lunedì 6 dicembre 2010

Repubblica 6.12.10
Bersani: un governo con chi ci sta via il premier, l´instabilità colpa sua
Pannella show dal popolo viola: silenzio sulla fiducia
di Mauro Favale


ROMA - Se il problema, come comincia a dire Berlusconi, è l´instabilità durante l´emergenza economica, Pier Luigi Bersani ribatte: «È lui la causa della crisi, è lui il simbolo dell´instabilità e non vogliamo che l´Italia venga travolta dalla sua debolezza». Dunque, il segretario del Pd conferma: il premier deve andare a casa. «Andiamo in piazza San Giovanni, sabato, proprio per dire questo. E lì presenteremo le nostre proposte per rinnovare il Paese».
Il passaggio successivo al 14 dicembre è quello che Bersani ha indicato fin dall´inizio. «Io spero in un governo con tutte le forze che sono in Parlamento e che abbiano la volontà di fare un passaggio di transizione». Non l´anticipo di una coalizione futura, solo un´alleanza temporanea per «cambiare la legge elettorale - dice il leader in un´intervista al Tg2 - e fare due o tre provvedimenti per contrastare la crisi economica». Il Partito democratico, per arrivare a questo traguardo, dovrà affrontare alcuni problemi nel suo campo. L´opposizione di Vendola e Di Pietro (più tenue la seconda), desiderosi di andare subito al voto in caso di caduta del governo. «Ma Vendola - risponde senza spocchia Bersani - non è in Parlamento. Noi ci rivolgiamo ai partiti che sono nelle Camere». Bersani è convinto che il voto vada escluso: «Non parlo di elezioni perché le elezioni non ci saranno. Andare alle urne adesso significa ripetere un referendum su Berlusconi sì Berlusconi no. Perderemmo un altro giro, un´altra occasione». In più, o meglio sempre di più, Bersani considera Berlusconi «pericoloso», vede la democrazia italiana rischiare «nuovi strappi», come spiega all´Unità. «Ma senza il Pd - avverte Bersani - non c´è né l´alternativa né la transizione». Il punto però è se il suo partito, al momento giusto, avrà il coltello dalla parte del manico. Se non si aprirà un nuovo caso al suo interno.
L´atteggiamento dei radicali in vista del voto di fiducia resta misterioso. Marco Pannella parla all´assemblea del Popolo Viola a Roma. Tira fuori l´accento romano: «A´ dritto! Te vuoi sape´ cosa fanno i radicali il 14? E io nun te lo dico». Giù sfottò, insulti, gente che si alza e va via: «Ma chi l´ha invitato Pannella?». Un´uscita nella tana degli ultrà anti-berlusconiani che non scioglie i dubbi che circolano da giorni sul comportamento dei sei radicali alla Camera (eletti nelle liste del Pd) sul voto di sfiducia. Pannella ruba la scena di questa convention, a un anno dal No B day, agli altri invitati: Diliberto, Ferrando, Bonelli, Staderini e, via skype, Vendola e Di Pietro. Per il Pd Vincenzo Vita e Sandro Gozi.
Pannella arriva a mezzogiorno, cappottone lungo, sigaro acceso, lunga coda di cavallo. Aspetta due ore seduto in platea: si parla di lavoro, conflitto di interessi, legge elettorale. Alza la voce quando dal palco si propone un ritorno al Mattarellum: «Quella è stata la truffa più grande». Ascolta un sondaggio di Ipr che stima le potenzialità elettorali del Popolo viola tra l´uno e il tre per cento. Si ricordano i cablogrammi di WikiLeaks, nei quali si cita il primo No B day e le preoccupazione di Berlusconi. Poi, verso le 14, Pannella è invitato a parlare. Ma lascia tutti con un pugno di mosche.

Corriere della Sera 6.12.10
Susanna Camusso: «Precari di oggi come le donne di We want sex»
di Enrico Marro


La Camusso e il film inglese sul lavoro: la parità per cui lottare ora è un impiego a tempo indeterminato

ROMA — La risata, in sala, è tutta al femminile e immediata quando, in una delle ultime scene del film, scorrono le immagini dei telegiornali inglesi di 42 anni fa e una delle vere operaie di Dagenham fulmina così i giornalisti perplessi sulla lotta delle operaie: «Non è abitudine delle donne scioperare senza un motivo!». A Susanna Camusso la battuta piace molto, come anche alle altre dirigenti della Cgil che le fanno compagnia mentre guarda il film We want sex dell’inglese Nigel Cole ( L’Erba di Grace), che racconta lo sciopero a oltranza e la vittoria delle 187 operaie dello stabilimento Ford di Dagenham nel 1968 per ottenere la parità salariale. Ridono, Camusso e le altre, non solo perché la battuta è riuscita, come molte altre di questo film importante e divertente allo stesso tempo. Ma anche perché sintetizza felicemente lo specifico femminile della lotta sindacale: che non prevede scioperi a perdere, inutili, di bandiera.
Ed è naturale quindi che Camusso si riconosca in questa filosofia, lei che ancora negli ultimi due giorni, al direttivo della Cgil, si è sforzata di convincere la Fiom e l’ala sinistra della confederazione che lo sciopero generale si fa solo se serve, se porta risultati. Le «ragazze» di Dagenham, come amavano definirsi, li ottennero. Magari un po’ rocambolescamente e nonost a nt e q ua l c he gaffe , come quando davanti al Parlamento inglese srotolarono male il loro striscione We want sex equality e rimasero visibili solo le prime tre parole, ma li ottennero. E, ottenendoli, inconsapevolmente fecero la storia, quella della parità salariale tra uomini e donne, sancita poi nel Regno Unito da una legge del ’70.
In Italia, una volta tanto, eravamo arrivati prima. «Da noi furono le lavoratrici tessili a fare la battaglia, che in realtà già era stata lanciata durante la Resistenza nelle fabbriche del Milanese», ricorda Camusso. E nel ’56 la legge 741, che recepiva la convenzione Ilo (agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite), affermò la «parità di remunerazione tra uomini e donne». Certo, era un’uguaglianza formale mentre quella sostanziale era da conquistare e per certi versi lo è ancora. Ma il punto è che «quando una battaglia è su un principio giusto, su un diritto, non possono esserci mediazioni», dice la leader della Cgil. Una lezione valida ieri e sempre, aggiunge.
Oggi, dice Camusso, «un tema di principio per il quale lottare c’è ed è quello della fine della precarietà». Riguarda «i giovani e il loro futuro» e anche questa volta precipita nella «differenza salariale», perché il precario prende meno rispetto a un altro lavoratore che fa le stesse cose ma ha un contratto a tempo indeterminato. «Bisogna tornare ad affermare il principio che il rapporto di lavoro deve essere di regola a tempo indeterminato — dice il segretario della Cgil — e cancellare tutte quelle forme di precarizzazione figlie delle norme di questi ultimi anni, a partire dalla legge 30 (la legge Biagi, ndr) ». È una battaglia per la parità che come ieri spettava alle donne oggi tocca ai giovani. La Cgil è al loro fianco, spiega Camusso: «Come facevano le ragazze di Dagenham con le lavoratrici inglesi noi stiamo provando a dire ai nostri giovani che anche loro devono essere artefici del proprio futuro». È questo il senso della prima campagna lanciata dalla nuova leader sindacale giusto qualche settimana fa sotto lo slogan «Giovani non più disposti a tutto», che sta avendo notevole successo anche sul web. Certo, tutto questo non basta, continua Camusso. Ci vorrebbe, spiega, un ministro del Lavoro diverso da Maurizio Sacconi «magari come nel film, una Barbara Castle», il segretario di Stato per il Lavoro del governo Wilson, interpretato dalla bravissima Miranda Richardson, che prende in mano la situazione e decreta la vittoria delle ragazze di Dagenham.

Corriere della Sera 6.12.10
Pannella: deciderò all’ultimo minuto ma non vedo risposte
di Maurizio Caprara


Leader Marco Pannella, 80 anni, deciderà in extremis se far votare ai suoi 6 deputati la fiducia al governo Berlusconi

ROMA — Il patriarca dei radicali non smentisce se stesso. Mentre il governo traballa in attesa delle votazioni sulle mozioni di sfiducia, i sei deputati del suo partito aumentano di valore: potrebbero spostare l’ago della bilancia tra crisi e non crisi. Benché sia fuori da Montecitorio, Pannella, che ne ispira le mosse, viene consultato, corteggiato ed evita di scoprire del tutto le carte. «Ho incontrato nei giorni Ignazio La Russa, coordinatore del Pdl. Devo vedere Pier Luigi Bersani del Pd», racconta. «Per dialoghi sinceri, assolutamente senza nessuna trattativa», ripete. Senza sciogliere l’enigma sulla sua scelta, ma anche con uno scetticismo da tener presente. I suoi rapporti con Silvio Berlusconi sono stati alterni. Due esempi. Si va dal suo «tra noi c’è amicizia, stima e Silvio aggiunge che c’è anche dell ’ affetto » , anno 1995, a, sempre detto da lei, un giudizio del 1996 di segno opposto: «Berlusconi prende in giro la gente». Qual è lo stato attuale dei suoi rapporti con il presidente del Consiglio?
«È che Berlusconi, come spesso gli accade, si è stancato di continuare a perseguire un obiettivo. Da anni ho pubblicamente auspicato di tornare a parlarci. Ha sempre rifiutato. Ormai temo che sia troppo tardi, ma continuerò a provarci. Troppi disastri, che avrei potuto aiutarlo a scongiurare, sembrerebbero irreparabili». Quale obiettivo? Quali cose? «Il 7 aprile 1994, vinte le elezioni, Berlusconi venne da noi a dirsi convinto della "riforma americana della legge elettorale e dello Stato". Appoggiò poi le nostre richieste, anche referendarie, per separare le carriere dei magistrati, eliminare gli incarichi extragiudiziali, abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel 1999, sulla riforma della giustizia dichiarò: niente accette referendarie, la realizzerò appena sarò al governo. Undici anni fa».
Quale sarà il fixing dei vostri rapporti il 14 dicembre: dirà ai suoi deputati radicali di votare la fiducia al governo in carica, o, essendo stati eletti da indipendenti nel Pd, chiederà loro di negarla?
«Fino alla fine e fino all’ultimo minuto utile, anche durante le votazioni, cercheremo di tener presente, oltre al testo, il contesto: per almeno ridurre l’intollerabile, l’infame. Liberi fino alla fine di valutare. Insomma: niente trattativa. Coerenti nel ritenere necessario, e utile a tutti, il dialogo».
E a quali condizioni appoggerebbe il governo, in cerca di nuovi apporti dopo il distacco di Gianfranco Fini e dei suoi?
«Ad esempio, sulla giustizia e le carceri denunciamo una situazione gravissima. Si tratta, ormai, di spaventosi nuclei di Shoah, vere metastasi neonaziste nella democrazia "reale" italiana. Le loro risposte sono leghiste o dipietriste. Ho incontrato La Russa, vedrò Bersani: per cercare di convincerli».
Il paragone con la Shoah è suo, per me si è trattato di una mostruosità unica. Cercherà di convincere La Russa e Bersani fino all’ultimo secondo valido?
«Ma ormai mi riesce difficile immaginare che dalla maggioranza vengano delle risposte al livello dei problemi che incombono».
Considera compatibile con l’elettorato radicale il Berlusconi che sostiene sia meglio preferire le belle donne all’essere omosessuali?
«Le prendiamo come battute di un qualsiasi altro poveraccio. Se vuole può chiamarci come i suoi amici padani "frocio", piuttosto che gay o omosessuale. Ora dice agli studenti: meglio studiare che manifestare. Aveva proprio ragione Veronica ad ammonirlo sugli esempi e i valori che si propongono ai giovani e ai figli. Ma sembra che fosse inutile».
Pannella, lei è stato per decenni il politico più disubbidiente, con un termine abusato più «trasgressivo»: la condanna dopo aver fumato hashish per disobbedienza civile, i transessuali nei vostri congressi... Quale effetto le fa sapere che un capo di governo organizza cene che la diplomazia americana definisce «festini selvaggi»?
«Nessuno. Comunque c’è un detto popolare: se un adulto si stanca della sua vita "se ne va a puttane"».



Repubblica 6.12.10
Mario Pepe: ho indicato loro la strada di Berlusconi
"Così vado a caccia di voti radicali"
di Antonello Caporale


Ricercatore in senso proprio e in senso figurato.
«Tecnicamente perfetta la sua presentazione».
L´onorevole Mario Pepe vide spenta anni fa una promettente carriera accademica. Oggi quella sua abilità è convertita alla ricerca di voti.
«Capisco al volo se tradisci o ti tormenti».
Se fuggi o ascolti.
«Se hai necessità di un sostegno o mi fai perdere solo tempo a tampinarti».
Lei ha fiuto e sembra avere lo stesso naso di Mastella.
«Modestamente ho fatto io l´operazione con i radicali».
E´ Pepe che ha aperto la porta di Pannella e gli ha indicato la strada verso Berlusconi.
«Sono radicale, mi sento uno di loro».
Lei è berlusconiano.
«Al cento per cento, non c´è alcun dubbio».
E continuamente alla ricerca.
«Colgo olive».
Bella metafora. Ne ha raccolte molte di queste olive preziose?
«Io produco olio».
Sono ore cruciali e lei si ritira in campagna?
«Week end, poi però si riprende».
Non bisogna perdere un minuto.
«Infatti non mi fermo mai. Corro, ascolto, guardo. Amico mio, questi colleghi che dovrebbero sfiduciare il governo se la stanno facendo sotto».
Ma se hanno firmato la mozione!
«Firmato? Qualcuno l´avrà fatto per loro. Li vedo tormentati e tristi, disperati».
Eppure non si ribellano.
«Vogliono campare in pace un´altra settimana. Sa cosa succederebbe se uno di loro gridasse: la mia firma è falsa!».
Lei ha fiuto.
«Sono medico, e ho la predisposizione tipica all´ascolto».
Intercetta?
«Capto, intravedo, a volte origlio, spesso intuisco. E´ garantito: Fini non l´avrà vinta. Sconquassi in vista nella sua parte».
Coniuga scienza e sapienza.
«So stare in campo».
Ha fantasia. In campagna elettorale misurò la pressione a una famiglia intera pur di racimolare qualche voto.
«Era il 2001 e mi capitò il collegio rosso dei Colli Albani, appena fuori Roma. Andai a cercar voti tra i contadini di quelle terre, ma tutti erano comunisti. Allora mi feci coraggio».
Ecco, qui c´è tanto da riflettere per i suoi colleghi.
«Dissi al capostipite, un vecchio comunista. A lei serve un medico più di ogni altra cosa. E io sarò a disposizione. Per convincerlo misurai la pressione a lui, agli undici fratelli e ai nipoti. Un pomeriggio intero con l´apparecchio, ma grazie a quei voti...».
Lei è un mago.
«Sono gagliardo».

Corriere della Sera 6.12.10
Fistarol al Pd: al Senato mezzo gruppo può fare come me
di M. Gu.


ROMA — Bersani ha provato a trattenerlo e altrettanto ha fatto Veltroni. Maurizio Fistarol ha parlato con entrambi, ha ascoltato idee, lusinghe e forse anche profferte, ha ringraziato per «sincerità e simpatia» il segretario e il suo predecessore, ma non ha cambiato idea. Ha preso il suo bagaglio di esperienza politica — che lo ha visto per otto anni sindaco di Belluno, deputato e senatore — e, «non certo a cuor leggero», ha traslocato nel gruppo misto. Non per mettersi sul mercato dei parlamentari in vista della fiducia, quando voterà no. Ma per aderire al «nuovo polo di Fini e Casini come senatore di Verso Nord, il movimento politico che ho fondato con Massimo Cacciari e che vanta adesioni in tutte le province del Settentrione». Lo ha scritto nella lettera ai «carissimi amici» del Pd, in cui li informava che sarebbe sceso dal treno: «Ritengo che una diversa stagione, di cui il nostro Paese ha urgenza, possa nascere solo con l’iniziativa del nuovo polo che sta prendendo forma...». In onore alle sue linee guida, «coerenza e correttezza», ha informato gli ex compagni di strada di non aver contattato «un solo iscritto al Pd» per convincerlo ad aderire a Verso Nord. Adesso dovrà modificare il suo sito Internet, cancellando la voce «Democratici» e le insegne del ramoscello d’ulivo che ancora richiamano la stagione di Prodi. Di cui «Bersani è stato uno dei protagonisti meno peggiori». È il ventunesimo addio di un parlamentare al Pd e, a quanto racconta l’ormai ex coordinatore nazionale dei Forum tematici, rischia di non essere l’ultimo. «Se dovessi fare una previsione dopo le chiacchierate con i colleghi senatori, dovrei pensare che mezzo gruppo del Pd è in procinto di uscire», sorride amaro Fistarol. Uno che ama i silenzi delle cime dolomitiche e, per temperamento, non sbatte porte. La critica è forte, ma prova a esprimerla con garbo: «Il Pd non ha alcuna capacità espansiva al di fuori degli steccati della sinistra. Come si fa a pensare di andare al voto con Vendola e Di Pietro, magari rifacendo l’Unione?». Avanti il prossimo.

Repubblica 6.12.10
Sondaggio Demos-Coop
Questa povera scuola
di Ilvo Diamanti


La riforma Gelmini è solo la scintilla che ha acceso il risentimento degli studenti. Contro una scuola e un´università che funzionano sempre peggio E che li fa sentire derubati del futuro
Per l´Osservatorio sul Capitale Sociale il 70% degli italiani dice che la scuola è peggiorata
Le proteste hanno avuto un consenso maggioritario tra i cittadini

Un disagio profondo e generalizzato. Che va ben oltre i contenuti della riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo. Ecco cosa c’è al fondo della protesta degli studenti.

