domenica 28 novembre 2010

l’Unità 28.11.10
Padri e figli, la nuova Cgil: i giovani aprono il corteo
Prima volta, svolta storica
Il segno voluto dalla leader Camusso. Non c’è il movimentismo di un tempo intorno ad operai e studenti. Ma c’è un tema comune: la lotta alla precarietà
Sciopero generale. Una scelta impegnativa che va preparata bene Non si può sbagliare
L’esame. Il sapere e gli operai Una opzione che parte da lontano


La grinta, la passione politica, il coraggio della proposta, la forza dell’analisi. Con questi elementi Susanna Camusso si è presentata agli esami della sua prima piazza da segretario generale. Anche facendo leva su una cultura acquisita in una lunga attività sindacale, fin dai tempi delle 150 ore a Milano. Era la scelta, in quel periodo, di portare gli operai al «sapere», alla «conoscenza». Un’idea molto cara a Bruno Trentin, a capo dei metalmeccanici Cgil.
Così nei cortei fiammeggianti di bandiere rosse, in questo sabato romano allietato da un sole benedetto, sembra tornare l’eco di anni lontani, di una nuova possibile alleanza tra operai e studenti. Anche se non c’è oggi, bisogna pur dirlo, come c’era all’epoca, un possente e radicato movimento autonomo di studenti e di operai, portatore di obiettivi vincenti. Avanza però, nelle scuole una ribellione di massa. E i segnali di questa rivolta sono tutti presenti, attorno alla Cgil.
A cominciare dal fatto che il corteo principale mostra alla testa, per la prima volta nella storia sindacale, proprio i giovani. Giovani lavoratori e giovani studenti. Un segnale importante. emblematico, voluto dal nuovo segretario generale. Innalzano gli striscioni di una campagna aperta su nuovi strumenti di comunicazione come Facebook, per denunciare il diffondersi di offerte di lavoro vergognose.
Ora eccoli a ripetere che i giovani «non sono più disposti a tutto», a ripetere che il futuro deve essere dei giovani e del Paese. Sono ragazze e ragazzi abituati a essere ultimi non solo nei cortei ma anche nelle trattative, anche nelle contrattazioni sindacali. Prima vengono quelli del posto fisso poi, se avanza qualche risorsa, tocca a loro. Ora sono riconosciuti, con la Camusso che invita i tanti dirigenti sindacali ad aprire le sedi, a darsi da fare. Magari cominciando dalla raccolta di adesioni per evitare quella trappola dei 60 giorni posta in essere dal governo col suo collegato lavoro. È la norma, voluta dal ministro Maurizio Sacconi, che «concede», senza far troppo chiasso, 60 giorni di tempo, dopo i quali i precari non potranno mai più ricorrere a un giudice per far valere i propri diritti.
La Cgil così tratteggia meglio la propria identità attorniando i «padri» dai «figli», senza mettere gli uni contro gli altri. È proprio ancora lei, la Camusso, a ricordare quelli che vorrebbero aumentare l’età pensionabile degli anziani mentre si lasciano i giovani agli ingressi dei cancelli delle imprese. Così Piazza San Giovanni prende le fattezze di un coro fatti di mille voci: metalmeccanici, impiegati pubblici, insegnanti, immigrati. Una piazza ribollente ma in parte diversa da quella di poche settimane fa, organizzata dalla Fiom-Cgil. L’incontro di questo sabato ha una predominanza assoluta di vessilli Cgil e non partitici. Certo è una manifestazione politica ma per i suoi contenuti sindacali (che chiamano in causa la politica e soprattutto il centrodestra) e non per gli emblemi di partito.
C’è chi alla fine vorrebbe una proclamazione, dal palco di piazza San Giovanni, di uno sciopero generale. La Camusso si limita a dire «Abbiamo scioperato e continueremo a scioperare». Ricordando, così, gli scioperi generali già fatti. C’è chi interpreterà tali parole come una presa di distanza dalla Fiom. A chi scrive appare soprattutto come la consapevolezza che una scelta impegnativa come questa ha bisogno di preparazione, e se possibile di unità, di un movimento già in piedi. Perché è utile riflettere su quale danno insopportabile provocherebbe, in queste condizioni politico-sociali, un flop dello sciopero generale. Le spallate, se si vogliono dare, non possono tradursi in spallatine. Occorre saper indicare un «paese diverso», anche attraverso un «sussulto etico» (parole della Camusso). Un «sussulto democratico», come si diceva un tempo.

il Fatto 28.11.10
La nuova Cgil della Camusso si mette la felpa
Prima manifestazione a Roma tutta dedicata ai giovani precari
di Stefano Feltri


La novità è anche nella forma: Susanna Camusso sale sul suo primo palco da segretario della Cgil con una felpa nera col cappuccio, una di quelle distribuite ieri con lo slogan “Giovani non + disposti a tutto”, si mette in un angolo del palco a piazza San Giovanni ad ascoltare (e ballare) la taranta. Ha ancora addosso la stessa felpa quando prende il micorfono per il suo discorso, conclusione di una manifestazione partecipata anche se non oceanica (ma il nuovo corso sindacale, di Fiom e Cgil, prevede di sottrarsi alle scaramucce sui numeri di partecipanti).
LO SLOGAN è abbastanza tradizionale: “Il futuro è dei giovani e del lavoro”. Ma fin dalle prime parole del suo discorso, la Camusso cerca di chiarirne la traduzione molto concreta: “Bisogna dire a tutti che ci sono solo 60 giorni, anzi, sono già 57, per impugnare i licenziamenti, per chiedere giustizia”, colpa di una “legge ingiusta e crudele nota come colllegato lavoro” che ha esteso ai precari il limite dei due mesi per ricorrere in tribunale e farsi riconoscere che a un contratto a progetto o di collaborazione corrispondeva in realtà un lavoro da dipendente, con le tutele e i diritti che ne dovrebbero derivare. Prima il termine era di cinque anni. “Sappiamo che è una scelta difficile, tra la possibilità di ottenere un nuovo contratto dallo stesso datore di lavoro e quella di chiedere giustizia, ma sappiate che le nostre sedi sono aperte, i nostri uffici sono aperti per tutti quelli che vogliono discutere la loro situazione”, dice il segretario .
La composizione del corteo e della piazza è la stessa di sempre, si regge più sui militanti dello Spi (i pensionati) che sugli universitari, come tradizionale è gran parte delle parole d’ordine dal palco. E’ troppo presto per registrare un cambiamento, per misurare se stia funzionando il tentativo della Camus-so di parlare agli esclusi dal sindacato, quei precari che finora avevano come unico riferimento il sindacato Nidil (sempre della Cgil). Ma la manovra di avvicinamento è evidente, non solo nella partecipazione di alcuni (non tantissimi) studenti, quanto nella presenza capillare del logo e dei gadget della campagna “Giovani non + disposti a tutto”. Culmine di un’iniziativa di marketing virale sviluppata su Internet a partire dal sito gio  vanidispostiatutto.com   (di cui, in una prima fase, non si sapeva neppure che fosse responsabile la Cgil), un finto portale di annunci di lavoro del tipo “gruppo bancario cerca laureati con master in ingegneria finanziaria capaci di campare senza soldi”. Il messaggio, quindi, è chiaro: la Cgil della Camusso punta sui giovani in maniera strategica, non soltanto tattica. A forzare un po’, si può quasi vedere una separazione dei compiti: mentre i metalmeccanici della Fiom guidata da Maurizio Landini combattono in prima linea con Fiat e Federmeccanica a difesa dei diritti storici conquistati nel Novecento, la Camusso e la Cgil confederale si occupa di costruirne di nuovi per i lavoratori che quei diritti non li hanno mai conosciuti.
SI INTRAVEDE un ragionamento di politica economica molto pragmatico dietro questa scelta: “Nessun Paese può permettersi di avere intere generazioni senza reddito, stanno costruendo un debito enorme sul futuro dei nostri ragazzi”, dice la Camusso. E spiega: i giovani precari possono sopravvivere senza reddito e senza tutele soltanto perché ci sono le risorse accumulate dalle famiglie , che però vengono gradualmente erose. Quando questo equilibrio provvisorio non reggerà più, la politica sarà costretta a intervenire, “e più si rimanda il momento, più costoso sarà il conto da pagare”.
Susanna Camusso è arrivata al vertice della Cgil a 55 anni preceduta da una fama di moderata e riformista, che nel gergo sindacale sono sinonimo di scarsa incisività. Durante il corteo i più duri mugugnano, non sprizzano entusiasmo per un segretario che continua a non proclamare lo sciopero generale, come vorrebbe la Fiom. Lei risponde dal palco dicendo che se le cose non cambiano “continueremo a scioperare come abbiamo fatto in passato”, manda messaggi alla Fiom chiedendo democrazia “prima e dopo le trattative” (cioè facendo votare ai lavoratori gli accordi presi con le associazioni datoriali, anche prima che arrivi la legge sulla rappresentanza, se Cisl e Uil sono d’accordo) e lancia la sfida anche agli altri sindacati: “Siamo pronti a contare e certificare i nostri iscritti, non abbiamo paura”, rompendo così un tacito accordo di non belligeranza che ha sempre permesso a tutte le sigle di fare stime generose della propria forza numerica.

Corriere della Sera 28.11.10
Camusso in piazza «Ora basta machismo»
Cgil, debutta Camusso «Serve un sussulto etico noi pronti allo sciopero»
di Fabrizio Caccia


ROMA — Ora c’è una donna al timone della Cgil: «Il Paese non merita questa classe politica, serve un sussulto etico, basta con la giustizia dei potenti e le esibizioni di machismo». Susanna Camusso debutta da segretario generale in piazza San Giovanni e canta «Bella ciao» davanti a un mare di persone (150 mila solo quelli venuti da fuori, dalla Sicilia al Sud Tirolo). È un sabato di sole, con un tepore quasi da primo maggio. Due imponenti cortei: bandiere rosse, operai, precari, pensionati, edili col casco giallo e medici in camice bianco, insegnanti arrabbiati («Taglia taglia la scuola raglia») e studenti che bruciano un manichino con la faccia del premier. Lavoratori sui tetti, sulle gru, sulle torce di Porto Marghera e cassintegrati da 327 giorni per protesta sull’Asinara. L’Italia è anche questa e la Camusso avverte: «Il Paese non ha futuro senza una politica del lavoro. Se la Cgil non avrà risposte dal governo, si arriverà allo sciopero generale». Ecco le due paroline che in tanti volevano ascoltare da subito, ma lei (che ha accanto Epifani) preferisce aspettare. Dal palco garantisce: «Questo è il Paese per cui abbiamo scioperato e continueremo a scioperare». Però la sua, per ora, vuol essere una linea dialogante con tutti: governo e Confindustria, Cisl e Uil, perfino Marchionne. E infatti più di qualcuno, come Giorgio Cremaschi, all’interno della Cgil resta deluso dal primo comizio. E così il leader della Fiom, Maurizio Landini: «La prossima settimana c’è il direttivo della Cgil, tutto quello che resta da fare è indicare una data». Ci sono anche i politici, Bersani e Vendola si stringono la mano. La Camusso definisce il «collegato al lavoro» approvato dal Parlamento «legge ingiusta e crudele». E invita «la ministra» (Gelmini) a ritirare la riforma. Sulla Fiat è preoccupata: «Abbiamo la sensazione che progressivamente la testa dell'azienda stia andando negli Stati Uniti. E’ importante che a Mirafiori ci saranno produzioni, ma vogliamo conoscere le produzioni in tutti gli stabilimenti». Perentoria sui contratti: «Continueremo a dire no alle deroghe». Alla fine don Fabio Corazzina, il prete che ha assistito gli immigrati di Brescia saliti su una gru, cita Sepúlveda: «Io ammiro chi resiste».


il Fatto 28.11.10
La piazza: studenti universitari e lavoratori
Prova diintesa tra due proteste
di Silvia D’Onghia


