martedì 30 novembre 2010

Repubblica 30.11.10
Il nuovo asse tra D’Alema e Veltroni mette un´ipoteca sulla leadership Bersani
di Goffredo De Marchis


Fassino candidato a Torino, ma rischia il bis di Milano
Nel colloquio di venerdì scorso dei due leader dubbi sulle ultime mosse del segretario

ROMA - Il ritorno della diarchia D´Alema-Veltroni sarebbe un ottimo argomento per la battaglia dei rottamatori. Un salto all´indietro di quasi quindici anni, un´alleanza tra diversi che più diversi non si può. Matteo Renzi e Pippo Civati stavolta potrebbero riempire uno stadio. L´intesa tra i due è in realtà ancora molto lontana. Ma la marcia di avvicinamento appare inesorabile, praticamente scritta nel destino di una coppia sul genere "né con te né senza di te". Il colloquio alla buvette di Montecitorio, avvenuto venerdì scorso, rappresenta una prima tappa. Si è volato alto quel giorno, affrontando la decadenza delle istituzioni impressa da Berlusconi e dalla sua maggioranza. Con un solo accenno al Partito democratico. È stato Veltroni a commentare con uno sguardo eloquente e non elogiativo la salita di Bersani sul tetto di Architettura. A quello sguardo D´Alema ha risposto con il silenzio. Ecco, le indiscrezioni dicono che sia D´Alema sia Veltroni, magari partendo da punti di vista diversi, hanno oggi dei dubbi sul ruolo e sulla forza del segretario.
Nella nuova stagione del disgelo, l´ennesima dopo altrettante di velenoso duello, possono trovare posto anche ragioni più terra terra. Dalemiani e veltroniani, cioè i gruppi dei fedelissimi, sono preoccupati dell´asse Bersani-Franceschini soprattutto per la composizione delle liste elettorali. Se si andasse alle elezioni a marzo, con i parlamentari nominati, il segretario e il capogruppo avrebbero la prima scelta sui nomi. Anzi, Bersani un mese fa ha convocato Franceschini e la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro comunicando loro che al tavolo delle candidature siederanno solo in tre: il leader e i due capigruppo. Non una buona notizia per le varie correnti del Pd. «Con Veltroni possiamo trovare un terreno comune per ridurre il peso di Franceschini», diceva qualche giorno fa il braccio destro di D´Alema, Nicola Latorre.
Un campo di azione condiviso e decisamente più importante l´ex premier e l´ex segretario del Pd lo hanno già trovato in questi giorni nell´analisi del dopo-Berlusconi. Governo di responsabilità nazionale, apertura decisa a Casini e al Terzo polo, individuazione di una premiership fuori dagli schemi partitici. Veltroni però ha insistito anche ieri sulla fumosità del tema alleanze: «Parliamo prima del partito». All´assemblea di Modem a Roma aveva anche detto che il problema del candidato premier è «l´ultima cosa». Non un´investitura per Bersani. D´Alema crede che il Pd abbia «un ottimo segretario». Ma ai suoi collaboratori ha confidato le perplessità non sulla persona ma sull´intensità con cui sta seguendo la linea di un´intesa con Casini. Latorre al Corriere, proponendo Vendola come socio fondatore del Pd, ha spiegato che «il partito deve cambiare rotta» e che le primarie di coalizione «vanno eliminate». Una critica al leader.
Sullo strumento delle primarie Bersani non ha mai nascosto i suoi dubbi. Però sono la sua fonte di legittimazione e ne difende il principio. Per tenerle ancora in piedi adesso il Pd è chiamato a organizzare bene quelle di Torino. Senza le sbavature di Milano. La candidatura di Piero Fassino è praticamente ufficiale, dopo la rinuncia di Profumo. Stavolta il rischio è mandare allo sbaraglio addirittura un fondatore del Pd. Nichi Vendola avrebbe appoggiato Profumo. Ma su Fassino non dà garanzie. Anzi, Sinistra e libertà ha pronto un candidato: Antonio Ferrentino, ex presidente della comunità montana, leader dei No Tav. Un pericolo per Fassino. E per la tenuta del Pd, per la stabilità del suo vertice.

il Fatto 30.11.10
L’incubo dei democratici: Vendola nel partito
La proposta di Latorre non piace a D’Alema e veltroniani
di Wanda Marra


“Personalmente mi piacerebbe molto diventare socio fondatore di un nuovo centrosinistra, in cui tutte le forze siano in grado di ristrutturarsi e di innovarsi profondamente anche dal punto di vista culturale”. Gentile ma deciso, alla fine arriva il no di Nichi Vendola all’invito di Nicola Latorre ad entrare nel Partito democratico. “Ho apprezzato molto il garbo e l'intelligenza della proposta, che ha il merito di rendere evidente la crisi di prospettiva del Partito democratico. Pone un problema e lo fa con coraggio”, spiega il governatore della Puglia. Che ancora una volta riesce a porsi di fronte a a quello che ancora sarebbe il maggior partito del centrosinistra da una posizione di forza.
Nichi Vendola turba i sonni dei dirigenti del Pd almeno fin da   quando a luglio ha annunciato la sua candidatura alle primarie del centrosinistra ed è destinato a farlo ancora a lungo. L’ultima (provocazione?) è arrivata da Latorre che al Corriere della sera domenica ha dichiarato di pensare a un Pd non semplicemente allargato ad altri soggetti, ma addirittura rifondato, con il contributo diretto di Sel e del suo leader. Curiose dichiarazioni, per di più arrivate nello stesso giorno in cui Massimo D’Alema, scegliendo il Messaggero, proponeva di allargare le alleanze, in caso di voto, a finiani e centristi e ribadiva così la necessità di un governo di responsabilità nazionale di fronte “ad una crisi di sistema” che nessun governo “di parte” può risolvere.
DUE POSIZIONI alquanto diverse che arrivano da due dirigenti tradizionalmente molto vicini. E che ancora una volta evidenziano la mancanza di bussola   dei Democratici. Al di là dei legami pugliesi tra Latorre e Vendola, il tema lanciato dal senatore democratico, almeno per come la mette lui, è quello di primarie “vere”, che non devono essere di coalizione (le quali “vanno eliminate”), ma di partito. Certo è che la proposta crea sconcerto, se non sgomento. Enrico Letta polemizza definendo una “forzatura” l’idea di allargare a Sel: “Vendola tante volte ha tentato di fare un’Opa sul Pd, ma spero che da adesso in poi abbia un atteggiamento positivo e propositivo anche perchè lui da solo, con un pezzo di Pd, non va da nessuna parte”. Stizzita e generale l’alzata di scudi nel partito. “Vogliono archiviare il Pd’', sostiene per gli ex popolari Beppe Fioroni, intervistato dal Corriere della Sera. Posizione condivisa dai veltroniani, che pensano   che il Pd non debba farsi condizionare dalla sinistra radicale e, se fallisse l’intesa con l’Udc o il Terzo Polo, la soluzione migliore sarebbe la corsa solitaria dei Democratici, senza Sel né Idv. Veltroni, che venerdì durante l’assemblea all’Eliseo, aveva chiaramente collocato Vendola in una   forza a sinistra del Pd, raggiunto dal Fatto quotidiano si rifiuta di fare “dichiarazioncine” ma poi parlando con le agenzie dribbla l’argomento: “La cosa peggiore che il Pd può fare è dividersi tra chi vuol fare l’alleanza con Vendola e Di Pietro chi con Fini e Casini’'. Anche i “franceschiniani” chiudono all’idea di Latorre. Per loro parla Pierluigi Castagnetti: "Una proposta intempestiva e molto estemporanea".
TRA TANTI contrari, c’è però anche chi è favorevole. “Ho già detto che bisogna andare oltre il Pd per ritrovare il Pd, che   c’è bisogno di un nuovo Lingotto”, dichiara il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. Mentre Ignazio Marino non da oggi ha dichiarato che Vendola dovrebbe iscriversi al Pd.
“Dialettici” rispetto al rapporto col governatore della Puglia sono i rottamatori Renzi e Civati. Il sindaco di Firenze, d’altra parte, aveva dichiarato già mesi fa: “Tra Vendola e Montezemolo tutta la vita Vendola”. D’altra parte, in qualche modo guardano nella stessa direzione.
E in mezzo a tutte queste manovre   , che si giocano anche intorno alla sua leadership, cerca di mantenere una posizione di almeno simulato equilibrio Pier Luigi Bersani. Il quale d’altra parte si era spinto non più di un mese fa a proporre un gruppo unico con Sel e Idv e aveva anche accettato di andare alle primarie: “Adesso dobbiamo parlare di un governo di responsabilità istituzionale, di un governo di transizione che aggiusti rapidamente una legge elettorale disastrosa e faccia qualcosa per questa nostra economia”. Insomma per il segretario resta valido, in caso di voto, lo schema del Nuovo Ulivo, ovvero un nuovo centrosinistra, formato dal Pd, da Sel e da Idv, che si apre ad un’intesa con l’Udc.

il Riformista 30.11.10
Nel Pd si litiga sull’alleanza con Vendola
Democratici. “Nichi” declina l’offerta di entrare nel partito. C’è chi non lo vuole in coalizione
di Ettore Colombo


il Riformista 30.11.10
Pd apre a Vendola, era ora
di Peppino Caldarola


Apcom 30.11.10 ore 18
Pd/ Bersani: Asse Veltroni-D'Alema? Non mi occupo di chiacchiere
L'ho già detto anche ai diretti interessati

Roma, 30 nov. (Apcom) - "Sento un sacco di chiacchiere sul Pd che mi entrano da un orecchio e mi escono dall'altro". Così Pier Luigi Bersani, a Montecitorio, risponde a chi gli chiede cosa pensi dell'ipotesi che esista un asse tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni per sostituirlo alla guida del partito. "Adesso il Pd si concentra sui problemi del paese - avverte il segretario - e tutti sentiranno la responsabilità di fare questo. Io di certo non mi occupo di chiacchiere".
A chi gli chiede se convocherà un coordinamento per discutere di questi temi interni al Pd, Bersani scandisce: "Le riunioni le faccio continuamente e queste cose che ho detto a voi figuriamoci se non le ho dette ai diretti interessati...".

Apcom 30.11.10 ore 18
Pd/ D'Alema: Asse con Veltroni? Sono solo scemenze
"Il partito è unito dietro Bersani"

Roma, 30 nov. (Apcom) - Le voci di un 'asse' contro Pier Luigi Bersani tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni sono solo "scemenze". Lo dice il presidente del Copasir rispondendo ai cronisti in Transatlantico. Quando gli viene riferito che il segretario del Pd è parso irritato per queste voci, D'Alema replica: "Anche io lo sono, e credo anche Veltroni".
L'ex ministro degli Esteri ricorda: "Le cose che dovevo dire le ho dette in un'intervista di qualche giorno fa al Messaggero. Mi pare che sulle scelte fondamentali il nostro partito sia unito dietro a Bersani. Questo è il dato fondamentale, non c'è nessun asse".

Corriere della Sera 30.11.10
Gli adolescenti e il vuoto di regole da riempire
di Margherita De Bac


Indagine sugli studenti delle medie inferiori: il sorpasso di Internet sulla televisione

Famiglie «deboli» Le famiglie «deboli» preferiscono glissare piuttosto che dire dei no e affrontare i contrasti con i figli adolescenti
Il rischio «L’eccessivo coinvolgimento nella Rete toglie attenzione alla scuola e alle persone in carne e ossa»

