martedì 7 dicembre 2010

l’Unità 7.12.10
Bersani: «Dopo Berlusconi disintossicheremo l’Italia»
Per il segretario del Pd il Paese poi andrà disintossicato dal berlusconismo che gli è penetrato nelle vene. D’Alema: «Siamo al degrado. Il governo non ha più la maggioranza, deve dimettersi».
di Vladimiro Frulletti


A Fiesole il leader Pd rilancia il governo di transizione che affronti crisi e cambi la legge elettorale
«Ribaltoni? Il Premier s’è ribaltato da solo». Un passo alla volta: «Prima mandiamolo a casa, poi...»

Primo passo mandare a casa Berlusconi, «il che già vorrebbe dire che siamo avanti di un bel pezzo», ma poi all’Italia servirà un periodo (chissà quanto lungo) di disintossicazione dalla droga del “berlusconismo”. Pierluigi Bersani da Fiesole, dal convegno su paesaggio e democrazia organizzato dall’associazione Viviani e dal Pd, spiega che sì mandare a casa Berlusconi va bene, ma che questo non basterà a ricostruire una nuova Italia. Quella sostanza psicotropa è penetrata nelle vene del Paese e della politica producendo una eccessiva personalizzazione da cui poi bisognerà liberarsi. «Se toccasse mai a me (fare il candidato a premier ndr), assicuro che non ci sarà il mio nome sul simbolo» è la cura che Bersani si dice pronto a fare. Questione che comunque riguarda il post 14 dicembre. Al momento le incertezze sono varie. Fini che non ribalta, ma continua gli affondi. Pezzi del Pdl che offrono trattative (Cicchitto sulla legge elettorale, offerta rispedita al mittente). Ma anche possibili aiuti inattesi al Premier come quello dei parlamentari radicali eletti nelle liste del Pd. Fra oggi o domani Bersani incontrerà Pannella, ma intanto spiega che coi radicali «non si fanno scambi o trattative» ma si parla di politica.
Una situazione che, dice Massimo D’Alema, «si trascina tra polemiche, minacce, quotidiani passaggi di parlamentari da un fronte all’altro, in un quadro che sempre più è quello di un grave degrado della vita politica». E che invece avrebbe bisogno di un taglio netto: visto che il governo non ha più la maggioranza, ragiona il presidente del Copasir, deve dimettersi, «questa è la democrazia». Poi la parola tornerà al Capo dello Stato. A cui, assicura Bersani che nomi non ne fa, il Pd porterà le proprie proposte e rispetterà le decisioni di Napolitano. Troverebbe però simile all’accanimento terapeutico un nuovo governo Berlusconi («sarebbe il quater, abbiamo già dato»), visto anche che il premier ha avuto gli strumenti per governare e non c’è riuscito e ora fa la «vittima», denuncia ribaltoni, mentre «si è ribaltato da solo e adesso il problema è che non si ribalti anche l’Italia». Ovviamente la soluzione che Bersani trova più conveniente per il Paese sarebbe quella di un governo di transizione che riformi la legge elettorale e metta mano alla crisi economica rilanciando gli investimenti. E tutta-
Stop ai personalismi
«Se toccasse mai a me, non metterò il mio nome sul simbolo»
via anche un nuovo governo di centrodestra senza Berlusconi, vedrebbe sì il Pd all’opposizione, ma sarebbe una posizione più avanzata. L’obiettivo (strategico si sarebbe detto) è costruire una vera alternativa di governo da presentare agli italiani. Il bipolarismo a suo giudizio non è in discussione fra gli italiani e non lo potrà mettere in discussione la nascita del cosiddetto grande centro:«non credo a una nuova Balena Bianca». Per Bersani Fini infatti è di destra e a destra rimarrà: «vuol fare una destra non populista, liberale? Auguri», Casomai il centro potrà rendere «flessibile» il bipolarismo decidendo prima del voto, come i Liberali in Germania, con chi allearsi. Da qui il progetto di un centrosinistra che col centro costruisca un’alleanza di governo. Che non sarà la riedizione dell’Unione, ma avrà paletti programmatici chiari. Tipo quelli che Bersani indica sul caso Fiat facendo sapere a Marchionne che il modello americano non fa per l’Italia (non c’è bisogno di cancellare il contratto nazionale per aumentare la produttività), mentre invita i sindacati a utilizzare strumenti democratici per far decidere i lavoratori.

Repubblica 7.12.10
Bersani: no al Berlusconi-bis se ne vada il prima possibile
D’Alema: grave degrado. Di Pietro: dignitoso solo votare


ROMA - Bersani scherza sul Berlusconi bis: «A dire il vero sarebbe il quater, un po´ troppo, abbiamo già dato. Basta, accontentiamoci di quello che abbiamo avuto». Poi però risponde al premier sul voto del 14, sull´ipotesi di un nuovo governo senza il Cavaliere. Che Berlusconi ha già bocciato parlando di ribaltone. «Si è ribaltato da solo, ha fatto tutto lui, e adesso il problema è che non si ribalti anche l´Italia», dice il segretario del Partito democratico. «Non vorrei che Berlusconi cominciasse con la solita cantilena vittimistica, per cui è sempre colpa degli altri, solo colpa degli altri. È una scusa inaccettabile».
Anche la scusa dell´instabilità non sta in piedi perché il capo del governo «è il fatto massimo d´instabilità. Ha avuto in mano tutto, ha fatto tutto quel che voleva, ci ha ridotti così e adesso qualcun altro deve pensarci, questa è la realtà delle cose». L´ambizione resta quella di un governo di responsabilità istituzionale. «Non una vera coalizione, ovvio. Non penso a incontri tra i leader dei partiti per dirimere le questione. Un esecutivo del genere avrebbe già un programma definito: la legge elettorale e alcune misure per salvare l´economia». Oggi Bersani vedrà la delegazione radicale che non ha ancora sciolto il dubbio sul suo voto. «Non sarà una trattativa. Con loro gli scambi sono impossibili, la chiave è un´altra». Ma il voto del 14 sarà al centro della discussione, il Pd cercherà di capire da Pannella dove vuole andare a parare.
Per Massimo D´Alema «la situazione è abbastanza chiara, il governo non è più in grado di governare ormai da tempo, non dispone di una vera maggioranza e la situazione si trascina tra polemiche, minacce, notizie quotidiane di passaggi di parlamentari da una parte all´altra». A questo punto il primo obiettivo è chiudere l´esperienza berlusconiana. «L´unico modo - dice D´Alema - per porre fine a questo stillicidio è che il governo se ne vada». Il dopo invece è solo il voto anticipato secondo il leader dell´Italia dei Valori Antonio Di Pietro. «Il Terzo polo farà la fine dell´asino di Buridano. Morirà di fame perché non starà né di qua né di là. La mia speranza è che Berlusconi apra davvero la crisi e si vada a votare. Così si pone fine all´era del Cavaliere».
A un dopo diverso guarda il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini. E forse su questo punto occorrerà dare una risposta alla manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma di sabato. «Non penso che si possa parlare di ribaltoni - dice Franceschini al Tg3 -, qui si tratta di chiudere l´epoca Berlusconi per aprire una fase di responsabilità e transizione, con un governo che lavori alla legge elettorale e a superare la crisi. Poi, di riconsegnare il paese ad un bipolarismo moderno, con il voto». E agli elettori del Pd che hanno dei dubbi su una soluzione con dentro Fini, Casini e Vendola, il presidente dei deputati replica sottolineando il momento che sta vivendo l´Italia. Un momento che ha qualche analogia con i fatti di 60 e più anni fa: «Siamo in una fase d´emergenza democratica. I nostri padri, durante la Resistenza, non si domandavano su cosa fare dopo, se essere monarchici o per la Repubblica. Prima, liberarono il paese, poi diventarono anche avversari. Ma avversari che rispettano le regole».
(g.d.m.)

l’Unità 7.12.10
Il Dossier. Oltre le sbarre /1
Matti da impazzire
di Leonardo Anastasia


Il racconto drammatico di uno scrittore che ha passato alcuni mesi all’interno di uno dei tanti ospedali psichiatrici giudizari italiani. «Siamo in sette dentro la cella e la convivenza non è facile, forzati dentro 20 metri quadri appena». Coi bagni ridotti in latrine e la paura come unica compagna

