali subalterne per riconquistare i diritti, per rovesciare il capitalismo e per porre il problema della rivoluzione in Occidente». Il leader di Rifondazione sostiene che il Paese è spaccato in due: «Gli yacht e il letto di Putin che Berlusconi possiede ci fanno schifo perché noi abbiamo un’altra idea di società».
Al congresso fondativo della Fds, Cesare Salvi ha infine inviato un messaggio a Vendola e ai compagni di Sinistra ecologia e libertà — che avevano parlato di «risentimenti nella sinistra» — per difendere la Costituzione: «Io dico che è ora di passare dai sentimenti alla politica insieme».

il Fatto on line 22.11.10
Vendola: “Questione criminale nel Pdl. E Berlusconi non può emanciparsi”


Vendola: “Questione criminale nel Pdl. E Berlusconi non può emanciparsi”
“Nel Pdl c’è una questione criminale”. Il leader di Sinistra ecologia e libertà Nichi Vendola va all’attacco e commenta così le turbolenze che squotono la maggioranza. Ma il governatore della Puglia, intervistato ieri a SkyTg24 da Maria Latella, ne ha per tutti: il centrosinistra “è in affanno” e Fini “è contraddittorio e teme il voto”.
Vendola commenta le annunciate dimissioni di Mara Carfagna, ma all’indomani delle motivazioni della sentenza Dell’Utri, fotografa con parole durissime la situazione del Pdl. Con qualche riferimento al caso Cosentino: “La guerra per bande è la cifra dell’attuale situazione nel centrodestra e Berlusconi non può e non sa emanciparsi dalle relazioni con il mondo dell’ex segretario Cosentino. Relazioni che riguardano il rapporto tra politica e camorra”.
Ma se nel centrodestra “è in corso una guerra fra bande”, il centrosinistra non se la passa meglio. ”A sinistra da troppo tempo c’è una sorta di conte Ugolino che tende a divorare tutto ciò che incontra per strada”. Alla domanda di Maria Latella se nel centrosinistra ci sia una ”questione psicanalitica” per i contrasti tra i leader, Vendola risponde che ”guerra per bande e questione psicanalitica non sono sovrapponibili”. Poi la precisazione: “E’ difficile – sottolinea il leader di Sel – convivere in una casa comune plurale dove la diversità non sia considerata una minaccia, un pericolo, ma una forma di arricchimento. Invece a sinistra il dibattito sembra quello di pezzettini di ceto politico separato”.
Secondo il leader di Sinistra ecologia e libertà le primarie rappresentano lo strumento fondamentale del popolo di centrosinistra per rivitalizzare una coalizione in affanno. “Le primarie – ha spiegato ancora il governatore della Puglia – sono l’idea che la politica non si gioca dentro i talk show e dentro il Palazzo. La politica si gioca in relazione con quelle centinaia di migliaia di studenti che hanno protestato contro la Gelmini, si gioca all’aria aperta, in una relazione col popolo e in una connessione con la vita”.
Tra i due litiganti, centrodestra e centrosinistra, non può però spuntarla il “terzo”. In questo caso Gianfranco Fini: “Il presidente della Camera – sostiene Vendola – teme che il precipizio verso il voto possa non dargli un salvagente abbastanza robusto. Fini vive una discreta contraddizione tra orizzonte strategico e questioni tattiche”.

Corriere della Sera 22.11.10
L’Italia e le ex vallette alla riscossa
di Maria Laura Rodotà


«Un tempo qui era tutta Carfagna». L’ha scritto giorni fa l’autore comico Luca Bottura. Bottura è avanti. Almeno si spera che lo sia. Che tra qualche tempo la cooptazione politica causa grazie femminili, le nomine discusse, l’eventuale duro lavoro delle belle cooptate buttato via in una melmosa tempesta di maldicenze, diventino un ricordo. E una strategia donnesca da non seguire. E che la carriera fulminea poi dolentissima e funesta di Mara Carfagna, ex modella, ex valletta, poi deputata, ora quasi ex ministro, non sia un modello né uno scandalo ma un monito. Per le ragazze confuse e precarie tentate dalle scorciatoie. Per gli uomini che rispettano le donne; e che però ora, su Carfagna, fanno battute incresciose. Il massacro mediatico anti-Carf potrebbe essere l’occasione per riconsiderare e metter fine a una pratica di selezione politica (politica?) che è diventata un’anomalia italiana e una barzelletta internazionale. Per (non) farvi due risate e verificare a che punto siamo, andatevi a vedere su YouTube uno spezzone della popolarissima serie americana 30 Rock. Due personaggi arrivano a una festa in costume. Li accoglie una ragazza molto bella coperta solo da un mini-bikini. «Da cosa sei mascherata?», le chiedono. Risposta: «Sono un senatore italiano!». Eh no, così non va. Oltre a tentare di evitare un default finanziario, c’è bisogno di recuperare il default dell’immagine nazionale. E la credibilità di una classe dirigente. Minata non dalle fanciulle che hanno colto qualche opportunità e in seguito hanno cercato di far bene, ma dai leader che le hanno preferite ad altre ed altri dal curriculum più adeguato. Carfagna, nei primi tempi bollata dalla stampa estera come una «former topless model», è stata poi diligentissima e ostentatamente castigata. E combattiva su questioni di oscuri traffici e spazzatura; e perciò coperta di spazzatura lei stessa. Quasi a voler oscurare le 2.400 tonnellate di mondezza vera che giacciono nelle strade campane. Ora in molte sono sinceramente solidali con Carfagna. Ma ora, c’è da riflettere sui molti cursus honorum carfagneschi. Non per via di pregiudizi bacchettoni; per buonsenso. Perché ha senso preferire, per donne e uomini, la preparazione e la competenza pregressa. E l’onorabilità personale. Che non vuol dire castità e fedeltà a ogni costo: durante le ultime elezioni americane, alcune giovani candidate hanno rivendicato con successo il loro diritto a un passato, a qualche eccesso sessuale, a scemenze varie. Ma il caso italiano è diverso. Le ragazze italiane (e i ragazzi) hanno davanti agli occhi modelli stravaganti, più televisivi-trash che politici, ormai. Se nulla cambierà, se un calendario varrà ancora più di un master e di un intenso attivismo politico e sociale, le migliori (i migliori) rinunceranno o se ne andranno. E noi resteremo con la mondezza, e con le donne offese. Speriamo che la riscossa della ministra ex valletta serva a qualcosa, speriamolo davvero (e crediamoci; anche se a vari maschi, a destra, centro e sinistra, di sicuro dispiacerà).

Corriere della Sera 22.11.10
Il 70 per cento di chi voterebbe Fini gli chiede di rompere con il Cavaliere
di Renato Mannheimer


In queste settimane, il clima politico sembra mutare di continuo. Fino a qualche giorno fa le elezioni anticipate sembravano inevitabili, oggi lo scenario pare diverso e la prospettiva di nuove consultazioni meno probabile. I motivi di dissuasione sono principalmente il timore di azioni speculative a nostro danno sui mercati internazionali e l’incertezza sui possibili risultati elettorali.
Di qui i tentennamenti e i ripensamenti, forse anche da parte di Fini. Che deve tenere conto del dibattito all’interno del proprio partito: Fli risulta ancora fragile e diviso, sia sul piano della coesione interna, sia, inevitabilmente, su quello organizzativo. Ne è prova, oltretutto, l’oscillazione continua delle entità delle intenzioni di voto. Che sono risultate molto elevate dopo l’annuncio di Mirabello, ridimensionate nel periodo successivo, rielevatesi (raggiungendo e, secondo alcuni, superando l’8%) in seguito all’evento di Bastia Umbra e diminuite lievemente negli ultimi giorni.
Anche per questo, Fini deve considerare attentamente gli umori di chi esprime la disponibilità a votarlo e dell’elettorato in generale. A quest’ultimo è stata chiesta un’indicazione sulla linea che il leader di Fli deve tenere: più incline al compromesso o più rigido fino a costringere Berlusconi a dimettersi? La maggioranza dei cittadini opta per quest’ultima soluzione. Si tratta però di una porzione non eccessiva, pari al 52%: il resto si divide tra un atteggiamento che suggerisce la ricerca di un compromesso e una indecisione sul da farsi.
Più che il dato generale, è però interessante esaminare l’opinione degli elettori dei diversi partiti. I votanti per il Pdl sono, come era facile aspettarsi, assai più favorevoli (87%) al compromesso con Berlusconi. E lo sono anche, seppur in misura lievemente minore (77%), quelli per la Lega. Sul fronte opposto, gli elettori del Pd optano grossomodo con la stessa intensità (80%) per la linea dura. Ma, ciò che è più significativo, assume quest’ultima posizione — un atteggiamento di maggiore intransigenza — anche la maggioranza (69%) di quanti indicano l’intenzione di votare per Fli. Anche se una parte considerevole di questi ultimi, più di uno su quattro, esprime la posizione contraria.