Il rinvio del voto al Senato, in attesa della fiducia (o della sfiducia) al governo, il prossimo 14 dicembre, non ha fermato la protesta contro la riforma dell´Università, firmata dal ministro Gelmini. In molte città, le occupazioni continuano. Nelle sedi universitarie ma anche nei licei e negli istituti superiori. Non intendiamo entrare nel merito della riforma, ma valutare il sentimento verso le politiche del governo, sull´università e sulla scuola. Parallelamente, ci interessa l´atteggiamento della popolazione nei confronti delle manifestazioni e delle polemiche che, da settimane, agitano il mondo studentesco. A questi argomenti è dedicato il sondaggio dell´Osservatorio sul Capitale Sociale di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi.
I dati suggeriscono che, al fondo della protesta, vi sia un disagio profondo e generalizzato. Che va oltre, ben oltre i contenuti e i provvedimenti previsti dalla riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico nell´insieme, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo.
Circa il 60% del campione, infatti, ritiene che negli ultimi dieci anni l´università italiana sia peggiorata. Lo stesso giudizio viene espresso dal 70% (circa) riguardo alla "scuola" nel suo complesso. In entrambi i casi, meno del 20% della popolazione sostiene il contrario. Che, cioè, scuola e università negli anni 2000 sarebbero migliorate. Metà degli italiani, peraltro, ritiene che la riforma delineata dal ministro Gelmini peggiorerà ulteriormente la situazione, un terzo che la riqualificherà.
Naturalmente, i mali del sistema scolastico hanno radici profonde e una storia molto lunga. Quanto all´università, è appena il caso di rammentare che, dalla riforma avviata dal ministro Berlinguer, alla fine degli anni Novanta (quindi da un governo di centrosinistra), è stata sottoposta a un processo di mutamento continuo e non sempre coerente. Che ha prodotto una moltiplicazione dei corsi di laurea e delle sedi assolutamente incontrollata. È da allora che gli studenti - e, in diversa misura, anche gli insegnanti - hanno cominciato a mobilitarsi. Oggi, però, il disagio ha superato il limite di guardia. E la protesta si è riprodotta per contagio, un po´ dovunque. Per ragioni che vanno oltre la riforma stessa, lo ripetiamo. Perché è diffusa e prevalente l´impressione che l´università e la scuola, nell´insieme, ma soprattutto quella pubblica, abbiano imboccato un declino senza fine e senza ritorno.
La fiducia nella scuola, negli ultimi dieci anni per questo, più che calata, è crollata: dal 69% al 53%. Sedici punti percentuali in meno. Un quarto dei consensi bruciato in un decennio. Per diverse cause e responsabilità, secondo i dati dell´Osservatorio Demos-Coop. Due su tutte: la mancanza di fondi e di investimenti (32%), lo scarso collegamento con il mondo del lavoro (22%).
In altri termini: la scuola e l´università non attirano risorse e non promuovono opportunità professionali. Anche i "baroni", secondo gli italiani, hanno le loro colpe. Ma in misura sicuramente più limitata (9%) rispetto a quanto vorrebbe la retorica del governo e del ministro. Peraltro, le responsabilità dei "baroni" appaiono ulteriormente ridotte, nel giudizio degli studenti e di coloro che hanno, in famiglia, uno o più studenti. Il che (lo dice un "barone", personalmente, senza quarti di nobiltà e con pochi poteri) appare fin troppo generoso.
Perché le colpe del corpo docente, all´Università, sono molte. Una fra tutte: non aver esercitato un controllo di qualità nel reclutamento. E nella valutazione dell´attività scientifica e didattica. Anzitutto della propria categoria. (Anche per queste ragioni, forse, oggi appaiono perlopiù silenziosi, di fronte alla riforma).
Ma ridurre il problema dell´Università - e della scuola - alla stigmatizzazione dei professori, oltre a essere ingeneroso verso coloro - e sono molti - che hanno continuato a operare con serietà e, spesso, con passione, risulta semplicistico e deviante. Basti considerare, semplicemente, le risorse pubbliche destinate all´Università e alla ricerca. Le più basse in Europa. Basti considerare che, a questo momento, mentre sta finendo il 2010, il governo non ha ancora stabilito (non si dice erogato) il finanziamento (FFO) alle Università del 2010. Non è un errore di battitura. Si tratta proprio dell´anno in corso, o meglio, tra poco: dell´anno scorso. Difficile, in queste condizioni, discutere seriamente della riforma universitaria.
A non crederci, per primi, sono gli italiani. Anche così si spiega il largo sostegno alla protesta contro la riforma Gelmini - maggioritario, nella popolazione. Espresso dal 55% degli italiani, ma dal 63%, tra coloro che hanno studenti in famiglia. E dal 69% fra gli studenti stessi. Il consenso alla protesta studentesca diventa, non a caso, quasi unanime in riferimento alla carenza di fondi alla ricerca (81%). Mentre è più circoscritto (per quanto maggioritario: 53%) riguardo alle occupazioni. È significativa, a questo proposito, la minore adesione che si osserva fra gli studenti universitari stessi. Attori della protesta, ne sono anche penalizzati. Vista la difficoltà di svolgere l´attività didattica e quindi di "studiare".
La riforma Gelmini, per queste ragioni, più che l´unico motivo della protesta giovanile, appare la miccia che ha acceso e fatto esplodere un risentimento profondo, che cova da tempo. Nelle famiglie, tra gli studenti, tra coloro che lavorano nella scuola e nell´università (in primo luogo, fra i ricercatori, categoria a esaurimento, secondo la riforma). "Risentimento" e non solo "sentimento", perché scuola e Università sono un crocevia essenziale per la vita delle persone. A cui le famiglie affidano la formazione e la "custodia" dei figli. Dove i giovani passano una parte della loro biografia sempre più lunga. Dove coltivano amicizie e relazioni. La scuola e l´università: che dovrebbero prefigurare il futuro professionale dei giovani. Non sono più in grado di svolgere questi compiti. Da tempo. E sempre meno. Abbandonate a se stesse. In particolare quelle pubbliche. Anche se solo una piccola quota di italiani vorrebbe privatizzarle maggiormente. (Come emerge dal XIII Rapporto su "Gli Italiani e lo Stato", di Demos-la Repubblica, sul prossimo numero del Venerdì). C´è questo ri-sentimento alla base della protesta e del dissenso profondo verso le politiche del governo nei confronti della scuola e dell´università.
Da ultimo: la riforma Gelmini. Non è un caso che i più reattivi non siano gli universitari, ma i liceali. Gli studenti che hanno meno di vent´anni e frequentano le superiori. Si sentono senza futuro. Una generazione sospesa. Precaria di professione. Professionisti della precarietà. Tanto più se nella scuola, nell´Università e nella ricerca si investe sempre meno. Questi studenti (secondo una recente ricerca dell´Istituto Cattaneo e della Fondazione Gramsci dell´Emilia Romagna) oggi appaiono spostati più a destra rispetto ai giovani degli anni Settanta. E, quindi, ai loro genitori. Ma, sicuramente, sono molto più incazzati di loro. A mio personale avviso, non senza qualche ragionevole ragione.

Repubblica 6.12.10
Il 66% degli universitari e il 75% dei liceali approva le manifestazioni
Pochi fondi e precariato le ragioni della protesta
Negli atenei solo una minoranza (il 3%) sottolinea la scarsa qualità dei docenti
di Luigi Ceccarini


La scuola, l´Università e la riforma Gelmini sono oggi temi al centro dell´attenzione (e della preoccupazione) degli studenti. Sono loro che hanno vissuto e subito le politiche di riforma dell´istruzione degli ultimi anni. Quando guardano al decennio passato – e ai continui interventi sui corsi di laurea nelle università o, nella scuola primaria, sul tempo pieno, sui maestri unici o prevalenti, sull´insegnamento della geografia e sui grembiuli – vedono un sostanziale peggioramento del sistema. E se guardano al futuro non ritengono che la situazione sarà migliore. Sono particolarmente arrabbiati e per questo si sono mobilitati, anche con occupazioni di grande impatto mediatico: sui tetti delle facoltà e sui monumenti nazionali di mezza Italia. Gli studenti e le famiglie con studenti, che vivono quotidianamente l´esperienza dell´istruzione pubblica, sono i più critici.
È quanto emerge dall´ultima indagine Demos-Coop, che si è concentrata sul tema proprio nei giorni in cui la riforma è in corso di approvazione in Parlamento. Il primo problema degli atenei, secondo gli studenti universitari, è il collegamento con il mondo del lavoro (38%, +16 punti percentuali rispetto alla media). Aspetto non da poco quando la precarietà e l´incertezza fanno da sfondo al presente e da prospettiva al futuro. La scarsa qualità dei docenti viene sottolineata solo da una minoranza degli universitari (3%). Anche se quasi nove su dieci ritengono che i professori andrebbero valutati e i migliori premiati. L´indagine fa osservare che il 66% degli universitari e il 75% dei liceali si ritiene d´accordo con la protesta, ben più di quanto si registra tra gli italiani (55%). Le occupazioni piacciono di più ai liceali (74%) e meno agli universitari (46%). La protesta invece per la mancanza di fondi destinati alla ricerca è ampiamente condivisa: 90% degli universitari, 84% dei liceali e 81% dei cittadini. I liceali, nell´85% dei casi, ritengono che la scuola sia peggiorata nell´ultimo decennio, ben più di quanto si registra tra gli universitari (60%) o nella popolazione (69%). Sono più critici verso la scuola, anche perché la conoscono, visto che la stanno attualmente frequentando. Per quanto riguarda l´università si osserva un comune sentire tra studenti e cittadini. In sei casi su dieci ritengono che l´accademia negli ultimi dieci anni abbia vissuto una fase di declino. Tuttavia, anche la riforma, agli occhi degli studenti e delle loro famiglie, non porterà a miglioramenti nel sistema dell´istruzione. Infatti, il 70% dei liceali ritiene che la scuola peggiorerà. Il 73% degli universitari lo pensa per gli atenei. Anche il 60% dei genitori degli studenti la vede in questo modo, sia per la scuola che per l´università.

Repubblica 6.12.10
Il razzismo del dolore
di Chiara Saraceno


C´era da aspettarselo. Quando si è saputo che un nordafricano è stato arrestato perché sospettato di aver ucciso Yara, è esploso il razzismo. Senza neppure aspettare conferme.
E tanto meno la conferma di un giudizio. Quasi un gesto liberatorio: questa volta non è "uno di noi", ma "uno di loro". Dopo Avetrana, ove una quasi coetanea di Yara è stata uccisa da zio e cugina che era andata a trovare fiduciosa, dopo Pinerolo, dove una donna è stata uccisa dall´ex amante del marito con la complicità del figlio, finalmente le cose sono tornate a posto: i cattivi sono gli altri (anche in Calabria dove sono morti sette ciclisti), doppiamente sconosciuti, perché non familiari e soprattutto perché stranieri. Una auto-rassicurazione che cerca capri espiatori su cui rovesciare l´ansia che produce l´insicurezza derivante dal non sentirsi più in controllo del territorio e delle condizioni della vita quotidiana. Non perché ci sono gli immigrati, ma perché sono cambiate molte regole del gioco, ma molti comportamenti, e molte teste, sono rimaste le stesse. Specie per quanto riguarda i comportamenti nei confronti delle donne, incluse le ragazzine.
Essere genitori oggi, specie di una figlia, è spesso fonte di ansie e paure. Non è sufficiente sapere che la maggior parte delle violenze avvengono in famiglia, da parte di familiari (italiani e no). Oggi come un tempo ogni genitore sa che una figlia femmina è più vulnerabile. Non perché sia più debole di un figlio maschio (per altro anch´esso non del tutto protetto dalle attenzioni improprie e violenze, anche da parte di insospettati, come ha segnalato il grande scandalo della pedofilia da parte di ecclesiastici). Ma perché più di un maschio è considerata preda cacciabile da parte di uomini che si credono in diritto di prendere ciò e chi desiderano. È questo timore che ha legittimato in passato la maggiore sorveglianza cui sono state sottoposte le figlie rispetto ai figli, riducendo i loro spazi di libertà, il raggio delle loro esperienze. Chiudendo in un recinto la potenziale preda, perché non si può controllare il cacciatore. Anche se non sempre neppure il recinto è un luogo sicuro, come ha dimostrato appunto l´omicidio di Avetrana ed è documentato quasi quotidianamente dalle cronache che parlano di fidanzati, mariti, fratelli che macellano le donne che per qualche ragione considerano loro proprietà.
Ogni genitore conosce il batticuore con cui aspetta il rientro dei figli, maschi o femmine che siano, ma con un pizzico di ansia in più se sono femmine. Si è stretti tra il desiderio di dare fiducia e autonomia e la consapevolezza di non potere prevedere ed evitare tutti i rischi. L´ansia rischia di diventare divorante di fronte a casi come quello di Yara: sparita in pieno giorno, mentre torna a casa, in un paese dove si conoscono tutti e dove apparentemente il controllo sociale sul territorio dovrebbe essere maggiore che in una grande città. Invece di cercare un capro espiatorio nell´immigrazione, come se il problema dell´insicurezza e della violenza riguardasse solo o prevalentemente gli immigrati, bisognerebbe riflettere sul persistere di queste condizioni di insicurezza per le donne, che costituiscono una gabbia invisibile per tutte, ma che in molti, troppi, casi tolgono la dignità e la vita.
Soprattutto, ora, mentre le speranze di ritrovare Yara viva si stanno spegnendo, sarebbe il caso di rispettare lei, la sua vita e il sorriso bambino, e la dignità dolorosa dei genitori, che non si sono offerti al circo mediatico pronto a documentarne ogni sospiro e ogni lacrima. Che si eviti la caccia agli immigrati, ma anche di fare di una tragedia l´ennesima occasione per uno spettacolo per guardoni. Niente processi e ricostruzioni in pubblico, con o senza modellini ed esperti sempre in servizio. Niente appostamenti per spiare il dolore dei familiari. Nessuna solleticazione del narcisismo più o meno ingenuo di amici e conoscenti. Sobrietà, silenzio e molta autoriflessione.

Corriere della Sera 6.12.10
Se Prometeo indica il futuro
L’attualità di un testo classico che invita a riflettere sul progresso e sui limiti della scienza
La tragedia di Eschilo tradotta e riletta da Edoardo Boncinelli
di Eva Cantarella


Prometeo, figlio del Titano Giapeto, apparteneva a una stirpe divina. Ma amava molto gli esseri umani, ai quali un giorno, dopo averlo rubato agli dèi, fece dono del fuoco: lo strumento che consentì loro di intraprendere la strada del progresso, accorciando la distanza che li separava dagli immortali. Per punirlo, Zeus lo fece incatenare a una roccia agli estremi confini del mondo, immobilizzato da catene di ferro che lo serravano agli arti e al torace, condannato a subire atroci, infiniti tormenti. Così il Titano ribelle veniva rappresentato sulla scena ateniese. Così venne rappresentato, più precisamente, quando Eschilo, attorno al 470 a.C., mise sulla scena il Prometeo incatenato (parte di una trilogia per il resto andata perduta, che comprendeva, rispettivamente prima e dopo quello «incatenato», un Prometeo portatore di fuoco e un Prometeo liberato). Dei dubbi sulla autenticità della tragedia non parleremo, non solo perché questione filologica impossibile da affrontare in questa sede, ma anche e soprattutto perché quel che qui interessa, oggi, è soprattutto il contenuto dell’opera.
Rispettando la regola della «distanza tragica», secondo la quale quel che veniva portato sulla scena doveva distaccarsi dalla particolarità, dalla specificità del presente, la storia di Prometeo induceva gli ateniesi a riflettere su un tema molto importante nella Atene che, nel V secolo a.C., aveva raggiunto il massimo del suo splendore: l’incivilimento del genere umano e le conquiste del progresso, di cui gli ateniesi andavano giustamente fieri. E che oggi, a distanza di duemilacinquecento anni, è importante come forse non è stato mai. In una bella prefazione alla nuova traduzione di Edoardo Boncinelli, (Eschilo, Prometeo incatenato. L’uomo dal mito alla vita artificiale, Editrice San Raffaele, pp. 118 euro 14), Luca Ronconi (al quale si deve una splendida messa in scena del Prometeo nel teatro greco di Siracusa, nel 2002, e successivamente al Piccolo Teatro di Milano) osserva, giustamente, che «un filo percorre tutta la tragedia: che cosa accadrà domani»? E prosegue: «Se mai un’epoca si è chiesta cosa accadrà domani, questa è la nostra. Senza per ciò cercare in questa o in altre opere del passato un rapporto diretto. Sarebbe chiudere gli occhi sulla nostra contemporaneità. No, dobbiamo guardare ai grandi testi del passato come alla luce di stelle che non ci sono più. Quello che conta è l’energia originaria. Questo il loro fascino. La sola attualità è nei nostri occhi di lettori critici». E come tali appunto, sulla scorta delle parole di Ronconi, eccoci dunque a rileggere la storia del figlio di Giapeto.
Personaggio ambiguo, astuto, preveggente (come dice il suo nome «colui che sa, che vede prima») Prometeo, lo abbiamo detto, era amico dei mortali che aveva difeso a cominciare dal momento in cui Zeus, conquistato il potere, aveva preso a distribuire doni e prerogative a tutti, senza tenere alcun conto della stirpe degli umani, che voleva addirittura sterminare mandandoli nell’Ade, per sostituirli con una nuova stirpe. Donando loro il fuoco, Prometeo non li aveva solo salvati dalla distruzione, aveva consentito loro di intraprendere il camino della civiltà: prima, essi «non conoscevano case di mattoni alla luce del sole, abitavano invece come minute formiche nei recessi oscuri delle caverne»; non conoscevano l’agricoltura, né le stelle, né i numeri e i segni dell’alfabeto; non sapevano aggiogare gli animali selvatici, interpretare i sogni, solcare i mari con le navi. Non conoscevano la medicina, non sapevano come contrastare le malattie... È Prometeo stesso a fare l’elenco delle benemerenze conquistate nei confronti dell’umanità, che si conclude con una orgogliosa rivendicazione: «Tutte le arti ( technai) dei mortali vengono da Prometeo» (vv. 442-471; 476-506).
A dimostrare l’importanza del tema, nella Atene dell’epoca, sta il suo ritorno, di lì a poco, nello splendido, primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (vv.332-375). Ma attenzione: anche se erano passati meno di trent’anni (Antigone andò in scena nel 442 a.C.), la prospettiva di Sofocle era diversa. In Eschilo, Prometeo è un eroe benefattore senza ombre. La visione eschilea del progresso è fondamentalmente ottimistica, alle origini di esso il poeta riconosce il dono di un dio: un ribelle, certo, ma pur sempre un dio. In Sofocle, invece, il rapporto tra l’essere umano e il progresso è visto in termini problematici: l’umanità ha trovato rimedio a tutto, tranne che alla morte, e «possiede, oltre ogni speranza, l’inventiva della techne, che è saggezza». Ma può prendere sia la via del bene, sia quella del male, può rivolgere la techne in due direzioni: può farne un uso giusto, ma se il suo coraggio diventa arroganza può farne un cattivo uso (vv.364-371). La civiltà e il progresso sono il frutto dell’ingegno umano. L’uomo, «la più mirabile tra quante cose mirabili esistono» (vv.333-363) guarda con orgoglio alle sue conquiste: ma sa che queste tengono in sé un pericolo. Il valore morale del progresso dipende dall’uso che l’essere umano ne fa. Il dio è scomparso. È un’etica laica, quella che Sofocle esorta i suoi concittadini a discutere, con questi versi. Un’etica che pone l’uomo davanti alla sua responsabilità. Non è un caso, certamente, che a proporci questa nuova, bella traduzione della storia di Prometeo sia uno scienziato (oltre che appassionato grecista) come Edoardo Boncinelli.