Non si dormì quella notte nella cella 6 del reparto 5 dell' Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa.
M. stava già male di suo per il diabete e la psicosi, quella notte insisteva per avere da A. qualche cucchiaio di zucchero. A. glielo negava, gli serviva per il caffè. Quando M. in barba a qualsiasi rifiuto è sceso dal letto a castello ed ha messo le mani sullo zucchero, A. si è alzato e l'ha colpito con un pugno in pieno volto. M. è scattato e giù pugni sulla faccia di A.: "Me lo dai lo zucchero adesso!!!", A. è sopraffatto, la sua mole grossa annaspa, il suo sopracciglio si apre e sanguina, urla, arrivano le guardie. M. viene legato e sbattuto in camera di isolamento, griderà tutta la notte, l'indomani verrà trasferito alla "staccata", il reparto punitivo.
Una settimana dopo qualcuno scardina il lucchetto del mio armadietto e mi ruba le sigarette. Non ne posso più, chiedo di cambiarmi di stanza; lì alla 6 il bagno è sporco e puzza di fogna, i compagni di cella non si lavano e tutto è incuria tetra. S. per cagare si siede con il culo dentro il cesso alla turca dove tutti gli altri espletano, senza nessun senso dello schifo.
Quando ruba sigarette a qualcuno le fuma tossendo con una tosse polmonare pesantissima dopo la quale sputa invariabilmente in terra. C. svuota il cestino della cella nel contenitore rifiuti situato nello spazio comune. Mi spostano nella cella 2: un paradiso a confronto. A. c'ha un triplice omicidio sulle spalle ed è tranquillo e taciturno, legge le sue riviste e prende il caffè amaro con un po' di latte. M. è un pittore, capace che ti manda a quel paese per niente, ma poi è subito amichevole. La notte prende il suo banchetto e si chiude in bagno a studiare mentre gli altri in stanza guardano la tv con la luce spenta. Sa cose incredibili M.: ha ottenuto la licenza media inferiore da autodidatta ma ha una curiosità vorace e studia di filosofia, di astrologia, di storia, di letteratura. Ha una cultura schizofrenica e se ci parli ha velleità profetiche. E' un contestatore ma ha davvero un gran talento. Cammina avanti e dietro cento volte per lo spazio comune affiancato al suo discepolo di turno. Puoi fare richiesta per comprare un fornello a gas tipo quelli da campeggio e puoi comprare una caffettiera, poi il caffè e lo zucchero li prendi nella spesa settimanale, così passiamo metà della giornata a fare e ingurgitare caffè. Nella nuova cella, che è la più ricca di tutte, abbiamo comprato anche le pentole e lo scolapasta in modo da cucinare da soli la sera evitando così il rancio tetro che viene distribuito agli altri detenuti.
G. non appartiene fisicamente alla nostra cella, nel senso che è stato spostato alla 4 prima che io arrivassi, ma praticamente sta sempre qui da noi, mangia anche con noi e da il suo contributo per l'acquisto della pasta, dei pelati, del parmigiano,
del pesto e via dicendo. L. come viene chiamato confidenzialmente G. c'ha mezzo corpo ricoperto di tatuaggi ed è in grado di costruire una macchinetta elettrica con l'ago per fare tatuaggi agli altri. Abbiamo approfittato tutti: chi si è fatto disegnare un drago, chi uno scudetto con le insegne della Roma, chi un cuore. Io mi sono fatto disegnare una scritta "Liv" fra due ali, in nome dell'attrice Liv Tayler che adoro, poi le scritte "Femejac" che è il mio soprannome e "Ragazze di Ravenna", per le quali ho una adorazione, il tutto sul braccio sinistro ma in piccolo. Farmi fare questi tatuaggi mi è costato 10 pacchetti di sigarette, tra l'altro la qualità è buona sono ben definiti. Per inchiostro si usa il "nerofumo": si squaglia un rasoio di plastica usa e getta sotto un coperchio di pentola in modo che lì sotto si formi tutta una fuliggine nera, questa viene poi staccata con una lama e si ottiene polvere nera a scaglie che và mischiata con un po' di dopobarba e un po' di crema per le mani in maniera da ottenere questo inchiostro liquido che è un surrogato più scadente della china.
Intanto L. aveva distrutto un mangianastri portatile per ottenere il motorino elettrico il quale collegato ad una serie di batterie farà il lavoro della macchinetta: basta usare la puleggia che esce dal motorino per obbligare il movimento di una canna dentro un percorso lineare costruito con il tubo di plastica di una penna, in fondo alla canna c'è fuso l'ago che compie movimenti vorticosi fuori e dentro il tubo. Basta un po' di scotch per tenere il tutto ed uno spazzolino da denti moncato per reggere la macchinetta e voilà il miracolo è riuscito; basta intingere la punta nel nerofumo ed attivare le batterie attraverso un contatto, ed inizia la tortura sulla pelle del malcapitato. Siamo in sette dentro la cella e la convivenza non è facile, praticamente forzati dentro 20 metri quadri. Sulle pareti i disegni colorati di M. mettono allegria, così come due calendari di donne nude appesi agli armadietti. Quattro di noi dormono in un letto a castello, io dormo sopra M. Sui letti singoli ci sono: A. di cui ho già parlato, M. che ha sparato uccidendo un poliziotto durante una rapina e B. un vecchio di oltre sessant'anni con lunghissimi capelli bianchi e barba. B. un giorno ha scardinato il chiavistello di casa della sua ex convivente, gli hanno dato senza motivo il tentato omicidio. Di due anni in due anni la sua permanenza paradossale in OPG resta. Questo succede perché B. non ha nessuno che si occupi di lui da fuori, che gli cerchi una comunità alternativa, una clinica alternativa. I suoi parenti se ne sbattono, lui se ne sbatte di nominare un avvocato che lo aiuti, così l'OPG se ne sbatte di lui e continua a rinnovare la sua detenzione. Qui funziona così: lo chiamano "Ergastolo Bianco": entri con un tot di periodo di condanna, ma la maggior parte delle volte al riesame te lo prolungano. Alla cella 4 c'e M. che sta qua dentro da 12 anni, c'è impazzito davvero qua dentro borbotta frasi come "Bernardo Provenzano, Bernardo Provenzano..testimone oculare", fa tenerezza così come fa tenerezza R. della cella 3. Sembra una scimmietta R. ed ha il cuore d'oro, sempre disponibile a mediare le situazioni, un ragazzo che sa davvero stare al mondo, c'ha un solo problema che appena provano a metterlo fuori combina casini: brucia macchine, accoltella persone, risse per cui a malincuore lo tengono qui, ma lui come persona è veramente un angelo.
Di giorno le celle sono aperte e stiamo tutti (chi vuole può restare in stanza) in uno spazio comune di non più di ottanta metri quadri dove puoi passeggiare o sederti se trovi una sedia libera.
Ogni tanto chiamano il "passeggio": si scende all'aperto in un rettangolo di asfalto dove passeggi avanti e dietro per quindici minuti. Fra gli infermieri c'è una ragazza bellissima che si chiama P., ce la fanno vedere con il contagocce, qualche volta sostituisce l'infermiere di turno G. che viene a darci la terapia del mattino e del pranzo. Siamo tutti innamorati di P., lei civetta fa sentire la sua voce da fuori e raramente viene a farsi una passeggiata fra le celle quando sono chiuse. E' il sogno di tutti noi ed è anche l'unica donna con cui c'è un contatto.
Qualcuno dei ragazzi collabora con l'amministrazione facendo il "lavorante", pulisce, cambia le lenzuola, serve il pasto a tutti. Sulla qualità dei pasti è meglio sorvolare. Il momento più bello è quando arriva la spesa, sigarette e tutto. A proposito delle sigarette è veramente un supplizio: quelli che non hanno i soldi per comprarle o le finiscono, che poi sono sempre gli stessi, stanno una continuazione a questuare almeno il mozzicone. E' un vero e proprio assedio per cui molti di noi preferiscono restare in cella per non essere seccati. Si crea un vero e proprio mercatino in cambio di sigarette: negli ultimi giorni prima dell'arrivo della nuova spesa puoi comprare un walkie talkie con le cuffie per un pacchetto, ho visto vendere un giubbotto di marca molto bello per cinque pacchetti, poi i più sfigati ti vengono a proporre cose inutili che nessuno vuole per cui non si sta al sicuro neanche dentro le celle. Qualcuno di noi fa prestiti di pacchetti ai più affidabili ricavandone un agio mercantile: B. è uno strozzino! Io non ho problemi: si presta qualche pacchetto ad un amico in difficoltà, ma niente di più.
Un altro momento bello è la visita dei parenti, per chi ce l'ha e li riceve. Ti portano un pacco pieno di leccornie che i tuoi compagni di cella insieme a te provvedono a far sparire nel giro di un giorno: teglie di lasagne, ruoti di parmigiana di melanzane, torte, merendine etc. Nell'ultimo colloquio mia madre mi ha detto che l'avvocato si stava dando da fare per tirarmi fuori, che il rapporto interno dello psichiatra dell'OPG su di me era buono e che si cercava l'alternativa di una Comunità Psichiatrica, ma tutto dipendeva dal Perito nominato dal giudice che sarebbe venuto ad intervistarmi di lì a dieci giorni. Mi chiesi quanto sarei rimasto qui. La libertà non l'avevo mai sentita così lontana.

l’Unità 7.12.10
Il Dossier. Oltre le sbarre /2
«Entro gennaio dobbiamo liberare quasi 300 persone»
Marino, presidente della Commissione sul Ssn, annuncia: «Faremo chiudere gli Opg più disumani». Presto un tavolo con le Regioni
di Maria Zegarelli


Duecentosessantasei persone rinchiuse in ospedali psichiatrici giudiziari senza un vero motivo. Alcune sono lì da quindici anni, altre da trenta, quaranta. In nome di proroghe emesse una dopo l’altra perché non c’è un posto dove mandarli, sarebbero cioè in astratto dimissibili, ma di fatto sono state condannate senza sentenza ad un «ergastolo bianco». I dati emergono dai documenti in mano alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale presieduta dal senatore Pd Ignazio Marino che da un anno ha avviato un’indagine sul buco nero di cui nessuno vuole parlare perché dentro ci finiscono gli ultimi, quelli che nessuno reclama fuori.
Negli Opg (ce ne sono sei: Barcellona Pozzo di Gotto, Reggo Emilia, Montelupo fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli e Aversa) vengono assegnati pazienti con gravi problemi psichiatrici che si sono macchiati di delitti efferati, ma anche persone che hanno disturbi comportamentali pur non essendo pericolose socialmente. A differenza che nel carcere, qui non possono entrare neanche i parlamentari, ecco perché per anni non se ne è saputo nulla, fino a quando la Commissione, che poteri speciali paragonabili a quelli dell’autorità giudiziaria, ha iniziato ad effettuare dei veri e propri blitz insieme ai Nas ed ha aperto le porte dell’inferno dei dimenticati.
I membri della Commissione hanno visto scene raccapriccianti che raccontato pubblicamente trasferendo gli atti all’autorità giudiziaria: persone legate alle sbarre dei letti, nude, buchi nel materasso per far scivolare via gli escrementi (è successo a Barcellona Pozzo di Gotto); costrette in stanze pensate per due e poi adattate fino a nove letti. Ad Aversa c’erano bottiglie d’acqua calate nel bagno alla turca per tenerle al fresco perché ad agosto tutto diventa bollente e non c’è neanche un frigorifero. «Abbiamo riscontrato situazioni disumane racconta Ignazio Marino -, con violazioni gravissime dei diritti, da quello alla salute, a quello del pari trattamento davanti alla legge, fino alla stessa libertà personale: ci ha sconcertato l’aver appreso che il 30% degli internati è lì senza una motivazione». Come nel caso di un giovane che diciotto anni fa entrò in un bar si mise una mano in tasca e simulò di avere un’arma. Rubò 7mila lire, il giudice lo ritenne insano di mente: è ancora nell’inferno. Il presidente dell’associazione nazionale magistrati di sorveglianza, Giovanni Tamburini, che oggi sarà di nuovo audito, ha raccontato che ci sono persone rinchiuse da 40 anni.
Gli Opg dal 2006, sotto il governo Prodi, sono passati nelle competenze delle Regioni, ma mancano personale medico e finanziamenti.
«Noi ci siamo posti un obiettivo in assoluta sintonia in commissione continua Marino perché su questo tema la pensiamo tutti allo stesso modo, abbiamo provato tutti lo stesso sgomento e la stessa vergogna. Entro gennaio vorremmo ricondurre alle rispettive Asl di appartenenza i circa 300 internati non pericolosi per dar loro l’assistenza medica di cui necessitano». Ad occuparsene saranno i sei magistrati di sorveglianza delle regioni dove ci sono gli Opg, ma saranno coinvolti tutti gli assessori regionali. Non sarà facile: in Campania le persone rinchiuse senza motivo sono 63, in Lombardia 53. «Tra i nostri obiettivi conclude Marino c’è anche quello di chiudere alcuni degli Opg che oggi sono aperti in condizioni spaventose». C’è una struttura che andrebbe presa a modello: quella di Castiglione delle Stiviere, Mantova, dove uomini e donne vengono seguiti dai medici, lavorano in laboratori di artigianato e dormono in stanze con due letti. Lì non c’è la polizia giudiziaria. Vivono in condizioni umane, seppur rinchiusi.

