mercoledì 1 dicembre 2010

l’Unità 1.12.10
Roma zona-rossa:
«Mai così dagli anni del terrorismo»
di Claudia Fusani


Chiamata «area di rispetto per le istituzioni», la blindatura ha mandato in tilt tutta la città. Il ministro: «Evitato l’assedio di Montecitorio». Vendola: «Il Cile». Pd e Idv: «Maroni in aula»

L’hanno chiamata «zona di rispetto per le istituzioni». E’ stata pensata dal prefetto e dal questore Francesco Tagliente e supervisionata da Capo della polizia e ministro. E’ stata dispiegata sul campo ieri mattina. Si è rivelata la più grande zona rossa mai vista in Italia. Se non più grande di quella di Genova ai tempi del G8, sicuramente più simbolica. Ugualmente angosciosa anche se al posto dei container che calarono all’improvviso lungo le strade nella notte più buai di Genova, ieri mattina Roma si è svegliata con gli autoblindo di polizia e carabinieri allineati, in fila o a cuneo, per bloccare l’accesso alle strade. Meno dannosa perché i focolai di scontro sono stati solo due e perché i 25 mila studenti non hanno avuto il tempo, l’arco di una giornata tempestata dalla pioggia, per organizzarsi. Infinitamente più triste perchè dieci anni dopo siamo sempre lì, in una democrazia che alza possenti muri di lamiera per ricacciare indietro parole e idee.
Le zone rosse alzano sempre la tensione, creano alibi per gli infiltrati, per chi scambia i sampietrini (ne sono stati lanciati da qualcuno tra i ragazzi) con le parole. E infatti non se n’erano più viste in giro. Almeno non così imponenti. Non così disperate perchè il messaggio ieri è stato quello di una democrazia sotto assedio. Incapace di decidere se non protetta in un fortino di blindati e lacrimogeni.
Maroni è stato categorico. «Dopo quello che è successo mercoledì scorso quando gli studenti riuscirono ad entrare al Senato si spiega in questura doveva essere impedito in ogni modo il contatto tra i palazzi e i gruppi di manifestanti e con le forze dell’ordine». Così è nata la cintura di mezzi blindati che, in parte fissa, in
parte movente, si è adeguata per tutto il giorno alle mosse degli studenti che, spiati da agenti in borghese sguinzagliati per tutta la città (forse più quelli in borghese di quelli in divisa), hanno scatenato una guerriglia continua con la tattica del mordi e fuggi. Nascono così le uniche due cariche della giornata, verso le due in piazza Capranica, a due passi da Montecitorio, e verso le quattro tra via del Corso e via della Vite.
«In giro c’è molta tensione, Maroni faccia attenzione, serve prudenza» alza la voce verso le due il segretario del Pd Pierluigi Bersani che con Di Pietro poi chiederà al ministro dell’Interno di riferire in aula. «Questa militarizzazione è un pessimo segnale» dice Massimo Donadi (Idv). L’attacco più duro arriva da Nichi Vendola che si trova faccia a faccia con il ministro per la presentazione del libro dell’inviato del Tg1 Antonio Caprarica. «Ma che roba è questa?» attacca il governatore tra lo sgomento e l’arrabbiato dopo aver attraversato la città militarizzata per arrivare in piazza di Montecitorio. «Sembra il Cile, questa è una gestione criminale dell’ordine pubblico. Mai così dagli anni del terrorismo». Sono quasi le sette di sera. Si può guardare alla giornata con un po’ di ottimismo. Maroni replica: «Misure adeguate. Abbiamo evitato l’assedio a Montecitorio e consentito all’aula di lavorare. Chi voleva manifestare democraticamente lo ha potuto fare». Missione compiuta, quindi.
Se si guarda alla giornata, forse è andata anche bene così, grazie ai nervis saldi degli aganeti, con buona pace di cittadini, commercianti, persone comuni che hanno vissuto una giornata surreale all’interno della zona rossa. L’inferno subito fuori. Ma se invece che un primo piano la giornata è vista in campo lungo, quello che resta è l’immagine di una democrazia bunkerizzata. Incapace, ormai, di parlare con i suoi elettori.

Repubblica 1.12.10
L’istruzione precaria
di Carlo Galli


La via crucis della riforma Gelmini è terminata, con la sua approvazione alla Camera. Non è una riforma epocale, come sostiene la ministra, se non per le modalità con cui il Palazzo l´ha varata, contro la protesta – questa sì nuova, per l´imponenza della mobilitazione giovanile, macchiata da qualche violenza dei centri sociali – che ha pesantemente interessato le città del nord, del centro, del sud. Una riforma che passa con i voti in aula e, nelle piazze, con i colpi di manganello e di lacrimogeni, reali e simbolici. Altro non è, infatti, l´affermazione di Berlusconi che i giovani per bene sono quelli che stanno a casa a studiare, uno stereotipo reazionario dei tempi del Sessantotto, per di più sulla bocca di chi pare frequentare abitualmente non la gioventù studiosa, quanto piuttosto quella avvenente e compiacente.
è una riforma contrabbandata come rivoluzionaria, poiché sarebbe in grado di sconfiggere le "baronie", il mostro che a sentire la destra è responsabile di ogni male dell´Università – della corruzione, del clientelismo, del nepotismo, dell´inerzia, della proliferazione delle sedi, dei fuoricorso, delle ingiustizie concorsuali. Un mostro abilissimo, che avrebbe plagiato i giovani, spingendoli, nella loro ingenuità, a contrastare la legge che invece sconfiggerà il malaffare dei professori universitari.
Ebbene, i baroni grazie a questa legge potranno continuare a decidere indisturbati chi insegnerà nelle università. L´abilitazione nazionale, che avrebbe dovuto sanare gli scandali degli attuali concorsi locali, potrà essere concessa indiscriminatamente, senza limiti numerici, e le università potranno così scegliere, fra la massa degli abilitati, i docenti più graditi ai vari potentati.
La valutazione della ricerca, che dovrebbe far emergere e sanzionare i docenti inattivi, non decolla neppure con le istituzioni che già esistono: e la riforma l´affida a un nuovo carrozzone di Stato, che esiste solo sulla carta.
L´autonomia universitaria è di fatto cancellata sia perché, nonostante siano state eliminate in extremis alcune norme che prefiguravano un vero commissariamento da parte del ministero dell´Economia, questo resta in ogni caso il grande guardiano del sistema universitario; sia perché la riforma, per diventare effettiva, ha bisogno di più di cento nuovi regolamenti, che dovranno essere tutti approvati dal ministero della Pubblica Istruzione.
Per i giovani che vogliono entrare nella carriera universitaria, poi, c´è solo la prospettiva di un lungo precariato, fino a dieci anni, che si snoderà tra assegni di ricerca e posti da ricercatore a termine; ma non c´è alcuna garanzia che apra, ad almeno una parte di loro, uno sviluppo di carriera verso la stabilizzazione. La via dell´emigrazione resta lo sbocco per i talenti che l´Italia prepara, per regalarli poi ad altri Paesi.
Se nelle sue finalità positive la riforma fa acqua da tutte le parti, in quelle negative è più efficace. Il peso dei professori (del Senato Accademico) nella gestione complessiva degli atenei cala molto, a favore soprattutto dei rettori, del Consiglio d´amministrazione (infarcito di esterni, sul modello delle Asl), e del direttore generale.
Anche se l´autoritarismo aziendalistico che informava il testo originale è in parte attutito, l´intento punitivo verso una delle poche élites non compattamente schierata con la destra è piuttosto evidente. Tra breve, toccherà anche alla magistratura, che però è ben più potentemente attrezzata per resistere. I professori in futuro saranno meno numerosi, per effetto della valanga di pensionamenti in atto e del mancato rimpiazzo; ma saranno anche meno autonomi, più simili a impiegati che a quella magistratura scientifica della nazione che in passato aspiravano a essere. E ciò avviene per indiscutibili colpe di alcuni di loro, e anche per preciso indirizzo politico di questo governo, che con la cultura e la ricerca certamente non si trova a proprio agio, e che ha cavalcato spregiudicatamente un generalizzato sfavore dell´opinione pubblica – solo parzialmente giustificato – verso l´Università.
Soprattutto, per questa riforma non ci sono stanziamenti aggiuntivi. A differenza di quanto avviene nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, in Italia l´università è un costo, e non un investimento. è un problema, e non una risorsa. La società della conoscenza è un orizzonte non condiviso dalla destra al governo. Non ci sono soldi per incentivare il merito dei professori, e non ci sono – anzi, sono quasi del tutto spariti i pochi che c´erano – per le borse di studio per gli studenti; e questi hanno capito ben presto (altro che sprovvedutezza!) che nel loro futuro ci sono più tasse ma non una politica di miglioramento reale del sistema universitario in termini di servizi e di qualificazione della docenza.
Baronie appena scalfite, centralismo normativo, riproduzione del precariato, degrado complessivo dell´immagine dell´Università e sua possibile ‘aslizzazione´, compressione del ruolo dei docenti e degli studenti, ulteriore frustrazione dei giovani, nessun investimento. Queste sono le cattive notizie, dovute al fatto che questa destra, oscillante fra il populismo e il gattopardismo, non ha un´idea di università, come non ha un´idea di Paese. La buona notizia è che la riforma resterà probabilmente inapplicata, perché la crisi di governo la spazzerà via. La corsa contro il tempo per approvarla, infatti, ha verosimilmente il solo scopo di munire la destra di almeno una riforma da sbandierare in campagna elettorale.
A questo – a propaganda – si è ridotta l´università, al tempo del governo Berlusconi.

l’Unità 1.12.10
Il leader del Pd derubrica come «chiacchiere» il presunto asse Veltroni-D’Alema
Ieri incontro con i segretari regionali. Per l’11 dicembre già pronti 18 treni e 1200 pullman
Bersani blinda il partito e lancia la mobilitazione: «Occupiamoci del Paese»
D’Alema e Veltroni smentiscono l’asse «contro» Bersani. Il segretario chiama il partito ad essere unito e responsabile «per voltare pagina» e mandare a casa il governo. Intanto al Nazareno si lavora all’11 dicembre.
di Maria Zegarelli


Al Nazareno raccontano di un segretario «irritato» per questa smania che c’è nel Pd di «guardarsi sempre la punta delle scarpe». Raccontano anche di una certa «amarezza» per le dichiarazioni di questi ultimi giorni di Nicola Latorre, dalemiano doc, che vorrebbe un Pd rifondato insieme a Nichi Vendola e per i retroscena che annunciano un asse tra D’Alema e Veltroni che punterebbe ad una leadership alternativa a Bersani. «Chiacchiere», risponde il segretario liquidando la vicenda in Transatlantico, «un sacco di chiacchiere sul Pd: mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro». Aggiunge anche di averne parlato con i diretti interessati, che ieri a dire il vero hanno smentito tutto. «Irritato» si è detto anche D’Alema per la «fantasiosa ricostruzione» che altro non sarebbe se non «una scemenza». Per Veltroni parla il suo braccio destro, Valter Verini: più le distanze che le assonanze tra i due.
Vero è che in politica tutto muta velocemente, ma è difficile credere in un asse che possa saldarsi su una ruggine di così lunga data.
RESPONSABILITÀ E UNITÀ
Ieri Bersani inxcontrando i segretari regionali si è soffermato alungo sulla crisi economica, alla luce dei dati Istat sulla disoccupazione e quelli della Commissione Ue che prevede la crescita del debito nel 2011 addirittura al 120%. Ne ha parlato con Tremonti, ricevendo «rassicurazioni», ma secondo il segretario è chiaro che spetta al dp lavorare per «garantire stabilità». Per questo ha chiesto a tutte le componenti del partito di dare «visibile prova di responsabilità e unità» per raggiungere l’obiettivo primario: le dimissioni del governo, che sta creando «instabilità» e mette a rischio il sistema economico e finanziario.
Fatto inusuale alla fine dell’incontro viene diffusa anche una nota, di tutta la segreteria, che ricorda tanto il suono della «campanella». «Di fronte ai gravissimi problemi con i quali gli italiani devono fare i conti si legge a cominciare dal lavoro che viene meno, dalla scuola, dall’università, dalla crisi di tante imprese, dalla situazione di numerose famiglie, la segreteria nazionale e i segretari regionali del Pd hanno ribadito la necessità di proseguire con fermezza e determinazione nella battaglia per aprire una nuova fase e garantire all’italia un futuro di ripresa e rilancio». Maggioranza e governo vengono definiti «un fattore pericoloso di instabilità e di discredito». Motivo per cui spetta al Pd «essere in campo», tenendo «ferma la barra della propria linea politica per ottenere che si avvii una fase di transizione». Un governo a tempo, per la legge elettorale e le riforme, allargato a chi ci vuole stare e poi nuove elezioni politiche, con un’alleanza che veda il Pd come perno della coalizione.
LA PIAZZA
Ma intanto l’oggi è l appuntamento con la piazza l’11 dicembre a cui sta lavorando il responsabile organizzazione del partito, Nico Stumpo, il quale ieri ha chiesto ai segretari regionali il massimo della mobilitazione. La manifestazione a tre giorni dal voto di fiducia al governo può essere un’occasione, anche se nessuno ne parla esplicitamente, per dare la «spallata» ad un esecutivo ormai paralizzato dalle spaccature interne.
Manifestazione
Oltre 75mila persone hanno prenotato il posto per S. Giovanni
A dieci giorni di distanza ci sono già 18 treni e 1200 pullman, oltre 75mila persone che da diverse regioni hanno prenotato il posto a San Giovanni. «Ci dicono che la mobilitazione è in crescendo dice Stumpo perché c’è una grande voglia di partecipazione del popolo democratico ma anche di chi non è del Pd». Dal territorio è arrivato anche l’ invito ai dirigenti nazionali a mettere da parte le prove di forza interna. Che pure ci sono. In Modem, l’area che fa capo a Veltroni, Fioroni, Gentiloni, l’asse che si è creato, questo sì, tra Franceschini e Bersani desta preoccupazione, soprattutto in vista delle liste elettorali in caso di elezioni se non cambia la legge.