Corriere della Sera 6.12.10
Il diario pubblico del cronista Bocca
di Francesco Cevasco


Più o meno la sua ricetta è così: alzare il culo, andare, guardare, vedere, (tentare di) capire, congegnare un’idea quanto più vicina possibile a quella giusta, raccontare, spiegarsi in maniera semplice e diretta senza inutili giochi di parole (è ammesso sbagliare ma non per ideologia e/o malafede). Giorgio Bocca, a novant’anni battuti, ci regala un altro libro; sempre con la stessa ricetta ( Fratelli Coltelli, 1943-2010 L’Italia che ho conosciuto, Feltrinell i , pp. 329, 19). Sembra un’antologia dei suoi scritti che, su quegli anni, ha sparpagliato negli articoli e nei libri che ha firmato. Ma è molto di più, perché negli «snodi» che collegano un capitolo all’altro, un brano all’altro, è il Bocca di oggi che ti parla. E non lo fa per mettere le cose e le persone che ha raccontato nel contesto giusto — non c’è bisogno, va da sé — lo fa per dirti che cosa resta e non resta degli anni che hanno segnato nel bene e nel male il nostro Paese. E così la fuga a Pescara del re, all’alba del 9 settembre ’43 è dipinta «come qualcosa di peggio che una manivatoi e Thundelbolt ultimo modello, maglie, camicie, lambrusco e busti di Lenin tra fiori di plastica... la Ferrari dodici cilindri in piazza e l’amante a Correggio, il popolo lavoratore che dice "no al fazismo" e i "milioun" e magari i miliardi di tutti ’sti fenomeni».
E bum! Esplode il Sessantotto, sit-in e assemblee: «Non ero il solo a non capire. Non capivano neppure Mario Moretti e Giorgio Semeria, due futuri brigatisti rossi spettatori di quelle assemblee, a cui pareva, come a me, che far politica e preparare rivoluzioni in assemblee confuse, isteriche fosse una presa in giro di una seria volontà rivoluzionaria. A un provinciale uscito dalla guerra partigiana che era stata fatta con una selezione dei migliori, la disciplina dei militanti e queste chiacchiere in libertà, questo ondeggiare della masse, questo attivismo frenetico parevano fini a se stessi».
Al Sessantotto seguono — almeno cronologicamente — gli anni di piombo. All’inizio del terrorismo, secondo Bocca: «Un quadro preciso, una dichiarazione di guerra datata, non esistono. Esiste il fiume carsico della violenza che riemerge questa volta contro il potere statale, della borghesia d’ordine». E alla fine, nel momento della sconfitta: «I rivoluzionari hanno sempre l’argomento dei tempi lunghi, tanto lunghi che nessuno dei viventi può contestare o verificare». Un venticello in qualche modo da rivoluzione del buonsenso Bocca lo ha visto nella Lega. Qui la data bisogna scriverla: 8 giugno 1993 sulla «Repubblica»: «Ho votato per la Lega come da dichiarazioni di voto pubblicate dalla stampa, per ragioni che a me sembrano di comune buonsenso politico. Chi come me pensa che il sistema dai partiti abbia fatto il suo indecoroso tempo, chi è convinto che bisogna arrivare presto a una nuova legge elettorale, a una nuova Costituzione, a facce nuove, in pratica a Milano non aveva scelta». Una Lega «rozza», con «comportamenti da mucchio selvaggio», con un leader dalla «navigazione spesso contraddittoria», ma che, per essersi saputa ribellare alla corruzione della prima repubblica, fa (fece) dire a Bocca: «Grazie barbari».
Bastiancontrario per settant’anni di giornalismo già compiuti, il Vecchio Leone non si addolcisce certo adesso, ma accanto a quel pessimistico «Coltelli» del titolo c’è anche un «Fratelli» che nasconde un pizzico di fiducia negli italiani. «Se non altro quando tutto sembra perduto sappiamo ritrovarci per non cadere nel baratro. Forse è questa la nostra peculiarità: dobbiamo ancora imparare a vivere in società, a essere Stato, inutilmente furbi, inguaribilmente infantili ma molto umani nelle debolezze come nelle virtù, in un certo senso rassegnati a questa nostra umanità: capaci di fermarci prima della ferocia e del fanatismo».

Repubblica 6.12.10
L´oroscopo della scienza "Carattere deciso dal sole"
di Elena Dusi


E la scienza ammise: la data di nascita influenza il carattere
I test americani sui topolini di laboratorio svolti in diversi mesi dell´anno

IL MESE di nascita influenza il carattere. Era ovvio per l´astrologia, ora lo è anche per la scienza. Ma lungi dal dare il suo avallo alla lettura degli astri, la ricerca della Vanderbilt University ottiene l´effetto contrario. In uno studio su Nature Neuroscience i ricercatori dimostrano che la quantità di luce assorbita nelle prime settimane di vita produce effetti indelebili sui neuroni ancora vergini dei bebè.
La lunghezza delle giornate che è diversa in estate e in inverno si imprime sul cervello dei bambini appena nati, influenzando per sempre il loro ritmo circadiano e producendo effetti futuri - deboli ma misurabili - su umore, propensione alla depressione e alla schizofrenia.
Gli esperimenti americani sono stati condotti sui topolini in laboratorio, regolando la durata dell´illuminazione artificiale. Ma il fatto che le prove siano state ripetute in diversi mesi dell´anno, e che test simili sull´uomo in passato si siano svolti contemporaneamente nell´emisfero nord e in quello sud (dove agli stessi mesi corrisponde un livello di illuminazione capovolto), dimostrano che è la quantità di luce, non la data di nascita a influenzare il carattere. E che l´unico astro la cui posizione in cielo conti per il nostro futuro è il Sole.
«Ci teniamo a dirlo, anche se il nostro lavoro assomiglia all´astrologia, non lo è affatto. Si tratta di biologia stagionale» precisa Doug McMahon che ha condotto lo studio. La ricerca Usa si è concentrata sugli effetti della luce su una piccola area del cervello ribattezzata "orologio biologico". È questo grappolo di neuroni situato dietro agli occhi a dettare all´organismo i ritmi circadiani, regolando sonno, veglia, appetito, pressione sanguigna, voglia di quiete, movimento e molto altro. Nei topolini vissuti per le prime 4 settimane a un ritmo di 16 ore di luce per 8 di buio, l´orologio biologico si è tarato sul regime estivo, e su questo è rimasto tutta la vita. Il contrario è accaduto ai topolini tenuti al buio per 16 ore al giorno. «Questi ultimi - spiega McMahon - hanno dimostrato di risentire molto dei cambiamenti stagionali. Questo spiega come mai gli uomini nati in inverno siano più spesso affetti da depressione invernale», causata dalla riduzione delle ore di luce.
Gli effetti di questo imprinting riguardano ritmi circadiani e tono dell´umore, ma non solo. «Il mese di nascita influenza anche la tendenza a diventare gufi o allodole» spiega Vincenzo Natale, docente di ritmi del comportamento e ciclo veglia-sonno all´università di Bologna, che da anni si dedica a questo campo di studi. «Per chi è nato in estate le giornate non finirebbero mai. Ecco da dove nasce la tendenza a diventare gufi. I nati in inverno sono invece mattutini doc. Ovviamente si tratta di statistiche e all´interno dei vari gruppi le differenze sono grandi». Nessun risultato invece è stato mai ottenuto dai ricercatori che si sono sforzati di legare data di nascita a tratti della personalità più complessi, come estroversione, socievolezza o addirittura livello di intelligenza.

Repubblica 6.12.10
Il Cicap e le stelle "L´astrologia? Un fallimento a contare è il sole"
di E. D.


Ma non sono gli astri ad essere determinanti, piuttosto la quantità di luce assorbita dai neuroni del neonato Secondo una ricerca su "Nature Neuroscience" la diversa lunghezza delle giornate condiziona il cervello

ROMA - «La luce ha sicuramente un effetto sul cervello e sulla personalità, ed è interessante che la scienza indaghi il loro rapporto. Ma questo cosa c´entra con l´influenza che possono avere gli astri in cielo?». Secondo Massimo Polidoro, segretario del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), uno studio come quello di Nature Neuroscience non aggiunge proprio nulla alla validità dell´astrologia.
Lasciamo stare l´oroscopo del giorno. Ma forse l´astrologia ha qualcosa da dire nella descrizione della personalità dei segni zodiacali?
«Se prendiamo due persone nate nel nord Europa e in un paese del Mediterraneo notiamo la differenza. Tant´è che per gli individui allegri ed espansivi abbiamo coniato la definizione di "carattere solare". Questo vuol dire che è soprattutto l´esposizione alla luce ad avere importanza, non la posizione degli astri al momento della nascita».
Può darsi che l´astrologia avesse colto per via indiretta delle intuizioni che oggi la scienza riesce a confermare.
«Molti test sono stati condotti su questa ipotesi. Agli astrologi è stato chiesto di definire i tratti della personalità di un individuo senza avere nulla a disposizione se non la data di nascita. I risultati sono stati sempre fallimentari. Mai nessuno è riuscito a confermare la validità delle conclusioni dell´astrologia. Teniamo distinta la scienza da questa disciplina».
(e.d.)

domenica 5 dicembre 2010

Ansa 5.12.10
EDITORIA: FAGIOLI,LA VERA RIBELLIONE?LIBERARSI DAL COMUNISMO
POL S43 QBXL EDITORIA: FAGIOLI,LA VERA RIBELLIONE?LIBERARSI DAL COMUNISMO LO PSICHIATRA RACCONTA UN ANNO DI 'LEFT', TRA POLITICA E PSICHE (ANSA)
 ROMA, 05 DIC - «Bisognava scoprire l'irrazionale, ed è stata proprio questa la ribellione più importante, ancora di più che rifiutare il regime democristiana. Bisognava opporsi a Togliatti, che era una brutta persona: il Togliatti che firmava come 'Ercolì le condanne a morte degli italiani in Russia; il Togliatti della svolta di Salerno, dell'accordo con i cattolici, ripreso poi da Berlinguer. Sotto c'era un'ideologia che si è rivelata più che doppia». Per Massimo Fagioli la liberazione dal comunismo è stata la conseguenza di una scelta maturata oltre 40 anni fa, quando scelse da medico di dedicarsi alla cura della malattia mentale, che da oltre 35 anni si svolge in una prassi di psicoterapia di gruppo, detta Analisi Collettiva. Lo ha ricordato questa mattina in occasione della presentazione a «Più Libri Più Liberi» del suo decimo libro dal titolo «Left 2007» (L'Asino d'oro editori), che raccoglie 49 articoli apparsi in quell'anno nella rubrica 'Trasformazionè, che il professore tiene dal 2006 sull'omonimo settimanale d'inchiesta diretto da Ilaria Bonaccorsi e da Donatella Coccoli. Ricordando che «da anni Fagioli svolge una pubblica gratuita interpretazione dei sogni», Gianfranco De Simone, psichiatra, ha sottolineato la novità del rapporto tra ricerca sulla psiche e politica, iniziata negli Anni '70, quando «l'autore aveva scritto tre libri di psicanalisi eterodossa». «Fagioli accusa marxismo e illuminismo di avere falsificato la storia, per non essersi separati dal Logos greco e dal Cristianesimo», ha aggiunto De Simone. «Nella vita di Left sono cambiate tantissime cose dal 2007 - ha raccontato il direttore editoriale, Ilaria Bonaccorsi -: in quell'anno sono state fatte scelte coraggiose che hanno garantito l'integrit… del giornale». «Svelare l'inganno dell'identificazione tra uguaglianza e ragione, ribellarsi all'egemonia culturale della Chiesa, rifiutare gli idoli di questa ideologia, sono tra i principali obiettivi di Left», ha ribadito la Bonaccorsi. Matteo Fago, editore insieme a Lorenzo Fagioli de L'Asino d'oro, ha sottolineato invece una peculiarità di «Left 2007»: «Contiene una premessa scritta a mano dell'autore. Fagioli scrive sempre così, senza l'ausilio di computer o di altri strumenti elettronici». Una particolarità, aggiunge, che riguarda anche la copertina, sulla quale campeggia un disegno di Fagioli, «fatto di linee, che sembrano una scrittura». (ANSA). COM-PH 05-DIC-10 15:28 NNN

l’Unità 5.12.10
Intervista a Pier Luigi Bersani
«Abbiamo condotto le cose in modo da arrivare al momento giusto alla sfiducia»
Dopo il 14 dicembre «Qualunque cosa accada combatteremo da una posizione più avanzata la battaglia per l’alternativa»
La manifestazione «Sabato a Roma andiamo a dire che abbiamo la Costituzione più bella del mondo e che va rispettata»
Le primarie «Da tempo sostengo che il meccanismo va aggiustato. Sui collegi raccolgo positivamente l’appello de l’Unità»
«Attenti agli strappi del premier, la nostra sarà la piazza della democrazia»
Il segretario del Pd: «Man mano che si avvicinano i momenti critici Berlusconi diventa più pericoloso. Vergognosi attacchi al Colle e alla Carta»
di Giovanni Maria Bellu