l’Unità 7.12.10
La fabbrica della paura
di Giancarlo De Cataldo


Aguardare i dati di un recente studio sul rapporto fra sicurezza e mass-media ( ̆ AA.VV.: «La sicurezza in Italia. Significati, immagine e realtà», Terza indagine sulla rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza, con un confronto su scala europea, I quaderni di Unipolis n.2/2010) c'è da restare impressionati. I delitti calano, ma nessuno se ne accorge. E nessuno se ne accorge perché i media alimentano un ossessivo clima di paura, ci convincono che viviamo in un mondo dominato dal crimine, in particolare dalla microcriminalità di strada, ci inducono a cercare rifugio in politiche sempre più aspre della sicurezza. E ciò, ovviamente, a prescindere dalla loro reale efficacia. La stessa fonte ci spiega, poi, che il picco del panico, toccato nel biennio 2006/2008, va scemando negli anni successivi. Se ne trova conferma in ulteriori ricerche (www. demos.it./a00498-php) che attestano un modesto, ma comunque significativo, calo della percezione d'insicurezza fra i cittadini del Nord-Est e lo mettono in relazione con il contemporaneo calo di notizie allarmistiche nei principali TG. Quando si parla di notizie allarmistiche, va precisato, non ci si riferisce ai delitti eclatanti, che appassionano il pubblico, ma alla “cucina” del piccolo spaccio, dello scippo di strada, della truffa minima. È lì che si gioca la partita: sulle nostre piccole, umanissime, comprensibili paure quotidiane che, enfatizzate, diventano la Grande Paura. Cioè il più poderoso strumento di controllo delle coscienze. Cose ovvie, si dirà, e risapute: ma quanti meccanismi ovvi e risaputi brillano per la loro costante, inattaccabile funzionalità? Se così stanno le cose, c'è a temere che il calo d'insicurezza percepita rilevato dagli ultimi studi sia solo un fenomeno temporaneo.

il Fatto 7.12.10
Mazzini, l’antitaliano
Pubblichiamo un breve estratto del lungo racconto che Giancarlo De Cataldo fa della vita di Giuseppe Mazzini sul nuovo numero di MicroMega, da oggi in edicola. Mazzini è ormai esule a Londra, ma nel 1857 torna in Italia, a Genova per la precisione
di Giancarlo De Cataldo


   A Genova c’è il tenente Carlo Pisacane, eroe della Repubblica Romana del ’49, e capo designato di una spedizione militare che, risalendo dal Sud, avrebbe dovuto liberare l’Italia. Per la verità, il capo avrebbe dovuto essere Garibaldi. Ma Garibaldi, a cui non faceva difetto l’intuito, aveva capito che i tempi non erano ancora maturi, e si era tirato indietro. Pisacane no. Pisacane non solo voleva combattere, ma credeva di vincere. E, se avesse vinto, l’Italia sarebbe stata non solo repubblicana. Sarebbe stata, addirittura, socialista. Pisacane, bello e di fiero aspetto, sebbene nato barone, era, in quel momento, il leader politico-militare più vicino alle idee di Carlo Marx. Si era accostato al socialismo leggendo, anni addietro, il Manifesto di Marx e Engels. Aveva anche intrattenuto, sul punto, un’affettuosa polemica con Mazzini, del quale era, più che amico, devoto. Mazzini, però, era ostile a Marx, e più in generale al socialismo. Da un lato, egli dava per scontato che la rivoluzione dovesse essere “sociale”. Dall’altro, intravedeva, con estrema lucidità, la deriva potenziale del materialismo storico. Scrisse perciò Mazzini: “La rivoluzione sarà sociale. Ogni rivoluzione è tale o perisce, sviata da trafficatori di potere e raggiratori politici. Né Patria comune può esistere se l’esercizio dei diritti ottenuti col-l’armi riesca, per ineguaglianza soverchia, ironia per la classe più numerosa del popolo – se non si costituiscono più eque relazioni fra il contadino e il proprietario di terre, tra l’operaio e il detentore di capitali…”. (...) Mazzini attaccava i socialisti con violenza: “Io non accuso la vasta idea sociale, che è gloria e missione dell’epoca, della quale noi siamo precursori. Io accuso i socialisti, i capi segnatamente, d’aver falsato, mutilato, ringrettito quel grande pensiero con sistemi assoluti, che usurpano a un tempo sulla libertà dell’individuo, sulla sovranità del paese e sulla continuità del progresso, legge per tutti noi. […] Li accuso di aver sostenuto che la vita è ricerca di felicità, mentre la vita è una missione, il compimento di un dovere. Li accuso di aver fatto credere che un popolo può rigenerarsi impinguando, d’aver sostituito al problema dell’umanità un problema di cucina dell’umanità. Di aver detto: a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, invece di bandire altamente ad ogni ora: a ciascuno secondo il suo amore, a ciascuno secondo i suoi sacrifici…”. A pensare agli argomenti dei quali si nutre, oggi, l’agone politico, monta dentro una sorda rabbia.
QUELLI ERANO titani, al confronto. Tutti. Marx, che avrebbe cambiato il mondo; Mazzini, che aveva preconizzato le tragedie causate da quel cambiamento che nasceva su premesse, ai suoi occhi, distorte. E il generoso Pisacane. Che partì con un manipolo di compagni, liberò i galeotti e non i detenuti politici (e i galeotti se la squagliarono alla prima occasione), sbarcò, cercò di infiammare il Sud, che rimase inerte. E finì trucidato da sbirri e briganti. Un altro fallimento, dunque. Ma l’idea restava intatta. E il piano, il piano in sé era quello giusto. Tanto che, appena tre anni dopo, Garibaldi l’avrebbe replicato, con l’impresa dei Mille, e l’Italia si sarebbe fatta. Soltanto, i tempi erano sbagliati. Quanto a Cavour, se ne era rimasto alla finestra. Se Pisacane ce l’avesse fatta, sarebbe intervenuto a sostegno. A fallimento certificato, condannò l’impresa. Mazzini non era che “il capo di un’orda di feroci e fanatici assassini”. Biosognava prenderlo e impiccarlo. Certo che si volevano un gran bene, gli artefici dell’unità d’Italia! Noi italiani abbiamo un curioso rapporto con il nostro passato. Con il Risorgimento in particolare. Lo crediamo opera di Garibaldi – un eroe senza macchia e senza paura, un po’ avventuriero e un po’ calcolatore, ma tanto, tanto affascinante! – di Cavour – un ministro di respiro europeo, dal grande cervello e dall’intuito sopraffino – di Vittorio Emanuele II, re buono, un po’ pasticcione ma con un cuore grosso così, e… ma sì, anche di Mazzini. In fondo, c’entra anche lui con la nostra storia. Ma, soprattutto, una cosa di cui siamo fermamente convinti è che i nostri grandi eroi, tre eroi e mezzo (Mazzini, mezzo eroe), si amassero, rispettassero, venerassero. Che avessero lavorato come un sol uomo per fare la Nazione, prima, e poi per renderla grande. Niente di più sbagliato. Niente di più tragicamente sbagliato. Quei quattro si detestavano, giunsero persino a odiarsi. Cavour condannò ripetutamente a morte Mazzini. Il re si appoggiò ora all’uno ora all’altro per farsi il suo proprio Risorgimento, quasi sempre senza capirci un accidente e rischiando di mandare a monte il gioco grosso. Garibaldi e Mazzini non si parlarono per anni, il generale scaricò sul vecchio amico di un tempo accuse false e roventi, e Mazzini non rispose mai, e… insomma: il nostro Risorgimento, al pari di tutte le lotte di liberazione nazionale, è stata un’avventura rivoluzionaria fatta di sangue, epica, tradimento, calcolo politico, ingenuità spontanea, rovesciamento di alleanze, opportunismo, trasformismo, e persino terrorismo.
MAZZINI ne incarnava l’anima più pura, libera da ogni compromesso, intransigente eppure sensibile, duttile, realista... E, nello stesso tempo, era un sanguinario della specie più scatenata. “Sono assetato, furiosamente desideroso di azione, e infastidito di ogni altra cosa che riguardi l’Italia e l’Europa”, scriveva proprio in quel ’57 fatidico. “Senza una bella tempesta che spazzi via tutto non c’è speranza. L’aria è inquinata. Le parole hanno perso il loro significato. Si è perduta ogni regola di veridicità e di morale politica”. Vi ricorda, ci ricorda qualcosa?

il Fatto 7.12.10
La riforma in classe
di Marina Boscaino


Immaginate un mondo in cui – voi della mia generazione, più vecchia o di poco precedente – l'adolescenza sia trascorsa senza lo sguardo malinconico di Berlinguer, quello pensoso di Moro, quello acuto di Per-tini. Un mondo privo – peggio – di ciò che quegli sguardi ci hanno consegnato. Un mondo senza sezioni di partito, senza idee forti, senza appartenenza, se non la Curva Sud, un gruppo su Face-book o la Padania. In cui partecipare o dire di no – nella triste lettura degli esternatori di professione che governano – evoca fantasmi paurosi, borderline tra illegittimità, violenza, inconsapevolezza pilotata da altri (Sessantotto, centri sociali). Libertà era partecipazione. Ora è consumo.
OGGI VIVONO in un mondo in cui il capo del governo è accusato di intrattenere rapporti eufemisticamente non limpidi con ragazzine; in cui ogni giorno lo scenario cambia: bipolarismo, terzo polo, fiducia sì, fiducia no, fiducia non lo so; in cui furbizia, vanità , vacuità sono valori por-tanti. In cui giurare sulla Costituzione, servire Stato e interesse generale sono elementi di facciata, dismessi e sostituiti da volgarità e improvvisazione, dilettanti allo sbaraglio, successi senza merito dei cantori del merito. Gli adulti di riferimento, che crederebbero ancora in un altro mondo possibile, sono stanchi, spesso senza voglia di lottare. Questi ragazzi hanno condotto l’intera esistenza bersagliati da messaggi incompatibili con partecipazione seria e responsabile. Nutriti da merendine e pillole di saggezza di Maria De Filippi, simbolicamente orfani di padre, di principio di autorevolezza, di un’idea forte e grande, educati in famiglie e scuole che spesso hanno perso la mira e non comunicano che disagio le prime, saperi liquidi le seconde, senza mai rispondere ai loro perché. Fanno la III liceo, a 6 mesi dall'esame di Stato. Verga e il De tranquillitate animi di Seneca sono il nostro pane quotidiano. Mi hanno chiesto loro – assieme alla II – di destinare la giornata di ieri a leggere il ddl Gelmini sull'università: stanno cercando di esercitare cittadinanza consapevole. Miracoloso, come ciò che è accaduto la scorsa settimana nelle piazze e sui monumenti delle nostre città.
NON ME LA SENTO di scoraggiarli, capiranno meglio la letteratura italiana, dopo. E oggi andranno in assemblea, per decidere come comportarsi verso la mobilitazione studentesca, più informati. E se qualcuno dirà che sono manipolati, peggio per lui. Se mi ammonirà che non si fa politica a scuola, sapremo rispondere. E se penserà che non serve, pazienza. Intanto noi leggiamo insieme e proviamo a capire. E a capirci. Lontani come siamo per età, esperienze, orizzonti. Non potrò spiegare cosa si prova a sentirsi parte di un grande movimento di donne e uomini; né di come ci si ritrova a constatare cosa ne è stato e soprattutto cosa non ne è rimasto. Non potrò pretendere da loro la passione che tempi e prudenza scoraggiano. Ma consapevolezza sì. Il nostro attimo fuggente, prima del ritorno nel grande blob magmatico di notizie pilotate e deragliate, è la celebrazione di Cittadinanza e Costituzione (materia-fantasma dell’immaginario gelminiano): lettura critica del decreto. Provare a capire. E tentare di inoculare un’idea rivoluzionaria: il sospetto che “politica” – nonostante l’oggi – possa essere ancora parola bellissima.