L’Unità 22.11.10
Spettacolo. Cala il sipario


Lo spettacolo si ferma. Accade oggi, 22 novembre, a seguito dello sciopero nazionale, indetto da Slc, Fistel e Uilcom, degli addetti di cinema, teatri lirici e di prosa (250.000, fra masse artistiche e personale tecnicoamministrativo, che raddoppiano se si allunga la filiera produttiva alla distribuzione e commercializzazione dei prodotti) per la durata delle prestazioni. I sindacati, che organizzano sempre stamattina a Roma (alle 10,30 al cinema Adriano) una manifestazione unitaria, chiedono, fra l’altro, l’approvazione delle leggi quadro di sistema dello spettacolo dal vivo e del cineaudiovisivo; di riportare il Fus al livello del 2008
(450 milioni); la conferma del rifinanziamento degli incentivi fiscali già esistenti (tax shelter e tax credit) e l’attivazione di analoghi provvedimenti per lo spettacolo dal vivo; la non delocalizzazione delle produzioni e la strutturazione dell’industria cineaudiovisiva; il rinnovo dei contratti per fondazioni lirico sinfoniche, teatri di prosa e produzione cinematografica; un tavolo ministeriale per accedere agli strumenti di protezione sociale e politiche di riemersione della produzione culturale e dello spettacolo per tutelare i precari. “La situazione è molto grave e preoccupante – denuncia Silvano Conti, coordinatore nazionale Slc –: se i tagli saranno confermati, l’investimento in cultura scenderà allo 0,15% del Pil, rispetto all’attuale 0,30, mentre la media Ue è dell’1,5. La crisi non sarà più controllabile e il settore chiuderà, malgrado la creatività incida sul Pil del 2,8%. Così rischiamo che il paese butti via la parte migliore di sé, causando una pesante disoccupazione in figure artistiche e tecniche, altamente qualificate e poco riproducibili”. “Ci batteremo fino in fondo – rileva Emilio Miceli, segretario generale Slc – affinché arrivino i dovuti finanziamenti, le adeguate leggi di sistema e la definizione di una rete protettiva per i lavoratori. Oltre a garantire migliaia di posti di lavoro, produzione culturale e spettacolo sono un forte volano per l’economia e un fondamentale strumento di coesione sociale”.

L’Unità 22.11.10
Da Milano a Bari i lavoratori del settore incrociano le braccia. Bloccati i set, chiusi gli stabili
Promuovono la protesta i sindacati confederali insieme a tutte le associazioni di categoria
Niente teatri, cinema, tv, concerti Oggi lo sciopero dello spettacolo
Dopo l’occupazione del red carpet al Festival di Roma e il sit in davanti a Montecitorio l’intero mondo dello spettacolo sciopera oggi contro l’assenza di una politica culturale del governo. La protesta in tutta Italia.
di Gabriella Gallozzi


Chiusi i cinema, i set, i teatri, le sale da concerto. E niente attori neanche nei programmi tv. Oggi l’intero mondo dello spettacolo incrocia le braccia per lo sciopero generale promosso dai tre sindacati confederali (Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilcom-Uil) per protestare contro le mancate politiche culturali del governo. Dopo l’occupazione del red carpet al Festival di Roma, il sit in davanti a Montecitorio e il collegamento in diretta con Annozero, i lavoratori del settore, compatti, proseguono la battaglia per chiedere al governo azioni concrete e non solo «promesse».
I TEMI URGENTI
Le questioni sul tavolo sono tante ed urgentissime. Si va dalla richiesta di nuove leggi di sistema per lo spettacolo dal vivo e l’audiovisivo al reintegro degli sgravi fiscali per il cinema (tax credit e tax shelter), dal «blocco» alla delocalizzazione dei set al reintrego del Fus, il fondo unico per lo spettacolo ridotto ai minimi storici (262 milioni di euro). Tutte richieste che il ministro Bondi si è impegnato da mesi a portare avanti, ma senza alcun risultato.
Oggi, dunque, l’Italia dello spettacolo si fermerà. E anche nelle dirette tv, dal Grande fratello a Vieni via con me saranno letti messaggi di solidarietà alla manifestazione. Tante le iniziative di lotta in programma. A partire da Roma, dove in mattinata al cinema Adriano, attori, registi, tecnici e sondacalisti si ritroveranno per un’assemblea aperta. A Milano è previsto, invece, un convegno alla presenza del direttore de Il Piccolo Escobar, Lissner e Toni Servillo. A Bari i manifestanti saranno in presidio davanti al Petruzzelli. Mentre a Genova Zubin Metha dirigerà un concerto gratuito al Carlo Felice, il primo teatro ad essere stato colpito dai tagli. Una serata organizzata dal maestro proprio in solidarietà con la protesta.
DA MILANO A BARI
Si fermerà tutta la produzione culturale dello spettacolo, ribadisce per la Slc-Cgil, il segretario nazionale Silvano Conti: «La situazione è gravissima e preoccupante». Così grave e così preoccupante, fa notare il sindacalista, che per la prima volta si protesta con la solidarietà di associazioni come Agis e Anica, le associazioni delle imprese. Per questo, per dare un segno forte, si punta a fermare tutto. I sindacati si attendono un’adesione allo sciopero altissima, tra i 250-300 mila lavoratori. «Le promes-
se non ci bastano, non possiamo più stare appesi», dice Andrea Purgatori, presidente dell’Associazione 100 Autori, una delle tante sigle che aderiscono allo sciopero. «Giovedì sera ad Annozero Bondi continuava a promettere e intanto al mattino c'era stato un consiglio dei ministri dal quale lui è uscito senza una briciola». Certo resta in piedi la speranza che il rinnovo degli sgravi fiscali per il cinema possa arrivare a fine anno con il decreto Milleproroghe: «Per noi sarebbe comunque tardi ribatte Purgatori se la certezza del rifinanziamento arriva a fine dicembre, la conseguenza è che a gennaio, febbraio e marzo le produzioni stanno ferme. Per questo cominciamo a pensare che lo scontro sul cinema sia politico».

L’Unità 22.11.10
Ascanio Celestini
«La cultura? Appartiene a tutti»
Parla il regista e attore «La produzione culturale deve essere pubblica, per questo servono i finanziamenti. Solo così sarà davvero libera
di Francesca De Sanctis