Repubblica 1.12.10
Bersani: "Nuovo asse? Basta chiacchiere"
D’Alema e Veltroni negano intese. Follini: ma sarebbe una cosa di buon senso
A Torino si cerca l´accordo sulla candidatura di Fassino, ma Sel conferma la sfida: alle primarie un nostro candidato per vincere
di Goffredo De Marchis


ROMA - Pier Luigi Bersani non nasconde un certo fastidio per il riavvicinamento tra D´Alema e Veltroni che avrebbe alla base i dubbi sul ruolo del segretario. Naturalmente, il Pd, impegnato nella tornata della fiducia il 14 e prima nella manifestazione di Piazza San Giovanni l´11, cerca di tenere ferma la barra dell´unità. «Sento un sacco di chiacchiere sul partito. Mi entrano da un orecchio e mi escono dall´altro», dice Bersani. «Adesso siamo concentrati sui problemi del Paese e tutti, nel Pd, sentono questa responsabilità».
Anche il capogruppo democratico alla Camera Dario Franceschini preferisce guardare alle scadenze dell´opposizione più che agli affari interni del partito. «Mi occupo del centrodestra e del 14 dicembre perché la maggioranza non sta in piedi». Ma c´è chi sponsorizza la ritrovata sintonia tra D´Alema e Veltroni. Dice Marco Follini: «Se loro due facessero una grande coalizione all´interno del Pd sarebbe una cosa di buonsenso. Se poi il Pd concorresse a una grande coalizione nazionale sarei ancora più felice». Walter Verini, braccio destro di Veltroni, si occupa di smentire l´asse: «Rimangono notevoli differenze politiche». Aggiunge un "ma": «Ciò non toglie che in questo momento delicato per il Paese possa esservi nel gruppo dirigente del Pd una preoccupazione comune».
Massimo D´Alema sottoscrive la reazione di Bersani: «Chiacchiere, anzi scemenze». Adesso, spiega, il Pd «è unito, sulle scelte fondamentali, intorno al segretario». Ma Beppe Fioroni fa notare che «una fetta della maggioranza interna, da D´Alema a Enrico Letta, si pone il tema di come non regalare l´Italia a Berlusconi. Direi che il vero asse è questo: riprendere l´orgoglio del Pd e fare scelte chiare». L´ipotesi di un avvicinamento D´Alema-Veltroni allarma i "rottamatori", il gruppo guidato da Matteo Renzi e Pippo Civati che chiede in modo brusco il rinnovamento dei leader. «Contro un simile asse davvero potremmo riempire uno stadio», commenta sarcastico il consigliere regionale della Lombardia Civati. Che si schiera dalla parte del segretario: «Di fronte a ipotesi simili tocca a Bersani prendere un´iniziativa. Si candidi alla premiership e detti parole d´ordine e contorni delle alleanze con cui vincere e governare. Altrimenti sarà travolto l´intero Pd. A Torino, Bologna e poi nel Paese». Torino è la prima città dove i democratici stanno cercando una soluzione per le comunali. Piero Fassino è in pista. Ma Vendola annuncia: «Non lo appoggeremo. Correremo alle primarie con un nostro candidato».

Repubblica 1.12.10
Tonini: Bersani rilanci il profilo riformista e maggioritario del Pd
"Non c´è nessuna alleanza contro il segretario ma partito in calo costante"
"Il timore di scendere sotto la soglia di sopravvivenza unisce tutti"


ROMA - «Nella preoccupazione sulla situazione italiana e nel sostegno a un governo di responsabilità nazionale sono uniti non solo Veltroni e D´Alema, ma l´intero partito». Giorgio Tonini, dirigente di Movimento democratico, senatore molto vicino a Walter Veltroni, nega l´esistenza di un´asse tra l´ex segretario del Pd e il presidente del Copasir. «Tantomeno esiste un´alleanza di questo tipo contro Bersani. Oggi siamo tutti con il segretario, impegnati nella preparazione di Piazza San Giovanni, l´11 dicembre».
Significa che Modem considera Bersani adatto anche al ruolo di candidato premier in caso di elezioni anticipate?
«Significa che noi oggi chiediamo al segretario di rilanciare il profilo riformista e maggioritario del Pd. Se il partito continua a scendere nei sondaggi goccia a goccia, settimana dopo settimana, altro che candidato premier. Ci dovremo chiedere da chi farci guidare. Il Pd oggi è un progetto a rischio e su questa consapevolezza può essere unito. Altrimenti sono guai seri. Il resto viene di conseguenza».
Anche di questo hanno parlato D´Alema e Veltroni venerdì scorso?
«È stato un saluto alla buvette, niente di più. Dal punto di vista strategico rimangono le differenze, che non sono nuove. Risalgono ai tempi del primo Ulivo. Ma né i duelli più o meno romanzati tra i due né gli ipotetici patti devono nascondere il merito del problema. Modem crede ancora in un Pd riformista, che assuma la cultura democratica perché in questo aggettivo si riassume il suo dna e si superano gli steccati del ‘900, con la vocazione maggioritaria, nato per cambiare e non per difendere. Se si abbandona la via maestra privilegiando il tema delle alleanze, ci troveremo a discutere chi rincorrere invece che essere rincorsi. Questa per noi è pura follia e due anni fa succedeva esattamente il contrario. Erano tutti gli altri a voler venire con noi».
Nessuna intesa con Vendola e nessuna con Fini?
«Vendola, da una parte, pensa all´unità della sinistra mentre noi abbiamo creato il Pd per l´unità dei riformisti che è cosa ben diversa. Dall´altra, Fini, con grande onestà ed correttezza, ha detto in tutte le salse che lui vuole fare una nuova destra. Ecco perché noi dobbiamo essere pronti come Pd, senza inseguire alleati. Un Pd grande e aperto».
Ma prima viene il governo di responsabilità nazionale, un´idea in sintonia con D´Alema.
«Un´idea che appartiene a tutto il Partito democratico. Abbiamo detto che l´Italia ha bisogno di un governo vero. Capace di affrontare l´impresa di ridurre il debito con un piano straordinario. E di fronteggiare la crisi dell´economia e la disoccupazione che galoppa. È una strada che non contraddice l´obiettivo di un Pd grande. Un Pd, cioè, che rilancia la sua prospettiva e definisce chi siamo. Mi pare ci sia una consapevolezza comune sul rischio di un partito che scende sotto la soglia minima di sopravvivenza».
(g.d.m.)

Corriere della Sera 1.12.10
Vendola cerca l’asse con Bersani: vogliono farci fuori
Il presidente pugliese accusa D’Alema e Veltroni. Letta rilancia Chiamparino. Fioroni parla con Casini. E il Pd scende ancora
di Maria Teresa Meli


ROMA — Prologo: Transatlantico di Montecitorio, pomeriggio di un giorno qualsiasi (è successo anche ieri), Nichi Vendola passa di lì non per caso e un bel po’ di deputati del Pd si mettono in fila per il bacio della pantofola. Epilogo: ore 19 e 30 di ieri, buvette di Montecitorio, di fronte a un analcolico il presidente della Regione Puglia spiega: «Latorre ha detto una verità che è passata quasi inosservata: ha aperto a me e ha ammesso che il progetto del Pd è fallito. Ora ci saranno delle contromosse: D’Alema e Veltroni, per esempio, che sono lontanissimi, hanno però due obiettivi identici: fare fuori me e Bersani. Ma l’importante è restare tranquilli, non farsi prendere da questi giochi del ceto politico».
Leadership Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Walter Veltroni a Montecitorio
In mezzo, tra un Vendola che riceve gli omaggi dei deputati del Partito democratico e un Vendola (sempre lui) che certifica la fine del progetto politico del Pd, ci sono tutte le scene di vita quotidiana di un centrosinistra che si interroga sui propri errori e le proprie paure. Prima scena, l’altro ieri: Pier Luigi Bersani chiama Massimo D’Alema per capire se l’intervista al Corriere in cui Nicola Latorre chiede di rifondare il Pd è un atto autonomo del vice capogruppo al Senato o se invece c’è lo zampino del presidente del Copasir. Il colloquio è alquanto teso. Seconda scena, sempre l’altro ieri: Enrico Letta va a Torino e tesse gli elogi di quel Sergio Chiamparino che il giorno prima ha usato la clava contro l’attuale leadership del Pd e si è candidato alla guida del centrosinistra. Ecco le parole testuali del vicesegretario: «Credo che tutto il centrosinistra abbia bisogno di Chiamparino, a livello nazionale, nella sfida per chiudere il berlusconismo. Sergio avrà un ruolo fondamentale e penso che tutti dobbiamo spingerlo ed aiutarlo». Terza scena, ieri: Beppe Fioroni, reduce da un vis-à-vis con D’Alema che gli ha chiesto conto del suo attacco a Latorre, sostiene che la maggioranza interna finalmente ha capito che c’è qualche problemino nel partito: «Oggi finalmente c’è una fetta del Pd, penso a D’Alema e Letta, che si pone il tema di non regalare l’Italia a Berlusconi e per questo non dice più che tutto va bene».
Quarta scena, sempre ieri, sempre Fioroni: il responsabile Welfare si apparta in un corridoio con Casini. Quinta scena: qualche deputato del Pd insinua che Letta potrebbe andare a finire nel cosiddetto terzo polo. Non è vero, ma se ne parla ugualmente. Sesta scena, arriva il sondaggio Ipsos, il Partito democratico è al 23,4. È sceso dello 0,2. Il Pdl, invece, per la prima volta da giorni, guadagna punti. È al 27,1 per cento, lo 0,5 in più rispetto all’ultima rilevazione Ipsos.
È sera, i riflettori sono di nuovo puntati su quel Vendola che fa tanto penare i Democrats. Il governatore della Puglia è sicuro che le primarie, nonostante D’Alema, si faranno: «Bersani è una persona perbene e le ha promesse». Lo sostiene anche in un libro-intervista a Cosimo Rossi, ex giornalista del manifesto («La sfida di Nichi Dalla Puglia all’Italia»), che esce domani : «Le primarie si faranno: questa è un’acquisizione fondamentale, penso che non ci sia più modo di impedire e anche di pilotare questo strumento». Ma Vendola non è un ingenuo, non fa finta di non sapere che nel Pd molti vorrebbero che la legislatura proseguisse per riassestare il partito, cambiare candidato alla premiership e andare al confronto con il governatore pugliese da una posizione di forza. Lo dice anche nel libro di Rossi: «Immaginare che ci sia una destra buona con cui allearsi transitoriamente contro la destra cattiva mi pare un’ennesima manifestazione di vocazione al suicidio». Già, ma nel Pd si torna a parlare di un possibile governo Draghi che affronti l’emergenza economica: «Sarebbe ugualmente devastante» taglia corto Vendola. La serataèfinita . Veltronis cappaa «Ballarò». D’Alema chiacchiera con Marianna Madia. Bersani cela a fatica il fastidio per le voci sulla solidità della sua segreteria: «Non mi occupo di chiacchiere». Ma nel Pd e dintorni le chiacchiere continuano.

il Riformista 1.12.10
A Torino si cerca l´accordo sulla candidatura di Fassino, ma Sel conferma la sfida: alle primarie un nostro candidato per vincere

qui

il Riformista 1.12.10
Intervista a Achille Occhetto
«Vendola può essere l’uomo giusto per rompere i vetri in casa Pd»
«È ridotta a una coperta di Arlecchino. Grazie alla Bolognina, gli ex comunisti vanno al governo e al Quirinale. La “gioiosa macchina da guerra”? Stavo per dire “Armata Brancaleone”, poi...».
di Anna Mazzone

qui

il Riformista 1.12.10
Caro Pd,Vendola farà esplodere tutta la sinistra
La forza di Nichi non può essere ingabbiata in un accordo politico
di Ritanna Armeni

qui
http://www.scribd.com/doc/44444769

Repubblica 1.12.10
La libera scelta di chi non vuole più soffrire
Risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho letto che Bruno Vespa farà l'anti-Fazio per confutare le testimonianze sull'eutanasia. Il noto giornalista ci racconterà storie terribili e vere di persone che preferiscono soffrire per malattie inguaribili, offrendo quelle sofferenze a Dio. Un modo curioso di onorare il Creatore. A me pare che il problema sia "la libertà individuale di scelta tra il vivere un male dolorosissimo, lungo e lesivo della propria dignità, e una morte indolore di cui non ci si accorge". è questo di cui si dovrebbe discutere, accettando una scelta tra due decisioni del malato con pari serietà. La scelta individuale può manifestarsi o al momento del dolore, o facendo un Testamento Biologico. Quando la Chiesa cattolica rifiuta queste libertà, e mette in atto una campagna affinché la Repubblica Italiana vieti la dolce morte appare agli occhi del mondo come un'istituzione dittatoriale, cancellando di fatto quell'immagine di bontà che tiene a crearsi da secoli.
Arturo Martinoli  arturo.martinoli@alice.it

Bruno Vespa ha ogni diritto di organizzare un programma nel quale far presente i punti di vista di chi sceglie di sopportare il dolore, oppure di vegetare in una semi-vita, o dei familiari che questi malati senza speranza accudiscono con ogni cura così alleviando in qualche modo la sofferenza o la prigionia all'interno di corpi ridotti a carcasse. Non si dovrebbero però dimenticare che si parla di due situazioni non confrontabili. Da una parte c'è chi opera la scelta del dolore (o altri che la praticano in sua vece); dall'altra c'è chi preferisce metter fine ad una vita considerata insopportabile. I primi hanno i loro diritti. Gli altri non ne hanno. La legge tutela gli uni, mentre lascia gli altri nella disperazione o nell'illegalità. Questa tragica differenza si basa sul presupposto religioso che la vita è "un dono di Dio", dunque indisponibile per l'individuo che ne è solo (Catechismo) "l'amministratore". Ci sarebbe da dire (mi fa notare Maria Luisa Gnarro) che: «Se io faccio un dono ad un amico, il dono appartiene a lui, non più a me, lo può usare come crede ed eventualmente liberarsene». La Fede però ignora la logica e va accettata così. Per chi ce l'ha. Nessuno comunque dovrebbe appropriarsi del titolo 'Movimento per la vita' relegando così tutti gli altri in un ipotetico movimento 'per la morte'. C'è poi una domanda che vorrebbe finalmente una parola di chiarimento, ammesso che sia possibile dirla: che cosa significa in concreto la sempre invocata "fine naturale della vita"? Siamo in un'epoca in cui le macchine possono mantenere quasi indefinitamente il battito cardiaco. Dove finisce la naturalezza? Anche un'ipotetica entità divina deve adeguarsi ai progressi della tecnologia medica?