Repubblica 7.12.10
La cultura
Pasolini come il Che adesso è un brand per destra e sinistra
Le ceneri dell’intellettuale contese tra destra e sinistra
Libri, convegni, nostalgie: a 35 anni dalla morte il poeta è diventato un brand, usato come il Che. Ma cosa ci manca davvero del suo pensiero?
Ci seduce il suo estremismo radicale, che rimpiangiamo, e ci perseguita ancora il mistero della sua morte
Molti ricercano la sua vena polemica C´è chi lo accosta a Pound e chi lo legge insieme a Camus
di Valerio Magrelli


Un fantasma si aggira per l´Italia, o forse sarebbe più giusto dire per l´Europa: è quello di Pier Paolo Pasolini. Mentre la morte di molti scrittori suoi coetanei li ha rapidamente condannati alla scomparsa dalla scena pubblica, dal canone universitario, dalle pagine dei giornali, la sua figura è più viva che mai tra gli studiosi, tra gli studenti, tra i lettori. Filologo e sciamano, pedagogo socratico e martire nel senso letterale del termine (ovvero "testimone"), questo strano "friulano di Bologna" continua a rappresentare un punto di riferimento indispensabile per ogni forma di estremismo radicale. Esiste insomma una specie di brand Pasolini come è esistito ed esiste un brand Che Guevara. E tutto ciò, talvolta, con una forza che si fa ancora più sensibile fuori confine: lo dimostra fra tutti un saggio di Georges Didi-Huberman tradotto qualche mese fa con il titolo Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze (Bollati Boringhieri). Perché tanta nostalgia, perché un bisogno così impellente di confronto e richiamo?
In molti, e in molti modi, hanno provato di recente a spiegarlo. Innanzitutto attraverso la formula del gemellaggio. Colpiscono infatti un paio di convegni caratterizzati dall´accostamento fra il nostro autore e due fra i nomi più alti e controversi della letteratura novecentesca. Con il titolo Pier Paolo Pasolini ed Ezra Pound. L´utopia che nasce dal passato, il primo incontro si è tenuto il 4 dicembre presso Villa d´Este, a Tivoli. Tra letture in versi, proiezioni e dibattiti, è stata riproposta l´intervista-documentario di Vanni Ronsisvalle Pasolini-Pound. Un´ora con Ezra Pound. In quel memorabile colloquio del 1967, Pasolini si rivolse a Pound con una frase mutuata dallo stesso poeta americano e riferita in origine a Walt Whitman: «Stringo un patto con Te./ Ti detesto ormai da troppo tempo./ Vengo a Te come un fanciullo cresciuto che ha avuto un padre dalla testa dura./ Sono abbastanza grande ora per fare amicizia./ Fosti Tu ad intagliare il legno./ Ora è tempo di abbattere insieme la nuova foresta./ Abbiamo un solo stelo ed una sola radice./ Che i rapporti siano ristabiliti tra noi». La risposta del vecchio Pound fu: «Bene… Amici allora… Pax tibi… Pax mundi».
Condannato per collaborazionismo con il regime fascista, incarcerato, autoesiliatosi, l´autore dei Cantos esercitò una profonda attrazione sul poeta italiano, il quale aveva visto il proprio fratello, partigiano azionista, ucciso dai partigiani comunisti seguaci di Tito. Più singolare il secondo abbinamento, ossia le Giornate Camus/Pasolini: due scrittori impegnati del XX secolo, organizzato dal 15 al 18 novembre scorso dall´Institut Français de Naples, in collaborazione con l´Università Federico II, l´Università Orientale, L´Université Paris III e l´Université d´Amiens. Anche in questo caso, letture, proiezioni, conferenze hanno tentato di mettere a fuoco due grandi figure dell´impegno. Riconosciuti dalle istituzioni culturali e ammirati da un ampio pubblico, Camus e Pasolini furono ostracizzati dai loro pari e violentemente criticati dagli avversari. Inoltre, aspirando a una società egalitaria, ambedue si schierarono, sia pur diversamente, a difesa dei diseredati. Il Cinquantenario della morte di Camus da un lato, la riapertura dell´inchiesta sulla morte di Pasolini dall´altro, hanno fornito lo spunto per queste "vite parallele", dato che entrambi denunciarono le dittature fasciste e il totalitarismo comunista con un´intransigenza morale e un´autonomia di giudizio che costò loro la messa al bando da parte di una certa sinistra da cui pure provenivano. E proprio a una questione del genere si riferisce il primo di tre libri appena usciti, Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra, di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna (Vallecchi). Qui la materia è ripercorsa sin nei minimi particolari, dall´iscrizione al PCI nel 1948 all´espulsione dell´anno successivo per i fatti di Ramuscello (gli incontri omosessuali di Pasolini con alcuni giovani friulani), su su fino alle famose polemiche sul terrorismo, il consumismo, l´aborto. Rispetto a questa lunga e articolata ricostruzione, colpisce la brevità di un volumetto apparso da Avagliano a firma di Furio Colombo e Gian Carlo Ferretti: L´ultima intervista di Pasolini. A un breve, intenso testo di Ferretti, fa seguito la trascrizione del colloquio fra lo scrittore e Colombo, che si svolse fra le quattro e le sei di pomeriggio di sabato 1° novembre 1975, ossia poche ore prima che avesse luogo l´atroce assassinio. Alla fine dell´incontro, l´intervistatore chiese all´intervistato se intendeva dare un titolo alla conversazione. Ed ecco la sua replica: «Metti questo titolo, se vuoi: Perché siamo tutti in pericolo».
Parole come queste accentuano il carattere sacrificale di una morte da cui l´Italia non riesce a staccarsi. Una morte che ne ricorda un´altra ugualmente inquietante. Lo afferma Marco Belpoliti nel suo Pasolini in salsa piccante, edito da Guanda: «Credo sia venuta l´ora di chiudere con quel decennio di cui Pasolini e Aldo Moro, forse non a caso, sono i due corpi simbolo; e dare loro una degna sepoltura, cosa che nessuna inchiesta giudiziaria riuscirà mai, credo, a fare». Nel film Uccellacci e uccellini, la voce del Corvo proclama una sentenza attribuita al filologo Giorgio Pasquali: «I maestri si mangiano in salsa piccante». Nasce da qui il progetto di Belpoliti, conscio che il pasto non sarà leggero e che la digestione risulterà difficile e lunga. In compenso, commenta, la salsa non verrà certo a mancare, visto che sarà quella offerta dallo stesso Pasolini. Non era lui, del resto, a ricordare la storia del marajà che, impietosito da una tigre affamata, le si dava in pasto?
Strana gastronomia, tanto più se si pensa a un saggio sulla sinistra di pochi mesi fa, che Alfredo Reichlin ha intitolato Il midollo del leone (Laterza), riprendendo la celebre immagine con cui Italo Calvino invitava a nutrirsi di una morale rigorosa. Dunque, Calvino e Pasolini, i due Dioscuri della letteratura italiana, seguivano scuole diverse: il primo preoccupandosi del condimento, l´altro della sostanza, da gustare rompendo il duro osso delle vertebre. Le ricette saranno anche contrapposte, ma a ben vedere il concetto non cambia, poiché l´insegnamento-midollo del maestro-leone rappresenta comunque quel lascito che noi, lettori e eredi, dobbiamo liturgicamente assimilare. Piuttosto, la differenza culinaria riguarda l´oltranza, l´esorbitanza dell´opera pasoliniana. Onnivora e bulimica (per restare nel mondo alimentare), la sua produzione continua a suscitare un fascino illimitato. Il poeta delle Ceneri di Gramsci, il regista di Accattone, il romanziere di Ragazzi di vita, il drammaturgo di Bestia da stile, il corsivista-corsaro del Corriere della Sera, rimane infatti come un esempio unico di artista rinascimentale, nella sua sconcertante poliedricità, e di intellettuale novecentesco, per la sua torturata riflessione. Lo spiega bene lo stesso Belpoliti, affidandosi a tre versi illuminanti: «Lo scandalo del contraddirmi, dell´essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere».

Repubblica 7.12.10
Katyn. Così Mosca e Varsavia provano a dimenticare
Il "mea culpa" di Medvedev abbatte l'ultimo muro. Settant'anni fa Stalin fece sterminare 22 mila polacchi
Per decenni la propaganda sovietica attribuì la strage ai soldati nazisti
Ripristinata la verità storica, i due ex nemici scommettono su "un futuro di pace"
di Andrea Taquini


Polonia-Russia, settant´anni dopo: cade l´ultimo Muro, l´ultimo gelo d´Europa. L´emozione era palpabile ieri pomeriggio a Piazza Pilsudski, cuore di Varsavia, innevata e spazzata dal vento d´inverno, quando Dmitri Medvedev ha reso omaggio al sacrario del milite ignoto polacco. «Lo abbiamo riconosciuto, è innegabile: il massacro di Katyn fu opera della cricca di Stalin. Nella nostra Storia ci sono stati momenti difficili e oscuri, ora guardiamo al presente, liberiamoci dalla condizione di ostaggi del passato», ha detto il presidente russo. 40 anni esatti dopo quel giorno di dicembre del 1970 in cui Willy Brandt, il cancelliere della pace tedesco, s´inchinò qui al Ghetto chiedendo scusa per l´orrore nazista, e avviò il disgelo tra la Polonia grande vittima di Hitler e Stalin e la Germania, ieri è toccato alla nuova Russia riscattarsi dal passato. Qui, in questo paese-chiave, intermediario decisivo tra Ue, Nato e Russia.
Da decenni le ombre gravi del passato pesano tra polacchi e russi. Te lo ricordano ancora oggi gli ultimi veterani dell´Armia Krajowa, l´esercito partigiano nazionale, venuti con le stampelle o la sedia a rotelle a vedere Medvedev. «Ammette colpe che lui di persona non ha, come fece Brandt inchinandosi al ghetto, lui che sotto Hitler fu esule e partigiano», sussurra uno di loro, il distintivo di pilota della Royal Air Force sull´umile cappotto.
La Memoria pesa ancora, anche qui nella Polonia "tigre" della nuova Europa, dove l´economia corre a ritmi quasi cinesi e i lib-con del premier Donald Tusk e del presidente Bronislaw Komorowski hanno seppellito odio e caccia alle streghe del breve ma cupo biennio nazionalpopulista dei gemelli Kaczynski (2005-2007). Katyn è un ricordo che non può passare, e Medvedev lo sa, mentre sotto il vento a Piazza Pilsudski porta il suo omaggio al Milite ignoto polacco. Nel 1939 Hitler e Stalin mossero guerra insieme alla Polonia.
Hitler lanciò così il suo delirio di dominio mondiale, Stalin volle vendicarsi del maresciallo Pilsudski che nel 1920 fermò l´Armata rossa alle porte di Varsavia. Si spartirono anche i prigionieri: tutti i 22mila ufficiali delle forze armate polacche, l´élite della nazione, finirono in mano alla Nkvd, la polizia segreta sovietica. Furono tutti assassinati nel 1940 nella foresta di Katyn, con un colpo alla nuca. Anche familiari di polacchi famosi ancora oggi, come il regista Andrzej Wajda che in serata ha tenuto un dibattito con Medvedev. E in tutta la guerra l´ostilità russa continuò, contro la Polonia che a fianco degli Alleati schierò più soldati che non de Gaulle: nel 1944 l´Armata rossa era sull´altra riva della Vistola quando Varsavia occupata insorse, e lasciò tempo alla Wehrmacht per il grande massacro.
«Ora possiamo cambiare i rapporti tra i nostri due popoli, cerchiamo di non essere più ostaggi del passato, ricordiamo insieme quei momenti oscuri», ha detto Medvedev. Il presidente polacco gli ha fatto èco: «Apriremo un nuovo capitolo, fianco a fianco con l´aiuto di Ue e Nato». C´è voluto un lungo cammino: la Duma russa ha ammesso il crimine di Katyn. Varsavia ha ingaggiato nel negoziato per il summit della svolta i suoi protagonisti di ieri. Anche il generale Wojciech Jaruzelski, ex avversario e poi partner nella svolta democratica, chiamato dall´establishment lib-con ed europeista insieme a Lech Walesa come consigliere speciale per il dialogo col Cremlino.
«Buoni rapporti tra noi e i russi sono prioritari, siamo condannati a coesistere, abbiamo bisogno di relazioni normali, infine e per una buona volta nella Storia», ha commentato a caldo Walesa ieri, benedicendo la svolta. Nel grande giorno delle emozioni, con Medvedev a Varsavia sulle orme di Willy Brandt, Walesa rivedeva forse quei momenti-chiave del 1989. Quando ripartì il dialogo tra lui e Jaruzelski, quando Varsavia era l´unica capitale dell´allora Est dove film e media della perestrojka di Gorbaciov non erano censurati.
Quando Adam Michnik, eroe carismatico dell´opposizione, volava a Mosca ad aprire il dialogo.
Vent´anni dopo, tutto cambia in meglio, ci dice il giovane ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski. «Polacchi e russi hanno molto in comune, riscopriamolo insieme. La cultura russa è stata sempre amata in Polonia. E come avemmo una riconciliazione con la Germania divenuta democrazia, la nostra speranza è da oggi una riconciliazione con una Russia cambiata allo stesso modo». Da ieri, nulla sembra più impossibile. «È interessante anche parlare di nuove idee di rapporti tra Russia e Nato», dice Sikorski. I fantasmi del passato svaniscono lenti nell´aria gelida di Varsavia, mentre a piazza Pilsudski la banda intona prima «Russia, santa Patria», l´inno russo (sovietico, ma con le parole cambiate), poi «La Polonia non è ancora morta finché noi viviamo», il vivace inno dei polacchi.
(ha collaborato Jan Gebert)