Segretario Bersani. Manca una settimana alla manifestazione del Pd e dieci giorni al voto di fiducia. E uno dei coordinatori del Pdl ha appena offeso il Quirinale. Si respira un’aria brutta. Ci dica: secondo lei ci sono pericoli per la tenuta democratica? «Siamo sicuramente a un passaggio crucialissimo. Man mano che si avvicinano momenti per lui Berlusconi è sempre più pericoloso. Fasi come questa, quando c’è il tramonto ma ancora non si vede l'alba, sono fasi nelle quali la nostra democrazia può subire degli strappi. Sì, l'uscita di Verdini è stata vergognosa, ma fa parte di un già sentito. È l’idea che la Costituzione sia un orpello e che chiunque non faccia quel che Berlusconi vuole sia un traditore, un eversore. È un'idea pericolosa che Berlusconi cerca di far entrare nel senso comune. Come l’idea del tradimento e del ribaltone. Aveva una maggioranza mai vista, aveva tutto, e alla fine si è ribaltato da solo».
Ieri ha ripetuto che la caduta del suo governo sarebbe un colpo mortale alla stabilità economica. «Ma se sono cinque mesi che la maggioranza di governo è in crisi! Cosa è questo se non instabilità? Simili argomenti appartengono a un meccanismo sottilmente anticostituzionale e violentemente vittimistico che va contrastato con tutta la forza che abbiamo. Ed è una forza che non va assolutamente sottovalutata».
La manifestazione dell’11 dunque non è solo “di protesta e di proposta” ma, come accadeva qualche anno fa, è un modo per dire: attenti, ci siamo, siamo tanti. Insomma, rientra nall'antica categoria della “vigilanza democratica”?
«Sicuramente c’è questo elemento. E ce ne sono altri. C’è un partito saldamente democratico che va in piazza per dire che noi abbiamo la Costituzione più bella del mondo e che va rispettata. E che dice con forza: liberiamoci, facciamo un passo avanti in una direzione nuova, presentiamo il nostro progetto, diciamo le nostre idee per il paese. Con in più un messaggio che deve arrivare ai nostri: due anni fa il centrodestra aveva tutto in mano e l’opposizione era in una condizione difficilissima, inedita: perdita di voce, rischio di diventare il luogo rabbioso di tutte le frustrazioni... Bene, noi in questi due anni difficili abbiamo visto la crisi per primi e abbiamo lavorato perché si comprendesse la distanza tra politiche del governo e situazione economica e sociale. Ci siamo inseriti intelligentemente dentro le contraddizioni che si aprivano nel centrodestra. E, infine, abbiamo condotto le cose in modo da realizzare al momento giusto un’operazione di chiarezza politica: la mozione di sfiducia. Ripeto: nel giorno giusto, e non tutti i giorni come voleva qualcuno. Questo l’abbiamo fatto noi e tengo a dirlo se non ci viene riconosciuto è perché, purtroppo, a volte non ce lo riconosciamo tra di noi».
Cosa accadrà il 14 dicembre?
«Qualunque cosa accada, dopo quel giorno combatteremo da una posizione più avanzata. È un punto molto importante da tener presente. Se pensassimo che basta un giorno, il voto di un giorno, per chiudere con Berlusconi e col berlusconismo, non avremmo capito nulla degli ultimi quindici anni. Abbiamo davanti un cammino e, dopo il 14, saremo comunque più avanti nella strada verso l’alternativa».
Ieri Cicchitto ha aperto alla possibilità di una riforma del Porcellum. Queste aperture improvvise rafforzano il dubbio che si stia lavorando all’ipotesi di un nuovo governo di centrodestra magari allargato....
«Si sentono voci di questo genere. Il punto di fondo è che questa crisi riguarda il rapporto del governo con la società, lo scollamento del governo dai problemi reali. Proprio per questo credo, e non temo di sbagliarmi, che la risposta a un problema così di fondo non possa venire dal perimetro del centrodestra, anche correggendone un po’ i confini. Se poi ci fossero operazioni delimitate o caratterizzate nell’ambito del centrodestra sapremmo fare l’opposizione in un quadro mutato, tenendo conto del fatto che in questo momento l’opzione numero uno è che Berlusconi se ne vada. Siccome non lo vedo molto propenso a questo passaggio, mi pare che tutte queste soluzioni che si ipotizzano nell’ambito del centrodestra siano tutte piuttosto complicate».
Lei da tempo ha parlato, nel caso in cui il governo tecnico si rivelasse non praticabile, di una ipotesi b: un’alleanza tra forze che “in un contesto normale” non potrebbero stare assieme. Ma questa alleanza la vede come un patto di legislatura o come qualcosa di più limitato nel tempo?
«Mi rifiuto di considerare ipotesi b. Andare a votare sarebbe un disastro. Ma, se parliamo di politica, dico che ho in testa una fase che ci metta in condizioni di preparare l’alternativa. Noi abbiamo da rafforzare e ristrutturare il campo del centrosinistra, dargli unità, perché ora appare francamente dissociato, dargli un profilo di governo. Ed è questo il ruolo del Pd. Perché vorrei che fosse chiaro un punto: senza il Pd non si manda a casa Berlusconi, né si può fare un governo di transizione che sia un passo verso una strada nuova. Senza il Pd non si può fare l'alternativa. Cominciamo a convincercene noi e se ne convincano anche gli amici o i pseudoamici: il Pd è il perno di questa responsabilità. Ancora abbiamo cose da aggiustare, le aggiusteremo. Ma bisogna che sentiamo questa responsabilità»
A proposito di cose da aggiustare, come è possibile che alle primarie in una città, parlo di Torino, ma prima c'era stata Milano, si candidino più candidati del Pd col risultato di far vincere un candidato esterno o comunque di mettere in altre mani la scelta del candidato espresso dal partito?
«Ogni giorno ha la sua pena e quindi preferisco non aprire ora una discussione sul tema. Mi rifaccio a ciò che dissi: questo delle primarie è un meccanismo che se non gli diamo una manutenzione rischia di essere delegittimato e di creare delle disfunzionalità enormi. Quella che ha citato è una, ma ce ne sono anche altre. Dobbiamo chiarire se se le primarie siano, come dire, un “diritto esigibile” dentro e fuori il partito o se siano un meccanismo di partecipazione, uno strumento possibile a seguito di decisioni politiche e di regole che garantiscano la soggettività del partito. Questo è il nodo e nei tempi e nei modi giusti dovremo scioglierlo».
Su l’Unità da tempo abbiamo lanciato un appello per le primarie nelle circoscrizioni, per scegliere i candidati del Pd in presenza del Porcellum.
«Ribadisco che non esistono piani b, che non si può parlare di elezioni con questo modello elettorale. Ma raccolgo il vostro appello. Se vogliamo ragionare in astratto, nell' ipotesi che si arrivi a votare con un meccanismo assurdo dovremmo trovare al nostro interno dei meccanismi di partecipazione che consentano di esprimere candidature che abbiano intanto il consenso nel partito e non siamo a comando mio o di chiunque altro. Ma non dimentichiamo la questione principale, che è l'eliminazione del Porcellum. Detto questo certamente non faremo le candidature nelle segrete stanze».
Il rapporto del Censis descrive un paese depresso, scoraggiato. Può un governo di transizione affrontare questa complessità?
«la deve affrontare. Sono reduce da Varsavia dove si è svolto l'incontro tra i partiti progressisti europei. Tutta l’Europa non parla d'altro che delle turbolenze, per usare un eufemismo, di tipo finanziario e soprattutto di come fare a rientrare dal debito senza massacrare le prospettive dell’occupazione. E l'Italia è dal punto di vista dell’economia reale in guai più seri di altri. Siamo al 118 nel rapporto debito/Pil e viaggiamo verso il 120. Oltre alla legge elettorale, dobbiamo mettere mano ad alcune questioni. Come l’emergenza relativa alla finanza pubblica, al lavoro per i giovani e almeno a uno stralcio di riforma fiscale, che è un’altra emergenza».
Quanto tempo occorre?
«Tempi, modi e forme li discuteremo ascoltando la voce del Quirinale, verso il quale è il momento di avere un rispetto ancora più assoluto. Dal punto di vista nostro posso dire solo che il governo deve avere il tempo di fare queste tre o quattro cose e mettere gli schieramenti nelle condizioni di presentare delle alternative nuove... Guardi che se ci ritrovassimo ancora una volta a votare su Berlusconi sì o Berlusconi no resteremmo fermi ai quindici anni che abbiamo alle spalle. Perderemmo un altro giro, sarebbe un disastro... Non è più solo in gioco il berlusconismo ma un meccanismo che Berlusconi ha introdotto e interpretato di personalizzazione della politica e di questa nostra democrazia che, come il Censis dice, è al tramonto nella coscienza della gente...»
C’è da immaginare che questi aspetti del rapporto Censis le abbiano fatto particolarmente piacere. Penso alla sua decisione di non comparire col suo nome nel simbolo...
«E lo confermo assolutamente. Capitasse a me, piuttosto sto a casa ma il nome nel simbolo no. Non vorrei che, mentre il centrodestra si convince via via che il meccanismo del ghe pensi mi non funziona, prendessimo quella malattia e provassimo noi a giocare quella carta. Una carta che non c’è più. Dobbiamo ricominciare dalle riforme, anche quelle difficili, e da una politica sobria, onesta, perfino “modesta” che incroci un’esigenza di pulizia e di semplicità. È questo che il Paese vuole e, se non ce ne accorgiamo per tempo, rischiamo anche noi».

il Fatto 5.12.10
Uniti nella lista
Il “terzo polo” vola nei sondaggi, il Pd non vuole ri-perdere: si lavora sul cartello elettorale. No di vendoliani e Di Pietro
di Caterina Perniconi


Elezioni o governo tecnico? Se il 14 dicembre si aprirà la crisi, gli scenari possibili sono tre: un Berlusconi bis, un esecutivo di unità nazionale o le urne. Nella terza ipotesi c’è chi, come Luca Cordero di Montezemolo, ha proposto una lista civica di unità nazionale, per raggruppare le forze mo- derate e battere Silvio Berlusconi. La soluzione, secondo An- tonio Valente, della Lorien Consulting non è ancora stata recepita dagli elettori, che però si esprimono in maniera molto forte (40%) contro i ribaltoni. Meglio le elezioni, quindi, di un go- verno non espresso dai cittadini. Coloro che chiedono un ese- cutivo alternativo sono invece il 30%, gli altri restano ancora indecisi. In particolare, se si andasse al voto, il peso specifico dei partiti sarebbe molto diverso da quello che rappresentano oggi: innanzitutto si è rotto l’equilibrio all’interno del centro- destra. Se il rapporto tra Lega e Pdl oggi è di un voto a quattro, per Valente con elezioni potrebbe diventare di uno a due, col Carroccio al 13% e il partito di Berlusconi al 26. Non va meglio all’opposizione, dove il Partito democratico è in stabile discesa e si attesterebbe al 24%, con Sel tra il 6,5 e il 7% e l’Idv in leggera flessione, intorno al 6%, che perde qualche voto in favore dei futuristi. Ecco appunto il terzo polo: una coalizione di centro, che tiene insieme Fli, Udc e Api potrebbe arrivare al 20%. I tre partiti, separatamente, raccoglierebbero rispettivamente il 6,5, il 6,2 e l’1,5%. Ma insieme rappresentano un’attrattiva molto forte verso gli indecisi. Sarà quindi il terzo polo a decidere il futuro dell’Italia, in caso di elezioni. Perché l’attuale legge elet- torale costringe al bipolarismo per ottenere il premio di mag- gioranza alla Camera. I centristi, quindi, non possono vincere ma possono decidere chi far vincere. Gli uomini da corteggiare si chiamano Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e France- sco Rutelli. O magari saranno loro a fare il filo all’ala moderata del Pd, per farcela da soli. È l’ipotesi di un “cartello elettorale” largo, l’unico che con il Porcellum potrebbe scalfire il premier. Nel partito di Pier Luigi Bersani, infatti, in molti sono tentati da canto delle sirene provenienti dal centro, mentre il segretario cerca di ricucire l’alleanza a sinistra. Per Vendola e Di Pietro, del resto, una lista civica è un’esperienza impraticabile.

Repubblica 5.12.10
"Pd e destra per salvare il Paese e dopo un anno si va a votare"
Franceschini: ma Berlusconi resti fuori
di Giovanna Casadio


Serve un esecutivo che affronti la crisi economica e metta mano a una nuova legge elettorale
Invito rivolto a chi nella maggioranza antepone l´interesse nazionale all´interesse di parte

ROMA - «Berlusconi si tolga di mezzo. Già da mesi avrebbe dovuto dimettersi. Quanto costerà questo atteggiamento del premier all´Italia? Ha lanciato l´allarme-rating ma l´instabilità è colpa della sua maggioranza e dipende anche dalla stagnazione di un paese, il nostro, che non ha più crescita. La sua pretesa di restare comunque a Palazzo Chigi, il suo discredito internazionale quanto incidono sul differenziale di interessi tra noi e la Germania? Un costo economico spaventoso a carico delle famiglie italiane». È una requisitoria quella di Dario Franceschini. Per le opposizioni, così come per Fini, è cominciato il conto alla rovescia: meno nove giorni al voto di sfiducia a Berlusconi. E la partita è già spostata sul "dopo". Per il capogruppo Pd l´obiettivo è un governo di responsabilità anche di un anno, o quanto occorre, per affrontare l´emergenza economica e la riforma elettorale.
Siete così certi di avere i numeri per la sfiducia, onorevole Franceschini? Perché Berlusconi è convinto del contrario.
«Sono uno abbastanza preciso e con una certa esperienza parlamentare, in più conosco l´aritmetica: 85 più 225 - che sono i firmatari delle due mozioni di sfiducia - fa 310. Basta aggiungere il deputato valdostano Roberto Nicco e i sei radicali - i quali stanno ponendo una seria questione politica che il Pd dovrà affrontare, ma non ho dubbi voteranno come sempre contro il governo - ebbene, la somma fa 317. E non conto Fini, il presidente della Camera per consuetudine non vota, né altri parlamentari che ci stanno pensando».
Intanto il coordinatore del Pdl, Denis Verdini dice di «fregarsene politicamente» delle prerogative del capo dello Stato e che poi si andrà alle elezioni.
«Temo che le parole di Verdini in tutta la loro volgarità siano un piccolo aperitivo rispetto al clima incandescente in cui Berlusconi, e quelli che gli sono rimasti fedeli, trascineranno il paese per impedire che la crisi segua le regole costituzionali. Del resto si sta manifestando l´essenza stessa del berlusconismo, e cioè l´idea malata che vincere le elezioni sia un fatto personale e di essere perciò al di sopra del Parlamento, del capo dello Stato, della Costituzione».
Lei non prevede una resa di Berlusconi?
«Non mi pare sia possibile, è in contrasto con la sua idea della politica e dello Stato; il premier non vede altro che se stesso e niente oltre se stesso. Immagino che il suo schema sarà - una volta passata la mozione di sfiducia - sparare contro tutto e tutti sin dal giorno dopo, chiedendo elezioni anche a costo di esporre l´Italia a una drammatica crisi e alla speculazione internazionale. Siamo alla vigilia di regole europee che imporranno una durissima manovra di rientro del debito pubblico, con un paese esposto, come abbiamo visto dai documenti WikiLeaks, al discredito e una legge elettorale-truffa. Ogni persona di buonsenso non può non pensare a un governo di responsabilità. Se anche Berlusconi riuscisse a salvarsi per un voto o due, non avrebbe la forza per affrontare questa emergenza».
Un governo di responsabilità con chi? Non state facendo i conti senza l´oste, ovvero il centrodestra?
«Con le forze politiche e i singoli parlamentari di opposizione e di maggioranza che mettano gli interessi nazionali davanti a quelli di parte. Qualsiasi soluzione, però senza Berlusconi».
Ma il Pd appoggerebbe un governo guidato da Gianni Letta o da Tremonti?
«Conosco le prerogative del presidente Napolitano e, prima di parlare di nomi, anche di quelli più improbabili, si deve capire se nel centrodestra ci sono parlamentari che ritengono più importante di Berlusconi salvare il loro paese. Questo è il bivio. Dal 15 dicembre anche nel Pdl e nella Lega molti dovranno chiederselo. Il "dopo" è un governo che non butti il paese in un periodo d´incertezza com´è una campagna elettorale. Poi si va alle elezioni».
Quanto dovrebbe durare questo governo, un anno?
«Il tempo che occorre per fronteggiare crisi e manovre economiche e fare una nuova legge elettorale.