La cultura chiude per sciopero. E allora tutti in piazza: registi, attori, ballerini, musicisti... «Manifestare è un atto rituale spiega Ascanio Celestini È chiaro che se il mondo dello spettacolo protesta per un giorno non è come se si fermassero gli operai: loro sì stopperebbero la macchina. Ma è importantissimo che si riapra tutta la questione legata al Fus, alla legge dello spettacolo dal vivo... Per questo bisogna esserci, farsi sentire». Ascanio, qual è il problema più urgente da affrontare?
«Soprattutto con l’ultimo governo anche se in realtà il percorso è molto più lungo la produzione culturale è considerata sempre più superflua. Ma perché fare film, perché fare teatro? È un pregiudizio che in fondo c’è da sempre per chi fa spettacolo. Eppure gli investimenti culturali, in Italia, sarebbero gli unici davvero sensati. Bisogna investire nella cultura, ecco cosa bisogna fare. Mentre una macchina o dei calzini puoi farli fabbricare in Cina o nei paesi poveri, un film o uno spettacolo teatrale non si può fare in Serbia. Da anni in Italia c’è un alto livello della produzione culturale: bisogna solo fare in modo che non crolli».
E ti pare facile visto come vanno le cose in Italia... «Eppure fare cinema converrebbe. Certo per quanto riguarda il teatro la situazione è bloccata da anni: gli Stabili fanno le stagioni solo scambiandosi gli spettacoli tra di loro. I film italiani invece crescono, girano l’Europa. E c’è negli ultimi anni anche una nuova drammaturgia. Quindi questo è il momento giusto per investire. Però non si fa».
Per questo oggi il mondo dello spettacolo è in sciopero: per far arrivare questo messaggio al governo. «Certo che se i nostri ministri continuano a pensare che la cultura senza finanziamenti pubblici è più libera...Ma libera di fare cosa? Senza soldi come si fa? C’è stato un momento, quando all’Eti è arrivato Ninni Cutaia, che davvero pensavo potesse cambiare qualcosa. E invece il governo cosa ha fatto? Ha chiuso l’Eti, così, da un giorno all’altro. In campo cinematografico c’è Filmitalia, per esempio, che fa un ottimo lavoro di promozione dei film italiani e non è neanche un ente pubblico. Allora perché non deve esserci un Ente teatrale italiano che fa un lavoro simile per il teatro e la danza?»
Esiste una via d’uscita?
«Bisogna ricominciare a far funzionare la macchina. Come? Con la promozione e con i finanziamenti. E bisogna aver chiara la differenza tra pubblico e privato. Ci siamo abituati all’idea che l’ente pubblico va avanti grazie ai finanziamenti dei privati, è un po’ tutto mescolato. Però c’è una bella differenza: il privato è lui, il pubblico è tutti noi, per questo servono i finanziamenti. Il teatro, il cinema, la danza, la musica sono di tutti noi: la produzione culturale deve essere pubblica perché così è libera e svincolata dai privati. Si parla tanto dei teatri di cintura: per il Quarticciolo, per Tor Bella Monaco, per Ostia i tre teatri sono dei punti di riferimento. Al governo bisognerebbe dire che non servono 30 teatri di cintura perché chi sta in periferia è deficiente o non può andare in centro, ma perché è importante avere uno spazio pubblico. Dunque perché non partiamo dalle scuole? Alle quattro, quando terminano le lezioni, si potrebbero aprire le porte agli artisti e la sera si va in scena. È un’idea, no?».

l’Unità 22.11.10
Per una legge quadro su diritti e prestazioni
Se l’infanzia per il governo non conta
di Anna Serafini


Le scelte del governo di centro destra indeboliscono i diritti dei bambini e adolescenti e rendono più difficili le loro condizioni di vita. Per questo abbiamo dato parere negativo, insieme ad altre forze di minoranza, come del resto ha fatto la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, al Piano d'Azione presentato dal governo. Il centro destra non ritiene l'infanzia e l'adolescenza un investimento per il presente e il futuro del Paese. L'Italia infatti spende per i servizi all’infanzia da 0-6 anni lo 0,65 rispetto al Pil, a differenza della Svezia 1,45, della Francia 1,6 e di altri paesi. È una posizione ingiusta e arretrata che non lega la crescita del Paese alla crescita sociale e culturale di ogni bambino che vive nel nostro Paese. Il governo non è stato in grado di approvare una legge sul Garante dell'Infanzia e Adolescenza ed ha varato un Piano di azione tardivo, inadeguato e privo di risorse certe. La stessa Finanziaria in esame taglia il 30% all’anno le risorse per l’infanzia e l’adolescenza e azzera quelle per i servizi alla prima infanzia, nonostante che l'Italia, con il 12,7% di copertura, secondo l’Istat, sia il fanalino di coda dell'Europa. Anche per la scuola l'Italia, con il 9%. della spesa pubblica, è sotto la media europea che è del 13%. Questi tagli e la mancata politica fiscale a favore delle famiglie con figli, hanno prodotto l'aumento del tasso di povertà minorile, la più alta in Europa, e della dispersione scolastica, dell’obesità infantile, anch’essa la più alta tra i paesi europei, della bulimia e dell’anoressia, la scarsità dei servizi alla prima infanzia e per gli adolescenti; l'aggravarsi del divario tra nord e sud; le difficoltà di integrazione per gli alunni stranieri che arrivano al 7% del totale. I bambini e gli adolescenti oggi sono al centro della cronaca nera. Spesso in modo ossessivo, quasi morboso. A questo clamore non corrisponde una reale attenzione alla loro vita. Anzi spesso c'è una spinta a renderli precocemente adulti e a non rispettare le fasi della loro crescita. Inoltre aumenta, negli adolescenti, l’inclinazione alla depressione che dipende, per gli esperti, dal fatto che gli adolescenti non ritengono il contesto in cui vivono idoneo a poter sviluppare le proprie potenzialità. È un ripiegamento precoce e questo è un male per loro e per il Paese. Abbiamo bisogno di un Paese che guardi con fiducia alle sfide presenti. Lo stesso federalismo, senza principi, valori e politiche condivise, potrebbe rendere ancora più gravi le differenze sociali tra i bambini e tra bambini del sud e del centro-nord. Il Pd ritiene urgente una legge quadro, finanziata con un Fondo che aumenti progressivamente rispetto al Pil, che contenga i livelli essenziali sulle prestazioni sociali per i diritti sociali e civili dell’infanzia e dell'adolescenza. La presenteremo presto a Palermo nella prima Conferenza nazionale del Pd sull'infanzia e adolescenza.

Repubblica 22.11.10
Le nuove sfide della democrazia nell´era della crisi economica
di Nadia Urbinati


A giudicare dal suo successo planetario, sembra di poter dire che la democrazia non abbia più nemici. Chi può dirsi oggi anti-democratico? Ma il non aver più rivali credibili esterni non significa che abbia vinto le sfide al suo interno. Una delle condizioni essenziali della cittadinanza democratica è che la società offra soddisfacenti opportunità di formazione e di riuscita e che le carriere siano aperte a tutti senza discriminazione; infine, che ci sia un´ampia classe media, un fattore quest´ultimo essenziale per la stabilità del sistema. I rischi maggiori vengono oggi dalla destabilizzazione di questo equilibrio socio-economico. Rischi classici e che si rinnovano. A scanso di equivoci, la democrazia non è governo degli economicamente eguali, ma governo nel quale le condizioni sociali ed economiche non devono valere a determinare il trattamento da parte della legge e il diritto di contribuire al processo decisionale. La democrazia consiste nell´impedire che le diseguaglianze sociali si traducano in diseguaglianze di potere politico. Il suo è un lavoro di contenimento.
A questo scopo, e proprio perché la libertà economica è fondamentale, le società democratiche moderne si sono preoccupate non solo di creare efficaci istituzioni politiche, ma anche di garantire ai loro cittadini le condizioni affinché ciascuno si formi le capacità per far sì che gli sforzi personali alla realizzazione dei propri progetti di vita non siano inutili. La democrazia non può disinteressarsi dello stato dell´eguaglianza dei suoi cittadini mentre, d´altra parte, non identifica l´eguaglianza con l´egualitarismo. Per questa ragione, le politiche sociali sono l´unico strumento che ha per difendere se stessa dal rischio permanente di erosione dell´eguaglianza.
La crisi economica sta portando alla superficie un fenomeno che è generale e riscontrabile in tutti i paesi: la crescita straordinaria del divario tra ricchi e poveri; più esplicitamente, l´assottigliamento della fascia dei veramente ricchi e quindi della classe media, con il conseguente allargamento della fascia dei meno abbienti e dei poveri. Negli Stati Uniti, per esempio, l´1% degli americani gode del 23.5% della ricchezza. In Italia, stando ai dati Istat, il 13,6% della popolazione si trova in condizioni di «povertà relativa». Queste cifre dovrebbero preoccupare chi ha a cuore lo stato di salute della democrazia.
In un recente volume dal titolo significativo Winner-Take-All-Politics, Jacob S. Hacket e Paul Pierson (un economista di Yale e uno di Princeton) sostengono che i ricchi attuano da anni una politica di conquista del potere. La dimostrazione verrebbe non principalmente dall´attuale crisi economica, ma da una strategia politica che, cominciata nella seconda metà degli anni ´70, ha favorito politiche fiscali che hanno teso a beneficiare i più abbienti. Negli Stati Uniti, a iniziare questa politica è stato il democratico Jimmy Carter, al quale si deve l´avvio della deregulation. La collusione di potere economico e potere politico che si è consolidata a partire da quegli anni, spiegano gli autori del libro, è andava verso una direzione sola, poi suggellata dalla politica fiscale del governo G. W. Bush: la deresponsabilizzazione dei più ricchi nei confronti della società, della quale usano i vantaggi ai quali contribuiscono anche i meno ricchi. La riduzione fiscale a chi guadagnava più di 200.000 dollari l´anno è stata propagandata dal governo Bush con l´argomento che ciò avrebbe incentivato la produzione e indirettamente favorito tutti. Il fatto è che coloro che hanno ottenuto le agevolazioni dallo Stato non hanno investito per creare nuovi posti di lavoro ma hanno creato un vero regime di privilegio (sul The Wall Street Journal si parla senza giri di parole di «plutocrazia»).
La storia americana è esemplare ma non unica. Come gli studiosi che si occupano del consolidamento democratico sanno, le politiche scolastiche sono tra i più importanti indicatori di successo o all´opposto di insuccesso, poiché tra le opportunità l´educazione è quella che più risente dell´influenza delle condizioni economiche e famigliari. La nostra Costituzione aveva previsto questo e si era premunita di neutralizzare questo fattore di diseguaglianza con l´Art. 33 che riconosce la libertà ai privati di istituire scuole ma «senza oneri per lo Stato», ovvero senza togliere risorse alla scuola di tutti. Eppure governi e parlamenti (di entrambe le coalizioni) negli ultimi due decenni hanno trovato il modo di aggirare questa norma e di intaccare uno dei pilastri della cittadinanza democratica.
Come si restringe paurosamente la superficie dei ghiacciai polari, così si restringe la fascia dei cittadini che godono di una sufficiente eguaglianza di opportunità. L´analogia è certamente retorica – benché sia interessante vedere come la qualità della vita ambientale e la qualità delle democrazie marcino nella stessa direzione: in discesa. Nel caso delle democrazie, un´altra analogia, questa volta non retorica, merita di essere considerata: all´aumento della diseguaglianza sociale fa seguito il declino delle opportunità politiche per la grande maggioranza dei cittadini di contare o avere voce. Un indicatore di questa trasformazione oligarchica sta nell´impiego di quantità sempre maggiori di denaro privato sia nelle campagne elettorali sia nella politica ordinaria, sia come sappiamo fin troppo bene nei sistemi di informazione: per persuadere i rappresentanti a favorire o ostacolare proposte legislative, e per controllare l´opinione pubblica in modo tale da riuscire a orientare il comportamento elettorale dei molti verso politiche che favoriscono i pochi.