ROMA — Affascina e funge da calamita nell’età dei cartoni animati e del «Mondo di Patty». Ma una volta girata la boa dell’infanzia, il piccolo schermo perde via via attrattiva, surclassato da un interesse preminente. Internet. Al primo posto tra le abitudini degli adolescenti, secondo l’ultima indagine della Società italiana di pediatria (Sip) svolta su un campione di 1.300 studenti delle scuole medie inferiori (12-14 anni).
Ne esce un’immagine nuova dei ragazzi che navigano nella fase più difficile e incompresa del ciclo vitale e familiare, come la definiscono nel bel libro «Storie di adolescenza», appena edito da Raffaello Cortina, gli psicoterapeuti Maurizio Andolfi e Anna Mascellani. Che non a caso dedicano un ampio capitolo alle addiction tecnologiche, chiamate anche dipendenze da console. La ricerca della Sip mette a fuoco inoltre esigenze e desideri dei giovani. Non è vero che amano fare il comodo loro. Anzi, vorrebbero genitori più interventisti sul piano delle scelte, dal modo di vestire al trucco, dallo sport alle amicizie, dalla dieta al tempo libero. Insomma, basta con madri e padri signorsì, con famiglie deboli che preferiscono glissare piuttosto che dire di no agli adolescenti e affrontare apertamente i contrasti con i figli in età di ribellione. «In queste situazioni si può creare un vuoto di potere pericoloso. Conquistano spazio allora modelli esterni alla famiglia che possono essere dannosi» commenta Maurizio Tucci, autore dell’indagine.
Per la prima volta si assiste al sorpasso di Internet sulla televisione. Gli intervistati che trascorrono nella rete più di tre ore al giorno sono il 17,2% contro il 15,3% dediti in egual misura alla tivù. Quest’ultima percentuale lo scorso anno era il 22%. Facebook è la protagonista incontrastata e batte sia Messenger sia i blog. Oltre il 67% degli intervistati ha un profilo sul social network, quasi il doppio rispetto all’indagine precedente. Più le ragazze dei ragazzi.
Alberto Ugazio, presidente dei pediatri italiani, lo giudica un «superamento ambiguo. Di per sé è un fenomeno positivo perché Internet è una straordinaria finestra sul mondo e contribuisce all’arricchimento culturale. Tutto dipende però dall’uso. Se le chat hanno la prevalenza allora si può scivolare verso comportamenti a rischio. Il mondo virtuale si sovrappone a quello reale».
Andolfi e Mascellani nel loro libro ricordano che la dipendenza da internet è stata riconosciuta come sindrome psichiatrica nel 1995. Il cosiddetto tech abuse: «L’eccessivo coinvolgimento nelle attività di rete — scrivono gli autori — distoglie l’attenzione da scuola e lavoro. I collegamenti prolungati anche nelle ore notturne portano allo sconvolgimento del regolare ciclo sonno-veglia. Ma ciò che è più grave è che diminuisce il tempo disponibile per le persone significative, in carne e ossa». Avvertimento alla famiglia. Non sottovalutare il pericolo web. Frequentare YouTube e le chat sono di gran lunga le attività principali mentre perde sempre più terreno la ricerca di informazioni per lo studio. Purtroppo crescono anche i comportamenti a rischio. I giovani del Sud una volta su tre comunicano il numero di telefono a sconosciuti. E sono sempre di più gli adolescenti che danno informazioni personali, si mostrano in webcam e accettano incontri con telenauti mai visti, soprattutto coetanei ma in certi casi adulti.
In compenso calano lievemente, di qualche punto, le dipendenze da sostanze. Sigarette e alcolici. Il consumo di birra (47%), vino (40%) e liquori (18%) resta comunque sostenuto e continua a costituire un allarme sociale. In crescita, e sottostimato, il consumo di canne. Il 9% del campione ammette di aver provato almeno una volta.

Corriere della Sera 30.11.10
La molecola che governa i geni
di Massimo Piattelli Palmarini


Forse si trasmette di padre in figlio: blocca o attiva il Dna

In Unione Sovietica Il discusso biologo stalinista Lyssenko si era imbattuto, senza saperlo, in queste trasformazioni

Non passa settimana senza che la principali riviste scientifiche pubblichino qualche scoperta sull’epigenetica subito ripresa dai giornali di larga diffusione. La trasmissione di caratteri ereditari non (il «non» va sottolineato) dovuti a istruzioni contenute nella sequenza del Dna fa un certo scalpore. Si va, in un certo senso «oltre» e «sopra» (in greco antico «epi») i geni, da cui il termine epigenetica. Il rischio di esagerare è forte. «Vittoria sui geni» titola la copertina di un recente numero del settimanale tedesco «Der Spiegel», aggiungendo che l’epigenetica può farci «più intelligenti, più sani e più felici».
Meno sensazionalista è il «New York Times», che esamina plausibili conseguenze sull’ereditarietà, la diagnosi e la possibile cura delle malattie psichiatriche. Il quotidiano inglese «The Guardian» nel marzo scorso parlava di rivoluzione epigenetica e suggeriva che il quadro classico dell’evoluzione neo-Darwiniana centrato sulla selezione naturale va rivisto.
Florian Maderspacher, redattore capo di «Current Biology» insorge contro queste esagerazioni e agita lo spettro di un ritorno dell’infame biologo stalinista Trofim Denisovich Lyssenko, nemico dei genetisti sovietici, che faceva tranquillamente spedire nel Gulag. Basandosi su un processo da lui chiamato «vernalizzazione», cioè un utile condizionamento del grano a climi rigidi, che sarebbe poi passato nel seme e trasmesso nelle coltivazioni successive, Lyssenko modificò l’agricoltura dell’Unione Sovietica con esiti ancora oggi discussi.
Era implacabile sostenitore dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, una tesi particolarmente cara alla dottrina marxista in veste sovietica, in quanto prometteva di migliorare stabilmente l ’ umanità attraverso l’educazione e lo stile di vita del socialismo. Era un sinistro figuro, ma per certo si era imbattuto in trasformazioni epigenetiche delle piante, qualcosa che oggi viene studiata produttivamente e con ben altri metodi.
Assai meno mortifero e più spesso agitato è il timore di un ritorno del Lamarckismo, cioè della tesi (dovuta al biologo ed evoluzionista francese Jean - Baptiste de Lamarck, 1744-1829) che l’evoluzione proceda per un cumulo di tratti acquisiti in vita dagli antenati e poi trasmessi ai discendenti. Vediamo di mettere un po’ d’ordine in queste contrastanti notizie, evitando sia il trionfalismo che lo svilimento dell'epigenetica.
I cosiddetti marcatori epigenetici sono piccole molecole che si fissano mediante un normale legame chimico al Dna o alle proteine attorno alle quali il Dna si avvoltola nel nucleo delle cellule. Il Dna e tali proteine, chiamate istoni, sono molecole immense, nelle quali i marcatori epigenetici si inseriscono, un po’ come un sassolino in uno pneumatico di un autobus.
Ma, per piccolo che sia, il sassolino può far un po’ sobbalzare l'autobus ad ogni giro di ruota. Ebbene, questi piccoli gruppi chimici (detti in gergo gruppi metilici, acetilici, fosforilici, e un paio di altri) possono far traballare l'espressione dei geni ad ogni divisione della cellula. In particolare, a seconda di dove vanno a piazzarsi, possono mettere un gene a nudo, favorendone l’attivazione, o all’opposto schermarlo fisicamente, bloccandolo. La presenza dell’uno o dell’altro marcatore su questa o su quella posizione, in questo o quel gene (o nell’istone) è il risultato congiunto di interazioni con l'ambiente e della struttura chimica del gene (o dell'istone). Ora viene il bello.
È ipotizzabile che, insieme ai geni, la progenie possa ereditare anche questi marcatori, ereditando, quindi, un tipo di regolazione dell’espressione dei geni stessi, mediante un meccanismo, appunto, epigenetico. Detto un po’ sommariamente, l’ipotesi ancora da confermare è che non si ereditano solo dei geni spogli, ma dei geni corredati di marcatori epigenetici. In gergo, si erediterebbe un epi-genoma, non solo un genoma.
Dati inoppugnabili dicono che uno stesso gene, se ereditato dal padre, può avere una marcatura (imprinting) paterna, diversa da quella materna, con effetti diversi sui tratti biologici che questi geni contribuiscono a formare nella prole. Trattandosi di modifiche provenienti dall’ambiente cui è stato esposto l’uno o l’altro genitore, o perfino uno dei nonni, si ha una genuina trasmissione di caratteri acquisiti, senza alterazioni nella sequenza del Dna dei geni.
I meccanismi attraverso i quali avviene questo trasferimento da una generazione all’altra sono per ora ignoti e le ricerche fervono. La trasmissione in quanto tale è stata ben stabilita recentemente almeno in un numero di casi specifici ben accertati in specie distinte. La lista di tali casi, in continuo aumento, spazia dal colore del manto, l’appetito e la suscettibilità alle malattie in topi geneticamente identici, ma le cui madri sono state nutrite durante la gestazione con sostanze diversamente ricche in gruppi metilici, a reazioni di stress in pulcini la cui madre è stata sottoposta a shock, benché i pulcini stessi non siano stati sottoposti ad alcuno shock.
Nell’uomo, per adesso almeno, i candidati probabili, ma ancora non certi, sono collegati alla dieta, ricca o all’opposto da fame, cui sono stati soggetti i nonni, con effetti opposti tra le nonne e i nonni, rispettivamente al momento della formazione dell’ovulo (ancora nel ventre della loro madre) e degli spermatozoi (in fase di pre-pubertà). In Olanda, le nipotine delle nonne che soffersero la fame nella tremenda carestia dell’inverno di guerra 1944-1945 partoriscono oggi neonati più piccoli e gracili della norma, benché esse stesse non abbiano mai conosciuto la fame.
È veramente il ritorno del Lamarckismo, come alcuni sostengono gongolando e altri paventano? Non proprio. Innanzitutto perché l'effetto delle condizioni ambientali sui tratti epigeneticamente trasmessi è quasi sempre molto complesso e poco intuitivo. Per esempio, sembra proteggere dal diabete e dai disturbi cardiaci avere avuto un nonno che soffriva la fame da adolescente. Strano, no?
Non è certo la storia Lamarckiana tipica della giraffa cui si allunga progressivamente il collo, generazione dopo generazione, per poter mangiare i frutti degli alberi più alti. Inoltre, la trasmissione dei caratteri epigenetici, a differenza di quelli genuinamente genetici, spesso non è stabile. Infine, con buona pace di Lamarck, non c’è connessione stabilita, almeno per ora, tra trasmissione epigenetica e formazione di specie nuove. La scienza dell'epigenetica è ancora solo agli inizi, ma il dispiego di forze è imponente. Ne vedremo certo delle belle.

Corriere della Sera 30.11.10
La lettura aiuta il cervello ad attivare più neuroni
di Manuela Campanelli


L'istruzione rimodella il nostro cervello e apre in esso nuovi circuiti elettrici. Soprattutto il saper leggere arruola gruppi di neuroni di solito impegnati in altre funzioni. Ma quali? Per scoprirlo il ricercatore francese Stanislas Dehaene ha analizzato i cervelli di 63 soggetti, 31 di persone che avevano imparato a leggere da bambini, 22 di persone che hanno acquisito questa abilità da adulti e 10 di illetterati. Per ognuno è stata rilevata la risposta cerebrale alla lingua parlata e scritta e alla visione di facce, cose, strumenti e scacchi. «I risultati dimostrano che la lettura attiva aree primordiali come quelle deputate alla visione e al riconoscimento delle facce che vengono riutilizzate per lo svolgimento di questa funzione cognitiva che si è sviluppata recentemente, circa 5 mila anni fa, rispetto alla lingua parlata» spiega Gianluca Romani, professore di Fisica all'Università di Chieti. «Chi sa tuttavia leggere attiva meno le zone cerebrali adibite al riconoscimento delle facce con la visione delle facce piuttosto che con le parole scritte di chi è illetterato. Segno che la scolarizzazione le ha disabituate a svolgere un compito più prestorico».

Corriere della Sera 30.11.10
Con la forza del pensiero si sposta il cursore del pc
di Minnie Luongo


D'ora in poi i cursori si potranno controllare con dei semplici pensieri: questo l'annuncio della Society for Neuroscience di San Diego (Usa). «Un nutrito gruppo di volontari ha imparato in soli sei minuti come spostare un cursore sullo schermo grazie alla forza del pensiero» dice l'autrice della ricerca, Anna Rose Childress della University of Pennsylvania School of Medicine. Lo studio consisteva di due parti: la formazione informatica e l'effettivo controllo del cursore. Durante l'addestramento, i computer hanno riconosciuto due distinti schemi cerebrali: nel primo, i partecipanti sono stati invitati a pensare di colpire una palla da tennis; nel secondo, hanno immaginato di spostarsi da una stanza all'altra. Ogni insieme di pensieri veniva collocato, in corrispondenza con l'attività immaginata, in una specifica parte del cervello. I volontari hanno quindi ripetuto i medesimi modelli di pensiero, spostando un cursore sullo schermo. Conclusione: «Tutti sono stati capaci di spostare il cursore, alternando i pensieri e creando veri schemi cerebrali, subito riconosciuti dal computer».