Repubblica 5.12.10
Le esequie scomposte di un potere defunto
di Eugenio Scalfari


IL MIO tema di oggi è la crisi economica e finanziaria in Europa e in Italia e le sue ripercussioni sulla nostra crisi politica. Ma prima...
C´è sempre un "ma prima" di cui ci si deve occupare in questo Paese, perché siamo diventati un Paese imprevedibile e ogni giorno che passa lo diventiamo di più. I problemi di fondo sono sempre quelli perché nessuno si è dato la pena di risolverli, ma le increspature di superficie si sono ormai trasformate in ondate di tali dimensioni da aggiungere peso a peso rendendo l´orizzonte sempre più fosco ed incerto.
Perciò ecco il "ma prima" di oggi: il partito di Berlusconi se ne frega delle prerogative del Quirinale. L´aveva già detto e ripetuto il "boss" in varie occasioni in modo esplicito, ai tempi del caso Englaro e ai tempi del lodo Alfano; ma il "me ne frego" di marca fascista e squadrista non era ancora stato usato. Adesso anche quel tabù è stato infranto da Denis Verdini, coordinatore nazionale del Pdl, pluri-inquisito per reati comuni di associazione per delinquere, riciclaggio, falso in bilancio e bancarotta. Un elenco che basterebbe ad imporre le sue dimissioni da ogni incarico politico, ma il "boss" è con lui e tanto basta.
Verdini ha fatto le sue scuse al Capo dello Stato con questa spiegazione: il suo "me ne frego" era politico e non istituzionale. Una canzone che cantavano i fascisti di Salò diceva: «Ce ne freghiamo noi della galera». Verdini probabilmente se ne frega della galera politicamente, ma istituzionalmente no. Ammirabile sottigliezza.
Mettiamo insieme questo rigurgito squadrista con i fondati sospetti di profitti privati che il "premier" avrebbe ricevuto dal suo sodale Putin piegando l´Eni a patti scellerati con Gazprom, con le intemperanze sessuali che lo rendono incapace di guidare un Paese nella tempesta d´una crisi di inconsueta vastità e durata e con lo sfaldamento in atto di quel che rimane della sua maggioranza ed avremo un cocktail esplosivo. «Nave senza nocchiero in gran tempesta» scriveva il poeta ed aggiungeva «non donna di province ma bordello». Chi potrebbe dir meglio?
In questi frangenti Gianni Letta continua a tentare improbabili mediazioni. Casini dal canto suo rilancia il nome di Letta come possibile ed accettabile successore del "boss" a palazzo Chigi. Si tratta d´una proposta provocatoria perché Berlusconi non prevede in nessun caso successori a se stesso e men che meno Letta che disse all´attuale ambasciatore americano a Roma che Berlusconi era ammalato e in condizioni fisiche che non gli consentivano di governare. Letta ha smentito ma l´ambasciatore Thorne no perché il dispaccio che riferisce queste confidenze è firmato da lui.
Le ultime notizie di provenienza berlusconiana ci informano che il premier si aggrappa ora alle agenzie di rating che - - secondo lui - abbasserebbero le loro valutazioni del nostro debito pubblico nel caso che il governo fosse messo in crisi. La verità è che la persona più inadatta a padroneggiare la crisi è proprio lui, come si vede da quando la crisi è nata e il governo ha negato perfino che esistesse. Chi sostiene che i veri problemi sono altri dice cosa giusta ma dimentica di aggiungere che l´allontanamento di Berlusconi è un preliminare in mancanza del quale i problemi veri non potranno mai essere risolti, come dieci anni di governo ampiamente dimostrano.
* * *
La crisi economica dell´Europa è semplice da spiegare ma difficile da curare: per cominciare vorrei fare chiarezza su un punto: le oscillazioni dell´euro nei confronti del dollaro non sono una causa di quanto avviene né sono l´obiettivo della speculazione. Quando l´euro fu creato dieci anni fa la sua parità fu fissata a 1,17 dollari per euro. Dopo poco scese sotto la parità arrivando a 78 centesimi di dollaro. Poi risalì e ridiscese varie volte. Appena sei mesi fa rimase per qualche settimana a 1,22, poi risalì fino a 1,50, adesso oscilla intorno a 1,30 ma nessuna di queste oscillazioni ha creato panico e contromisure. Il basso livello del cambio, semmai, incoraggia le esportazioni delle merci e servizi di tutta la zona euro verso l´area del dollaro. In particolare per il nostro turismo il cambio basso è una manna.
La speculazione dunque non ha il cambio dell´euro come obiettivo. Il vero obiettivo è il debito sovrano degli Stati periferici dell´eurozona, Grecia, Irlanda, Portogallo, anche Belgio. Forse Spagna e forse anche Italia, qualora le regole europee sul rientro del debito entro il livello del 60 per cento rispetto al Pil sarà severamente rigido come la Germania vorrebbe.
Quindi al centro della speculazione c´è il problema dei debiti sovrani. Nei giorni scorsi la Banca centrale europea è intervenuta sul mercato a sostegno dei Paesi più esposti agli attacchi.
Ci sono vari modi di attaccare i debiti sovrani. Un modo è di vendere titoli pubblici di quei Paesi per far crescere lo "spread" rispetto ai "bund" tedeschi. Un altro modo è quello di acquistare i "bund" tedeschi. Un altro ancora è di vendere i titoli delle principali banche del Paese attaccato.
Il fine della speculazione sta nel lucro che si ricava da queste oscillazioni. Vogliono anche, gli speculatori, attraverso queste destabilizzazioni far saltare l´intero sistema dell´euro? Non penso che l´obiettivo sia questo. La speculazione sa che le sarebbe contrapposta una difesa difficilmente superabile. La disarticolazione della struttura dell´euro potrebbe però esser frutto di errori compiuti dalle autorità europee, dalla loro incapacità di dar vita ad un governo europeo dotato di poteri economici incisivi, dalla tentazione della Germania di arroccarsi su un super-euro lasciando alla deriva chi non ce la fa a seguirla.
Questi errori sono possibili, alcuni sono già stati commessi e poi riparati. Perciò la vigilanza e l´iniziativa degli Stati membri per procedere nel modo giusto dovrebbe essere massima. La presenza di Berlusconi non è un elemento di sicurezza. Se fosse sostituito da Tremonti o da Mario Monti o da Mario Draghi, in Europa non ci sarebbe alcuna preoccupazione. Quanto ai personaggi soprannominati le loro visioni sono diverse e in qualche caso dissimili, ma tutti e tre hanno una solida esperienza in quelle delicatissime materie.
I mercati dal canto loro continuerebbero a registrare lo scontro tra speculatori e debiti sovrani e questo è quanto.
* * *
La Banca centrale europea, imitando su scala ridotta la Federal Reserve americana, ha acquistato nei giorni scorsi titoli di debiti sovrani in difficoltà con operazioni sul mercato aperto eseguite direttamente o tramite le banche centrali che fanno parte del sistema. Questi acquisti producono anche effetti collaterali oltre all´effetto principale di sostenere le banche sotto attacco e di far diminuire lo "spread" rispetto ai "bund" tedeschi.
Uno degli effetti collaterali è quello di fare aumentare la liquidità, ma la Bce - a differenza della Fed americana - non desidera aumentare la liquidità complessiva e quindi sterilizza l´aumento di liquidità stringendo altri canali. Per esempio vendendo titoli di debiti sovrani forti o valute conservate nelle sue riserve.
La verità è che la Fed sta adottando consapevolmente una politica inflazionistica sperando di far ripartire la ripresa economica e l´occupazione; il rientro del debito pubblico americano è rinviato a ripresa consolidata. Viceversa la Bce ha scelto una politica di deflazione morbida e per questa ragione non vuole che la liquidità complessiva del sistema europeo aumenti e sterilizza gli effetti della difesa dei debiti sovrani pericolanti.
Questo panorama è molto chiaro e funziona sul breve periodo. Ma non affronta i problemi che abbiamo davanti e che stanno arrivando al pettine tutti insieme.
Il governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi, ha fornito alcune cifre molto significative in una sua comunicazione alla Facoltà di Economia di Ancona il 5 novembre scorso. Quelle cifre unite a i suoi commenti gettano luce proprio sui problemi che dovranno essere affrontati da subito.
* * *
«Secondo le stime del Fondo monetario internazionale la quota dell´eurozona nel Pil mondiale era pari al 18 per cento nel 2000. Nel 2015 scenderà al 13 per cento. Nello stesso periodo la quota dei Paesi emergenti asiatici raddoppierà dal 15 al 29 per cento». Questi dati descrivono a sufficienza il mutamento radicale dello scenario mondiale. La nostra economia, aggiunge Draghi, ne ha risentito molto più di altre. «Essa manifesta un´incapacità a crescere con tassi sostenuti. L´ultima recessione ha fatto diminuire il Pil italiano di 7 punti».
Sette punti, tanto per esser chiari, equivalgono a 120 miliardi di euro. «La crescita del prodotto per abitante in Italia si va riducendo da tre decenni. Siamo passati da un aumento annuo del 3,4 per cento negli anni Settanta a 2,5 negli anni Ottanta e all´1,4 negli anni Novanta. Nell´ultimo decennio 2000-2010 la crescita è stata zero».
Queste cifre riguardano i flussi di reddito, ma se spostiamo l´analisi dal reddito alla ricchezza patrimoniale, cioè al risparmio accumulato e investito in vari modi, la situazione appare capovolta. Scrive Draghi: «Secondo i dati dell´Ocse nel 2007, prima della recessione globale, l´Italia presentava pro capite il Pil più basso tra i Paesi del G7, pari al 69 per cento di quello degli Usa, ma la ricchezza pro capite delle famiglie italiane era l´88 per cento di quella delle famiglie americane e un valore superiore a quella della Francia, Germania, Giappone e Canada».
Il suggerimento implicito di queste cifre ci porta ad una conclusione da noi più volte suggerita ma mai adottata: i mezzi per stimolare la crescita esistono solo che si voglia trasformare una quota delle imposte sui redditi medio-bassi al patrimonio delle categorie sociali medio-alte.
La redistribuzione vista come fonte di maggior domanda e quindi di crescita del sistema-paese.
Per finire, Draghi propone l´istituzione di un fondo sovrano tra i Paesi dell´euro, che si alimenti con un´imposta sulle transazioni finanziarie e consenta di far rientrare i debiti entro il livello desiderato del 60 per cento. Analoghe proposte sono state formulate nei mesi scorsi da Vincenzo Visco e Mario Monti.
Vi sembra che il governo Berlusconi abbia la voglia, la fantasia e la volontà di adottare politiche economiche come quelle sopra indicate? Vi pare che Verdini, Matteoli, La Russa, Scajola, Romani, Alfano, siano in grado di pensarle? Forse Santanché, Brambilla, Gelmini? Magari Carfagna? O la Mussolini, detta la baciona per via del bacio dato a Cosentino.
Robe e nomi da coprirsi il viso per la vergogna.

Post scriptum. Ho letto ieri un articolo sul "Foglio" di Pietrangelo Buttafuoco, penna sottile e talento indipendente. Il titolo: "Meglio fottere che comandare". Buttafuoco dà una sua lettura - sboccata ma interessante - del berlusconismo. Lo cito perché non solo è acuto ma esilarante e qualche risata è pur necessaria per alleggerire la cupezza del clima.
«In quel grazioso palazzo, ossia Grazioli, le nubi delle accuse di corruzione, mafia, falso in bilancio, conflitto di interessi e perfino seduzione di minorenni, in un brevilineo come lui si diradano, anzi evaporano in virtù della sua euforia genitale. Al dottor Berlusconi piace la gnocca, solo la gnocca. Il dottor Berlusconi fa festini che sono il rimosso di tutti quelli che gli stanno intorno, compresi gli schiavi, i servi, i cortigiani e i ruffiani. Compresi poi gli italiani, perfettamente inutili da governare ma che alla fine hanno un preciso istinto per immedesimarsi con chi, sollevandoli dall´incombenza, copula in loro vece. L´italiano medio si immedesima col dottor Berlusconi in ragione del rimosso dei rimossi: ognuno, vincendo all´Enalotto, farebbe come fa lui nell´agio del suo smagliante patrimonio».
Secondo me questo è uno splendido "coccodrillo" di un potere defunto.

l’Unità 5.12.10
La morte secondo Monicelli
risponde Luigi Cancrini


Grande il nostro, cioè di tutti, viareggino/LU Monicelli, che, 95enne, alle 21.00 di lun. 22 u.s., si è tolto la vita gettandosi dal 5 ̊ piano dell’ospedale san Giovanni (urologia 1) in Roma. Grazie, Mario, per come, coi tuoi film (ah, ‘L‘armata Brancaleone‘!), ci hai fatto guardare la vita!
RISPOSTA    In una scena fra le più belle de L’ armata Brancaleone, Abacuc, il povero vecchio che muore fra le braccia di Gassman se ne stupisce e se ne allarma e grida “sto morendo” e Brancaleone/Gassman lo guarda con dolcezza in silenzio e con dolcezza gli chiede poi “e se anco fosse?” e lui si calma e se ne va senza più paura e questa scena mi è tornata alla mente lunedì sera quando ho saputo del regista di quel film che si era lasciato cadere giù da un balcone accettando (abbracciando) la morte nello stesso modo del suo stralunato personaggio. La morte, dice Monicelli, è un evento naturale, parte integrante della vita, accettarla, abbracciarla quando il suo momento è arrivato, è una dimostrazione grande e semplice di amore per la vita, di gratitudine per tutto quello che si è avuto vivendo, un segno umile di riconoscimento del fatto per cui siamo oggetti e non soggetti del destino o, per quelli che ci credono, della volontà di Dio. Serenamente si muore, voglio dire, quando alla morte non ci si oppone disperatamente. Come sempre fanno soprattutto quelli che hanno vissuto male.

l’Unità 5.12.10
Le parole che ingannano
Nel libro di Zagrebelsky il tema della lingua di oggi le sue compiacenze e la sua bruttezza rivelatrice Vi domina il lessico di Berlusconi e dei suoi media
di Goffredo Fofi


Da un vecchio film di Moretti, una domanda venne molto citata anche da chi non si distingueva molto da colei cui l’attore la rivolgeva, una giornalista clonata e imbecille (specie non rara, e rigorosamente bisex): “ma come parli?” In Roma di Fellini, una paciosa bellona in trattoria citava una frase portatrice di una saggezza molto più antica: “come che magni, cachi”. Potremmo allargare e dire che c’è un rapporto diretto tra ciò che si mangia e come si parla. Ma il mangiare è anche una metafora: se ci nutriamo, per esempio, di linguaggio televisivo, non possiamo che riproporlo, giorno per giorno, nella nostra quotidianità, e poi “espellerlo”, però non “liberandocene” e invece inquinando l’ambiente – i bambini, per esempio, in quel gioco ignobile di corruzione dei nuovi nati di cui gli adulti di oggi criminalmente si compiacciono. Vorrei segnalare un aureo libri-
no, piuttosto un articolo lungo presentato come libro (otto euro sono troppe per il numero di battute ma non per la qualità del testo, e del prezzo è responsabile l’editore e non l’autore), Sulla lingua del tempo presente (Einaudi). Lo ha scritto Gustavo Zagrebelsky, che fa il giudice e non il linguista, ed è forse è da questo che il saggio deriva la sua pregnanza. Vi si discute la lingua di oggi e proprio di oggi, le sue compiacenze, le sue reiterazioni, la sua bruttezza rivelatrice. Dice infatti l’autore che “nella lingua del nostro tempo si nota la presenza sovrabbondante del lessico di Berlusconi, dei suoi uomini, e dei loro mezzi di comunicazione di massa, che parlano come lui”.
Un’interpretazione di questa presenza, in verità ossessiva e che si è inserita senza nessuno sforzo anche nel lessico della sinistra e in generale della stragrande maggioranza degli italiani, dice che “l’uniformità della lingua, l’assenza di parole nuove, l’ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di demenza senile, sono tali certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma – cosa molto più grave – sono il segno di malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto”. Insomma, Berlusconi e la sua lingua hanno infettato la politica italiana (una constatazione: alla Camera e al Senato non sono mai state così rari “i rappresentanti del popolo” di cui fidarci) e la società tutta. Gli anticorpi sono debolissimi, e compito delle persone perbene sarebbe quello di rafforzarli, anche dando alle parole il loro giusto peso e valore.
Sono molti i nuovi luoghi comuni berlusconiani passati nella lingua di tutti che Zagrebelsky analizza: “scendere” in politica, “contratto”,”amore”, “doni”, “mantenuti”, “italiani” (con un uso che rivela come non tutti godano dello stesso livello di cittadinanza...), “Prima Repubblica”, “assolutamente”, “fare-lavorare-decidere”, “le tasche degli Italiani”... La sua scelta non è casuale, e risulta soprattutto politica.
Con molto pudore, Zagrebelsky ci indica quel che le parole nascondono e i pericoli non retorici che vi si annidano. Di essi noto quello che mi pare centrale, il pericolo della lingua unica, che si diparte dai “portavoce” del potere e si comunica, senza trovare resistenza alla quasi totalità dei professionisti dei media – giornali, tv, radio, senza dimenticare i più astuti ed efferati di tutti, i pubblicitari. A suo tempo Orwell analizzò tutto questo magistralmente in 1984 (la “neo-lingua”), e da allora le cose, da questo punto di vista, non sono migliorate, anche se non si parla più di subdole manovre e imposizioni dittatoriali ma di imposizioni “democratiche” non meno subdole.
Zagrebelsky non insiste, per carità di patria, nella constatazione di come la lingua del potere pervada anche la sinistra (perché interna allo stesso sistema di potere?). L’ultima voce del saggio è “politicamente corretto”: sono “politicamente corretti” “l’aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità... la semplificazione e banalizzazione dei problemi comuni... la rassicurazione a ogni costo, l’occultamento delle difficoltà, le promesse dell’impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù...” “I cittadini sono trattati non come persone consapevoli ma come plebe...” ed è dal linguaggio plebeo diventato “politicamente corretto” che dobbiamo tutti liberarci, “ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti”. Teniamone conto. Tenetene conto, politici e giornalisti del poco di sinistra che resta, se credete davvero alla sua diversità dalla destra e se volete che cresca.

Corriere della Sera 5.12.10
Napoli, Mancuso verso il sì «Vendola mi entusiasma»
Entro domani decide se candidarsi


«Guardi che io non sono il candidato di Nichi Vendola o di uno schieramento, io sono un libero cittadino che tenterà di dare una iniezione di speranza alla sua città». Libero Mancuso è fatto così, incapace di fingere anche solo per pochi minuti. Chiede di essere definito candidato «eventuale» a sindaco di Napoli perché ha deciso di sciogliere la riserva entro domani. Ma dalla casa di Camugnano, Appennino tosco-emiliano, parla già di un trasloco imminente nella sua città natale, almeno per il tempo di una campagna elettorale. «Tre cose per Napoli? Ne bastassero solo tre... Comunque: trasparenza amministrativa, consenso dei cittadini, vita più dignitosa per tutti». Ai corteggiamenti insistiti, del resto, si resiste una sola volta. «Sinistra e Libertà mi aveva chiesto di correre a Bologna, dov’ero consigliere comunale. Ho avuto l’impressione che mancasse entusiasmo e coesione. Quando mi hanno proposto Napoli, tutto questo l’ho sentito, assieme alla voglia di dare segnali di discontinuità. E poi, certo, Vendola che mi chiama per dirsi felice che abbiano scelto me, fa piacere. Credo che Nichi, e l’entusiasmo di cui è portatore, siano l’unica possibilità di salvezza per questo Paese».
L’iperbole finale dimostra come il fascino del governatore della Puglia abbia mietuto un’altra vittima. Il timore che alla fine questo battage vendoliano produca l’ulteriore martirizzazione del Pd, è messo nel conto. «Forse Nichi da solo non vince ma il Pd non può continuare così. Lui almeno ha il potere di riportare allo stato di veglia un partito che risulta in sonno, se non in coma». Mancuso non sale sul treno in corsa, queste cose le ha sempre pensate. «La fusione a freddo che ha generato il Pd è stata dannosa per entrambe le sue componenti. Mi sembra sotto gli occhi di tutti. Forse anche per questo il Pd non è stato capace di contrastare l’avvelenamento delle istituzioni e delle coscienze italiane».
E così sotto al Maschio Angioino sarà tutto uno sventolar di toghe. La candidatura di Mancuso può venir letta come l’ammiccamento a un elettorato «giustizialista» che finora ha guardato all’Idv, che si appresta a tentare la carta De Magistris. Le referenze sono notevoli: 30 anni di magistratura e inchieste difficili (una per tutte, la strage alla stazione di Bologna) e fama di magistrato militante, inutile dire di quale parte. Aggiungere al quadro il corteggiamento del Pd a Raffaele Cantone, tutt’altro che attenuato dal suo «non possumus» declinato in tv da Fabio Fazio, e la densità di magistrati, di oggi e ieri, in corsa a Napoli, potrebbe raggiungere livelli che neanche al Csm. «Rispetto ai miei colleghi, che stimo, io sono un ex. Ho lasciato la magistratura cinque anni fa, faccio l’avvocato. Ma non credo esista un progetto vendoliano di egemonia su un certo elettorato. Mi risulta che la mia candidatura arrivi dopo i rifiuti di altri ai quali era stata offerta. Quindi...».
La scelta di salutare la toga è maturata nel 2005; Mancuso accetta l’invito di Sergio Cofferati, sindaco di Bologna, ed entra come assessore agli Affari generali in una giunta che più di centrosinistra non era possibile. La sua storia di magistrato non è estranea alla chiamata della politica. Ma proprio quando Cofferati lancia la sua campagna per la legalità, sui rapporti tra i due maschi alfa di Palazzo d’Accursio cala il gelo. «Avevamo visioni diverse in tema di sicurezza. La sua scelta di estremizzare le proprie posizioni non mi trovò d’accordo. In quegli anni, a sinistra vennero fuori sindaci con una visione improntata a soluzioni repressive. Il solo esperimento serio lo fece il ministro dell’Interno Giuliano Amato, che convocò i primi cittadini di alcune aree metropolitane, io andai in rappresentanza di Cofferati, per elaborare misure comuni sulla sicurezza. Non si arrivò al decreto legge, ma la strada da percorrere è quella. Confrontarsi, parlare, e decidere insieme. Senza proclami».