Corriere della Sera 22.11.10
Quell’errore di traduzione che cambia il «prostituto» in «prostituta»
di Luigi Accattoli


Parlando dell’uso del profilattico, Ratzinger ha fatto un esempio al maschile. Il Vaticano: per evitare il luogo comune

Il Papa ha detto «prostituto» o «prostituta»? Ha detto «prostituto» al maschile, ma parlando in tedesco e il traduttore che l’ha voltato in italiano ha preso un bel granchio. E pensare che la nostra lingua, a differenza di altre che hanno costretto i traduttori a ricorrere a delle parafrasi, ha da sempre la parola «prostituto».
In Vaticano dicono che «la sostanza» non cambia: cioè il ragionamento di Benedetto XVI sui «casi giustificati» di uso del profilattico resta valido alla pari, sia che quell’uso lo realizzi in proprio un «prostituto» sia che una prostituta l’esiga dal cliente. Ma resta la questione del perché il Papa sia andato a prendere un caso più raro: e forse si deve pensare all’attitudine dell’intellettuale che non ama il luogo comune e — magari — intende segnalare la particolare esposizione all’Aids delle persone coinvolte in rapporti omosessuali.
Siamo alla fine del capitolo 10 del libro intervista «Luce del mondo», (che sarà nelle librerie martedì nelle edizioni tedesca, italiana, inglese e francese), dove Benedetto risponde a due domande dell’intervistatore Peter Seewald sull’uso del profilattico nella lotta all'Aids. Secondo la traduzione italiana anticipata sabato dall’Osservatore Romano, il Papa direbbe tra l’altro: «Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole».
Il testo tedesco ha «ein Prostituierter» e non «eine Prostituierte», come avrebbe dovuto essere se il Papa avesse inteso dire «una prostituta». In inglese hanno tradotto «male prostitute», in francese «homme prostitué». Il traduttore italiano avrebbe potuto utilizzare la parola «prostituto» che il Grande Dizionario UTET documenta alla pari con prostituta e che è usata anche da grandi autori recenti come Montale e Pasolini.
Come se ne esce? Assodato che il senso non cambia — perché, dicono in Vaticano, si tratta in ambedue i casi di un uso del profilattico finalizzato a contenere il rischio dell’infezione, in un rapporto sessuale comunque «disordinato» — non resta che correggere la traduzione in vista della prima ristampa, che dovrebbe arrivare a giorni: la tiratura iniziale è stata di 50 mila copie.
Nei blog e nei siti internet che si occupano di cose papali si sono fatte varie speculazioni sulla valenza più ampia che potrebbe avere il caso della «prostituta» rispetto a quello del «prostituto», in quanto nel secondo caso il profilattico avrebbe una pura funzione di protezione mentre nel primo vi sarebbe anche la funzione contraccettiva. Ma gli esperti del Vaticano fanno osservare che il «prostituto» potrebbe anche avere una cliente donna e in questo caso saremmo di nuovo nella doppia funzione.
Sembra più ragionevole attribuire la scelta — da parte del Papa — del caso del «prostituto» al desiderio di uscire dalla casistica abituale: una coppia sposata in cui l’uno dei due sia sieropositivo, un soggetto non capace o non disponibile a evitare rapporti promiscui, una prostituta che può fare da trasmettitrice del contagio ai clienti. Un poco lo stesso atteggiamento colto e anticonformista che aveva spinto Benedetto XVI a citare un imperatore bizantino — Manuele II Paleologo — in disputa con «un persiano», nella famosa lectio di Regensburg.

Corriere della Sera 22.11.10
I due milioni di italiani che «sentono le voci»
di Mario Pappagallo


«Io penso che si tratti di allucinazioni acustiche, io le ho avute un paio di volte dopo essermi svegliata improvvisamente per via di incubi e aver poi richiuso gli occhi per cercare di addormentarmi. Nel mio caso il cervello non era del tutto sveglio, per cui io sebbene in uno stato mentale di veglia, sentivo questi rumori ad occhi chiusi e mi spaventavo moltissimo, sapendo di essere sola. Questi rumori sparivano subito se riaprivo gli occhi, ma riapparivano immediatamente al richiuderli. Uno stato di dormi-veglia dunque. Penso che se succeda ogni tanto sia una cosa normale, se invece succede ogni giorno potrebbe esserci una disfunzione organica...». La testimonianza di una giovane donna, Giovanna, 35 anni, su un blog. Ne parla in Rete alla ricerca di altri che «sentono le voci». Per non sentirsi sola. Per non pensare di essere matta. E sola non è. Di allucinazioni uditive soffrono oltre due milioni di italiani. Voci o rumori che non provengono dall’esterno e non ne parla per non passare per pazzo. Come è sempre accaduto dalla notte dei tempi, se non si veniva considerati Cassandre o soggetti paranormali in linea diretta con le divinità. Ma artisti del calibro di Vincent Van Gogh o Ligabue tra i disturbati di mente sono finiti. «In Lombardia si stima siano circa 270 mila coloro che soffrono di allucinazioni uditive, sonore», dice Giuseppe Tissi, responsabile del Centro psico-sociale dell’ospedale Sacco. Che si appella a tutti coloro che temono di essere considerati «matti», a uscire allo scoperto: «Gli studi di Marius Romme, università di Maastricht, su 15 mila persone — spiega Tissi — hanno evidenziato che una percentuale compresa tra il 2 e il 4 per cento della popolazione è coinvolta. E in due terzi di questi non esiste alcuna patologia psichiatrica». Chi ha provato l’esperienza dell’allucinazione uditiva a volte dunque lo nasconde anche alle persone più vicine. «Ma è sbagliato — mette in guardia Tissi —. In questi casi, la paura di trasformare il proprio status in "paziente" può condurre a una vita interiormente isolata. L’obiettivo è anche far cadere un tabù: si possono "sentire le voci" e avere una vita del tutto soddisfacente. In alcuni casi cercare di eliminare le allucinazioni può addirittura risultare dannoso». Le allucinazioni infatti non sono sempre negative e tantomeno spaventose: spesso si tratta di invasioni gradevoli con cui è possibile stabilire una sorta di relazione che produce effetti positivi: «Alcune persone vivono le voci come una compagnia e si sentono sole se le perdono. È decisivo non sentirsi sovrastati dalle proprie allucinazioni. Quando si riesce a non avvertirle più come un problema si smette di venirne condizionati». Spesso — nel 70% dei casi — la causa è di origine traumatica, un evento particolarmente stressante a livello emotivo: una violenza sessuale, un’aggressione, una catastrofe naturale, un lutto. «È molto importante, e quasi mai semplice, individuare questo trauma. Rimane sepolto nella memoria della persona ed è apparentemente inaccessibile: di fronte a domande superficiali non emerge, lasciando all’esaminatore l’impressione errata che le voci non abbiano relazione con gli eventi di vita. L’impatto delle nostre esperienze sulla psiche è assolutamente soggettivo». Quando le voci sono sgradevoli, perché minacciose, o svalutanti, o danno ordini, diventano un problema. In questi casi è importante un lavoro di ricerca del trauma che le ha originate, lavoro che spesso si fa più volentieri in un gruppo di auto e mutuo aiuto, insieme allo specialista e a persone con lo stesso problema.