Repubblica 1.12.10
Marco Revelli "La vita precaria ci fa diventare un Paese cattivo"
intervista di Luciana Sica


L´intervista/ Marco Revelli racconta il suo nuovo saggio È un´analisi sullo stato di sofferenza economica che mina il tessuto sociale
"L´impoverimento riguarda anche il ceto medio e i giovani senza più prospettive"
"Tra frustrazioni risentimenti e crisi d´identità ormai dilaga l´invidia sociale"

Sono i lavoratori del ceto medio e i giovani, i nuovi poveri in Italia. La situazione è peggiorata per tutti, più grave che all´inizio degli anni Ottanta quando si contavano sei milioni di persone in condizioni di indigenza. Oggi non soltanto sono almeno due milioni in più ma – secondo i dati Istat del 2008 – gli italiani messi ko da una spesa imprevista di settecento euro sono diciannove milioni, più di un terzo della popolazione. Proprio noi messi così male, noi che apparteniamo al "club dei grandi"?
È un ritratto dell´Italia reale, stridente nell´asprezza dei numeri con il racconto "apologetico" del potere, Poveri, noi, il breve saggio di Marco Revelli in uscita oggi da Einaudi (pagg. 128, euro 10). Il politologo, alla guida negli ultimi tre anni della Commissione d´indagine sull´esclusione sociale, racconta un Bel Paese più povero e molto più cattivo. Usa una metafora: come Gregor Samsa, il protagonista del celebre racconto di Kafka, anche noi un giorno ci siamo svegliati e ci siamo ritrovati irriconoscibili. Non solo delle canaglie con gli "ultimi" della piramide sociale che è meglio spingere sempre più in basso, meglio ancora se "fuori". Ormai con un´inedita ferocia trattiamo un po´ tutti gli "altri", quelli che per le ragioni più svariate stanno peggio di noi –negli ambienti di lavoro come anche in famiglia.
Professor Revelli, lei fa dubitare delle "magnifiche sorti e progressive" di questo Paese così pieno di simboli di un´opulenza anche ostentata. Non sarà un catastrofista?
«Sono i numeri e i fatti, le statistiche e le storie di cronaca che denunciano vistosamente l´estrema fragilità della nostra struttura economica, sociale e anche morale. Non solo non siamo in crescita, ma su un piano che inclina pericolosamente verso l´arretratezza. Viviamo una condizione generalizzata di malessere che disgrega il tessuto sociale, producendo una rottura a catena delle relazioni, dei legami, dei meccanismi più elementari della solidarietà. Gli effetti sono gravissimi sulla qualità e sulle prospettive della nostra democrazia».
La crisi morde anche sulle fasce finora considerate relativamente "forti" del mercato del lavoro: sul ceto medio. Chi sono questi nuovi poveri?
«Sono figure sociali estranee alla "cultura della povertà" che – per stile di vita, interessi, amicizie, rapporti professionali, modelli famigliari – appartengono a tutti gli effetti a una middle class che si considerava "garantita" contro il rischio del declassamento e a maggior ragione dell´impoverimento».
Faccia degli esempi.
«C´è l´ingegnere dell´Eutelia (ex Olivetti) ad altissimo livello di professionalità che contava su un reddito medio-alto e si ritrova "messo in mobilità". Ci sono i tanti impiegati delle industrie, i "quadri" tecnici d´improvviso privi di consulenze, i piccoli e medi commercianti schiacciati dalla grande distribuzione. Tutti fino all´altro giorno sicuri del proprio tenore di vita, e ora in grave affanno. E poi ci sono le donne, anche laureate e con una posizione professionale di tutto rispetto, costrette a cambiare radicalmente vita se si ritrovano sole – dopo una separazione, il che è molto frequente. Sono donne che spesso hanno figli, pagano una baby sitter, e magari anche il mutuo o le rate dell´auto... Non saranno "tecnicamente" povere, ma la loro è una condizione difficile, per quanto in genere dissimulata».
Sono invece tutt´altro che poveri "occulti" i giovani, derubati del presente e del futuro. Lei scrive che sono stati "massacrati". Non teme che l´espressione sia troppo forte?
«No, perché sono proprio loro le vittime sacrificali del declino del nostro Paese. Qui parlano i numeri: l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. La scelta di puntare esclusivamente sulla cassa integrazione ha aperto un ombrello sui padri, ma lasciando fuori i figli, licenziabili con facilità e a costo zero. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
C´è poi lo scandalo della povertà delle famiglie numerose, il 40 per cento concentrate nel Sud. Quanti sono in Italia i bambini che oggi non hanno niente e domani saranno degli adulti a rischio?
«Il Paese del Family Day ha il triste privilegio di avere il tasso più alto di povertà minorile dell´Unione europea. A inchiodarci a un 25 per cento è Eurostat: come dire che un minorenne su quattro vive in una famiglia molto disagiata, e che in questo Paese fare più di due figli è una maledizione».
Cosa ci sbattono in faccia – sgradevolmente – le statistiche dei poveri?
«La realtà di un Paese che arranca e l´illusionismo allucinatorio di un Paese virtuale da piani alti. In mezzo, tra le punte della forbice, trovano terreno fertile le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali, le solitudini e le crisi d´identità che hanno sfregiato l´antropologia sociale italiana. L´indurimento del carattere nazionale e la diffusione dell´invidia come sentimento collettivo. L´intolleranza per le fragilità dei deboli, la tolleranza per i vizi dei potenti. Tutto il repertorio d´ingredienti che hanno nutrito le fiammate populiste, il "tribalismo territoriale" come forma di risarcimento, ma anche le più silenziose ondate di "esodo" dalla politica e dallo spazio pubblico».
Con quali effetti sulla qualità della democrazia italiana?
«I principi democratici vengono profondamente corrosi in un Paese dove cade la speranza nei meccanismi di redistribuzione del reddito e sembra impossibile attingere alla ricchezza dei pochi fortunati, dove chi è povero è destinato a rimanere povero e una parte consistente della popolazione cessa di considerare pubblicamente garantita la propria aspirazione a una vita degna. L´individuo insicuro della propria posizione e timoroso del proprio fallimento chiede al potere protezione e offre al potere fedeltà. Oggi questo scambio perverso riempie il vuoto lasciato dai diritti, ma né la discrezionalità dei diversi titolari dei poteri né la dedizione dei servi appartengono allo statuto della democrazia. Senza un segnale netto di alt a questa deriva, che implica un confronto duro con le attuali classi dirigenti, si rischia l´abdicazione al proprio status di cittadino e un ritorno alla passività del suddito».

l’Unità 1.12.10
Usa, l’illusione di essere i primi
Dalle carte non più segrete emerge come Washington sia ancora prigioniera del mito della propria preminenza. Ma sembra che nel mondo questa prerogativa sia riconosciuta loro sempre di meno
di Giuseppe Arlacchi


L’impatto politico di    Wikileaks c’è, ma non sta nel “gossip” diplomatico sulle magagne e sui tic dei potenti. I rapporti tra gli Stati Uniti e l’Onu, per esempio, saranno influenzati negativamente dalla conferma dello spionaggio sistematico effettuato per ordine della signora Clinton contro i dirigenti dell’organizzazione.
Spionaggio anomalo, perchè fatto non solo dai professionisti ma anche dai diplomatici Usa accreditati presso il Palazzo di Vetro, e richiesti di rilevare dati biometrici, numeri di carte di credito e di conti bancari, e quant’altro possa essere utile per ricattare, imbarazzare, minacciare chiunque voglia deviare dalle linee tracciate dal Grande Fratello.
È una vecchia storia, che si sperava fosse morta, e invece è lì, mantenuta in vita dall’amministrazione Obama. Chi scrive è stato una vittima delle attenzioni dell’intelligence anglo-americana, come del resto Kofi Annan e vari altri esponenti di vertice non disposti ad allinearsi sempre e comunque alle politiche Usa.
Molti avevano pensato che i tempi nei quali un neo-con tra i più arroganti, Paul Wolfowitz, osava ordinare alla Cia un’indagine illegale contro Hans Blix e Mohammad ElBaradei –gli ispettori Onu sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein, che si erano rifiutati di mettersi al servizio dei piani di invasione dell’Iraq– fossero finiti.
E dobbiamo ringraziare Wikileaks per avere di nuovo sollevato il coperchio di un andazzo intollerabile.
I documenti di Wikileaks confermano i cospicui finanziamenti ricevuti negli ultimi anni dai Talebani e da altri gruppi fondamentalisti da parte dei paesi della penisola arabica alleati degli Stati Uniti. Il peso politico di questo
fatto è molto grande. Esso toglie plausibilità alla motivazione principale dell’invasione e dell’occupazione militare dell’Afghanistan.
Il governo americano ha attaccato l’Afghanistan con la motivazione ufficiale della lotta al terrorismo di Al Queda e dei soci Talebani pur essendo al corrente che il loro maggior canale di finanziamento era esterno al paese. Ed ha continuato imperterrito la guerra anche dopo il dislocamento dei gruppi di Al Queda in Pakistan, senza intervenire sulle fonti saudite e simili di finanziamento.
Non è difficile allora concludere che la spinta ad invadere l’Afghanistan è nata più dalla necessità del complesso militare-industriale americano di fare la guerra a un paese debole, che dalla genuina volontà di combattere autori e complici dell’11 settembre. Quindici su diciannove dei quali –come si è presto scopertonon erano talebani né afghani ma sauditi.
È vero che i materiali Wikileaks sono opera per la maggior parte di diplomatici di rango medio basso che si soffermano talvolta su pettegolezzi e fatti di scarsa rilevanza politica. Ma dai giudizi sui paesi amici traspare comunque una visione negativa e paranoide del mondo, tipica di un impero in declino. Un impero che non crede più alla propria autorità morale, e che affida le sue chances quasi esclusivamente allo hard power: la forza militare, la minaccia, l’intimidazione e il ricatto dei suoi apparati di sicurezza contro tutti, amici inclusi.
Occorrerà un po’ di tempo per leggere bene tutti i documenti, e fare grazie ad essi la storia dell’oggi senza aspettare i 25-30 anni di prammatica. Ma balza subito agli occhi, da quanto già pubblicato, la cecità del personale diplomatico americano verso le grandi forze della distensione e della pace.
Tutto ciò che non è realpolitik, coercizione bruta, sembra non interessargli. Da qui la clamorosa incomprensione della svolta non aggressiva della politica estera della Turchia, la strategia dello “zero problems” con i vicini e dell’amicizia con le potenze asiatiche.
Da qui l’errore di considerare l’Iran come un paese da attaccare, la Russia come un’entità ancora ostile, e l’Unione europea come un mazzo di smidollati. Senza rendersi conto che Cina, India, Brasile, Unione Europea e la stessa Russia si stanno affermando (o riaffermando) sulla scena globale proprio in virtù del fatto di non seguire la strada americana dello hard power.
È questo l’aspetto più preoccupante delle carte Wikileaks. La classe dirigente americana, di cui il personale diplomatico è espressione, ha perso la fiducia nella capacità di guidare il mondo attraverso la superiorità del suo progetto etico-politico.
Questa gente crede ancora di rappresentare il governo mondiale, e non si è accorta che ormai quasi più nessuno le riconosce questa prerogativa. Governo di cosa, quando l’unico strumento che sembra rimasto nelle loro mani è la delinquenza dei loro apparati di intelligence e l’impronta del loro potere militare?
Queste carte, ed i sentimenti che le animano, significano veramente che siamo entrati nell’epoca post-americana.

il Fatto 1.12.10
Al mercato della disperazione i bimbi haitiani diventano merce
Venduti dalle famiglie, rapiti dai trafficanti
di Maurizio Chierici


Cronaca di una domenica: quando gli haitiani provavano a votare. Signori che hanno fretta attraversano il confine con due bambini per mano o un piccolo che ciondola fra le braccia. Vanno e vengono; non si fermano mai. Nessuno si incuriosisce per sapere dove li portano. Non è successo in questi giorni. È il ricordo di tre anni fa. Ma la voce sconsolata di un operatore umanitario racconta, ieri, al telefono, che “il commercio” prospera più che mai. Haiti esporta bambini destinati chissà dove e chissà a chi. Forse famiglie senza figli, ma il sospetto di una schiavitù impronunciabile accompagna le parole di chi non sa come fermare il traffico dell’infanzia.
DOMENICA HAITI ha votato. Le file erano lunghissime davanti ai seggi, scuole malandate, tettoie che non riparano dalle piogge. Cancelli di ferro chiudono il ponte che scavalca il rio Ma-sacre: segna la frontiera che divide Juanaméndez da Dajabon; Haiti da Santo Domingo. È lunga 380 chilometri e le grate appartengono a chi fa finta di fermare, ma non ferma niente. Dieci metri sotto, la gente attraversa lentamente con l’acqua alle ginocchia. E le guardie guardano, fumando. Non provano a fermarli: è il confine più poroso del mondo. Nella sponda domenicana un arco e l’enorme tettoia della dogana accolgono i viaggiatori disciplinati. Nessuno apre le borse. Poliziotti dei due paesi allargano la mano: svelti, passate. Quando gli sguardi furtivi fanno sospettare qualcosa, un dollaro e via. Lunedì e venerdì i doganieri riposano: cancelli spalancati per riunire i due mercati delle città che il fiume separa. Più o meno le stesse facce, con sfumature diverse: nero blu gli haitiani, nero latte i domenicani. L’isola che raccoglie i due paesi si divide così. Oltre la dogana si apre la superstrada che corre verso Santo Domingo, capitale delle vacanze. Ogni venti chilometri sbarramenti di polizia: adesso è la paura del colera ma da sempre è la paura dei clandestini haitiani, senza nome, senza diritti, braccia destinate alle campagne-lager del rum Bacardi o del tabacco Davidoff: un milione di anime. Ecco perché le polizie si appostano per frenare i trafficanti dell’innocenza. E le mance diventano dieci dollari a clandestino . Mani che penzolano dai finestrini, mani che si allargano nel gesto di chi lascia scappare. Dopo terremoto e uragano, 7700 bambini sono stati portatati via da mezzani senza nome. Li pescano davanti alle rovine o fra le tende degli accampamenti dove i transfughi dalle macerie aspettano che i paesi più o meno felici si ricordino di loro. Bambini venduti da madri troppo sole e con troppi figli da sfamare. Li affidano a facce sconosciute sperando nel paradiso promesso da trafficanti che hanno sempre fretta. Subito dopo l’uragano di due mesi fa 950 bambini sono stati venduti e portati via seminando ad ogni passo mance da tariffario ormai istituzionale. Soldi alle famiglie sconvolte dalla separazione, soldi al doganiere haitiano, al doganiere domenicano, ai padroni di case compiacenti dove li spogliano dagli stracci per infilare jeans o sottane colorate, nella finzione del trasformare le prede in piccoli vacanzieri con famiglia: alla sera tornano nella capitale.
ORGANIZZAZIONI umanitarie, volontari e missionari cattolici e di ogni confessione provano a fermare questa violenza, ma la rete è solida, l’omertà collaudata, la corruzione bene oliata. Bambini, uomini e ragazze sono le ultime refurtive che i contrabbandieri trafugano dal deserto di Haiti. Compra-vendita che non è un mercato improvvisato dopo le tragedie; è il mercato collaudato dalla disperazione impossibile da consolare. Adesso, anche il colera. Quando l’Organizzazione Mondiale dalla Sanità è tornata a Port au-Prince dopo essere stata espulsa da militari e uomini forti, chi dirigeva medici e infermieri non ha nascosto la disperazione. Da tempo immemorabile migliaia di baracche crescevano su immondizie mai raccolte. Impossibile stabilire quali virus erano all’origine di una mortalità che superava i numeri africani. Vita media sotto i 50 anni e il 70 per cento dei 10 milioni di abitanti vive con un euro al giorno.
QUANDO UN BAMBINO compie 5 anni è a prova di pallottola perchè la mortalità infantile resta la catastrofe impossibile da definire. Crescono senza acqua, senza elettricità, analfabeti al 70 per cento. L’Aids prolifera. E allora meglio venderli, che forse ce la fanno a diventare adulti. Nella classifiche improbabili dei paesi civilizzati, Port au-Prince è la capitale del penultimo paese del mondo. Solo il Bangladesh sembra peggio, ma da un po’ di tempo si è smesso di fare i conti oppure i conti continuano e manca il coraggio di far sapere il risultato. Bambini e adolescenti rubati non solo per rallegrare dei vecchi signori dal sangue stanco. Com’é difficile riportare i racconti di chi combatte il traffico. Non tutti finiscono nei registri delle agenzie che, a Santo Domingo, distribuiscono le immagini dei piccoli alle famiglie troppo sole del “nostro” mondo. Una parte delle bambine è subito rinchiusa in piccoli motel attorno a Dajabon, nella Repubblica Dominicana. Un missionario battista americano racconta dei loro pianti che arrivano in strada. E la polizia? Non vede e non sente. “Tutti sanno chi sono i trafficanti e dove nascondono i bambini: polizia, autorità, osservatori domenicani e haitiani. Non se la sentono o non possono parlare”. Al telefono le parole del gesuita Regino Martinez, direttore della fondazione Solidarietà lungo la Frontiera: un sussurro sconsolato. “Le autorità fanno finta di non vedere per non perdere i soldi che finiscono nelle loro tasche. Non vogliono rinunciare alla bella vita”. E il traffico dei bambini continua.