il Riformista 5.12.10
Dopo Cofferati c’è Nichi La parabola di Mancuso
di Antonella Cardone

qui
http://www.scribd.com/doc/44686542

l’Unità 5.12.10
Pd, una svolta per le nuove sfide. Ma non voglio rifare il Pci
Per andare oltre il patto fondativo non possiamo chiedere ai protagonisti di aggregarsi passivamente Vendola dà voce a una parte della società che non si può classificare semplicemente sinistra radicale
di Nicola Latorre


In questi giorni ho ricevuto molte repliche alla proposta di lavorare a un nuovo ”patto fondativo” del PD. Ne sono felice perché la politica è fatta di questo, discussioni e confronto. E per questo penso sarebbe meglio lasciarci definitivamente alle spalle certi vecchi riflessi, spia di una burocratica insofferenza che rende tutto più difficile.
Non ho dunque alcuna intenzione di recitare l’odioso rituale dell’autocritica non solo perché convinto delle mie idee ma anche per non dar ragione a chi mi accusa di voler rifare il Partito Comunista. E vorrei rassicurare Beppe Fioroni e Sandro Bondi che, tra gli altri, mi hanno mosso questa accusa: stiano tranquilli, non ne ho alcuna intenzione (e non so davvero se a frenarmi sia più il dispiacere di dovermi separare da Beppe, o il timore di dovermi riprendere Bondi). Possiamo discutere tra noi e avere opinioni diverse purchè ̆ si rispettino le idee di ciascuno e soprattutto il principio di realtà.
Sostenere che va tutto bene, che le nostre difficoltà sarebbero solo “un po’ di nebbia che annuncia il sole”, è un’analisi miope che ci fa sbagliare rotta. Un’analisi che procura un grave danno al Pd, tanto più in vista della manifestazione dell’undici dicembre, che sarà invece una straordinaria occasione per dare più forza all’opposizione, accelerare l’uscita di scena di questo governo e rilanciare l’iniziativa del nostro partito. Un’occasione che non possiamo sprecare. Proprio per questo io credo che per individuare meglio le scelte da compiere dobbiamo partire dalle nostre difficoltà, invece di negarle per riaffermare l’esattezza delle scelte compiute.
Si annunciano tempi difficilissimi con una forbice che si va paurosamente allargando: da una parte l’impoverimento e la perdita del lavoro che colpiscono tante famiglie, alimentando la conflittualità sociale; dall’altra un’Europa che chiede più rigore, con cui anche noi presto dovremo confrontarci. Qui rischia di innescarsi una spirale davvero pericolosa, dove la diffusione e la radicalizzazione del conflitto renderà più difficile il consenso a quelle riforme che saranno inevitabili. Non è nemmeno pensabile affrontare questa fase con le nostre vecchie parole d’ordine.
Tanti di quei “padri” che sino a pochissimo tempo fa abbiamo descritto come privilegiati perchè sindacalizzati e coperti dallo stato sociale oggi perdono il lavoro, ritrovandosi troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per un nuovo lavoro. Possiamo dir loro che ci dispiace ma che non possiamo occuparcene perché dobbiamo pensare ai loro figli precari? Metterli gli uni contro gli altri sarebbe un errore fatale. Al contrario, il nostro compito è offre loro una prospettiva comune. Ma per fare questo, ecco il punto, non serve un partito che si preoccupi solo di tenere insieme gli eredi delle tradizioni politiche del 900, serve un partito nel quale le nuove istanze di quei padri e di quei figli trovino cittadinanza in un’elaborazione condivisa. ̆
Qui stanno le ragioni di una svolta che porti il Pd molto oltre il patto fondativo del 2007, e che ovviamente non si può proporre chiedendo ai nuovi protagonisti di aggregarsi passivamente. Si tratta d una proposta rivolta anche a Nichi Vendola, perché sono convinto che Vendola dia voce a una parte della società italiana che non è classificabile semplicemente come “sinistra radicale” ma che anzi può contribuire a nutrire una nuova cultura riformista. Ma su questo anche Vendola è a un bivio. Le sfide che si annunciano, tra la crisi economica mondiale, gli scricchiolii della stessa costruzione europea e la crisi politica italiana, ci dicono innanzitutto che non possiamo permetterci di perpetuare un sistema politico costituito da una congerie confusa di liste personali più o meno mascherate. Un sistema impotente e rissoso, causa prima di quel sentimento antipolitico che è stata la vera anima del berlusconismo e che tanti danni ha procurato al paese.
So che Vendola per formazione è immune da simili tentazioni ma a tratti mi è sembrato cedere a questo spirito del tempo rischiando di non mettere a valore ciò che rappresenta. Anche per questo credo che egli farebbe bene a partecipare da protagonista alla costruzione di questa grande comunità politica riformista. Considero importante nella sua replica alla mia proposta l’affermazione che colloca la sua iniziativa nell’orizzonte strategico di un nuovo centrosinistra. Ma è possibile un nuovo centro sinistra, mi domando, senza un nuovo e grande Partito Democratico più forte e più capace di indicare una rotta precisa, per cambiare le carte in tavola di questa crisi politica senza fine? Credo di no.

l’Unità 5.12.10
Pd: una nuova materia per le scuole superiori «Introduzione alle religioni»
Alla proposta hanno aderito 22 parlamentari di quasi tutti i gruppi
Per Giovanna Melandri servirà a «colmare la lacuna attualmente presente nella scuola circa la conoscenza delle grandi esperienze religiose di tutto il mondo». Apprezzamento da parte dei rappresentanti di tutte le fedi
di Gian Mario Gillio


Con una conferenza stampa alla Camera, i deputati del Pd Giovanna Melandri, Jean-Leonard Touadi e Andrea Sarubbi, assieme a Paola Frassinetti del Pdl, hanno presentato una nuova proposta didattica denominata Introduzione alle religioni. «L’appartenenza religiosa si legge nella proposta di legge a prima firma Melandri, che ha già visto l’adesione di 22 parlamentari di quasi tutti i gruppi torna a essere una delle componenti essenziali dell’identità degli uomini e delle donne del nostro tempo». L’insegnamento dell’Introduzione alle religioni è inserito come materia di studio obbligatoria nella scuola secondaria di primo grado e nella scuola secondaria superiore. Sono abilitati all’insegnamento i laureati in discipline umanistiche assunti in seguito a concorso pubblico; è prevista un’ora settimanale di insegnamento per ogni classe. Dunque al centro della proposta vi è l’analisi del fenomeno religioso quale elemento trasversale all’esperienza umana e alle culture. Uno sguardo alle grandi tradizioni religiose (induismo, buddhismo, ebraismo, cristianesimo al quale verrebbe prestata particolare attenzione e islam) attraverso l’analisi dei relativi testi sacri, delle tradizioni, delle culture e delle identità dei popoli.
MELANDRI: CONTRO L’ATTUALE LACUNA
«Una nuova materia ha spiegato Melandri che, senza voler minimamente intaccare la funzione ed il ruolo riconosciuti all’insegnamento della religione cattolica (Irc) dalle disposizioni concordatarie, vuole colmare la lacuna attualmente presente nella scuola circa la conoscenza delle grandi esperienze religiose di tutto il mondo. Ciò consentirà, a partire dall’approccio ai testi di riferimento, di cominciare a dotare gli studenti di quegli strumenti culturali idonei a comprendere la pluralità che caratterizza la società di oggi. Pensiamo, ad esempio, alle nuove generazioni nate e cresciute in uno spazio multiculturale e interconfessionale».
AQUILANTE: PROPOSTA IMPORTANTE
Il pastore Massimo Aquilante, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) ha sottolineato l’apprezzamento per un’iniziativa che appoggia: «Questa proposta è importante in quanto allinea l’Italia all’Europa e tiene conto del fatto che la nostra società si presenta sempre più multiculturale e multi-religiosa. Soprattutto ha proseguito Aquilante apre ad una nuova laicità che favorisce lo sviluppo delle capacità critiche nel processo formativo».
Fondamentale si legge nella proposta di legge che adeguato spazio sia riservato anche alle tradizioni religiose orientali. Non solo per dare agli studenti la possibilità di coglierne la ricchezza spirituale e artistica, ma anche come risposta di civiltà al crescente e diversificato fenomeno migratorio. Ad appoggiare l’iniziativa erano presenti anche rappresentanti delle diverse fedi: Sandro Di Castro, dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Giorgio Ferri, dell’Unione degli atei e degli agnostici e razionalisti, e Alessandro Paolantoni, segretario generale dell’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia.

Corriere della Sera 5.12.10
Cultura cattolica: il rischio del declino
di Giuseppe De Rita


Nulla disturba la psiche di noi mortali quanto la sensazione di essere irrilevanti. E si può presumere che il disturbo sia ancora più spiacevole per le istituzioni collettive e per chi le abita e governa. Mi incuriosisce in questa luce, e in parte mi coinvolge, la realtà attuale della Chiesa cattolica che, malgrado la sua persistenza millenaria, è da più parti indicata come grande icona dell’irrilevanza rispetto alla convulsa attualità delle dinamiche culturali e dei dibattiti politici. E confesso che anch’io provo frustrazione per come la Chiesa spesso cada «sua sponte» nel rischio dell’irrilevanza: troppi documenti ad alta genericità, troppi appelli di puro volontarismo, troppi sconfinamenti su argomenti su cui non si ha molto da dire, troppe rivendicazioni valoriali e di principio, troppi eventi che non riescono a farsi notare fuori dei propri recinti.
Si è creata così un’aura di pericolosa non significanza nel campo della comunicazione e dell’opinione pubblica, quali che siano le colpe che in assoluta reciprocità si rinfacciano gli esponenti del mondo ecclesiale («le cose che diciamo non sono adeguatamente valorizzate») e gli esponent i della comunicazione di massa («non ci dicono niente di significativo»). In una progressiva lontananza che non fa bene a nessuno e che forse è possibile superare partendo dalla focalizzazione della sua ragione profonda, cioè l’evasione congiunta e parallela da un confronto culturale doverosamente radicale: da un lato la Chiesa conta prevalentemente sull’omogeneità del proprio mondo, fatto di milioni di fedeli raccolti nelle parrocchie e nelle associazioni; e dall’altro lato i protagonisti della comunicazione e della politica sanno di poter contare sul fatto che sono comunque loro a dettare l’agenda.
Si fronteggiano così due mondi autoreferenziali, dove la distanza fenomenologica delle affermazioni di principio è quasi funzionale a mantenere la autoreferenzialità, spesso addirittura accentuandola: proclamando da una parte valori «non negoziabili», e sottolineando dall’altra la inarrestabilità storica della modernità e dei suoi strumenti. Ma l’autoreferenzialità troppo replicata alla fine stanca e si esaurisce ed è probabile che ci sia spazio per un dialogo pur radicale.
Nel mettere a fuoco tale dialogo ed i campi più delicati e ambigui che esso si trova di fronte, si può constatare che il primo riguarda il rapporto fra dimensione ecclesiale e potere sociopolitico. È chiaro che quest’ultimo è propenso, in nome della modernità, a favorire una crescente espulsione della dimensione religiosa dallo spazio pubblico, ma ciò alla fine crea certo una diminutio parallela: la Chiesa è costretta o si adatta a far politica ecclesiastica, di realistico adattamento al potere e quindi senz’anima ecclesiale; mentre lo spazio pubblico diventa sempre più troppo prigioniero delle dinamiche istituzionali (la laicità dello Stato, la esaltazione della legalità, il primato delle procedure decisionali, ecc.) con l’effetto che proprio lo spazio pubblico, quello di tutti, finisce per diventare privo di senso collettivo e di adesione partecipativa.
Il secondo ambiguo campo di dialogo è quello del rapporto con la modernità e la post-modernità. La Chiesa certamente soffre la crescita della secolarizzazione e della riduzione della religione a fatto privato, residuale e premoderno, ma ancora più soffre la crescita del politeismo dei valori e del conseguente relativismo culturale ed etico. Va però notato che tale politeismo ha effetti devastanti anche sulle ambizioni di una modernità che, essendo sempre meno governata, lascia il campo valoriale alla mercé del primato della soggettività (culturale ed etica) con effetti di egoismo, particolarismo, cinismo, che all’occhio critico appaiono più guicciardiniani che moderni.
Il terzo campo di dialogo, proprio a proposito di soggettività, è quello della variazione dello statuto antropologico dell’uomo. La Chiesa avverte che nella società attuale i suoi basamenti di lungo periodo (la creaturalità dell’uomo, il primato dell’anima nel corpo, la scansione fra speranze terrene e destino ultraterreno) hanno meno udienza che nel passato; ma anche la cultura del secolo avverte lo squilibrio fra le sue ambizioni di autopoiesi e di autodeterminazione dell’uomo (il suo farsi da sé, il primato della libertà di coscienza, la moltiplicazione dei diritti, ecc.) e la quotidiana vita dei singoli, presuntivamente potentissima, ma che nei fatti si consuma in difficoltà e disagi di «senso», divenendo fragile e troppo prigioniera del variare delle contingenze.
Ed infine esiste un quarto ambiguo campo di confronto, quello relativo al ruolo della Chiesa nella storia del mondo. La sua funzione antica di motore della storia è andata declinando e non solo per effetto della secolarizzazione di stampo occidentale (che nega anche le radici cristiane dell’Europa) ma anche e specialmente per effetto della crescita combinata del fondamentalismo islamico e dell’empirismo continuato dei Paesi emergenti. Tale combinata crescita mette però in crisi quell’«orgoglio degli umani» che è diventata ideologia tipica dell’Occidente, ma che non può vivere senza il recupero dell’apporto di uno spirito religioso inverato nella storia, come è per secoli stato lo spirito giudaico-cristiano; e senza il quale anche il citato orgoglio rischia l’irrilevanza storica.
Ce n’è abbastanza per dare senso ad un confronto serio fra la cultura cattolica e la cultura sociopolitica dominante, due culture che ove si accentuassero i pericoli sopra richiamati rischierebbero un parallelo declino di incidenza collettiva. E siccome i pericoli maggiori li corre oggi la cultura cattolica, è forse opportuno che i primi passi del confronto vengano proprio da quella parte.

Corriere della Sera 5.12.10
Cattolici in politica, la diaspora non pesa più
Inchiesta sui parlamentari credenti post dc: per i valori pronti a intese trasversali


Nel Partito democratico, per unire le culture riformiste cattoliche e laiche dell’Italia Rosy Bindi Esiste una perfetta coincidenza fra il sentimento cattolico e l’azione della Lega Roberto Cota Passata all’Udc perché il centrosinistra tendeva a comprimere l’area cattolica Paola Binetti

ROMA — Ci fu un tempo in cui i sacerdoti raccomandavano di votare per «un partito democratico e anche cristiano». Ma la morte della Dc ha disperso i parlamentari cattolici in vari partiti. E Cesare Cavalleri, animatore delle edizioni Ares e direttore del mensile Studi Cattolici, ha pensato di chiedere a dieci di loro come se la passano e quante chance hanno di difendere i valori umani «non negoziabili». Un bel dibattito. Dal quale risulta che la diaspora non crea traumi, ognuno vive bene nel suo gruppo, convinto di poter valorizzare al meglio gli ideali cattolici. Rosy Bindi sta nel Pd perché le pare utile unire «le culture riformiste cattoliche e laiche dell’Italia», mentre Paola Binetti è emigrata nell’Udc perché nel Pd tendevano a comprimere l’area cattolica. Cosa di cui Giuseppe Fioroni non è affatto convinto, lui non si sente straniero nel Pd: «Noi cattolici siamo cofondatori del Pd». Meglio, però, non parlare di partiti in generale, ritiene il senatore Raffaele Calabrò (Pdl). Bisogna valutare «in base agli uomini». E lui, campano, ha una pessima opinione dei politici di sinistra della sua regione che hanno «fatto solo danni». Così ha scelto il Pdl.
Ottimo il rapporto fra Roberto Cota, presidente della Regione Piemonte, e gli elettori, visto che la sua Lega trae forza da «partecipazione e militanza». Esiste «una perfetta coincidenza» fra il sentimento cattolico e l’azione della Lega, lo prova il fallimento dell’Udc che in Piemonte appoggiava «una candidata lontana dai valori cattolici». Soddisfatto anche Maurizio Lupi (Pdl), attorno al quale ruotano associazioni e club vari. Non così ottimista Donato Mosella, aderente all’Api di Rutelli, che lamenta una netta spaccatura fra «Paese della politica e Paese reale». Una situazione che preoccupa anche Savino Pezzotta (Udc). Lui vede una società «individualista ed edonista», e vorrebbe «ricreare la consapevolezza di un destino comune».
Se la gente non ha più fiducia, osserva Giuseppe Valditara, seguace di Fini, è colpa dei politici che non rispettano le promesse. Ma il disincanto è anche conseguenza, aggiunge Giuseppe Fioroni dei «danni di una cultura relativista». C’è poi da considerare, interviene Paola Binetti, che la tv ha portato alla ribalta una «politica urlata», deludente e diseducativa.
Tutti auspicano intese trasversali dei cattolici quando è necessario far trionfare valori legati alla vita e alla persona umana. Un partito, dice Fioroni, «non può sopprimere la libertà di coscienza». Un buon esempio di come i cattolici decidono, appunto, con libertà di coscienza viene offerto da Maurizio Lupi: la collaborazione sulla legge 40 sulla fecondazione assistita dimostra che quando si devono difendere valori irrinunciabili scompaiono gli steccati. E i cattolici si ricompattano.
È diffuso il bisogno di un rapporto stretto con la Chiesa. Dai vescovi la Binetti vorrebbe «indicazioni dottrinali e pastorali chiare». Fioroni si aspetta «orientamento e aiuto» alla sua coscienza. Maurizio Lupi chiede indicazioni che «illuminino la mia azione quotidiana». E Massimo Polledri (Lega) vede la politica come una forma di carità e «come tale ha una sua dignità anche ecclesiale».