Repubblica 7.12.10
Swat, gli archeologici eroi nell´ultimo emirato dei Taliban
Nel 2001 i ribelli distrussero un tempio brahmanico appena riportato alla luce
"Vogliamo formare personale locale come restauratori e guide. E riparare il grande museo"
di Pietro Del Re


MINGORA (PAKISTAN). Salvo alcuni caseggiati e un lembo del suo muro di cinta, la Pompei asiatica dorme ancora sotto terra. In superficie, invece, il territorio è ormai assediato da sgraziate costruzioni moderne, futuro ostacolo per futuri scavi. Altrove, per via delle buche lasciate dai tombaroli locali, l´antica Bazira indo-greca, città fondata nel II secolo a.C. dai discendenti di Alessandro Magno, sembra un campo di battaglia. Simile a quello arato ieri da due kamikaze che si sono fatti esplodere a poche decine di chilometri da lì, a Ghalanai, in un territorio tribale al confine con l´Afghanistan, uccidendo cinquanta persone.
Per questi motivi, il mensile americano Archaeology ha inserito Bazira tra i dieci siti più a rischio del pianeta. Da qualche anno, tuttavia, altre minacce guatano questi scavi. «Nel 2001, pochi giorni dopo la distruzione dei Buddha afgani di Bamiyan, arrivarono i Taliban i quali, dopo aver legato i due guardiani, distrussero a picconate gli stucchi di un grande tempio brahmanico del VII secolo appena riportato alla luce: per evitare altri vandalismi fummo costretti a seppellirlo nuovamente», racconta l´archeologo Luca Maria Olivieri, romano, classe 1962, responsabile della più antica e longeva missione italiana di scavi in Asia, quella inaugurata negli anni Cinquanta dal grande orientalista Giuseppe Tucci.
Nell´ex principato dello Swat, divenuto distretto pachistano nel 1969, Olivieri scava dal 1987. Qui, l´anno scorso, prima di essere scacciati dall´esercito di Islamabad, i Taliban fondarono il loro ultimo emirato. Perciò, per non dare nell´occhio, l´ideale successore di Tucci veste oggi con quel camicione che arriva alle ginocchia che qui chiamano shalmar kamiz. Anni fa, sulla sua testa, i Taliban avevano anche posto una taglia di diecimila dollari. Eppure, più che a Indiana Jones, Olivieri, forse perché altro e magro, somiglia a un hidalgo dipinto da El Greco. «Fu nel 2004 che mi accorsi del cambiamento, quando nei paesini della valle incontrai per la prima volta facce diverse, insolite, ascetiche. Facce di africani, tagiki, usbeki, arabi, afgani. Erano uomini tutti dall´aria molto devota e tutti con barbe ben curate».
Con la guerra in Afghanistan, lo Swat, come altre regioni di frontiera pachistane, erano infatti diventati le retrovie per Taliban e qaedisti. «Alcuni, dopo aver sposato ragazze molto povere di queste montagne, importarono le tecniche di guerriglia, dai kamikaze alle cariche di esplosivo sul ciglio della strada», dice ancora Olivieri. Nel 2007, dopo i proclami lanciati contro i negozi di Cd, i barbieri e le scuole femminili, cominciò nello Swat una stagione di attentati cruenti. Nel frattempo, i Taliban arruolavano ragazzi per mandarli a morire imbottiti di tritolo, comprandoli alle famiglie per poche migliaia di rupie. L´anno successivo, sempre fiancheggiati dai qaedisti, gli studenti del Corano cominciarono a ricoprire ruoli amministrativi.
All´inizio del 2009 il governo di Islamabad decide di concedere l´applicazione della Sharia e, tra giugno e luglio, i Taliban conquistano la valle. Il capoluogo Mingora diventa la capitale del loro micro-emirato. In pochi mesi i danni ambientali, politici e sociali sono enormi, «mentre i "fedeli a oltranza", per chiamarli come V.S. Naipaul, cominciano a fustigare, strangolare, lapidare», ricorda Olivieri.
L´esercito decide allora di intervenire. Ad agosto è tutto finito. A fronte di trecento militari morti, le stime parlano di circa ottomila Taliban uccisi. Per la prima volta nella storia, nello Swat due divisioni dell´esercito si fermano in modo permanente. «Anche qui i militari applicano la dottrina Petraeus: fanno un passo con le armi e tre con gli attrezzi della ricostruzione civile», dice Olivieri. «Per recuperare i giovani ex guerriglieri, organizzano perfino sedute di de-briefing».
Si chiama Udegram l´altra area di scavi italiani e si trova nell´incavo di una montagna dove tutto l´anno scorre limpida acqua di fonte. La scoperta più importante risale al 1985. Fu allora ritrovata una lastra di marmo che parlava della costruzione di una moschea dell´IX secolo. La moschea esisteva davvero e fu riesumata poco dopo, ancora con la vasca per le abluzioni e la nicchia del mihrab, che indica la direzione della Mecca. «E´ la terza moschea più antica del paese, e per uno Stato musulmano come il Pakistan riveste un valore enorme. Per fortuna i Taliban non se ne sono accorti: avrebbero potuto renderla un luogo di irradiazione ideologica, attirando qui ancora più combattenti qaedisti».
Un attentato compiuto a Mingora durante i mesi più duri della crisi danneggiò pesantemente il Museo dello Swat, la cui apertura fu promossa nel 1963 dallo stesso Tucci per ospitarvi le splendide sculture provenienti dai suoi scavi. La deflagrazione fu così potente che danneggiò anche le finestre della sede della nostra missione archeologica in Pakistan, la cosiddetta "casa Tucci", villa spartana in stile anglo-indiano dove hanno dormito, mangiato e studiato almeno un paio di generazioni di studiosi italiani. «Perché da eminente tibetologo qual era Tucci cominciò a scavare nello Swat? Perché nel 1955 il Tibet era stato invaso dai cinesi e chiuso agli occidentali e perché Alessandro il Grande aveva attraversato queste terre prima di toccare le rive dell´Indo. Trovò subito tali tesori che l´anno successivo chiese di poter iniziare gli scavi e fondò la missione archeologica italiana in Pakistan, che è ancora in vita».
Tuttavia, conoscendo il budget su cui ha recentemente potuto contare la missione (poche migliaia di euro l´anno), verrebbe da dire che essa sia sopravvissuta quasi per caso. Il miracolo è avvenuto l´anno scorso, quando il ministero degli Esteri ha accolto il progetto presentato da Olivieri per ottenere una piccola fetta dell´accordo firmato tra Roma e Islamabad sulla riconversione del debito pachistano: a questa avventura scientifica iniziata più di mezzo secolo fa vengono destinati due milioni di euro. «Serviranno a formare personale specializzato locale, dai restauratori alle guide archeologiche, così come a ristrutturare il museo dello Swat». Serviranno anche a proseguire gli scavi della missione dell´Istituto italiano per l´Africa e l´Oriente. Senza dover quotidianamente litigare con chi continua a costruire sopra l´antica di Bazira.

Repubblica 7.12.10
Renzi-Berlusconi, incontro ad Arcore
di Francesco Bei


Il sindaco chiede fondi per Firenze. Il premier: "Tu mi somigli"
Il leader del Pdl ha apprezzato l´aiuto del primo cittadino toscano sul caso dei rifiuti a Napoli