Antonio e Gianfranco arrivano da Grumo Appula, in provincia di Bari, hanno 32 e 23 anni, sono saldatori specializzati. Ma non lavorano: vengono chiamati dalle agenzie interinali per frequentare corsi di una settimana, poi restano a casa. Così le agenzie intascano i finanziamenti per la formazione e loro hanno paura del futuro. Mara e Francesca sono musiciste, suonano un po’ dove capita e molto spesso gratis, perché ormai neanche i locali pagano più. Vivono in uno stabile occupato, perché “niente soldi, niente affitto”.
Lucia frequenta il terzo anno del liceo classico e non è disposta a scommettere neanche più sull’università. Indossa un cartello con un annuncio di lavoro: segretaria personale, bella presenza, anche senza esperienza, disposta a fare il caffè al capo. Sono loro i nuovi volti della Cgil, quella che Susanna Camusso vuole aperta ad ogni lavoratore in difficoltà. Vengono da ogni angolo d’Italia, invadono le strade di Roma già dalle prime ore del giorno, sfilano formando due cortei, che poi confluiscono in piazza San Giovanni. Studenti medi, universitari, ricercatori, operai, pensionati e partigiani: tutti a braccetto per chiedere all’Italia di svegliarsi. Qualcuno esagera e brucia un pupazzo di Silvio Berlusconi, seguono le inevitabili polemiche.
E mentre nelle altre città la protesta sui tetti continua (a Firenze viene “occupata” la Cupola del Brunelleschi), il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini si stupisce nel vedere insieme studenti e pensionati, come se i diritti si dividano in compartimenti stagni. Gli studenti in mattinata ancora non lo sanno, ma il “tradimento” arriverà anche da Gianfranco Fini, che martedì voterà la riforma, “una delle cose migliori della legislatura”. Nando ha fatto la guerra: “Abbiamo imbracciato le armi per cacciare l’invasore e abbiamo seminato bene. Ora tocca alla gioventù, perché questa è una dittatura senza armi, ma sempre dittatura è”. Ci sono anche i genitori e i nonni di quei ragazzi appollaiati sui tetti. “Mia figlia si è laureata in architettura un anno e mezzo fa col massimo dei voti – racconta Pietro, che viene da Torino – peccato che non sia parente di Bondi, è ancora disoccupata. Oggi bisognerebbe fare come nel ’68: gli studenti dovrebbero aiutarci a bloccare le fabbriche. I diritti sono conquiste del passato, bisogna lottare ogni giorno per man-tenerli”.
La convinzione generale è che si voglia adottare il modello Fiat anche per le piccole e medie imprese. E forse è per questo che i volti non sono allegri: serpeggia un’amarezza profonda, quasi una stanchezza nel dover ripetere che “il futuro è dei giovani e del lavoro”, come recita lo slogan della giornata. La piazza è comunque un bel colpo d’occhio, bandiere rosse e palloncini colorati. La Cgil non vuole dare i numeri, ma l’elicottero della polizia che sorvola San Giovanni sa che è piena. I ragazzi hanno sulla giacca l’adesivo “Non +disposti a tutto”. Tra loro, ci sono anche i nuovi italiani. Abdul è arrivato due anni fa dal Burkina Faso, ha 20 anni e un diploma da perito elettrotecnico. Sperava in un’accoglienza diversa, e invece si ritrova a fare lavoretti saltuari e poco retribuiti e a lottare per il permesso di soggiorno. Arjan è albanese, vive a Roma da sette anni con la moglie, fa il muratore, ma da maggio è disoccupato perché la ditta per cui lavorava è fallita: “Il principale è irreperibile, non abbiamo avuto né gli ultimi stipendi nè la liquidazione . Due settimane fa è nato mio figlio: mi hanno dato un libretto sanitario valido tre mesi, se non trovo un lavoro in tempo non me lo rinnoveranno e a mio figlio verrà negato anche il diritto alla salute”. Ci sono due signore anziane che applaudono al passaggio dei più giovani: “Sono troppo buoni, dovrebbero fare la rivoluzione. Quasi quasi la facciamo noi”. Una di loro ha una figlia insegnante, non più precaria, e ringrazia che il problema principale sia il doversi portare a scuola la carta igienica.

il Fatto 28.11.10
La scuola salvadanaio
di Marina Boscaino


Progetto preciso, prove tecniche di devoluzione del futuro: creazione di consumatori acritici, con lo smantellamento della scuola pubblica che, da luogo di investimento economico e culturale, diviene fonte di risparmio arrembante, nascosto da rassicuranti etichette, “semplificazione e razionalizzazione”; preventiva creazione di schiere di “yes men”, gli insegnanti, che possano essere interlocutori (in)validi per futuri plaudenti non-cittadini. Se dovessero fallire le apocalittiche previsioni secessionistiche della Lega (ddl Goisis) e restare progetto le linee guida della frantumazione della scuola pubblica targata Aprea, rimarrebbe il duo Gelmini-Brunetta a narrare (e indirizzare) una scuola che – nel tragico combinato delle loro disposizioni – rinuncia alla sua specificità, per appiattirsi alla logica del pubblico impiego e delle sue parole d’ordine: premio, meritocrazia, efficientismo, gerarchia.
UN LUOGO di apprendimento non può funzionare così, e solo l’ignoranza può imporgli condizioni così improprie. Asservire al pensiero unico 1 milione di lavoratori (non sempre vigili, è vero; ma talvolta sì) è arduo: ecco allora il consueto bando che innesca la consueta “guerra tra poveri”. Prima i precari, decimati con arrogante noncuranza. La rinuncia – nelle nuove prerogative del dirigente scolastico – alla funzione di primus inter pares, e l’assegnazione di funzioni sanzionatorie a cui la maggior parte non è preparata, con snaturamento dell’idea che animava l’autonomia scolastica. D’altra parte, per eventuali dirigenti criticamente indipendenti, ecco le sanzioni alla libera espressione di dissenso nei confronti dell’amministrazione. I “dirigenti-diligenti” hanno poi ruoli di primo piano come valutatori nella nebulosa progettualità gelminiana sul merito, di cui i media hanno dibattuto in questi giorni: criteri ed indici di valutazione potenzialmente oggettivi, ma evidentemente iniqui e di parte (considerando anche l’impreparazione generalizzata del nostro Paese sulla strategica valutazione di sistema, istituti, singoli insegnanti, su cui l’Europa spende risorse economiche e culturali dagli anni ‘80). Nelle città scelte per la sperimentazione, già circolano proposte di delibere di collegi docenti per rifiutarla. In nome della volontarietà dell’adesione all’improvvisata messinscena che rischia di seppellire la già traballante autorevolezza ed autonomia professionale della categoria e la credibilità della scuola, di accrescere smisuratamente il potere dei dirigenti più autoritari, di creare fratture e iniquità tra insegnanti.
TORINO : città pilota del progetto per attribuire il “premio produzione” agli insegnanti delle superiori più meritevoli secondo i vaghi criteri ministeriali. Il 30 p.v. il progetto sarà presentato – alla sola presenza dei dirigenti – presso lo storico Liceo D’Azeglio. Flc Cgil ha sottolineato l’esclusione (strategia praticata spesso dal Miur, ascolto solo di chi si vuole ascoltare) di rappresentanti dei lavoratori e sindacati. “Il ricorso a sistemi di valorizzazione della professionalità sganciati dal rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro comporta la fine del contratto stesso, delle tutele e dei diritti uguali per tutti”. Autoritarismo, esclusione, arbitrarietà, improvvisazione: segni di come chi ci governa non ha perseguito e non persegue l’interesse generale.

l’Unità 28.11.10
Nella data della morte della ragazza il governo indice la giornata degli stati vegetativi
Vespa li ospiterà dopo il no di Fazio. «Un’offesa», protestano Marino e comitato di Bioetica
L’ultimo oltraggio a Eluana: 9 febbraio giornata pro-life
Il Cdm ha indetto per il 9 febbraio la giornata nazionale degli stati vegetativi. Protestano la Consulta di Bioetica e Ignazio Marino. Vespa e Domenica In invitano i pro-life, l’Anci difende i registri dei biotestamenti.
di A. C.


Il governo torna a offendere la memoria di Eluana Englaro. Venerdì infatti il Consiglio dei ministri ha approvato l’istituzione per il 9 febbraio, data della morte di Eluana, della «giornata nazionale degli stati vegetativi». Due anni dopo la scomparsa della giovane, il prossimo 9 febbraio si terrà dunque la prima giornata dedicata ai malati e alla famiglie che, legittimamente, scelgono il percorso opposto rispetto a quello della famiglia Englaro. Ed è proprio nella scelta di quella data che si coglie lo spirito ideologico, e offensivo, del governo. Che già era entrato a gamba tesa nella vicenda con il decreto con cui palazzo Chigi cercò di fermare la decisione della magistratura, fermato solo dalla saggezza del Quirinale che negò la propria firma.
«Ora il ricordo di Eluana non sarà più una memoria che divide ma un momento di condivisione per un obiettivo che ci unisce tutti», ha spiegato il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, che ha definito Eluana «una ragazza affetta da disabilità grave la cui vita è stata interrotta per decisione della magistratura». «La giornata sarà un’occasione preziosa in più per ricordare a tutti noi quanto è degna l’esistenza di tutti coloro che vivono in stato vegetativo e non hanno voce per raccontare il loro attaccamento alla vita». Nel ragionamento della Roccella, che proprio ieri ha incontrato il Papa durante una veglia per la vita a San Pietro (e ha fatto sapere che il Pontefice l’ha «incoraggiata» ad «andare avanti nell’azione politica di difesa della vita sui temi della bioetica») spicca dunque il senso di ritorsione contro la scelta della famiglia Englaro. E persino di rivincita contro la decisione di Fazio e Saviano di non ospitare le associazioni pro-life. «La giornata potrà rappresentare una finestra di visibilità per queste persone e le famiglie che le accudiscono dice Roccellatroppo spesso coscientemente accantonate dai media, come ha dimostrato la vicenda della trasmissione “Vieni via con me”».
LA PROTESTA DI MARINO (PD)
La decisione del governo ha provocato l’indignazione della Consulta di bioetica. «È l’ultima offesa del governo alla memoria di Eluana, nel tentativo di acquisire il sostegno della Chiesa cattolica», dice il presidente Maurizio Mori. «Si usa l’anniversario per espropriare il messaggio lasciato da Eluana, affermando che il 9 febbraio deve essere una giornata capace di unire tutti sull’unico obiettivo di difesa a oltranza della vita, diametralmente opposto a quello voluto da Eluana». Ancora più netto il senatore Pd Ignazio Marino: «Il sottosegretario Roccella non ha la delicatezza neppure di rispettare il dolore di una famiglia in un’anniversario così importante. La strumentalizzazione che viene fatta dimostra la mancanza di sensibilità e rigore istituzionale da parte di persone che, ci auguriamo, dal 15 dicembre torneranno a fare altri mestieri».
VESPA INVITA I PRO-LIFE
In Rai intanto è partita la gara a invitare esponenti pro-life, vinta naturalmente da Porta a Porta, che questa settimana dedicherà una puntata speciale alle famiglie di malati in stato vegetativo. Stamattina sarà sul tema anche «A sua immagine» su Raiuno, ospite il direttore di Avvenire, e nel pomeriggio pure Domenica In parlerà dell’argomento. Intanto l’Anci replica ai ministri Maroni, Sacconi e Fazio, che in una circolare avevano definito illegittimi i registri con i biotestamenti realizzati da circa 70 Comuni: «Quei registri sono legittimi e rispondono a una diffusa domanda sociale».

l’Unità 28.11.10
Il Papa in campo: «Politici e media, promuovete la vita»


È dedicata alla «vita nascente» la veglia di preghiera organizzata dal Pontificio Consiglio della Famiglia ai vespri della prima domenica di Avvento e nella basilica di san Pietro vi interviene Papa Benedetto XVI. Recita una preghiera dedicata alla vita e al rispetto dell’uomo e della sua dignità. Si appella alle assemblee legislative, perché i popoli e le nazioni «riconoscano e rispettino la sacralità della vita, di ogni vita umana». Agli scienziati e ai medici «perché il progresso contribuisca al bene integrale della persona e nessuno patisca soppressione o ingiustizia». Per gli amministratori ed economisti chiede il dono del-
la «carità e creatività» «perché sappiano intuire e promuovere condizioni sufficienti affinché le giovani coppie possano serenamente aprirsi alla nascita di nuovi figli».
Ai protagonisti della politica, dell`economia e della comunicazione sociale rivolge l’invito «a fare quanto è nelle loro possibilità, per promuovere una cultura sempre rispettosa della vita umana, per procurare condizioni favorevoli e reti di sostegno all’accoglienza e allo sviluppo di essa». «Purtroppo, anche dopo la nascita, la vita dei bambini continua ad essere esposta all`abbandono, alla fame, alla miseria, alla malattia, agli abusi, alla violenza, allo sfruttamentoafferma dopo nella sua omelia-. Le molteplici violazioni dei loro diritti feriscono dolorosamente la coscienza di ogni uomo». «Davanti al triste panorama delle ingiustizie commesse contro la vita duellammo, prima e dopo la nascita» ha concluso facendo suo l'appello di Giovanni Paolo II: «Rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità».Quindi contro «tendenze culturali che cercano di anestetizzare le coscienze con motivazioni pretestuose», ha richiamato la dignità dell’embrione. «Non si tratta di un cumulo di materiale biologico, ma di un nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana». Ha ribadito con forza il no della Chiesa all’aborto. R.M

l’Unità 28.11.10
Sia libera e dignitosa: siamo noi il vero partito della vita
La deputata radicale all’Unità: «Facciamo un dibattito con chi si arroga di difendere la vita e addita gli altri di essere per la morte»
di Maria Antonietta Farina Coscioni


Spazio, voce, visibilità a chi si batte per il diritto alla vita? Certo. Ma se qualcuno ha diritto di essere ospitato dalla trasmissione di Fazio e Saviano (e non solo quella) non sono tanto le sedicenti associazioni «per la vita», piuttosto chi, come l’Associazione Luca Coscioni, e io stessa in questi anni si batte non per accaparrarsi finanziamenti pubblici per associazioni private, quanto per consentire a tutti ripeto tutti i malati e i disabili pari opportunità nell’ottenere cura ed assistenza, ausili, e migliorare la qualità della vita dal momento della diagnosi al momento della morte, consentendo loro di scegliere.
Questa è la differenza che voglio sia conosciuta. Perché far emergere la verità sulla mancata approvazione da parte del Governo dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza e l'aggiornamento del Nomenclatore degli ausili e delle protesi ho dovuto digiunare e a lungo. Una lotta, elusa, ignorata. Forse perché non chiedevo e non chiedo nulla per noi radicali, per le associazioni; e pongo “solo” il problema del diritto del malato ad avere gli strumenti adeguati per decidere. Perché chiedo che con i nuovi Lea siano assicurati i fondi necessari per la qualità della vita del malato e del disabile, e che siano accreditati a questi ultimi senza mediazioni e condizioni: c’è infatti chi vorrebbe destinare milioni di euro non nella diretta disponibilità dell’interessato, ma a questa o quell’associazione, così da assicurare clientele e gestioni “amicali”.
Sia piuttosto l’interessato, o chi da lui delegato in caso di sua impossibilità, a decidere dove e come vuole vivere la malattia: in ospedale, o a casa nel caso ciò sia possibile. Il malato deve essere informato ed disporre di mezzi adeguati per scegliere: nulla di più e nulla di meno.
È poi inaccettabile che chi vuole obbligarli a fare una scelta si definisca «per la vita», e chi li vuole liberi di scegliere sia additato come «contro la vita», se non «per la morte». Mina Welby, Beppino Englaro, io stessa, saremmo il «partito della morte»? Siamo e rivendichiamo di essere il partito della vita: un’altra vita, dignitosa e rispettosa dei diritti di tutti e di ciascuno, anche di chi a un certo punto ritiene che si debba accettare che non c’è possibilità di opporsi alla morte, e chiede di essere «lasciati andare». Come papa Giovanni Paolo II, quando invocò: «Lasciatemi andare alla casa del Padre».
Ci sono, sì, due “partiti”: chi crede che una persona sia libera di disporre del proprio destino, possa decidere quando la vita non è più degna d’essere vissuta, la sofferenza senza speranza non è più tollerabile; e chi questo diritto, lo nega. Su questo a quando un confronto, un dibattito?