Corriere della Sera 30.11.10
Grandezza dei corrotti che hanno fatto la storia
Pericle, Cesare, Napoleone: tutti tentati dal denaro
di Paolo Mieli


Il primo ministro Walpole si arricchì in modo illecito ma portò l’Inghilterra settecentesca al rango di potenza mondiale
La meschinità del bene Eichmann era un esecutore fidato mentre il nazista corrotto Becher consentì a parecchi ebrei di salvarsi

C’è una curiosa circostanza nella storia dell’umanità: alcune (molte) grandi personalità ancor oggi venerate o comunque tenute in alta considerazione, ai tempi in cui sono vissute sono state accusate di essersi lasciate tentare dal denaro. Accuse che per lo più sono sempre state corroborate da prove robuste. Nel V secolo a.C. l’«incorruttibile» Pericle fu sospettato di aver lucrato sui lavori pubblici per la costruzione del Partenone e lo scultore che su suo incarico sovraintese tra il 447 e il 432 a.C. ai lavori, Fidia, fu trascinato in giudizio con l’imputazione di aver sottratto parte dell’oro destinato alla statua di Atena. Riferisce Plutarco che un secolo dopo, nel 324 a.C., Demostene, il difensore dell’indipendenza ateniese da Filippo il macedone e da Alessandro Magno, fu pesantemente implicato nell’«affare Arpalo» (la sparizione di metà del patrimonio sottratta ad Alessandro dal suo tesoriere) e costretto all’esilio.
Racconta Svetonio che pure su Giulio Cesare gravò il sospetto di essersi procurato illecitamente grandi quantità di denaro. Un sospetto che è aleggiato anche sui suoi uomini e sui suoi rivali: «gli abiti dei suoi governatori erano fatti solo di tasche», ha scritto Bertolt Brecht ne Gli affari del signor Giulio Cesare; e Montesquieu — nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza — estese l’accusa di malversazione a Crasso e Pompeo, rei di aver introdotto «l’uso di corrompere il popolo con i soldi». Un grande moralista dell’antichità fu Marco Porcio Catone detto «il censore». Eppure — scriveva Seneca nelle Lettere a Lucilio — la «corruzione a Roma non è mai stata sfacciata come ai tempi di Catone». Qualche insinuazione avrebbe poi colpito lo stesso Seneca. Pesanti sospetti si addensarono su Sallustio il quale, dopo essere stato governatore della Numidia, si ritrovò tra le mani un patrimonio che gli consentì di costruire a Roma una splendida villa nei pressi del Quirinale: «Si farebbe del moralismo», ironizza Luca Canali in Identikit dei padri antichi (Manifestolibri), «affermando che il moralismo di Sallustio deriva dalla sua presunta immoralità».
A Roma, nell’età dell’impero, l’accaparramento illecito dilagò e in alcuni casi fu sfrenato. Successivamente qualcosa cambiò. Interessante, a tal proposito, la notazione di John T. Noonan — in Ungere le ruote. Storia della corruzione politica dal 3000 a.C. alla Rivoluzione francese (Sugarco) — secondo il quale il fenomeno si attenua con la diffusione della morale cristiana, nell’età dei barbari e nel primo Medioevo.
In tempi più recenti, l’uso del potere per accumulare ricchezze caratterizzò a Parigi l’attività di Richelieu che Montesquieu definì «il peggiore cittadino di Francia» (Luigi XIV, appena incoronato, istituì una corte di giustizia incaricata di esaminare la contabilità del cardinale e tale corte individuò numerosi episodi di abuso) nonché quella di Mazarino. Prima di loro c’era stato Jacques de Semblançay, tesoriere di Luigi XII e di Francesco I, impiccato per aver rubato del denaro pubblico, il quale, a dispetto delle sue malefatte, aveva ispirato a Clément Marot un poema pieno di ammirazione. Grande predatore fu anche il sovrintendente di Luigi XIV Nicolas Fouquet — protettore di Corneille, La Fontaine, Molière — che nel 1661 diede, nel suo castello di Vaux-le-Vicomte, una festa sfarzosa al punto da provocare addirittura la gelosia del re, che lo fece condannare alla prigione perpetua nella torre di Pignerol (ma il popolo di Parigi esultò alla notizia che gli era stata risparmiata la pena capitale).
In Inghilterra sir Robert Walpole, al potere dal 1721 al 1742, riuscì sì a far grande il suo Paese, ma anche a procurarsi illecitamente ingenti somme di denaro e, per questa sua debolezza, divenne il bersaglio di Jonathan Swift, oltre che di molti altri scrittori dell’epoca: Henry Fielding, Alexander Pope, John Andrews, John Gay (nel 2000 Edward Pearce ha scritto una biografia in cui lo ha del tutto rivalutato: «Forse era corrotto ma almeno si comportava da adulto»). Ai tempi della Rivoluzione francese e nei sedici anni successivi si lasciarono corrompere Danton, Sieyès, Brissot, Barère, Barras, Napoleone (assieme a quasi tutti i suoi familiari), ma soprattutto Talleyrand. Quest’ultimo operò in modo talmente sfacciato che Napoleone lo definì come «l’uomo che più ha rubato al mondo»; Chateaubriand scrisse che praticamente non c’era stato un solo atto politico che egli avesse compiuto gratuitamente; Mirabeau sostenne che per i soldi Talleyrand si sarebbe venduto anche l’anima (aggiungendo: «e avrebbe ragione perché cambierebbe la merda con l’oro», confermando la definizione che di lui aveva dato il Bonaparte: «merda in una calza di seta»). Offese alle quali Talleyrand rispose sempre con grande flemma. Allorché fu vittima di un violentissimo attacco lanciatogli dal duca di Fitz-James, il principe di Benevento reagì felicitandosi con l’oratore per l’eccellente discorso, «malgrado delle piccole cose un po’ aspre».
Per chi abbia voglia di ripercorrere la storia di questo genere di depravazione connessa al potere è adesso a disposizione un bel libro di Carlo Alberto Brioschi, Il malaffare (Longanesi), che si sofferma su innumerevoli casi di «mani sporche» dall’antichità ai giorni nostri. Ciò che impressiona maggiormente nel leggere il libro di Brioschi è la quantità di grandi personaggi ancora adesso rispettati e — come si diceva all’inizio — tenuti nel conto di benemeriti nella storia dell’umanità che non disdegnarono di barattare il loro rigore morale con danaro e potere. E qui sorge spontanea la domanda: come è possibile che, pur condannando in ogni momento la corruzione, non teniamo in alcun conto la circostanza che molti grandi della storia si siano lasciati corrompere? Per una risposta (che contiene un’analisi approfondita del fenomeno) ci giunge in aiuto Le virtù discrete della corruzione di Gaspard Koenig (pp. 228, € 16), che esce domani per Bompiani. Il libro, scrive Koenig, «non è un appello alla corruzione, ma la difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato, al quale forse siamo debitori di ciò che abbiamo di meglio». Difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato? Al quale dovremmo considerarci addirittura debitori? In che senso?
Modello di questo trattato è La favola delle api di Bernard de Mandeville (la migliore versione italiana è forse quella curata da Tito Magri per i tipi Laterza), che trecento anni fa suscitò uno scandalo destinato a durare decenni. Secondo Sergio Ricossa — in I grandi classici dell’economia (Bompiani) — quello di Mandeville è un piccolo capolavoro, tant’è che quasi tutti gli studiosi venuti dopo di lui, a cominciare da Adam Smith, hanno tratto ispirazione dal suo poemetto pur senza tributargli l’onore che avrebbe meritato (con l’eccezione di Marx che nel Capitale gli rende esplicito omaggio). Solo nel Novecento due grandi economisti, John Maynard Keynes e, sul versante opposto, Friedrich von Hayek, l’hanno rivalutato appieno. Tesi centrale in Mandeville — come si evince dal sottotitolo del libro Vizi privati, pubblici benefici —è che una società onesta è una società stagnante, mentre la corruzione genera una circolazione incessante di beni e di status. «È impossibile», scrive Mandeville, «avere tutte le dolcezze più raffinate della vita, presenti in una nazione industriosa, ricca e potente e conoscere allo stesso tempo tutta la virtù e tutta l’innocenza che ci si augura»; «quelli che vogliono rivedere un’età dell’oro, devono essere anche disposti a nutrirsi di ghiande»; «la virtù ci comanda di sottomettere i nostri appetiti, ma la buona educazione ci chiede soltanto di celarli». Scrive ancora Mandeville: «Sarei pronto a gloriare la fortezza e il disprezzo delle ricchezze come Seneca, e scrivere in difesa della povertà il doppio di quello che lui ha scritto, per un decimo delle sue proprietà».
Secondo Mandeville il grande nemico della corruzione è nient’altro che un «indolente»: «Volete metterlo alla prova? Colmatelo di onori e di ricchezze; non tarderà a conformarsi al mondo elegante, riderà di buon cuore di quella frugalità e di quel disprezzo delle ricchezze e della grandezza di cui faceva professione nel tempo in cui era povero; e ammetterà volentieri la futilità di quelle pretese ragioni». Quanto ai politici, «i ministri competenti, virtuosi, disinteressati sono i migliori; ma nell’attesa ci vogliono dei ministri». C’è da aggiungere che secondo Montesquieu (in Lo spirito delle leggi) «gli uomini furfanti al dettaglio, sono all’ingrosso gente molto onesta». E Machiavelli nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio spiega bene come i membri del corpo sociale, una volta corrotti, sia impossibile riformarli.
Nella storia del cristianesimo, Koenig giudica centrale la figura di Giuda Iscariota: senza Giuda niente crocifissione, senza crocifissione niente redenzione, senza redenzione niente cattolicesimo. Se la corruzione di Giuda è così determinante, è perché riflette la corruzione generale del mondo a partire dal peccato originale, corruzione che apre la possibilità di una redenzione tramite la fede e che non verrà cancellata, se non nel momento della resurrezione e del giudizio finale. Utile guida a meglio comprendere questi concetti è Le tre versioni di Giuda di Jorge Luis Borges. Qui Giuda sarebbe il vero figlio di Dio, di un Dio totalmente fatto uomo, con tutte le debolezze dell’uomo. Gesù l’incorruttibile sarebbe invece un impostore. L’uomo, quello vero, il solo degno, alla fine, di essere l’oggetto di una religione, è Giuda. Se ogni essere umano ha un prezzo, Giuda ha trovato il suo. Non gli si può rimproverare niente «se non forse la somma, stranamente poco elevata, per un uomo che era il tesoriere degli apostoli… con mille denari, scommettiamo che Giuda non si sarebbe suicidato e avrebbe trascorso dei giorni felici in Galilea».
Il corrotto allaccia e rompe le amicizie al ritmo degli affari. Ma deve anche fare i conti con i suoi nemici tradizionali: «I forsennati della lotta anticorruzione, i crociati della trasparenza, gli isterici della avversione al denaro sporco». Gente che traveste il proprio risentimento con l’esigenza di giustizia o di verità. Quel genere di «filosofo» che, secondo Mandeville, «si crede virtuoso solo perché le sue passioni si sono addormentate… e sentendosi inutile ai suoi concittadini, si vendica esortandoli a praticare una noiosa virtù che non è in grado di incitare a cose grandi e a imprese pericolose». Una vita temperata, vale a dire non corrotta, non procura alcun rispetto perché non produce alcun potere. La virtù è simile alle porcellane cinesi, molto belle a vedersi dal di fuori ma «guardate l’interno di ognuna, non vi troverete che polvere e ragnatele».
Il ritratto del fenomeno corruzione va fatto — secondo l’autore — mettendo in risalto i chiari e gli scuri. Nietzsche, in Al di là del bene e del male, afferma che i refrattari alla corruzione sono persone «inguaribilmente mediocri», che hanno come «unica prospettiva di riprodursi e perpetuarsi». Lo stesso filosofo, nella Gaia Scienza, descrive le epoche della corruzione come quelle in cui «la tragedia si aggira per le case e le strade, nascono il grande amore e il grande odio e la fiamma della conoscenza si alza splendente verso il cielo». Poi così prosegue: «Gli uomini della corruzione sono spiritosi e bugiardi, sanno che ci sono altri modi di assassinare, oltre al pugnale e all’agguato»; «le epoche di corruzione sono quelle in cui le mele cadono dagli alberi: voglio dire gli individui, quelli che portano il seme dell’avvenire».
Un potere non corrotto sarebbe, secondo Koenig, un potere vuoto, formale, senza efficacia, privo di qualsiasi presa reale sul mondo. Per imporre la propria volontà, bisogna aprirsi agli altri, comporre le diverse influenze, costruire delle reti offrendo favori piccoli o grandi, venire a patti con le proprie convinzioni, cambiare una parte di se stessi. Ecco perché si sentirà gridare fino alla fine dei tempi contro i governanti: «Tutti marci!» o «tutti lo stesso!»… mentre la disonestà spesso è garanzia di buona gestione. «Un potere onesto, trasparente, fermo nei principi, sarebbe debole per natura; per contro una corruzione senza potere è un non senso: perché corrompere qualcuno che non può far niente per noi? Perché farsi corrompere da chi non ci può dare niente?».
È quel che disse alla fine del XIX secolo Lord Acton: «Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente», scrisse in una lettera del 5 aprile 1887 a Mandell Creighton, «i grandi uomini sono quasi sempre dei cattivi uomini». Il nobile barone inglese, osserva Koenig, «non intendeva assolutamente fare l’elogio della corruzione; paradossalmente, il suo liberalismo, che pone l’interesse individuale sopra ogni altro movente, lo porta a una tesi così drammatica e così profondamente realista». Quanto poi a l mondo limpido dell’Utopia, George Orwell «ha ben descritto dove porta il fanatismo della trasparenza: l’individuo diventa come una medusa, traslucido e vuoto».
George Orwell in 1984 spiega come il totalitarismo sia il più feroce avversario della corruzione (e viceversa). L’eroe del suo libro, per difendersi dal Grande Fratello ripone in essa aspettative di libertà: «Tutto ciò che lasciava intravedere una corruzione», scrive, «lo riempiva sempre di una folle speranza». Di più. C’è un capitolo del famoso libro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli), che raccoglie le corrispondenze della scrittrice sul processo al criminale nazista scritte per il «New Yorker», in cui si parla diffusamente di Kurt Becher. E chi era Becher? Un nazista corrotto, laddove Eichmann era stato incorruttibile. Eichmann si era presentato come un uomo ligio ai doveri di cittadino che rispetta la legge, fiero di esibire un «atteggiamento senza compromessi», dettato «non dal fanatismo, ma dalla sua stessa coscienza». Tutto il contrario di Becher, che si muoveva nei meandri della corruzione. E così mentre Eichmann arrivava a deportare in qualche mese più di 400 mila ebrei ungheresi, Becher, su incarico di Himmler, aveva come «missione speciale» l’assunzione del controllo delle principali imprese ebraiche. Con ogni mezzo. Per mettere le mani sul cartello dell’acciaio di Manfred Weiss, Becher — dietro compenso — consentì a 45 membri della famiglia Weiss di emigrare verso il Portogallo. Eichmann seppe di queste attività e le definì «porcherie». Ma Becher se ne infischiò e fissò, anzi, una tariffa di duemila dollari, pagando i quali gli ebrei potevano mettersi in salvo. Fu così che 1.684 israeliti sfuggirono alla rete di Eichmann. Poi Becher mise a punto un programma, «vita contro merci», che prevedeva lo scambio tra la vita di un milione di ebrei e 10 mila camion. Il piano fallì, ma intanto le fortune di Becher crebbero. In tempo di guerra Becher ottenne una promozione che Eichmann non riuscì ad avere e, caduto il Terzo Reich, non solo si salvò ma, grazie al tesoro che si era procacciato nei modi di cui abbiamo detto, visse il resto della sua vita come uno degli uomini più ricchi della Germania occidentale.
La Arendt ci induce a riflettere sul fatto che la virtù era certamente di casa nella coscienza di Eichmann, un cittadino «che rispetta la legge ma non la vita». La corruzione invece era al centro dell’universo mentale di Becher, «un uomo senza morale che salva delle vite». Koenig ne trae la conclusione che «il gioco degli interessi comuni produce dei risultati più ponderati che i precetti della coscienza individuale; attraverso le tentazioni, la vita oltrepassa la freddezza mortale dei principi… Trafficando in "vite contro merci", Becher rispondeva infine a una inclinazione vitale, non perché si preoccupasse della vita degli altri, ma perché pensava alla sua». Dopodiché l’autore aggiunge: «non vogliamo concludere che la corruzione si trova infallibilmente dalla parte del bene… ma, invitando a scegliere il compromesso, contro il fanatismo morale, essa quanto meno sta, per sua natura, dalla parte del male minore». Per concludere: «Alla banalità del male, che elimina ogni tentazione, rispondiamo con la meschinità del bene, che spesso consiste, lontano da ogni eroismo, nel dare ascolto ai propri interessi». E poi: «La lotta contro la corruzione in nome della sacrosanta "trasparenza", non solo rischia di avvelenare i rapporti sociali, ma minaccia anche di impoverirci; prima di intraprendere le consuete crociate contro i fondi neri, i nostri uomini politici dovrebbero calcolare quanti punti di Pil bisognerebbe sacrificare per vivere in un mondo onesto, in cui i contratti si firmassero alla luce del sole e venissero regolarmente denunciate tutte le transazioni». Una tesi ardita come del resto l’intero contenuto di questo libro. Ma meritevole di una qualche riflessione.

