giovedì 2 dicembre 2010

l’Unità 2.12.10
Se mille suicidi non dicono nulla
La scelta di Monicelli e il tema dell’eutanasia
di Carlo Troilo, associazione Luca Coscioni


Mario Monicelli ha scelto la stessa morte che mio fratello Michele, anche lui malato terminale, scelse nel marzo del 2004: un salto nel vuoto da 15 metri di altezza. Decisi allora di rendere pubblica la tragedia di mio fratello e lo feci grazie a Corrado Augias. Dopo pochi mesi “scoprii” e inviai a diversi giornali, che li pubblicarono, i dati dell’Istat da cui risulta che ogni anno mille malati terminali (tre al giorno), non potendo ottenere l’eutanasia, come avrebbe voluto Michele, trovano nel suicidio la loro “uscita di sicurezza”. Un numero pari a quello delle “morti bianche”, che suscitano il giusto sdegno degli italiani, a partire dal Presidente della Repubblica. La mia lettera del marzo 2004 finiva così: «Caro Michele, mi vergogno di vivere nel paese che ti ha costretto a questo. Ammiro il tuo coraggio e so che lo hai fatto anche per alleviare la pena di chi ti voleva bene, per altruismo, per dignità e per pudore. Rendo pubblico il tuo gesto per dargli anche valore di battaglia civile, credo ti farebbe piacere sapere che è servito a smuovere qualche coscienza».
Commentando il suicidio di Monicelli, Silvio Viale ha sintetizzato con forza il problema: «Non sarebbe morto così se l’eutanasia volontaria fosse legale nel nostro paese. Se l’eutanasia fosse legale, Mario Monicelli avrebbe potuto parlare apertamente con il proprio medico delle proprie intenzioni. Avrebbe potuto modificare la propria decisione, o rimandarla, e se alla fine avesse confermato la propria richiesta, considerando ormai insopportabile la propria condizione, sarebbe stato aiutato a morire con dignità, tra i suoi cari. In un paese civile, lo Stato dovrebbe consentire di non essere costretti a morire così».
Tutte le ricerche degli ultimi anni dimostrano che la maggioranza degli italiani (il 67% secondo il Rapporto Eurispes 2010) è favorevole alla legalizzazione della eutanasia per i malati inguaribili. E questo vale, sia pure in misura più ridotta, anche per i cattolici praticanti. Lo stesso Monicelli era ferocemente contrario alla logica della “vita a tutti i costi”: «La vicenda di Piergiorgio Welby aveva detto in un’intervista a Radio Radicale il 28 novembre del 2006 è un tema che si potrebbe trattare con una commedia, ironizzando e mettendo in ridicolo quelli che pensano che questo disgraziato debba rimanere a soffrire, non si sa per chi».
Ma il Vaticano non vuole l’eutanasia e tratta tutti noi che ci battiamo per introdurla in Italia alla stregua di una banda di assassini intenti a preparare la strage degli innocenti. E la nostra classe politica tace, rendendosi così corresponsabile di quei tre suicidi che ogni giorno vengono a sconvolgere la nostra coscienza.

Corriere della Sera 2.12.10
Intervista a Giovanni Reale
«La risposta la dà già Platone, la vita non è proprietà nostra»
«Male dell’anima, ma non si condanna l’uomo»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Vede, il male del nostro tempo l’aveva drammaticamente anticipato Jean-Paul Sartre più di sessant’anni fa: "L’inferno sono gli altri". L’incapacità di vedere l’altro, di capirlo, di accoglierlo. E di amarlo». Il filosofo Giovanni Reale, tra i massimi studiosi del pensiero antico, l’uomo al quale Wojtyla affidò i propri scritti filosofici e poetici, ha appena curato per Bompiani la pubblicazione del Commento al Vangelo di Giovanni di Sant’Agostino. E parte da qui, per riflettere sul suicidio di Mario Monicelli e le polemiche che lo hanno seguito: «Pensi all’episodio dell’adultera. Quelli che vogliono lapidarla l’hanno pensata bene, sono sicuri che la risposta di Gesù sarà sbagliata: se dice sì, ne esce distrutta la sua figura di uomo buono; se dice no, lo condannano per aver violato la legge. Ma lui dice: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E quando tutti se ne sono andati si rivolge alla donna: va’, e non peccare più». Perché ne parla, professore? «Perché in troppi si avverte una trasformazione paradigmatica delle due posizioni, libertà di scelta e difesa a oltranza della vita. Una riduzione del problema in un senso o nell ’altro che fa cadere in errore entrambi. E crea l’impossibilità di una communicatio idiomatum, di ogni confronto».
Il presidente Napolitano ha parlato di «un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare».
«Sì, questo è giusto: il rispetto. Che non significa né condanna né approvazione: ma capire l’altro, la sua sofferenza, anche se l’altro non ha la fede, la prospettiva di Cristo. Capire l’altro. Soffrire con lui. Senza mai condannare: non si giudica la persona, il Vangelo dice di amare anche il tuo nemico! Semmai, si giudica il comportamento». E il suicidio? «Lo ritengo un male dell’anima. Qui tocchiamo un problema dell’uomo contemporaneo: l’irreligiosità, la perdita del legame col divino ,del senso della sacralità della vita. La risposta più bella la offre Platone, nel Fedone: la vita non è di tua proprietà, ti è stata data, solo il dio può decidere quando togliertela».
Ma alla fine del «Fedone», Socrate beve il «pharmacon», la cicuta...
«Perché scappare sarebbe una violenza: o riesco a convincere i giudici oppure, per coerenza, accetto la condanna. Platone è il primo a parlare di sacralità della vita. Più tardi, nella Repubblica, dirà che chi è molto malato non deve pesare sullo Stato: ma si mette dal punto di vista della politica, e la politica non può avere il senso della sacralità, sta in una dimensione più bassa. Di qui le contraddizioni dei Parlamenti, quando vogliono legiferare su vita e morte».
Anche fuori dal Parlamento, in verità, la confusione è tanta. Ha seguito le polemiche per la presenza della vedova Welby e di Beppino Englaro a «Vieni via con me?»
«Parlavo di riduzionismo e di errori: la tecnica cresciuta a dismisura ha inglobato anche il sacro e il religioso. Prendiamo il caso Welby: non è stata eutanasia, è chiarissimo. Parlarne è un errore di ermeneutica. Lo dissi anche allora: diverso è darsi la morte o, invece, accettare la morte inevitabile. Guai a trasferire la "sacralità" dalla vita alla tecnica! Quell’uomo era rimasto ostaggio di un macchina. Ma Dio ha creato la natura, non la tecnica: quella è un prodotto dell’uomo. E nel caso di Welby, come per Eluana, era sacrosanto dare ragione alla natura». E quelli che vanno avanti? «Non è che io neghi il diritto di chi resiste. Però non lo si può imporre a nessuna persona. Anche se qualche prelato è caduto nell’errore, vittima del paradigma scientistico-tecnologico».
La Chiesa sbagliò a negare i funerali a Welby?
«Certo che sì: l’amore doveva prevalere. Ma non è stata la Chiesa, che ha un’esperienza grandiosa. Ha sbagliato chi lo decise, e non per cattiveria: è caduto vittima del paradigma scientistico».
Il cardinale Ravasi ha ricordato come sui «temi ultimi» si debba «riproporre ininterrottamente la questione». È possibile il dialogo?
«Sì, anche se molto difficile. Occorre che le parti riconoscano anzitutto la sacralità o almeno il rispetto della vita, sapendo che la sofferenza e la morte ne sono parte e ci riguardano tutti. Camus, che si diceva ateo, dava la risposta più profonda all’"uomo in rivolta" contro il dolore e la morte: non possiamo più prendercela con Dio, perché si è fatto uomo e ha preso su di sé i nostri mali».

Corriere della Sera 2.12.10
Intervista a Emanuele Severino
«Quando tutto sarà ormai inutile chiederò di morire»
«Superare le contraddizioni della legge»
di Daniela Monti


Da pagina 1 MILANO — «Fra due giorni sarà un anno e tre mesi che mia moglie è morta. Un tumore. Ero deciso a farla morire in casa, nella sua casa, anche se a Brescia siamo fortunati: esiste la "Domus Salutis" tenuta dalle Ancelle della Carità. Mi convinsero che era nell’interesse di Esterina tenerla ricoverata per qualche tempo. Poi, considerando il suo stato di salute, avrei deciso se portarla a casa. Dopo un mese costatai che per lei era un bene rimanere lì. Mia moglie si affidava alle mie decisioni, anche perché alla "Domus" si trovava bene. Credo che la competenza di questo istituto si sia mostrata soprattutto nella capacità di dosare in modo adeguato la somministrazione della morfina. Mia moglie andava addormentandosi un poco alla volta. Quando videro che ogni alimentazione per via endovenosa sarebbe stata inutile, la sospesero. Loro, io e i miei figli le davamo un po’ d’acqua, che beveva volentieri. Esterina è morta senza soffrire — per quanto noi possiamo saperne».
Il filosofo Emanuele Severino, 81 anni, parla al telefono dalla sua casa di Brescia. «Ho già detto a suor Giusy — che con il professore Zaninetta guida la Domus ed è a sua volta docente all’Università Cattolica — che quando toccherà a me, vorrò andare da loro per morire come è morta mia moglie. Si è detta d’accordo. Ma c’è chi non sopporta di morire in questo modo. Non c’è ovunque una Domus come quella di Brescia. C’è invece una legislazione in base alla quale è possibile incriminare i medici per omicidio quando si ritiene che essi abbiano sospeso un’assistenza che ancora non era accanimento terapeutico. Chi stabilisce quando esso incomincia? Che fare quando i medici hanno paura o si adeguano in coscienza alle direttive della Chiesa o mascherano con queste direttive la loro paura per altro legittima?».
Lei condanna il gesto di Mario Monicelli?
«Condannare non fa parte della logica del mio discorso filosofico. Mi sembra d’altra parte che abbia più della nobiltà che del suo contrario. Ho sempre trovato contraddittoria una legislazione che non punisce il suicidio non riuscito, tentato da chi aveva la capacità di compierlo; e invece punisce il medico che rispetto a uno che non abbia la capacità di farlo (è il caso Welby) lo aiuta ad uccidersi. Con la conseguenza che, quando il medico non intende essere incriminato, il suicidio di questo secondo candidato alla morte è reso impossibile. Questa legislazione impedisce che i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Con una legge che invece li rendesse uguali, Monicelli non sarebbe morto in questo modo, doppiamente tragico».
Serviva un gesto così drammatico perché tornasse ad essere pronunciata nelle stanze della politica la parola eutanasia. Perché?
«Perché l’attuale legislazione è tollerata dalla Chiesa, e ci sono molti interessi a non infastidire la Chiesa. E chi, affetto da male irreversibile e ormai incosciente, ha lasciato scritto o comunicato a persone di sua fiducia che quando non fosse più in grado di alimentarsi da solo desidera che anche l’alimentazione artificiale venga sospesa e sia lasciato morire? (È quanto chiederò alla Domus). Si dice che a queste sue disposizioni non si può dar corso perché nulla assicura che nel frattempo l’interessato non abbia cambiato parere. Ma si dimentica che, d’altra parte, non c’è nemmeno nulla che assicuri che, invece, il parere l’ha cambiato. Chi lo assiste si trova quindi dinnanzi a due possibilità equivalenti, e, se non ci sono altri indizi, perché scartare e non far valere l’unico indizio che si ha a disposizione, cioè la volontà che costui ha a suo tempo espresso? Anche per questo il testamento biologico è indispensabile».
Si ha l’impressione che sia faziosa — quasi fanatica — la contrapposizione fra laici e credenti. Non può esistere un terreno che non sposi né la tesi dei primi, né quella dei secondi?
«Anch’io ho la sensazione che ci sia del fanatismo, ma quando uno si trova in mezzo a situazioni di questo tipo è difficile non lasciarsi prendere la mano. Il suicidio è immorale e, oltre che colpa, è reato? Se la maggioranza degli elettori ne fosse convinta dovrebbe però evitare la contraddizione che sopra ho indicato. Se una legge è contraddittoria è anche anticostituzionale — ammesso e non concesso che la nostra Costituzione non contenga contraddizioni».

l’Unità 2.12.10
La protesta studentesca. Cortei e occupazioni: «Si va avanti almeno fino al 9 dicembre»
Assemblea alla Sapienza. «Difendiamo i baroni? Assurdo, lottiamo per il diritto allo studio»
«Il governo non vuole ascoltarci ma noi adesso non ci fermiamo»
Assemblee nelle facoltà occupate. La mobilitazione continua. «Saremo in piazza quando il ddl andrà in discussione al Senato». «Gravissima la militarizzazione della città. Il sit in a Montecitorio era autorizzato».
di Jolanda Bufalini