Corriere della Sera 1.12.10
Leopardi, un uomo verso l’infinito
Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
di Giorgio Montefoschi


Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
Da sempre, in tutti i suoi libri sugli scrittori, Pietro Citati è stato il «secondo» poeta o il «secondo» romanziere: il lettore che — come pensava Leopardi — legge un testo quasi lo avesse scritto lui, aggiungendo quello che manca, integrando, rendendo manifesto quello che il testo stesso nasconde. In questo suo ultimo libro, Leopardi (Mondadori, pagine 437, € 22), dedicato al poeta di Recanati (un libro che tutti quelli che amano e conoscono Leopardi dovrebbero leggere per poterlo conoscere e amare di più), Citati, con una furia, una passione e una umile dedizione difficili da trovare nei nostri giorni distratti dalle non-vicende della letteratura, ha superato se stesso. Perché, all’interno di una situazione carceraria terribile (quante volte corre nelle sue pagine questo aggettivo!), è riuscito a creare, o a portare alla luce, o a muovere, quello che di regola succede nei romanzi d’avventura. E cioè: l’avventura. E l’epos.
Il carcere è quello in cui Leopardi ha trascorso la sua breve e disgraziata vita: la famiglia ossessiva, il mondo chiuso di Recanati (che Citati non esita a definire «la peggiore incarnazione del male»), la malattia devastante, la sciagura del proprio corpo deforme ridotto a essere, negli ultimi anni tormentati dalla cecità e dalla impossibilità di leggere, un «tronco che sente e pena». L’avventura non è altro che l’avventura della meravigliosa mente di Leopardi e del suo cuore: essendo, la mente, quella che lo sospinge nella inesausta costruzione di un sistema del pensiero che ha l’ambizione di comprendere il Tutto e il mistero; laddove il cuore è il riparo nel quale l’anima precipita e si rifugia, nutrendosi delle sue «molli e morbide sensazioni», dopo lo scacco dell’Infinito, il rifugio nel quale, dopo il Vuoto e il Nulla, riappare la memoria (dolorosa, poiché perduta anche quella).
C’è un qualcosa di veramente maestoso (come nell’epos) e di veramente «tremendo», in questo conflitto inesauribile e continuamente contraddetto che Citati descrive: nella Resurrezione che è negata dal pensiero e risorge nel cuore; nella impresa impossibile di cogliere almeno «una goccia di infinito puro, senza che nulla di estraneo la contamini» (una impresa, scrive Citati, simile a quella di uno che «cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e invisibile nel cielo»); nella volontà caparbia (e inevitabilmente contraddittoria) di dare esistenza solo ed esclusivamente al Nulla; nell’odio furioso che il poeta indirizza a se stesso, nel desiderio di autodistruggersi e abbandonarsi all’unica quiete possibile che è la quiete della morte, e insieme nel perduto, inconsolabile rinascere alla vita: segnalata dal tocco di un orologio, dal chiarore di neve in una stanza.
Il carcere dell’esistenza terrena, in una natura — dalla quale l’Età dell’Oro è scomparsa per sempre — che all’uomo è soltanto nemica e lo fissa muta semmai, di lontano, non garantisce altro che distruzione, infelicità e morte. Lo sforzo prodigioso del pensiero che contempla lo spettacolo tragico dell’universo e delle singole vite, e nel medesimo tempo cerca l’Infinito, è destinato al fallimento e si risolve in un fallimento. Il cuore, rappresentato dagli ondeggiamenti dell’anima che, dallo scacco dell’Infinito, precipita nel tempo — un viso, il suono di una voce, il canto di un uccello — non conosce che illusioni.
Tuttavia, nessuno di questi tre elementi del dramma (il carcere della vita, la mente, il cuore) avrebbe quella potenza dinamica che letteralmente lo schiaccia nell’anima di chi legge, se non ci fosse un quarto elemento a chiudere in modo inesorabile la prigione. Questo elemento, per dirla in parole semplici, è il limite. Il vero agente di ogni dramma che si svolge sulla terra. Ed è il limite che ci impedisce di vedere e di sapere (poiché il «culmine di ogni sapere è il riconoscere l’inutilità della ragione e di ogni filosofia»); il limite del ricordo che non si fa presente; il limite che contiene ogni parola e però ci garantisce che al di là di ogni al di là esiste un altrove.

Corriere della Sera 1.12.10
«Riconoscere i limiti della ragione umana» La lezione di Pascal
Genio della scienza, paladino della fede. La scommessa su Dio e il valore del Vangelo
di Dario Antiseri


«C’era un uomo che a dodici anni, con delle sbarre e dei tondi, aveva creato le matematiche, che a sedici aveva fatto il più dotto trattato sulle coniche che si fosse visto dall’antichità; che a diciannove ridusse in una macchina una scienza che esiste tutt’intera nell’intelletto; che a ventidue anni dimostrò i fenomeni dell’aria e debellò uno dei grandi errori dell’antica fisica; a quell’età in cui gli altri uomini incominciano appena a crescere, avendo compiuto il ciclo delle scienze umane, si avvide del loro nulla e rivolse i suoi pensieri alla religione; che da quel momento fino alla morte, giunto al trentanovesimo anno, sempre infermo e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, diede il modello della più perfetta arguzia come del ragionamento più forte; che, infine, nei brevi intervalli dei suoi mali, risolvette per distrazione uno dei più alti problemi della geometria, e gettò sulla carta dei pensieri che hanno tanto del Dio quanto dell’uomo: quello spaventoso genio si chiamava Blaise Pascal». Così René de Chateaubriand.
Dio e l’uomo. E il Dio di Pascal non è «il Dio dei filosofi e dei sapienti», ma è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Contrario a Cartesio «inutile e incerto», lontano dalla illusoria presunzione razionalistica degli Scolastici, Pascal tiene distinta la sfera della ragione da quella della fede: «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento. (...) La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio». D’altro canto, «perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria. (...) E chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?». La corruzione della natura umana e l’opera redentrice di Gesù Cristo: questi, dice Pascal, sono i due soli principi della fede cristiana. In Cristo scopriamo Dio e, davanti a Lui, non copriamo la nostra miseria. L’uomo non è un costruttore di senso, è un mendicante di senso: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dell’inutile ricerca del vero bene, al fine di tendere le mani al Liberatore».
Sull’esistenza o non esistenza di Dio la ragione tace, «non può determinare nulla», e tuttavia la ragione può mostrare che scegliere Dio è tutt’altro che follia. Ed è qui che Pascal innesca il grande tema della «scommessa»: «Scommettere bisogna: non è una cosa che dipende dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? (...) Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare che Egli esiste».
Se Dio non scende nell’animo umano sulla scala dei nostri sillogismi, si dà anche che tutti i nostri «lumi» non sono in grado di farci conoscere la vera giustizia: «Nulla, in base alla pura ragione, è per sé giusto. (...) Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (...) Singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Nel campo dell’etica la ragione si lascia piegare per ogni verso. E, difatti, è facile constatare che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose». Ma, allora, dov’è che la morale potrà trovare il suo porto? Lo trova — dice Pascal — nella fede: la vera giustizia è quella «secondo a Dio piacque di rivelarcela». La vera giustizia è, dunque, la norma evangelica: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero né la giustizia». Una soluzione, questa, che — se da una parte spinge il non credente a riflettere, in un campo dove la logica non aiuta, su quanto l’Occidente deve al messaggio antropologico ed etico del Cristianesimo —, dall’altra pone il credente davanti ad un ineludibile interrogativo: il cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? Da quale ragione?
«Il più grande scrittore cristiano, più grande dello stesso Newman»: così T.S. Eliot ha definito Pascal. Ma intanto: Pascal è un «fideista» che umilia la ragione, o è piuttosto un «iperrazionalista» che ha messo e pone in guardia contro gli abusi della ragione?

Corriere Della Sera 1.12.10
1792, il primo appello alla parità tra i sessi
La rivolta di Mary: vita «scandalosa» di una donna libera
Wollstonecraft, uno spirito ribelle
di Maria Laura Rodotà


Mary Wollstonecraft nacque a Londra nel 1759, morì di parto nel 1798, e scrisse la Rivendicazione dei diritti della donna. Che per un secolo e mezzo fu libro trascurato — all’inizio fu deriso, lei fu a lungo nota soprattutto per la sua vita ritenuta immoralissima — ma che negli anni Sessanta del XX secolo venne rivalutato come testo precursore poi fondante del femminismo. A Vindication of the Rights of Woman, secondo molti studiosi/e, ha ancora per molti aspetti un approccio radicale; e analizza la condizione delle donne in una società governata dal mercato e dal profitto, in cui le figure femminili diventano merce di scambio e rappresentanza. E molti suoi giudizi sono abrasivi, e attuali. Uno per tutti: «Quanto è volgare l’insulto di chi ci raccomanda di diventare solo graziosi animaletti domestici?». Lo è, tuttora. Anche se il percorso esistenziale di molte donne intelligenti è un po’ più facile di quello di Wollstonecraft.
Scampata a una vita dickensiana grazie allo studio, alla scrittura, alla determinazione, all’anticonformismo. Seconda dei sette figli di un padre scialacquatore, studiò gli antichi, la Bibbia, Shakespeare e Milton con l’aiuto di un pastore amico di famiglia e di sua moglie. Priva di mezzi, lavorò come dama di compagnia, maestra, governante. Quando tornò a Londra e fondò una piccola scuola, entrò in contatto con la comunità dei Dissenzienti, pensatori radicali riuniti intorno al suo futuro editore e finanziatore Joseph Johnson. Tra loro c’erano Thomas Paine, William Blake, William Goodwin, e Heinrich Füssli: uno scrittore e artista sposato con cui Wollstonecraft ebbe una relazione. Fu l’inizio della sua vita scandalosa; pur di stare vicino a Füssli, lei propose alla di lui moglie una convivenza a tre. La giovane Mary era già un’autrice originale: dei Thoughts on the Education of Daughters, «Pensieri sull’educazione delle figlie», e di Mary, a Fiction, romanzo autobiografico che influenzò il movimento romantico. Lavorando con Johnson si appassionò agli illuministi francesi. Rousseau però non le piacque per niente. Nella Vindication lo attaccherà perchè nemico delle donne indipendenti, che vorrebbe la donna come «una schiava tutta civetteria per diventare una compagna più dolce per l’uomo ogni volta che questi desideri svagarsi. Si spinge addirittura ad affermare che… per ciò che concerne il carattere femminile, la virtù più importante è l’ubbidienza... Che sciocchezza!».
Intanto, nel 1789, iniziava la Rivoluzione francese. E il lavoro di polemista di Wollstonecraft. Rispose alle Reflections on the Revolution in France del conservatore Edmund Burke con A Vindication of the Rights of Men, uno dei pamphlet sui moderni diritti civili più letti in Inghilterra all’epoca. Tre anni dopo andò a Parigi, dove conobbe l’americano Gordon Imlay, visse con lui, in seguito ebbe una figlia, fu lasciata, tentò due volte il suicidio. Ma la trentenne appassionata, emotiva, un po’ masochista aveva già, nel 1792, pubblicato il suo capolavoro, la Rivendicazione. «Chi ha reso l’uomo unico giudice, se la donna condivide con lui il dono della ragione?», scriveva. Le donne dovevano coltivarlo. Dovevano poter studiare, ed essere considerate per il loro carattere e le loro conoscenze, non per l’aspetto fisico. Dovevano imparare dei mestieri, per potersi mantenere se rimanevano vedove e non doversi sposare o risposare per necessità. Dovevano interessarsi di politica, e chiedere piena cittadinanza. Wollostonecraft non teorizzava la totale parità tra i sessi. Scrive: «Dalla costituzione fisica, gli uomini sembrano essere stati concepiti dalla Provvidenza per raggiungere un grado più elevato di valore». Ma insisteva sull’eguaglianza morale.
Wollstonecraft consigliava poi di fondare i matrimoni più sull’amicizia che sull’attrazione fisica. E (anche per questo alcune la considerano una madre del «pensiero della differenza») di partorire con donne levatrici invece che con medici maschi. La seconda volta non ci riuscì. Il parto della figlia concepita con William Goodwin, che la sposò già incinta e fu poi il suo indiscreto biografo, fu difficile e mal seguito. Morì dopo dieci giorni di febbre puerperale. Sua figlia Mary Wollstonecraft Goodwin, moglie del poeta Shelley, scrisse il romanzo Frankenstein.