Corriere della Sera 30.11.10
Il mondo guarda all’Asia. Ma il declino dell’Occidente non è scontato
di Federico Fubini


Il nuovo libro di Federico Rampini sull’«epoca di transizione» che stiamo vivendo, tra storture del capitalismo e nuovi spettri

A oltre tre anni dall’inizio della grande crisi, i soli Paesi che rispettano le regole inventate dall’Occidente sono altrove: in Asia, anche incluso l’indebitatissimo Giappone, il deficit pubblico dei vari governi viaggia in media al 2,8 per cento del prodotto l ordo. L’Asia, con al centro la nuova superpotenza cinese, è in regola con Maastricht proprio mentre la zona-euro rischia il naufragio e il disavanzo americano sembra stratosferico e irriducibile.
Federico Rampini, corrispondente di «Repubblica» da New York, ricorda molti di questi dati a sostegno di una tesi di fondo: viviamo un’epoca «di trapasso da un’egemonia occidentale a qualcos’altro che ancora non sappiamo quale forma avrà». Rampini in realtà nel suo ultimo libro ( Occidente estremo, Mondadori, pp. 289, € 18) precisa subito qualche tratto essenziale di questa migrazione del potere economico e geopolitico: «Viviamo un secolo segnato dalla transizione storica, dal ritorno del centro degli eventi verso Oriente». E oggi uno dei principali protagonisti è Barack Obama, per l’autore «una figura tragica, perché il destino gli ha consegnato un compito crudele: gestire al meglio un declino secolare».
Declino americano (e europeo) contro ascesa asiatica e logica di potenza cinese. Fascino della decadenza, dai parchi di New York alle splendide università della California, contro il volto spesso respingente e la natura forse fragile del regime di Pechino. È questo il campo nel quale Rampini, come nel suo precedente Slow Economy (Mondadori) sceglie di muoversi. Occidente estremo lo fa con una galleria rapida e vivida di situazioni e personaggi. Ci sono le «balene», gli obesi americani sempre con pop-corn e maxi-bibite in mano, per i quali ormai i cinema hanno installato sedie sempre più larghe. Rampini vede in queste «creature abnormi» un «concentrato di tutte le storture dello sviluppo capitalistico», quello che per decenni in America ha spinto i consumi personali all’eccesso e a qualunque costo.
Molti degli spettri del declino che con la crisi l’America avverte acutamente, si aggirano in realtà nel sistema dell’istruzione. Si scopre che gli asiatici e i cinesi in particolare, dall’approdo alle elementari, passano a scuola molto più tempo degli americani. Misurato in ore è un margine del 30 per cento, quarantuno giorni di istruzione in più all’anno che si fanno sentire nel successo crescente degli asiatici nelle migliori università americane, dalla Columbia di New York a Stanford.
Ma se c’è una lezione dagli anni Novanta, quando l’America sembrava l’iperpotenza incontrastata, è che niente è scritto in anticipo. La tentazione di proiettare il presente nel futuro, concludere che questo è il secolo della Cina, può nascondere trappole. Rampini lo sa e non dimentica di indicare i punti nei quali il progetto egemonico di Pechino rivela già «le prime crepe». Il più evidente è il dissenso sempre meno contenibile fra le etnie minoritarie e fra gli oppressi. Non solo i tibetani, la cui gioventù a Lhasa protesta «come nell’Intifada palestinese o nelle banlieues parigine». Simili tensioni si avvertono anche fra i musulmani uiguri del Xinjiang ma anche fra gli operai sottopagati di etnia han. Il regime, impaurito, fa concessioni ai lavoratori ma reprime le rivolte etniche. Ed è proprio questa rigidità, nota Rampini, che impedisce alla Cina di esprimere la stessa creatività che rende gli Stati Uniti tutt’ora ineguagliabili. Il travaso di potere da Ovest e Est starà forse accelerando. Ma se c’è qualcosa che oggi crea tensione, è soprattutto l’incertezza sull’esito finale.

Repubblica 30.11.10
Il filosofo ha scritto un saggio sul rapporto con l’altro da noi
Curi: "Quando lo straniero misura la nostra identità"
di Marco Filoni


Chi è lo straniero? L´immigrato, l´extracomunitario, il forestiero. O anche il rom. Oppure "l´altro", "il diverso" da noi. Umberto Curi, filosofo e docente a Padova, a questo termine ha appena dedicato un libro felice e riuscito. «Sono partito da un concetto di Freud, il perturbante, perché restituisce il tratto di un´ambivalenza irriducibile e costitutiva. Il padre della psicoanalisi mostra che proprio ciò che appartiene all´ambito domestico è massimamente perturbante: la cosa a noi più vicina è in realtà carica di una forza inquietante. L´esplorazione di questa dimensione di ambivalenza mi sembra il punto di riferimento più adeguato per trattare una figura che, sia dal punto di vista concettuale che linguistico, si mostra essere inevitabilmente duplice: lo straniero».
Non a caso non esiste nessuna lingua che traduca perfettamente il concetto freudiano di perturbante. Tranne una: il greco antico, con Xenos. Che è anche il termine usato per indicare lo straniero.
«Infatti è proprio su questa originaria ambivalenza linguistica che poi se ne costruisce una più generale. Nel senso che straniero è colui che, venendo dall´esterno, pone il problema dell´accoglienza e dell´ospitalità. Ma insieme pone anche l´aspetto della minaccia. Sono due caratteristiche insolubili. Non è mai possibile ridurre l´hostis, il termine latino per indicare lo straniero, semplicemente a ospite; così come non è possibile ridurlo soltanto a nemico. È sempre ospite e nemico insieme».
La nozione dell´ospitalità chiama in causa quella del dono. Qual è il rapporto fra lo straniero e il dono?
«Sono figure simili, riflettono un´identica condizione. Come insegnano i classici greci e latini, il dono è sempre un inganno. Si presenta come qualcosa che al tempo stesso conferisce e sottrae. È qualcosa che aggiunge, ci dà qualcosa in più. Ma al tempo stesso vincola, ci mette in una condizione di subalternità. È esattamente ciò che accade con lo straniero. Non c´è dubbio che sia portatore di un dono. E questo dono è il conferimento della nostra stessa identità. È bene non dimenticarlo: possiamo definire la nostra identità solo in rapporto con l´altro da sé, e ciò che è veramente altro è lo straniero. Però lo straniero è accompagnato in maniera indissolubile da un´inquietante carica di minaccia».
Ed è questo aspetto che crea e alimenta la paura…
«L´atteggiamento nei confronti della paura è uno degli aspetti più rivelativi della miseria culturale del nostro dibattito. Perché sulla paura sono state costruite le fortune di alcune forze politiche italiane. Attraverso la paura è più facile esercitare il controllo sociale e acquisire comodi successi politici. Tutte le così dette politiche del rifiuto si fondano su questo aspetto».
Sullo straniero si è creato un mercato della paura: come venirne fuori?
«Rovesciando il processo. Oggi si discute, si deliberano con grande sicurezza provvedimenti e iniziative di carattere legislativo senza essere sfiorati dal dubbio, senza il minimo di problematicità. Nessuno s´è preso la briga di approfondire e capire la figura dello straniero. Al contrario bisognerebbe aprire una riflessione rigorosa e approfondita per cogliere la sua polivalenza. Tenendo ben distinte l´ospitalità, nozione filosofica, dall´accoglienza, che è invece uno dei possibili atteggiamenti politici con i quali affrontare la questione».

Repubblica 30.11.10
Alle cavie da laboratorio è stato manipolato l’enzima della telomerasi La ricerca americana pubblicata su Nature genera speranze e qualche dubbio
Il gene che fa ringiovanire l’elisir dai topi senza età
di Angelo Aquaro


Non è facile riconoscere il ritratto di Dorian Gray nel faccino di un topo da laboratorio. Ma l´esperimento riuscito nella prestigiosissima Medical School di Harvard sembra davvero la realizzazione del sogno inseguito dai tempi di Narciso. Fermare l´orologio dell´età. Anzi: farlo addirittura tornare indietro nel tempo.
Il mito dell´eterna giovinezza si nasconde in un enzima chiamato telomerasi. E gli esperimenti che hanno mandato in subbuglio la comunità scientifica sono placidamente riassunti dal professor Ronald DePinho così: «I topolini avevano un´età che può essere comparata agli 80 anni di un uomo: erano sul punto di morire. Dopo l´esperimento, avevano invece l´aspetto fisiologico di un giovane adulto».
L´annuncio che arriva da Boston fa già discutere. Correggendo un gene gli scienziati sono riusciti a fermare una malattia del cervello, a ridare ai topi l´olfatto perduto e perfino la capacità di procreare. E il professor DePinho ora giura alla Cnn che questo «è solo l´inizio di un cammino che potrebbe nei prossimi anni riguardare anche l´uomo». Certo, i fattori che determinano l´invecchiamento sono tanti: ma l´esperimento genetico ci dimostra che «esiste un punto in cui si può tornare indietro».
Le conclusioni della ricerca apparsa su Nature e rilanciata dal Wall Street Journal fanno venire i brividi. E anche se la sensazionale scoperta è stata fatta utilizzando dei topolini che, poveretti, erano stati preventivamente invecchiati sempre geneticamente, gli scienziati sono fìduciosi di poter presto ripetere il test con cavie invecchiate naturalmente.
L´enzima dei miracoli è quella telomerasi che forma piccole unità di Dna che fungono da "tappo" ai cromosomi. Queste particelle di Dna si chiamano telomeri e potrebbero essere rappresentati come i tappetti di plastica che chiudono le estremità dei lacci da scarpe: i lacci, in questo caso, sarebbero i cromosomi e i telomeri eviterebbero così la frammentazione e il disfacimento del Dna. Una scoperta, quella di telomeri e telomerasi, recente: appena un anno fa tre americani hanno vinto il Nobel della medicina.
Con l´invecchiamento, i telomeri si accorciano sempre più, impedendo quella divisione cellulare che è alla base della continua formazione dei tessuti: gli organi si atrofizzano, le cellule del cervello muoiono. Da qui l´ipotesi del team di Boston: riattivando i telomeri si può far ripartire l´orologio del tempo?
Gli scienziati hanno usato un farmaco a base di estrogeni per riaccendere il Tert che condiziona la telomerasi. Dopo un mese, la sorpresa: i topini che erano stati così trattati hanno riacquistato le funzioni vitali. DePinho e il suo team sono insomma conviti di aver «invertito i segni e sintomi dell´invecchiamento: rimuovendone le cause». Ma c´è un altro step da superare. La tecnica è sicura?
Il nemico più temuto si chiama tumore. Il 90 per cento dei tumori che si sviluppano nell´uomo richiedono proprio una certa quantità di telomerasi per propagarsi. E molti ricercatori stanno cercando di "disattivare" la telomerasi proprio per combattere la formazione del cancro. E se la "riattivazione" dell´enzima per fermare l´età, ci si chiede, favorisse, al contrario, proprio la propagazione del tumore?
Sono domande a cui l´équipe di Boston sta cercando adesso di rispondere. Ma una buona notizia c´è già: i topolini invecchiati e poi ringiovaniti hanno proseguito il normale corso del tempo e ci hanno lasciati, se non proprio serenamente, quantomeno senza malattia. Perché, sia chiaro, potremo anche riportarlo indietro: ma fermare per sempre l´orologio della vita - lo insegna proprio Dorian Gray - ancora non si può.