Dipartimento di Fisica, palazzina Marconi, città universitaria, Roma: la lotta continua. Fra i cartelloni appesi all’ingresso ce n’è uno con il curriculum di Mariastella Gelmini e un altro che raffronta i tagli a università e ricerca con gli stanziamenti per il Ponte di Messina e per la TAV.
Gli studenti sono in assemblea nell’aula Majorana, affollatissima. Discutono su come andare avanti: «Saremo di nuovo in piazza quando il ddl Gelmini andrà in discussione al Senato». Intanto arriva l’appello di tutte le associazioni: «Per quella data occupazione simbolica di tutti i rettorati». Le decisioni di questa assemblea dovranno coordinarsi con quelle delle altre facoltà occupate, alla Sapienza sono Medicina e Giurisprudenza (fatto quasi senza precedenti), Scienze politiche e Lettere. Poi c’è Architettura a Valle Giulia e Ingegneria a San Pietro in Vincoli.
L’occupazione continua ma si fa lezione lo stesso, la biblioteca è piena di gente che studia, «interrompiamo solo nei giorni di mobilitazione in piazza», dicono. Altro tema dell’assemblea è, spiegano Alfredo, Alessia, Ornella, Francesco, «la valutazione dei fatti di martedì, la gravissima militarizzazione di Roma». «Hanno bloccato l’intera città». «Il dissenso è alla base della democrazia e protestare mentre si vota una legge che ti riguarda sotto il parlamento è la forma più normale di democrazia». «Ci hanno vietato una piazza autorizzata, per il sit in a Montecitorio la Cgil aveva chiesto l’autorizzazione». «I romani bloccati nel traffico devono ringraziare loro». «Unità cinofile, esercito, polizia, guarda di finanza, blindati e camionette a decine contro un corteo. Cosa pensavano, che stesse arrivando un esercito?». «Forse per noi è stato meglio così, abbiamo avuto molta più visibilità». Siete strumentalizzati dai baroni, conservatori dello status quo, usati dall’opposizione. Come rispondete a queste accuse? «Ma come si fa a dire queste cose si infervora Alfredo, II anno, che si è diplomato al severissimo Righi quando c’è l’evidenza delle parole scritte. La legge dà potere solo ai professori ordinari, taglia fuori i ricercatori».
CONSERVATORI
Anche Ornella è al secondo anno, viene da Molfetta in Puglia, abita alla casa dello studente. Vuole fare l’astrofisica. «Non vogliamo lasciare le cose come stanno. La cosa più grave sono i tagli che distruggono l’università pubblica, il diritto allo studio che dovrebbe garantire pari opportunità: il reddito è l’ultimo parametro, prima vengono i coefficenti di merito e la somma dei voti. Così io sono a rischio, trecentesima in graduatoria, e una mia collega che non ha avuto tutti i crediti necessari in tre giorni è stata buttata fuori dalla Casa dello Studente. La nostra è una facoltà difficile ma i nostri volti valgono quanto quelli degli altri. Sto ancora aspettando la seconda rata della borsa di studio».
Il premier dice che a manifestare sono i fuori corso. Alessia: «Io sono fuori corso, iscritta al IV anno. Ho perso un anno perché sono pendolare, vengo ogni giorno da Latina, due ore ad andare, due a tornare. Purtroppo il mio Ise (reddito familiare) non è abbastanza basso da poter avere la borsa di studio ma non è così alto da potermi permettere di stare a Roma. Quando ho lezione alle 8 devo partire alle 5 e un quarto. Dopo un anno così sei stressato, esaurito e perdi colpi. È un cane che si morde la coda, senza diritto allo studio le differenze nelle condizioni di partenza diventano gigantesche». Perché ha scelto Fisica? «È dalle elementari che ho deciso, voglio fare la fisica teorica. La ricercatrice...».
Il Pd dedicherà la sua manifestazione dell’11 all’università. Alfredo: «Cavalca l’onda ma la loro riforma era un po’ meglio di questa ma non molto. E hanno scelto di non bloccare tutto, di non fare ostruzionismo». Alessia: «Quando abbiamo fatto le lezioni in piazza a Montecitorio ci dicevano che non l’avrebbero fatta passare questa legge. Poi hanno fatto un’opposizione morbida».
Francesco è matricola, iscritto al primo anno: «Vengo dal Tasso, sono abituato alle occupazioni. Mi sembra giusto come si svolge qua, senza interrompere le lezioni e con le assemblee per organizzarsi per le manifestazioni. L’occupazione è giusta se è un’eccezione».

il Fatto 2.11.10
“Scenderemo in piazza il giorno della fiducia”
Gli studenti: il movimento non si fermerà con la riforma
di Caterina Perniconi

Un movimento estemporaneo o una rivolta generazionale? Se siamo di fronte a un nuovo ‘68 o a un altro ‘77 si capirà solo dopo il 14 dicembre. Quando si potrà misurare l’intensità della forza dei giovani scesi in piazza e saliti sui tetti in questi giorni.
Il Senato, infatti, oggi deciderà se la riforma dell’Università sarà discussa prima o dopo la richiesta di fiducia al governo. Nel primo caso, l’approvazione è quasi scontata, nel secondo sarà legata a doppio filo con le sorti dell’esecutivo. Solo allora si chiariranno le intenzioni e la forza propulsiva degli studenti mobilitati in tutta Italia.
L’ONDA, NEL 2009, si infranse nella barriera della riforma scolastica. L’eredità che è stata lasciata è il fortunato slogan “noi la crisi non la paghiamo”. Infatti quello che sembrava un tumulto generazionale si è invece spento come un fuoco di paglia in pochi mesi.
Oggi siamo di fronte a una protesta partita soprattutto per mantenere il diritto allo studio. Ma le parole d’ordine guardano lontano, e i ragazzi si definiscono una “generazione senza futuro”. Sono andati in rete, hanno dato vita alla prima protesta organizzata per via “telematica”, mettendo in contatto i siti internet e le web radio di tutte le università. Questo ha permesso di occupare le autostrade, le stazioni e i monumenti contemporaneamente, decidendolo con un clic o con una catena di sms.
“Rispetto all’Onda c’è un livello di coordinamento molto maggiore – spiega Claudio Riccio, portavoce di Link, uno dei movimenti studenteschi – c’è confronto tra tutte le realtà”. Del resto anche Claudio, che guida il coordinamento universitario da un anno e mezzo, ai tempi dell’Onda viveva a Bari, mentre da settembre si è trasferito a Roma, dove c’è il “cervello” dell’associazione.
 “NON SONO IL LEADER perché non c’è un leader – spiega Riccio – se ci capita di mettere ai voti un’iniziativa, il voto di Roma vale come quello di Viterbo, non ci sono differenze”. Ma esiste un movimento senza leader? “Si, se ci sono molte persone a rappresentarlo. Questa volta protestiamo perché siamo una generazione senza futuro e non ci esauriremo con la riforma. Saremo in piazza il 14 dicembre, perché il nostro domani dipende anche da quel voto”. Telefonando ad Andrea Aimar, uno dei leader delle proteste torinesi, si scopre che i due sono in contatto. “Si, conosco Riccio, ci coordiniamo, anche se veniamo da realtà diverse cerchiamo di essere un movimento unico, di non disperdere le energie”. A Palazzo Nuovo c’è ancora la mobilitazione, al Politecnico si discutono le prossime mosse. Se la riforma sarà calendarizzata nei rapidamente al Senato, l’ipotesi è quella di una grande manifestazione a Roma per dimostrare la reale forza del movimento.
Ma ci sono anche realtà diverse, che con la protesta nazionale non hanno contatti. A Palermo raggiungiamo Fausto Melluso, rappresentante del movimento degli Universitari: “Il nostro è un gruppo nato localmente in modo spontaneo – spiega – la riforma è una battaglia importante ma non l’unica. L’Università di Palermo ha molti problemi e noi vogliamo portarli tutti alla luce”. Anche in Sicilia promettono battaglia fino al 14 dicembre: “Questa riforma dà piene deleghe al governo su molti argomenti, come il diritto allo studio, che di pendono direttamente dal voto di fiducia e quindi da quale governo ci amministrerà. Noi vogliamo farglielo sapere”. Ancora due settimane, quindi, per capire quali saranno le proposte dei giovani del 2010. Che ieri, per tenere alta la tensione, hanno bloccato i binari della stazione di Napoli. E che nei promettono (almeno) altri 10 giorni di manifestazioni.
Bari: Scienze politiche e Giurisprudenza. Benevento: Scienze. Bologna: Lettere e Filosofia. Catania: Scienze e Fisica. Firenze: Lettere. Napoli: Lettere alla Federico II, palazzo Giusso all’Orientale. Milano: Lettere, Ingegneria. Padova: Psicologia. Palermo: Lettere. Pisa: spazi occupati in tutte le facoltà. Roma: Lettere, Scienze politiche, Fisica, Giurisprudenza, Architettura e Geologia a La Sapienza. Dams, Giurisprudenza e Scienze a Roma3. Siena: Scienze politiche, Giurisprudenza, Lettere, Economia. Siracusa: Architettura. Taranto: Giurisprudenza Torino: occupato Palazzo Nuovo.Trento: Sociologia. In molte altre città ci sono mobilitazioni e occupazioni di spazi accedemici.

il Fatto 2.12.10
Applausi dagli automobilisti in coda per ore nel centro di Roma

Applausi e abbracci. Gli automobilisti in coda da ore, martedì a Roma, sono scesi dalle auto per avvicinarsi ad applaudire il corteo degli studenti.
“È stato emozionante – racconta un testimone– la solidarietà con la quale ci hanno accolto. Erano bloccati in via del Muro Torto da ore, stremati e arrabbiati, ma nonostante questo quando ci hanno visti sono scesi dalle auto, hanno applaudito, qualcuno ci ha anche abbracciato”.
Erano stupiti gli studenti, dopo le invettive ricevute negli scorsi giorni per i blocchi nelle città, di ricevere tanta solidarietà. “Continuate così, ci gridavano – racconta lo studente – è stata un’emozione straordinaria”.
E a scendere non solo i giovani: “C’erano persone di tutte le età e di varie estrazioni sociali, noi siamo rimasti davvero stupiti. Ci guardavano con simpatia e con speranza, non solo per la protesta contro la riforma dell’Università, ma perché siamo gli unici a fare opposizione sociale nel paese e volevano dimostrarci la loro gratitudine. È stato un gesto inaspettato che ci fa continuare con maggiore forza la nostra protesta”

il Fatto 2.12.10
Ma studiare conviene?
Il paradosso italiano: nel resto d’Europa una laurea aiuta a trovare lavoro e stipendi più alti. Da noi, penalizza
di Stefano Feltri

Ci bloccano il futuro”, dicono gli striscioni degli studenti in protesta. Il problema non è un articolo preciso della riforma, non è questione di un comma da cambiare. Perché, sembra una banalità, negli atenei non si fa solo ricerca ma si insegna anche. E questa riforma non affronta il problema strutturale: in Italia studiare per prendere una laurea non conviene.
In questi giorni si stanno sovrapponendo due questioni: da una parte ci sono i ricercatori, che vedono a rischio la prospettiva di un ingresso in ruolo, magari dopo lunghi anni di anticamera (talvolta nell’illusione che bastasse questo). Dall’altra gli studenti che, almeno nel breve periodo, vengono colpiti direttamente soltanto dalla riduzione dei fondi all’Università, che si ripercuote in parte sulle borse di studio, con la prospettiva di eventuali nuovi premi al merito che per ora sono però privi di risorse. Il problema che denunciano, dai monumenti e dalle stazioni occupate, è soprattutto che nella riforma non si parla di loro.
NEL 2009 Eurostat, l'agenzia statistica dell’Unione europea, ha fatto la prima indagine complessiva sui giovani dei Paesi membri. È arrivata a queste conclusioni: “In Europa, in genere, il tasso di disoccupazione tende a diminuire con l’aumento del livello di istruzione. Grecia, Italia, Portogallo e Turchia sono eccezioni che hanno registrato il livello di disoccupazione più alto tra le persone con un’età tra i 25 e i 29 anni”. I disoccupati con una laurea, nel 2007 (cioè prima della crisi), erano in Italia il 19,3 per cento, esattamente come quelli con soltanto un diploma, 19 per cento. In Francia, per esempio, la differenza era molto più marcata: 9,7 per cento tra i laureati, 15,9 per cento tra i diplomati. A Parigi avere una laurea aiuta a trovare lavoro più che avere solo la licenza superiore, in Italia molto meno. Ma non è soltanto questo.
L'investimento di tempo e denaro negli studi universitari dovrebbe servire non soltanto a trovare un posto, ma anche ad avere un reddito superiore. Stando a uno studio recente della Banca d'Italia, nel 2004-2005 avere una laurea significava ottenere un reddito superiore del 60 per cento a quello di un diplomato per chi ha tra i 25 e i 64 anni, cioè per la popolazione attiva nel mercato del lavoro. Peccato che per i più giovani (tra i 30 e i 44) il bonus da laurea scende al 43 per cento, anche se in teoria il passaggio dall’economia industriale a quella della conoscenza dovrebbe determinare l’opposto, cioè rendere la laurea sempre più preziosa. Solo la Spagna fa peggio di noi tra i principali Paesi europei, negli Stati Uniti il bonus vale un +83 per cento (senza differenze tra i più giovani). E questo è un dato medio, perché le statistiche europee ci dicono che sono soprattutto i laureati maschi a guadagnare più dei diplomati, mentre per le donne la differenza è assai più ridotta.
MA DI QUESTO la riforma non si occupa. Eppure chi entra all’università è interessato all’offerta formativa, al tipo e numero di corsi di laurea offerti, soprattutto in funzione delle prospettive lavorative che aprono. Qui la riforma interviene in un solo modo: costringendo gli atenei a fare una prima selezione dei ricercatori dopo i primi tre anni di attività, consentendo di tenere solo chi si può permettere di poter trasformare in professori associati (o almeno comunicando il numero e poi lasciando competere i pretendenti). E gli altri? Chi si preoccupa di quelli che studiano per trovare un lavoro diverso da quello di ricercatore? La loro formazione è adeguata? Nell’ultimo anno la rassegna stampa della Camera dei deputati ha catalogato soltanto 17 articoli di giornale che includono le parole chiave “didattica”, “studenti” e “università” . Il tema sembra appassionare poco anche gli economisti che, dai siti di discussione più liberisti come Chicago Blog al centrosinistra del Lavoce.info, dibattono sempre più di governance degli atenei e ricerca che di didattica, di come valutare gli atenei invece che gli studenti. Traduzione empirica: ha davvero senso stanziare risorse per borse di studio in base al merito se poi, perfino nella (relativamente) efficientissima Bocconi i voti agli esami li decidono spesso assistenti neolaureati che magari non hanno neppure seguito le lezioni in aula? E perché all’estero si usano da anni lavori di gruppo, valutazione in itinere (che contiene l’abbandono) e progetti individuali mentre in Italia si insiste con gli stessi esami orali o scritti impostati come trent’anni fa? Di questo il ministro Mariastella Gelmini non si è occupata, esattamente come i suoi predecessori.

l’Unità 2.12.10
Immigrati e balle mediatiche. C’è un’Italia che non ha paura
Dicono che sono una decina di milioni, ma sono la metà. E che arrivano via mare, mentre è solo una minima parte. E che sono concentrati nelle regioni del centrodestra, Ma è in Emilia che sono di più
di Vittorio Emiliani