Corriere della Sera 1.12.10
Europa, Religioni e biotecnologie
Il no ai dogmi unisce tutti


Sull’alleanza tra tecnologia e scienza si gioca una partita decisiva per la crescita economica e sociale dell’Europa, per il suo progetto politico, per la leadership europea nel mondo. L’Eurobarometro misura periodicamente cosa pensano i cittadini delle nuove tecnologie dell’ambiente, dell’energia, della vita. L’ultimo Rapporto dell’Eurobarometro rileva l’ottimismo degli europei per le biotecnologie e la loro fiducia nelle decisioni pubbliche, ma anche l’ignoranza sulle nanotecnologie, le riserve sul nucleare e sull’etica della ricerca e i forti dubbi sugli Ogm.
Pensiamo spesso che un’etica pubblica condivisa sia resa impossibile dall’eterno conflitto tra verità di fede e verità scientifica. Invece, il Rapporto non attesta grandi differenze nella percezione delle biotecnologie tra chi crede e chi non crede, tra cristiani e non cristiani. Gli islamici sono i meno ottimisti, i non religiosi sono i più ottimisti, ma le distanze sono minime, come anche tra protestanti, cattolici e ortodossi. Maggiori sono gli scarti sulla ricerca su cellule staminali embrionali, con ancora ai due poli opposti i musulmani, ostili per il 65%, e i non religiosi, favorevoli per il 64%. Se poi si chiede agli europei chi debba prevalere tra scienza e religione, l’appartenenza confessionale non conta più. I musulmani si dividono (57% preferisce la scienza), come i cattolici e i non religiosi (in entrambe le fila, il 55% antepone la scienza alla fede). Si inverte la posizione tra i protestanti, non meno divisi al loro interno, per il 57% dei quali l’etica deve prevalere sulla scienza. Analogamente si dividono i credenti meno praticanti e quelli più praticanti, il quasi 50% dei quali antepone la scienza alla fede.
Sulle biotecnologie, gli europei non ubbidiscono ai dogmi, ma si interrogano e interrogano. Le chiese stesse preferiscono studiare e orientare, come ha fatto la Pontificia Accademia delle Scienze nel 2009 sugli Ogm. La fede alimenta il dibattito e rifiuta le barricate. È la forza di un’Europa che vuole discutere di biotecnologie senza guerre di religione.

Corriere della Sera
Test per immigrati e italiani somari
di Gian Antonio Stella


Più che giusto che i «foresti» conoscano la nostra lingua, però...

«Test italiano per gli immigrati», esulta la Padania. E sotto il titolone che domina la prima pagina spiega: «Al via dal 9 dicembre il decreto firmato dai ministri Maroni Gelmini: permesso di soggiorno solo a chi dimostra di conoscere la nostra lingua. Il principio è lo stesso che è contenuto nel pacchetto sicurezza».
Obiezioni? No. Certo, questo tipo di test fu usato in America e altrove «contro» i nostri nonni. Al punto che lo «scienziato» Arthur Sweeny, nel saggio Immigrati mentalmente inferiori — Test mentali per immigrati pubblicato da North American Revue nel numero di maggio 1922, se ne servì per teorizzare l’incapacità degli italiani di stare al passo con gli altri stranieri arrivati negli States: «Non abbiamo spazio in questo Paese per "l’uomo con la zappa", sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello». Nonostante il rischio che qualcuno se ne serva per prepotenze razziste, però, l’obbligo per chi viene a vivere in Italia di conoscere l’italiano non è affatto sbagliato.
Anzi, al di là della questione di principio (chi viene qua deve integrarsi: per il bene nostro, suo e dei suoi figli) perfino i più accaniti nemici di ogni regolamentazione del fenomeno immigratorio devono riconoscere che un filtro come questo può aiutare ad esempio a spezzare il cerchio infame con cui certi mariti riducono l e mogli i n schiavitù domestica o certi padroni cinesi riducono in schiavitù gli immigrati più poveri in tanti laboratori clandestini. Conoscere la lingua del Paese in cui si vive è essenziale per uscire e rompere l’isolamento.
Detto questo, una domanda: chi li preparerà, quei test per valutare l’italiano degli immigrati? Qualche burocrate di quelli che scrivono «obliterare» invece che timbrare o sostengono che «il treno non "disimpegna" servizio di prima classe»? Ne rideva già 45 anni fa Italo Calvino spiegando che il cittadino dichiarava «stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa...» e il brigadiere verbalizzava: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico...».
Li preparerà qualche funzionario locale? Di quelli come il segretario comunale di Ariano Irpino che usa parole come «meridianamente epifanica» o «devozione al culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico»? Scelga bene, il ministro Maroni. L’importante è che non affidi il compito di valutare se gli immigrati sanno l’italiano a certi amici di partito. Come il sindaco leghista di Montegrotto, Luca Claudio, che tempo fa fece scrivere polemicamente sui cartelli stradali luminosi della cittadina le seguenti parole: «Cittadini, emigrate! Vivrete meglio da immigrati in un’altro paese». Dove «un’altro» aveva l'apostrofo. Prova provata che i somari, in ortografia e grammatica, non son solo «foresti».

martedì 30 novembre 2010

Repubblica 30.11.10
Il nuovo asse tra D’Alema e Veltroni mette un´ipoteca sulla leadership Bersani
di Goffredo De Marchis


Fassino candidato a Torino, ma rischia il bis di Milano
Nel colloquio di venerdì scorso dei due leader dubbi sulle ultime mosse del segretario

ROMA - Il ritorno della diarchia D´Alema-Veltroni sarebbe un ottimo argomento per la battaglia dei rottamatori. Un salto all´indietro di quasi quindici anni, un´alleanza tra diversi che più diversi non si può. Matteo Renzi e Pippo Civati stavolta potrebbero riempire uno stadio. L´intesa tra i due è in realtà ancora molto lontana. Ma la marcia di avvicinamento appare inesorabile, praticamente scritta nel destino di una coppia sul genere "né con te né senza di te". Il colloquio alla buvette di Montecitorio, avvenuto venerdì scorso, rappresenta una prima tappa. Si è volato alto quel giorno, affrontando la decadenza delle istituzioni impressa da Berlusconi e dalla sua maggioranza. Con un solo accenno al Partito democratico. È stato Veltroni a commentare con uno sguardo eloquente e non elogiativo la salita di Bersani sul tetto di Architettura. A quello sguardo D´Alema ha risposto con il silenzio. Ecco, le indiscrezioni dicono che sia D´Alema sia Veltroni, magari partendo da punti di vista diversi, hanno oggi dei dubbi sul ruolo e sulla forza del segretario.
Nella nuova stagione del disgelo, l´ennesima dopo altrettante di velenoso duello, possono trovare posto anche ragioni più terra terra. Dalemiani e veltroniani, cioè i gruppi dei fedelissimi, sono preoccupati dell´asse Bersani-Franceschini soprattutto per la composizione delle liste elettorali. Se si andasse alle elezioni a marzo, con i parlamentari nominati, il segretario e il capogruppo avrebbero la prima scelta sui nomi. Anzi, Bersani un mese fa ha convocato Franceschini e la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro comunicando loro che al tavolo delle candidature siederanno solo in tre: il leader e i due capigruppo. Non una buona notizia per le varie correnti del Pd. «Con Veltroni possiamo trovare un terreno comune per ridurre il peso di Franceschini», diceva qualche giorno fa il braccio destro di D´Alema, Nicola Latorre.
Un campo di azione condiviso e decisamente più importante l´ex premier e l´ex segretario del Pd lo hanno già trovato in questi giorni nell´analisi del dopo-Berlusconi. Governo di responsabilità nazionale, apertura decisa a Casini e al Terzo polo, individuazione di una premiership fuori dagli schemi partitici. Veltroni però ha insistito anche ieri sulla fumosità del tema alleanze: «Parliamo prima del partito». All´assemblea di Modem a Roma aveva anche detto che il problema del candidato premier è «l´ultima cosa». Non un´investitura per Bersani. D´Alema crede che il Pd abbia «un ottimo segretario». Ma ai suoi collaboratori ha confidato le perplessità non sulla persona ma sull´intensità con cui sta seguendo la linea di un´intesa con Casini. Latorre al Corriere, proponendo Vendola come socio fondatore del Pd, ha spiegato che «il partito deve cambiare rotta» e che le primarie di coalizione «vanno eliminate». Una critica al leader.
Sullo strumento delle primarie Bersani non ha mai nascosto i suoi dubbi. Però sono la sua fonte di legittimazione e ne difende il principio. Per tenerle ancora in piedi adesso il Pd è chiamato a organizzare bene quelle di Torino. Senza le sbavature di Milano. La candidatura di Piero Fassino è praticamente ufficiale, dopo la rinuncia di Profumo. Stavolta il rischio è mandare allo sbaraglio addirittura un fondatore del Pd. Nichi Vendola avrebbe appoggiato Profumo. Ma su Fassino non dà garanzie. Anzi, Sinistra e libertà ha pronto un candidato: Antonio Ferrentino, ex presidente della comunità montana, leader dei No Tav. Un pericolo per Fassino. E per la tenuta del Pd, per la stabilità del suo vertice.

il Fatto 30.11.10
L’incubo dei democratici: Vendola nel partito
La proposta di Latorre non piace a D’Alema e veltroniani
di Wanda Marra


“Personalmente mi piacerebbe molto diventare socio fondatore di un nuovo centrosinistra, in cui tutte le forze siano in grado di ristrutturarsi e di innovarsi profondamente anche dal punto di vista culturale”. Gentile ma deciso, alla fine arriva il no di Nichi Vendola all’invito di Nicola Latorre ad entrare nel Partito democratico. “Ho apprezzato molto il garbo e l'intelligenza della proposta, che ha il merito di rendere evidente la crisi di prospettiva del Partito democratico. Pone un problema e lo fa con coraggio”, spiega il governatore della Puglia. Che ancora una volta riesce a porsi di fronte a a quello che ancora sarebbe il maggior partito del centrosinistra da una posizione di forza.
Nichi Vendola turba i sonni dei dirigenti del Pd almeno fin da   quando a luglio ha annunciato la sua candidatura alle primarie del centrosinistra ed è destinato a farlo ancora a lungo. L’ultima (provocazione?) è arrivata da Latorre che al Corriere della sera domenica ha dichiarato di pensare a un Pd non semplicemente allargato ad altri soggetti, ma addirittura rifondato, con il contributo diretto di Sel e del suo leader. Curiose dichiarazioni, per di più arrivate nello stesso giorno in cui Massimo D’Alema, scegliendo il Messaggero, proponeva di allargare le alleanze, in caso di voto, a finiani e centristi e ribadiva così la necessità di un governo di responsabilità nazionale di fronte “ad una crisi di sistema” che nessun governo “di parte” può risolvere.
DUE POSIZIONI alquanto diverse che arrivano da due dirigenti tradizionalmente molto vicini. E che ancora una volta evidenziano la mancanza di bussola   dei Democratici. Al di là dei legami pugliesi tra Latorre e Vendola, il tema lanciato dal senatore democratico, almeno per come la mette lui, è quello di primarie “vere”, che non devono essere di coalizione (le quali “vanno eliminate”), ma di partito. Certo è che la proposta crea sconcerto, se non sgomento. Enrico Letta polemizza definendo una “forzatura” l’idea di allargare a Sel: “Vendola tante volte ha tentato di fare un’Opa sul Pd, ma spero che da adesso in poi abbia un atteggiamento positivo e propositivo anche perchè lui da solo, con un pezzo di Pd, non va da nessuna parte”. Stizzita e generale l’alzata di scudi nel partito. “Vogliono archiviare il Pd’', sostiene per gli ex popolari Beppe Fioroni, intervistato dal Corriere della Sera. Posizione condivisa dai veltroniani, che pensano   che il Pd non debba farsi condizionare dalla sinistra radicale e, se fallisse l’intesa con l’Udc o il Terzo Polo, la soluzione migliore sarebbe la corsa solitaria dei Democratici, senza Sel né Idv. Veltroni, che venerdì durante l’assemblea all’Eliseo, aveva chiaramente collocato Vendola in una   forza a sinistra del Pd, raggiunto dal Fatto quotidiano si rifiuta di fare “dichiarazioncine” ma poi parlando con le agenzie dribbla l’argomento: “La cosa peggiore che il Pd può fare è dividersi tra chi vuol fare l’alleanza con Vendola e Di Pietro chi con Fini e Casini’'. Anche i “franceschiniani” chiudono all’idea di Latorre. Per loro parla Pierluigi Castagnetti: "Una proposta intempestiva e molto estemporanea".
TRA TANTI contrari, c’è però anche chi è favorevole. “Ho già detto che bisogna andare oltre il Pd per ritrovare il Pd, che   c’è bisogno di un nuovo Lingotto”, dichiara il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino. Mentre Ignazio Marino non da oggi ha dichiarato che Vendola dovrebbe iscriversi al Pd.
“Dialettici” rispetto al rapporto col governatore della Puglia sono i rottamatori Renzi e Civati. Il sindaco di Firenze, d’altra parte, aveva dichiarato già mesi fa: “Tra Vendola e Montezemolo tutta la vita Vendola”. D’altra parte, in qualche modo guardano nella stessa direzione.
E in mezzo a tutte queste manovre   , che si giocano anche intorno alla sua leadership, cerca di mantenere una posizione di almeno simulato equilibrio Pier Luigi Bersani. Il quale d’altra parte si era spinto non più di un mese fa a proporre un gruppo unico con Sel e Idv e aveva anche accettato di andare alle primarie: “Adesso dobbiamo parlare di un governo di responsabilità istituzionale, di un governo di transizione che aggiusti rapidamente una legge elettorale disastrosa e faccia qualcosa per questa nostra economia”. Insomma per il segretario resta valido, in caso di voto, lo schema del Nuovo Ulivo, ovvero un nuovo centrosinistra, formato dal Pd, da Sel e da Idv, che si apre ad un’intesa con l’Udc.

il Riformista 30.11.10
Nel Pd si litiga sull’alleanza con Vendola
Democratici. “Nichi” declina l’offerta di entrare nel partito. C’è chi non lo vuole in coalizione
di Ettore Colombo


il Riformista 30.11.10
Pd apre a Vendola, era ora
di Peppino Caldarola


Apcom 30.11.10 ore 18
Pd/ Bersani: Asse Veltroni-D'Alema? Non mi occupo di chiacchiere
L'ho già detto anche ai diretti interessati

Roma, 30 nov. (Apcom) - "Sento un sacco di chiacchiere sul Pd che mi entrano da un orecchio e mi escono dall'altro". Così Pier Luigi Bersani, a Montecitorio, risponde a chi gli chiede cosa pensi dell'ipotesi che esista un asse tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni per sostituirlo alla guida del partito. "Adesso il Pd si concentra sui problemi del paese - avverte il segretario - e tutti sentiranno la responsabilità di fare questo. Io di certo non mi occupo di chiacchiere".
A chi gli chiede se convocherà un coordinamento per discutere di questi temi interni al Pd, Bersani scandisce: "Le riunioni le faccio continuamente e queste cose che ho detto a voi figuriamoci se non le ho dette ai diretti interessati...".