l’Unità 28.11.10
Essere bambini e crescere in un carcere
di Andrea Boraschi


Negli istituti di pena italiani vivono oggi, con le loro madri, 57 bambini sotto i 3 anni. Alcuni di loro hanno accesso, per poche ore al giorno, ad asili nido e strutture alternative al carcere; altri trascorrono la loro intera giornata dietro le sbarre, in ambienti spesso malsani, privi di quasi tutto ciò che ciascuno di noi prevede come diritto fondamentale e non come opzione voluttuaria per un minore di quella età. Invero esiste una legge, la 40 del 2001, prima firmataria Anna Finocchiaro, che prevedeva una serie di misure alternative alla detenzione per le madri recluse. Tuttavia questa norma si è rivelata inapplicabile in numerosi casi: per le detenute recidive, per quelle in custodia cautelare e per quante hanno pene lunghe da scontare. Ancor più, essa è stata largamente disattesa dai giudici; e si dimostra sovente inefficace per quelle madri (spesso straniere) che non hanno un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari.
La “reclusione” di bambini sotto i 3 anni è conseguenza penosa di una legislazione che vuole evitare una barbarie, ovvero la separazione tra madre e prole nel primo periodo di vita. La situazione che si determina, tuttavia (quei 57 bimbi oggi in carcere, i molti altri “detenuti” in passato e gli altri ancora che, nei prossimi anni, avranno il carcere come prima casa) richiede soluzioni urgenti, radicali.
A tal riguardo sono stati elaborati, negli anni, diversi disegni di legge. Le soluzioni individuate tendono da un lato a rafforzare il ricorso alle misure alternative; dall’altro prevedono la costruzione o l’approntamento di strutture specifiche, nuove case famiglia, dove le detenute possano crescere i figli in regimi di vigilanza attenuata; e, più in generale, una serie di norme aggiuntive a tutela della crescita dei minori. Un lungo lavoro di sintesi, in questa legislatura, ha portato alla redazione di un testo unico in materia. Non ne discuterò qui pregi e difetti ma ne richiamo l’importanza, pensando che la sua traduzione in legge contribuirebbe certo a migliorare la situazione. L’inizio della discussione di quel testo era stato calendarizzato dal Pd per il 29 novembre, domani, alla Camera nello spazio riservato alle opposizioni. Non si terrà, invece, perché i democratici hanno ritirato il testo per avanzare la mozione di sfiducia al ministro Bondi.
Comprensibile? Forse. Doveroso? Non direi. Di certo, per alcuni aspetti, fisiologico, se è vero che ogni crisi politica finisce per mutilare lavori assembleari talvolta preziosi, talaltra irrinunciabili. Ho l’impressione assai amara che le macerie di Pompei macchieranno anche la dignità delle istituzioni dinanzi a 57 piccolissimi innocenti. E che sui criteri che inducono a una scelta simile si potrebbe aprire un confronto davvero non banale.

l’Unità 28.11.10
Intervista a Giorgio Tonini
«Stop alle primarie. Il Pd smetta di inseguire Sel e Udc»
Modem «Gli altri devono seguire le nostre proposte e non il contrario: così selezioneremo gli alleati Con i gazebo Nichi vuole inchiodarci a sinistra»


Nessuno di noi mette in discussione l’impegno di Bersani, ma sulle alleanze bisogna capovolgere l’impostazione, sono
gli altri a doversi misurare con le nostre proposte, non noi a dover scegliere tra Casini e Vendola». Il giorno dopo la prima assemblea del Movimento democratico di Veltroni, Giorgio Tonini, uno dei parlamentari più vicini all’ex leader Pd, spiega a l’Unità che cos’è il «Pd pride» lanciato da Veltroni. «Sulla richiesta di dimissioni di Berlusconi e sull’idea di un governo di transizione alla Ciampi tutto il partito è unito. Ci divide invece la prospettiva di fondo per il dopo Berlusconi. “Pd pride” vuol dire tornare a essere al centro della scena politica, con le nostre proposte per il Paese».
Come si traduce in concreto?
«È il Pd che deve selezionare gli alleati sulla base di chi aderisce alle nostre proposte. Faccio un esempio: sull’Università non basta confondersi con la protesta. Mannheimer ci dice che il nostro elettorato potenziale arriva al 42%, eppure secondo i sondaggi siamo al 24%. Cosa manca? Secondo noi mancano proposte di governo con un profilo netto».
Stefano Fassina, autorevole membro della segreteria Bersani, dice che da voi non arrivano proposte concrete.
«Le nostre proposte le faremo a gennaio con il Lingotto 2. Volevamo farlo l’11 dicembre, ma abbiamo rinviato perché quel giorno c’è la manifestazione del Pd a Roma in cui siamo tutti impegnati. All’assemblea di Varese abbiamo lanciato la proposta di permesso di soggiorno a punti per gli immigrati: la strada è quella». Come valuta l’opa di Vendola sull’elettorato Pd?
«Se il Pd compete con Vendola sullo stesso vecchio terreno dell’egemonia a sinistra rischia di essere perdente. Come dice Follini, se noi traduciamo in prosa la poesia di Vendola, alla fine vince lui. Noi abbiamo una funzione diversa: conquistare il centro del Paese, l’Italia profonda, quella maggioranza silenziosa ormai disincantata da Berlusconi. L’errore più grave di Bersani è stato mettere in palio la leadership del centrosinistra, che spetta al Pd. Quando fu eletto Veltroni nessuno mise in discussione la sua leadership, neppure Di Pietro».
Vi potrebbero obiettare: finì male...
«Sì, ma ora rischia di andare pure peggio. Come dice Fioroni, rischiamo di perdere pure le primarie». Che fare con le primarie?
«Vanno congelate fino a quando il Pd non riprende il filo della sua proposta. Poi si vedrà». E Vendola che dirà?
«Lui vuole accelerare con le primarie e incastrarci in uno schema inaccettabile. Ma noi dobbiamo dire no: non possiamo né rinchiuderci a sinistra, a contenderci la guida di uno schieramento perdente, e neppure inseguire alleanze guidate da Fini e Casini».
E se si vota a primavera, niente primarie? «Se non usciamo da questo schema siamo già morti. Dobbiamo cambiare il quadro politico con la nostra iniziativa, non possiamo subire le primarie. La poesia di Vendola non ci porta al governo, può essere utile solo se c’è l’architrave del Pd. Siamo noi l’unico cambiamento possibile». E Montezemolo?
«Spero che sia un interlocutore, ma il punto è che anche lui rischia di intercettare una voglia di cambiamento reale, che noi dobbiamo interpretare».
Se Veltroni non si fosse dimesso ora le carte le darebbe lui... «Lo pensano in tanti tra noi. Si è dimesso perché il grosso del partito contestava la vocazione maggioritaria. Ma oggi il problema non è rimettere Veltroni alla guida del Pd. Neppure lui pensa a questo. Il punto è correggere la rotta».

Corriere della Sera 28.11.10
Nicola Latorre: «Pd, ora bisogna cambiare tutto Vendola nuovo socio fondatore»
Il senatore: c’è incertezza sulla politica delle alleanze, siamo in affanno. Renzi e Zingaretti? Partecipino anche loro alla sfida
Il dalemiano Latorre: sì alle primarie sulla leadership del partito
di Maria Teresa Meli

ROMA — «Va riscritto l'atto fondativo del Partito democratico»: parola del vice capogruppo del Pd al Senato, Nicola Latorre. Può spiegarsi meglio? «Il Pd nasce come l'atto finale di un lungo processo politico che origina nel compromesso storico. Il progetto politico dell'Ulivo prima, e del Pd, poi, aveva come obiettivo quello di realizzare la democrazia dell'alternanza e concludere la transizione italiana. Il primo obiettivo è stato raggiunto, il secondo no. Le sfide di oggi ci impongono una svolta profonda» . Ma che senso ha abbandonare il Pd? «Non si tratta di abbandonarlo. L’intuizione di Veltroni, che al Lingotto propone il Pd come forza di cambiamento, è importante. Ma poi deve fare i conti con due problemi: la politica italiana non si rivela riducibile a un sistema bipartitico. E nella prova elettorale del 2008 la scelta tattica dell'alleanza con Di Pietro si rivelerà fatale e ne comprometterà il cammino perché in netto contrasto con la vocazione maggioritaria. Quindi arriva Bersani, che colloca il Pd al centro di una strategia di alleanze e punta molto sulla costruzione del partito. Ma le difficoltà emergono sia per l'incertezza nella politica delle alleanze, sia perché il modello organizzativo tradizionale non produce gli effetti sperati. In entrambi i casi l’unica cosa mai messa in discussione è il carattere dell'atto fondativo tra ex Dc e ex Pci. Rileggere queste scelte che, sia chiaro, ci hanno visto tutti compartecipi, può aiutarci a capire le ragioni delle difficoltà e dell’affanno di oggi».
Quindi, senatore Latorre, lei ritiene che occorra superare quella "vecchia" concezione del partito. Pensa a un Pd allargato ad altri soggetti?
«No. Il nuovo atto fondativo richiede la partecipazione di nuovi soci fondatori ai quali noi non possiamo chiedere di aggregarsi al Pd. Essi devono sentirsi protagonisti di questo nuovo atto fondativo».
E chi sarebbero, oltre a voi, i soci fondatori?
«La Sel di Vendola e le espressioni di quei movimenti, anche cattolici, che stanno emergendo in nome di una domanda di giustizia e di cambiamento».
Il Pd pensa all'ennesimo partito e intanto la situazione socio-economica è esplosiva. Non la state sottovalutando?
«No, il tema alla base del nostro progetto politico non può più essere quello di come si tengono insieme gli eredi del Partito comunista italiano e quelli del cattolicesimo democratico. Oggi semmai si tratta di tenere insieme le ragioni di un radicalismo che nasce dalla natura del conflitto sociale in atto e quelle di un progetto credibile di cambiamento possibile. Noi siamo dinanzi a uno di quei passaggi cruciali che fa impallidire la sfida affrontata per entrare nell'euro. Dovremo ridurre il debito entro il parametro del 60% del Pil che oggi è al 118%. Si può perseguire questo obiettivo con una svolta nel senso di un capitalismo autoritario, oppure con una tenuta della democrazia intesa come attiva partecipazione delle diverse forze sociali. Tertium non datur».
Svolta autoritaria, non sta esagerando?
«No. La mia sensazione è che noi abbiamo archiviato in tutta fretta la vicenda Fiat. In quel modo di pensare le relazioni industriali possono esserci i germi di un'dea più complessiva di governo delle nostre società. Ci siamo divisi tra chi sta con questo e chi con quello, ma non ci siamo soffermati sul significato profondo di quel passaggio. E cosa è stato se non una risposta in chiave autoritaria alla sfida della competitività nell'era della globalizzazione? E' urgente tornare a riflettere su tutto questo. Ma c'è un altro aspetto su cui non stiamo ragionando molto. Quello della tenuta dell'unità nazionale. Non illudiamoci, non sarà più proponibile il modo di stare insieme degli italiani che abbiamo fin qui conosciuto».
Il nuovo atto fondativo è un escamotage per impedire le primarie?
«No. E' mia convinzione che siano da eliminare le primarie di coalizione. Ma è utile mantenerle per scegliere la leadership del partito».
Primarie a cui potranno partecipare tutti i soci fondatori: Vendola, Renzi, Zingaretti...
«Certo. E' esattamente quello che auspico. Così le primarie sono utili e rafforzano il partito nel rapporto con la società e i possibili alleati. Così saremo più forti anche nel proporre all' Udc un'alleanza elettorale per governare insieme questo passaggio e Casini dovrà scegliere senza alibi».
Bersani può guidare questo processo?
«Bersani ha tutte le qualità e la forza per promuoverlo».
Se si va subito al voto non c'è il tempo per fare tutto quello che lei propone.
«Se di qui alle elezioni ci sarà il tempo per fare le primarie vuol dire che ci sarà tutto il tempo per portare a compimento questa svolta. Se non ci sarà tempo per concluderla, tantomeno ci sarà il tempo per le primarie e allora in situazioni di emergenza si adottano misure di emergenza e quelle possono valutarsi solo al momento. Ma sono certo che questo tempo ci sarà».