Sono ancora recenti le proteste disperate di immigrati irregolari truffati da imprenditori con molto pelo sul cuore. Immigrati sulla gru a Brescia, nelle cui fabbriche venne eletto una ventina di anni fa il primo delegato sindacale extra-comunitario, Amhed se ben ricordo. Immigrati sulla ciminiera di Bresso alle porte di Milano. Necessari alla produzione industriale, al Nord e al Centro. Ma dove si concentrano in Italia gli immigrati regolari? Ci sono “balle mediatiche”, per usare un termine berlusconiano, da sgonfiare. La prima: gli immigrati in Italia sono una decina di milioni o giù di lì. Balle: nel 2010 (dati Caritas) risultano 5 milioni, la metà di quella cifra “terroristica”. La seconda: dal mare arrivavano centinaia di migliaia di clandestini. Balle: erano meno di trentamila all’anno (il grosso arriva, tuttora, via terra, da est). Un’altra ancora: quella immigrazione si concentra essenzialmente nel Nord Est là dove cioè dove essa “fa notizia” con quei bravi cristiani di sindaci che gli extra-comunitari propongono di impallinarli «come le leprotti» o che negano ai loro figli l’asilo, la mensa scolastica, l'assistenza e così via. Ed ora propongono come sbarramento l’esame di lingua italiana (ma quanti parlamentari leghisti la conoscono a fondo?). È la terza “balla”. Vediamo come e perché.
Rispetto alla popolazione residente, secondo l’Istat, gli immigrati sono distribuiti così: il Veneto figura soltanto al 4 ̊ posto col 9,8 %, la Lombardia al terzo col 10,0, preceduta (udite, udite) dall’Umbria seconda col 10,4 % e dall’Emilia-Romagna prima assoluta col 10,5. Cioè due regioni di centrosinistra, le quali sfatano la leggenda che, se ci sono molti immigrati, per reazione vince il centrodestra. Non basta, perché subito dopo il Veneto vengono altre regioni a maggioranza di centrosinistra dove l’immigrazione non alimenta granché la cronaca nera, e sono la Toscana col 9,1 e le Marche con l'8,9 % . Dopo di loro si piazzano Lazio, Piemonte, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia tutte sopra l'8 % e la Liguria col 7,1. Che è poi, all'incirca, la media dell’Italia (nel 2010 salita all’8). Sotto la quale si collocano la Valle d’Aosta (6,4) e tutto il Mezzogiorno, con province però come Teramo oltre la media Italia.
Ma quali sono le province con la quota più elevata di immigrati? Non quelle del Veneto. In testa figura Brescia (13% circa) divenuta città-simbolo con i clandestini che reclamavano una regolarizzazione dall’alto della gru. Seguita da Prato, Chinatown d’Italia, col 12,7, e, subito dopo, da Piacenza, Reggio Emilia, Mantova e Modena, tutte sopra il 12. Quindi Treviso, Verona e Vicenza, ma vicinissime a queste province spesso al disonore della cronaca per episodi di razzismo leghista si collocano, con Pordenone, Perugia e Macerata di cui giornali e tv non si occupano quasi mai. Ha dunque ragione Giuseppe De Rita ad osservare che integrazione, o comunque coabitazione, danno problemi meno drammatici nelle città piccole e medie (di una certa Italia, aggiungerei) rispetto alle periferie delle aree metropolitane.
La comunità di gran lunga più numerosa? I romeni, 900.000 circa, il doppio degli albanesi e dei marocchini, secondi e terzi, quasi alla pari. Seguono i cinesi e gli ucraini (o meglio, le ucraine) sulle 200.000 unità. Più lontani, ma sempre oltre quota 100.000, filippini, indiani, polacchi, moldovi, tunisini. Appena più sotto i macedoni. Nell’anno passato gli incrementi più forti negli arrivi li hanno segnati moldovi (+18,1 %), pakistani (+17,1), indiani, ucraini/e.
Dove si dislocano queste comunità tanto diverse? I romeni prevalentemente a Roma, Torino, Milano e Padova. Gli albanesi a Roma, Torino e Firenze. I marocchini a Torino, Milano e Roma (ma pure a Genova e a Bologna). I cinesi a Milano, vecchia residenza tradizionale, Prato e Roma (Esquilino). Gli ucraini a Caserta, Napoli e Cusio-Ossola. Gli indiani a Roma, ma pure ovunque ci siano stalle e allevamenti: Brescia, Suzzara, Luzzara, il paese di Zavattini. Senza di loro, addio latte, addio formaggi come grana e parmigiano-reggiano. I moldovi a Roma, Padova, Venezia e Parma. I macedoni a Vicenza, Roma e Piacenza. I tunisini nelle città siciliane delle serre orticole e/o della pesca: Vittoria, Mazara del Vallo, Trapani (ma anche a Parma). I polacchi a Roma e provincia, a Napoli e Bologna. I peruviani a Milano, Roma e Torino. Mentre gli ecuadoriani prevalgono in tutta la Liguria, come a Trieste i serbi e a Gorizia gli immigrati dal Bangladesh.
In Liguria si trova, secondo l’Istat, il Comune con più immigrati rispetto alla popolazione residente. Si tratta di Airole, sulla collina imperiese: su 500 abitanti, un residente su tre è straniero. Un 31% che fa record in Italia.

il Fatto 2.12.10
“Salvateci, ci stanno ammazzand0”
Disperato appello dell’eritreo Biniam: “Siamo 250 profughi incatenati nel Sinai dai trafficanti. Sei di noi sono già stati uccisi a bastonate”
di Corrado Giustiniani

La telefonata ricevuta a Roma, alla presenza del “Fatto”, da un prete eritreo Mobilitati gli organismi internazionali Oggi il caso in commissione Esteri della Camera
L’agonia dei 250 profughi africani nelle mani dei trafficanti egiziani

Quattro minuti per avvisare il mondo. Quattro minuti per invocare aiuto. “Siamo in 250, soprattutto eritrei ma anche etiopi e sudanesi. Ci tengono incatenati da un mese, sei di noi sono già stati uccisi. Fate qualcosa, salvateci”. Sembra che reciti una litania, Biniam. Non c'è emozione né concitazione nella sua voce. Forse per non insospettire il trafficante di essere umani che gli ha prestato il satellitare. Forse perché è stanco, di più, prostrato. O magari per entrambe le ragioni. Avevano promesso di portarli per 2 mila dollari dalla Libia – ormai impenetrabile – ad Israele, attraverso l'Egitto, in modo da risalire il Libano, la Turchia e imbarcarsi per la Grecia: la nuova rotta che sostituisce Lampedusa e Malta. I trafficanti libici hanno incassato i dollari, ma quando li hanno passati in consegna ai trafficanti egiziani, questi ultimi li hanno sequestrati, avvisandoli che c'era una novità: o sborsavano altri 8 mila dollari, o avrebbero terminato la loro vita nel deserto del Sinai. La premiata ditta fornisce i cellulari per poter chiedere i soldi ai parenti ricchi (si fa per dire) che dall'Eritrea sono finiti in Europa e negli Stati Uniti. Il trafficante che l'ha passato a Biniam si fida, almeno per un po', avendo visto che veniva composto il prefisso dell'Italia.
 “DOVE SIAMO adesso, non lo sappiamo. Ma crediamo nella periferia di una città egiziana. Sì, perché la sera sentiamo il muezzin che chiama la preghiera, e il mattino i bambini che vanno a scuola”. Ha 25 anni, è di religione cristiano-copta e di nazionalità eritrea Biniam e a interrogarlo al telefono, in lingua tigrina, è don Mussi Zerai. , religioso cattolico eritreo che sta facendo di tutto per portare all'attenzione del governo e a quella internazionale questa storia drammatica, che potrebbe finire in una strage. Fino a ieri si pensava che i migranti sequestrati fossero 80, provenienti dal carcere libico di Al Braq e poi liberati a metà luglio con un permesso di soggiorno di tre mesi. O almeno, di questi era certa la presenza. La rivelazione che sono invece 250, sbalordisce don Mussi.
“Non mi posso sbagliare. Prima eravamo tutti affastellati in un unico, enorme stanzone. Poi ci hanno diviso in tante stamberghe, sistemandoci in quindici-venti ciascuna. Nella mia ci sono, proprio qui davanti a me, tre donne incinte. Ma non sono le sole. Alcune sono state violentate in Libia”. E come vi hanno incatenato? “Ai piedi. Ce le tolgono soltanto ogni due giorni, per farci andare a defecare. Adesso scuoto le caviglie, così può sentire il rumore”. Chiede ancora don Mussi: Come sono morti i vostri sei compagni? “Due sono stati uccisi con la pistola, davanti a tutti. È stata soltanto una dimostrazione, perché tutti avessimo ben chiaro cosa sarebbe successo a chi non riusciva a far arrivare i soldi. Gli altri quattro, invece, avevano tentato di fuggire. Li hanno raggiunti, riportati indietro e finiti a bastonate. È da allora che ci hanno separati in gruppi, per nazionalità”.
GLI ERITREI IN FUGA dal loro paese sono quasi tutti disertori. Biniam, dopo alcuni anni di servizio militare obbligatorio, ha deciso di andarsene per tentare di raggiungere l'Europa e costruirsi un futuro che gli consentisse, un domani, di aiutare la sua famiglia. Voleva arrivare sulla costa libica per imbarcarsi e ottenere asilo politico. È stato internato nel centro di detenzione di Misurata, nel nord della Libia. E, nella notte fra il 29 e il 30 giugno, ha partecipato alla rivolta degli eritrei, repressa violentemente dalle guardie. Ai detenuti era stato presentato un foglio, chiedendo loro di firmarlo. Gli eritrei, non capendo l'arabo, credevano che quella fosse l'autorizzazione ad essere rimpatriati e si erano rifiutati di sottoscriverla. Di lì vennero trasferiti nel carcere di Al Braq, nel sud del paese, in mezzo al deserto. Poi la liberazione e ora questa nuova avventura. I quattro minuti sono finiti, il trafficante rivuole il telefonino. E Biniam fa in tempo a dire: “Anche se riuscissi a far trasferire gli 8 mila dollari dove mi hanno detto e mi liberassero, credo che non avrei la forza di andarmene, di affrontare un altro viaggio. Non ce la faccio più”.

il Fatto 2.12.10
Noi li respingiamo e loro muoiono
Il direttore del Consiglio italiano per i rifugiati: “Un piano per non far arrivare chi ha diritto all’asilo”
di C. G.

In questa brutta storia l'Italia non può chiamarsi fuori dalle sue responsabilità. “Si direbbe che c'è un piano per non far arrivare i rifugiati nella nostra penisola, siano essi eritrei, somali o sudanesi del Darfur”. Un'accusa pesante, quella di Christopher Hein, direttore del Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, una onlus che cerca di venire incontro a chi chiede asilo politico, attiva anche all'estero (ha un progetto di intervento in Libia, momentaneamente sospeso).
IL FATTO È CHE NEL TRATTATO di amicizia siglato con Gheddafi nell'agosto del 2008, e ratificato dal Parlamento italiano nel gennaio del 2009, non è stata minimamente prevista l'adesione della Libia alla Convenzione di Ginevra del 1951. “Che si decida pure di erogare 5 miliardi di dollari in venti anni come compensazione del periodo coloniale – ricorda Hein – Ma un negoziato è un negoziato e l'altra parte deve cedere qualcosa”. Nella politica dei respingimenti, negli accordi per il pattugliamento del Mediterraneo e nel progetto che ha fatto arrivare per il momento 150milioni di euro alla Finmeccanica di Guarguaglini per realizzare un sistema di radar alla frontiera sud del paese che intercetti i migranti, donando elicotteri alla Libia e formando il personale, non c'è una parola che riguardi il rispetto del diritto internazionale di chiedere asilo politico. “Un'amnesia della quale chi fugge da persecuzioni politiche o razziali, o dalle guerre, paga le conseguenze. Non possono essere marchiati con l'etichetta di clandestini, anche coloro che intendono chiedere asilo politico”.
La Libia è diventata una fortezza e i rifugiati cercano drammaticamente nuovi passaggi. La storia degli eritrei, somali e sudanesi tenuti sequestrati in Egitto si spiega anche così. Il Cir ha lanciato un appello alla comunità internazionale e al Consiglio nazionale egiziano per i diritti umani, presieduto da Boutros Ghali. Anche l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu si è rivolto al governo egiziano per ricevere spiegazioni (non si sa, in alcun modo,dove siano segregati i profughi). Ma come è possibile che la polizia egiziana non si accorga di un sequestro di più di 200 persone? L'Egitto è ancora distratto dalle elezioni di domenica scorsa e il Cir ha cercato allora di coinvolgere, senza successo finora, il governo italiano perché si faccia sentire con le autorità egiziane. Oggi, su iniziativa dell’onorevole Furio Colombo, la vicenda sarà discussa dalla Commissione Affari Esteri della Camera. Di certo fra i sequestrati del Sinai ci sono almeno 80 immigrati che avevano vissuto quest'estate l'avventura prima della detenzione nel centro di Misurata, poi della galera nel carcere duro di Al Braq, per essere infine liberati ottenendo un permesso di tre mesi.
FRA LORO POTREBBE ESSERCI qualcuno che era stato respinto in mare dalle navi italiane, senza aver avuto la possibilità di presentare la domanda di asilo politico. Ecco perché l'Italia, più ancora di altri paesi, dovrebbe avvertire la responsabilità internazionale di quanto sta accadendo. Come si ricorderà, erano 205 gli eritrei deportati alla fine di giugno nel carcere di Al Braq e liberati a metà di quel mese, e molti di loro avevano fatto sapere di essere stati respinti dalle nostre motovedette, circostanza confermata anche dalle autorità libiche. Hanno ottenuto un permesso di soggiorno di tre mesi, la cosiddetta “tessera rossa”, in cui hanno auto-dichiarato le proprie generalità. Ma a metà ottobre questa è scaduta, e non si sa più che fine abbiano fatto. Chi sarebbe rimasto clandestino in Libia, chi è finito in Sudan, chi nel Sinai a tentare ancora di raggiungere l'Europa.