ROMA - I due si annusano a distanza da tempo. C´è una curiosità reciproca e, almeno da parte del Cavaliere, anche una corrente di schietta simpatia per quel giovane così «diverso dai soliti parrucconi della sinistra». «Un po´ mi somiglia, è fuori dagli schemi», ha confidato a un amico. Insomma, alla fine forse era inevitabile che accadesse e infatti è accaduto: Matteo Renzi, il sindaco della rossa Firenze e leader dei "rottamatori" del Pd, ha varcato ieri il cancello di Arcore.
Per carità, ci saranno state ottime ragioni «istituzionali», come usa dire, a giustificare quel faccia a faccia così poco istituzionale e così tanto politico. Renzi, come ogni sindaco d´Italia, è alla canna del gas, ha un disperato bisogno di fondi per chiudere un bilancio altrimenti "lacrime e sangue". E l´ultimo vagone che si può agganciare è quel decreto "Milleproroghe" che il Consiglio dei ministri si appresta a varare alla fine della settimana. Renzi sperava in una legge speciale per la città di Dante, contava di riuscire a portare a casa qualche norma di vantaggio. Quando ha compreso che non sarebbe stato possibile, è andato a bussare direttamente al portone di Arcore. Soldi chiede, ma non se li aspetta dal governo. Vorrebbe farseli dare dai milioni di turisti che si fermano a visitare gli Uffizi o le altre meraviglie fiorentine, imponendo a ciascuno un piccolo «contributo», una tassa di soggiorno. Pochi euro per il singolo turista, molti per la città: 17 milioni all´anno, calcolano i tecnici del comune. Ma per imporre la tassa serve il via libera del governo. Da qui la visita di ieri ad Arcore.
Eppure non è solo questo, almeno non da parte del Cavaliere. Il premier è infatti davvero intrigato da questo giovane amministratore del Pd. «Ce ne avessimo come lui», sospira. Renzi gli ha toccato il cuore la scorsa settimana, quando Berlusconi annaspava senza trovare una soluzione al problema dei rifiuti a Napoli. I leghisti non ne volevano sapere di dare una mano ai «terroni» e Berlusconi, disperato, ha fatto chiamare Renzi al telefono. «Salve sindaco, mi consente di darle del tu? Dammi del tu anche tu». Un approccio subito confidenziale, che sortisce l´effetto desiderato. Al termine di una telefonata molto amichevole, il sindaco di Firenze tende al Cavaliere una mano preziosa: «Presidente, ti possiamo mandare a Napoli sei camion compattatori per raccogliere l´immondizia dalle strade». «Grazie Matteo, affare fatto. Grazie a Firenze».
Un´amicizia nata nella difficoltà, di quelle che possono prolungare i loro effetti ben oltre l´emergenza. Del resto non è da oggi che il Cavaliere tiene d´occhio quel ragazzo (classe 1975) così «promettente» e di successo, come piacciono a lui. La prima volta che s´incontrarono fu nel 2005, in occasione del flop di Maurizio Scelli, quando l´allora commissario della Croce Rossa tentò di organizzare il suo movimento politico. Berlusconi aspettò due ore (invano) in prefettura che il palazzetto dello sport si riempisse con gli Scelli-boys e, nel frattempo, si intrattenne con quel trentenne presidente della provincia di Firenze che lo era andato a salutare per "cortesia istituzionale". Al termine del colloquio, il premier si congedò a modo suo, lasciando di stucco gli esponenti locali di Forza Italia: «Caro Renzi, ma come fa uno bravo come lei a stare con i comunisti?».
Da allora i due hanno continuato a seguirsi a distanza. Nel frattempo Renzi ha traslocato dalla provincia al comune, mentre Berlusconi ha fatto in tempo a perdere (2006) e rivincere (2008) le elezioni. Renzi è anche il dirigente che ha proposto di «rottamare» gli attuali capi del Pd, a partire da D´Alema, Veltroni e Bersani. Un «coraggio» che, in privato, Berlusconi non ha mancato di lodare. Così come non sono sfuggite al premier quelle dichiarazioni contro la proposta di "Union sacrée" per scacciare il tiranno da palazzo Chigi: «La sinistra - ha detto Renzi - non può mettere insieme la solita ammucchiata selvaggia anti-Berlusconi».
Insomma, da una parte c´è un leader in cerca di giovani, che non vuole lasciare la sua eredità a quei «signori attempati», «professionisti della politica che a cinquant´anni dovrebbero solo dedicarsi ai libri di memorie». Dall´altra c´è un sindaco molto ambizioso che vuole fare politica rompendo gli schemi. E poi l´incontro di ieri ad Arcore, dove nemmeno i sindaci Pdl di Roma e Milano riescono più a farsi ricevere.

La Stampa 7.12.10
E' il nostro cervello a decidere come vediamo il mondo
L'architettura cerebrale rende la nostra visione delle cose unica

qui
http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/378879/

La Stampa 7.12.10
Paolo Villaggio choc: "Penso al suicidio”
"E conosco già la data della mia morte"
di R. S.

qui
http://www3.lastampa.it/spettacoli/sezioni/articolo/lstp/378952/

Repubblica 7.12.10
Ansia da erezione ultra cinquantenni in cerca di aiuto
di Aldo Franco De Rose


Il ripensamento per la vasectomia Torna tardi il desiderio di paternità
Uno studio in sei città: diffuse eiaculazione precoce e disfunzione erettile. Molti chiedono di aumentare la dimensione del pene

Questa volta i cambiamenti nei comportamenti sessuali vengono da uomini che, superata la soglia magica dei cinquant´anni, chiedono una migliore sessualità e una maggiore capacità riproduttiva. Si tratta di uomini nel pieno del loro vigore fisico, molto spesso professionalmente appagati, che non disdegnano il lifting, le palestre e le creme di bellezza. Ma il superlavoro, unito ai piaceri della buona tavola e al fumo, gli regalano qualche chilo di troppo e i primi dispiaceri. Lui si stressa, si stanca, la relazione al di fuori delle mura domestiche lo preoccupa e alla fine, un po´ per ragioni fisiche, un po´ per questioni psicologiche, sul fronte sessuale, è un vero disastro: è impotente, anzi, come dicono i medici, è affetto da deficit erettile. Colpa dell´ansia da prestazione? L´ansia c´entra ma non è la sola causa. È quanto emerge da una indagine eseguita in sei città (Genova, Roma, Potenza, Brindisi, Nardo e Catania) e presentata recentemente al congresso degli andrologi. Le maggiore richieste di aiuto riguardano la potenza sessuale e l´eiaculazione precoce, ma anche due new entry: l´insoddisfazione dei genitali e il desiderio di paternità.
Dei 3425 soggetti osservati, 1785 (52,1%) hanno richiesto un miglioramento dell´erezione e il 72 % è stato trattato con inibitori delle fosfodiesterasi 5, cioè Cialis, Levitra e Viagra mentre per il 26% si è dovuto ricorrere alla punture di prostaglandine e per il 2% alla chirurgia protesica.
Nelle regioni sembra differentemente distribuita l´incidenza della eiaculazione precoce (EP) con prevalenza al Centro-nord, 40 e 36% rispetto al 24% del Sud. Ma un dato invece sembra simile in tutta la penisola: nel 98% dei casi il disturbo persisteva già dall´adolescenza e per il 32% ha rappresentato la fine della relazione. Ma la vera novità è costituita dalle richieste di aumento delle dimensioni del pene tra gli ultra cinquantenni, soprattutto al Nord. Insomma una dismorfofobia peniena che non rappresenta solo un problema giovanile ma è anche fonte di preoccupazione fra gli adulti, anche in relazioni consolidate: 398 (11,2%) sono state le richieste e di queste 195 al Nord (48,5%). Per gli autori si tratta solo di una questione di pudore e non geografica: infatti molti meridionali trapiantati al centro e nord erano insoddisfatti delle proprie dimensioni. In Italia le richieste annue superano le ventimila, ma solo meno di un terzo vengono soddisfatte. In questo caso solo il 17% è stato sottoposto a intervento chirurgico.
Infine il desiderio di paternità. Dopo i 50 anni interessa persone che, a seguito di un lutto o divorzio, hanno iniziato una nuova relazione e negli anni precedenti, anche dopo 1-2 paternità, avevano deciso di sottoporsi a vasectomia, cioè la sezione dei deferenti, metodo contraccettivo maschile. Dei 94 soggetti del campione (2,06%) la maggiore richiesta di paternità è arrivata dal Nord, 45% contro il 18% del Sud.
* Specialista Andrologo e Urologo, Clinica Urologica, Genova

Repubblica 7.12.10
Lei e lui
Quando il maschio perde l´autostima
di Roberto Giommi


O gni anno presso il nostro centro clinico (Istituto internazionale sessuologia) riceviamo consultazioni individuali e di coppia per il problema della disfunzione erettile. La consultazione individuale riguarda uomini più giovani, la consultazione di coppia persone di età maggiore.
È una disfunzione che produce effetti indesiderati a catena perché impedisce di vivere la sessualità coitale, attacca la dimensione di autostima maschile, rende il maschio meno sicuro della sua identità e perché spesso si trasforma in una chiusura emotiva e affettiva.
I maschi sentono di perdere la loro dimensione di eccitazione spontanea che li rassicura sulla loro potenza: un maschio che deve cercare l´erezione si sente preoccupato. La confusione tra desiderio ed eccitazione è molto forte sia al maschile che al femminile: crea nella donna il sospetto di essere stata sostituita da un´altra donna (gelosia) e nel maschio il terrore di avere perso un canale importante di relazione con il mondo. L´eccitazione è un modo di vivere e di provare sensazioni ed emozioni: il pene è il radar maschile nell´affrontare il mondo e la relazione con le donne e con gli altri maschi. Per un sessuologo clinico è molto importante capire come si è verificata la disfunzione: se prima di iniziare la sessualità, se durante il petting, se una volta iniziata la penetrazione. Il ruolo della partner è altrettanto importante: si deve capire come ha reagito al problema. La consultazione individuale permette di ascoltare la versione di Lui, la presenza della partner, quando esiste, aiuta a capire cosa sta accadendo nella relazione e di quali risorse la coppia dispone.
I risultati della psicoterapia sessuale sono molto positivi se c´è amicizia e complicità di coppia e nella consultazione individuale se si costruiscono nuove strategie per affrontare gli incontri. Si deve smontare il pensiero predittivo che determina l´ansia da prestazione. La modificazione dei pensieri e la rassicurazione producono effetti risolutivi importanti.* www.irf-sessuologia.org

lunedì 6 dicembre 2010

Repubblica 6.12.10
Bersani: un governo con chi ci sta via il premier, l´instabilità colpa sua
Pannella show dal popolo viola: silenzio sulla fiducia
di Mauro Favale


ROMA - Se il problema, come comincia a dire Berlusconi, è l´instabilità durante l´emergenza economica, Pier Luigi Bersani ribatte: «È lui la causa della crisi, è lui il simbolo dell´instabilità e non vogliamo che l´Italia venga travolta dalla sua debolezza». Dunque, il segretario del Pd conferma: il premier deve andare a casa. «Andiamo in piazza San Giovanni, sabato, proprio per dire questo. E lì presenteremo le nostre proposte per rinnovare il Paese».
Il passaggio successivo al 14 dicembre è quello che Bersani ha indicato fin dall´inizio. «Io spero in un governo con tutte le forze che sono in Parlamento e che abbiano la volontà di fare un passaggio di transizione». Non l´anticipo di una coalizione futura, solo un´alleanza temporanea per «cambiare la legge elettorale - dice il leader in un´intervista al Tg2 - e fare due o tre provvedimenti per contrastare la crisi economica». Il Partito democratico, per arrivare a questo traguardo, dovrà affrontare alcuni problemi nel suo campo. L´opposizione di Vendola e Di Pietro (più tenue la seconda), desiderosi di andare subito al voto in caso di caduta del governo. «Ma Vendola - risponde senza spocchia Bersani - non è in Parlamento. Noi ci rivolgiamo ai partiti che sono nelle Camere». Bersani è convinto che il voto vada escluso: «Non parlo di elezioni perché le elezioni non ci saranno. Andare alle urne adesso significa ripetere un referendum su Berlusconi sì Berlusconi no. Perderemmo un altro giro, un´altra occasione». In più, o meglio sempre di più, Bersani considera Berlusconi «pericoloso», vede la democrazia italiana rischiare «nuovi strappi», come spiega all´Unità. «Ma senza il Pd - avverte Bersani - non c´è né l´alternativa né la transizione». Il punto però è se il suo partito, al momento giusto, avrà il coltello dalla parte del manico. Se non si aprirà un nuovo caso al suo interno.
L´atteggiamento dei radicali in vista del voto di fiducia resta misterioso. Marco Pannella parla all´assemblea del Popolo Viola a Roma. Tira fuori l´accento romano: «A´ dritto! Te vuoi sape´ cosa fanno i radicali il 14? E io nun te lo dico». Giù sfottò, insulti, gente che si alza e va via: «Ma chi l´ha invitato Pannella?». Un´uscita nella tana degli ultrà anti-berlusconiani che non scioglie i dubbi che circolano da giorni sul comportamento dei sei radicali alla Camera (eletti nelle liste del Pd) sul voto di sfiducia. Pannella ruba la scena di questa convention, a un anno dal No B day, agli altri invitati: Diliberto, Ferrando, Bonelli, Staderini e, via skype, Vendola e Di Pietro. Per il Pd Vincenzo Vita e Sandro Gozi.
Pannella arriva a mezzogiorno, cappottone lungo, sigaro acceso, lunga coda di cavallo. Aspetta due ore seduto in platea: si parla di lavoro, conflitto di interessi, legge elettorale. Alza la voce quando dal palco si propone un ritorno al Mattarellum: «Quella è stata la truffa più grande». Ascolta un sondaggio di Ipr che stima le potenzialità elettorali del Popolo viola tra l´uno e il tre per cento. Si ricordano i cablogrammi di WikiLeaks, nei quali si cita il primo No B day e le preoccupazione di Berlusconi. Poi, verso le 14, Pannella è invitato a parlare. Ma lascia tutti con un pugno di mosche.