l’Unità 22.11.10
Nell’83 la ragazza potrebbe essere stata rapita per assecondare un capriccio di un prelato
Le pressioni I banditi avrebbero poi utlizzato l’arma del ricatto contro Marcinkus e lo Ior
La «Magliana» e un movente sessuale dietro alla scomparsa di Emanuela
di Angela Camuso


Aveva 15 anni ed era una cittadina vaticana, Emanuela Orlandi sparì a Roma nel giugno del 1983. Da cinque anni l’indagine è stata riaperta e presto si annunciano sviluppi nell’inchiesta curata dai pm romani.

Emanuela Orlandi rapita dalla banda della Magliana per assecondare un capriccio di natura sessuale di un alto prelato. Quindi conseguentemente eliminata, per farla tacere per sempre, da quei criminali, con un delitto che sarebbe diventato un’arma micidiale nelle loro mani per ricattare il Vaticano. I banditi pretendevano la restituzione dei capitali investiti nello Ior di Marcinkus, attraverso le casse del Banco Ambrosiano. E quello era il prezzo da far pagare a chi paventava un enorme scandalo. Questo l’agghiacciante retroscena ipotizzato dagli investigatori che a Roma da tempo lavorano sulla scomparsa della quindicenne cittadina vaticana, figlia del postino personale di papa Woytila sparita il 22 giugno del 1983, dopo essere uscita dal conservatorio vaticano di piazza Sant’Apollinare a Roma, vicino piazza Navona.
La piazza è la stessa dell’omonima basilica che nella sua cripta ospita il corpo di Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei capi della Magliana assassinato nel ’90 e lì seppellito accanto a personaggi illustri con il nulla osta del cardinale Ugo Poletti, allora capo della Cei, su sollecitazione del reggente della chiesa monumentale. Anche sul mistero di quella sepoltura, che presto potrebbe essere violata con un ordine di riesumazione della salma, c’è qualche novità.
LA SEPOLTURA DI DE PEDIS
«Il vero motivo per cui De Pedis fu seppellito nella basilica è strettamente connesso al mistero della scomparsa di Emanuela Orlandi», ha dichiarato il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, che coordina le indagini sull’Orlandi, durante un incontro pubblico. «E a differenza di quanto la famiglia ha fatto intendere con le sue dichiarazioni rese ad alcuni organi di stampa, non fu De Pedis a chiedere di essere seppellito lì: perché quel bandito alla morte non pensava affatto». Ai cronisti, la moglie di De Pedis aveva raccontato che il marito le aveva espresso quel desiderio il giorno del matrimonio, celebrato nella medesima chiesa dal suo reggente, don Vergari, che in precedenza aveva fatto il cappellano nelle carceri e così di De Pedis era diventato amico. In sede di interrogatorio, invece, la vedova ha riferito di essere stata lei ad aver avuto l’idea di chiedere quella benevolenza al sacerdote, per onorare l’amato defunto. Don Vergari invece, ha fornito ai pm una versione dei fatti sull’argomento identica a quella dichiarata dalla donna precedentemente ai giornali e cioè secondo i magistrati non rispondente a verità.
SESSO, SANGUE E DENARO
Il quadro ipotizzato è un insieme, tassello dopo tassello, degli elementi finora emersi nel corso della delicata indagine: intercettazioni, testimonianze, perquisizioni e soprattutto la scoperta dell’identità dei due telefonisti, cioè il famoso depistatore “Mario”, che chiamò casa Orlandi a pochi giorni dal rapimento e il giovane autore della chiamata in tv a Chi l’ha visto?, che invitò per ottenere la soluzione del mistero a vedere chi fosse seppellito nella basilica. Secondo una perizia collegiale del tribunale i due telefonisti sarebbero Giuseppe e Carlo Alberto De Tomasi, padre e figlio, il primo storico collaboratore di Renatino negli affari finanziari ed entrambi attualmente indagati per usura. I due hanno sempre negato di essere i telefonisti del caso Orlandi ma la procura sospetta che sappiano verità ancora non dette. Non sarebbero, comunque, formalmente indagati, mentre com’è noto sono stati incriminati per il rapimento e l’uccisione della ragazzina quattro persone. Due sono malavitosi romani vicini a De Pedis, Angelo Cassani detto Ciletto e Gianfranco Cerboni detto Giggetto, entrambi a piede libero. Un altro è l’uomo ritenuto l’autista di De Pedis e cioè Sergio Virtù, in carcere per altri reati e la quarta persona è la supertestimone Sabrina Minardi, l’ex amante di Renatino che nel 2005, con le sue deposizioni fece riaprire l’indagine.

Corriere della Sera 22.11.10
Il neo-colonialismo agricolo La Cina compra terre in Africa
di Federico Fubini


Anche gli Stati del Golfo fanno campagna acquisti nei Paesi poveri
Approvvigionamenti diretti senza gli sbalzi del mercato

Mo Ibrahim vive un’esistenza comoda in una villa nel sud della Francia, ma è un eroe africano del nostro tempo. Sudanese, cresciuto come esperto di telecomunicazioni, nella sua vita ha creato e poi venduto a metà dello scorso decennio (per circa tre miliardi di dollari) la più grande compagnia africana di telefoni cellulari.
A una recente conferenza a Marrakech, organizzata dall’Ifri di Parigi, Ibrahim ha riassunto la sua vita successiva in poche parole: «Ho deciso che non avevo bisogno di tutti quei soldi». Da allora la fondazione che porta il suo nome, nella quale collabora Kofi Annan, segue l’operato di tutti i governi del continente africano e li incalza sui principi e i valori che stanno all’opposto dell’esperienza coloniale: democrazia, trasparenza, responsabilità, impiego ragionevole e non banditesco delle risorse, responsabilità dei governanti nei confronti dei cittadini.
Ma quando alla conferenza di Marrakech qualcuno achiesto a Mo Ibrahim di pronunciarsi sul nuovo colonialismo della Cina in Africa, il più grande filantropo del continente ha preso in contropiede la sua platea in gran parte francese. «Sono le imprese europee che continuano a concludere accordi segreti con i capi di Stato africani — ha detto —. E perché concludere contratti con clausole segrete, se non per pagare tangenti ai vari governi?»
Il paradosso del neo-colonialismo è che la legislazione europea non obbliga le imprese a rendere note tutte le clausole dei loro accordi con i vari governi esteri, neanche in Africa. La legge negli Stati Uniti, almeno da qualche mese, invece sì. E per esempio Petrochina, la più grande impresa di Stato di Pechino e probabilmente la più ingombrante presenza neo-coloniale nel continente nero, è quotata anche a New York. Dunque deve sottostare alla legislazione statunitense. La Cina che estende la sua influenza industriale e commerciale in quasi tutta l’Africa, era il messaggio implicito di Mo Ibrahim, in fondo è una nuova potenza coloniale più accettabile di quelle vecchie.Ovvio che la questione sia più complicata di così, specie quando il neo-colonialismo si esercita su una risorsa essenziale come il cibo. A maggior ragione lo diventa ora che lo spettro di una nuova crisi alimentare come quella del 2007-2008, quando si scatenarono sommosse in decine di Paesi poveri, non è più molto lontano. All’uscita dalla grande recessione nel mondo è tornato rapidamente uno squilibrio fra domanda e offerta di zucchero, soia, grano e altri cereali. Di conseguenza anche le quotazioni della carne e dei prodotti caseari stanno salendo a ritmi considerati imprevedibili fino a pochi mesi fa. Spinti dalla siccità in Russia e Ucraina quest’estate e dal maltempo e raccolti deludenti in varie altre regioni produttrici del mondo, i prezzi degli alimenti sono già fra il 40% e il 60% più alti di un anno fa. L’embargo russo sull’esportazione di grano, deciso in agosto, ha poi creato una reazione a catena. Anche l’Ucraina ha imposto un blocco parziale e questi vincoli hanno scatenato un’ondata di accaparramento da panico da parte dell’Egitto e dei Paesi petroliferi del Golfo. È così che un piccolo squilibrio fra domanda e offerta sta creando un vasto squilibrio nei prezzi. Quest’anno per la prima volta la fattura degli acquisti di derrate nel mondo supererà probabilmente la soglia psicologica di mille miliardi di dollari. L’indice Fao dei prezzi degli alimenti va verso i massimi raggiunti nel 2008: nel 2009 era a 52 punti, nell’ottobre 2010 è a 197.
La vicenda del 2007-2008 insegna cosa accade in queste circostanze: i Paesi che dispongono di forti capacità finanziarie tendono a passare alla terza fase della globalizzazione. È quella che Jacques Diouf, direttore generale della Fao, definisce il «neo-colonialismo». La storia degli ultimi anni quanto a questo non lascia dubbi, è una rete di conquiste di terra che può arrivare a coprire circa un quinto della produzione mondiale delle principali derrate. Qualche esempio? La Cina ha comprato e affittato a lungo termine vaste porzioni di terra in Camerun, Tanzania e Mozambico (per il riso), in Uganda e Zimbabwe (cereali) e poi ancora Filippine, Laos, Kazakhstan e una decina di altri Paesi. Il Kuwait ha scommesso sul controllo di intere provincie fertili della Cambogia o sugli allevamenti estensivi di pollame nello Yemen. Ma la potenza finanziaria forte più attiva su questo fronte, quello dell’accaparramento diretto della terra all’estero anziché dei suoi prodotti, è forse l’Arabia Saudita. Gli investitori di Riad hanno concluso accordi per centinaia di milioni di dollari e più spesso per miliardi in quasi tutto il mondo in via di sviluppo: dall’Etiopia all’Indonesia, da Pakistan alle Filippine. Paesi in preda alla malnutrizione, come il Sudan e la stessa Etiopia, sono diventati grandi esportatori di derrate di cui hanno perso il controllo.