Repubblica 2.12.10
La nostra tolleranza zero
Il sogno occidentale di depurare "l´altro"
di Slavoj Žižek


"Accettiamo alcune cose se ci paiono ‘libere scelte´, quindi solo come esiti di processi violenti di sradicamento dalle proprie origini culturali"
"Quello che si sta affermando è la natura tossica non solo del diverso ma del prossimo stesso"
L´anticipazione/Un brano del testo che lo studioso ha scritto per il numero che "Libération" dedica alla filosofia
"Sempre più nelle nostre società va prendendo piede l´idea di avere diritto a non essere vessati o molestati: di una distanza di sicurezza"

Pubblichiamo parte di un articolo di Zizek che apparirà integralmente sul numero speciale di Libération di oggi

Dalla Francia alla Germania, dall´Austria all´Olanda, nel nuovo spirito di orgoglio nei confronti della propria identità storica e culturale, i maggiori partiti trovano ormai ammissibile rimarcare come gli immigrati siano ospiti e in quanto tali debbano adattarsi ai valori culturali che caratterizzano la società ospitante: «Questo è il nostro paese: o lo amate o ve ne andate».
I liberali progressisti, naturalmente, sono scandalizzati da questo razzismo populista. In ogni caso, uno sguardo più approfondito rivela in che modo la loro tolleranza multiculturale e il loro rispetto per l´altro (in termini di appartenenza etnica, di confessione religiosa, di sessualità) condivida con coloro che sono ostili agli immigrati una premessa di fondo: la paura dell´altro. Questa paura è chiaramente riconoscibile nell´ossessiva angoscia che i liberali hanno delle molestie. In sintesi, l´Altro è accetto soltanto nella misura in cui la sua presenza non è invadente, ovvero fintantoché l´Altro non è veramente Altro… Il mio dovere di mostrarmi tollerante verso l´altro significa soltanto che non dovrei mai avvicinarmi troppo a lui, non dovrei mai invaderne gli spazi. (...) Sempre più spesso nelle società tardo-capitaliste va prendendo piede il fondamentale diritto umano a non essere vessati o molestati, ovvero il diritto di restare a distanza di sicurezza dagli altri.
Ciò premesso, non stupisce affatto che in quest´ultimo periodo si vada affermando sempre più il concetto di "natura tossica". Questo concetto trae origine dalla psicologia popolare, intende metterci in guardia nei confronti dei "succhiasangue" che là fuori vivono alle nostre spalle, ma poi si espande, spingendosi ben oltre il campo delle relazioni interpersonali: l´aggettivo "tossico" si riferisce ormai a una sfilza di peculiarità appartenenti a livelli del tutto diversi tra loro (naturale, culturale, psicologico, politico). Un "individuo tossico" può essere un immigrato affetto da una patologia letale e che dovrebbe essere messo in quarantena; un terrorista, (...) un ideologo fondamentalista, che dovrebbe essere messo a tacere perché semina odio; un genitore, un insegnante o un prete che abusi e perverta i bambini. (...) A essere tossico, in ultima analisi, è il Prossimo stesso, lo straniero in quanto tale, insieme a tutta la voragine dei suoi piaceri, dei suoi principi e via dicendo, così che obiettivo ultimo di tutte le regole delle relazioni interpersonali è mettere in quarantena – o quanto meno neutralizzare e contenere – questa dimensione tossica, con lo scopo ultimo di ridurre il Prossimo a un proprio simile. (...) Il meccanismo di questa neutralizzazione fu formulato molto bene già nel 1938 da Robert Brasillach, l´intellettuale francese fascista condannato a morte e giustiziato nel 1945 che si considerava un antisemita "moderato" e che inventò la formula dell´"antisemitismo ragionevole": «Al cinema ci accordiamo il permesso di applaudire Charlie Chaplin, un mezzo ebreo; tolleriamo di apprezzare Proust, un mezzo ebreo, di battere le mani a Yehudi Menuhin, un ebreo, mentre la voce di Hitler viaggia su onde radio che prendono il nome dall´ebreo Hertz. (…) Non vogliamo uccidere nessuno. Non vogliamo pianificare alcun pogrom. Nondimeno, crediamo anche che il modo migliore per ostacolare le azioni sempre imprevedibili dell´antisemitismo istintivo sia la strutturazione di un antisemitismo ragionevole». Non è forse questo l´atteggiamento già in essere che constatiamo nelle modalità con le quali i nostri governi si occupano della "minaccia dell´immigrazione"? Avendo giustamente respinto l´esplicito razzismo populista in quanto "irragionevole" e inaccettabile per i nostri parametri democratici, di fatto i nostri governi si dicono favorevoli a provvedimenti cautelari "ragionevolmente" razzisti… Ovvero, alla stregua di odierni emuli di Brasillach, alcuni di loro – talvolta nientemeno che socialdemocratici – ci dicono: «(...) Non vogliamo pianificare alcun pogrom. Nondimeno crediamo anche che il modo migliore per contenere le sempre imprevedibili e violente misure difensive contro gli immigrati sia l´organizzazione di una ragionevole protezione dagli immigrati».
Questa visione della disintossicazione del Prossimo mette in luce un passaggio evidente, ormai avvenuto, dalla barbarie assoluta alla barbarie dal volto umano; una visione che pratica una regressione dall´amore cristiano nei confronti del Prossimo all´abitudine pagana di privilegiare la nostra tribù (i Greci, i Romani) in contrapposizione all´Altro, barbarico. (...)
A questo punto, tuttavia, iniziano i veri guai: ogni pratica di universalismo non è forse radicata in uno specifico ambito culturale? È proprio questo a rendere la faccenda dell´istruzione universale obbligatoria così preoccupante. I liberali sostengono che si dovrebbe concedere ai bambini il diritto di continuare a essere parte integrante della loro particolare comunità, ma a condizione che sia loro offerta la possibilità di scegliere. Prendiamo il caso dei bambini amish che vivono negli Stati Uniti: affinché possano godere di un´effettiva libertà di scelta allorché adottano un determinato stile di vita, dovrebbero ricevere dai loro genitori o dagli "inglesi" informazioni esaurienti su tutte le opzioni a loro disposizione, ed essere istruiti su tutte. L´unico modo possibile per ottenere una cosa del genere, però, sarebbe quello di sradicarli dalla loro appartenenza alla comunità amish, e quindi in sostanza renderli "inglesi".
Tutto ciò dimostra inoltre manifestamente i limiti del tipico atteggiamento liberale nei confronti delle donne musulmane che indossano il velo: lo possono fare se è una loro libera scelta, non se è una condizione imposta loro dai mariti o dalla famiglia.
In ogni caso, nel momento stesso in cui le donne indossano il velo per loro libera e personale scelta, il significato stesso dell´indossare il velo muta completamente: il velo non è più un simbolo della loro appartenenza esplicita sostanziale alla comunità musulmana, bensì espressione della loro personalità individuale, della loro ricerca spirituale, della loro protesta contro la volgarità dell´odierna mercificazione sessuale, oppure ancora un esplicito gesto politico di contestazione nei confronti dell´Occidente. Una cosa dunque è indossare il velo per appartenenza esplicita a una tradizione sostanziale; un´altra è rifiutarsi di indossare il velo; ma un´altra cosa ancora è indossare il velo non per un´appartenenza sostanziale bensì come gesto di scelta etico-politica. Ciò spiega per quale motivo nelle nostre società laiche di appartenenza, le persone che mantengono un´appartenenza religiosa di fondo si trovino in una posizione subordinata: per quanto sia loro consentito mantenere i loro principi, questi principi sono "tollerati" come frutto di scelte/opinioni personali e individuali; nel momento in cui le manifestano apertamente per ciò che rappresentano per loro (una questione di appartenenza sostanziale) sono accusati di "fondamentalismo".
Tutto ciò sta a significare che un "soggetto di libera scelta" (nel senso multiculturale "tollerante" occidentale) può affermarsi soltanto come l´esito di un processo estremamente violento di estrapolazione dal particolare stile o contesto di vita del singolo, di uno sradicamento assoluto dalle proprie radici.
Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 2.12.10
Marini: se si apre la deriva a sinistra ci sarà un fronte interno molto caldo. Siamo malati di vanità
"Il Pd non può avere nostalgia del Pci se entra Vendola, il partito è finito"
Nichi e le primarie? Gli abbiamo aperto con le nostre regole un-autostrada. Il meccanismo va corretto
Ci vuole un governo di larga responsabilità anche affidato a una personalità del centrodestra
di Giovanna Casadio


ROMA - «L´aggressione speculativa all´Italia ci sarà di certo, se si va alle elezioni. Dobbiamo puntare a un governo di responsabilità nazionale, anche guidato da una personalità del centrodestra. E il Pd deve essere all´altezza della situazione. Purtroppo è ammalato del virus della vanità, dell´io che prevale sul "noi" e dell´amore sviscerato per il palcoscenico...». Franco Marini aggredisce i problemi. L´ex presidente del Senato da tempo non interviene nel dibattito politico. Ma ora, alla vigilia della sfiducia a Berlusconi, denuncia qualche «sbandamento» di troppo nelle file democratiche.
Senatore Marini, ma lei è allarmato perché torna la pace tra D´Alema e Veltroni?
«Per me si possono pure amare, a patto che nessuno cambi le scelte fatte tutti assieme. Sento parlare di "rifondare il Pd", imbarcando Vendola. È il tuffo in un passato remoto, uno sbandamento. Se qualcuno coltiva davvero questa idea la declassi a nostalgia del Pci altrimenti offre un segnale di fine dell´esperienza dei Democratici».
Minaccia di lasciare il Pd, se c´è un allargamento a sinistra?
«Io lo voglio rafforzare il Pd. Ci ho creduto molto e ci credo ancora, ritenendolo una necessità della politica italiana. Dico che si aprirebbe un fronte assai caldo all´interno del partito perché significherebbe rinnegare la scelta fondativa di centrosinistra. Non lo dico da ex dc o da popolare, ma da riformista. Un partito riformista che coniughi libertà economica e giustizia sociale e che si contrapponga a un partito conservatore è nella logica della democrazia dell´alternanza. Il "pilastro Vendola" chiude la possibilità di espansione verso i ceti moderati che, malgrado la crisi, sono per la loro estensione fondamentali per assegnare la responsabilità di governare. I nostri "nostalgici" guardino all´esperienza delle socialdemocrazie europee dove non si corre dietro ai vari radicalismi per poi allearsi con i moderati sul mercato. È nella natura del partito riformista includere direttamente ampie fasce della rappresentanza sociale».
In un momento drammatico dal punto di vista economico-sociale, con in più lo stravolgimento compiuto da WikiLeaks - il Pd guarda al proprio ombelico?
«Il Pd ha contratto un virus che si manifesta con il prevalere dell´io sul "noi". Noi siamo una forza collettiva: nessuno vuole cancellare le individualità ma una parte dei dirigenti non schioda dall´io e dall´amore sviscerato per il palcoscenico. Questo è il male dei Democratici e Bersani mi piace perché parla della ditta, in modo forse un po´ rustico ma la ditta è "noi". E parla del merito dei problemi. Un partito riformista è indispensabile perché se no i moderati sono risucchiati dalla destra e per riportare al centro il problema dell´eguaglianza».
La maggioranza si frantuma però questo Pd non ne trae vantaggio?
«Lo dice qualche sondaggio. Ma il Pd ha contribuito alla crisi del centrodestra. C´è un fallimento vero del governo che ha avuto una maggioranza mai avuta da altri».
Siamo allo showdown del berlusconismo?
«Penso che la fase di questo governo sia finita. Dobbiamo essere consapevoli dei rischi per l´economia italiana perché la Ue ci chiederà interventi drastici per ridurre il debito. Abbiamo centinaia di migliaia di cassintegrati con cassa integrazione in deroga che non è detto possano rientrare al lavoro. Ci vuole un governo di larga responsabilità anche affidato a una personalità del centrodestra».
A Tremonti, a Gianni Letta o a Pisanu?
«Non spetta a me fare nomi. Se nascerà, sarà un governo di responsabilità con pochi obiettivi: difendere il lavoro, mettere mano a questa montagna di debito pubblico, riattivare la domanda interna, riformare la legge elettorale».
C´è un´Opa ostile di Vendola sulle primarie cittadine, come scrive "Europa"?
«Naturale. Gli abbiamo aperto con le nostre regole un´autostrada. Questo meccanismo va corretto».

mercoledì 1 dicembre 2010

l’Unità 1.12.10
Roma zona-rossa:
«Mai così dagli anni del terrorismo»
di Claudia Fusani


Chiamata «area di rispetto per le istituzioni», la blindatura ha mandato in tilt tutta la città. Il ministro: «Evitato l’assedio di Montecitorio». Vendola: «Il Cile». Pd e Idv: «Maroni in aula»

L’hanno chiamata «zona di rispetto per le istituzioni». E’ stata pensata dal prefetto e dal questore Francesco Tagliente e supervisionata da Capo della polizia e ministro. E’ stata dispiegata sul campo ieri mattina. Si è rivelata la più grande zona rossa mai vista in Italia. Se non più grande di quella di Genova ai tempi del G8, sicuramente più simbolica. Ugualmente angosciosa anche se al posto dei container che calarono all’improvviso lungo le strade nella notte più buai di Genova, ieri mattina Roma si è svegliata con gli autoblindo di polizia e carabinieri allineati, in fila o a cuneo, per bloccare l’accesso alle strade. Meno dannosa perché i focolai di scontro sono stati solo due e perché i 25 mila studenti non hanno avuto il tempo, l’arco di una giornata tempestata dalla pioggia, per organizzarsi. Infinitamente più triste perchè dieci anni dopo siamo sempre lì, in una democrazia che alza possenti muri di lamiera per ricacciare indietro parole e idee.
Le zone rosse alzano sempre la tensione, creano alibi per gli infiltrati, per chi scambia i sampietrini (ne sono stati lanciati da qualcuno tra i ragazzi) con le parole. E infatti non se n’erano più viste in giro. Almeno non così imponenti. Non così disperate perchè il messaggio ieri è stato quello di una democrazia sotto assedio. Incapace di decidere se non protetta in un fortino di blindati e lacrimogeni.
Maroni è stato categorico. «Dopo quello che è successo mercoledì scorso quando gli studenti riuscirono ad entrare al Senato si spiega in questura doveva essere impedito in ogni modo il contatto tra i palazzi e i gruppi di manifestanti e con le forze dell’ordine». Così è nata la cintura di mezzi blindati che, in parte fissa, in
parte movente, si è adeguata per tutto il giorno alle mosse degli studenti che, spiati da agenti in borghese sguinzagliati per tutta la città (forse più quelli in borghese di quelli in divisa), hanno scatenato una guerriglia continua con la tattica del mordi e fuggi. Nascono così le uniche due cariche della giornata, verso le due in piazza Capranica, a due passi da Montecitorio, e verso le quattro tra via del Corso e via della Vite.
«In giro c’è molta tensione, Maroni faccia attenzione, serve prudenza» alza la voce verso le due il segretario del Pd Pierluigi Bersani che con Di Pietro poi chiederà al ministro dell’Interno di riferire in aula. «Questa militarizzazione è un pessimo segnale» dice Massimo Donadi (Idv). L’attacco più duro arriva da Nichi Vendola che si trova faccia a faccia con il ministro per la presentazione del libro dell’inviato del Tg1 Antonio Caprarica. «Ma che roba è questa?» attacca il governatore tra lo sgomento e l’arrabbiato dopo aver attraversato la città militarizzata per arrivare in piazza di Montecitorio. «Sembra il Cile, questa è una gestione criminale dell’ordine pubblico. Mai così dagli anni del terrorismo». Sono quasi le sette di sera. Si può guardare alla giornata con un po’ di ottimismo. Maroni replica: «Misure adeguate. Abbiamo evitato l’assedio a Montecitorio e consentito all’aula di lavorare. Chi voleva manifestare democraticamente lo ha potuto fare». Missione compiuta, quindi.
Se si guarda alla giornata, forse è andata anche bene così, grazie ai nervis saldi degli aganeti, con buona pace di cittadini, commercianti, persone comuni che hanno vissuto una giornata surreale all’interno della zona rossa. L’inferno subito fuori. Ma se invece che un primo piano la giornata è vista in campo lungo, quello che resta è l’immagine di una democrazia bunkerizzata. Incapace, ormai, di parlare con i suoi elettori.