l’Unità 5.12.10
Marco Pannella, lo spettacolo dei diritti civili
Vita e avventure del leader nella biografia di Valter Vecellio Dall’antifascismo giovanile alla rifondazione del partito radicale
di Bruno Gravagnuolo


Negare il ruolo storico assunto da Partito radicale, nella modernizzazione della nazione italiana, sarebbe segno di cecità e di settarismo. E anche chi è lontano anni luce dalla cultura e dalla prassi dei radicali deve ammetterlo. Senza i radicali, e senza Pannella, l’idea stessa dei diritti civili, laici e libertari, come patrimonio del senso comune, avrebbe tardato a imporsi. O sarebbe rimasta lettera morta. È questa la prima riflessione a cui induce la lettura della biografia di Pannella firmata da Valter Vecellio, giornalista, vicecaporedattore del Tg2, e direttore di Notizie radicali: Marco Pannella. Biografia di un irregolare(Rubbetino, pp. 286, Euro 18). La seconda riflessione è la seguente: il tratto personale e «personalistico» del partito radicale, creatura «impossibile», sottratta a ogni legge di gravità politica e anzi sospinta a forzarne i limiti della politica sotto la sferza del suo inventore, Marco Pannella appunto. La cui biografia coincide largamente con la vita del Parito Radicale. E ciò senza nulla togliere alla capacità di attecchire di quelle creatura, che di volta in volta è stata spesso sul punto di sparire, proprio perché mai costruita come un partito, per poi risorgere e incidere nella politica italiana. E sempre per volontà impolitica e spettacolare del fondatore, tra digiuni, referendum, rifondazioni transnazionali, proteste mediatiche clamorose, inclusi bavagli silenziosi in Rai e arresti autoprocurati per pubblica violazione di leggi nel bersaglio. Dall’interruzione di gravidanza, al divieto di fumare cannabis, passando per l’autodeterminazione sul fine vita. L’avrete capito, questo libro di Vecellio è una sorta di biografia (autorizzata) di Marco Pannella, del quale l’autore è un devoto, intimamente intrecciata alla vicenda dell’«anomalia» radicale in Italia, che fa corpo col corpo stesso di Pannella. Ecco allora snodarsi le tappe decisive di una scelta di vita «radicale», quella che condurrà Pannella, figlio di un ingegnere elettrico e di una intelligente svizzera francese, dall’antifascismo generico, contratto a scuola a Teramo, al sinistrismo laico. Al liberalsocialismo, al liberalismo di sinistra, al nuovo partito radicale, costola del vecchio partito radicale, quello di Rossi, Pannunzio e Piccardi. Fino al nuovo radicalismo, che inizia la sua avventura attorno al 1961, più o meno in coincidenza con la fine della stagione pannelliana nelle fila universitarie dell’Ugi (erano i «goliardi» di sinistra all’Università). Di lì in poi prende avvio l’onda che condurrà alle battaglie per il divorzio, l’aborto, l’obiezione di coscienza, i diritti dei reclusi, la giustizia giusta, l’abolizione del Concordato, la droga, il fine vita liberamente scelto e altre battaglie laiche ancora in corso.
PADRE MANGIAFUOCO
Perciò grandi meriti: di stimolo al sistema politico e alla mentalità degli italiani. Con alcuni demeriti, non di poco conto. Ad esempio, aver tirato la volata «referendaria», magari con le migliori intenzioni, all’anti-politica, che poi ha trovato corazzate ben lontane dalla laicità di Pannella: la Lega e Berlusconi. E poi aver cavalcato, all’insegna della lotta ai partiti, forme istituzionali plebiscitarie come il Presidenzialismo, che riducono la politica a mercato eterodiretto del consenso e che svuotano la partecipazione. E ancora: aver sposato un approccio ostile al sindacato che scinde i diritti civili da quelli sociali e del lavoro. Con buona pace del socialista Rosselli. Infine, aver accreditato la «rivoluzione liberista» di Berlusconi, per poi di continuo trattare spazi, a sinistra o a destra, in nome delle superiori ragioni radicali. Insomma un mix di machiavellismo e libertarismo. Che sono il doppio volto deI radicali e del suo padre Mangiafuoco e Narciso, ovvero di Marco Giacinto Pannella.

il Fatto 5.12.10
Voti a disposizione
Pannella di governo spara su Santoro
di Paolo Flores d’Arcais


I sei voti dei parlamentari radicali potrebbero essere decisivi alla Camera il 14 dicembre, per cacciare Berlusconi da Palazzo Chigi o salvargli ancora per un po’ la poltrona. L’impunito di Arcore farebbe carte false per ottenerli, quei voti. Ma Pannella è tutto d’un pezzo, i suoi voti non li mette in vendita (ci scusino gli altri “onorevoli” radicali, se parliamo dei loro voti come dei voti di Pannella, ma fin qui hanno sempre obbedito “perinde ac cadaver” a qualsiasi capriola del loro leader).
Pannella è un combattente senza macchia, e al Tg3 che gli chiede lumi sul voto dei suoi parlamentari, risponde con un perentorio “noi lottiamo sempre”. Tutto chiaro? Neanche per idea. Quel tambureggiante “noi lottiamo sempre” era stato preceduto da un “vedremo” che lo smentisce, umilia, rovescia. Perché per votare la sfiducia a Berlusconi – ormai un elementare dovere di dignità civile – non c’è neppure bisogno di “lottare sempre”, basta lottare “un attimino” e a corrente alternata, come il Pd, o addirittura non lottare mai, come Casini. E invece Pannella i suoi voti ancora non ha deciso con quale bottone farli esprimere, il sì, il no o l’astensione. “Noi non siamo mai prevedibili” si è vantato al Tg3, come se l’ambiguità di fronte a un regime che ha ridotto l’Italia in macerie fosse un titolo di merito anziché il sintomo di un definitivo collasso etico-politico. Il “Corriere della Sera” ci fa sapere, infatti, che Pannella ha un progetto politico, intorno al quale nelle scorse settimane avrebbe consultato per ben tre volte Ignazio La Russa (absit iniuria verbis).
E poiché è uno che “lotta sempre”, Pannella al centrodestra, se vogliono i suoi voti, ha posto condizioni durissime, da vero e proprio ultimatum di chi esige una svolta. Radicale, ovviamente. Magari smentirà (o smentirà La Russa). Ma il quotidiano di via Solferino riporta tra virgolette i due “desiderata” pannelleschi. Fate attenzione, perché Pannella ha capito davvero quello che è improcrastinabile per la democrazia italiana: “Un segnale subito contro la dittatura di Michele Santoro”, e un’amnistia, che prenderebbe due piccioni, alleggerire le carceri e risolvere i guai giudiziari dell’amico di Putin.
È proprio vero, i voti di Pannella non sono in vendita, né per soldi né per altra utilità. Infatti Pannella-che-sempre-lotta esige da Berlusconi semplicemente che sia ancora più Berlusconi, fin qui troppo tiepido evidentemente (troppo poco radicale!) contro Santoro e per l’impunità dei criminali. “I radicali danno il meglio nelle situazioni critiche” ha commentato tale Carlo Ciccioli, presentato dal “Corriere” come “deputato filoradicale del Pdl”. Per Pannella politico liberale (e/o democratico) è il definitivo e meritato “de profundis”.

il Riformista 5.12.10
Non nominate la parola trattativa I Radicali non ci stanno e si arrabbiano
Dietro le chiusure della Bonino e il Pannella aperturista sembrano profilarsi due tattiche. Se non, addirittura, due strategie.
di Alessandro Calvi

qui
http://www.scribd.com/doc/44686542

Corriere della Sera 5.12.10
Gli undici volti (e voti) decisivi per la fiducia
Le sorti del governo e il ruolo dei sei radicali, di Brugger e Zeller (Svp). E poi Calearo, Razzi e Catone

ROMA — Pochi, ma decisivi. Agli incerti, ai malpancisti e ai trattativisti sono affidate le sorti della legislatura. Dietro un pensiero politico che può apparire ondivago, in diversi casi si nasconde un volto (e un voto) che può spostare da una parte o dall’altra la bilancia della sfida finale.
La pattuglia dei radicali Sono sei: Maurizio Turco, Maria Antonietta Farina Coscioni, Matteo Mecacci, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti (da sinistra, qui sopra) e Marco Beltrandi (a fianco)
Giampiero Catone, per dire del deputato che per ultimo, il 23 settembre, ha lasciato il Pdl per Futuro e Libertà, tre giorni fa ha annunciato che mai e poi mai avrebbe sfiduciato Berlusconi. Dato in uscita dal gruppo di Fini, subisce il quotidiano pressing del fronte governativo: «Se mi hanno cercato dal Pdl? Certo che sì...». Ma ora l’onorevole, animatore del movimento La Discussione che edita l’omonima testata, apre ai terzopolisti: «Non esiste l’ipotesi che io voti per il premier. Se Fli sente le ragioni di tutti e decide una linea politica, che non sia una sfiducia al buio, posso anche pensare di votare con il mio partito».
Così vanno le cose a Montecitorio, a una manciata di giorni dal big bang. Tra coloro che stanno sospesi c’è anche il veneto Massimo Calearo, l’ex presidente di F e dermeccanica che vanta ottimi contatti nel Pdl. Francesco Pionati lo corteggia da tempo per raddoppiare la sua scarna dote di parlamentari, che al momento conta nell’Adc il solo giornalista Rai, ma Calearo (per ora) non si muove dal gruppo misto. «Viviamo in un tempo politico in cui le certezze sono nulle e si cambia continuamente idea — spiega la sua strategia l’onorevole industriale —. La cosa migliore è starsene tranquillamente alla finestra, più fermo stai e meglio è...».
Fermi nel misto, ma per scelta politica del partito, intendono stare anche i due deputati dell’Svp, Karl Zeller e Siegfried Brugger. Quest’ultimo esclude la possibilità di appoggiare Berlusconi, conferma come l’astensione sia «la linea più probabile» eppure non esclude l’ipotesi di sfiduciare il premier: «Domani in direzione valuteremo eventuali novità e prima del voto diremo cosa abbiamo deciso». Ricapitolando, se Fini convince Catone il blocco delle opposizioni tocca quota 318, con un margine di vantaggio su Pdl e Lega di nove o dieci voti. Ma bisogna tenere conto delle indisposizioni, di quelle politiche e di quelle reali: due deputate delle opposizioni sono agli ultimi giorni di gravidanza.
In momenti in cui nulla è scontato, non deve sorprendere l’atteggiamento evasivo del dipietrista Antonio Razzi. L’onorevole, eletto all’estero con l’Idv, raccontò di aver ricevuto offerte dal centrodestra, «un posto da viceministro e il pagamento del mutuo». Da allora è inseguito dai sospetti. Risponde al cellulare e spiega di essere a New York: «Se voterò la sfiducia? Non so niente. Sono all’Onu... Arrivederci». Clic.
L’altra grande incognita sono i radicali. Anzi, erano. Marco Pannella sembra pronto a stracciare la carta segreta, l’asso che Berlusconi sperava di tirar fuori dalla manica presidenziale. Sì, perché in attesa del big bang i sei deputati eletti con il Pd stanno pensando di presentare una loro mozione di sfiducia al governo in carica. «Che Berlusconi sia sfiduciato o meno i problemi ci saranno ancora tutti — riflette Rita Bernardini, la più battagliera degli onorevoli radicali —. A noi interessa cosa accadrà dopo il 14, ma una nostra mozione non è esclusa. Il problema semmai è trovare le 63 firme necessarie». Ed Elisabetta Zamparutti chiarisce che l’astensione dei sei, che farebbe scendere il quorum a beneficio del centrodestra, «non è nell’ordine delle cose». Cattive notizie per il Pdl, che si aggiungono ai contatti di Claudio Scajola con Casini e Fini. Saranno di certo innocentissimi scambi di opinioni, ma i colloqui tra l’ex ministro e il terzo polo allarmano i fedelissimi del premier. Ed ecco che i deputati liguri del Pdl vanno ad allungare l’elenco dei sorvegliati speciali.

l’Unità 5.12.10
La rivolta di Bronte
Centocinquanta anni fa la spedizione repressiva di Nino Bixio contro i contadini “comunisti”
Giovanni Verga raccontò la vicenda in una novella, ma fu criticato da Sciascia
di Nunzio Dell’Erba


In una nota pagina dei Quaderni del carcere (q. 19, 1975, p. 2045) Antonio Gramsci progettava «di studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860» e «la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente». Ma la sua precoce morte, avvenuta il 27 aprile 1937 a causa delle sofferenze carcerarie, gli impedì di approfondire quella tragica pagina passata alla storia come la rivolta di Bronte.
L’episodio si colloca nell’estate 1860, quando in una Sicilia turbata da gravi conflitti sociali i contadini di Bronte si sollevarono nella speranza di ottenere la divisione delle terre demaniali. Quell’annoso problema traeva origine da una lunga serie di soprusi, il cui inizio risaliva al 1789 con la donazione di un territorio da parte del re Ferdinando di Borbone all’ammiraglio Nelson. Da allora quel territorio, concesso come ricompensa per i suoi servigi e denominato «Ducea» di Nelson, fu rivendicato nel 1821 e nel 1848 dai contadini, che lo consideravano un’usurpazione attuata dal Borbone con la complicità dei cosiddetti «galantuomini». Erano questi proprietari terrieri, che nel decennio successivo difesero i possedimenti della «Ducea», opponendosi con violenza alle rivendicazioni dei cosiddetti «comunisti», ossia di quei contadini che sulla base del codice civile vigente chiedevano la comunione dei beni demaniali usurpati.
Lo spedizione di Garibaldi e dei suoi volontari, sbarcati a Marsala l’11 maggio 1860, fu accolta con entusiasmo dai siciliani. La presenza di Garibaldi riaccese anche a Bronte le speranze dei contadini, i quali chiesero l’applicazione dei decreti che egli emanò per la soppressione della tassa sul macinato e la divisione dei terreni demaniali, sull’esempio dei comuni limitrofi di Adrano, Biancavilla e Regalbuto.
La popolazione, già esasperata dalla mancata approvazione della normativa garibaldina, fu ancor più esasperata dalla scelta alle cariche comunali dei galantauomini contro la fazione dei popolani guidata da Nicolò Lombardo. E le speranze dei contadini furono anche frustrate dalla pressione del console inglese, che fece affiggere un manifesto in cui si richiedeva il rispetto dei possedimenti inglesi.
Fra il 2 e il 5 agosto la rivolta assunse proporzioni inaudite con saccheggi e atti violenti, che culminarono nell’uccisione di sedici galantuomini, tra i quali il contabile e il notaio della Ducea, quest’ultimo reo di aver insultato i dimostranti e definito la bandiera tricolore una «pezza lorda». La protesta dei proprietari e le rimostranze del console inglese ottennero l’intervento delle truppe garibaldine: il 6 agosto una colonna «mobile» di camicie rosse al comando di Nino Bixio represse la rivolta, ordinò l’arresto di Lombardo e dei suoi adepti, costituendo un tribunale di guerra presieduto dal maggiore Francesco De Felice. Dopo un processo sommario i capi degli insorti furono fucilati il 9 agosto con il plauso dei galantuomini e degli inglesi, entrambi favorevoli al ripristino dell’ordine pubblico come unica garanzia ai loro possedimenti: una tesi accolta di recente da Gigi Di Fiore nella sua Controstoria dell’unità d’Italia (Rizzoli, Milano 2007).
UN APPELLO MINACCIOSO
Il 12 agosto Bixio, in un proclama agli abitanti della provincia di Catania, rivolse loro un appello minaccioso, affinché mantenessero «la pubblica tranquillità», invitando i cittadini ad avere fiducia nel governo, «nella forza di cui esso dispone» e in un prossimo intervento legislativo sul «reintegro dei demani», ma alcuni giorni dopo confessò alla moglie che quella era stata una «missione maledetta» per le esecuzioni eseguite nel nome di un «triste dovere»: una decisione che negò in un discorso del 3 luglio 1862 alla Camera, attribuendo le responsabilità al tribunale di Adernò che aveva inflitto la pena capitale.
La vicenda della rivolta fu raccontata da Giovanni Verga in una pagina della novella Libertà (1883) dove descrisse gli episodi di feroce violenza con una forte carica emotiva e una trasfigurazione letteraria, che sembrava accentuare le responsabilità dei rivoltosi e proporre un’apologia di Bixio e dei garibaldini. Furono proprio queste le critiche che nel 1963 Leonardo Sciascia rivolse alla novella verghiana in una sua introduzione al libro Nino Bixio a Bronte dello storico Benedetto Radice. Ma la critica emerge anche nella sceneggiatura che egli scrisse nel 1972 per il film Bronte Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini: un massacro oggi meglio conosciuto per il contributo di nuove ricerche, volte a collocare la vicenda nel periodo storico coevo.