Repubblica 28.11.10
Dio nel terzo millennio Blair sfida Hitchens
di Enrico Franceschini


Un EX primo ministro convertito al cattolicesimo e uno scrittore che predica l´ateismo. Tony Blair, premier britannico per un decennio, oggi impegnato tra le altre cose a dirigere una fondazione per il dialogo tra le fedi. E Cristopher Hitchens, giornalista, intellettuale.

Per l´ex primo ministro bisogna "badare all´essenza del messaggio di Gesù"
Al giornalista "non dispiace nemmeno il messaggio di Medici senza frontiere"
Alla base di ogni religione, c´è l´amore per il prossimo, l´altruismo, l´umiltà. Senza fede il mondo sarebbe vuoto
Possiamo chiamare Dio chi sfrutta la credulità umana? La religione spinge persone intelligenti a fare sciocchezze

Autore del recente bestseller God is not great: how religion poisons everything (Dio non è grande: come la religione avvelena ogni cosa). Due formidabili oratori inglesi si affrontano in un teatro di Toronto su uno dei temi più discussi del nostro tempo: «La religione è una forza per il bene o per il male?» Un dibattito reso ancora più appassionato dalla malattia che ha colpito Hitchens, in cura per un tumore che, secondo la sua stessa previsione, non gli lascerà molto da vivere. Eccone un estratto.

Hitchens : «La religione offre all´uomo la salvezza, al piccolo prezzo di rinunciare a tutte le sue facoltà critiche. Possiamo chiamare Dio chi sfrutta la credulità umana? Chi alimenta la fede attraverso la nostra paura della morte? Chi ci condanna alla vergogna per gli atti sessuali? Chi terrorizza i bambini con le fiamme dell´inferno? Chi considera le donne come una specie inferiore? Chi vuole farci credere che l´uomo è stato creato invece che essersi evoluto? La religione spinge persone intelligenti a fare stupidaggini".
Blair: «Lo ammetto senza problemi: molto male viene fatto nel mondo in nome della religione. Ma in nome della religione viene fatto anche del bene. Metà degli aiuti che giungono all´Africa provengono da organizzazioni religiose: cristiane, musulmane, ebraiche. Ospizi, ostelli, mense per i poveri, sono gestiti in tutto il mondo da enti religiosi. Sicché diciamo che la religione può essere distruttiva, ma anche sospingere ad atti di grande compassione. E poi quale è il concetto fondamentale alla base di ogni religione, del cristianesimo come dell´ebraismo e dell´islam, del buddismo come dell´induismo? E´ l´amore per il prossimo, l´altruismo, l´umiltà».
Hitchens: «Il signor Blair fa attualmente il mediatore di pace in Medio Oriente. Ebbene perché non si è ancora riusciti a fare un accordo sul concetto che tutti individuano come la soluzione del conflitto israeliano-palestinese, due stati per due popoli? Perché ciascuna delle due parti cita a proprio favore le promesse divine, e sulla base di quelle promesse uccide i bambini dell´altra parte. E questa sarebbe una forza che agisce per il bene nel mondo?»
Blair: «Posso assicurare, per esperienza personale, che purtroppo non solo la religione è un ostacolo alla pace tra israeliani e palestinesi. Proviamo a immaginare un mondo senza religione: d´accordo, tutti i fanatismi religiosi sarebbero scomparsi. Ma credete forse che in tal modo scomparirebbe il fanatismo? Le due più grandi tragedie del ventesimo secolo, fascismo e comunismo, sono venute da movimenti che negavano la religione».
Hitchens: «Certo che il fanatismo non scomparirebbe con la religione. Ma aspettiamo che qualche fanatico religioso metta le mani su un´arma nucleare, come succederà presto in Iran, e poi vedremo quali danni può fare il connubio fanatismo-religione».
Blair: «Ripeto, so benissimo che la religione può essere usata per azioni terribili. Ma vi chiedo di non giudicare la religione sulla base di chi ne fa un uso perverso, così come non bisognerebbe giudicare la politica attraverso i cattivi politici o il giornalismo attraverso i cattivi giornalisti. Il mondo sarebbe spiritualmente vuoto senza la religione».
Hitchens: «Ma perché? Chi lo ha detto? Socrate e i filosofi greci ci hanno dato una morale con cui riempire il nostro spirito, senza bisogno di ricorrere alla religione, che peraltro ha copiato proprio dai filosofi greci non pochi dei suoi precetti morali. È un insulto all´intelligenza sostenere che l´uomo non saprebbe distinguere tra bene e male senza la religione».
Blair: «Per te l´umanesimo è una sufficiente base morale di rettitudine. Ma per certa gente non basta. Per la maggior parte dell´umanità, la religione è una spinta fondamentale a operare per il bene».
Hitchens: «Non mi dà mica fastidio che i sinceri credenti operino per il bene. Sarei anche disposto ad accettare la religione, se si limitassero a questo. Quello che non sopporto è tutto ciò che viene costruito intorno: l´esistenza di un essere sopranaturale, i miracoli, il paradiso, l´inferno. Insomma, andiamo, siamo nel ventunesimo secolo, sappiamo cosa dice la scienza!».
Blair: «Ma nelle religioni c´è spazio per diverse interpretazioni. Non badare all´inferno e al paradiso, alle tradizioni che accompagnano le manifestazioni e i riti della fede. Bada all´essenza di quel che dicono le sacre scritture. All´essenza del messaggio di un uomo chiamato Gesù».
Hitchens: «A me non dispiace neanche il messaggio di Medici senza Frontiere».
Blair: «Comunque penso che un confronto come questo sia positivo, per i credenti come per chi non crede».

l’Unità 28.11.10
False notizie
Se il mondo diventa il paradiso delle balle
Disinformazione La criminalità declina da vent’anni ma nessuno lo dice. La Cina è una paese pacifico ma viene definito aggressivo. L’Europa non vuole soluzioni violente, si dice. E allora come si spiegano le crescenti spese militari?
di Pino Arlacchi


Inizia oggi un nuovo appuntamento, più o meno regolare, chiamato «Bufale e inganni». Condividerò con i lettori sia riflessioni legate all’attualità della politica soprattutto internazionale, sia argomenti più meditati. Il filo conduttore sarà la critica delle distorsioni informative, delle false notizie e degli stereotipi a senso unico che hanno l’effetto di annebbiare le nostre coscienze. Metterò a disposizione le conoscenze che ho accumulato in decenni di studio e di impegno nella vita pubblica, e che mi hanno portato alla convinzione che siamo vittime di un grande inganno, che ci impedisce di proseguire lungo la strada del progresso e dell’emancipazione.
Il grande inganno è una gigantesca manipolazione delle coscienze, effettuata su una scala mai conosciuta in passato. Viene prodotto dai conglomerati dell’informazione, dai governi, dagli apparati militari e della sicurezza, prevalentemente americani.
Il grande inganno produce senza sosta una delle emozioni più potenti: la paura. Un senso di angoscia che ha finito con l’avvolgere quasi ogni notizia e valutazione sui fatti del mondo. Mi ha molto colpito l’affermazione di un noto giornalista, Giampaolo Pansa, che ha condensato in poche righe il significato peggiore del grande inganno: «Per anni la lettura dei quotidiani, ogni mattina, è stato il rito professionale che dava inizio alla mia giornata e mi spalancava una finestra sul mondo. Oggi la mazzetta della carta stampata mi dà ansia, non vorrei aprirla per non provare nuovi terrori». Ma questo tipo di paura è al tempo stesso un’emozione artificiale, indotta, perché ha solo tenui riscontri con ciò che accade. La produzione del panico implica la diffusione di menzogne che hanno lo scopo di metterci sulla difensiva e farci sentire più fragili di quanto siamo.
Il grande inganno è un’operazione reazionaria. È di destra, nel senso della sfiducia e dell’odio verso il progresso e l’emancipazione umana. Esso costruisce mostri dove esistono solo alterità scomode. Inventa pericoli mortali dove agiscono solo processi di cambiamento che rovesciano vecchi equilibri. Qualche esempio.
Da occasione di crescita della stabilità globale, l’attuale ascesa della Cina viene trasformata in una fonte di apprensione e di conflitto. Le cifre sulla spesa militare cinese vengono inflazionate oltre ogni misura ed il loro significato stravolto per agitare lo spauracchio di una Cina intenta a soverchiare il mondo. Si inventano dal nulla scontri e guerre prossime venture tra India, Cina e Giappone ignorando tutte le evidenze contrarie. E ignorando che la Cina è una potenza essenzialmente pacifica, che ha fatto pochissime guerre, ed i cui filosofi avevano “scoperto” la superiorità della pace e predicato l ́avversione alla guerra 2500 anni prima che l’Occidente pervenisse alla stessa conclusione.
L’emersione dell’Unione Europea come potenza civile, non aggressiva, che preferisce soluzioni non militari alle crisi internazionali, che non si sente attaccata né minacciata da nessuno, viene etichettata nei termini di una “Venere” europea contrapposta a un “Marte” americano. E si invitano gli europei a raddoppiare la loro spesa militare per potersi misurare con i cataclismi incombenti. E che non si materializzano mai.
Il recupero della Russia dopo 10 anni di capitalismo mafioso, e il suo rientro nella scena internazionale con un programma di tranquilla cooperazione multilaterale è stato accolto dai signori del grande inganno come una nuova minaccia posta da un regime tirannico al sistema internazionale.
Posti di fronte al declino del terrorismo internazionale, si rispolvera l ́imbroglio dello scontro di civiltà con l ́Islam. E si amplifica oltre ogni limite un episodio isolato, senza antecedenti né conseguenze catastrofiche, cioé l’attacco terroristico dell ́11 settembre 2001, giungendo a paragonarlo a una quarta o quinta guerra mondiale.
Vari governi europei stanno cavalcando in questi anni il tema dell’emergenza criminale che sarebbe stata creata dall’immigrazione. L’inganno qui consiste nel negare l’evidenza più palmare. La criminalità violenta declina in gran parte del pianeta, e non da oggi, ma da quasi venti anni. Non esiste, inoltre, alcuna correlazione tra aumento della criminalità e immigrazione.
A questa frode si prestano molti media occidentali, che promuovono l’isteria collettiva sui crimini commessi da stranieri. Il silenzio più totale è calato, perciò, sulle ricerche compiute nelle più prestigiose università americane, che dimostrano come l’ultima ondata migratoria abbia addirittura fatto diminuire la criminalità violenta negli Usa (e forse anche in Europa). E se a quanto detto finora aggiungiamo la quasi scomparsa delle guerre internazionali e dei genocidi, il crollo delle guerre civili e dei colpi di stato perfino in Africa, e la parallela espansione dei regimi democratici e degli strumenti della distensione e della cooperazione tra popoli, abbiamo gli elementi per comporre un quadro opposto a quello dipinto dai costruttori di paura.
Nel corso dei prossimi appuntamenti, denunceremo uno per uno gli spettri del disordine e del caos planetario che vogliono derubarci della nostra capacità di progredire, di risolvere i grandi problemi proprio nel momento in cui disponiamo di risorse immense per affrontarli. Sono stato al vertice delle Nazioni Unite, e se c’è una cosa che ho imparato dal trattare i drammi del pianeta, è che non ci sono problemi umani, creati dagli uomini, che gli uomini stessi non siano in grado di risolvere.

Corriere della Sera 28.11.10
Menzogna
Come costruire un falso e diffonderlo nel mondo
Nella storia gli ebrei non sono le uniche, ma le più ricorrenti vittime del pregiudizio
dialogo di Claudio Magris con Umberto Eco


Claudio Magris (Trieste 1939) scrittore
Se una tesi è folle, proprio perché folle, non può essere razionalmente confutata, così come non si può confutare un pazzo. Nella storia si diffondono idee deliranti, o anche solo pregiudizi, resistenti e impermeabili a tutte le smentite da parte della ragione e della realtà
Umberto Eco (Alessandria, 1932) scrittore e semiologo
Quello che il mio romanzo cerca di mostrare è che i dossier, e anche i testi antisemiti, sono composti unicamente da ritagli stampa, e quasi sempre di stampa scandalistica, perché la gente, compresi i capi dei servizi segreti, credono solo a quello che hanno già sentito affabulare

Umberto Eco — I romanzi di avventura non affascinano soltanto noi, che dici, persone dalle letture sofisticate. Quello che il mio romanzo cerca di mostrare è che sono stati usati proprio per la stessa costruzione dei testi antisemiti, perché la gente (compresi i capi dei servizi segreti) credono solo a quello che hanno già sentito affabulare da qualche parte. Per questo, ancora oggi, i dossier segreti sono composti unicamente da ritagli stampa, e quasi sempre di stampa scandalistica, il feuilleton dei giorni nostri.