Repubblica 1.12.10
L’istruzione precaria
di Carlo Galli


La via crucis della riforma Gelmini è terminata, con la sua approvazione alla Camera. Non è una riforma epocale, come sostiene la ministra, se non per le modalità con cui il Palazzo l´ha varata, contro la protesta – questa sì nuova, per l´imponenza della mobilitazione giovanile, macchiata da qualche violenza dei centri sociali – che ha pesantemente interessato le città del nord, del centro, del sud. Una riforma che passa con i voti in aula e, nelle piazze, con i colpi di manganello e di lacrimogeni, reali e simbolici. Altro non è, infatti, l´affermazione di Berlusconi che i giovani per bene sono quelli che stanno a casa a studiare, uno stereotipo reazionario dei tempi del Sessantotto, per di più sulla bocca di chi pare frequentare abitualmente non la gioventù studiosa, quanto piuttosto quella avvenente e compiacente.
è una riforma contrabbandata come rivoluzionaria, poiché sarebbe in grado di sconfiggere le "baronie", il mostro che a sentire la destra è responsabile di ogni male dell´Università – della corruzione, del clientelismo, del nepotismo, dell´inerzia, della proliferazione delle sedi, dei fuoricorso, delle ingiustizie concorsuali. Un mostro abilissimo, che avrebbe plagiato i giovani, spingendoli, nella loro ingenuità, a contrastare la legge che invece sconfiggerà il malaffare dei professori universitari.
Ebbene, i baroni grazie a questa legge potranno continuare a decidere indisturbati chi insegnerà nelle università. L´abilitazione nazionale, che avrebbe dovuto sanare gli scandali degli attuali concorsi locali, potrà essere concessa indiscriminatamente, senza limiti numerici, e le università potranno così scegliere, fra la massa degli abilitati, i docenti più graditi ai vari potentati.
La valutazione della ricerca, che dovrebbe far emergere e sanzionare i docenti inattivi, non decolla neppure con le istituzioni che già esistono: e la riforma l´affida a un nuovo carrozzone di Stato, che esiste solo sulla carta.
L´autonomia universitaria è di fatto cancellata sia perché, nonostante siano state eliminate in extremis alcune norme che prefiguravano un vero commissariamento da parte del ministero dell´Economia, questo resta in ogni caso il grande guardiano del sistema universitario; sia perché la riforma, per diventare effettiva, ha bisogno di più di cento nuovi regolamenti, che dovranno essere tutti approvati dal ministero della Pubblica Istruzione.
Per i giovani che vogliono entrare nella carriera universitaria, poi, c´è solo la prospettiva di un lungo precariato, fino a dieci anni, che si snoderà tra assegni di ricerca e posti da ricercatore a termine; ma non c´è alcuna garanzia che apra, ad almeno una parte di loro, uno sviluppo di carriera verso la stabilizzazione. La via dell´emigrazione resta lo sbocco per i talenti che l´Italia prepara, per regalarli poi ad altri Paesi.
Se nelle sue finalità positive la riforma fa acqua da tutte le parti, in quelle negative è più efficace. Il peso dei professori (del Senato Accademico) nella gestione complessiva degli atenei cala molto, a favore soprattutto dei rettori, del Consiglio d´amministrazione (infarcito di esterni, sul modello delle Asl), e del direttore generale.
Anche se l´autoritarismo aziendalistico che informava il testo originale è in parte attutito, l´intento punitivo verso una delle poche élites non compattamente schierata con la destra è piuttosto evidente. Tra breve, toccherà anche alla magistratura, che però è ben più potentemente attrezzata per resistere. I professori in futuro saranno meno numerosi, per effetto della valanga di pensionamenti in atto e del mancato rimpiazzo; ma saranno anche meno autonomi, più simili a impiegati che a quella magistratura scientifica della nazione che in passato aspiravano a essere. E ciò avviene per indiscutibili colpe di alcuni di loro, e anche per preciso indirizzo politico di questo governo, che con la cultura e la ricerca certamente non si trova a proprio agio, e che ha cavalcato spregiudicatamente un generalizzato sfavore dell´opinione pubblica – solo parzialmente giustificato – verso l´Università.
Soprattutto, per questa riforma non ci sono stanziamenti aggiuntivi. A differenza di quanto avviene nel mondo sviluppato e in via di sviluppo, in Italia l´università è un costo, e non un investimento. è un problema, e non una risorsa. La società della conoscenza è un orizzonte non condiviso dalla destra al governo. Non ci sono soldi per incentivare il merito dei professori, e non ci sono – anzi, sono quasi del tutto spariti i pochi che c´erano – per le borse di studio per gli studenti; e questi hanno capito ben presto (altro che sprovvedutezza!) che nel loro futuro ci sono più tasse ma non una politica di miglioramento reale del sistema universitario in termini di servizi e di qualificazione della docenza.
Baronie appena scalfite, centralismo normativo, riproduzione del precariato, degrado complessivo dell´immagine dell´Università e sua possibile ‘aslizzazione´, compressione del ruolo dei docenti e degli studenti, ulteriore frustrazione dei giovani, nessun investimento. Queste sono le cattive notizie, dovute al fatto che questa destra, oscillante fra il populismo e il gattopardismo, non ha un´idea di università, come non ha un´idea di Paese. La buona notizia è che la riforma resterà probabilmente inapplicata, perché la crisi di governo la spazzerà via. La corsa contro il tempo per approvarla, infatti, ha verosimilmente il solo scopo di munire la destra di almeno una riforma da sbandierare in campagna elettorale.
A questo – a propaganda – si è ridotta l´università, al tempo del governo Berlusconi.

l’Unità 1.12.10
Il leader del Pd derubrica come «chiacchiere» il presunto asse Veltroni-D’Alema
Ieri incontro con i segretari regionali. Per l’11 dicembre già pronti 18 treni e 1200 pullman
Bersani blinda il partito e lancia la mobilitazione: «Occupiamoci del Paese»
D’Alema e Veltroni smentiscono l’asse «contro» Bersani. Il segretario chiama il partito ad essere unito e responsabile «per voltare pagina» e mandare a casa il governo. Intanto al Nazareno si lavora all’11 dicembre.
di Maria Zegarelli


Al Nazareno raccontano di un segretario «irritato» per questa smania che c’è nel Pd di «guardarsi sempre la punta delle scarpe». Raccontano anche di una certa «amarezza» per le dichiarazioni di questi ultimi giorni di Nicola Latorre, dalemiano doc, che vorrebbe un Pd rifondato insieme a Nichi Vendola e per i retroscena che annunciano un asse tra D’Alema e Veltroni che punterebbe ad una leadership alternativa a Bersani. «Chiacchiere», risponde il segretario liquidando la vicenda in Transatlantico, «un sacco di chiacchiere sul Pd: mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro». Aggiunge anche di averne parlato con i diretti interessati, che ieri a dire il vero hanno smentito tutto. «Irritato» si è detto anche D’Alema per la «fantasiosa ricostruzione» che altro non sarebbe se non «una scemenza». Per Veltroni parla il suo braccio destro, Valter Verini: più le distanze che le assonanze tra i due.
Vero è che in politica tutto muta velocemente, ma è difficile credere in un asse che possa saldarsi su una ruggine di così lunga data.
RESPONSABILITÀ E UNITÀ
Ieri Bersani inxcontrando i segretari regionali si è soffermato alungo sulla crisi economica, alla luce dei dati Istat sulla disoccupazione e quelli della Commissione Ue che prevede la crescita del debito nel 2011 addirittura al 120%. Ne ha parlato con Tremonti, ricevendo «rassicurazioni», ma secondo il segretario è chiaro che spetta al dp lavorare per «garantire stabilità». Per questo ha chiesto a tutte le componenti del partito di dare «visibile prova di responsabilità e unità» per raggiungere l’obiettivo primario: le dimissioni del governo, che sta creando «instabilità» e mette a rischio il sistema economico e finanziario.
Fatto inusuale alla fine dell’incontro viene diffusa anche una nota, di tutta la segreteria, che ricorda tanto il suono della «campanella». «Di fronte ai gravissimi problemi con i quali gli italiani devono fare i conti si legge a cominciare dal lavoro che viene meno, dalla scuola, dall’università, dalla crisi di tante imprese, dalla situazione di numerose famiglie, la segreteria nazionale e i segretari regionali del Pd hanno ribadito la necessità di proseguire con fermezza e determinazione nella battaglia per aprire una nuova fase e garantire all’italia un futuro di ripresa e rilancio». Maggioranza e governo vengono definiti «un fattore pericoloso di instabilità e di discredito». Motivo per cui spetta al Pd «essere in campo», tenendo «ferma la barra della propria linea politica per ottenere che si avvii una fase di transizione». Un governo a tempo, per la legge elettorale e le riforme, allargato a chi ci vuole stare e poi nuove elezioni politiche, con un’alleanza che veda il Pd come perno della coalizione.
LA PIAZZA
Ma intanto l’oggi è l appuntamento con la piazza l’11 dicembre a cui sta lavorando il responsabile organizzazione del partito, Nico Stumpo, il quale ieri ha chiesto ai segretari regionali il massimo della mobilitazione. La manifestazione a tre giorni dal voto di fiducia al governo può essere un’occasione, anche se nessuno ne parla esplicitamente, per dare la «spallata» ad un esecutivo ormai paralizzato dalle spaccature interne.
Manifestazione
Oltre 75mila persone hanno prenotato il posto per S. Giovanni
A dieci giorni di distanza ci sono già 18 treni e 1200 pullman, oltre 75mila persone che da diverse regioni hanno prenotato il posto a San Giovanni. «Ci dicono che la mobilitazione è in crescendo dice Stumpo perché c’è una grande voglia di partecipazione del popolo democratico ma anche di chi non è del Pd». Dal territorio è arrivato anche l’ invito ai dirigenti nazionali a mettere da parte le prove di forza interna. Che pure ci sono. In Modem, l’area che fa capo a Veltroni, Fioroni, Gentiloni, l’asse che si è creato, questo sì, tra Franceschini e Bersani desta preoccupazione, soprattutto in vista delle liste elettorali in caso di elezioni se non cambia la legge.

Repubblica 1.12.10
Bersani: "Nuovo asse? Basta chiacchiere"
D’Alema e Veltroni negano intese. Follini: ma sarebbe una cosa di buon senso
A Torino si cerca l´accordo sulla candidatura di Fassino, ma Sel conferma la sfida: alle primarie un nostro candidato per vincere
di Goffredo De Marchis


ROMA - Pier Luigi Bersani non nasconde un certo fastidio per il riavvicinamento tra D´Alema e Veltroni che avrebbe alla base i dubbi sul ruolo del segretario. Naturalmente, il Pd, impegnato nella tornata della fiducia il 14 e prima nella manifestazione di Piazza San Giovanni l´11, cerca di tenere ferma la barra dell´unità. «Sento un sacco di chiacchiere sul partito. Mi entrano da un orecchio e mi escono dall´altro», dice Bersani. «Adesso siamo concentrati sui problemi del Paese e tutti, nel Pd, sentono questa responsabilità».
Anche il capogruppo democratico alla Camera Dario Franceschini preferisce guardare alle scadenze dell´opposizione più che agli affari interni del partito. «Mi occupo del centrodestra e del 14 dicembre perché la maggioranza non sta in piedi». Ma c´è chi sponsorizza la ritrovata sintonia tra D´Alema e Veltroni. Dice Marco Follini: «Se loro due facessero una grande coalizione all´interno del Pd sarebbe una cosa di buonsenso. Se poi il Pd concorresse a una grande coalizione nazionale sarei ancora più felice». Walter Verini, braccio destro di Veltroni, si occupa di smentire l´asse: «Rimangono notevoli differenze politiche». Aggiunge un "ma": «Ciò non toglie che in questo momento delicato per il Paese possa esservi nel gruppo dirigente del Pd una preoccupazione comune».
Massimo D´Alema sottoscrive la reazione di Bersani: «Chiacchiere, anzi scemenze». Adesso, spiega, il Pd «è unito, sulle scelte fondamentali, intorno al segretario». Ma Beppe Fioroni fa notare che «una fetta della maggioranza interna, da D´Alema a Enrico Letta, si pone il tema di come non regalare l´Italia a Berlusconi. Direi che il vero asse è questo: riprendere l´orgoglio del Pd e fare scelte chiare». L´ipotesi di un avvicinamento D´Alema-Veltroni allarma i "rottamatori", il gruppo guidato da Matteo Renzi e Pippo Civati che chiede in modo brusco il rinnovamento dei leader. «Contro un simile asse davvero potremmo riempire uno stadio», commenta sarcastico il consigliere regionale della Lombardia Civati. Che si schiera dalla parte del segretario: «Di fronte a ipotesi simili tocca a Bersani prendere un´iniziativa. Si candidi alla premiership e detti parole d´ordine e contorni delle alleanze con cui vincere e governare. Altrimenti sarà travolto l´intero Pd. A Torino, Bologna e poi nel Paese». Torino è la prima città dove i democratici stanno cercando una soluzione per le comunali. Piero Fassino è in pista. Ma Vendola annuncia: «Non lo appoggeremo. Correremo alle primarie con un nostro candidato».

Repubblica 1.12.10
Tonini: Bersani rilanci il profilo riformista e maggioritario del Pd
"Non c´è nessuna alleanza contro il segretario ma partito in calo costante"
"Il timore di scendere sotto la soglia di sopravvivenza unisce tutti"


ROMA - «Nella preoccupazione sulla situazione italiana e nel sostegno a un governo di responsabilità nazionale sono uniti non solo Veltroni e D´Alema, ma l´intero partito». Giorgio Tonini, dirigente di Movimento democratico, senatore molto vicino a Walter Veltroni, nega l´esistenza di un´asse tra l´ex segretario del Pd e il presidente del Copasir. «Tantomeno esiste un´alleanza di questo tipo contro Bersani. Oggi siamo tutti con il segretario, impegnati nella preparazione di Piazza San Giovanni, l´11 dicembre».
Significa che Modem considera Bersani adatto anche al ruolo di candidato premier in caso di elezioni anticipate?
«Significa che noi oggi chiediamo al segretario di rilanciare il profilo riformista e maggioritario del Pd. Se il partito continua a scendere nei sondaggi goccia a goccia, settimana dopo settimana, altro che candidato premier. Ci dovremo chiedere da chi farci guidare. Il Pd oggi è un progetto a rischio e su questa consapevolezza può essere unito. Altrimenti sono guai seri. Il resto viene di conseguenza».
Anche di questo hanno parlato D´Alema e Veltroni venerdì scorso?
«È stato un saluto alla buvette, niente di più. Dal punto di vista strategico rimangono le differenze, che non sono nuove. Risalgono ai tempi del primo Ulivo. Ma né i duelli più o meno romanzati tra i due né gli ipotetici patti devono nascondere il merito del problema. Modem crede ancora in un Pd riformista, che assuma la cultura democratica perché in questo aggettivo si riassume il suo dna e si superano gli steccati del ‘900, con la vocazione maggioritaria, nato per cambiare e non per difendere. Se si abbandona la via maestra privilegiando il tema delle alleanze, ci troveremo a discutere chi rincorrere invece che essere rincorsi. Questa per noi è pura follia e due anni fa succedeva esattamente il contrario. Erano tutti gli altri a voler venire con noi».
Nessuna intesa con Vendola e nessuna con Fini?
«Vendola, da una parte, pensa all´unità della sinistra mentre noi abbiamo creato il Pd per l´unità dei riformisti che è cosa ben diversa. Dall´altra, Fini, con grande onestà ed correttezza, ha detto in tutte le salse che lui vuole fare una nuova destra. Ecco perché noi dobbiamo essere pronti come Pd, senza inseguire alleati. Un Pd grande e aperto».
Ma prima viene il governo di responsabilità nazionale, un´idea in sintonia con D´Alema.
«Un´idea che appartiene a tutto il Partito democratico. Abbiamo detto che l´Italia ha bisogno di un governo vero. Capace di affrontare l´impresa di ridurre il debito con un piano straordinario. E di fronteggiare la crisi dell´economia e la disoccupazione che galoppa. È una strada che non contraddice l´obiettivo di un Pd grande. Un Pd, cioè, che rilancia la sua prospettiva e definisce chi siamo. Mi pare ci sia una consapevolezza comune sul rischio di un partito che scende sotto la soglia minima di sopravvivenza».
(g.d.m.)