Repubblica 22.11.10
Se anche i bambini imparano la filosofia
di Michela Marzano


Corsi di filosofia per i più piccoli? La filosofia non è solo una disciplina complessa per "happy few". È soprattutto un modo di pensare la propria vita senza lasciarsi imprigionare dai luoghi comuni e dagli stereotipi. Come diceva Karl Jaspers, «la filosofia non è altro che la questione, riproposta senza fine, del senso e dell´Essere».

Perché allora non cominciare subito e non approfittare della grande curiosità infantile? Quasi tutti i bimbi sono curiosi. Già quando sono piccolissimi, a partire da tre anni, assillano i genitori con una sfilza di "perché". Dai più banali ai più complessi. Per capire perché la sera faccia buio. Perché non debbano buttare a terra un oggetto. Perché i genitori li sgridino se lanciano pietre o fanno i capricci… Fino alle domande più difficili: perché sei triste? Perché la nonna non c´è più? Perché papà urla? I bambini vogliono sapere la "verità" e continuano a chiedere il perché delle cose fino a che non ricevono una risposta soddisfacente. Anche quando le risposte tardano. E talvolta non arrivano mai. Chi non ricorda il fatidico "quando sei grande te lo spiego"? O, ancora peggio, "è così perché è così"?
Per facilità o per paura, abbiamo tutti la tendenza a eludere le domande dei più piccoli. Talvolta siamo imbarazzati. Siamo noi i primi a non saper rispondere a certe domande e a voler evitare di mostrarci dubbiosi ed esitanti. Come se il dubbio e l´incertezza non fossero anche loro profondamente educativi. Certo, che si tratti dell´amore, della sofferenza, dell´odio o della morte, le risposte non sono mai facili. Ognuno di noi si è confrontato con i propri limiti. Ecco allora che sembra molto più facile rimandare oppure rispondere magari rispolverando qualche vecchia nozione appresa a scuola, quando i nostri insegnanti, anche loro in difficoltà, si trinceravano dietro regole e formule imparate a memoria. Ma quando gli interrogativi sono bloccati sul nascere, allora i bambini rischiano di chiudersi su di sé, di non interessarsi più al modo e, progressivamente, di non essere più capaci di confrontarsi con gli altri. Come spiega la pedopsichiatra Françoise Dolto, per permettere a un bambino di apprendere l´autonomia bisogna lasciare che si "impadronisca della sua libertà". Perché capisca il significato della libertà, però, il bambino deve non solo imparare le regole del "vivere-insieme", ma deve anche poter trovare le parole per esprimere i propri dubbi e indagare la propria specificità individuale.
Confrontare le proprie opinioni e le proprie esperienze con gli altri, imparare ad accettare i punti di vista differenti e motivare le proprie scelte è forse il modo migliore, per i più piccoli, per capire cosa sia il rispetto, la tolleranza e la fiducia. La filosofia nelle scuole materne dovrebbe essere proprio questo: insegnare ai bambini ad esprimere le proprie idee rispettando quelle degli altri; aiutarli a cercare delle risposte ai propri "perché" senza essere azzittiti; far capire loro che, in certe occasioni, nessuno detiene la "verità".

Repubblica 22.11.10
La disciplina che si occupa della metafisica entra nel mondo dell´infanzia e diventa strumento pedagogico In Francia esce un film sull´esperienza emblematica di una scuola della banlieue parigina. E sui risultati ottenuti
All´asilo lezioni sulla vita e la morte così i bambini diventano grandi
Prime iniziative anche in Italia: a Modena il Comune sta addestrando gli educatori
di Anais Ginori


La domanda, di solito, arriva sempre a tradimento, quando hai alle spalle il carico di stress della giornata lavorativa, oppure mentre al mattino stai guidando verso scuola, con un pauroso ritardo. "Mamma, perché dobbiamo morire?". "Papà, dov´ero io prima di nascere?". Prove di dialogo metafisico con i propri figli. Tutti i genitori si sono cimentati con questo complicato esercizio che si presenta puntuale a partire dai tre anni dei bambini e raggiunge l´apice intorno ai sei. È l´età dei perché. Una domanda dopo l´altra, senza che alcuna risposta appaia mai soddisfacente.
Piccoli filosofi crescono. Almeno così ci dicono ora molti specialisti dell´infanzia, convinti che già nella scuola materna sia importante insegnare l´arte del ragionamento e della riflessione sul mondo che discende dall´Antica Grecia. Il caso più famoso è quello della classe di un paesino della banlieue parigina, Mée-sur-Seine, dove una maestra ha deciso di trasformare gli interrogativi dei bambini in un lavoro filosofico. Ogni quindici giorni, Pascaline Dogliani ha scritto sulla lavagna parole astratte come Giustizia, Libertà, Morte, Amore, avviando poi una discussione con i piccoli. «È il contrario di quello che facciamo di solito - racconta la maestra - più che insegnare le risposte abbiamo voluto stimolare domande». Dogliani e i suoi "piccoli Platone" sono diventati protagonisti di un documentario presentato al Festival di Roma e uscito in questi giorni nelle sale francesi. Riprendendo nel titolo il famoso slogan sessantottino, "Ce n´est qu´un début", il film racconta la rivoluzionaria esperienza di questa classe e dei risultati raggiunti dopo quasi due anni di programma. «Anche i più timidi hanno preso la parola durante le nostre discussioni - continua la maestra - con straordinari progressi nel linguaggio. L´approccio filosofico è un modo di liberare la creatività».
La filosofia è una disciplina confinata quasi ovunque negli anni del liceo. Ma già nel ´99, l´Unesco ha raccomandato l´introduzione dell´insegnamento all´asilo, basandosi tra l´altro sui lavori dell´americano Matthew Lipman. Anche in Italia, questo approccio si sta diffondendo. Il comune di Modena ha formato dei maestri delle scuole dell´infanzia e presto inizieranno le lezioni filosofiche per i più piccoli. In Francia, oltre al caso ripreso nel film appena uscito e ad altri sparsi per tutto il Paese, vengono organizzati privatamente centinaia di atelier philo nei pomeriggi del mercoledì, quando i bambini non hanno scuola. «Forse è una moda - commenta Jean-Charles Pettier, organizzatore di questi atelier - ma credo che il fenomeno rispecchi anche un diverso approccio da parte dei genitori». Madri e padri non se la sentono più di prendere sottogamba gli interrogativi dei loro bimbi sui massimi sistemi, liquidandoli, stremati, con un classico "lo capirai da grande", oppure con l´ancor più definitivo "perché sì".
Gli scaffali delle librerie francesi sono ormai pieni di manuali filosofici ad uso e consumo dei bambini dai tre anni in su. Una delle autrici più di successo è Brigitte Labbé che ha pubblicato trentacinque volumi delle sue "merende filosofiche", già tradotti in diciotto lingue. Le dispense con cd audio permettono di organizzare dibattiti a casa intorno a quesiti come "Perché non sono il capo?", "Qual è la differenza tra la vita e la morte?", "Maschio o femmina?". Jean-Paul Mongin ha cercato invece di trasformare in favole le biografie dei filosofi nella nuova collezione "Petits Platons". Prima della nanna, si può così raccontare la vita di Socrate, Descartes, Kant, Leibnitz e Sant´Agostino. «A lungo si è pensato che l´infans, colui che non parla, non potesse avvicinarsi al logos, la parola e la ragione» ricorda il filosofo Roger-Pol Droit, anche lui autore del manuale "Osez parler philo a vos enfants", nel quale invita i genitori ad esercitarsi con i propri figli. «Platone e Aristotele dicevano che si diventa filosofi quando ci si stupisce e ci s´interroga sulle cose - continua Droit - ed è esattamente ciò che i bambini fanno istintivamente tra i quattro e i sette anni». Secondo l´esperto, è fondamentale approfittare di questa fase per costruire il modo di pensare del futuro adulto. Tutti i bambini nascono filosofi, conclude, ma solo alcuni lo diventano.