C’è un sito Internet che farebbe la delizia di Umberto Eco e che, se gli fosse capitato sott’occhio, avrebbe potuto essere incluso in quel Sabba di deliri, falsificazioni, truffe e pasticci granguignoleschi che è il suo ultimo romanzo Il cimi
tero di Praga. Il sito si intitola Nazismo. E’ una setta neopagana di origine manichea e sostiene che il nazismo sia una congiura ebraica, un orrore creato e voluto dagli ebrei; non si nega Auschwitz ma si dice che a commettere quelle efferatezze, poco importa se su propri correligionari, sono stati gli ebrei, che i più nefandi gerarchi nazisti erano ebrei e così via. Il Terzo Reich sarebbe stato dunque uno dei tanti criminosi tentativi ebraici di dominare il mondo.
Questa tesi, proprio perché è folle, non può essere razionalmente confutata, così come non si potrebbe confutare un pazzo il quale sostenesse che siamo tutti pazzi e che ciò che crediamo di vedere — la nostra casa, il Duomo di Milano, il mare di Trieste — non esiste ma è solo il frutto del nostro delirio; se fossimo veramente folli e se quelle fossero veramente solo nostre allucinazioni, non potremmo accorgercene ed esserne consapevoli. Questo è un caso estremo, fortunatamente relativo a pochissime persone o magari a una sola, di un fenomeno sciaguratamente diffuso ossia della terribile forza delle idee deliranti e anche solo del pregiudizio, della loro resistenza e impermeabilità a tutte le smentite da parte della ragione e della realtà.
Nella storia, gli ebrei non sono le uniche, ma sono le più ricorrenti vittime del pregiudizio spinto sino al vaneggiamento e all’atrocità. Chi è convinto a priori che gli ebrei commettano omicidi rituali non si scoraggia se nessuno di questi delitti è stato dimostrato, perché nella sua mente sviata ciò che conta non è il fatto accidentale che tale delitto sia stato o no perpetrato, bensì la criminosa vocazione a commetterlo latente a suo avviso nell’animo dell’ebreo, vocazione che non può essere verificata e dunque nemmeno confutata.
Sia per quel che riguarda tragedie delittuose come l’antisemitismo o la persecuzione di altri popoli, gruppi, classi o religioni, sia per quel che riguarda preconcetti meno feroci ma sempre potenzialmente violenti, siamo quasi tutti inclini a soggiacere al pregiudizio, a vedere ciò che a priori siamo convinti che vedremo. Ho già raccontato come un mio professore di liceo, peraltro ottima persona, raggiunto sulla testa calva da una pallina di carta, si fosse messo ad accusare un allievo innocente e, anche quando il vero colpevole si era alzato dicendo di essere stato lui, avesse continuato a dire che, sì, in quell’occasione le cose si erano svolte in quel modo, ma che l’altro, con la sua prava tendenza a gettare palline (anche se quella volta non l’aveva fatto) era da tenere d’occhio… Leopardi osserva sconsolato che il pregiudizio è più forte della ragione e che spesso la lotta non è tra questi due, bensì fra un pregiudizio e un altro…
Nel Cimitero di Praga non sono solo gli ebrei a essere accusati — in base a documenti falsi o nascosti o inventati o supposti o autentici ma fraintesi — di mirare con tenebrose e turpi trame al dominio sul mondo; insieme ad essi — e quasi interscambiabili pur essendo in molti casi loro avversi — ci sono i gesuiti, i massoni, i garibaldini, i monarchici, mentre anche accusatori, delatori e falsari si scambiano ruoli, nazionalità, appartenenze ideologiche.
«Il fatto che gli ebrei siano al centro di queste macchinazioni — chiedo a Umberto Eco — sta a significare pure che essi sono i perseguitati e calunniati per eccellenza e quindi in tal caso simbolici rappresentanti di tutte le vittime della menzogna, un terribile modo di essere il Popolo Eletto?».
Umberto Eco — Una volta Avraham Yehoshua mi aveva chiesto di partecipare a un libro collettivo (non so se poi l’abbia messo insieme) in cui si domandava praticamente «perché proprio gli ebrei?». Ricordo che allora gli avevo detto di no perché, qualunque cosa avessi detto, ci sarebbe stato un ebreo che si sarebbe arrabbiato — dato che in queste cose i «goym», i gentili, non devono mettere naso. Ora il naso ce l’ho messo ma non ho voluto rispondere a questa domanda. Tu, in particolare in Lontano da dove, hai cercato di capire il mondo ebraico, almeno quello dell’est Europa, dal di dentro, ed è grazie a te se lo abbiamo capito meglio. Io di proposito nel mio romanzo di ebrei non ne ho messi, salvo una ragazzina che appare per mezzo minuto, e un dottor Freud di passaggio. Il mio personaggio, antisemita feroce, di ebrei non ne ha mai incontrati. E’ questo l’aspetto dell’antisemitismo che mi ha sempre colpito. Si può essere antisemita senza aver mai visto un ebreo, come si può essere fondamentalmente pedofilo senza aver mai avuto il coraggio di toccare un bambino. Quello che io metto in scena è il discorso dell’antisemitismo, ed è questo che ossessiona il mio Simonini, che «vende» gli ebrei come fantasma, come un Altro che è necessario immaginare per rinforzarsi nella propria identità nazionale o provinciale. Dice nel romanzo Rachkovskij, il capo dello spionaggio russo, che gli fanno comodo gli ebrei perché ci sono ebrei in Russia, se lui dovesse occuparsi della Turchia se la prenderebbe con gli armeni. Ora, se dovessi adesso rispondere a Yehoshua, direi che tutti gli Altri che sono apparsi nel corso della storia (pensa ai barbari dei Romani o dei Greci, o alla serie degli eretici) hanno avuto vita breve. Gli ebrei, popolo del Libro, a causa della forza della loro cultura e della loro capacità di mantenere intatta la loro identità nei secoli, si sono qualificati come l’Altro più resistente, e quindi su di essi si scarica (quasi per inerzia) l’odio — o almeno la diffidenza — per il diverso.
Claudio Magris — Nel romanzo il personaggio principale, se così si può definirlo, si sdoppia; è una ripresa del grande mito del doppio che si trova in tanta letteratura e anche nella vita concreta, come ad esempio quel caso clinico del carpentiere Ansel Bourne che un bel giorno si convinse di essere, almeno a intervalli, il negoziante Albert Brown; ognuno dei «due», quando era il suo turno, non sapeva di essere stato l’altro. Sembra ci siano stati casi — rarissimi — di un individuo con sedici personalità alternanti; del resto non è stata ancora localizzata, nel cervello, la sede dell’autocoscienza. Ma nel romanzo non solo Simonini e Dalla Piccola, ma quasi tutti sono in qualche modo «altri», fluidi rispetto a se stessi, in una giostra vorticosa in cui i personaggi sono come maschere che ci si toglie e ci si mette, ed esiste forse solo il girotondo farsesco e crudele della vita…
Umberto Eco — Il doppelgänger, il doppio, è fondamentale nella storia della letteratura. Quando ho scritto L’Isola del giorno prima, che era romanzo «in barocco», sono stato obbligato a introdurre un doppio perché i trattatisti dell’epoca lo ritenevano indispensabile in un romanzo. Nel caso di questo ultimo romanzo, ovviamente, la doppiezza faceva parte essenziale del personaggio e del mondo che lo circondava, e sono andato a cercare negli studi sull’isteria di Charcot e compagnia la fenomenologia dell’io diviso. Il dramma si raddoppia quando l’Altro, oltre che davanti a te, è dentro di te.
Claudio Magris — Una forma di pregiudizio delirante che è da sempre un tuo bersaglio preferito è la febbre del complotto, la mania di vedere dovunque congiure, intrighi, manovre segrete. Sul piano individuale come su quello collettivo, la paranoia è sempre in agguato ed ha una forte suggestione. Non ti sembra tuttavia che la cronaca politica offra sempre più motivi per chiedersi se non vi siano realmente trame oscure, complotti volti a soffocare sempre più le libertà? Sappiamo forse quello che è successo a Ustica o nell’assassinio di Kennedy? Quando la verità appare pericolosa per l’ordine esistente, essa viene a galla soltanto quando non è più politicamente efficace e pericolosa, ossia troppo tardi.
Umberto Eco — Io penso che i complotti siano sempre esistiti, come quello per uccidere Giulio Cesare o l’accordo tra Vittorio Emanuele III, Badoglio e Grandi per deporre Mussolini. Ma quando riescono, vengono subito alla luce (pensa al complotto della P2, non solo viene alla luce, ma i suoi uomini sono ora al governo), e a maggior ragione vengono alla luce quando falliscono, dalla congiura di Catilina al Piano Solo. Quelli che tu citi sono misteri irrisolti (Ustica può essere dovuto a mille motivi oltre che a un complotto e così dicasi dell’assassinio di Kennedy). Ci possono essere azioni di copertura perché i misteri irrisolti rimangano tali. Ma la paranoia del complotto (e i Protocolli dei Savi di Sion ne sono l’esempio più malauguratamente insigne) consiste nel pensare a un complotto permanente, alla presenza di un direttorio occulto che dirige le sorti del mondo — quando neppure il presidente degli Stati Uniti ci riesce. La paranoia del complotto esclude dalla storia la complessità, l’imprevisto, la serendipità, la libertà del caso, le astuzie della ragione, l’eterogenesi dei fini. Per questo è paranoia.
Claudio Magris — Ti ho visto in una trasmissione televisiva ammirando la tua gattesca genialità nel non lasciare intrappolare il tuo libro in alcuna gabbia ideologica. Sono rimasto tuttavia perplesso, perché tutte le domande vertevano su fatti e problemi, l’antisemitismo, i massoni, i gesuiti e così via, come se si stesse discutendo di uno studio storico e non di un romanzo, in cui contano sì i fatti e le idee, ma conta soprattutto come essi vengono raccontati, reinventati, come diventano linguaggio. Ci si ricorda certo del pensiero di Aristotele o delle eresie nel Nome della rosa, ma quel che resta per sempre in cuore è la poesia del mistero nascosto nella geometria, dell’amore, del vento sul fiume o sul fuoco, la malinconia di conoscere solo i nomi della vita e non la vita…
Umberto Eco — Dovresti sapere per esperienza diretta che la gente non sa leggere i romanzi. Non sa leggere neppure i saggi, ma la maggior parte delle persone che ti scrivono dopo che hai pubblicato un’opera di narrativa, sono andati a controllare se quella cosa là è accaduta davvero, o attribuiscono all’autore le cose dette da un personaggio. Dopo il mio Nome della rosa sapessi quanti volevano sapere dov’era il manoscritto a cui mi ero ispirato, senza accorgersi che era un’allusione, peraltro sin troppo chiara, al manoscritto manzoniano. Però penso sia giusto che per il mio romanzo ultimo ci si sia appuntati sui suoi contenuti «storici»: a me non importa tanto che se ne apprezzi la tecnica narrativa (anche se ci ho faticato tanto) ma, per così dire, l’impulso morale. Volevo contribuire a smontare un mito che sopravvive sempre. Un recensore poco amichevole ha chiesto perché dovevo perdere tempo a dimostrare che i Protocolli sono un falso quando è già stato ampiamente dimostrato. Ma santiddio, proprio perché, malgrado tante dimostrazioni, nella maggior parte del mondo continuano a prenderlo sul serio. Sarebbe come dire che non ci si deve occupare di confutare i negazionisti perché si sa benissimo che sono dei pazzi. Però continuano a convincere un sacco di gente. Ho scritto sperando che un romanzo sia più persuasivo di un saggio, e ho usato la forma romanzo per raccontare una storia vera — in fondo sai bene che se sappiamo qualcosa di Mazzarino è perché ce lo ha detto Dumas, e baobab e paletuvieri li conosciamo attraverso Salgari.
Claudio Magris — Sì, quelle incomprensioni accadono spesso e in particolare, forse, nei confronti di autori come noi, dai quali ci si attende sempre qualcosa di «oggettivo», di storico o di scientifico… A me accade con Danubio e anche con altri libri ben più inventati. A parte questo, il complotto, l’intrigo sono elementi costitutivi del romanzo d’avventura, di cappa e spada. Siamo entrambi persone di letture anche sofisticate, ma a formare il nostro immaginario sono stati essenzialmente i romanzi d’avventura, in cui tutto è possibile, insieme oscuro e giocoso, e sempre si tendono agguati e tranelli e si tessono piani delittuosi. Gli intrighi e veleni di Milady, i disegni di Richelieu nei Tre moschettieri, il perfido piano contro il Conte di Montecristo seducono anche chi si affanna a non credere ai complotti, ma la cui fantasia si infiamma al primo accenno di un intrigo…

Corriere della Sera Salute 28.11.10
È la mente, non il cuore, il vero zingaro


Donne e uomini non sempre sono concentrati su ciò che stanno facendo, perché non possono fare a meno di viaggiare con la mente. Circa il 30% delle persone lo fa durante tutte le attività quotidiane.
Ma far volare i pensieri non serve sempre ad aumentare il senso di benessere psicologico. Lo indica uno studio pubblicato sulla rivista Science, condotto da ricercatori dell’Harvard University di Cambridge (Usa), che hanno creato un’applicazione per iPhone che contatta le persone in momenti casuali della giornata ponendo loro domande. In questo esperimento ai 2.250 adulti coinvolti sono stati posti quesiti sul loro grado di felicità in quel momento, su che cosa stessero facendo, e se stessero pensando a qualcosa di diverso rispetto all’azione in corso. Si è così scoperto che esiste una scala di crescente felicità provata durante varie azioni quotidiane: si va dal livello minimo del sonno e del lavoro, al momento del trasferimento per pendolarismo, al fare i lavori di casa, leggere, prendersi cura dei figli, ascoltare musica, parlare con gli altri, fare esercizio fisico, fino al fare l’amore. Il livello di felicità è però influenzato anche dal contemporaneo vagabondaggio mentale: è minimo quando si pensa a qualcosa di spiacevole, per poi crescere se si pensa a qualcosa di piacevole. Ancora maggiore risulta però il benessere psicologico quando la mente non vola ed è concentrata su ciò che si sta facendo. «La mente umana è vagabonda» affermano i ricercatori, «e una mente vagabonda è una mente infelice. Saper pensare a qualcosa che non sta succedendo in quel momento è un traguardo cognitivo, che però ha un suo costo emotivo».