Corriere della Sera 1.12.10
Vendola cerca l’asse con Bersani: vogliono farci fuori
Il presidente pugliese accusa D’Alema e Veltroni. Letta rilancia Chiamparino. Fioroni parla con Casini. E il Pd scende ancora
di Maria Teresa Meli


ROMA — Prologo: Transatlantico di Montecitorio, pomeriggio di un giorno qualsiasi (è successo anche ieri), Nichi Vendola passa di lì non per caso e un bel po’ di deputati del Pd si mettono in fila per il bacio della pantofola. Epilogo: ore 19 e 30 di ieri, buvette di Montecitorio, di fronte a un analcolico il presidente della Regione Puglia spiega: «Latorre ha detto una verità che è passata quasi inosservata: ha aperto a me e ha ammesso che il progetto del Pd è fallito. Ora ci saranno delle contromosse: D’Alema e Veltroni, per esempio, che sono lontanissimi, hanno però due obiettivi identici: fare fuori me e Bersani. Ma l’importante è restare tranquilli, non farsi prendere da questi giochi del ceto politico».
Leadership Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Walter Veltroni a Montecitorio
In mezzo, tra un Vendola che riceve gli omaggi dei deputati del Partito democratico e un Vendola (sempre lui) che certifica la fine del progetto politico del Pd, ci sono tutte le scene di vita quotidiana di un centrosinistra che si interroga sui propri errori e le proprie paure. Prima scena, l’altro ieri: Pier Luigi Bersani chiama Massimo D’Alema per capire se l’intervista al Corriere in cui Nicola Latorre chiede di rifondare il Pd è un atto autonomo del vice capogruppo al Senato o se invece c’è lo zampino del presidente del Copasir. Il colloquio è alquanto teso. Seconda scena, sempre l’altro ieri: Enrico Letta va a Torino e tesse gli elogi di quel Sergio Chiamparino che il giorno prima ha usato la clava contro l’attuale leadership del Pd e si è candidato alla guida del centrosinistra. Ecco le parole testuali del vicesegretario: «Credo che tutto il centrosinistra abbia bisogno di Chiamparino, a livello nazionale, nella sfida per chiudere il berlusconismo. Sergio avrà un ruolo fondamentale e penso che tutti dobbiamo spingerlo ed aiutarlo». Terza scena, ieri: Beppe Fioroni, reduce da un vis-à-vis con D’Alema che gli ha chiesto conto del suo attacco a Latorre, sostiene che la maggioranza interna finalmente ha capito che c’è qualche problemino nel partito: «Oggi finalmente c’è una fetta del Pd, penso a D’Alema e Letta, che si pone il tema di non regalare l’Italia a Berlusconi e per questo non dice più che tutto va bene».
Quarta scena, sempre ieri, sempre Fioroni: il responsabile Welfare si apparta in un corridoio con Casini. Quinta scena: qualche deputato del Pd insinua che Letta potrebbe andare a finire nel cosiddetto terzo polo. Non è vero, ma se ne parla ugualmente. Sesta scena, arriva il sondaggio Ipsos, il Partito democratico è al 23,4. È sceso dello 0,2. Il Pdl, invece, per la prima volta da giorni, guadagna punti. È al 27,1 per cento, lo 0,5 in più rispetto all’ultima rilevazione Ipsos.
È sera, i riflettori sono di nuovo puntati su quel Vendola che fa tanto penare i Democrats. Il governatore della Puglia è sicuro che le primarie, nonostante D’Alema, si faranno: «Bersani è una persona perbene e le ha promesse». Lo sostiene anche in un libro-intervista a Cosimo Rossi, ex giornalista del manifesto («La sfida di Nichi Dalla Puglia all’Italia»), che esce domani : «Le primarie si faranno: questa è un’acquisizione fondamentale, penso che non ci sia più modo di impedire e anche di pilotare questo strumento». Ma Vendola non è un ingenuo, non fa finta di non sapere che nel Pd molti vorrebbero che la legislatura proseguisse per riassestare il partito, cambiare candidato alla premiership e andare al confronto con il governatore pugliese da una posizione di forza. Lo dice anche nel libro di Rossi: «Immaginare che ci sia una destra buona con cui allearsi transitoriamente contro la destra cattiva mi pare un’ennesima manifestazione di vocazione al suicidio». Già, ma nel Pd si torna a parlare di un possibile governo Draghi che affronti l’emergenza economica: «Sarebbe ugualmente devastante» taglia corto Vendola. La serataèfinita . Veltronis cappaa «Ballarò». D’Alema chiacchiera con Marianna Madia. Bersani cela a fatica il fastidio per le voci sulla solidità della sua segreteria: «Non mi occupo di chiacchiere». Ma nel Pd e dintorni le chiacchiere continuano.

il Riformista 1.12.10
A Torino si cerca l´accordo sulla candidatura di Fassino, ma Sel conferma la sfida: alle primarie un nostro candidato per vincere

qui

il Riformista 1.12.10
Intervista a Achille Occhetto
«Vendola può essere l’uomo giusto per rompere i vetri in casa Pd»
«È ridotta a una coperta di Arlecchino. Grazie alla Bolognina, gli ex comunisti vanno al governo e al Quirinale. La “gioiosa macchina da guerra”? Stavo per dire “Armata Brancaleone”, poi...».
di Anna Mazzone

qui

il Riformista 1.12.10
Caro Pd,Vendola farà esplodere tutta la sinistra
La forza di Nichi non può essere ingabbiata in un accordo politico
di Ritanna Armeni

qui
http://www.scribd.com/doc/44444769

Repubblica 1.12.10
La libera scelta di chi non vuole più soffrire
Risponde Corrado Augias


Caro Augias, ho letto che Bruno Vespa farà l'anti-Fazio per confutare le testimonianze sull'eutanasia. Il noto giornalista ci racconterà storie terribili e vere di persone che preferiscono soffrire per malattie inguaribili, offrendo quelle sofferenze a Dio. Un modo curioso di onorare il Creatore. A me pare che il problema sia "la libertà individuale di scelta tra il vivere un male dolorosissimo, lungo e lesivo della propria dignità, e una morte indolore di cui non ci si accorge". è questo di cui si dovrebbe discutere, accettando una scelta tra due decisioni del malato con pari serietà. La scelta individuale può manifestarsi o al momento del dolore, o facendo un Testamento Biologico. Quando la Chiesa cattolica rifiuta queste libertà, e mette in atto una campagna affinché la Repubblica Italiana vieti la dolce morte appare agli occhi del mondo come un'istituzione dittatoriale, cancellando di fatto quell'immagine di bontà che tiene a crearsi da secoli.
Arturo Martinoli  arturo.martinoli@alice.it

Bruno Vespa ha ogni diritto di organizzare un programma nel quale far presente i punti di vista di chi sceglie di sopportare il dolore, oppure di vegetare in una semi-vita, o dei familiari che questi malati senza speranza accudiscono con ogni cura così alleviando in qualche modo la sofferenza o la prigionia all'interno di corpi ridotti a carcasse. Non si dovrebbero però dimenticare che si parla di due situazioni non confrontabili. Da una parte c'è chi opera la scelta del dolore (o altri che la praticano in sua vece); dall'altra c'è chi preferisce metter fine ad una vita considerata insopportabile. I primi hanno i loro diritti. Gli altri non ne hanno. La legge tutela gli uni, mentre lascia gli altri nella disperazione o nell'illegalità. Questa tragica differenza si basa sul presupposto religioso che la vita è "un dono di Dio", dunque indisponibile per l'individuo che ne è solo (Catechismo) "l'amministratore". Ci sarebbe da dire (mi fa notare Maria Luisa Gnarro) che: «Se io faccio un dono ad un amico, il dono appartiene a lui, non più a me, lo può usare come crede ed eventualmente liberarsene». La Fede però ignora la logica e va accettata così. Per chi ce l'ha. Nessuno comunque dovrebbe appropriarsi del titolo 'Movimento per la vita' relegando così tutti gli altri in un ipotetico movimento 'per la morte'. C'è poi una domanda che vorrebbe finalmente una parola di chiarimento, ammesso che sia possibile dirla: che cosa significa in concreto la sempre invocata "fine naturale della vita"? Siamo in un'epoca in cui le macchine possono mantenere quasi indefinitamente il battito cardiaco. Dove finisce la naturalezza? Anche un'ipotetica entità divina deve adeguarsi ai progressi della tecnologia medica?

Repubblica 1.12.10
Marco Revelli "La vita precaria ci fa diventare un Paese cattivo"
intervista di Luciana Sica


L´intervista/ Marco Revelli racconta il suo nuovo saggio È un´analisi sullo stato di sofferenza economica che mina il tessuto sociale
"L´impoverimento riguarda anche il ceto medio e i giovani senza più prospettive"
"Tra frustrazioni risentimenti e crisi d´identità ormai dilaga l´invidia sociale"

Sono i lavoratori del ceto medio e i giovani, i nuovi poveri in Italia. La situazione è peggiorata per tutti, più grave che all´inizio degli anni Ottanta quando si contavano sei milioni di persone in condizioni di indigenza. Oggi non soltanto sono almeno due milioni in più ma – secondo i dati Istat del 2008 – gli italiani messi ko da una spesa imprevista di settecento euro sono diciannove milioni, più di un terzo della popolazione. Proprio noi messi così male, noi che apparteniamo al "club dei grandi"?
È un ritratto dell´Italia reale, stridente nell´asprezza dei numeri con il racconto "apologetico" del potere, Poveri, noi, il breve saggio di Marco Revelli in uscita oggi da Einaudi (pagg. 128, euro 10). Il politologo, alla guida negli ultimi tre anni della Commissione d´indagine sull´esclusione sociale, racconta un Bel Paese più povero e molto più cattivo. Usa una metafora: come Gregor Samsa, il protagonista del celebre racconto di Kafka, anche noi un giorno ci siamo svegliati e ci siamo ritrovati irriconoscibili. Non solo delle canaglie con gli "ultimi" della piramide sociale che è meglio spingere sempre più in basso, meglio ancora se "fuori". Ormai con un´inedita ferocia trattiamo un po´ tutti gli "altri", quelli che per le ragioni più svariate stanno peggio di noi –negli ambienti di lavoro come anche in famiglia.
Professor Revelli, lei fa dubitare delle "magnifiche sorti e progressive" di questo Paese così pieno di simboli di un´opulenza anche ostentata. Non sarà un catastrofista?
«Sono i numeri e i fatti, le statistiche e le storie di cronaca che denunciano vistosamente l´estrema fragilità della nostra struttura economica, sociale e anche morale. Non solo non siamo in crescita, ma su un piano che inclina pericolosamente verso l´arretratezza. Viviamo una condizione generalizzata di malessere che disgrega il tessuto sociale, producendo una rottura a catena delle relazioni, dei legami, dei meccanismi più elementari della solidarietà. Gli effetti sono gravissimi sulla qualità e sulle prospettive della nostra democrazia».
La crisi morde anche sulle fasce finora considerate relativamente "forti" del mercato del lavoro: sul ceto medio. Chi sono questi nuovi poveri?
«Sono figure sociali estranee alla "cultura della povertà" che – per stile di vita, interessi, amicizie, rapporti professionali, modelli famigliari – appartengono a tutti gli effetti a una middle class che si considerava "garantita" contro il rischio del declassamento e a maggior ragione dell´impoverimento».
Faccia degli esempi.
«C´è l´ingegnere dell´Eutelia (ex Olivetti) ad altissimo livello di professionalità che contava su un reddito medio-alto e si ritrova "messo in mobilità". Ci sono i tanti impiegati delle industrie, i "quadri" tecnici d´improvviso privi di consulenze, i piccoli e medi commercianti schiacciati dalla grande distribuzione. Tutti fino all´altro giorno sicuri del proprio tenore di vita, e ora in grave affanno. E poi ci sono le donne, anche laureate e con una posizione professionale di tutto rispetto, costrette a cambiare radicalmente vita se si ritrovano sole – dopo una separazione, il che è molto frequente. Sono donne che spesso hanno figli, pagano una baby sitter, e magari anche il mutuo o le rate dell´auto... Non saranno "tecnicamente" povere, ma la loro è una condizione difficile, per quanto in genere dissimulata».
Sono invece tutt´altro che poveri "occulti" i giovani, derubati del presente e del futuro. Lei scrive che sono stati "massacrati". Non teme che l´espressione sia troppo forte?
«No, perché sono proprio loro le vittime sacrificali del declino del nostro Paese. Qui parlano i numeri: l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. La scelta di puntare esclusivamente sulla cassa integrazione ha aperto un ombrello sui padri, ma lasciando fuori i figli, licenziabili con facilità e a costo zero. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
C´è poi lo scandalo della povertà delle famiglie numerose, il 40 per cento concentrate nel Sud. Quanti sono in Italia i bambini che oggi non hanno niente e domani saranno degli adulti a rischio?
«Il Paese del Family Day ha il triste privilegio di avere il tasso più alto di povertà minorile dell´Unione europea. A inchiodarci a un 25 per cento è Eurostat: come dire che un minorenne su quattro vive in una famiglia molto disagiata, e che in questo Paese fare più di due figli è una maledizione».
Cosa ci sbattono in faccia – sgradevolmente – le statistiche dei poveri?
«La realtà di un Paese che arranca e l´illusionismo allucinatorio di un Paese virtuale da piani alti. In mezzo, tra le punte della forbice, trovano terreno fertile le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali, le solitudini e le crisi d´identità che hanno sfregiato l´antropologia sociale italiana. L´indurimento del carattere nazionale e la diffusione dell´invidia come sentimento collettivo. L´intolleranza per le fragilità dei deboli, la tolleranza per i vizi dei potenti. Tutto il repertorio d´ingredienti che hanno nutrito le fiammate populiste, il "tribalismo territoriale" come forma di risarcimento, ma anche le più silenziose ondate di "esodo" dalla politica e dallo spazio pubblico».
Con quali effetti sulla qualità della democrazia italiana?
«I principi democratici vengono profondamente corrosi in un Paese dove cade la speranza nei meccanismi di redistribuzione del reddito e sembra impossibile attingere alla ricchezza dei pochi fortunati, dove chi è povero è destinato a rimanere povero e una parte consistente della popolazione cessa di considerare pubblicamente garantita la propria aspirazione a una vita degna. L´individuo insicuro della propria posizione e timoroso del proprio fallimento chiede al potere protezione e offre al potere fedeltà. Oggi questo scambio perverso riempie il vuoto lasciato dai diritti, ma né la discrezionalità dei diversi titolari dei poteri né la dedizione dei servi appartengono allo statuto della democrazia. Senza un segnale netto di alt a questa deriva, che implica un confronto duro con le attuali classi dirigenti, si rischia l´abdicazione al proprio status di cittadino e un ritorno alla passività del suddito».