lunedì 29 novembre 2010

l’Unità 29.11.10
Favoreggiamento Nei guai il medico salito sulla torre per l’immigrato


Saranno denunciati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina «il medico curante e persone esterne» all'ospedale San Paolo di Milano, da dove è stato dimesso ieri l'immigrato che sabato pomeriggio è sceso dalla torre della ex «Carlo Erba» di via Imbonati a causa delle sue gravi condizioni di salute. Lo rende noto la Questura di Milano, la quale aggiunge che l'immigrato è stato dimesso nella prima mattinata da parte di personale medico di quell'ospedale. Nel comunicato non è spiegato quali sia il medico che sarà denunciato: se quello appartenente a Emergency che l'ha curato sulla torre oppure un medico che l'abbia curato in seguito. «In merito ai fatti sono in corso indagini da parte della Questura di Milano spiega la Questura per accertare la correttezza delle procedure adottate, essendo emersi da parte del medico curante e di altre persone estranee alla struttura sanitaria comportamenti che configurano l'ipotesi di reato di favoreggiamento all'immigrazione clandestina». «I fatti costituenti reato spiega la Questura saranno oggetto di denuncia all'autorità giudiziaria». Emergency ha fornito due medici per il soccorso a uno degli immigrati sulla torre in via Imbonati. Uno dei due è stato portato dai Vigili del fuoco fino a 45 metri d'altezza, dove si trova la balconata ad anello sulla quale si erano accampati i tre immigrati. L'altro a terra coordinava i soccorsi con la Questura e i Vigili del Fuoco. Il giovane egiziano ha cominciato a sentirsi male l’altra mattina, quando ha manifestato difficoltà a svegliarsi e a muoversi. Nel pomeriggio è peggiorato e questo ha convinto gli altri due suoi compagni a chiedere aiuto.

Repubblica 29.11.10
Aveva soccorso uno degli immigrati in protesta sulla torre di una fabbrica. Nel mirino le procedure di dimissione
Milano, medico cura un clandestino rischia l´accusa di favoreggiamento
di Tiziana De Giorgio e Massimo Pisa


MILANO - Lo avevano lasciato su un letto dell´ospedale San Paolo, viola di freddo e con dolori al petto, con in tasca un invito a comparire in questura a metà settimana e il tacito accordo che non lo avrebbero piantonato, ma solo «vigilato». Ieri mattina, quando gli agenti della digos sono andati in ospedale a verificare le sue condizioni, hanno trovato la sorpresa. Mahmoud, l´immigrato egiziano 23enne sceso da una ciminiera di via Imbonati dopo 23 giorni di protesta per ottenere il permesso di soggiorno, non c´era più. Dimesso alle 7.42 dal dottor Andrea Crosignani, lo stesso che lo aveva convinto a venire giù dalla torre, abbandonando gli altri due compagni di lotta perché il freddo e la fame avevano presentato il conto. Ricoverato in codice giallo, con l´assicurazione verbale alla polizia che il ragazzo sarebbe rimasto in corsia per tutto il giorno, Mahmoud si è invece volatilizzato. E la questura non l´ha presa bene, annunciando provvedimenti attraverso un inusuale comunicato: «Sono in corso indagini per accertare la correttezza delle procedure adottate, essendo emersi da parte del medico curante e di altre persone estranee alla struttura sanitaria comportamenti che configurano l´ipotesi di reato di favoreggiamento all´immigrazione clandestina».
Nel mirino non ci sono tanto Crosignani («Ho semplicemente fatto il mio lavoro», spiega) e nemmeno la direzione sanitaria del San Paolo, che ha ribadito nel pomeriggio in una nota («Non c´erano motivi per trattenerlo») la correttezza delle procedure, quanto «altre persone - aggiungono da via Fatebenefratelli - non appartenenti alla struttura sanitaria, che avrebbero aiutato lo straniero a lasciare l´ospedale, al momento della sua dimissione, eludendo anche la sorveglianza degli organi di polizia». La vivono come una beffa in questura, dov´erano ancora in corso accertamenti sull´identità di Mahmoud, sui suoi eventuali precedenti, alias e istanza di permesso, essendo il ragazzo privo di passaporto al momento del ricovero. «Denuncia sconcertante, violenza senza precedenti», lamenta il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, che annuncia esposto in procura e alla Corte Europea: «Evidentemente l´immigrato curato non era il nipote di Mubarak». Sulla torre, in via Imbonati, restano un argentino e un marocchino a protestare.

Repubblica 29.11.10
La giornata dei malati in coma nell’anniversario di Eluana Marino e i radicali: provocazione


ROMA - Polemiche sulla decisione del Consiglio dei ministri d´istituire il 9 febbraio la «giornata degli stati vegetativi», per celebrare tutti i malati terminali e i loro familiari. «Giusta la giornata, sbagliata la data perché è quella della morte di Eluana Englaro», dice il direttore di Bioetica della Cattolica, Adriano Pessina. Il senatore Pd Ignazio Marino, per motivi diversi, parla invece «d´inutile provocazione». Contro la scelta della data anche Maria Antonietta Farina Coscioni secondo la quale «aver indicato questa data è una vergogna». La sottosegretaria alla Salute, Eugenia Roccella, difende invece il governo: «Con questa giornata il ricordo di Eluana non sarà più una memoria che divide».

l’Unità 29.11.10
Ma il racconto laico non è «contro»
di Francesco Piccolo


T utti hanno detto agli autori di Vieni via con me (di cui faccio parte), con molta facilità: cosa vi costa dare voce a un punto di vista in più esibendo con questa affermazione una presunta e più ampia laicità. La questione però è mal posta, ed è mal posta in modo tendenzioso. La questione non è quella di ospitare un punto di vista in più; ma che, facendolo, accetteremmo la tesi che abbiamo parlato contro qualcuno. La domanda quindi dovrebbe essere non: perché non date la parola a un punto di vista in più? Ma: avete parlato contro qualcuno?
Quello che i movimenti pro-vita, e molti cattolici poco generosi non capiscono, è che non abbiamo parlato contro nessuno per un motivo semplice: noi siamo totalmente d’accordo con le loro te-
si. Abbiamo già accettato le loro ragioni, a priori. Sono loro a non ammettere le ragioni degli altri. Un laico vero ritiene che bisogna accettare tutt’e due le possibilità di scelta davanti a una tragedia umana così incomprensibile per chi la vive, figuriamoci per chi non la vive. Un cattolico invece ritiene che ci sia solo una possibilità, e l'altra è sacrilega. In uno stato laico, però, dovrebbe prevalere il pensiero laico che, ripeto, comprende quello cattolico. Se prevale il pensiero cattolico che non comprende quello laico c’è qualcosa che non va. E questo va raccontato. E a questo racconto non si può affiancare un altro che si definisce opposto, perché nel racconto laico sono già compresi tutti e due i punti di vista; quindi un raccon-
to opposto non c’è.

Repubblica 29.11.10
Gelmini: sì a riforma entro l´anno atenei in fermento, domani il corteo
Settimana decisiva, studenti sui tetti in 19 città
di Corrado Zunino


Il decreto arriva alla Camera, potrebbe approdare al Senato il 9 dicembre. Il ministro: sarà la fine della cultura egualitaria del ‘68

ROMA - Rinfrancata dalle parole di Gianfranco Fini, che ha assicurato il voto favorevole alla riforma dell´università, domani mattina alla Camera, dei 36 deputati di Futuro e Libertà, il ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini ritrova il coraggio e assicura: «Prima della metà di dicembre la riforma sarà legge». La Gelmini, convinta dell´approvazione alla Camera già domani sera, chiederà infatti di mettere il decreto legge in calendario al Senato il 9 dicembre, certa di un passaggio definitivo rapido. «È una riforma epocale sul piano culturale: spazza via la cultura egualitaria del ‘68», dice il ministro. «I ragazzi li hanno convinti che il governo gli ruba il futuro, ma illuderli che mettendo più soldi si risolve tutto è demagogia». Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, si mostra critico sulla politica dei tagli: «La riforma può essere discussa e migliorata. I tagli devono essere annullati. Sono stati commessi alcuni errori: ci volevano più risorse per dare il segno dell´intenzione di investire sull´università».
In un video rintracciabile sul sito della rete dei ricercatori 29 Aprile, che giovedì hanno filmato la salita sui tetti romani di Architettura di quattro deputati finiani, si ascoltano Fabio Granata e Benedetto Della Vedova dire: «Abbiamo detto sì alla riforma perché ci sono state forti pressioni del capo dello Stato». E poi, visto che «intendiamo votare la sfiducia a Berlusconi, vogliamo arrivare al 14 dicembre compatti». Fughe in avanti - come il "no" al decreto Gelmini -potrebbero mettere a rischio il gruppo parlamentare.
La protesta degli studenti, però, non si ferma. Fin qui sono state coinvolte 38 città, mentre 51 facoltà e rettorati sono occupati e in 19 università studenti e ricercatori sono sui tetti. Oggi in tutta Italia sono previste assemblee per preparare il presidio a Montecitorio di domani mattina e nuove iniziative. Sulle terrazze di Architettura, ormai luogo simbolo della rivolta giovanile, sono attesi il musicista Nicola Piovani e l´attore Ascanio Celestini. E i superstiti di Architettura - due piccole tende americane in queste notti li hanno difesi dalla pioggia - hanno ottenuto che il Manifesto trasferisse in Fontanella Borghese la riunione di redazione. All´Aquila sit-in in piazza Duomo, zona agibile nel cuore del centro storico devastato. E da piazza della Costituzione a Cagliari, oggi pomeriggio, partirà una fiaccolata. Dopo la contestata partecipazione a "L´ultima parola" di Gianluigi Paragone, questa sera i ricercatori di Architettura si collegheranno dal tetto di Architettura con l´"Infedele" di Gad Lerner (La7) e la ricercatrice Francesca Coin sarà ospite dell´ultima puntata di "Vieni via con me" di Fabio Fazio e Roberto Saviano (RaiTre).
Al ministero, in viale Trastevere a Roma, è previsto l´arrivo di quattro pullman: scaricheranno centinaia di bambini del VII circolo Montessori di Roma. Con loro un asino alto quattro metri costruito con bottiglie di plastica: "Taglia e ritaglia alla fine l´alunno raglia".

Repubblica 29.11.10
La ricercatrice Francesca Coin questa sera a "Vieni via con me"
"No, non torno negli Usa è il momento di lottare"


ROMA - Con una lettera a "Repubblica" Francesca Coin, 34 anni, illustrò lo shock del rientro in un´università italiana dopo otto anni di vita accademica in America: «Negli Usa era venuto a prendermi all´aeroporto il capo dipartimento dell´ateneo, come ricercatrice guadagnavo il triplo, essere giovani là è una risorsa non un problema». Ora è sui tetti di Architettura, a Roma, e questa sera leggerà nello studio di Fazio e Saviano un elenco di cose per lei necessarie all´università italiana.
Sono passati 45 giorni da quella lettera, che è successo nel frattempo?
«Il ministro Gelmini non mi ha mai risposto e io, da ricercatrice, ho dichiarato l´indisponibilità a insegnare alla Ca´ Foscari. E con l´avvicinarsi del voto parlamentare è cresciuta la necessità di bloccare una riforma sbagliata».
Perché sbagliata?
«Per tre motivi, fra i tanti. Non trova un posto per i ricercatori precari, saranno precari per sempre. L´autonomia di pensiero che da secoli nutre le università viene compromessa dall´arrivo di un cda con poteri vincolanti. E poi hanno tagliato del 90% le borse di studio: il diritto a studiare sarà solo dei ricchi».
Nonostante l´Italia bloccata, è probabile che la riforma passi.
«Lo temiamo. C´è stato uno scambio: la sfiducia al governo ha prevalso sull´università».
Che fa, torna in America?
«Là sarei comunque straniera. In Italia posso dare tutto quello che ho imparato negli Usa per un fine più grande. Oggi nel mio paese c´è l´humus per creare qualcosa di nuovo».
(c.z.)