Corriere della Sera 6.12.10
Susanna Camusso: «Precari di oggi come le donne di We want sex»
di Enrico Marro


La Camusso e il film inglese sul lavoro: la parità per cui lottare ora è un impiego a tempo indeterminato

ROMA — La risata, in sala, è tutta al femminile e immediata quando, in una delle ultime scene del film, scorrono le immagini dei telegiornali inglesi di 42 anni fa e una delle vere operaie di Dagenham fulmina così i giornalisti perplessi sulla lotta delle operaie: «Non è abitudine delle donne scioperare senza un motivo!». A Susanna Camusso la battuta piace molto, come anche alle altre dirigenti della Cgil che le fanno compagnia mentre guarda il film We want sex dell’inglese Nigel Cole ( L’Erba di Grace), che racconta lo sciopero a oltranza e la vittoria delle 187 operaie dello stabilimento Ford di Dagenham nel 1968 per ottenere la parità salariale. Ridono, Camusso e le altre, non solo perché la battuta è riuscita, come molte altre di questo film importante e divertente allo stesso tempo. Ma anche perché sintetizza felicemente lo specifico femminile della lotta sindacale: che non prevede scioperi a perdere, inutili, di bandiera.
Ed è naturale quindi che Camusso si riconosca in questa filosofia, lei che ancora negli ultimi due giorni, al direttivo della Cgil, si è sforzata di convincere la Fiom e l’ala sinistra della confederazione che lo sciopero generale si fa solo se serve, se porta risultati. Le «ragazze» di Dagenham, come amavano definirsi, li ottennero. Magari un po’ rocambolescamente e nonost a nt e q ua l c he gaffe , come quando davanti al Parlamento inglese srotolarono male il loro striscione We want sex equality e rimasero visibili solo le prime tre parole, ma li ottennero. E, ottenendoli, inconsapevolmente fecero la storia, quella della parità salariale tra uomini e donne, sancita poi nel Regno Unito da una legge del ’70.
In Italia, una volta tanto, eravamo arrivati prima. «Da noi furono le lavoratrici tessili a fare la battaglia, che in realtà già era stata lanciata durante la Resistenza nelle fabbriche del Milanese», ricorda Camusso. E nel ’56 la legge 741, che recepiva la convenzione Ilo (agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite), affermò la «parità di remunerazione tra uomini e donne». Certo, era un’uguaglianza formale mentre quella sostanziale era da conquistare e per certi versi lo è ancora. Ma il punto è che «quando una battaglia è su un principio giusto, su un diritto, non possono esserci mediazioni», dice la leader della Cgil. Una lezione valida ieri e sempre, aggiunge.
Oggi, dice Camusso, «un tema di principio per il quale lottare c’è ed è quello della fine della precarietà». Riguarda «i giovani e il loro futuro» e anche questa volta precipita nella «differenza salariale», perché il precario prende meno rispetto a un altro lavoratore che fa le stesse cose ma ha un contratto a tempo indeterminato. «Bisogna tornare ad affermare il principio che il rapporto di lavoro deve essere di regola a tempo indeterminato — dice il segretario della Cgil — e cancellare tutte quelle forme di precarizzazione figlie delle norme di questi ultimi anni, a partire dalla legge 30 (la legge Biagi, ndr) ». È una battaglia per la parità che come ieri spettava alle donne oggi tocca ai giovani. La Cgil è al loro fianco, spiega Camusso: «Come facevano le ragazze di Dagenham con le lavoratrici inglesi noi stiamo provando a dire ai nostri giovani che anche loro devono essere artefici del proprio futuro». È questo il senso della prima campagna lanciata dalla nuova leader sindacale giusto qualche settimana fa sotto lo slogan «Giovani non più disposti a tutto», che sta avendo notevole successo anche sul web. Certo, tutto questo non basta, continua Camusso. Ci vorrebbe, spiega, un ministro del Lavoro diverso da Maurizio Sacconi «magari come nel film, una Barbara Castle», il segretario di Stato per il Lavoro del governo Wilson, interpretato dalla bravissima Miranda Richardson, che prende in mano la situazione e decreta la vittoria delle ragazze di Dagenham.

Corriere della Sera 6.12.10
Pannella: deciderò all’ultimo minuto ma non vedo risposte
di Maurizio Caprara


Leader Marco Pannella, 80 anni, deciderà in extremis se far votare ai suoi 6 deputati la fiducia al governo Berlusconi

ROMA — Il patriarca dei radicali non smentisce se stesso. Mentre il governo traballa in attesa delle votazioni sulle mozioni di sfiducia, i sei deputati del suo partito aumentano di valore: potrebbero spostare l’ago della bilancia tra crisi e non crisi. Benché sia fuori da Montecitorio, Pannella, che ne ispira le mosse, viene consultato, corteggiato ed evita di scoprire del tutto le carte. «Ho incontrato nei giorni Ignazio La Russa, coordinatore del Pdl. Devo vedere Pier Luigi Bersani del Pd», racconta. «Per dialoghi sinceri, assolutamente senza nessuna trattativa», ripete. Senza sciogliere l’enigma sulla sua scelta, ma anche con uno scetticismo da tener presente. I suoi rapporti con Silvio Berlusconi sono stati alterni. Due esempi. Si va dal suo «tra noi c’è amicizia, stima e Silvio aggiunge che c’è anche dell ’ affetto » , anno 1995, a, sempre detto da lei, un giudizio del 1996 di segno opposto: «Berlusconi prende in giro la gente». Qual è lo stato attuale dei suoi rapporti con il presidente del Consiglio?
«È che Berlusconi, come spesso gli accade, si è stancato di continuare a perseguire un obiettivo. Da anni ho pubblicamente auspicato di tornare a parlarci. Ha sempre rifiutato. Ormai temo che sia troppo tardi, ma continuerò a provarci. Troppi disastri, che avrei potuto aiutarlo a scongiurare, sembrerebbero irreparabili». Quale obiettivo? Quali cose? «Il 7 aprile 1994, vinte le elezioni, Berlusconi venne da noi a dirsi convinto della "riforma americana della legge elettorale e dello Stato". Appoggiò poi le nostre richieste, anche referendarie, per separare le carriere dei magistrati, eliminare gli incarichi extragiudiziali, abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel 1999, sulla riforma della giustizia dichiarò: niente accette referendarie, la realizzerò appena sarò al governo. Undici anni fa».
Quale sarà il fixing dei vostri rapporti il 14 dicembre: dirà ai suoi deputati radicali di votare la fiducia al governo in carica, o, essendo stati eletti da indipendenti nel Pd, chiederà loro di negarla?
«Fino alla fine e fino all’ultimo minuto utile, anche durante le votazioni, cercheremo di tener presente, oltre al testo, il contesto: per almeno ridurre l’intollerabile, l’infame. Liberi fino alla fine di valutare. Insomma: niente trattativa. Coerenti nel ritenere necessario, e utile a tutti, il dialogo».
E a quali condizioni appoggerebbe il governo, in cerca di nuovi apporti dopo il distacco di Gianfranco Fini e dei suoi?
«Ad esempio, sulla giustizia e le carceri denunciamo una situazione gravissima. Si tratta, ormai, di spaventosi nuclei di Shoah, vere metastasi neonaziste nella democrazia "reale" italiana. Le loro risposte sono leghiste o dipietriste. Ho incontrato La Russa, vedrò Bersani: per cercare di convincerli».
Il paragone con la Shoah è suo, per me si è trattato di una mostruosità unica. Cercherà di convincere La Russa e Bersani fino all’ultimo secondo valido?
«Ma ormai mi riesce difficile immaginare che dalla maggioranza vengano delle risposte al livello dei problemi che incombono».
Considera compatibile con l’elettorato radicale il Berlusconi che sostiene sia meglio preferire le belle donne all’essere omosessuali?
«Le prendiamo come battute di un qualsiasi altro poveraccio. Se vuole può chiamarci come i suoi amici padani "frocio", piuttosto che gay o omosessuale. Ora dice agli studenti: meglio studiare che manifestare. Aveva proprio ragione Veronica ad ammonirlo sugli esempi e i valori che si propongono ai giovani e ai figli. Ma sembra che fosse inutile».
Pannella, lei è stato per decenni il politico più disubbidiente, con un termine abusato più «trasgressivo»: la condanna dopo aver fumato hashish per disobbedienza civile, i transessuali nei vostri congressi... Quale effetto le fa sapere che un capo di governo organizza cene che la diplomazia americana definisce «festini selvaggi»?
«Nessuno. Comunque c’è un detto popolare: se un adulto si stanca della sua vita "se ne va a puttane"».



Repubblica 6.12.10
Mario Pepe: ho indicato loro la strada di Berlusconi
"Così vado a caccia di voti radicali"
di Antonello Caporale


Ricercatore in senso proprio e in senso figurato.
«Tecnicamente perfetta la sua presentazione».
L´onorevole Mario Pepe vide spenta anni fa una promettente carriera accademica. Oggi quella sua abilità è convertita alla ricerca di voti.
«Capisco al volo se tradisci o ti tormenti».
Se fuggi o ascolti.
«Se hai necessità di un sostegno o mi fai perdere solo tempo a tampinarti».
Lei ha fiuto e sembra avere lo stesso naso di Mastella.
«Modestamente ho fatto io l´operazione con i radicali».
E´ Pepe che ha aperto la porta di Pannella e gli ha indicato la strada verso Berlusconi.
«Sono radicale, mi sento uno di loro».
Lei è berlusconiano.
«Al cento per cento, non c´è alcun dubbio».
E continuamente alla ricerca.
«Colgo olive».
Bella metafora. Ne ha raccolte molte di queste olive preziose?
«Io produco olio».
Sono ore cruciali e lei si ritira in campagna?
«Week end, poi però si riprende».
Non bisogna perdere un minuto.
«Infatti non mi fermo mai. Corro, ascolto, guardo. Amico mio, questi colleghi che dovrebbero sfiduciare il governo se la stanno facendo sotto».
Ma se hanno firmato la mozione!
«Firmato? Qualcuno l´avrà fatto per loro. Li vedo tormentati e tristi, disperati».
Eppure non si ribellano.
«Vogliono campare in pace un´altra settimana. Sa cosa succederebbe se uno di loro gridasse: la mia firma è falsa!».
Lei ha fiuto.
«Sono medico, e ho la predisposizione tipica all´ascolto».
Intercetta?
«Capto, intravedo, a volte origlio, spesso intuisco. E´ garantito: Fini non l´avrà vinta. Sconquassi in vista nella sua parte».
Coniuga scienza e sapienza.
«So stare in campo».
Ha fantasia. In campagna elettorale misurò la pressione a una famiglia intera pur di racimolare qualche voto.
«Era il 2001 e mi capitò il collegio rosso dei Colli Albani, appena fuori Roma. Andai a cercar voti tra i contadini di quelle terre, ma tutti erano comunisti. Allora mi feci coraggio».
Ecco, qui c´è tanto da riflettere per i suoi colleghi.
«Dissi al capostipite, un vecchio comunista. A lei serve un medico più di ogni altra cosa. E io sarò a disposizione. Per convincerlo misurai la pressione a lui, agli undici fratelli e ai nipoti. Un pomeriggio intero con l´apparecchio, ma grazie a quei voti...».
Lei è un mago.
«Sono gagliardo».