il Fatto 28.11.10
Le età dell’innocenza
di Furio Colombo


Curiosa storia italiana: un acceso dibattito su (tra) giovani e vecchi continua nelle stanze della politica, mentre giovani veri occupano dovunque gli spazi vuoti. Il potere inerte, più o meno giovane, più o meno anziano non vede.
Quanto conta l’età in politica, un mondo nel quale uno dei più giovani presidenti degli Stati Uniti (45 anni all'inizio della campagna elettorale) è stato lanciato e sostenuto dal senatore Kennedy (vicino agli 80 anni)? C’è il tempo dell’età, che, quando è avanzata, è venerabile e saggia. E c’è il tempo dell’età, che, quando è giovane, deve farsi largo a spallate per non restare prigioniera dei morti.
I due movimenti, che quasi regolarmente si alternano nel percorso diverso ma identico, di tanti gruppi umani, di solito è legato alla tecnologia. L’evoluzione graduale è a vantaggio degli anziani che sono in grado di passare insegnamenti utili ai più giovani. Il cambio brusco e totale è l’arma dei più giovani che portano conoscenze e tecniche nuove di cui gli anziani non sanno niente e hanno una ragione in più per sgomberare il campo: se ne vadano subito gli anziani incompetenti. Poi ci sono periodi vuoti della storia, o almeno estenuanti intervalli, in cui è ancora in scena la coda del corteo (“il vecchio corteo”) e la testa del nuovo corteo si sta appena affacciando. Ora è legittimo sostenere che il corteo giovane non può farsi avanti perché il corteo dei vecchi occupa ancora lo spazio e ogni passaggio è bloccato dalle cariatidi del prima. La constatazione è nello stesso tempo vera e falsa, rivelatrice e inutile, accurata e sfuocata.
SE CONFRONTATA con il passato, poi, risulta priva della conoscenza di fatti che hanno sempre segnato l’avvicendarsi di generazioni. Chi esce non solo si porta via il fardello dell’età e il privilegio del potere, ma anche le “vecchie idee”, contro cui il mondo si ribella. Chi entra si è fatto spazio con l’impeto e il diritto dell’età, ma trasportando dentro (“dentro” è lo spazio della storia) idee nuove. Nuove al punto da essere sconvolgenti. È stato il caso dei Lumi, della rivoluzione francese, di quella americana, del fascismo, dell’occupazione leninista del marxismo. In altre parole, non resta traccia del subentrare di una nuova leva, quando i giovani sono uguali ai vecchi. Ovvero è ordinaria amministrazione da registro di stato civile. Eppure c’è ancora chi si impegna a descrivere l’ingorgo della politica con una sequenza di date di nascita. È vero che Matteo Renzi ha solo 35 anni (forse non per sempre) e che Umberto Veronesi ne ha 86. Ma possiamo dire che è questa la differenza tra i due? È verissimo che molti posti e luoghi della politica sono occupati (per esempio nel Pd) da sessantenni. Ma è anche vero che – tra gli studi di avvocati o di medici – è probabile che dominano la scena siano guidati da professionisti non tanto giovani, che sono arrivati dove sono arrivati con anni di lavoro. Se mai, il giudizio cade sul tipo di successo. Un avvocato di successo è Cesare Previti. Vogliamo dire che il suo problema è l’età? Sto facendo riferimento al lancio di una nuova pubblicazione. Si chiama “Week” e inaugura la copertina con i ritratti di Berlusconi, Fini, Bossi, D’Alema e la scritta “Siete vecchi”. Il titolo della pubblicazione è più generale: “Il potere dei grandi vecchi”.
PROGETTO grandioso. Annuncia che la pubblicazione si occupa di demografia e di politica. Demograficamente si tratta di dimostrare se è vero che tutti i percorsi di comando sono bloccati da grandi vecchi che impediscono il passaggio ai nuovi giovani. Il demografo risponderebbe: certe volte sì, certe volte no. Qualche volta per ragioni di valore (Luciano Berio è morto mentre, a 76 anni, era il presidente dell'Accademia di Santa Cecilia, ma era anche il più grande compositore italiano nel mondo), molte altre (imprese, finanza, banche) per ragioni di monopolio personale di un potere. Ma la domanda del politologo è un’altra, completamente diversa: qual è il giudizio politico? Esempio: due grandi capi di Stato, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, alla stessa età erano altrettanto vecchi? Qualcuno ha mai pensato al ritiro o al pensionamento di Papa Wojtyla? E perché i due settantenni che – negli Usa – sono stati appena eletti a capo delle due maggioranze, alla Camera (repubblicana) e al Senato (democratica) non sono visti come vecchi ma come espressione di parti dell'elettorato? Il politologo osserverebbe che l’irrompere dei giovani su una scena occupata da anziani avviene solo in due modi: forza fisica e nuove idee. In qualche caso (il fascismo) l’uno e l’altro. Nuovo non vuol dire sempre migliore . Ma in certi momenti della storia l’elemento antropologico – puro e semplice diritto generazionale di entrata – prevale. Accade soprattutto se gli anziani o i semianziani non si pongono il problema di fare spazio di propria iniziativa. Questo fatto, non l’età giovane, tanto spesso impropriamente citata, segna la vita politica di altri Paesi. Ho parlato del senatore Ted Kennedy, come il vero grande scopritore e sostenitore di Obama. Il più vecchio, senatore, rieletto otto volte, ha aperto la strada presidenziale al più giovane, eletto al Senato per la prima volta. Ma il politologo ricorderebbe anche che, in America, Paese giovane, nessuno ha mai trovato “troppi” gli ottant’anni del senatore del Massachusetts, e mai nessuno, compresi gli avversari, ha mai pensato che la candidatura del giovane Obama presentata da quel senatore troppo anziano fosse da rifiutare perché iniziativa della classe anziana.
Copertina e articolo di “Week” sono la terza spallata generazionale in un mese. È un mese segnato da un caos nel quale l’attivismo disordinato e incontinente del presidente del Consiglio una incontinenza pubblica e privata non ha come carattere la vecchiaia, che pure si nota, ma prepotenza, ricchezza, arroganza, compravendita e ricatto di un giacimento politico morente, morente in senso politico. Eppure “Week” pensa che l’Italia sia bloccata dalla vecchiaia, non dal malgoverno. È più o meno la stessa idea di Matteo Renzi, che ha invitato d’urgenza gli “Under Forty” a Firenze con accesso garantito (5 minuti) al microfono cercando non un’idea o un progetto, ma il certificato di nascita.
QUASI NEGLI STESSI giorni, con un'iniziativa identica, il ministro della Gioventù Giorgia Meloni invita a Roma, affinché si esibiscano nel circo da lei inventato, “i giovani talenti”. Come se il talento, in Italia, fosse bloccato dalla barriera dell’età e non da quella di corporazioni neomedievali impenetrabili impegnate a sorvegliare gli ingressi e a imporre percorsi di cooptazione per affinità e parentela. Come finisce il circo della giovinezza se ci si batte per il posto occupato nella stessa fila davanti a noi invece che scardinare lo stato delle cose con una diversa idea del mondo, della vita, degli altri esseri umani, del mio futuro, di quello degli immigrati? Va a finire, con la nuova pubblicazione e il suo di\rettore Adinolfi, come il loro campione generazionale un certo Filippo Candio che, a soli 27 anni, ha vinto tre milioni di dollari ai mondiali di poker a Las Vegas. Alcuni di noi, anche in tarda età, pensano che i giovani impazienti ed esclusi abbiano un loro progetto, un sogno un poco più grande della realtà in cui sono bloccati. Infatti sono in arrivo. Ma non sono diretti verso le stanze interne della politica.

il Fatto 28.11.10
Lessico familiare
Gudrun Himmler Allucinazioni di una figlia devota
Ricordi  d’infanzia di una vecchietta che organizza raduni nostalgici: “Andai in gita a Dachau. Ho visto i disegni dei prigionieri, non ricordo fossero tristi”
di Marco Dolcetta


Sembra di vivere un incubo del passato, ma è la realtà: bandiere, elmetti nazisti, saluti e mano alzata, dopo qualche ritegno iniziale si passa al cameratismo spiccio, ci saranno pure i poliziotti in borghese a vedere, registrare, filmare, ma loro se ne fregano …
Alla periferia sud di Monaco di Baviera, in un anonimo villino bianco abita una coppia di anziani signori. Sono i coniugi Burwitz. Lui molto abbronzato, giovanile, di professione giornalista scrittore. La cosa più sorprendente di questo signore è la sua capacità di ricordare e citare a memoria, minuto per minuto il succedersi degli avvenimenti della vita di suo suocero che fra l’altro non ha avuto l’opportunità di conoscere. La moglie Gudrun è la figlia di Heinrich Himmler, alta, segaligna, occhi chiari, espressione lievemente vaga. La cantina di casa è zeppa di foto, archivi, documenti… hanno un figlio, avvocato per una multinazionale bavarese . La missione della signora è sostanzialmente una: la celebrazione annuale della figura del padre. Lei è la vera guardiana della tomba paterna e fa rivivere il suo ricordo, una domenica del mese di ottobre in occasione dell’anniversario della nascita di Himmler.
DALLE SUE PAROLE trapela ancora oggi una visione allucinata della realtà. “Da piccola mio padre mi portò in gita a Dachau: ho visto tutti disegni dei prigionieri e non mi sembrava che ci fosse tristezza ne angoscia. Oggi in onore di mio padre, continuo la mia missione organizzando l’associazione Freiwillige, che garantisce una felice vecchiaia agli anziani volontari SS.” Altra organizzazione di supporto mutuo ai vecchi militari SS è la “Stille Hilfe”: giovani avvocati finanzierei, professionisti, che nel mondo intero, Priebke insegna, sostengono e proteggono i vecchi nazi sopravissuti. Da più di quarant’anni Gudrun Himmler ne è colonna portante. Da Priebke al suo superiore, Herbert Kappler; dal carnefice di Milano, Theo Saevecke, al torvo guardiano di Theresienstadt, quell’Anton Malloth appena condannato all’ergastolo a Monaco, dopo aver vissuto per oltre 40 anni a Merano; da Klaus Barbie, il boia di Lione, a Josef Schwammberger, famigerato responsabile del lager di sterminio di Rozwadow, in Polonia, l’elenco dei carnefici beneficiati dall’organizzazione è lungo e impressionante.
La nascita di «Stille Hilfe», avviene nel 1951, quando un gruppo di ex ufficiali delle SS e autorità delle due Chiese, cattolica e protestante, fra cui l’allora vescovo di Monaco, Johannes Neuhaeussler, decidono di fondare una società «per aiutare in silenzio tutti coloro che hanno perduto la libertà, in conseguenza di fatti accaduti durante la guerra, per i quali non erano personalmente responsabili». In realtà, per loro «Stille Hilfe» raccoglie denaro, procura discreti luoghi di rifugio, allevia le condizioni di prigionia, paga le spese legali, cerca appoggi politici per scarcerazioni anticipate. E spesso opera in sintonia con i servizi segreti di mezzo mondo, come nei casi di Alois Brunner e Klaus Barbie.
I CANALI e i simpatizzanti non mancano. I capi della Csu bavarese, Alfred Dregger e Franz-Josef Strauss, l’ex deputato europeo Otto d’Asburgo, il principe Casimiro zu Sayn-Wittgenstein, l’ineffabile tesoriere della Cdu dell’Assia che, per giustificare l’origine dei fondi neri di Helmut Kohl, si inventò l’infelice bugia dei soldi lasciati in eredità al partito da ebrei tedeschi, emigrati in Sud America e morti laggiù. Ancora, un discreto numero di procuratori della Repubblica, come il bavarese Klaus Göbel, l’amburghese Juergen Rieger o quello di Dortmund, Klaus Schacht. Perfino in Vaticano, gli ex nazisti troverebbero i contatti necessari. Durante il processo a suo carico, alla domanda dei giudici su chi lo avesse aiutato nella latitanza del Dopoguerra, Josef Schwammberger rispose lapidario: “Il Papa”. A coordinare il tutto, l’infaticabile e carismatica Gudrun Burwitz, nel nome del padre: “Da lei erano come terrorizzati racconta il giornalista Andrea Röpke, che prese parte a un incontro in Austria, tutti quegli ex ufficiali stavano in riga mentre lei interrogava uno per uno, "lei dove ha servito?", mostrando di conoscere alla perfezione la logistica militare del Terzo Reich”.
“Di mio padre” , racconta Gudrun Burwitz , “io ho un ricordo molto vago perché l’ho visto pochissime volte, naturalmente l’ho mitizzato, tutti avevano un sacro profondo rispetto per lui, non l’ho mai associato a una figura di persona che potesse incutere paura, anzi, con me era molto dolce e mi regalava sempre tante cose. Addirittura, alla vigilia di Natale 1939, arrivò tardi la sera e evidentemente non aveva provveduto a farmi regali ne aveva avuto idea di cosa io volessi in regalo. Ci recammo cosi con la sua grossa auto e la scorta nel più grande negozio di giocattoli di Monaco di Baviera, Per me era come un paradiso in terra, dovevo potevo esaudire tutti i miei desideri: le bambole, i trenini elettrici … Ricordo tutto il personale schierato, sorridente, benché fosse la notte di Natale, davanti a mio padre che prendeva nota sul suo taccuino di tutti i desideri che io avevo. Il miracolo è stato la mattina dopo tutto era sotto l’albero di Natale. Mio padre era stato un superuomo nel suo contatto diretto con Babbo Natale e le renne… La velocità con cui si erano realizzati i miei desideri mi ha talmente colpito che ancora oggi la racconto a chi mi chiede cosa rappresentasse per me Henrich Himmler, mio padre”. Il marito, Wulf-Dieter, aggiunge: “Ho sposato Gudrun perché mi sono innamorato di lei, ma questo solo con il passare degli anni perché inizialmente ero innamorato della figura di suo padre: lei stessa, ed anche poi quando l‘ho conosciuta la sua sorellastra Irma Posthat, che assomiglia come una goccia d’acqua pur essendo figlia di Himmler e della sua segretaria, mi chiedono – loro a me tutti i dettagli della vita giorno per giorno di Himmler, che conosco a memoria”.
A PARTIRE dal 1950 ci sono due date di riferimento obbligato per questo tipo di celebrazione: la prima appunto la prima domenica di ottobre ad Ulrichsberg, un piccolo paesino in Carinzia in Austria a pochi chilometri dal confine italiano. Ma dopo la morte di Haider e le polemiche dell’avvenuta celebrazione, si riuniscono nella clandestinità, date e luoghi misteriosi come un rave party. La seconda, 30 aprile, giorno a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale, nelle campagne nei dintorni di Norimberga. Il comitato organizzatore è quello che fa capo alla rivista mensile degli ex combattenti delle SS “Freiwillige”, i volontari. E’ curioso durante questi raduni, vedere come la signora Burwitz sempre molto austera come una first lady che si aggira chiacchierando amabilmente con vecchi amici di suo padre sembri a volte agli occhi dei neofiti sdoppiarsi quasi avesse un dono dell’ubiquità. Il raduno di Ulrichsburg durava tre giorni: si alternavano le messe, le parate dei vecchi e dei giovani. Le persone anziane spesso erano accompagnate dalle loro mogli. I giovani, che sono sempre più numerosi, solitamente si suddividono in tre categorie: la prima è formata da numerosi militanti dell’idea e che sono espressione di vari movimenti politici tedeschi, belgi, francesi, austriaci, rumeni, spagnoli, croati, italiani. Secondo loro questa è l’unica vera espressione dell’unità europea, ideologia comune è quella della vecchie SS e. Oggi tutto si svolge in una giornata, una domenica: i partecipanti ormai, per ragioni anagrafiche, scarseggiano