Corriere della Sera 29.11.10
Su Latorre il gelo di Bersani Vendola incassa l’apertura
Il leader: solo un contributo personale. Veltroni: partito-babele
di Maria Teresa Meli


ROMA — Brutto risveglio domenicale per il segretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani. Sul Corriere della Sera il vice capogruppo del Senato Nicola Latorre propone di rifondare il Pd, invita Nichi Vendola a partecipare a questa nuova avventura politica e propone a Matteo Renzi e a Nicola Zingaretti di correre per la leadership del nuovo partito.

L’intervista fa arrabbiare il leader, che in questo periodo si sente minacciato non solo dalla minoranza interna. Non è sfuggito a nessuno il fatto che ultimamente alcuni autorevoli dirigenti del Pd abbiano assunto posizioni non perfettamente collimanti con quelle del leader. Il suo vice Enrico Letta non nasconde di non vedere di buon occhio la rincorsa a sinistra di Bersani, che sembra essersi gettato all’inseguimento di Vendola. Massimo D’Alema è apparso alquanto freddo nei confronti del segretario che scala i tetti per manifestare insieme agli studenti. Filippo Penati ha preferito dimettersi e allontanarsi dal suo staff. Marco Follini si sta addirittura avvicinando a Walter Veltroni. E Sergio Chiamparino non nasconde più la sua insofferenza verso l’attuale gestione del Pd: «È paradossale che non sia il primo partito dell’opposizione a chiedere di andare alle urne, in una situazione di ingovernabilità del Paese. Questa situazione è dovuta alla mancanza di una leadership forte e credibile: utilizziamo tutte le risorse che abbiamo per identificare un vero leader». Gli unici che in questa fase sembrano condividere in tutto e per tutto le posizioni di Bersani sono Rosy Bindi e Dario Franceschini.
La sortita del vice capogruppo del Pd a palazzo Madama non ha quindi fatto piacere al numero uno del partito. Che ha chiesto al fedele Maurizio Migliavacca, coordinatore della sua segreteria, di diramare una nota in cui cerca di limitare la portata delle affermazioni del braccio destro di D’Alema: «Il Pd è un partito aperto in cui ciascuno porta liberamente il proprio contributo personale. È in questo contesto che va inquadrata anche la proposta odierna del senatore Latorre». Tace, per ora, Vendola. Nel senso che non rilascia dichiarazioni ufficiali. Ma il governatore della Puglia ha deciso di incassare la «parte positiva» dell’intervista di Latorre: «E’ un’apertura». Walter Veltroni, ieri, con gli amici con cui ha parlato è stato invece abbastanza critico: «E’ la prova della Babele che c’è nella maggioranza del Pd». Prende le distanze anche Enrico Letta, che ha il dente avvelenato contro Vendola: «Quella di Latorre è una forzatura». E poi: «Il presidente della regione Puglia deve comunque capire che senza il Partito Democratico non va da nessuna parte».
Ma al di là dei commenti, c’è un punto su cui ieri si interrogavano il segretario e i suoi uomini. Per quale ragione Latorre e D’Alema abbiano deciso di uscire nello stesso giorno con due interviste diverse. Sì, perché se Latorre apre a Vendola, il presidente del Copasir, invece, gli sbatte la porta in faccia — o poco ci manca — e propone una Santa Alleanza con l’Udc e Futuro e libertà. Il fatto è che dietro le ricette politiche diverse c’è una preoccupazione comune, una preoccupazione che unisce la maggior parte dei dirigenti del Pd. Cioè che alla fine Bersani voglia andare veramente al duello con Vendola alle primarie, con tutto il rischio che questo comporta. Già, perché anche se il segretario riuscisse a sconfiggere il presidente della regione Puglia, la sua sarebbe comunque una vittoria di misura, il che condizionerebbe inevitabilmente la linea del Pd.
Per questa ragione Latorre tenta di trovare un accordo con Vendola. Mentre D’Alema spera ancora che alla fine Pier Ferdinando Casini accetti di guidare una coalizione di centrosinistra, con buona pace delle primarie e dei suoi sostenitori. L’intento è lo stesso: neutralizzare la forza di Vendola che per il Pd può essere dirompente. Per questo motivo alcuni ambasciatori delle diverse aree in cui ormai è diviso il Partito Democratico hanno provato a capire se personaggi nuovi per quel che riguarda la ribalta della politica nazionale siano disposti a scendere in campo. Matteo Renzi e Nicola Zingaretti, tanto per fare dei nomi, non si sono mostrati affatto interessati. Ma Chiamparino ha fatto sapere di essere pronto al grande passo.

Corriere della Sera 29.11.10
«Vogliono sfrattare noi ex popolari»
Fioroni: con Sel ci rinchiudiamo in un recinto di sinistra, ma così salta tutto
di M.T.M.


“Se la gente non ci vota, alle primarie e alle elezioni, non si può far finta che non sia colpa nostra”

ROMA — «Non ho parole: nella nostra manifestazione dell’Eliseo, venerdì, abbiamo lanciato il Pd pride, e invece quello che pensano di fare alcuni nostri compagni di partito, a cominciare da Nicola Latorre, è esattamente il contrario: vogliono archiviare il Pd». Beppe Fioroni, uno dei leader, insieme a Walter Veltroni e Paolo Gentiloni, della minoranza del Partito Democratico, è su tutte le furie.
Onorevole, Latorre non dice archiviare, ma rifondare. Perché è così ostile all’ipotesi avanzata dal vice capogruppo del Pd al Senato?
«La sua è una soluzione da azzeccagarbugli: vuole allargare il Pd a Nichi Vendola per farlo diventare un partito solo di sinistra, e magari vuole cacciare anche noi cattolici che non veniamo dal Pci».
Non lo ha detto. In compenso Massimo D’Alema ha dichiarato al Messaggero che si può fare una Santa Alleanza elettorale con Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, su questo almeno sarà d’accordo.
«Il combinato disposto dell’intervista di Latorre e di quella di D’Alema è devastante per il Partito Democratico. Partono entrambi dal presupposto che il Pd deve delegare la "copertura" dei moderati ad altri soggetti politici, rinchiudendosi in un recinto di sinistra. E’ incredibile, si preferisce regalare voti agli altri partiti. Ciò detto, non sono contrario ad andare alle elezioni con un’alleanza con Casini. E se la maggioranza del mio partito sarà favorevole, accetto anche l’accordo elettorale con Fini. Però voglio fare una precisazione: noi possiamo pure allearci con altri soggetti politici, senza però svenderci».
Quindi lei non accetta l’idea che il Pd si sposti a sinistra. Eppure negli ultimi tempi anche il segretario Bersani sembra propenso ad andare verso quella direzione.
«Latorre abbraccia Vendola ed espelle noi ex popolari. Non credo che questo faccia piacere a Bersani. Anzi».
Non le sembra di esagerare, onorevole Fioroni?
«Nient’affatto, Latorre sostiene che il Pd non può più essere fondato sull’unione tra gli eredi del Pci e gli eredi del cattolicesimo moderato e lancia anche un amo a Vendola: che cosa significa tutto ciò? Significa una sola cosa: che si mira a sfrattare noi e a fare un’aggregazione tra tutti gli ex pci. Ma se dovesse veramente accadere una cosa del genere, allora salterebbe tutto».
C’è chi sostiene che in realtà l’obiettivo dei dalemiani sia quello di evitare le primarie. Latorre dice che non devono essere fatte quelle di coalizione. D’Alema lascia capire che se fosse per lui non andrebbero fatte punto e basta.
«Vogliono esorcizzare le primarie. Questo mi sembra chiaro. Ma non funziona così. Il problema non sono quelle consultazioni, il problema è il Pd che non riesce a vincerle. E non è che per questo dobbiamo affossarle. Se la gente non ci vota, alle primarie come alle elezioni, ci sarà un motivo, smettiamola di far finta di niente, di far finta che non sia colpa nostra».
Latorre sostiene anche che il Partito democratico, dalla vicenda di Pomigliano d’Arco non ha riflettuto abbastanza sulla vicenda Fiat e sull’atteggiamento di Sergio Marchionne.
«Sì, secondo lui Marchionne è un capitalista autoritario. E questa è una critica, neanche tanto implicita al leader della Cisl Raffaele Bonanni».
Che nella vicenda Fiat si è schierato con Marchionne.

Repubblica 29.11.10
Nel Pd bufera su Latorre che vuole Vendola "socio fondatore"
"Al voto con Udc e Fli" stop dei finiani a D´Alema
Bocchino apre invece al governo di transizione proposto dal presidente Copasir
di Antonio Fraschilla


ROMA - Governo di transizione, ma se si va al voto occorre varare una grande coalizione «con Fli, Udc e Pd e, perché no, anche Sel di Vendola». La proposta arriva da Massimo D´Alema in un´intervista al Messaggero e trova i finiani favorevoli a un esecutivo di transizione ma contrari a «sante alleanze elettorali». Tra i democratici, invece, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, chiede a D´Alema «di non fare proposte da ridere».
Sul governo di transizione sono però tutti d´accordo. «Berlusconi dovrà convincersi della necessità di un governo di responsabilità nazionale», dice il capogruppo alla Camera di Fli, Italo Bocchino. Un altro colonnello finiano, Adolfo Urso, distingue invece tra le due proposte di D´Alema: «Sì a un governo di responsabilità nazionale, ma non c´interessa una santa alleanza in caso di elezioni». L´unico tra i finiani che apre ad andare al voto con i democratici è Carmelo Briguglio: «Ma patto che sia Gianfranco Fini il candidato premier», dice.
La proposta di D´Alema scuote anche i democratici: «Con uno schieramento che vede insieme Vendola, Casini e persino Fini, non si va da nessuna parte», dice Renzi. A tenere banco nel Pd è comunque anche la proposta del dalemiano Nicola Latorre, che vorrebbe far fondere i democratici con Sel: «Sarebbe uno snaturamento del partito», dice il democratico Marco Meloni. «Aprire a Sel? È una forzatura», aggiunge Enrico Letta. «È una ricetta ridicola» la stronca il deputato Giorgio Merlo.

l’Unità 29.11.10
Quasi il 53% approva la legge per l’espulsione automatica degli immigrati condannati

Negato il diritto all’esame individuale dei casi. Un anno fa passò il divieto a costruire minareti
Referendum anti-stranieri In Svizzera vince il sì
Gli svizzeri dicono sì (quasi il 53%) nel referendum sulla legge di iniziativa popolare che prevede l’immediata espulsione senza diritto di appello per gli stranieri che commettono reati.
di Gabriel Bertinetto


Una legge per cacciare gli stranieri che commettono i reati in Svizzera già c’era. Non contenti, gli xenofobi del Partito popolare ne hanno proposta un’altra ancora più dura, che nega alla persona espulsa il diritto a far valere le
proprie ragioni davanti ad un giudice. La maggioranza dei cittadini (52,9%), chiamata ad esprimersi con un referendum, ha approvato. Da ieri la Svizzera, dal punto di vista dei diritti umani e civili, è molto meno europea di quanto appaia sulle mappe.
SQUILIBRIO PERCENTUALE
La campagna del Partito popolare ha battuto sul tasto dello squilibrio fra due percentuali, entrambe riguardanti gli immigrati: rispetto al totale dei residenti in Svizzera e rispetto alla popolazione carceraria complessiva.
Statistiche alla mano, i suoi mili-
tanti hanno ripetuto sino alla noia che gli stranieri sono solo il 23% nel primo caso, ma arrivano al 70% nel secondo. Conclusione suggerita implicitamente o esplici-
Distribuzione del voto
Nei cantoni di lingua romanda hanno prevalso i contrari
tamente all’elettore: attento, è evidente la propensione dell’immigrato a delinquere. Quando certe considerazioni li esponevano all’inevitabile accusa di razzismo, i
promotori del referendum replicavano con gli argomenti di tal Patrick Freudiger, membro dell’ala giovanile del partito: «Ci sono due tipi di stranieri da noi. Quelli che vogliono lavorare e rispettare le nostre leggi sono benvenuti».
Fin troppo ovvio. Assai meno ovvio, negare a chiunque il diritto all’autodifesa, come prevede la legge che entrerà in vigore grazie alla vittoria dei sì.
Se sarà applicata alla lettera, l’allontanamento degli stranieri colpevoli di reati che vanno dall’assassinio allo stupro, dal narcotraffico alla truffa, sino al semplice ingresso clandestino nel Paese, scatterà automaticamente. Si vedranno costretti a varcare la frontiera anche individui nati e cresciuti in Svizzera, che spesso hanno reciso ogni legame con il Paese da cui vennero i loro genitori o nonni.
ASSURDITÀ GIURIDICHE
Un insieme di assurdita giuridiche che rischiano di mettere in grave imbarazzo le autorità federali. Palesi sono le violazioni della Convenzione europea sui diritti umani. Per questa ragione il governo aveva esortato i concittadini a votare no.
Ma gli appelli alla ragione ed alla civiltà non hanno fatto sufficientemente presa, così come già accadde un anno fa, quando la stessa formazione politica propose una legge per vietare la costruzione di minareti.
Anche allora, seppure con un tasso di affluenza alle urne inferiore al solito, gli svizzeri approvarono. La scarsa partecipazione del resto ridimensiona solo parzialmen-
te il significato del voto. Sull’altro piatto della bilancia infatti pesa il fatto che tante persone potenzialmente ostili a certi provvedimenti non sentano il bisogno di mobilitarsi per impedirne l’approvazione. D’ora in poi chiunque sia espulso dalla Svizzera non potrà ritornarvi per un periodo che varia dai cinque ai quindici anni a seconda del reato commesso. I tempi si allungano sino a venti anni per i recidivi.
MONOTEMATICI
Georg Lutz, politologo dell’Università di Losanna, afferma che «il Partito popolare negli ultimi 20 anni non ha fatto sostanzialmente che parlare di un solo argomento, schierandosi contro tutto ciò che è estero: qualche volta le Nazioni Unite, altre l’Unione europea, stavolta gli stranieri. È un pò difficile pensare che una legge così possa ridurre in qualche modo il livello della criminalità».
La distribuzione geografica del voto mostra una netta prevalenza dei sì nei cantoni di lingua tedesca, mentre il no prevale nella Svizzera romanda.