Apcom 30.11.10 ore 18
Pd/ D'Alema: Asse con Veltroni? Sono solo scemenze
"Il partito è unito dietro Bersani"

Roma, 30 nov. (Apcom) - Le voci di un 'asse' contro Pier Luigi Bersani tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni sono solo "scemenze". Lo dice il presidente del Copasir rispondendo ai cronisti in Transatlantico. Quando gli viene riferito che il segretario del Pd è parso irritato per queste voci, D'Alema replica: "Anche io lo sono, e credo anche Veltroni".
L'ex ministro degli Esteri ricorda: "Le cose che dovevo dire le ho dette in un'intervista di qualche giorno fa al Messaggero. Mi pare che sulle scelte fondamentali il nostro partito sia unito dietro a Bersani. Questo è il dato fondamentale, non c'è nessun asse".

Corriere della Sera 30.11.10
Gli adolescenti e il vuoto di regole da riempire
di Margherita De Bac


Indagine sugli studenti delle medie inferiori: il sorpasso di Internet sulla televisione

Famiglie «deboli» Le famiglie «deboli» preferiscono glissare piuttosto che dire dei no e affrontare i contrasti con i figli adolescenti
Il rischio «L’eccessivo coinvolgimento nella Rete toglie attenzione alla scuola e alle persone in carne e ossa»

ROMA — Affascina e funge da calamita nell’età dei cartoni animati e del «Mondo di Patty». Ma una volta girata la boa dell’infanzia, il piccolo schermo perde via via attrattiva, surclassato da un interesse preminente. Internet. Al primo posto tra le abitudini degli adolescenti, secondo l’ultima indagine della Società italiana di pediatria (Sip) svolta su un campione di 1.300 studenti delle scuole medie inferiori (12-14 anni).
Ne esce un’immagine nuova dei ragazzi che navigano nella fase più difficile e incompresa del ciclo vitale e familiare, come la definiscono nel bel libro «Storie di adolescenza», appena edito da Raffaello Cortina, gli psicoterapeuti Maurizio Andolfi e Anna Mascellani. Che non a caso dedicano un ampio capitolo alle addiction tecnologiche, chiamate anche dipendenze da console. La ricerca della Sip mette a fuoco inoltre esigenze e desideri dei giovani. Non è vero che amano fare il comodo loro. Anzi, vorrebbero genitori più interventisti sul piano delle scelte, dal modo di vestire al trucco, dallo sport alle amicizie, dalla dieta al tempo libero. Insomma, basta con madri e padri signorsì, con famiglie deboli che preferiscono glissare piuttosto che dire di no agli adolescenti e affrontare apertamente i contrasti con i figli in età di ribellione. «In queste situazioni si può creare un vuoto di potere pericoloso. Conquistano spazio allora modelli esterni alla famiglia che possono essere dannosi» commenta Maurizio Tucci, autore dell’indagine.
Per la prima volta si assiste al sorpasso di Internet sulla televisione. Gli intervistati che trascorrono nella rete più di tre ore al giorno sono il 17,2% contro il 15,3% dediti in egual misura alla tivù. Quest’ultima percentuale lo scorso anno era il 22%. Facebook è la protagonista incontrastata e batte sia Messenger sia i blog. Oltre il 67% degli intervistati ha un profilo sul social network, quasi il doppio rispetto all’indagine precedente. Più le ragazze dei ragazzi.
Alberto Ugazio, presidente dei pediatri italiani, lo giudica un «superamento ambiguo. Di per sé è un fenomeno positivo perché Internet è una straordinaria finestra sul mondo e contribuisce all’arricchimento culturale. Tutto dipende però dall’uso. Se le chat hanno la prevalenza allora si può scivolare verso comportamenti a rischio. Il mondo virtuale si sovrappone a quello reale».
Andolfi e Mascellani nel loro libro ricordano che la dipendenza da internet è stata riconosciuta come sindrome psichiatrica nel 1995. Il cosiddetto tech abuse: «L’eccessivo coinvolgimento nelle attività di rete — scrivono gli autori — distoglie l’attenzione da scuola e lavoro. I collegamenti prolungati anche nelle ore notturne portano allo sconvolgimento del regolare ciclo sonno-veglia. Ma ciò che è più grave è che diminuisce il tempo disponibile per le persone significative, in carne e ossa». Avvertimento alla famiglia. Non sottovalutare il pericolo web. Frequentare YouTube e le chat sono di gran lunga le attività principali mentre perde sempre più terreno la ricerca di informazioni per lo studio. Purtroppo crescono anche i comportamenti a rischio. I giovani del Sud una volta su tre comunicano il numero di telefono a sconosciuti. E sono sempre di più gli adolescenti che danno informazioni personali, si mostrano in webcam e accettano incontri con telenauti mai visti, soprattutto coetanei ma in certi casi adulti.
In compenso calano lievemente, di qualche punto, le dipendenze da sostanze. Sigarette e alcolici. Il consumo di birra (47%), vino (40%) e liquori (18%) resta comunque sostenuto e continua a costituire un allarme sociale. In crescita, e sottostimato, il consumo di canne. Il 9% del campione ammette di aver provato almeno una volta.

Corriere della Sera 30.11.10
La molecola che governa i geni
di Massimo Piattelli Palmarini


Forse si trasmette di padre in figlio: blocca o attiva il Dna

In Unione Sovietica Il discusso biologo stalinista Lyssenko si era imbattuto, senza saperlo, in queste trasformazioni

Non passa settimana senza che la principali riviste scientifiche pubblichino qualche scoperta sull’epigenetica subito ripresa dai giornali di larga diffusione. La trasmissione di caratteri ereditari non (il «non» va sottolineato) dovuti a istruzioni contenute nella sequenza del Dna fa un certo scalpore. Si va, in un certo senso «oltre» e «sopra» (in greco antico «epi») i geni, da cui il termine epigenetica. Il rischio di esagerare è forte. «Vittoria sui geni» titola la copertina di un recente numero del settimanale tedesco «Der Spiegel», aggiungendo che l’epigenetica può farci «più intelligenti, più sani e più felici».
Meno sensazionalista è il «New York Times», che esamina plausibili conseguenze sull’ereditarietà, la diagnosi e la possibile cura delle malattie psichiatriche. Il quotidiano inglese «The Guardian» nel marzo scorso parlava di rivoluzione epigenetica e suggeriva che il quadro classico dell’evoluzione neo-Darwiniana centrato sulla selezione naturale va rivisto.
Florian Maderspacher, redattore capo di «Current Biology» insorge contro queste esagerazioni e agita lo spettro di un ritorno dell’infame biologo stalinista Trofim Denisovich Lyssenko, nemico dei genetisti sovietici, che faceva tranquillamente spedire nel Gulag. Basandosi su un processo da lui chiamato «vernalizzazione», cioè un utile condizionamento del grano a climi rigidi, che sarebbe poi passato nel seme e trasmesso nelle coltivazioni successive, Lyssenko modificò l’agricoltura dell’Unione Sovietica con esiti ancora oggi discussi.
Era implacabile sostenitore dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, una tesi particolarmente cara alla dottrina marxista in veste sovietica, in quanto prometteva di migliorare stabilmente l ’ umanità attraverso l’educazione e lo stile di vita del socialismo. Era un sinistro figuro, ma per certo si era imbattuto in trasformazioni epigenetiche delle piante, qualcosa che oggi viene studiata produttivamente e con ben altri metodi.
Assai meno mortifero e più spesso agitato è il timore di un ritorno del Lamarckismo, cioè della tesi (dovuta al biologo ed evoluzionista francese Jean - Baptiste de Lamarck, 1744-1829) che l’evoluzione proceda per un cumulo di tratti acquisiti in vita dagli antenati e poi trasmessi ai discendenti. Vediamo di mettere un po’ d’ordine in queste contrastanti notizie, evitando sia il trionfalismo che lo svilimento dell'epigenetica.
I cosiddetti marcatori epigenetici sono piccole molecole che si fissano mediante un normale legame chimico al Dna o alle proteine attorno alle quali il Dna si avvoltola nel nucleo delle cellule. Il Dna e tali proteine, chiamate istoni, sono molecole immense, nelle quali i marcatori epigenetici si inseriscono, un po’ come un sassolino in uno pneumatico di un autobus.
Ma, per piccolo che sia, il sassolino può far un po’ sobbalzare l'autobus ad ogni giro di ruota. Ebbene, questi piccoli gruppi chimici (detti in gergo gruppi metilici, acetilici, fosforilici, e un paio di altri) possono far traballare l'espressione dei geni ad ogni divisione della cellula. In particolare, a seconda di dove vanno a piazzarsi, possono mettere un gene a nudo, favorendone l’attivazione, o all’opposto schermarlo fisicamente, bloccandolo. La presenza dell’uno o dell’altro marcatore su questa o su quella posizione, in questo o quel gene (o nell’istone) è il risultato congiunto di interazioni con l'ambiente e della struttura chimica del gene (o dell'istone). Ora viene il bello.
È ipotizzabile che, insieme ai geni, la progenie possa ereditare anche questi marcatori, ereditando, quindi, un tipo di regolazione dell’espressione dei geni stessi, mediante un meccanismo, appunto, epigenetico. Detto un po’ sommariamente, l’ipotesi ancora da confermare è che non si ereditano solo dei geni spogli, ma dei geni corredati di marcatori epigenetici. In gergo, si erediterebbe un epi-genoma, non solo un genoma.
Dati inoppugnabili dicono che uno stesso gene, se ereditato dal padre, può avere una marcatura (imprinting) paterna, diversa da quella materna, con effetti diversi sui tratti biologici che questi geni contribuiscono a formare nella prole. Trattandosi di modifiche provenienti dall’ambiente cui è stato esposto l’uno o l’altro genitore, o perfino uno dei nonni, si ha una genuina trasmissione di caratteri acquisiti, senza alterazioni nella sequenza del Dna dei geni.
I meccanismi attraverso i quali avviene questo trasferimento da una generazione all’altra sono per ora ignoti e le ricerche fervono. La trasmissione in quanto tale è stata ben stabilita recentemente almeno in un numero di casi specifici ben accertati in specie distinte. La lista di tali casi, in continuo aumento, spazia dal colore del manto, l’appetito e la suscettibilità alle malattie in topi geneticamente identici, ma le cui madri sono state nutrite durante la gestazione con sostanze diversamente ricche in gruppi metilici, a reazioni di stress in pulcini la cui madre è stata sottoposta a shock, benché i pulcini stessi non siano stati sottoposti ad alcuno shock.
Nell’uomo, per adesso almeno, i candidati probabili, ma ancora non certi, sono collegati alla dieta, ricca o all’opposto da fame, cui sono stati soggetti i nonni, con effetti opposti tra le nonne e i nonni, rispettivamente al momento della formazione dell’ovulo (ancora nel ventre della loro madre) e degli spermatozoi (in fase di pre-pubertà). In Olanda, le nipotine delle nonne che soffersero la fame nella tremenda carestia dell’inverno di guerra 1944-1945 partoriscono oggi neonati più piccoli e gracili della norma, benché esse stesse non abbiano mai conosciuto la fame.
È veramente il ritorno del Lamarckismo, come alcuni sostengono gongolando e altri paventano? Non proprio. Innanzitutto perché l'effetto delle condizioni ambientali sui tratti epigeneticamente trasmessi è quasi sempre molto complesso e poco intuitivo. Per esempio, sembra proteggere dal diabete e dai disturbi cardiaci avere avuto un nonno che soffriva la fame da adolescente. Strano, no?
Non è certo la storia Lamarckiana tipica della giraffa cui si allunga progressivamente il collo, generazione dopo generazione, per poter mangiare i frutti degli alberi più alti. Inoltre, la trasmissione dei caratteri epigenetici, a differenza di quelli genuinamente genetici, spesso non è stabile. Infine, con buona pace di Lamarck, non c’è connessione stabilita, almeno per ora, tra trasmissione epigenetica e formazione di specie nuove. La scienza dell'epigenetica è ancora solo agli inizi, ma il dispiego di forze è imponente. Ne vedremo certo delle belle.

Corriere della Sera 30.11.10
La lettura aiuta il cervello ad attivare più neuroni
di Manuela Campanelli


L'istruzione rimodella il nostro cervello e apre in esso nuovi circuiti elettrici. Soprattutto il saper leggere arruola gruppi di neuroni di solito impegnati in altre funzioni. Ma quali? Per scoprirlo il ricercatore francese Stanislas Dehaene ha analizzato i cervelli di 63 soggetti, 31 di persone che avevano imparato a leggere da bambini, 22 di persone che hanno acquisito questa abilità da adulti e 10 di illetterati. Per ognuno è stata rilevata la risposta cerebrale alla lingua parlata e scritta e alla visione di facce, cose, strumenti e scacchi. «I risultati dimostrano che la lettura attiva aree primordiali come quelle deputate alla visione e al riconoscimento delle facce che vengono riutilizzate per lo svolgimento di questa funzione cognitiva che si è sviluppata recentemente, circa 5 mila anni fa, rispetto alla lingua parlata» spiega Gianluca Romani, professore di Fisica all'Università di Chieti. «Chi sa tuttavia leggere attiva meno le zone cerebrali adibite al riconoscimento delle facce con la visione delle facce piuttosto che con le parole scritte di chi è illetterato. Segno che la scolarizzazione le ha disabituate a svolgere un compito più prestorico».

Corriere della Sera 30.11.10
Con la forza del pensiero si sposta il cursore del pc
di Minnie Luongo


D'ora in poi i cursori si potranno controllare con dei semplici pensieri: questo l'annuncio della Society for Neuroscience di San Diego (Usa). «Un nutrito gruppo di volontari ha imparato in soli sei minuti come spostare un cursore sullo schermo grazie alla forza del pensiero» dice l'autrice della ricerca, Anna Rose Childress della University of Pennsylvania School of Medicine. Lo studio consisteva di due parti: la formazione informatica e l'effettivo controllo del cursore. Durante l'addestramento, i computer hanno riconosciuto due distinti schemi cerebrali: nel primo, i partecipanti sono stati invitati a pensare di colpire una palla da tennis; nel secondo, hanno immaginato di spostarsi da una stanza all'altra. Ogni insieme di pensieri veniva collocato, in corrispondenza con l'attività immaginata, in una specifica parte del cervello. I volontari hanno quindi ripetuto i medesimi modelli di pensiero, spostando un cursore sullo schermo. Conclusione: «Tutti sono stati capaci di spostare il cursore, alternando i pensieri e creando veri schemi cerebrali, subito riconosciuti dal computer».