Repubblica 28.11.10
Un gruppo di infiltrati a Palazzo Chigi
di Eugenio Scalfari


L´IDEA d´un complotto anti-italiano è stupefacente ma non è nuova. Il più illustre predecessore fu Benito Mussolini che la lanciò nel 1935, all´epoca delle sanzioni che ci furono comminate dalla Società delle Nazioni per la nostra aggressione contro l´Abissinia. Motore del complotto era allora il blocco "demo-giudo-plutocratico" che secondo i fascisti dominava il mondo e voleva affondare l´Italia per impedirle di conquistare il "posto al sole" che ci spettava. Ma c´erano già stati altri precedenti altrettanto illustri: Vittorio Emanuele Orlando che aveva abbandonato il Congresso della pace di Versailles nel 1919 perché le potenze alleate non volevano riconoscerci l´Istria e, subito dopo, D´Annunzio a Fiume innalzando la bandiera della «vittoria tradita».
Tra le qualità e i vizi degli italiani uno dei tratti ricorrenti è quello del vittimismo. Silvio Berlusconi è un asso in materia.
Nel caso attuale mancano tuttavia del tutto gli appigli, sia pur pretestuosi, che giustifichino la tesi del complotto. Mettono insieme il crollo di Pompei, i rifiuti di Napoli, il processo alla Finmeccanica e le imminenti rivelazioni del sito WikiLeaks. Sembra il frutto d´un gruppo di matti che si sia infiltrato a Palazzo Chigi nella sala del Consiglio dei ministri o invece di una abilissima sceneggiata da usare per riguadagnare un consenso perduto e prepararsi alla campagna elettorale con un alibi che faccia presa appunto sul vittimismo nazionale.
Personalmente propendo per entrambe queste ipotesi: gli autori della sceneggiata sono abilissimi proprio perché sono matti, hanno perso il controllo delle proprie menti e affidano a comunicati ufficiali la loro impazzita creatività propagandistica.
Ma l´aspetto più stupefacente e inquietante non è che quel comunicato del governo sia scaturito dalla mente di Berlusconi e che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, abbia accettato di farsene protagonista. L´aspetto stupefacente è che il comunicato sia stato diramato con la firma di Gianni Letta. Un uomo prudentissimo, consapevole del danno d´immagine e di sostanza che un documento di quel genere avrebbe causato al governo e al paese. Questo è veramente il segno che siamo alla frutta. In queste condizioni la permanenza di quel governo e di quel premier fa venire in mente la «nave dei folli» e costituisce il più preoccupante motivo d´insicurezza che pesa sul destino dell´Italia.
* * *
Il Presidente della Repubblica, sia venerdì sia di nuovo ieri, ha attirato l´attenzione delle forze politiche e della pubblica opinione sui pericoli che minacciano l´euro e la stessa Unione europea. La crisi irlandese non è affatto superata, si attende col fiato sospeso la riunione di domani dell´Ecofin e le reazioni dei mercati. La speculazione ha messo sotto tiro anche il Portogallo e la Spagna. I debiti sovrani di quei paesi sono sotto la lente delle agenzie di «rating» e così pure le banche di mezza Europa che hanno largamente investito in titoli spagnoli.
Il debito italiano parrebbe al sicuro e così pure il nostro sistema bancario, ma è comunque il debito più alto del mondo. Questa situazione giustifica ampiamente gli appelli al senso di responsabilità lanciati da Giorgio Napolitano.
Quegli appelli sono rivolti a tutte le forze politiche ma non indicano quale sia il percorso auspicabile da seguire né si può chiedere al Capo dello Stato di indicarlo. La più alta carica istituzionale non può gestire una crisi politica che s´incrocia con una crisi economica di questa fatta prima che essa sia stata formalmente aperta.
Conosciamo tuttavia i dati di fatto che possono guidare le decisioni di Napolitano quando sarà lui a doverle prendere.
Elenchiamoli quei dati di fatto.
1. Il 14 dicembre il Parlamento deciderà sulla fiducia al governo. Se le Camere voteranno in suo favore, Napolitano non avrà ragione di intervenire; si limiterà a vigilare stimolando il governo ad attuare una politica economica in sintonia con l´Europa e riforme equilibrate della giustizia e del federalismo.
Purtroppo non pare che quella della giustizia, che sarà presentata martedì prossimo al Consiglio dei ministri, abbia i requisiti di equilibrio che sarebbero necessari per riscuotere il consenso di un´ampia maggioranza. Il federalismo si trova purtroppo in analoghe condizioni.
2. Se il governo sarà sfiduciato anche in una sola Camera, Berlusconi dovrà dimettersi né il Capo dello Stato potrà rinviarlo in Parlamento per verificare quello che è già stato verificato. A quel punto il Quirinale dovrà accertare se esistono le condizioni per formare un nuovo governo.
3. L´appello alla gravità della situazione economica – se ha un senso e certamente ce l´ha – porta ad escludere che Napolitano sciolga le Camere se avrà la fondata speranza di poter insediare un nuovo governo capace di ottenere la fiducia del Parlamento.
La via delle elezioni significa nel caso migliore tre mesi di una barca con un timoniere azzoppato in un mare in tempesta; tre mesi di mercati sottoposti ad una speculazione micidiale.
Da questo punto di vista l´appello del Quirinale al senso di responsabilità sembra rivolto al fronte berlusconiano affinché accetti ed eventualmente appoggi il nuovo governo e al fronte opposto affinché si metta in grado di offrire una piattaforma il più possibile coesa.
4. Qualora il fronte delle opposizioni non sia in grado di esprimere una volontà all´altezza della situazione, si aprirebbe una subordinata: un governo di minoranza che si regga sull´astensione dei finiani e dei centristi ma abbia però al primo punto del programma la revisione sostanziale della legge elettorale oltre ovviamente ad una tenuta coerente della politica economica.
5. Se nessuna di queste ipotesi si verificasse e la sola via restasse quella dello scioglimento delle Camere, la nave Italia entrerebbe nella tempesta, che è appunto l´ipotesi che il Capo dello Stato, con ragione, teme di più. O almeno: così sembra a noi ragionando sui dati di fatto e sulla logica che ne consegue.
* * *
Ma quanto durerà la tempesta economica e con quali possibili sbocchi? Purtroppo durerà. Certamente per tutto il 2011, probabilmente ancora nel 2012 con effetti sperabilmente attenuati ma non ancora scomparsi nel 2013.
Almeno per quanto riguarda l´Italia il calendario è questo (ma il governo dava per tutto finito già nel 2009).
Queste previsioni poggiano purtroppo su un esame nient´affatto fantasioso ma realistico della nostra situazione economica. Siamo un paese a crescita zero da almeno dieci anni, con una disoccupazione media che, considerando anche la cassa integrazione in deroga, viaggia sopra al 10 per cento come media nazionale, con una media vicina al 20 nelle regioni meridionali.
La disoccupazione dei giovani nella media nazionale è al 20 per cento, nel Mezzogiorno al 30. Tra i giovani con lauree umanistiche e professionali il tasso nel Sud si colloca sul 50 e gli occupati di solito fanno i lavapiatti o i camerieri. Vivono a carico dei genitori e dei nonni, per cui la famiglia è diventata il principale ammortizzatore sociale esistente.
In questa situazione si colloca un debito pubblico che si trova al 118 per cento e raggiungerà il 120 l´anno prossimo con la prospettiva che l´Unione europea, sotto la spinta della Germania e della Francia, prescriva l´obbligo di rientrare entro il 2013 nel limite del 60 per cento rispetto al Pil.
Queste sono le dimensioni del problema che dovrà essere affrontato dall´Ecofin, dalla Commissione di Bruxelles e dalla Banca centrale europea entro il prossimo febbraio. Se fosse accettata la proposta della Commissione sul rientro del debito entro la soglia del 60 per cento, l´Italia dovrebbe compiere tra il 2011 e il 2013 una manovra complessiva che, per quanto riguarda il solo debito, ammonterebbe a 45 mila miliardi annui. Cifra stratosferica e sicuramente negoziabile. Ma di quanto negoziabile? La speranza è d´un rientro fino all´80 per cento del Pil o di una rateizzazione decennale. La previsione più probabile è quella di un accordo dell´ordine di 30 miliardi in tre anni o di 15 miliardi in dieci anni. Una parte di questa cifra può essere reperita dalla graduale diminuzione degli oneri che stiamo attualmente pagando sul debito. Il resto è un esborso netto che non può certo provenire da ulteriori aumenti del fabbisogno finanziario.
Tutto questo ragionamento significa che non ci sarà posto per provvedimenti di crescita perché, a legislazione vigente, mancano le risorse, la spesa corrente continua a crescere nonostante i tagli, le entrate diminuiscono a causa del rallentamento della produzione e dell´aumento dell´evasione.
Lo scenario è dunque quello di una deflazione allarmante. A meno che l´Unione europea non decida di far crescere l´inflazione per diminuire il peso reale dei debiti.
Sarebbe una via di fuga che scaricherebbe il peso dell´imposta-inflazione sui redditi fissi. Ma c´è da escludere che la Germania accetti una politica di questo genere che penalizzerebbe le esportazioni.
Dunque deflazione per almeno tre anni, a meno che....
A meno che non si faccia una riforma fiscale che tassi il patrimonio in favore dei redditi medio-bassi, dei consumi, del lavoro e delle imprese. Basta enumerare queste necessità per capire che non è certo un governo Berlusconi- Tremonti a poter effettuare scelte di questo tipo.
* * *
La presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha fatto parlare di sé la scorsa settimana con la proposta di un federalismo a doppia velocità: subito nelle regioni più ricche a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dal Piemonte, rinviandolo invece per le regioni povere. Questa proposta è stata lanciata in un´assemblea di industriali a Milano e ripetuta dalla Marcegaglia a Treviso e diffusa ampiamente dai giornali e dalle televisioni. Gli industriali delle zone interessate hanno applaudito con ovazioni da stadio il loro presidente.
Ebbene, a nostro avviso, si tratta d´una proposta totalmente sbagliata che avrebbe nefasti effetti politici, sociali ed economici.
Politici. Si statuisce di fatto una secessione lenta della Padania dal resto del paese provocando nel sud reazioni politiche e sociali di dimensioni non valutabili. Il Sud vedrebbe sancita la sua condizione di territorio assistito con fondi provenienti dallo Stato, cioè dai contribuenti di tutto il resto d´Italia: una regressione non tollerabile e fonte di reazioni molto accese.
Economici. La spaccatura in due del mercato con tutto quello di imprevedibile che ne consegue a cominciare da un sistema bancario sottoposto ad una torsione radicale nella raccolta dei depositi e nel loro impiego «territoriale».
Sociali. La fine d´ogni coesione e di ogni omogeneità contrattuale.
La stessa Marcegaglia ha successivamente tentato di limitare la sua proposta alla sburocratizzazione del Nord.
Proposta più accettabile che però può per essere effettuata senza bisogno di tirare in ballo il federalismo. Uno Stato federale non può che estendersi all´intero territorio nazionale. Federare solo le regioni ricche tra loro è una contraddizione in termini. Significa semplicemente affidare ad esse l´egemonia economica e politica degradando le regioni povere ad un rango coloniale. L´India fu decolonizzata dall´Inghilterra nel 1945. Degradare a rango di colonia l´Italia peninsulare da Firenze in giù nel 2010 significa camminare con i paraocchi come i cavalli.