Repubblica 29.11.10
Militante Fli aggredita soccorsa dalla Cgil


ROMA - Insultata e spintonata in metropolitana a Roma da tre ragazzi perché sulla giacca aveva appuntata una spilletta di Futuro e Libertà, è stata soccorsa da alcuni manifestanti di ritorno dalla sciopero della Cgil. L´episodio, accaduto sabato a una militante di Fli, è stato denunciato ieri dal magazine on line di Farefuturo, la fondazione vicina al presidente della Camera: «Ma quali traditori, qui sta tornando il fanatismo», scrive Ffwebmagazine. «Ecco dove porta la propaganda, l´esasperazione dei toni. Ecco il partito dell´amore, della solidarietà, dell´accoglienza», conclude l´articolo.

Repubblica 29.11.10
La strategia “complotto e tradimento”
di Carlo Galli


Complotto e tradimento. Con questa ultima accoppiata - coronamento del pensiero politico megalomane e paranoide - l´identificazione dell´Io col Tutto, del privato col pubblico, con la conseguente negazione della consistenza oggettiva di ciò che nella realtà non si piega alla "grande visione" del Soggetto, trova il suo prevedibile compimento. Sarà anche propaganda - come sostiene Fini, che dall´infamia del tradimento dovrebbe rimanere macchiato per sempre. Ma lo stile di questa propaganda rivela tutto il personaggio-Berlusconi, e ne fa un "tipo" politico che raggiunge quasi una perfezione da manuale.
Per un´analisi politica radicata nella storia delle idee tutto ciò è una vera ghiottoneria, e anche un´autentica emergenza (come su queste colonne è già stato autorevolmente spiegato). Questa ultima teoria del complotto - come sempre derubricata, dopo il primo impatto comunicativo, che è appunto quello che conta, a un meno impresentabile ‘disegno´, a un accumularsi sospetto di coincidenze - è infatti una vecchia conoscenza della letteratura e della pratica politica.
Questo collaudatissimo stratagemma consiste nello spiegare col ricorso a un´unica causa semplice, soggettiva e malvagia (falsa, inventata), un insieme oggettivo di processi (reali, veri), dalle origini diverse e complesse. Che la rivoluzione francese sia parsa all´abate Barruel, e poi ai controrivoluzionari cattolici, un complotto massonico e protestante; che la rivoluzione russa sia stata interpretata come l´esito di una congiura ebraica già "smascherata" in un falso della polizia segreta zarista, i Protocolli dei Savi anziani di Sion; che fascismo e nazismo si siano trovati di fronte, a sentire le rispettive propagande, le potenze demo-plutocratiche e bolsceviche, sobillate dal giudaismo internazionale; che insomma vi sia sempre una Spektre a manovrare nell´ombra, dietro le quinte della storia; significa che la personalizzazione del Nemico come un soggetto (o un´ideologia, o una razza) ben individuato è una mossa logica e retorica a cui spesso si ricorre proprio perché, grazie alla sua forza semplificatoria, assicura in un primo tempo un grande vantaggio all´Io narrante, soprattutto se ha il monopolio dell´informazione e dell´interpretazione.
E´ chiaro che al nemico esterno deve corrispondere il nemico interno, la Quinta Colonna, il traditore; colui che sta fra noi, che si finge uno di noi, ma non lo è, e va quindi smascherato e liquidato senza pietà dagli organi di vigilanza.
Ma quella del complotto e del tradimento è una strategia che non è esente da gravi controindicazioni. La prima delle quali è che la suggestione delle masse spesso si accompagna all´autosuggestione; che l´ipnotizzatore ipnotizza anche se stesso e finisce in preda alla "pseudologia fantastica", all´allucinazione paranoica di credere alle proprie fandonie. Il che comporta esiti rovinosissimi per gli stessi ‘narratori´ - oltre che per chi ha loro prestato fede - i quali, chiusi nei loro bunker (reali o mentali) vedono i propri sogni di grandezza e di gloria frustrati da forze esterne che di fatto non sono più in grado neppure di comprendere e di analizzare correttamente.
Nel caso italiano l´Io smisurato che da privato si è fatto pubblico, che ha preteso di cancellare la complessa dimensione dialettica della realtà, e dell´azione politica che la modifica, che si è vantato di risolvere da solo tutti i problemi (ghe pensi mi), ora che la realtà, nella sua complessità ignorata prima ancora che mal governata, si vendica con un susseguirsi di crisi - dal crollo di Paestum al crollo della credibilità internazionale dell´Italia, da uno scandalo con minorenni allo scandalo di una condanna per mafia che coinvolge un suo collaboratore, dalla sollevazione degli studenti disperati a quella dei terremotati ingannati, dai rifiuti di Napoli alla necessità di acquistare i voti in Parlamento per riavere la maggioranza - ricorre all´ultima manipolazione. Cioè alla spiegazione dei nostri problemi - che per lui sono sempre solo i suoi: ‘vogliono farmi fuori´ è il suo timore, proclamato ai quattro venti - in chiave di complotto. Naturalmente internazionale, con tanto di Quinta Colonna al nostro interno (i traditori e sabotatori che godono dei guai della nazione).
Tutti i conti tornano: l´allucinazione non è totalitaria - ci mancherebbe! - ma il meccanismo è lo stesso: fare cose - negare la realtà - con le parole, o meglio con il loro uso a dir poco creativo. L´elemento pericoloso di tutto ciò sta da una parte nell´evidenza che con questi presupposti mai nessun problema verrà compreso e tantomeno risolto; e dall´altra nel fatto che moltissimi saranno disposti a credere a questa fantasia piuttosto che convincersi dell´inadeguatezza non solo di Berlusconi e del suo governo, ma anche della cultura politica (si fa per dire) che l´ha mandato già per tre volte a palazzo Chigi. Dato poi che il complotto è declinato in termini pseudo-patriottici, lo scivolamento nel populismo nazionalistico "sudamericano" è quasi garantito.
Contro questa eventualità si impone, eticamente e civilmente, prima ancora che politicamente, una battaglia di verità e di responsabilità, europea, moderna, realistica e illuministica. Una battaglia che sappia mostrare che non ci sono complotti né traditori, e che i nostri problemi non si spiegano col melodramma o con le favole, ma hanno cause oggettive, che stanno primariamente nelle colpe di chi non sa governare; e che sappia ricordare che, come diceva nel XVIII secolo il dottor Johnson, il patriottismo è, spesso, l´ultimo rifugio dei mascalzoni.

Repubblica 29.11.10
Farmaci, meno ricerca e niente concorrenza
di Mario Pirani


Qualche nostro lettore ricorderà la campagna condotta alcuni anni orsono, al fine di liberalizzare l´apertura delle farmacie a tutti i laureati nella disciplina abolendo il numero chiuso vigente. Trattandosi di un´aspirazione liberista, la lobby corporativa trasversale ebbe la meglio e ancora oggi vi sono 18.000 farmacisti titolari del proprio esercizio e 79.000 che, pur professionalmente abilitati, non hanno la possibilità di accedervi. L´inserzione di una minima pressione concorrenziale si è avuta con l´apertura di circa 3300 parafarmacie e punti vendita per prodotti da banco, sanitari senza obbligo di prescrizione e similari che hanno portato a 7000 posti di lavoro, una riduzione dei prezzi di vendita con un risparmio nel 2009 di 24 milioni a favore dei consumatori e nessun onere per lo Stato.
Il valore dell´esperienza induce a proseguire nella strada intrapresa. Se ne torna a parlare nell´ultimo rapporto di Antonio Catricalà rivolto alla Commissione Sanità del Senato, dove sono in discussione ben dieci disegni di legge sul riordino dell´esercizio farmaceutico. E´ sintomatico che questo "grand commis" non solo ribadisca gli argomenti a favore della liberalizzazione ma denunci come in molti disegni di legge presentati si tenda invece ad ampliare le esclusive, aumentando il potere di mercato delle farmacie, senza vantaggi per i consumatori. Per contro "consentire l´accesso alla titolarità di farmacia ai farmacisti abilitati, senza l´attuale limite numerico, aprirebbe spazi importanti per promuovere l´iniziativa economica".
Catricalà si sforza altresì di rispondere al principale degli argomenti del protezionismo corporativo secondo cui senza un numero chiuso e una rete obbligatoria di siti autorizzati, sussisterebbe il pericolo che le zone a scarso sviluppo economico o troppo isolate, finiscano senza copertura. La risposta è a un tempo storica ed economica: «All´origine il sistema era concepito - e si giustificava - per consentire, in un Paese essenzialmente agricolo e poco sviluppato, la presenza capillare sul territorio delle farmacie. La garanzia legale di una sicura fonte di reddito per il titolare era funzionale a che il servizio di distribuzione dei farmaci potesse essere effettivamente prestato. Oggi tutto ciò non appare giustificato con riferimento alla maggior parte del territorio «mentre nelle zone residuali il problema potrebbe essere risolto sussidiando le sedi periferiche con un fondo alimentato da risorse provenienti dalle imprese operanti in regime di concorrenza. Il rapporto di Catricalà affronta poi per la prima volta alcuni risvolti negativi che si stanno rivelando col ricorso troppo spinto a favore dei generici (i farmaci non più coperti da brevetto venduti a prezzo più basso di quelli «firmati» con un netto risparmio per il Ssn).
Se è vero che il sistema si sta estendendo nel mondo a causa dei deficit di bilancio del sistema sanitario, esso sta anche allontanando le grandi aziende dalla ricerca farmacologica soprattutto nelle patologie ad alta mortalità. In Italia già si assiste alla chiusura di centri di ricerca di grandi gruppi internazionali e alla contrazione delle ricerche nei gruppi minori. «Il tema della costituzione di un clima favorevole alla ricerca», sostiene Catricalà, impone, quindi, «una nuova regolazione dei margini di settore» (un prolungamento del periodo coperto da brevetto?) che permettano di remunerare gli ingenti costi della ricerca attuata dai produttori originari. Inoltre la cosiddetta «bioequivalenza» tra prodotti generici e originali, contenenti lo stesso principio attivo non significa affatto «equivalenza terapeutica». E´ infatti ammessa una soglia dall´80% in meno al 125% in più di «intervallo di equivalenza», il che può portare a seri inconvenienti terapeutici. Solo il medico dovrebbe, quindi, essere autorizzato alla prescrizione. Il protezionismo colpisce anche dove meno te lo aspetti.