Corriere della Sera 5.12.10
E Keynes criticò la pace di Versailles
L’economista capì che umiliare i tedeschi era un grave errore
di Alberto Martinelli


La raccolta di scritti di John Maynard Keynes Sono un liberale?, curata da Giorgio La Malfa e pubblicata da Adelphi, è un libro di grande interesse e piacevolissima lettura. La scelta dei testi si fonda sui volumi IX e X dei Collected Writings che a loro volta si rifanno alle due raccolte curate dallo stesso Keynes all’inizio degli anni Trenta, gli Essays in Persuasion e gli Essays in Biography. Lo stile è quello del pamphlet, coraggiosamente innovatore, colto senza pedanteria, concentrato sull’attualità e insieme profetico, di raffinata capacità argomentativa e ricco di sintesi fulminanti. La raccolta comprende sia i magistrali ritratti di Alfred Marshall, Thomas Malthuse Isaac Newton (ma anche di Wilson e Clemenceau), sia i saggi critici sugli splendori, le miserie e il futuro del capitalismo individualistico, oltre alla connessa interpretazione del comunismo sovietico. Nella sua bella introduzione La Malfa ripercorre le tappe fondamentali del pensiero di Keynes, mostrandone sapientemente la profonda originalità e la costante attualità. Ciò mi permette di concentrare l’attenzione su quattro soli scritti.
Il primo è quello con cui si apre la raccolta, tratto da quel grande libro, scritto a pochi mesi dalla firma del Trattato di Versailles, che è Le conseguenze economiche della pace, in cui Keynes espone la sua lucidissima critica della «pace cartaginese» (imposta alla Germania dalla ottusa e inflessibile volontà del governo francese), ritenendola in pratica sbagliata e foriera di tragedie che profeticamente paventa. I ritratti contrapposti del primo ministro francese Clemenceau, il vincitore della Conferenza, e del presidente americano Wilson, lo sconfitto, sono di spietata intelligenza psicologica. Clemenceau è descritto come il campione del realismo politico, negoziatore privo di generosità e di scrupoli, che «aveva una sola illusione, la Francia; e una sola delusione, l’umanità, inclusi i francesi, e non ultimi i suoi colleghi». La sua politica appartiene al passato, non al futuro, al conflitto di potenza tra Francia e Germania, non alla visione di una civiltà in cerca di un nuovo ordine, capace di porre per sempre fine alla guerra civile europea. Per spiegare perché questa linea politica prevale sul disegno lungimirante di Wilson, i famosi Quattordici Punti che dovevano porre le basi della pace tra le nazioni, Keynes viviseziona magistralmente la personalità di Wilson, non un «re filosofo», ma un «pastore presbiteriano» con «pensiero e temperamento essenzialmente teologici, non intellettuali», di mente poco elastica e privo di un progetto concreto, incapace di ottenere risultati di sostanza «anche a costo di sacrificare qualcosa alla lettera», sempre più isolato e inerme di fronte alla sottigliezza dei sofisti e alla ipocrisia degli scribi, col risultato di finire a sostenere il contrario della sua posizione iniziale e cioè l’inflessibilità del Trattato e il rifiuto della conciliazione.
Un secondo scritto di particolare interesse è il testo della lezione tenuta nell’agosto del 1925 alla scuola estiva del Partito liberale, che da il nome alla raccolta, assai attuale per la capacità di individuare le questioni veramente rilevanti (la pace, il rendimento del governo, le questioni sessuali, il controllo delle forze economiche) e per l’esortazione ad avere il coraggio dell’impopolarità: «La transizione dall’anarchia economica a un regime che mira deliberatamente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale presenterà difficoltà enormi sia tecniche che politiche. Ritengo tuttavia che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel tentare di risolverle… Dobbiamo accettare il rischio dell’impopolarità e della derisione: solo allora... nuova forza verrà infusa nella nostra organizzazione».
Sulla stessa lunghezza d’onda sono i tre articoli scritti dopo il viaggio del 1925 in Russia, in cui Keynes coglie la commistione di oppressione e di esaltazione in «quel laboratorio di vita» che è la società sovietica, non tace i molti aspetti che gli appaiono detestabili e la pochezza di una dottrina economica inadatta al mondo moderno, ma riconosce anche la straordinaria novità di un atteggiamento critico nei confronti della auri sacra fames che caratterizza la nostra società; interpreta il comunismo come una nuova religione e ammonisce che se il capitalismo irreligioso vuole sconfiggerlo deve dimostrare di essere assai più efficiente.
La raccolta si chiude con il testo postumo su Newton, in cui Keynes espone la tesi, allora assai originale e oggi ampiamente condivisa, che «Newton non fu il primo scienziato dell’età della ragione», ma «l’ultimo dei maghi... perché guardava all’intero universo, e a ciò che esso racchiude, come a un enigma, un soggetto che poteva essere svelato applicando il puro ragionamento a certi segni, a certi indizi occulti che Dio aveva disseminato nel mondo per consentire alla confraternita esoterica una sorta di caccia al tesoro filosofica».
Molti sono gli insegnamenti che si possono trarre da questa lettura, ma i più importanti sono la convinzione della potenza delle idee e della connessa importanza degli intellettuali e la difesa incondizionata della libertà di pensiero e di critica; sono tratti distintivi che fanno di Keynes un vero liberale (dando risposta affermativa al titolo della raccolta) e che possono essere di orientamento in un’epoca in cui la maggioranza sembra rassegnata all’onnipotenza del denaro e alla incapacità di comprendere i processi sociali.

Corriere della Sera 5.12.10
Modì riconquista l’Italia
Il 18 apre al Mart una retrospettiva dedicata alle sue «opere certe»
Da Rovereto a Catania: sculture, dipinti, inediti
di Vincenzo Trione


È Modìmania. Amedeo Modigliani continua a far discutere, svelando nuovi segreti e aspetti ancora poco esplorati. Il 18 dicembre si inaugura al Mart di Rovereto una mostra di raro rigore filologico-critico che, sottraendosi alla moda purtroppo sempre più diffusa degli eventi blockbuster, coniuga studio e messa in scena. Una retrospettiva (curata da Gabriella Belli, Flavio Fergonzi e Alessandro Del Puppo) che presenta per la prima volta, insieme con molti materiali di archivio (disegni, appunti, missive), una parte significativa del corpus delle sculture «certe» dell’artista livornese, eseguite tra il 1911 e il 1913. Un itinerario cui, idealmente, si ricollega un’esposizione al Museo Civico Castello Ursino di Catania (dall’11 dicembre): una ricca carrellata di ritratti dipinti e scolpiti. E, soprattutto, un «foglio» inedito del 1919, ritrovato sul retro di una lettera. Uno schizzo, che rientra nel ciclo dedicato da Modigliani all’iconografia religiosa: forse, la traccia di un possibile soggiorno siciliano. Vi è rappresentata Sant’Agata. La martire adolescente patrona di Catania appare come una principessa, definita da linee accennate: viso allungato, decorata con gioielli, accompagnata da un crocifisso.
Sono, queste, stimolanti occasioni per tornare a riflettere su una straordinaria personalità romantica, sulla quale, negli anni, sono fioriti miti e dicerie. In fondo, la fortuna di Modigliani è legata, innanzitutto, alla sua dimensione privata: peccatore che consumava tutto rapidamente, egli ha condotto un’esistenza bohémienne in quel meraviglioso laboratorio di intelligenze che fu la Parigi primonovecentesca, in costante dialogo con personaggi come Apollinaire e Cocteau. Ad alimentare la leggenda sono state anche alcune vicende controverse. Molti ricorderanno quanto accadde nel 1984 quando, nel Foro Reale di Livorno, vennero ritrovate due teste. Autorevoli storici dell’arte (come Argan) sostennero che Modigliani aveva deciso di liberarsi di quei blocchi ancora incompiuti, gettandoli in un fossato. In realtà, si era trattato di una beffa degna di Amici miei, ordita da un piccolo gruppo di studenti universitari. Un’aneddotica che ha trasformato Modigliani in una sorta di eroe maledetto: quasi un predecessore del James Dean di Gioventù bruciata. Questa notevole fortuna popolare (testimoniata anche dal film che gli è stato dedicato nel 2004, I colori dell’anima), tuttavia, rischia di nasconderne le qualità autenticamente poetiche.
Chi è stato davvero Modì? Un grande isolato del XX secolo, distante dalla logica dei movimenti, abile nel captare suggestioni spesso dissonanti, impegnato in una personale e ossessiva ricerca linguistica: «La sua storia inizia e finisce con lui», ha scritto Giuliano Briganti. Inventore di un codice inconfondibile, egli ha saputo essere, insieme, antico e contemporaneo. Barbarico e sofisticato.
Il suo obiettivo: elaborare un arcaismo moderno. Si pensi alle sue sculture (presentate al Mart), in cui sono evidenti tante assonanze: rimandi alla statuaria primitiva; echi classici, medievali, rinascimentali. Con sapiente lentezza, Modigliani modella la pietra: la attraversa con martello e scalpello, incidendo solchi, senza mai violarne la naturalità. Ritaglia divinità di un mondo lontano, i cui volti si donano come forme risolte, racchiuse dentro segmenti che arrestano i volumi. La sua è una figurazione estrema, primaria. In bilico tra descrizione e astrazione, ricorre a una sintassi minimale. Affidandosi a colpi sottili e taglienti, lascia affiorare dal nulla profili sinuosi: silhouette colte poco prima di essere risucchiate dalla materia. Apparizioni ieratiche e maestose, che rivelano un’eleganza talvolta artefatta e manierata. In alcuni episodi plastici, infatti, Modigliani sembra sconfinare in un decorativismo superficiale: la sua è una stilizzazione che rischia di risolversi in mancanza di stile (ha osservato ancora Briganti). Su superfici scabre e grezze, incide cenni fisiognomici: nasi simili a frecce, occhi privi di pupille, palpebre serrate, colli allungati. Corporeità statiche, imperturbabili. Monumentalità mistiche, indifferenti a ogni sperimentalismo. Una purezza intemporale, metafisica, libera da ogni riferimento alla cronaca, densa di rinvii alle semplificazioni di Brancusi.
Eppure, non vi è nulla di anti-avanguardistico in questo bisogno di essenzialità. Come Picasso e Apollinaire, Modigliani sa che la bellezza, nel nostro tempo, non si offre più come armonia solenne, ma come necessità ferita, equilibrio infranto. Basta soffermarsi sulle sue divinità: in particolare, sulla Testa (della Tate di Londra). Sono esercizi in cui si celebra la perdita del centro: asimmetrie ostentate, assi obliqui. Ecco la pericolosa grazia dell’«Angelo dal volto severo». Seduzione e inquietudine, innocenza e provocazione. Dietro l’eleganza, si celano tensioni spirituali. Dietro le simmetrie, il gusto per le scomposizioni. Dietro le perfezioni, una sensualità perturbante: più repressa che dichiarata, più tormentata che felice. Dinanzi a noi, idoli assorti, silenziosi: lineari, anche se decostruiti. Sono le cariatidi del XX secolo.

l’Unità 5.12.10
Clint Eastwood e quel patto col padreterno
di Alberto Crespi


Parola d’attrice. Cécile de France: «Se ha stretto un patto, è quello con la libertà»
Lettera aperta. Ancora una volta il vecchio Callaghan finisce per stupire tutti: anche il suo «Herafter» è l’ennesimo maledetto capolavoro. Affronta temucci da nulla come la vita e l’aldilà... Ebbene sì, Clint è il più grande regista vivente

Caro Clint, crediamo sia arrivato il momento di guardarci nelle palle degli occhi e di confessare tutta la verità. Cominciamo noi. Secondo noi, sei un genio. Ma questo non ti stupirà. È un’affermazione ovvia. Un cineasta che in un decennio sforna uno dopo l’altro titoli come Mystic River, Million Dollar Baby, Lettere da Iwo-Jima, Changeling, Gran Torino, Invictus e ora questa meraviglia di Hereafter è obiettivamente un genio. Ma siccome sospettiamo che ci sia sotto qualcosa, qui arriviamo alla tua parte di verità: ci vuoi dire, cortesemente, con chi hai stretto un patto? Fino a Invictus potevamo anche credere che fosse il diavolo, ma dopo aver visto Hereafter propendiamo per il Padreterno. Chi altri avrebbe potuto suggerirti di fare un film sull’Aldilà – questo significa Hereafter – in cui si racconta una concezione della morte dolorosa ma serena, e soprattutto laica nel senso puro del termine? Solo il Padreterno, che non ha tempo da perdere con preti, ayatollah e bonzi, e se esiste – dopo aver visto il tuo film, viene il dubbio che esista – ha architettato le cose in modo molto più semplice, e per nulla punitivo, rispetto a quanto ci raccontano gli imbroglioni appena citati.
Del resto, caro Clint, ammetterai che è difficile credere che hai fatto tutto da solo. Insomma, quando ti abbiamo conosciuto – nel 1964, Per un pugno di dollari – eri un pistolero e andavi per le spicce. Qualche anno dopo ti abbiamo scambiato per un poliziotto fascista e forcaiolo – l’ispettore Callaghan, ricordi? Abbiamo fatto tutti abbondantemente ammenda, tu e noi. Noi superando certi schematismi ideologici che allora ci accecavano (ma ce n’è voluta: è dovuto cadere il Muro di Berlino!); tu rielaborando la violenza in modo toccante prima negli Spietati, quel western dove i pistoleri erano anime in pena, e poi nel finale di Gran Torino. Con gli anni abbiamo cominciato a capire che eri un grande regista – bastava guardare film come Un mondo perfetto, Bird, I ponti di Madison County – ma ti mettevamo ancora in compagnia di tuoi illustri compatrioti come Woody Allen, Robert Altman, Terrence Malick, Sydney Pollack (erano tutti ancora vivi, oggi alcuni di loro stanno guardando Hereafter dall’altra parte dello schermo). Ma oggi, dopo l’infilata di capolavori che ci hai regalato in questo XXI secolo, non c’è più lotta, con nessuno. Sei il più grande regista vivente e su questo non sono ammesse discussioni. Un tuo possibile concorrente, Steven Spielberg, si è addirittura messo al tuo servizio – in Hereafter è produttore esecutivo – e ti ha sicuramente dato una mano nel realizzare la sequenza iniziale dello tsunami: così ora il tuo cinema ospita anche una scena apocalittica di forte impatto spettacolare, una cosa mai vista. Sarà costata un bel po’ di quattrini, ma Steven non ha di questi problemi, giusto?
Ieri abbiamo incontrato qui a Torino, dove Hereafter ha chiuso il festival, due dei tuoi attori, Cécile de France e Thierry Neuvic, i protagonisti della storia francese (il film racconta tre storie di rielaborazione del lutto: in Francia, in Inghilterra, a San Francisco; questo per i lettori, tu lo sai già). Abbiamo chiesto loro questa storia del «patto», e Cécile ci ha risposto così: «Clint è un uomo incredibilmente libero, ed è un tale maestro che ormai può affrontare anche temi enormi, come la vita dopo la morte, mantenendo la sua semplicità e la sua capacità di comunicare con il pubblico. Se ha stretto un patto con qualcuno, è con la sua libertà». Ci sembra una bellissima risposta e gliela diamo per buona, però il film è talmente bello da sembrare un miracolo, quindi insistiamo con la faccenda del Padreterno. Attendiamo una tua risposta.
Sappiamo che sei già al lavoro. Stai facendo un film su Hoover, il creatore dell’Fbi, con Leonardo DiCaprio. Un film politico sull’idea stessa di libertà. Se a questo giro riuscirai a convincerci di essere diventato anche un compagno – mentre finora, si dice, resti un repubblicano liberale – il miracolo sarà compiuto. A quel punto potremmo anche credere che sei tu, il Padreterno.

il Fatto 5.12.10
Hereafter di Eastwood presentato a Torino. “Winter’s Bone” vince il festival
Clint, l’amore contro la solitudine
di Federico Pontiggia


La più bella scena di Hereafter non è nel film, ma, come titolo vuole, “nell’aldilà”: l’80enne Clint Eastwood che non ce la fa a rimanere sulla spiaggia, si spoglia ed entra in acqua, sfidando le onde hawaiane per dirigere Cécile de France nella replica dello tsunami del 2007. Regista da buona la prima, Clint, ma in grado – confessa l’attrice belga – di “cambiarti la vita”, anche quando parla di morte o, meglio, della vita dopo la morte, soprattutto quella di una persona cara. Cécile scampa al maremoto e ne fa un libro, un bambino perde il gemello, Matt Damon è sensitivo ma sensibile, e di morti non ne può più: tre storie che si incontreranno a Londra, ma a tenerle insieme è “la fragilità, la solitudine, cui può porre rimedio solo l’amore”. In anteprima europea al festival di Torino e dal 5 gennaio in sala con Warner, Hereafter non è andato bene negli Usa (32 milioni d’incasso, 50 di budget), ma non conta: piuttosto, preparate i fazzoletti, uno per voi, e uno per il film. Perché un po’ piange anche lui: lo sceneggiatore Peter Morgan è più da potere temporale (The Queen, I due presidenti) che spirituale, tsunami e h\ereafter hanno effetti poco speciali, emozioni (ah, il rapimento estatico di Damon a leggergli Dickens!) e ritorsioni sono globali e quantitative come nel Risiko. Un giochino emotivo ma cartesiano, dunque, nella terra di mezzo tra qui e ora e là e dopo. Con una sola avvertenza: non tenere le mani in tasca, e capirete perché. Dalle mani ai pugni, la giuria di Marco Bellocchio ha eletto l’americano Winter’s Bone di Debra Granik miglior film di Torino 28: non l’abbiamo visto, ma ne dicono un gran bene, e arrivava già consacrato dal Sundance . Insomma, possiamo (?) fidarci, ma in palmares pesano due esclusioni: il noir esistenziale canadese Small Town Murder Songs (premiato dai critici) e il belga dai lunghi canini Vampires. L’Italia? È Doc, con Bakroman e i ragazzi di strada del Burkina Faso dei fratelli De Serio, e pure del pubblico, che sceglie Henry di Alessandro Piva, ma dovrebbe farsi presentare il cinema. Rimane il festival di Gianni Amelio: bene affluenza e seguito, le retrospettive di John Huston – ma dov’era Anjelica? – e Kanevskij, le Onde sperimentali e i documentari. Diseguale il concorso (da Four Lions a The Bang Bang Club, qualche mela marcia), malino il fuori concorso: non per i titoli (capolavoro la Detroit di Julien Temple, una sorpresa Burlesque, solido Peter Mullan), ma per gli scarsissimi ospiti al seguito: se Boorman non è Coppola, non si potevano rapire Cher o Christina Aguilera?

Terra 5.12.10
Gli anni confusi
a cura di Francesca Franco

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