Corriere della Sera 30.11.10
Grandezza dei corrotti che hanno fatto la storia
Pericle, Cesare, Napoleone: tutti tentati dal denaro
di Paolo Mieli


Il primo ministro Walpole si arricchì in modo illecito ma portò l’Inghilterra settecentesca al rango di potenza mondiale
La meschinità del bene Eichmann era un esecutore fidato mentre il nazista corrotto Becher consentì a parecchi ebrei di salvarsi

C’è una curiosa circostanza nella storia dell’umanità: alcune (molte) grandi personalità ancor oggi venerate o comunque tenute in alta considerazione, ai tempi in cui sono vissute sono state accusate di essersi lasciate tentare dal denaro. Accuse che per lo più sono sempre state corroborate da prove robuste. Nel V secolo a.C. l’«incorruttibile» Pericle fu sospettato di aver lucrato sui lavori pubblici per la costruzione del Partenone e lo scultore che su suo incarico sovraintese tra il 447 e il 432 a.C. ai lavori, Fidia, fu trascinato in giudizio con l’imputazione di aver sottratto parte dell’oro destinato alla statua di Atena. Riferisce Plutarco che un secolo dopo, nel 324 a.C., Demostene, il difensore dell’indipendenza ateniese da Filippo il macedone e da Alessandro Magno, fu pesantemente implicato nell’«affare Arpalo» (la sparizione di metà del patrimonio sottratta ad Alessandro dal suo tesoriere) e costretto all’esilio.
Racconta Svetonio che pure su Giulio Cesare gravò il sospetto di essersi procurato illecitamente grandi quantità di denaro. Un sospetto che è aleggiato anche sui suoi uomini e sui suoi rivali: «gli abiti dei suoi governatori erano fatti solo di tasche», ha scritto Bertolt Brecht ne Gli affari del signor Giulio Cesare; e Montesquieu — nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza — estese l’accusa di malversazione a Crasso e Pompeo, rei di aver introdotto «l’uso di corrompere il popolo con i soldi». Un grande moralista dell’antichità fu Marco Porcio Catone detto «il censore». Eppure — scriveva Seneca nelle Lettere a Lucilio — la «corruzione a Roma non è mai stata sfacciata come ai tempi di Catone». Qualche insinuazione avrebbe poi colpito lo stesso Seneca. Pesanti sospetti si addensarono su Sallustio il quale, dopo essere stato governatore della Numidia, si ritrovò tra le mani un patrimonio che gli consentì di costruire a Roma una splendida villa nei pressi del Quirinale: «Si farebbe del moralismo», ironizza Luca Canali in Identikit dei padri antichi (Manifestolibri), «affermando che il moralismo di Sallustio deriva dalla sua presunta immoralità».
A Roma, nell’età dell’impero, l’accaparramento illecito dilagò e in alcuni casi fu sfrenato. Successivamente qualcosa cambiò. Interessante, a tal proposito, la notazione di John T. Noonan — in Ungere le ruote. Storia della corruzione politica dal 3000 a.C. alla Rivoluzione francese (Sugarco) — secondo il quale il fenomeno si attenua con la diffusione della morale cristiana, nell’età dei barbari e nel primo Medioevo.
In tempi più recenti, l’uso del potere per accumulare ricchezze caratterizzò a Parigi l’attività di Richelieu che Montesquieu definì «il peggiore cittadino di Francia» (Luigi XIV, appena incoronato, istituì una corte di giustizia incaricata di esaminare la contabilità del cardinale e tale corte individuò numerosi episodi di abuso) nonché quella di Mazarino. Prima di loro c’era stato Jacques de Semblançay, tesoriere di Luigi XII e di Francesco I, impiccato per aver rubato del denaro pubblico, il quale, a dispetto delle sue malefatte, aveva ispirato a Clément Marot un poema pieno di ammirazione. Grande predatore fu anche il sovrintendente di Luigi XIV Nicolas Fouquet — protettore di Corneille, La Fontaine, Molière — che nel 1661 diede, nel suo castello di Vaux-le-Vicomte, una festa sfarzosa al punto da provocare addirittura la gelosia del re, che lo fece condannare alla prigione perpetua nella torre di Pignerol (ma il popolo di Parigi esultò alla notizia che gli era stata risparmiata la pena capitale).
In Inghilterra sir Robert Walpole, al potere dal 1721 al 1742, riuscì sì a far grande il suo Paese, ma anche a procurarsi illecitamente ingenti somme di denaro e, per questa sua debolezza, divenne il bersaglio di Jonathan Swift, oltre che di molti altri scrittori dell’epoca: Henry Fielding, Alexander Pope, John Andrews, John Gay (nel 2000 Edward Pearce ha scritto una biografia in cui lo ha del tutto rivalutato: «Forse era corrotto ma almeno si comportava da adulto»). Ai tempi della Rivoluzione francese e nei sedici anni successivi si lasciarono corrompere Danton, Sieyès, Brissot, Barère, Barras, Napoleone (assieme a quasi tutti i suoi familiari), ma soprattutto Talleyrand. Quest’ultimo operò in modo talmente sfacciato che Napoleone lo definì come «l’uomo che più ha rubato al mondo»; Chateaubriand scrisse che praticamente non c’era stato un solo atto politico che egli avesse compiuto gratuitamente; Mirabeau sostenne che per i soldi Talleyrand si sarebbe venduto anche l’anima (aggiungendo: «e avrebbe ragione perché cambierebbe la merda con l’oro», confermando la definizione che di lui aveva dato il Bonaparte: «merda in una calza di seta»). Offese alle quali Talleyrand rispose sempre con grande flemma. Allorché fu vittima di un violentissimo attacco lanciatogli dal duca di Fitz-James, il principe di Benevento reagì felicitandosi con l’oratore per l’eccellente discorso, «malgrado delle piccole cose un po’ aspre».
Per chi abbia voglia di ripercorrere la storia di questo genere di depravazione connessa al potere è adesso a disposizione un bel libro di Carlo Alberto Brioschi, Il malaffare (Longanesi), che si sofferma su innumerevoli casi di «mani sporche» dall’antichità ai giorni nostri. Ciò che impressiona maggiormente nel leggere il libro di Brioschi è la quantità di grandi personaggi ancora adesso rispettati e — come si diceva all’inizio — tenuti nel conto di benemeriti nella storia dell’umanità che non disdegnarono di barattare il loro rigore morale con danaro e potere. E qui sorge spontanea la domanda: come è possibile che, pur condannando in ogni momento la corruzione, non teniamo in alcun conto la circostanza che molti grandi della storia si siano lasciati corrompere? Per una risposta (che contiene un’analisi approfondita del fenomeno) ci giunge in aiuto Le virtù discrete della corruzione di Gaspard Koenig (pp. 228, € 16), che esce domani per Bompiani. Il libro, scrive Koenig, «non è un appello alla corruzione, ma la difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato, al quale forse siamo debitori di ciò che abbiamo di meglio». Difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato? Al quale dovremmo considerarci addirittura debitori? In che senso?
Modello di questo trattato è La favola delle api di Bernard de Mandeville (la migliore versione italiana è forse quella curata da Tito Magri per i tipi Laterza), che trecento anni fa suscitò uno scandalo destinato a durare decenni. Secondo Sergio Ricossa — in I grandi classici dell’economia (Bompiani) — quello di Mandeville è un piccolo capolavoro, tant’è che quasi tutti gli studiosi venuti dopo di lui, a cominciare da Adam Smith, hanno tratto ispirazione dal suo poemetto pur senza tributargli l’onore che avrebbe meritato (con l’eccezione di Marx che nel Capitale gli rende esplicito omaggio). Solo nel Novecento due grandi economisti, John Maynard Keynes e, sul versante opposto, Friedrich von Hayek, l’hanno rivalutato appieno. Tesi centrale in Mandeville — come si evince dal sottotitolo del libro Vizi privati, pubblici benefici —è che una società onesta è una società stagnante, mentre la corruzione genera una circolazione incessante di beni e di status. «È impossibile», scrive Mandeville, «avere tutte le dolcezze più raffinate della vita, presenti in una nazione industriosa, ricca e potente e conoscere allo stesso tempo tutta la virtù e tutta l’innocenza che ci si augura»; «quelli che vogliono rivedere un’età dell’oro, devono essere anche disposti a nutrirsi di ghiande»; «la virtù ci comanda di sottomettere i nostri appetiti, ma la buona educazione ci chiede soltanto di celarli». Scrive ancora Mandeville: «Sarei pronto a gloriare la fortezza e il disprezzo delle ricchezze come Seneca, e scrivere in difesa della povertà il doppio di quello che lui ha scritto, per un decimo delle sue proprietà».
Secondo Mandeville il grande nemico della corruzione è nient’altro che un «indolente»: «Volete metterlo alla prova? Colmatelo di onori e di ricchezze; non tarderà a conformarsi al mondo elegante, riderà di buon cuore di quella frugalità e di quel disprezzo delle ricchezze e della grandezza di cui faceva professione nel tempo in cui era povero; e ammetterà volentieri la futilità di quelle pretese ragioni». Quanto ai politici, «i ministri competenti, virtuosi, disinteressati sono i migliori; ma nell’attesa ci vogliono dei ministri». C’è da aggiungere che secondo Montesquieu (in Lo spirito delle leggi) «gli uomini furfanti al dettaglio, sono all’ingrosso gente molto onesta». E Machiavelli nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio spiega bene come i membri del corpo sociale, una volta corrotti, sia impossibile riformarli.
Nella storia del cristianesimo, Koenig giudica centrale la figura di Giuda Iscariota: senza Giuda niente crocifissione, senza crocifissione niente redenzione, senza redenzione niente cattolicesimo. Se la corruzione di Giuda è così determinante, è perché riflette la corruzione generale del mondo a partire dal peccato originale, corruzione che apre la possibilità di una redenzione tramite la fede e che non verrà cancellata, se non nel momento della resurrezione e del giudizio finale. Utile guida a meglio comprendere questi concetti è Le tre versioni di Giuda di Jorge Luis Borges. Qui Giuda sarebbe il vero figlio di Dio, di un Dio totalmente fatto uomo, con tutte le debolezze dell’uomo. Gesù l’incorruttibile sarebbe invece un impostore. L’uomo, quello vero, il solo degno, alla fine, di essere l’oggetto di una religione, è Giuda. Se ogni essere umano ha un prezzo, Giuda ha trovato il suo. Non gli si può rimproverare niente «se non forse la somma, stranamente poco elevata, per un uomo che era il tesoriere degli apostoli… con mille denari, scommettiamo che Giuda non si sarebbe suicidato e avrebbe trascorso dei giorni felici in Galilea».
Il corrotto allaccia e rompe le amicizie al ritmo degli affari. Ma deve anche fare i conti con i suoi nemici tradizionali: «I forsennati della lotta anticorruzione, i crociati della trasparenza, gli isterici della avversione al denaro sporco». Gente che traveste il proprio risentimento con l’esigenza di giustizia o di verità. Quel genere di «filosofo» che, secondo Mandeville, «si crede virtuoso solo perché le sue passioni si sono addormentate… e sentendosi inutile ai suoi concittadini, si vendica esortandoli a praticare una noiosa virtù che non è in grado di incitare a cose grandi e a imprese pericolose». Una vita temperata, vale a dire non corrotta, non procura alcun rispetto perché non produce alcun potere. La virtù è simile alle porcellane cinesi, molto belle a vedersi dal di fuori ma «guardate l’interno di ognuna, non vi troverete che polvere e ragnatele».
Il ritratto del fenomeno corruzione va fatto — secondo l’autore — mettendo in risalto i chiari e gli scuri. Nietzsche, in Al di là del bene e del male, afferma che i refrattari alla corruzione sono persone «inguaribilmente mediocri», che hanno come «unica prospettiva di riprodursi e perpetuarsi». Lo stesso filosofo, nella Gaia Scienza, descrive le epoche della corruzione come quelle in cui «la tragedia si aggira per le case e le strade, nascono il grande amore e il grande odio e la fiamma della conoscenza si alza splendente verso il cielo». Poi così prosegue: «Gli uomini della corruzione sono spiritosi e bugiardi, sanno che ci sono altri modi di assassinare, oltre al pugnale e all’agguato»; «le epoche di corruzione sono quelle in cui le mele cadono dagli alberi: voglio dire gli individui, quelli che portano il seme dell’avvenire».
Un potere non corrotto sarebbe, secondo Koenig, un potere vuoto, formale, senza efficacia, privo di qualsiasi presa reale sul mondo. Per imporre la propria volontà, bisogna aprirsi agli altri, comporre le diverse influenze, costruire delle reti offrendo favori piccoli o grandi, venire a patti con le proprie convinzioni, cambiare una parte di se stessi. Ecco perché si sentirà gridare fino alla fine dei tempi contro i governanti: «Tutti marci!» o «tutti lo stesso!»… mentre la disonestà spesso è garanzia di buona gestione. «Un potere onesto, trasparente, fermo nei principi, sarebbe debole per natura; per contro una corruzione senza potere è un non senso: perché corrompere qualcuno che non può far niente per noi? Perché farsi corrompere da chi non ci può dare niente?».
È quel che disse alla fine del XIX secolo Lord Acton: «Il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe assolutamente», scrisse in una lettera del 5 aprile 1887 a Mandell Creighton, «i grandi uomini sono quasi sempre dei cattivi uomini». Il nobile barone inglese, osserva Koenig, «non intendeva assolutamente fare l’elogio della corruzione; paradossalmente, il suo liberalismo, che pone l’interesse individuale sopra ogni altro movente, lo porta a una tesi così drammatica e così profondamente realista». Quanto poi a l mondo limpido dell’Utopia, George Orwell «ha ben descritto dove porta il fanatismo della trasparenza: l’individuo diventa come una medusa, traslucido e vuoto».
George Orwell in 1984 spiega come il totalitarismo sia il più feroce avversario della corruzione (e viceversa). L’eroe del suo libro, per difendersi dal Grande Fratello ripone in essa aspettative di libertà: «Tutto ciò che lasciava intravedere una corruzione», scrive, «lo riempiva sempre di una folle speranza». Di più. C’è un capitolo del famoso libro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli), che raccoglie le corrispondenze della scrittrice sul processo al criminale nazista scritte per il «New Yorker», in cui si parla diffusamente di Kurt Becher. E chi era Becher? Un nazista corrotto, laddove Eichmann era stato incorruttibile. Eichmann si era presentato come un uomo ligio ai doveri di cittadino che rispetta la legge, fiero di esibire un «atteggiamento senza compromessi», dettato «non dal fanatismo, ma dalla sua stessa coscienza». Tutto il contrario di Becher, che si muoveva nei meandri della corruzione. E così mentre Eichmann arrivava a deportare in qualche mese più di 400 mila ebrei ungheresi, Becher, su incarico di Himmler, aveva come «missione speciale» l’assunzione del controllo delle principali imprese ebraiche. Con ogni mezzo. Per mettere le mani sul cartello dell’acciaio di Manfred Weiss, Becher — dietro compenso — consentì a 45 membri della famiglia Weiss di emigrare verso il Portogallo. Eichmann seppe di queste attività e le definì «porcherie». Ma Becher se ne infischiò e fissò, anzi, una tariffa di duemila dollari, pagando i quali gli ebrei potevano mettersi in salvo. Fu così che 1.684 israeliti sfuggirono alla rete di Eichmann. Poi Becher mise a punto un programma, «vita contro merci», che prevedeva lo scambio tra la vita di un milione di ebrei e 10 mila camion. Il piano fallì, ma intanto le fortune di Becher crebbero. In tempo di guerra Becher ottenne una promozione che Eichmann non riuscì ad avere e, caduto il Terzo Reich, non solo si salvò ma, grazie al tesoro che si era procacciato nei modi di cui abbiamo detto, visse il resto della sua vita come uno degli uomini più ricchi della Germania occidentale.
La Arendt ci induce a riflettere sul fatto che la virtù era certamente di casa nella coscienza di Eichmann, un cittadino «che rispetta la legge ma non la vita». La corruzione invece era al centro dell’universo mentale di Becher, «un uomo senza morale che salva delle vite». Koenig ne trae la conclusione che «il gioco degli interessi comuni produce dei risultati più ponderati che i precetti della coscienza individuale; attraverso le tentazioni, la vita oltrepassa la freddezza mortale dei principi… Trafficando in "vite contro merci", Becher rispondeva infine a una inclinazione vitale, non perché si preoccupasse della vita degli altri, ma perché pensava alla sua». Dopodiché l’autore aggiunge: «non vogliamo concludere che la corruzione si trova infallibilmente dalla parte del bene… ma, invitando a scegliere il compromesso, contro il fanatismo morale, essa quanto meno sta, per sua natura, dalla parte del male minore». Per concludere: «Alla banalità del male, che elimina ogni tentazione, rispondiamo con la meschinità del bene, che spesso consiste, lontano da ogni eroismo, nel dare ascolto ai propri interessi». E poi: «La lotta contro la corruzione in nome della sacrosanta "trasparenza", non solo rischia di avvelenare i rapporti sociali, ma minaccia anche di impoverirci; prima di intraprendere le consuete crociate contro i fondi neri, i nostri uomini politici dovrebbero calcolare quanti punti di Pil bisognerebbe sacrificare per vivere in un mondo onesto, in cui i contratti si firmassero alla luce del sole e venissero regolarmente denunciate tutte le transazioni». Una tesi ardita come del resto l’intero contenuto di questo libro. Ma meritevole di una qualche riflessione.