Repubblica 22.11.10
Stefano Poggi, ordinario all´Università di Firenze e presidente della Società filosofica italiana
"È utile solo se i docenti sono qualificati"
di Vera Schiavazzi


«La filosofia? È una cura che ha bisogno di essere somministrata da ottimi medici…». Stefano Poggi, presidente della Società filosofica italiana, commenta così l´idea di insegnare anche ai più piccoli chi erano, e cosa pensavano, Aristotele e Kant.
È un rischio o una chance?
«Entrambe le cose. Questa materia, ad esempio, dovrebbe avere più spazio in tutti i licei, ma potrà essere affidata anche a docenti che non hanno ricevuto un´abilitazione specifica per insegnarla. Occorrono cultura ed equilibrio, perché spesso chi insegna filosofia esercita grande appeal sugli studenti».
A che età si può iniziare?
«Ormai bambini e ragazzini sono curiosi di tutto, non vedo controindicazioni a introdurre elementi di filosofia anche per i più piccolI. Non è certo un male insegnare ai bambini a usare il cervello in modo critico. A condizione che chi lo fa conosca anche la storia di quelle idee, e che la filosofia non venga messa in contrapposizione alla scienza, come invece purtroppo spesso accade in Italia».
Che cosa consiglia a un filosofo che vuol parlare ai bimbi?
«Di non essere maestro solo di dubbi, incertezze e sospetti. E di far capire come questa materia sia strettamente intrecciata alla storia delle idee umane, allo sviluppo della critica e del ragionamento, e dunque anche delle grandi scoperte scientifiche. Solo così potrà essere veramente d´aiuto a far crescere anche il senso critico dei suoi piccoli allievi».

Repubblica 22.11.10
Dalla biologia alla filosofia, le nuove regole della vita
di Maurizio Ferraris


La tecnologia, le scoperte della medicina ma anche le norme internazionali hanno cambiato il rapporto con le leggi che governano l´esistenza: adesso un trattato le riformula
Le protesi hanno modificato tante cose Non solo quelle carnali, però. Bisogna tener conto di quelle documentali
L´opera diretta da Rodotà si preoccupa della tutela dei più deboli. Ci sarà un volume dedicato anche agli animali

Il monumentale Trattato di biodiritto che Stefano Rodotà e Paolo Zatti hanno diretto per l´editore Giuffrè avrebbe fatto sognare Foucault e contemporaneamente ne avrebbe temperato gli eccessi biopolitici. Perché il biodiritto non è la constatazione del fatto che la politica entra nella vita, ma piuttosto l´esigenza di difendere la vita dalle prepotenze della politica. La sua motivazione originaria, il suo luogo genetico, è la tutela della "vita offesa", che non è (come nel sottotitolo dei Minima moralia di Adorno) la condizione dell´intellettuale costretto all´emigrazione, ma quella ben più tragica consumatasi nei campi di sterminio, la condizione di esseri umani la cui vita era stata ridotta a nuda vita, gettati in un mondo in cui, come nei versi di Primo Levi, si "muore per un sì o per un no".
Si trattava di fornire nuove tutele per la vita, dopo che quelle tradizionali (le consuetudini, i riti e le religioni, e lo stesso diritto) si erano rivelate insufficienti o esaurite, bisognava rendere la nuda vita quanto più vestita possibile, ossia protetta da documenti, leggi e istituzioni, come testimoniano la Costituzione italiana (1948) e la Legge Fondamentale tedesca (1947), entrambe precedute dal Codice di Norimberga, del 1946, elaborato a stretto contatto con la scoperta delle sperimentazioni mediche su esseri umani.
Poiché nel biodiritto la giurisprudenza si confronta con discipline che vanno dalla biologia all´antropologia, dalla filosofia alla medicina, il Trattato si articola in sei volumi di ampi saggi (molti con la dignità di veri e propri libri) cui hanno contribuito grandi esperti internazionali: Ambito e Fonti del Biodiritto, Il Governo del Corpo, in due tomi, I Diritti in Medicina, Le Responsabilità in Medicina, Salute e Sanità, per concludersi con un´opera su La Questione animale (che uscirà l´anno prossimo), una questione immensa e a lungo aggirata nella nostra cultura, perché ci mette in contatto con la vita più nuda e offesa che conosciamo e che accettiamo.
La tesi della correlazione tra la vita offesa e la necessità di una tutela è articolata da Rodotà proprio al centro del primo volume del Trattato (curato con Mariachiara Tallacchini, dedicato alle questioni fondamentali, e dunque dotato di un interesse che va molto al di là dello specifico giuridico), nel lungo capitolo "Il nuovo habeas corpus: la persona costituzionalizzata e la sua autodeterminazione". È eloquente il richiamo all´habeas corpus, cioè al principio con cui, nella Magna Charta del 1215 il re d´Inghilterra promette, per ogni "uomo libero": «non metteremo né faremo mettere mano su di lui, se non in virtù del giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese».
Ma la novità che sta alla base del biodiritto consiste nel fatto che qui l´autolimitazione non ha luogo di fronte a ciò che è più forte (gli "uomini liberi" erano i baroni, cui Giovanni Senzaterra si piegava), bensì di fronte a ciò che è più debole. All´evento originario della nuda vita nei campi di sterminio vengono infatti ad affiancarsi tre altre esperienze: la necessità - conseguente dalla crisi del Welfare State - di riconoscere non soggetti astratti ma persone situate nelle difficoltà dell´esistenza; lo sviluppo delle scienze e le tecnologie che rimettono alla decisione del soggetto, con sempre maggiore evidenza, le questioni del nascere e del morire; e il femminismo, come rifiuto del soggetto giuridico astratto, che cancella la differenza di genere e dunque il volto vero della vita.
Ne risulta una profonda trasformazione, per cui il biodiritto, molto più che un diritto applicato alla vita, appare come un diritto modificato dalla vita. Il soggetto giuridico classico era tendenzialmente senza corpo, la differenza tra "persona fisica" e "persona giuridica" era tenue, e il corpo, si direbbe, entrava in gioco solo in forma negativa, per esempio nelle sanzioni corporali. Il biodiritto si modella viceversa sul passaggio dal soggetto di diritto al soggetto "di carne". Si avrebbe torto, tuttavia, a vedere in questo appello alla concretezza carnale un qualche fantasma vitalistico.
Nel vitalismo la vita è una forza che si afferma contro le regole, mentre nel biodiritto la vita è bisognosa delle difese che vengono dalle regole, e il soggetto di carne è anche e al tempo stesso un soggetto di carta, o deve diventarlo: il compito del biodiritto, che in questo appare come la netta antitesi del biologismo, consiste proprio nel trasformare la carne in carta, in esistenza tutelata. Si tratta cioè di muovere dalla consapevolezza che la vita e i modi in cui si gestisce e si organizza socialmente non sono nozioni stabilite una volta per tutte (come spesso si sostiene nelle cosiddette prospettive "pro life"), e che le trasformazioni della scienza, della tecnica e della società non sono estranee alla vita, ma la modificano e la articolano. Tra il crudo e il cotto, tra la natura e la cultura, dunque, viene a stabilirsi una interazione molto più forte di quanto non avvenisse nel diritto tradizionale.
Questa compenetrazione tra carne e carta esiste da sempre, ma è tanto maggiore ora, con l´iperbole dei sistemi di iscrizione e registrazione che caratterizza il mondo contemporaneo. Perché tra le protesi, che da sempre complicano, nel male ma soprattutto nel bene, la vita, non c´è solo la fibra di carbonio delle gambe di Pistorius, c´è anche il silicio di tutti i nostri computer, che ha integrato il nostro corpo carnale (e gli archivi che lo riguardano) con un nuovo corpo documentale. O meglio, ha reso ipertrofico quello che si chiama tradizionalmente e non per caso "corpus", per indicare l´insieme delle opere di un autore, e che oggi potrebbe designare l´insieme delle iscrizioni che ci riguardano, sotto forma di documenti, "dati sensibili" o archivi magari conservati "cloud", in un remoto poco controllabile. Anche per queste estensioni della nostra vita e del nostro corpo sarebbe necessario pensare un nuovo "habeas corpus", o, nelle parole di Rodotà, un "habeas data".