l’Unità 1.12.10
Usa, l’illusione di essere i primi
Dalle carte non più segrete emerge come Washington sia ancora prigioniera del mito della propria preminenza. Ma sembra che nel mondo questa prerogativa sia riconosciuta loro sempre di meno
di Giuseppe Arlacchi


L’impatto politico di    Wikileaks c’è, ma non sta nel “gossip” diplomatico sulle magagne e sui tic dei potenti. I rapporti tra gli Stati Uniti e l’Onu, per esempio, saranno influenzati negativamente dalla conferma dello spionaggio sistematico effettuato per ordine della signora Clinton contro i dirigenti dell’organizzazione.
Spionaggio anomalo, perchè fatto non solo dai professionisti ma anche dai diplomatici Usa accreditati presso il Palazzo di Vetro, e richiesti di rilevare dati biometrici, numeri di carte di credito e di conti bancari, e quant’altro possa essere utile per ricattare, imbarazzare, minacciare chiunque voglia deviare dalle linee tracciate dal Grande Fratello.
È una vecchia storia, che si sperava fosse morta, e invece è lì, mantenuta in vita dall’amministrazione Obama. Chi scrive è stato una vittima delle attenzioni dell’intelligence anglo-americana, come del resto Kofi Annan e vari altri esponenti di vertice non disposti ad allinearsi sempre e comunque alle politiche Usa.
Molti avevano pensato che i tempi nei quali un neo-con tra i più arroganti, Paul Wolfowitz, osava ordinare alla Cia un’indagine illegale contro Hans Blix e Mohammad ElBaradei –gli ispettori Onu sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein, che si erano rifiutati di mettersi al servizio dei piani di invasione dell’Iraq– fossero finiti.
E dobbiamo ringraziare Wikileaks per avere di nuovo sollevato il coperchio di un andazzo intollerabile.
I documenti di Wikileaks confermano i cospicui finanziamenti ricevuti negli ultimi anni dai Talebani e da altri gruppi fondamentalisti da parte dei paesi della penisola arabica alleati degli Stati Uniti. Il peso politico di questo
fatto è molto grande. Esso toglie plausibilità alla motivazione principale dell’invasione e dell’occupazione militare dell’Afghanistan.
Il governo americano ha attaccato l’Afghanistan con la motivazione ufficiale della lotta al terrorismo di Al Queda e dei soci Talebani pur essendo al corrente che il loro maggior canale di finanziamento era esterno al paese. Ed ha continuato imperterrito la guerra anche dopo il dislocamento dei gruppi di Al Queda in Pakistan, senza intervenire sulle fonti saudite e simili di finanziamento.
Non è difficile allora concludere che la spinta ad invadere l’Afghanistan è nata più dalla necessità del complesso militare-industriale americano di fare la guerra a un paese debole, che dalla genuina volontà di combattere autori e complici dell’11 settembre. Quindici su diciannove dei quali –come si è presto scopertonon erano talebani né afghani ma sauditi.
È vero che i materiali Wikileaks sono opera per la maggior parte di diplomatici di rango medio basso che si soffermano talvolta su pettegolezzi e fatti di scarsa rilevanza politica. Ma dai giudizi sui paesi amici traspare comunque una visione negativa e paranoide del mondo, tipica di un impero in declino. Un impero che non crede più alla propria autorità morale, e che affida le sue chances quasi esclusivamente allo hard power: la forza militare, la minaccia, l’intimidazione e il ricatto dei suoi apparati di sicurezza contro tutti, amici inclusi.
Occorrerà un po’ di tempo per leggere bene tutti i documenti, e fare grazie ad essi la storia dell’oggi senza aspettare i 25-30 anni di prammatica. Ma balza subito agli occhi, da quanto già pubblicato, la cecità del personale diplomatico americano verso le grandi forze della distensione e della pace.
Tutto ciò che non è realpolitik, coercizione bruta, sembra non interessargli. Da qui la clamorosa incomprensione della svolta non aggressiva della politica estera della Turchia, la strategia dello “zero problems” con i vicini e dell’amicizia con le potenze asiatiche.
Da qui l’errore di considerare l’Iran come un paese da attaccare, la Russia come un’entità ancora ostile, e l’Unione europea come un mazzo di smidollati. Senza rendersi conto che Cina, India, Brasile, Unione Europea e la stessa Russia si stanno affermando (o riaffermando) sulla scena globale proprio in virtù del fatto di non seguire la strada americana dello hard power.
È questo l’aspetto più preoccupante delle carte Wikileaks. La classe dirigente americana, di cui il personale diplomatico è espressione, ha perso la fiducia nella capacità di guidare il mondo attraverso la superiorità del suo progetto etico-politico.
Questa gente crede ancora di rappresentare il governo mondiale, e non si è accorta che ormai quasi più nessuno le riconosce questa prerogativa. Governo di cosa, quando l’unico strumento che sembra rimasto nelle loro mani è la delinquenza dei loro apparati di intelligence e l’impronta del loro potere militare?
Queste carte, ed i sentimenti che le animano, significano veramente che siamo entrati nell’epoca post-americana.

il Fatto 1.12.10
Al mercato della disperazione i bimbi haitiani diventano merce
Venduti dalle famiglie, rapiti dai trafficanti
di Maurizio Chierici


Cronaca di una domenica: quando gli haitiani provavano a votare. Signori che hanno fretta attraversano il confine con due bambini per mano o un piccolo che ciondola fra le braccia. Vanno e vengono; non si fermano mai. Nessuno si incuriosisce per sapere dove li portano. Non è successo in questi giorni. È il ricordo di tre anni fa. Ma la voce sconsolata di un operatore umanitario racconta, ieri, al telefono, che “il commercio” prospera più che mai. Haiti esporta bambini destinati chissà dove e chissà a chi. Forse famiglie senza figli, ma il sospetto di una schiavitù impronunciabile accompagna le parole di chi non sa come fermare il traffico dell’infanzia.
DOMENICA HAITI ha votato. Le file erano lunghissime davanti ai seggi, scuole malandate, tettoie che non riparano dalle piogge. Cancelli di ferro chiudono il ponte che scavalca il rio Ma-sacre: segna la frontiera che divide Juanaméndez da Dajabon; Haiti da Santo Domingo. È lunga 380 chilometri e le grate appartengono a chi fa finta di fermare, ma non ferma niente. Dieci metri sotto, la gente attraversa lentamente con l’acqua alle ginocchia. E le guardie guardano, fumando. Non provano a fermarli: è il confine più poroso del mondo. Nella sponda domenicana un arco e l’enorme tettoia della dogana accolgono i viaggiatori disciplinati. Nessuno apre le borse. Poliziotti dei due paesi allargano la mano: svelti, passate. Quando gli sguardi furtivi fanno sospettare qualcosa, un dollaro e via. Lunedì e venerdì i doganieri riposano: cancelli spalancati per riunire i due mercati delle città che il fiume separa. Più o meno le stesse facce, con sfumature diverse: nero blu gli haitiani, nero latte i domenicani. L’isola che raccoglie i due paesi si divide così. Oltre la dogana si apre la superstrada che corre verso Santo Domingo, capitale delle vacanze. Ogni venti chilometri sbarramenti di polizia: adesso è la paura del colera ma da sempre è la paura dei clandestini haitiani, senza nome, senza diritti, braccia destinate alle campagne-lager del rum Bacardi o del tabacco Davidoff: un milione di anime. Ecco perché le polizie si appostano per frenare i trafficanti dell’innocenza. E le mance diventano dieci dollari a clandestino . Mani che penzolano dai finestrini, mani che si allargano nel gesto di chi lascia scappare. Dopo terremoto e uragano, 7700 bambini sono stati portatati via da mezzani senza nome. Li pescano davanti alle rovine o fra le tende degli accampamenti dove i transfughi dalle macerie aspettano che i paesi più o meno felici si ricordino di loro. Bambini venduti da madri troppo sole e con troppi figli da sfamare. Li affidano a facce sconosciute sperando nel paradiso promesso da trafficanti che hanno sempre fretta. Subito dopo l’uragano di due mesi fa 950 bambini sono stati venduti e portati via seminando ad ogni passo mance da tariffario ormai istituzionale. Soldi alle famiglie sconvolte dalla separazione, soldi al doganiere haitiano, al doganiere domenicano, ai padroni di case compiacenti dove li spogliano dagli stracci per infilare jeans o sottane colorate, nella finzione del trasformare le prede in piccoli vacanzieri con famiglia: alla sera tornano nella capitale.
ORGANIZZAZIONI umanitarie, volontari e missionari cattolici e di ogni confessione provano a fermare questa violenza, ma la rete è solida, l’omertà collaudata, la corruzione bene oliata. Bambini, uomini e ragazze sono le ultime refurtive che i contrabbandieri trafugano dal deserto di Haiti. Compra-vendita che non è un mercato improvvisato dopo le tragedie; è il mercato collaudato dalla disperazione impossibile da consolare. Adesso, anche il colera. Quando l’Organizzazione Mondiale dalla Sanità è tornata a Port au-Prince dopo essere stata espulsa da militari e uomini forti, chi dirigeva medici e infermieri non ha nascosto la disperazione. Da tempo immemorabile migliaia di baracche crescevano su immondizie mai raccolte. Impossibile stabilire quali virus erano all’origine di una mortalità che superava i numeri africani. Vita media sotto i 50 anni e il 70 per cento dei 10 milioni di abitanti vive con un euro al giorno.
QUANDO UN BAMBINO compie 5 anni è a prova di pallottola perchè la mortalità infantile resta la catastrofe impossibile da definire. Crescono senza acqua, senza elettricità, analfabeti al 70 per cento. L’Aids prolifera. E allora meglio venderli, che forse ce la fanno a diventare adulti. Nella classifiche improbabili dei paesi civilizzati, Port au-Prince è la capitale del penultimo paese del mondo. Solo il Bangladesh sembra peggio, ma da un po’ di tempo si è smesso di fare i conti oppure i conti continuano e manca il coraggio di far sapere il risultato. Bambini e adolescenti rubati non solo per rallegrare dei vecchi signori dal sangue stanco. Com’é difficile riportare i racconti di chi combatte il traffico. Non tutti finiscono nei registri delle agenzie che, a Santo Domingo, distribuiscono le immagini dei piccoli alle famiglie troppo sole del “nostro” mondo. Una parte delle bambine è subito rinchiusa in piccoli motel attorno a Dajabon, nella Repubblica Dominicana. Un missionario battista americano racconta dei loro pianti che arrivano in strada. E la polizia? Non vede e non sente. “Tutti sanno chi sono i trafficanti e dove nascondono i bambini: polizia, autorità, osservatori domenicani e haitiani. Non se la sentono o non possono parlare”. Al telefono le parole del gesuita Regino Martinez, direttore della fondazione Solidarietà lungo la Frontiera: un sussurro sconsolato. “Le autorità fanno finta di non vedere per non perdere i soldi che finiscono nelle loro tasche. Non vogliono rinunciare alla bella vita”. E il traffico dei bambini continua.

Corriere della Sera 1.12.10
Leopardi, un uomo verso l’infinito
Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
di Giorgio Montefoschi


Il cuore, la mente, il corpo e il desiderio di andare oltre il limite
Da sempre, in tutti i suoi libri sugli scrittori, Pietro Citati è stato il «secondo» poeta o il «secondo» romanziere: il lettore che — come pensava Leopardi — legge un testo quasi lo avesse scritto lui, aggiungendo quello che manca, integrando, rendendo manifesto quello che il testo stesso nasconde. In questo suo ultimo libro, Leopardi (Mondadori, pagine 437, € 22), dedicato al poeta di Recanati (un libro che tutti quelli che amano e conoscono Leopardi dovrebbero leggere per poterlo conoscere e amare di più), Citati, con una furia, una passione e una umile dedizione difficili da trovare nei nostri giorni distratti dalle non-vicende della letteratura, ha superato se stesso. Perché, all’interno di una situazione carceraria terribile (quante volte corre nelle sue pagine questo aggettivo!), è riuscito a creare, o a portare alla luce, o a muovere, quello che di regola succede nei romanzi d’avventura. E cioè: l’avventura. E l’epos.
Il carcere è quello in cui Leopardi ha trascorso la sua breve e disgraziata vita: la famiglia ossessiva, il mondo chiuso di Recanati (che Citati non esita a definire «la peggiore incarnazione del male»), la malattia devastante, la sciagura del proprio corpo deforme ridotto a essere, negli ultimi anni tormentati dalla cecità e dalla impossibilità di leggere, un «tronco che sente e pena». L’avventura non è altro che l’avventura della meravigliosa mente di Leopardi e del suo cuore: essendo, la mente, quella che lo sospinge nella inesausta costruzione di un sistema del pensiero che ha l’ambizione di comprendere il Tutto e il mistero; laddove il cuore è il riparo nel quale l’anima precipita e si rifugia, nutrendosi delle sue «molli e morbide sensazioni», dopo lo scacco dell’Infinito, il rifugio nel quale, dopo il Vuoto e il Nulla, riappare la memoria (dolorosa, poiché perduta anche quella).
C’è un qualcosa di veramente maestoso (come nell’epos) e di veramente «tremendo», in questo conflitto inesauribile e continuamente contraddetto che Citati descrive: nella Resurrezione che è negata dal pensiero e risorge nel cuore; nella impresa impossibile di cogliere almeno «una goccia di infinito puro, senza che nulla di estraneo la contamini» (una impresa, scrive Citati, simile a quella di uno che «cercasse di immaginare Dio al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di ogni numero: un punto fermo e invisibile nel cielo»); nella volontà caparbia (e inevitabilmente contraddittoria) di dare esistenza solo ed esclusivamente al Nulla; nell’odio furioso che il poeta indirizza a se stesso, nel desiderio di autodistruggersi e abbandonarsi all’unica quiete possibile che è la quiete della morte, e insieme nel perduto, inconsolabile rinascere alla vita: segnalata dal tocco di un orologio, dal chiarore di neve in una stanza.
Il carcere dell’esistenza terrena, in una natura — dalla quale l’Età dell’Oro è scomparsa per sempre — che all’uomo è soltanto nemica e lo fissa muta semmai, di lontano, non garantisce altro che distruzione, infelicità e morte. Lo sforzo prodigioso del pensiero che contempla lo spettacolo tragico dell’universo e delle singole vite, e nel medesimo tempo cerca l’Infinito, è destinato al fallimento e si risolve in un fallimento. Il cuore, rappresentato dagli ondeggiamenti dell’anima che, dallo scacco dell’Infinito, precipita nel tempo — un viso, il suono di una voce, il canto di un uccello — non conosce che illusioni.
Tuttavia, nessuno di questi tre elementi del dramma (il carcere della vita, la mente, il cuore) avrebbe quella potenza dinamica che letteralmente lo schiaccia nell’anima di chi legge, se non ci fosse un quarto elemento a chiudere in modo inesorabile la prigione. Questo elemento, per dirla in parole semplici, è il limite. Il vero agente di ogni dramma che si svolge sulla terra. Ed è il limite che ci impedisce di vedere e di sapere (poiché il «culmine di ogni sapere è il riconoscere l’inutilità della ragione e di ogni filosofia»); il limite del ricordo che non si fa presente; il limite che contiene ogni parola e però ci garantisce che al di là di ogni al di là esiste un altrove.