Corriere della Sera 30.11.10
Il mondo guarda all’Asia. Ma il declino dell’Occidente non è scontato
di Federico Fubini


Il nuovo libro di Federico Rampini sull’«epoca di transizione» che stiamo vivendo, tra storture del capitalismo e nuovi spettri

A oltre tre anni dall’inizio della grande crisi, i soli Paesi che rispettano le regole inventate dall’Occidente sono altrove: in Asia, anche incluso l’indebitatissimo Giappone, il deficit pubblico dei vari governi viaggia in media al 2,8 per cento del prodotto l ordo. L’Asia, con al centro la nuova superpotenza cinese, è in regola con Maastricht proprio mentre la zona-euro rischia il naufragio e il disavanzo americano sembra stratosferico e irriducibile.
Federico Rampini, corrispondente di «Repubblica» da New York, ricorda molti di questi dati a sostegno di una tesi di fondo: viviamo un’epoca «di trapasso da un’egemonia occidentale a qualcos’altro che ancora non sappiamo quale forma avrà». Rampini in realtà nel suo ultimo libro ( Occidente estremo, Mondadori, pp. 289, € 18) precisa subito qualche tratto essenziale di questa migrazione del potere economico e geopolitico: «Viviamo un secolo segnato dalla transizione storica, dal ritorno del centro degli eventi verso Oriente». E oggi uno dei principali protagonisti è Barack Obama, per l’autore «una figura tragica, perché il destino gli ha consegnato un compito crudele: gestire al meglio un declino secolare».
Declino americano (e europeo) contro ascesa asiatica e logica di potenza cinese. Fascino della decadenza, dai parchi di New York alle splendide università della California, contro il volto spesso respingente e la natura forse fragile del regime di Pechino. È questo il campo nel quale Rampini, come nel suo precedente Slow Economy (Mondadori) sceglie di muoversi. Occidente estremo lo fa con una galleria rapida e vivida di situazioni e personaggi. Ci sono le «balene», gli obesi americani sempre con pop-corn e maxi-bibite in mano, per i quali ormai i cinema hanno installato sedie sempre più larghe. Rampini vede in queste «creature abnormi» un «concentrato di tutte le storture dello sviluppo capitalistico», quello che per decenni in America ha spinto i consumi personali all’eccesso e a qualunque costo.
Molti degli spettri del declino che con la crisi l’America avverte acutamente, si aggirano in realtà nel sistema dell’istruzione. Si scopre che gli asiatici e i cinesi in particolare, dall’approdo alle elementari, passano a scuola molto più tempo degli americani. Misurato in ore è un margine del 30 per cento, quarantuno giorni di istruzione in più all’anno che si fanno sentire nel successo crescente degli asiatici nelle migliori università americane, dalla Columbia di New York a Stanford.
Ma se c’è una lezione dagli anni Novanta, quando l’America sembrava l’iperpotenza incontrastata, è che niente è scritto in anticipo. La tentazione di proiettare il presente nel futuro, concludere che questo è il secolo della Cina, può nascondere trappole. Rampini lo sa e non dimentica di indicare i punti nei quali il progetto egemonico di Pechino rivela già «le prime crepe». Il più evidente è il dissenso sempre meno contenibile fra le etnie minoritarie e fra gli oppressi. Non solo i tibetani, la cui gioventù a Lhasa protesta «come nell’Intifada palestinese o nelle banlieues parigine». Simili tensioni si avvertono anche fra i musulmani uiguri del Xinjiang ma anche fra gli operai sottopagati di etnia han. Il regime, impaurito, fa concessioni ai lavoratori ma reprime le rivolte etniche. Ed è proprio questa rigidità, nota Rampini, che impedisce alla Cina di esprimere la stessa creatività che rende gli Stati Uniti tutt’ora ineguagliabili. Il travaso di potere da Ovest e Est starà forse accelerando. Ma se c’è qualcosa che oggi crea tensione, è soprattutto l’incertezza sull’esito finale.

Repubblica 30.11.10
Il filosofo ha scritto un saggio sul rapporto con l’altro da noi
Curi: "Quando lo straniero misura la nostra identità"
di Marco Filoni


Chi è lo straniero? L´immigrato, l´extracomunitario, il forestiero. O anche il rom. Oppure "l´altro", "il diverso" da noi. Umberto Curi, filosofo e docente a Padova, a questo termine ha appena dedicato un libro felice e riuscito. «Sono partito da un concetto di Freud, il perturbante, perché restituisce il tratto di un´ambivalenza irriducibile e costitutiva. Il padre della psicoanalisi mostra che proprio ciò che appartiene all´ambito domestico è massimamente perturbante: la cosa a noi più vicina è in realtà carica di una forza inquietante. L´esplorazione di questa dimensione di ambivalenza mi sembra il punto di riferimento più adeguato per trattare una figura che, sia dal punto di vista concettuale che linguistico, si mostra essere inevitabilmente duplice: lo straniero».
Non a caso non esiste nessuna lingua che traduca perfettamente il concetto freudiano di perturbante. Tranne una: il greco antico, con Xenos. Che è anche il termine usato per indicare lo straniero.
«Infatti è proprio su questa originaria ambivalenza linguistica che poi se ne costruisce una più generale. Nel senso che straniero è colui che, venendo dall´esterno, pone il problema dell´accoglienza e dell´ospitalità. Ma insieme pone anche l´aspetto della minaccia. Sono due caratteristiche insolubili. Non è mai possibile ridurre l´hostis, il termine latino per indicare lo straniero, semplicemente a ospite; così come non è possibile ridurlo soltanto a nemico. È sempre ospite e nemico insieme».
La nozione dell´ospitalità chiama in causa quella del dono. Qual è il rapporto fra lo straniero e il dono?
«Sono figure simili, riflettono un´identica condizione. Come insegnano i classici greci e latini, il dono è sempre un inganno. Si presenta come qualcosa che al tempo stesso conferisce e sottrae. È qualcosa che aggiunge, ci dà qualcosa in più. Ma al tempo stesso vincola, ci mette in una condizione di subalternità. È esattamente ciò che accade con lo straniero. Non c´è dubbio che sia portatore di un dono. E questo dono è il conferimento della nostra stessa identità. È bene non dimenticarlo: possiamo definire la nostra identità solo in rapporto con l´altro da sé, e ciò che è veramente altro è lo straniero. Però lo straniero è accompagnato in maniera indissolubile da un´inquietante carica di minaccia».
Ed è questo aspetto che crea e alimenta la paura…
«L´atteggiamento nei confronti della paura è uno degli aspetti più rivelativi della miseria culturale del nostro dibattito. Perché sulla paura sono state costruite le fortune di alcune forze politiche italiane. Attraverso la paura è più facile esercitare il controllo sociale e acquisire comodi successi politici. Tutte le così dette politiche del rifiuto si fondano su questo aspetto».
Sullo straniero si è creato un mercato della paura: come venirne fuori?
«Rovesciando il processo. Oggi si discute, si deliberano con grande sicurezza provvedimenti e iniziative di carattere legislativo senza essere sfiorati dal dubbio, senza il minimo di problematicità. Nessuno s´è preso la briga di approfondire e capire la figura dello straniero. Al contrario bisognerebbe aprire una riflessione rigorosa e approfondita per cogliere la sua polivalenza. Tenendo ben distinte l´ospitalità, nozione filosofica, dall´accoglienza, che è invece uno dei possibili atteggiamenti politici con i quali affrontare la questione».

Repubblica 30.11.10
Alle cavie da laboratorio è stato manipolato l’enzima della telomerasi La ricerca americana pubblicata su Nature genera speranze e qualche dubbio
Il gene che fa ringiovanire l’elisir dai topi senza età
di Angelo Aquaro


Non è facile riconoscere il ritratto di Dorian Gray nel faccino di un topo da laboratorio. Ma l´esperimento riuscito nella prestigiosissima Medical School di Harvard sembra davvero la realizzazione del sogno inseguito dai tempi di Narciso. Fermare l´orologio dell´età. Anzi: farlo addirittura tornare indietro nel tempo.
Il mito dell´eterna giovinezza si nasconde in un enzima chiamato telomerasi. E gli esperimenti che hanno mandato in subbuglio la comunità scientifica sono placidamente riassunti dal professor Ronald DePinho così: «I topolini avevano un´età che può essere comparata agli 80 anni di un uomo: erano sul punto di morire. Dopo l´esperimento, avevano invece l´aspetto fisiologico di un giovane adulto».
L´annuncio che arriva da Boston fa già discutere. Correggendo un gene gli scienziati sono riusciti a fermare una malattia del cervello, a ridare ai topi l´olfatto perduto e perfino la capacità di procreare. E il professor DePinho ora giura alla Cnn che questo «è solo l´inizio di un cammino che potrebbe nei prossimi anni riguardare anche l´uomo». Certo, i fattori che determinano l´invecchiamento sono tanti: ma l´esperimento genetico ci dimostra che «esiste un punto in cui si può tornare indietro».
Le conclusioni della ricerca apparsa su Nature e rilanciata dal Wall Street Journal fanno venire i brividi. E anche se la sensazionale scoperta è stata fatta utilizzando dei topolini che, poveretti, erano stati preventivamente invecchiati sempre geneticamente, gli scienziati sono fìduciosi di poter presto ripetere il test con cavie invecchiate naturalmente.
L´enzima dei miracoli è quella telomerasi che forma piccole unità di Dna che fungono da "tappo" ai cromosomi. Queste particelle di Dna si chiamano telomeri e potrebbero essere rappresentati come i tappetti di plastica che chiudono le estremità dei lacci da scarpe: i lacci, in questo caso, sarebbero i cromosomi e i telomeri eviterebbero così la frammentazione e il disfacimento del Dna. Una scoperta, quella di telomeri e telomerasi, recente: appena un anno fa tre americani hanno vinto il Nobel della medicina.
Con l´invecchiamento, i telomeri si accorciano sempre più, impedendo quella divisione cellulare che è alla base della continua formazione dei tessuti: gli organi si atrofizzano, le cellule del cervello muoiono. Da qui l´ipotesi del team di Boston: riattivando i telomeri si può far ripartire l´orologio del tempo?
Gli scienziati hanno usato un farmaco a base di estrogeni per riaccendere il Tert che condiziona la telomerasi. Dopo un mese, la sorpresa: i topini che erano stati così trattati hanno riacquistato le funzioni vitali. DePinho e il suo team sono insomma conviti di aver «invertito i segni e sintomi dell´invecchiamento: rimuovendone le cause». Ma c´è un altro step da superare. La tecnica è sicura?
Il nemico più temuto si chiama tumore. Il 90 per cento dei tumori che si sviluppano nell´uomo richiedono proprio una certa quantità di telomerasi per propagarsi. E molti ricercatori stanno cercando di "disattivare" la telomerasi proprio per combattere la formazione del cancro. E se la "riattivazione" dell´enzima per fermare l´età, ci si chiede, favorisse, al contrario, proprio la propagazione del tumore?
Sono domande a cui l´équipe di Boston sta cercando adesso di rispondere. Ma una buona notizia c´è già: i topolini invecchiati e poi ringiovaniti hanno proseguito il normale corso del tempo e ci hanno lasciati, se non proprio serenamente, quantomeno senza malattia. Perché, sia chiaro, potremo anche riportarlo indietro: ma fermare per sempre l´orologio della vita - lo insegna proprio Dorian Gray - ancora non si può.