sabato 27 novembre 2010

l’Unità 27.11.10
Bersani: «Governo irresponsabile» Stoccate a Vendola e Montezemolo
Il leader Pd conclude il convegno dei gruppi parlamentari con un attacco alle «irresponsabili» prese di posizione del consiglio dei ministri. Nuovi margini per la sfiducia. E se si va al voto? «Tocca a noi giocarci quella carta...»
di Simone Collini


Manca ancora troppo tempo al 14 dicembre e cambiano ancora troppo da un giorno all'altro i posizionamenti dei protagonisti sulla scena. Ma a questo punto Bersani inizia a crederci. Le «irresponsabili» uscite di Frattini che dimostrano la debolezza del governo, le solite promesse di un Berlusconi che ormai non riesce neanche più a nascondere i «traccheggiamenti» a cui è costretto, la mobilitazione nel Paese di studenti («i giovani fanno bene a ribellarsi un po’») e lavoratori («per noi il lavoro resta centrale, non è un tema da modernariato»), per non parlare del messaggio di Fini al premier sul fatto che non si andrà a votare con questa legge elettorale e che non c'è un'alternativa tra fiducia e voto perché ogni decisione spetta al Quirinale: per il leader del Pd ci sono tutte le condizioni per un «cambio di scenario» e per la nascita di quello che definisce «un governo di responsabilità istituzionale e di stabilità finanziaria ed economica».
Bersani chiude il convegno organizzato dai gruppi parlamentari nell' Abbazia di Spineto dicendo che del modo in cui si deve «giocare la carta del consenso» se ne potrà parlare un' altra volta, mentre ora bisogna spiegare agli italiani che la situazione può richiedere scelte magari impopolari, ma sicuramente necessarie. «Sono consentite oneste omissioni ma non raccontar balle», dice ai deputati e senatori confessando anche che gli «dà fastidio» l'espressione (molto usata da Vendola) «narrazione» («cos’è, una favola?»). Il pensiero va al piano di rientro del debito chiesto dall'Europa, e al fatto che il 16 dicembre Tremonti dovrà andare all’Ecofin. «Ci andrà per forza di cose zoppicante, at-
taccato a un voto così», e fa il gesto del braccino corto. E qui Bersani rovescia l’impostazione di chi sostiene che si debba sostenere ancora il governo Berlusconi in nome della stabilità: «Non dobbiamo far passare l'idea che siamo noi a volere l'instabilità. Han fatto tutto loro. Noi dobbiamo garantire un governo di stabilità economica e finanziaria».
Questo rimane l'obiettivo del Pd, e ieri i parlamentari si sono salutati scambiandosi qualche sorriso in più. La situazione è tutt'altro che chiara e la meta tutt'altro che vicina, ma i segnali di nervosismo mostrati dal governo vengono interpretati come un'ammissione di debolezza, pericolosa per il Paese. Dice Bersani riferendosi alle parole di Frattini: «Un governo che solleva argomenti del genere lasciandoli in aria mostra una totale irresponsabilità. È la prova provata che un esecutivo che non c'è più può provocare solo una pericolosa instabilità». Il leader del Pd, anche sulle ultime uscite del premier, un po' ironizza («ha realizzato i cinque punti del programma?, bene, può andarsene a casa contento») un po’ si mostra preoccupato. Se il capo del governo dice che sarebbe suicida attaccare un patrimonio del Paese come Finmeccanica, Bersani dice che proprio perché «tutti teniamo a Finmeccanica tutti dobbiamo tenere anche alla chiarezza». E se si dovesse andare al voto? Quello che dice il leader del Pd ai parlamentari è che «il berlusconismo è l'escrescenza più tragica di un problema di fondo della democrazia» e sarebbe «paradossale se ora che anche quelli di là hanno capito che la personalizzazione della politica non funziona, di qua pensassimo che adesso tocca a noi giocarci quella carta lì». E in sala molti pensano a Vendola. Altri a Montezemolo.

Repubblica 27.11.10
Bersani: non serve l´uomo della Provvidenza
"Elezioni una martellata al Paese". E attacca Vendola: la narrazione? Favole
A Sarteano Prodi parla del "tramonto" del berlusconismo e dei rischi di crisi
di Giovanna Casadio


SARTEANO - Bersani elenca gli errori in cui il Pd non deve cadere. Deve evitare ad esempio, di parlare di "narrazione", parola che al segretario democratico fa venire l´orticaria, forse perché il copyright nella sinistra italiana ce l´ha Nichi Vendola. Narrazione è, come scrive Orazio, «"de te fabula narratur", favola, appunto. Noi dobbiamo avere la nostra cifra». E nella "cifra" dei Democratici c´è «la sobrietà» e un imperativo categorico: «Non dobbiamo fare i berlusconiani». Niente personalismi, partito-liquido alla Veltroni; suggestione alla Vendola; attesa dell´uomo della Provvidenza che qualcuno vede in Montezemolo. Insomma, ora che il governo è in crisi profonda non sia mai - esorta Bersani - che accada «il paradosso, per cui nel campo di là hanno percepito che il berlusconismo non funziona e non vorrei che di qua pensassimo che adesso tocca a noi giocarci quella carta». Ma il berlusconismo è «l´escrescenza di un problema di fondo rappresentato dalla crisi della nostra democrazia: la sinistra non si faccia tentare. Berlusconi ha ormai perso la testa». Nel centrosinistra c´è bisogno di pensare alle riforme vere («Riapriamo il tema delle riforme istituzionali»), una volta risolta la crisi di governo con un «governo di transizione» oggi più che mai necessario. Un governo di «stabilità finanziaria ed economica», sul quale non vanno raccontate «balle: sogni sì, ma con le gambe». Elezioni subito con questa legge elettorale sarebbero «una martellata al paese».
Nell´abbazia medioevale di Spineto il conclave dei deputati, riuniti da Dario Franceschini, si conclude con qualche ora di anticipo, tra grandinate e freddo, ma con «soddisfazione politica», soprattutto per il ritorno di Prodi a una convention Pd. Il Professore è partito giovedì sera dopo una "lectio" di politica estera e di economia, dopo avere spronato il partito, una sosta breve a cena (ma ha sventato i canti alpini di Bersani nel dopocena). Aveva fatto anche un´intervista a Bloomberg tv, mandata in onda ieri, nella quale dice: «L´epoca di Berlusconi è al tramonto, è al declino. Siamo all´agonia dell´agonia. Ma quanto può durare nessuno può dirlo, questi sono passaggi sempre difficili». E il Professore ragiona anche sui due anni di governo e su una coalizione di centrodestra che si vedeva subito non poteva tenere, non condividendo gli obiettivi e «inadatta a porre fine alla lunga crisi del paese». Il messaggio-chiave dell´ex premier è però verso l´estero: «Il nostro deficit non è oggi fuori controllo come non era fuori controllo ieri, quindi i mercati internazionali dovrebbero capire che anche un cambiamento di governo non produce danni irreparabili. Certo se ci fosse un lungo vuoto di potere, i mercati potrebbero allarmarsi ma mi auguro che questo non avvenga». Quindi, il governo di transizione è indispensabile. E Draghi? Tanto per cominciare, «merita la successione a Trichet alla Bce».
Bersani ieri replica all´accusa che il governo muove al Pd, cioè di volere l´instabilità. Non è così: «Hanno fatto tutto loro. All´Ecofin il 15 dicembre Tremonti andrà bene che gli vada attaccato a un voto, oppure "zoppo". Berlusconi dice di non essere preoccupato della crisi? È lui preoccupante». Al premier sono riservate bordate e battute: «Sostiene di avere attuato i cinque punti? Bene, può andarsene a casa contento»; «L´11 dicembre manifesta anche il Pdl, nello stesso giorno della nostra manifestazione? Facciamo una bella gara». Con Veltroni, che ieri ha convocato la convention del suo Movimento, è scambio di cortesie: Bersani anticipa il discorso a Sarteano per non sovrapporsi all´appuntamento veltroniano; Veltroni resta ad ascoltarlo. Franceschini, il promotore della due giorni, lascia spazio agli altri e dà appuntamento a maggio per un altro conclave. Anche se da qui ad allora, c´è la trincea parlamentare. E Bersani: «Noi non siamo un gruppo parlamentare da Transatlantico ma da emiciclo e da territorio».

Corriere della Sera 27.11.10
Veltroni-D’Alema, strategia contro l’«Opa Vendola»
I democratici preoccupati dalla sfida con il governatore pugliese alle primarie


ROMA — E se Pier Luigi Bersani non ce la facesse? Se alla primarie Nichi Vendola lo battesse? Allora il Partito democratico potrebbe chiudere i battenti, a soli tre anni dalla sua nascita. È questo l’incubo che agita i dirigenti del Pd. È una preoccupazione trasversale, che unisce dalemiani e veltroniani, ex popolari ed «ecodem».
L’esperienza del primo governo Prodi termina nel 1998, quando il presidente del Consiglio non ottiene la fiducia alla Camera per un solo voto, e si dimette. Dopo gli esecutivi guidati da D’Alema e Amato si arriva alle urne nel 2001 e Berlusconi, battendo Francesco Rutelli, torna a Palazzo Chigi Il secondo scontro fra i due risale alle elezioni dell’aprile 2006, e anche in quel caso è Romano Prodi (che nel frattempo è stato Presidente della Commissione europea) a vincere le elezioni: il suo secondo governo, però, resta in carica solo 2 anni. Nel 2008 si torna alle urne e il candidato del centrosinistra è Veltroni, che viene sconfitto dal Cavaliere
L’altro giorno, nel Transatlantico di Montecitorio, il governatore della Puglia camminava a braccetto con uno dei suoi luogotenenti, Gennaro Migliore. Il quale poi è stato avvicinato da Walter Veltroni. Poche frasi di rito, quindi l’avvertimento dell’ex segretario: «Guardate che non vi potete espandere oltre». Come a dire: non pensate di lanciare un’Opa sul Pd. Migliore ha fatto finta di niente e ha replicato: «Noi proponiamo solo di fare le primarie tra Nichi e Bersani». Immediata la reazione di Veltroni: «So che state già godendo come matti perché questo è lo schema che conviene a voi».
Suppergiù nello stesso momento, nell’aula di Montecitorio, Massimo D’Alema spiegava a qualche compagno di partito: «Il disegno di Vendola è chiarissimo: lanciare un Opa su di noi. Prima ci ha provato Di Pietro, ora ci prova lui». Il fatto che il presidente del Copasir e l’ex leader del Pd svolgano ragionamenti analoghi non significa certo che tra i due sia stata siglata la pace. Rimangono lontani anni luce, anche se D’Alema ha ammesso: «Quando io e Walter siamo d’accordo facciamo cose buone».
Nessun armistizio, dunque, o tanto meno un patto. Una comune preoccupazione sì, però. Come ammette il dalemiano di ferro Alessandro Nannicini, che ieri giocava «fuori casa», perché era all’assemblea del Modem (il movimento di Veltroni), aperta da un intervento di suo figlio Tommaso, economista della Bocconi. «Io penso che alla fine, se la situazione si fa difficile, sarà Massimo a dire: superiamo il dualismo Bersani-Vendola trovando un terzo nome. E sarà lo stesso Pier Luigi a muoversi in questo senso, perché non è un uomo attaccato agli incarichi: ha a cuore solo il partito».
Quale che sia l’esito delle vicende di casa Pd, che ci sia grande allarme lo si è capito ieri, alla convention della minoranza. Dove circolavano sondaggi che danno il partito tra il 23,8 e il 24,2. Walter Veltroni, che ha chiuso l’incontro, ha lanciato il «Pd pride». Secondo lui ce n’è gran bisogno: «Se avessimo mantenuto l’ispirazione del Lingotto saremmo centrali nella vita politica italiana. C’è bisogno di un Lingotto 2 e lo faremo a gennaio». Già, perché il terrore di Veltroni e dei suoi è che il Pd non abbia più identità e proposte. E che per questo Bersani si rifugi nel tentativo di ridar vita al fu Pci. «Il partito strutturato come negli anni Settanta non funziona più», è stato l’ammonimento dell’ex segretario. E ancora: «Bersani parla solo di sinistra e non di democratici».
Sul palco della Convention sono saliti in tanti. Tutti con la propria scorta di critiche e timori. Per Sergio Chiamparino il Pd soffre di «subalternità verso gli altri partiti»: «Va bene salire sul tetto, come ha fatto Bersani, ma il problema è andare a dire quello che pensiamo noi, cosa che non facciamo». Netto anche Paolo Gentiloni: «Quanto tempo ci vuole — si è chiesto — per capire che è sbagliata l’idea di un partito identitario che si rifà alla sinistra del Novecento?». Critico pure Marco Follini. Ma il più duro di tutti è stato Beppe Fioroni. L’unico a evocare apertamente dal palco l’incubo del Partito democratico. E l’unico a prefigurare il possibile cambio di leadership: «Se si perdono le elezioni e le primarie, non vanno cambiati gli strumenti o i progetti, ma la linea politica e gli uomini che la perseguono. In democrazia si fa così». E giù applausi dalla platea.

Avvenire, quotidiano della Cei 26.11.10
Ssst! Sta parlando il silenzio di Dio
Secondo il filosofo Massimo Cacciari con Abramo come con Giobbe il Signore tace non per ira o perché non sa che cosa dire Egli è un padre nascosto ed esige d’essere cercato non tanto con parole o risposte, bensì con la «rivelazione» abissale del suo stare zitto
di Massimo Cacciari


La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.
Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de­finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.
Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17).
Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.
L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio.
È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo. La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama , o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri­vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.
Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos. Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco.
Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale. Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole.
Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo. La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive.
Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica». Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.