Repubblica 29.11.10
Così i padri della Chiesa raccontano Dio
di Pietro Citati


Olivier Clément ha raccolto le voci più preziose della letteratura patristica Da Agostino ad Ambrogio, da Gregorio Magno a Origene e Tertulliano
L´edizione è patrocinata dalla Comunità di Bose e la prefazione è di Enzo Bianchi
I testi giungono dall´Occidente romano, dall´Africa dalla Siria e dalla Dalmazia
La loro scrittura si basa su sentenze e aforismi. Amano il bagliore e la violenza dello stile

In questi giorni la comunità di Bose pubblica la Nuova Filocalia: testi spirituali d´oriente e d´occidente a cura di Olivier Clément (edizioni Qiqajon, con prefazione di Enzo Bianchi, pagg. 514, euro 40). Filocalia significa amore del bello; e sotto questo termine Olivier Clément raccoglie le pagine più preziose dei Padri della Chiesa, occidentali ed orientali, fino al VI-VII secolo. Qui appaiono Agostino ed Ambrogio, Atanasio di Alessandria e Basilio di Cesarea, Benedetto, Cirillo di Gerusalemme, Clemente di Alessandria, Diadoco di Fotica, Dionigi l´Areopagita, Efrem il Siro, Erma, Evagrio Pontico, Giacomo di Sarug, Giovanni Cassiano, Giovanni Climaco, Giovanni Crisostomo, Girolamo, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Gregorio Magno, Ilario di Poitiers, Ireneo di Lione, Isacco di Ninive, Massimo il Confessore, Origene, Pacomio, lo Pseudo-Macario, Sinerio di Cirene, Teodoro di Mopsuestia, Tertulliano.
Il metodo antologico della Filocalia offre un rischio: quello di avvicinare e di assimilare testi di tradizioni diverse o opposte; un allievo di Paolo e un teologo neoplatonico, Agostino e Dionigi l´Areopagita. Ma è solo un rischio? Chi conosca i Padri, si rende conto che queste voci, che giungono a noi dall´occidente romano, dall´Africa latina, dalla Cappadocia, dall´Egitto, dalla Siria, dal Ponto, dal Sinai, dalla Scizia, dalla Dalmazia, formano un immenso edificio musicale che obbedisce ad alcune armoniche fondamentali. Malgrado qualsiasi differenza, il Cristianesimo è uno. La scelta dei brani, l´incastro dei frammenti esalta il grandissimo dono letterario dei Padri. La loro scrittura si basa su sentenze e aforismi: sia i Vangeli che San Paolo si esprimono in forme rapidissime; e i loro eredi amano il bagliore, la violenza dello stile, la sintesi, lo scorcio, l´invenzione del paradosso.
* * *
Leggendo il Pater Noster, apprendiamo che la nostra vita è fatta di assoluto presente: attimo effimero dopo attimo effimero, momento dopo momento, istante dopo istante, ora dopo ora, punto dopo punto, ognuno sufficiente a sé stesso e benedetto da Dio: «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Qualche secolo dopo, in Agostino, questa idea è capovolta. L´effimero non è più una condizione beata ma negativa. I nostri anni, dice Agostino, si disfanno giorno dopo giorno. Quelli che erano non sono più, quelli che verranno non sono ancora. Gli uni sono passati, gli altri arrivano per passare a loro volta. L´oggi non esiste se non nell´istante in cui parliamo. Nessun uomo ha stabilità in sé stesso. Il corpo non possiede l´essere. Cambia con l´età, con il tempo e con i luoghi, con le malattie e gli incidenti. Neppure il cuore è stabile. Quanti pensieri, quanti slanci lo agitano: quanti piaceri lo traggono di qua e di là e lo lacerano. La mente vuole e non vuole, sa e ignora, ricorda e dimentica. Solo dopo la morte, dopo tante sofferenze e malattie, difficoltà e fatiche, torniamo umilmente all´Uno. Entriamo nella città i cui abitanti partecipano all´Essere.
In primo luogo Dio ci appare sotto una grandiosa forma naturale. È la sorgente dell´acqua, che non può mai inaridire: noi la beviamo, e via via che la beviamo, la sete interiore non si placa ma diventa più ardente. Cristo è un ruscello che sgorga, un torrente che inonda l´universo, travolge ostacoli e dighe, invade tutta la superficie della terra. Il Dio-acqua, il Cristo-torrente è luce; e nel cuore di questa luce esiste una luce che nulla potrà mai oscurare. Noi la vediamo, la contempliamo: qualche volta essa ci oscura; ma mentre la fissiamo sempre più acutamente, il nostro occhio interiore si aguzza, finché la luce diventa un abisso di fuoco: una sorgente di fuoco, che cresce in eterno; e il nostro cuore si accende e sfavilla come un carbone.
Se nominiamo l´acqua, la luce e il fuoco, non possiamo nominare né esprimere il nome di Dio: ci avviciniamo al suo nome solo quando, vagamente e oscuramente, affermiamo che egli è "l´aldilà di tutto" oppure, come corregge Dionigi, è «tutto ciò che è e niente di ciò che è». Desideriamo infinitamente conoscerlo. Ma, se non lo nominiamo, non possiamo conoscerlo: egli resta al di là di ogni comprensione; e appena pensiamo di vedere Dio e di capire ciò che vediamo, non vediamo Dio, ma soltanto una delle cose conoscibili che egli ha creato. Dio non è anima né intelligenza: non ha numero, né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né diseguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza: non resta immobile e non si muove: non è potenza né luce: non è vita: non è sostanza, né eternità né tempo: non è scienza né verità, né legalità, né sapienza; né unità, né divinità, né bene; non appartiene al non-essere e nemmeno all´essere. Così egli sfugge ad ogni denominazione e ragionamento.
Forse dovremo accontentarci di questo rincorrersi vertiginoso di negazioni, e toccare ciò che Dionigi l´Areopagita chiamava la "perfetta inconoscenza", sorpassando ogni intelligenza, distaccandoci da tutti gli esseri, abbandonando noi stessi e unendoci ai raggi più luminosi della luce. Ma nemmeno l´inconoscenza ci basta. La Trinità sovrastanziale, di cui parla Dionigi, ci guida non solo al di là di ogni luce ma anche al di là dell´inconoscenza, fino alle cime più alte delle Scritture mistiche, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili si rivelano nell´oscurità luminosa del silenzio.
Come il Dio della Bibbia, quello di Plotino e dell´Islam, il Dio dei Padri è l´Uno. «Vedo una sola grande fiamma – dice Gregorio di Nazianzo - senza poter dividere o analizzare l´unica luce». Quest´Uno non sta fermo: la sua pienezza gli impone di mettersi in movimento; questo movimento non può arrestarsi nel Due, perché la divinità sta al di là di ogni opposizione; la perfezione di Dio si compie nel Tre. «Non ho ancora pensato a pensare all´Unità, che la Trinità mi immerge nel suo splendore. Non ho ancora cominciato a pensare alla Trinità, che già l´Unità mi riafferra». Le persone divine non si sommano: esistono l´una nell´altra: il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre, lo Spirito si unisce al Padre insieme con il Figlio assicurando la circolazione dell´amore. L´Uno si specchia tre volte in sé stesso, diventando Padre, Figlio, Spirito; e le tre persone non sono confuse né separate tra loro. In nessun´altra religione (se non, in parte, nel Tao) l´Uno si esprime così nella molteplicità e nel movimento; e il movimento è la forma prediletta dell´Uno.
Infine, Dio si manifesta. L´immateriale si incarna, l´invisibile diventa visibile, l´intangibile si può toccare, l´intemporale ha un inizio, colui che è entra nel divenire, l´increato è messo al mondo, la ricchezza divina assume il volto della povertà umana, il Figlio di Dio diventa figlio dell´uomo. Cristo si umilia, si annichilisce, abita in noi: se non si umiliasse, la realtà si dissolverebbe al suo contatto. Soffre per le nostre sofferenze prima di salire sulla croce. Se si manifesta, dovrebbe essere visibile. Eppure il suo mistero continua ad essere nascosto, anche quando nasce nella grotta, vive la sua esistenza di bambino, predica, entra in Gerusalemme, viene appeso alla croce. «In qualunque modo lo si comprenda rimane inconoscibile», dice Dionigi. «Dio non si fa comprendere se non apparendo ancora più incomprensibile», ripete Massimo il Confessore, perché «Cristo è il mistero che avvolge tutte le cose».
In realtà Gesù, il mistero nascosto, si era già manifestato. La Scrittura era una forma di incarnazione: la lettura della Bibbia una specie di eucarestia. Mentre leggiamo i Vangeli, ci cibiamo di Dio e beviamo il sangue di Cristo. Così ci introduciamo nel midollo e nell´intimo delle parole celesti. Poi giunge l´eucarestia. Dio è il pane della vita, e chi mangia la vita non può morire. Dio è la sorgente della vita, e se beviamo dalla sorgente non avremo più sete o una sete eterna. In quel momento il nostro corpo diventa quello di Cristo e viene trasformato nel corpo divino. Se finora eravamo soltanto l´immagine di Dio, ora ne diventiamo la somiglianza, secondo le parole pronunciate nella Genesi. Come in un primo momento i pittori tracciano lo schizzo di una figura umana con un solo colore e poi, facendo fiorire a poco a poco un colore sull´altro, ripetono l´aspetto del modello sino alle sfumature dei capelli, così la grazia di Dio segna in ognuno di noi l´impronta della somiglianza. Il Cristo è tutto in tutti, come un centro nel quale tutte le linee convergono.
Allora veniamo divinizzati: abbiamo in noi soltanto energia divina; mentre scompare ogni differenza tra Dio e i fedeli. Come dice Gregorio Magno, «l´uomo è un animale che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio». Mentre mangiamo il corpo di Dio e beviamo il sangue dello spirito, anticipiamo il ritorno di Cristo alla fine dei tempi. L´evento dell´eucarestia avviene ogni giorno e in ogni giorno è presente l´ultimo giorno.
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Giovanni Climaco pronuncia parole che hanno sconvolto qualcuno. «Beato colui il cui desiderio di Dio è divenuto simile alla passione dell´amante per la persona amata». L´uomo allontana i suoi pensieri, pota la loro esuberanza, non cede ai loro voleri, fugge ogni agitazione, abolisce ogni dispersione, chiude le porte della stanza della sua mente. Si rifugia nel deserto dove conosce una quiete profondissima. Soltanto allora, chiuso dietro la sua porta, l´uomo può pregare. Egli è solo con Dio. La preghiera è un rapporto personale col Dio vivente, una conversazione con lui, senza intermediari. Chi prega, non cerca di attirare Dio verso di lui, giacché, come dice Agostino, egli è più intimo a noi di noi stessi. Dobbiamo invece avvicinarci a lui, sebbene Dio doni la preghiera a chi prega pregando sé stesso nelle profondità del nostro cuore.
La preghiera sale verso Dio dalle profondità del cuore: soltanto le preghiere radicate negli abissi dell´io ascendono al cielo. Ma lassù il cuore non trova il Dio inaccessibile; e si dispera apprendendo di essere innamorato di chi non ha nome. Malgrado la disperazione il cuore continua a progredire nella ricerca, senza smettere mai di salire, fino a quando viene colto dalla punta dell´amorosa freccia divina. Verso mezzanotte, il fedele si alza, si lava le mani con l´acqua e prega. In quel momento tutta la creazione si riposa un istante per lodare il Signore: le stelle, gli alberi e le acque si fermano; e insieme al coro degli angeli e delle anime cantano le lodi di Dio.
Quando preghiamo, a volte un versetto si ferma sulla nostra lingua, un salmo ci appare dolcissimo, lo ripetiamo, e questa ripetizione ci impedisce di passare a un altro versetto, tanto quelle prime righe sono inesauribili. La nostra anima si immobilizza nel silenzio ed entriamo nella pace. Se ci accorgiamo che le lacrime riempiono i nostri occhi e corrono senza sforzo lungo le guance, dobbiamo comprendere che il muro celeste si è aperto davanti a noi. E se sentiamo che le nostre membra sono prese da una grande debolezza, allora la nube di Dio ha cominciato a coprire con la sua ombra la nostra dimora.
Nel corso di quest´estasi esiste un punto ancora più alto: un luogo nel quale la preghiera ci abbandona e scompare. Entriamo nel Tesoro. Tace ogni bocca e ogni lingua, tace il cuore che raccoglie i pensieri, e la mente che governa i sensi e il lavoro scrupoloso della meditazione. Tutto si arresta. In noi, è entrato il Padrone di Casa. Tutti i moti del nostro cuore diventano un´unica ininterrotta preghiera, che non si allontana mai dalla nostra anima. Sia che mangiamo, beviamo, dormiamo, e persino se abitiamo il sonno più profondo, il profumo della preghiera si effonde senza fatica in noi. Non ci abbandona più. Come dice Origene: «Tutta l´esistenza cristiana può essere considerata un´unica grande preghiera, della quale ciò che siamo abituati a chiamare preghiera è solo una piccola parte».
Torniamo a guardare la natura creata, sia buona sia malvagia. Il nostro spirito arde per tutta la realtà, per gli uomini, per gli uccelli, per gli animali, per i dèmoni. Quando pensiamo a loro e li vediamo, gli occhi versano lacrime. La nostra compassione è così forte che il cuore si spezza quando vede il male e il dolore che torturano le creature. Eleviamo la preghiera versando lacrime per tutti i nemici della verità e per tutti quelli che ci fanno del male, affinché siano protetti e perdonati. Quando doniamo, doniamo generosamente con il viso rischiarato dalla gioia. Diamo più di quanto ci è chiesto. Non facciamo differenze tra il ricco e il povero. Non cerchiamo di sapere chi è degno e chi è indegno. Davanti a noi tutti gli uomini sono eguali. Ognuno è nostro fratello, sebbene, senza saperlo, qualcuno si sia smarrito lontano dalla strada della verità.
La natura del cristiano non è né la virtù, né la misura, né l´ascesi, né la pazienza, né la discrezione, sebbene possa assumere questi aspetti. Un giorno, Abba Lot venne a trovare Abba Giuseppe e gli disse: «Padre, secondo le mie possibilità io osservo la mia piccola regola, il mio modesto digiuno, il mio silenzio contemplativo. Faccio le mie preghiere e la mia meditazione, mi sforzo come posso di cacciare dal mio cuore i pensieri inutili. Cosa posso fare di più?» Abba Giuseppe si alzò per rispondere e levò le mani al cielo. Le sue dita sembravano dieci ceri accesi, e disse: «Perché non diventi tutto fuoco?».