Corriere della Sera 1.12.10
«Riconoscere i limiti della ragione umana» La lezione di Pascal
Genio della scienza, paladino della fede. La scommessa su Dio e il valore del Vangelo
di Dario Antiseri


«C’era un uomo che a dodici anni, con delle sbarre e dei tondi, aveva creato le matematiche, che a sedici aveva fatto il più dotto trattato sulle coniche che si fosse visto dall’antichità; che a diciannove ridusse in una macchina una scienza che esiste tutt’intera nell’intelletto; che a ventidue anni dimostrò i fenomeni dell’aria e debellò uno dei grandi errori dell’antica fisica; a quell’età in cui gli altri uomini incominciano appena a crescere, avendo compiuto il ciclo delle scienze umane, si avvide del loro nulla e rivolse i suoi pensieri alla religione; che da quel momento fino alla morte, giunto al trentanovesimo anno, sempre infermo e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, diede il modello della più perfetta arguzia come del ragionamento più forte; che, infine, nei brevi intervalli dei suoi mali, risolvette per distrazione uno dei più alti problemi della geometria, e gettò sulla carta dei pensieri che hanno tanto del Dio quanto dell’uomo: quello spaventoso genio si chiamava Blaise Pascal». Così René de Chateaubriand.
Dio e l’uomo. E il Dio di Pascal non è «il Dio dei filosofi e dei sapienti», ma è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». Contrario a Cartesio «inutile e incerto», lontano dalla illusoria presunzione razionalistica degli Scolastici, Pascal tiene distinta la sfera della ragione da quella della fede: «La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento. (...) La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio». D’altro canto, «perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria. (...) E chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?». La corruzione della natura umana e l’opera redentrice di Gesù Cristo: questi, dice Pascal, sono i due soli principi della fede cristiana. In Cristo scopriamo Dio e, davanti a Lui, non copriamo la nostra miseria. L’uomo non è un costruttore di senso, è un mendicante di senso: «È bene sentirsi stanchi e affaticati dell’inutile ricerca del vero bene, al fine di tendere le mani al Liberatore».
Sull’esistenza o non esistenza di Dio la ragione tace, «non può determinare nulla», e tuttavia la ragione può mostrare che scegliere Dio è tutt’altro che follia. Ed è qui che Pascal innesca il grande tema della «scommessa»: «Scommettere bisogna: non è una cosa che dipende dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? (...) Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare che Egli esiste».
Se Dio non scende nell’animo umano sulla scala dei nostri sillogismi, si dà anche che tutti i nostri «lumi» non sono in grado di farci conoscere la vera giustizia: «Nulla, in base alla pura ragione, è per sé giusto. (...) Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche. (...) Singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Nel campo dell’etica la ragione si lascia piegare per ogni verso. E, difatti, è facile constatare che «il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose». Ma, allora, dov’è che la morale potrà trovare il suo porto? Lo trova — dice Pascal — nella fede: la vera giustizia è quella «secondo a Dio piacque di rivelarcela». La vera giustizia è, dunque, la norma evangelica: «Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero né la giustizia». Una soluzione, questa, che — se da una parte spinge il non credente a riflettere, in un campo dove la logica non aiuta, su quanto l’Occidente deve al messaggio antropologico ed etico del Cristianesimo —, dall’altra pone il credente davanti ad un ineludibile interrogativo: il cristiano ciò che è Bene e ciò che è Male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? Da quale ragione?
«Il più grande scrittore cristiano, più grande dello stesso Newman»: così T.S. Eliot ha definito Pascal. Ma intanto: Pascal è un «fideista» che umilia la ragione, o è piuttosto un «iperrazionalista» che ha messo e pone in guardia contro gli abusi della ragione?

Corriere Della Sera 1.12.10
1792, il primo appello alla parità tra i sessi
La rivolta di Mary: vita «scandalosa» di una donna libera
Wollstonecraft, uno spirito ribelle
di Maria Laura Rodotà


Mary Wollstonecraft nacque a Londra nel 1759, morì di parto nel 1798, e scrisse la Rivendicazione dei diritti della donna. Che per un secolo e mezzo fu libro trascurato — all’inizio fu deriso, lei fu a lungo nota soprattutto per la sua vita ritenuta immoralissima — ma che negli anni Sessanta del XX secolo venne rivalutato come testo precursore poi fondante del femminismo. A Vindication of the Rights of Woman, secondo molti studiosi/e, ha ancora per molti aspetti un approccio radicale; e analizza la condizione delle donne in una società governata dal mercato e dal profitto, in cui le figure femminili diventano merce di scambio e rappresentanza. E molti suoi giudizi sono abrasivi, e attuali. Uno per tutti: «Quanto è volgare l’insulto di chi ci raccomanda di diventare solo graziosi animaletti domestici?». Lo è, tuttora. Anche se il percorso esistenziale di molte donne intelligenti è un po’ più facile di quello di Wollstonecraft.
Scampata a una vita dickensiana grazie allo studio, alla scrittura, alla determinazione, all’anticonformismo. Seconda dei sette figli di un padre scialacquatore, studiò gli antichi, la Bibbia, Shakespeare e Milton con l’aiuto di un pastore amico di famiglia e di sua moglie. Priva di mezzi, lavorò come dama di compagnia, maestra, governante. Quando tornò a Londra e fondò una piccola scuola, entrò in contatto con la comunità dei Dissenzienti, pensatori radicali riuniti intorno al suo futuro editore e finanziatore Joseph Johnson. Tra loro c’erano Thomas Paine, William Blake, William Goodwin, e Heinrich Füssli: uno scrittore e artista sposato con cui Wollstonecraft ebbe una relazione. Fu l’inizio della sua vita scandalosa; pur di stare vicino a Füssli, lei propose alla di lui moglie una convivenza a tre. La giovane Mary era già un’autrice originale: dei Thoughts on the Education of Daughters, «Pensieri sull’educazione delle figlie», e di Mary, a Fiction, romanzo autobiografico che influenzò il movimento romantico. Lavorando con Johnson si appassionò agli illuministi francesi. Rousseau però non le piacque per niente. Nella Vindication lo attaccherà perchè nemico delle donne indipendenti, che vorrebbe la donna come «una schiava tutta civetteria per diventare una compagna più dolce per l’uomo ogni volta che questi desideri svagarsi. Si spinge addirittura ad affermare che… per ciò che concerne il carattere femminile, la virtù più importante è l’ubbidienza... Che sciocchezza!».
Intanto, nel 1789, iniziava la Rivoluzione francese. E il lavoro di polemista di Wollstonecraft. Rispose alle Reflections on the Revolution in France del conservatore Edmund Burke con A Vindication of the Rights of Men, uno dei pamphlet sui moderni diritti civili più letti in Inghilterra all’epoca. Tre anni dopo andò a Parigi, dove conobbe l’americano Gordon Imlay, visse con lui, in seguito ebbe una figlia, fu lasciata, tentò due volte il suicidio. Ma la trentenne appassionata, emotiva, un po’ masochista aveva già, nel 1792, pubblicato il suo capolavoro, la Rivendicazione. «Chi ha reso l’uomo unico giudice, se la donna condivide con lui il dono della ragione?», scriveva. Le donne dovevano coltivarlo. Dovevano poter studiare, ed essere considerate per il loro carattere e le loro conoscenze, non per l’aspetto fisico. Dovevano imparare dei mestieri, per potersi mantenere se rimanevano vedove e non doversi sposare o risposare per necessità. Dovevano interessarsi di politica, e chiedere piena cittadinanza. Wollostonecraft non teorizzava la totale parità tra i sessi. Scrive: «Dalla costituzione fisica, gli uomini sembrano essere stati concepiti dalla Provvidenza per raggiungere un grado più elevato di valore». Ma insisteva sull’eguaglianza morale.
Wollstonecraft consigliava poi di fondare i matrimoni più sull’amicizia che sull’attrazione fisica. E (anche per questo alcune la considerano una madre del «pensiero della differenza») di partorire con donne levatrici invece che con medici maschi. La seconda volta non ci riuscì. Il parto della figlia concepita con William Goodwin, che la sposò già incinta e fu poi il suo indiscreto biografo, fu difficile e mal seguito. Morì dopo dieci giorni di febbre puerperale. Sua figlia Mary Wollstonecraft Goodwin, moglie del poeta Shelley, scrisse il romanzo Frankenstein.

Corriere della Sera 1.12.10
Europa, Religioni e biotecnologie
Il no ai dogmi unisce tutti


Sull’alleanza tra tecnologia e scienza si gioca una partita decisiva per la crescita economica e sociale dell’Europa, per il suo progetto politico, per la leadership europea nel mondo. L’Eurobarometro misura periodicamente cosa pensano i cittadini delle nuove tecnologie dell’ambiente, dell’energia, della vita. L’ultimo Rapporto dell’Eurobarometro rileva l’ottimismo degli europei per le biotecnologie e la loro fiducia nelle decisioni pubbliche, ma anche l’ignoranza sulle nanotecnologie, le riserve sul nucleare e sull’etica della ricerca e i forti dubbi sugli Ogm.
Pensiamo spesso che un’etica pubblica condivisa sia resa impossibile dall’eterno conflitto tra verità di fede e verità scientifica. Invece, il Rapporto non attesta grandi differenze nella percezione delle biotecnologie tra chi crede e chi non crede, tra cristiani e non cristiani. Gli islamici sono i meno ottimisti, i non religiosi sono i più ottimisti, ma le distanze sono minime, come anche tra protestanti, cattolici e ortodossi. Maggiori sono gli scarti sulla ricerca su cellule staminali embrionali, con ancora ai due poli opposti i musulmani, ostili per il 65%, e i non religiosi, favorevoli per il 64%. Se poi si chiede agli europei chi debba prevalere tra scienza e religione, l’appartenenza confessionale non conta più. I musulmani si dividono (57% preferisce la scienza), come i cattolici e i non religiosi (in entrambe le fila, il 55% antepone la scienza alla fede). Si inverte la posizione tra i protestanti, non meno divisi al loro interno, per il 57% dei quali l’etica deve prevalere sulla scienza. Analogamente si dividono i credenti meno praticanti e quelli più praticanti, il quasi 50% dei quali antepone la scienza alla fede.
Sulle biotecnologie, gli europei non ubbidiscono ai dogmi, ma si interrogano e interrogano. Le chiese stesse preferiscono studiare e orientare, come ha fatto la Pontificia Accademia delle Scienze nel 2009 sugli Ogm. La fede alimenta il dibattito e rifiuta le barricate. È la forza di un’Europa che vuole discutere di biotecnologie senza guerre di religione.

Corriere della Sera
Test per immigrati e italiani somari
di Gian Antonio Stella


Più che giusto che i «foresti» conoscano la nostra lingua, però...

«Test italiano per gli immigrati», esulta la Padania. E sotto il titolone che domina la prima pagina spiega: «Al via dal 9 dicembre il decreto firmato dai ministri Maroni Gelmini: permesso di soggiorno solo a chi dimostra di conoscere la nostra lingua. Il principio è lo stesso che è contenuto nel pacchetto sicurezza».
Obiezioni? No. Certo, questo tipo di test fu usato in America e altrove «contro» i nostri nonni. Al punto che lo «scienziato» Arthur Sweeny, nel saggio Immigrati mentalmente inferiori — Test mentali per immigrati pubblicato da North American Revue nel numero di maggio 1922, se ne servì per teorizzare l’incapacità degli italiani di stare al passo con gli altri stranieri arrivati negli States: «Non abbiamo spazio in questo Paese per "l’uomo con la zappa", sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello». Nonostante il rischio che qualcuno se ne serva per prepotenze razziste, però, l’obbligo per chi viene a vivere in Italia di conoscere l’italiano non è affatto sbagliato.
Anzi, al di là della questione di principio (chi viene qua deve integrarsi: per il bene nostro, suo e dei suoi figli) perfino i più accaniti nemici di ogni regolamentazione del fenomeno immigratorio devono riconoscere che un filtro come questo può aiutare ad esempio a spezzare il cerchio infame con cui certi mariti riducono l e mogli i n schiavitù domestica o certi padroni cinesi riducono in schiavitù gli immigrati più poveri in tanti laboratori clandestini. Conoscere la lingua del Paese in cui si vive è essenziale per uscire e rompere l’isolamento.
Detto questo, una domanda: chi li preparerà, quei test per valutare l’italiano degli immigrati? Qualche burocrate di quelli che scrivono «obliterare» invece che timbrare o sostengono che «il treno non "disimpegna" servizio di prima classe»? Ne rideva già 45 anni fa Italo Calvino spiegando che il cittadino dichiarava «stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa...» e il brigadiere verbalizzava: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico...».
Li preparerà qualche funzionario locale? Di quelli come il segretario comunale di Ariano Irpino che usa parole come «meridianamente epifanica» o «devozione al culto del formalismo idealizzato come un rifugio onirico»? Scelga bene, il ministro Maroni. L’importante è che non affidi il compito di valutare se gli immigrati sanno l’italiano a certi amici di partito. Come il sindaco leghista di Montegrotto, Luca Claudio, che tempo fa fece scrivere polemicamente sui cartelli stradali luminosi della cittadina le seguenti parole: «Cittadini, emigrate! Vivrete meglio da immigrati in un’altro paese». Dove «un’altro» aveva l'apostrofo. Prova provata che i somari, in ortografia e grammatica, non son solo «foresti».