Repubblica 22.11.10
La vera cultura è di massa
"Da ‘avatar´ ai videogiochi è il regno della creatività"

di Fabio Gambaro

Il suo "Mainstream" ha fatto discutere la Francia. Ora il libro di Frédéric Martel esce in Italia
"Siamo ancora vittime della condanna fatta dalla Scuola di Francoforte. Ma oggi servirGambaroebbe un nuovo Benjamin per studiarla"
"Divertimento e arte si contaminano: le frontiere sono venute meno"
"Ci sono nuove capitali della produzione: solo l´Europa è rimasta indietro"

PARIGI. C’è un´inchiesta che in Francia ha fatto molto discutere. Quella proposta da Frédéric Martel nelle pagine di Mainstream (Feltrinelli, pagg. 464, euro 20), un libro appassionante ricco di dati, storie e riflessioni che prova a spiegare «come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media». Grazie alle testimonianze dei protagonisti delle «industrie creative» raccolte ai quattro angoli del pianeta, lo studioso francese descrive lo scontro culturale in atto che vede alcuni paesi emergenti rimettere in discussione l´egemonia culturale degli Stati Uniti. Uno scontro che avviene innanzitutto sul piano della cultura «mainstream».
Vale a dire, la cultura «che piace a tutti», la cultura di massa legata al mondo dell´immagine e della musica - e solo in misura minore al mondo della cultura scritta - nei confronti della quale l´autore di Mainstream tenta innanzitutto di smontare luoghi comuni e pregiudizi: «Nei confronti della cultura di massa c´è ancora molta diffidenza», spiega Martel, che ha creato Inaglobal, un sito internet dedicato a queste problematiche. «Le opere mainstream vengono spesso considerate con disprezzo e percepite come un divertimento superficiale estraneo all´arte. E´ un pregiudizio diffuso tra gli intellettuali europei, purtroppo ancora prigionieri della condanna senza appello emessa dalla scuola di Francoforte nei confronti della cultura di massa. Invece, il mainstream va studiato seriamente, perché ha molto da insegnarci sull´evoluzione della cultura contemporanea. Oggi, avremmo bisogno di un nuovo Walter Benjamin che ci aiutasse a riflettere sull´opera d´arte all´epoca della riproducibilità digitale, per parafrasare il titolo del suo celebre saggio».
La tradizionale opposizione tra arte e entertainment va superata?
«Certamente. Si tratta di un´opposizione figlia di una concezione aristocratica della cultura, per la quale il mercato corrompe inevitabilmente la purezza dell´arte. Il mercato però a priori non è buono né cattivo. Può distruggere la cultura, ma anche favorirla. Il mainstream può produrre banale divertimento ma anche opere di qualità. Inoltre, tra l´arte più elitaria e le opere più standardizzate esistono innumerevoli forme intermedie, dove arte e divertimento coesistono in dosi più o meno accentuate, contaminandosi e alimentandosi a vicenda. Insomma, il mainstream rimette in discussione le tradizionali frontiere tra cultura alta e cultura bassa».
La cultura mainstream è quindi più complessa di quanto s´immagini?
«Per parlare a tutti non è necessario essere superficiali e scontati. Toy Stories, Ratatouille o Avatar hanno conquistato il pubblico mondiale perché, dietro l´apparente semplicità, agivano opere sofisticate, creative e tecnologicamente complesse. Naturalmente il mainstream può anche produrre opere piatte e consolatorie, ma non sempre è così, dato che non nasce mai dalla semplice ripetizione. Al contrario, è sempre alla ricerca di formule originali per rinnovarsi. Solo così conquista il pubblico».
Secondo alcuni critici, il pubblico sarebbe succube dell´industria culturale...
«Il pubblico non subisce mai passivamente le strategie dell´industria culturale. Lo dimostrano i molti flop della storia della cultura mainstream. Il pubblico ha una propria gerarchia di valori ed è capace di distinguere un prodotto originale da uno inutilmente ripetitivo. Sa riconoscere la creatività. I prodotti culturali non sono come la Coca Cola, che replica invariabilmente la stessa formula. Devono rinnovarsi di continuo e produrre risultati originali».
In che modo?
«La cultura mainstream si nutre di creatività, ricerca e libertà. Sfrutta la diversità culturale, l´innovazione tecnologica e la sperimentazione artistica. In Europa, pensiamo che la ricerca e la cultura di massa siano mondi differenti e separati, ma negli Stati Uniti vivono di scambi continui. Il problema dei cinesi nasce proprio da qui. Vorrebbero produrre una cultura mainstream, per essere presenti nel grande mercato mondiale della cultura, ma contemporaneamente uccidono la diversità, la controcultura, la libertà d´espressione. Senza tutto ciò non si fa mainstream».
Il mainstream finirà per invadere ogni spazio della cultura?
«Non mi sembra un rischio reale, dato che, nonostante il successo mondiale di una cultura mainstream sempre più globalizzata, le culture nazionali godono dappertutto di buona salute. In Francia, ad esempio, il 50% del box office è prodotto dai film francesi. Tuttavia, accanto alle culture nazionali, ovunque s´impone la cultura mainstream prodotta negli USA. Batman, Lady Gaga e il Codice da Vinci hanno successo dappertutto».
Negli ultimi anni però i prodotti mainstream non sono più solamente americani...
«E´ vero, basti pensare al successo internazionale dei film indiani di Bollywood, delle telenovelas brasiliane, dei manga e dei videogiochi giapponesi, dei programmi informativi di Al Jazeera. Insomma, anche se non credo alla teoria del declino degli Stati Uniti, che restano il primo esportatore mondiale di prodotti culturali, è indiscutibile che il mercato mondiale della cultura sia in piena trasformazione. Emergono infatti nuovi paesi che riescono ad imporre i loro media, le loro culture e i loro valori anche al di fuori dei rispettivi mercati nazionali, creando nuovi flussi di scambi culturali. Accanto a Los Angeles e Miami, le nuove capitali della cultura mainstream sono oggi a Hong Kong, Il Cairo, Bombay o Tokyo».
Quanto contano le nuove tecnologie in questi successi?
«La rivoluzione digitale ha offerto un´enorme opportunità ai paesi emergenti, che considerano le nuove tecnologie uno strumento indispensabile per costruire la cultura di domani. Oltretutto, i nuovi protagonisti della cultura di massa non hanno avuto bisogno di gestire la transizione tra i prodotti culturali della tradizione e i nuovi format della cultura mainstream. Si sono lanciati immediatamente, e con successo, sul nuovo. Di conseguenza, oggi il mondo della cultura non ha più un solo centro. E ciò naturalmente è un bene per tutti».
In questo scenario l´Europa perde peso?
«In effetti, anche se è pur sempre il secondo produttore mondiale di cultura. Il declino è dovuto anche alla mancanza di una vera cultura europea comune. Accanto alle rispettive tradizioni nazionali, le popolazioni europee hanno in comune solo la cultura mainstream americana. E la frammentazione culturale non aiuta certo a produrre opere per il mercato mondiale. Tuttavia possiamo ancora invertire la tendenza, ma non è alzando le barricate che si produce cultura mainstream in grado di conquistare il mercato mondiale».