Corriere della Sera 6.12.10
Fistarol al Pd: al Senato mezzo gruppo può fare come me
di M. Gu.


ROMA — Bersani ha provato a trattenerlo e altrettanto ha fatto Veltroni. Maurizio Fistarol ha parlato con entrambi, ha ascoltato idee, lusinghe e forse anche profferte, ha ringraziato per «sincerità e simpatia» il segretario e il suo predecessore, ma non ha cambiato idea. Ha preso il suo bagaglio di esperienza politica — che lo ha visto per otto anni sindaco di Belluno, deputato e senatore — e, «non certo a cuor leggero», ha traslocato nel gruppo misto. Non per mettersi sul mercato dei parlamentari in vista della fiducia, quando voterà no. Ma per aderire al «nuovo polo di Fini e Casini come senatore di Verso Nord, il movimento politico che ho fondato con Massimo Cacciari e che vanta adesioni in tutte le province del Settentrione». Lo ha scritto nella lettera ai «carissimi amici» del Pd, in cui li informava che sarebbe sceso dal treno: «Ritengo che una diversa stagione, di cui il nostro Paese ha urgenza, possa nascere solo con l’iniziativa del nuovo polo che sta prendendo forma...». In onore alle sue linee guida, «coerenza e correttezza», ha informato gli ex compagni di strada di non aver contattato «un solo iscritto al Pd» per convincerlo ad aderire a Verso Nord. Adesso dovrà modificare il suo sito Internet, cancellando la voce «Democratici» e le insegne del ramoscello d’ulivo che ancora richiamano la stagione di Prodi. Di cui «Bersani è stato uno dei protagonisti meno peggiori». È il ventunesimo addio di un parlamentare al Pd e, a quanto racconta l’ormai ex coordinatore nazionale dei Forum tematici, rischia di non essere l’ultimo. «Se dovessi fare una previsione dopo le chiacchierate con i colleghi senatori, dovrei pensare che mezzo gruppo del Pd è in procinto di uscire», sorride amaro Fistarol. Uno che ama i silenzi delle cime dolomitiche e, per temperamento, non sbatte porte. La critica è forte, ma prova a esprimerla con garbo: «Il Pd non ha alcuna capacità espansiva al di fuori degli steccati della sinistra. Come si fa a pensare di andare al voto con Vendola e Di Pietro, magari rifacendo l’Unione?». Avanti il prossimo.

Repubblica 6.12.10
Sondaggio Demos-Coop
Questa povera scuola
di Ilvo Diamanti


La riforma Gelmini è solo la scintilla che ha acceso il risentimento degli studenti. Contro una scuola e un´università che funzionano sempre peggio E che li fa sentire derubati del futuro
Per l´Osservatorio sul Capitale Sociale il 70% degli italiani dice che la scuola è peggiorata
Le proteste hanno avuto un consenso maggioritario tra i cittadini

Un disagio profondo e generalizzato. Che va ben oltre i contenuti della riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo. Ecco cosa c’è al fondo della protesta degli studenti.

Il rinvio del voto al Senato, in attesa della fiducia (o della sfiducia) al governo, il prossimo 14 dicembre, non ha fermato la protesta contro la riforma dell´Università, firmata dal ministro Gelmini. In molte città, le occupazioni continuano. Nelle sedi universitarie ma anche nei licei e negli istituti superiori. Non intendiamo entrare nel merito della riforma, ma valutare il sentimento verso le politiche del governo, sull´università e sulla scuola. Parallelamente, ci interessa l´atteggiamento della popolazione nei confronti delle manifestazioni e delle polemiche che, da settimane, agitano il mondo studentesco. A questi argomenti è dedicato il sondaggio dell´Osservatorio sul Capitale Sociale di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi.
I dati suggeriscono che, al fondo della protesta, vi sia un disagio profondo e generalizzato. Che va oltre, ben oltre i contenuti e i provvedimenti previsti dalla riforma Gelmini. Un disagio che riguarda lo stato del sistema scolastico nell´insieme, che appare in profondo e continuo degrado, da molto tempo.
Circa il 60% del campione, infatti, ritiene che negli ultimi dieci anni l´università italiana sia peggiorata. Lo stesso giudizio viene espresso dal 70% (circa) riguardo alla "scuola" nel suo complesso. In entrambi i casi, meno del 20% della popolazione sostiene il contrario. Che, cioè, scuola e università negli anni 2000 sarebbero migliorate. Metà degli italiani, peraltro, ritiene che la riforma delineata dal ministro Gelmini peggiorerà ulteriormente la situazione, un terzo che la riqualificherà.
Naturalmente, i mali del sistema scolastico hanno radici profonde e una storia molto lunga. Quanto all´università, è appena il caso di rammentare che, dalla riforma avviata dal ministro Berlinguer, alla fine degli anni Novanta (quindi da un governo di centrosinistra), è stata sottoposta a un processo di mutamento continuo e non sempre coerente. Che ha prodotto una moltiplicazione dei corsi di laurea e delle sedi assolutamente incontrollata. È da allora che gli studenti - e, in diversa misura, anche gli insegnanti - hanno cominciato a mobilitarsi. Oggi, però, il disagio ha superato il limite di guardia. E la protesta si è riprodotta per contagio, un po´ dovunque. Per ragioni che vanno oltre la riforma stessa, lo ripetiamo. Perché è diffusa e prevalente l´impressione che l´università e la scuola, nell´insieme, ma soprattutto quella pubblica, abbiano imboccato un declino senza fine e senza ritorno.
La fiducia nella scuola, negli ultimi dieci anni per questo, più che calata, è crollata: dal 69% al 53%. Sedici punti percentuali in meno. Un quarto dei consensi bruciato in un decennio. Per diverse cause e responsabilità, secondo i dati dell´Osservatorio Demos-Coop. Due su tutte: la mancanza di fondi e di investimenti (32%), lo scarso collegamento con il mondo del lavoro (22%).
In altri termini: la scuola e l´università non attirano risorse e non promuovono opportunità professionali. Anche i "baroni", secondo gli italiani, hanno le loro colpe. Ma in misura sicuramente più limitata (9%) rispetto a quanto vorrebbe la retorica del governo e del ministro. Peraltro, le responsabilità dei "baroni" appaiono ulteriormente ridotte, nel giudizio degli studenti e di coloro che hanno, in famiglia, uno o più studenti. Il che (lo dice un "barone", personalmente, senza quarti di nobiltà e con pochi poteri) appare fin troppo generoso.
Perché le colpe del corpo docente, all´Università, sono molte. Una fra tutte: non aver esercitato un controllo di qualità nel reclutamento. E nella valutazione dell´attività scientifica e didattica. Anzitutto della propria categoria. (Anche per queste ragioni, forse, oggi appaiono perlopiù silenziosi, di fronte alla riforma).
Ma ridurre il problema dell´Università - e della scuola - alla stigmatizzazione dei professori, oltre a essere ingeneroso verso coloro - e sono molti - che hanno continuato a operare con serietà e, spesso, con passione, risulta semplicistico e deviante. Basti considerare, semplicemente, le risorse pubbliche destinate all´Università e alla ricerca. Le più basse in Europa. Basti considerare che, a questo momento, mentre sta finendo il 2010, il governo non ha ancora stabilito (non si dice erogato) il finanziamento (FFO) alle Università del 2010. Non è un errore di battitura. Si tratta proprio dell´anno in corso, o meglio, tra poco: dell´anno scorso. Difficile, in queste condizioni, discutere seriamente della riforma universitaria.
A non crederci, per primi, sono gli italiani. Anche così si spiega il largo sostegno alla protesta contro la riforma Gelmini - maggioritario, nella popolazione. Espresso dal 55% degli italiani, ma dal 63%, tra coloro che hanno studenti in famiglia. E dal 69% fra gli studenti stessi. Il consenso alla protesta studentesca diventa, non a caso, quasi unanime in riferimento alla carenza di fondi alla ricerca (81%). Mentre è più circoscritto (per quanto maggioritario: 53%) riguardo alle occupazioni. È significativa, a questo proposito, la minore adesione che si osserva fra gli studenti universitari stessi. Attori della protesta, ne sono anche penalizzati. Vista la difficoltà di svolgere l´attività didattica e quindi di "studiare".
La riforma Gelmini, per queste ragioni, più che l´unico motivo della protesta giovanile, appare la miccia che ha acceso e fatto esplodere un risentimento profondo, che cova da tempo. Nelle famiglie, tra gli studenti, tra coloro che lavorano nella scuola e nell´università (in primo luogo, fra i ricercatori, categoria a esaurimento, secondo la riforma). "Risentimento" e non solo "sentimento", perché scuola e Università sono un crocevia essenziale per la vita delle persone. A cui le famiglie affidano la formazione e la "custodia" dei figli. Dove i giovani passano una parte della loro biografia sempre più lunga. Dove coltivano amicizie e relazioni. La scuola e l´università: che dovrebbero prefigurare il futuro professionale dei giovani. Non sono più in grado di svolgere questi compiti. Da tempo. E sempre meno. Abbandonate a se stesse. In particolare quelle pubbliche. Anche se solo una piccola quota di italiani vorrebbe privatizzarle maggiormente. (Come emerge dal XIII Rapporto su "Gli Italiani e lo Stato", di Demos-la Repubblica, sul prossimo numero del Venerdì). C´è questo ri-sentimento alla base della protesta e del dissenso profondo verso le politiche del governo nei confronti della scuola e dell´università.
Da ultimo: la riforma Gelmini. Non è un caso che i più reattivi non siano gli universitari, ma i liceali. Gli studenti che hanno meno di vent´anni e frequentano le superiori. Si sentono senza futuro. Una generazione sospesa. Precaria di professione. Professionisti della precarietà. Tanto più se nella scuola, nell´Università e nella ricerca si investe sempre meno. Questi studenti (secondo una recente ricerca dell´Istituto Cattaneo e della Fondazione Gramsci dell´Emilia Romagna) oggi appaiono spostati più a destra rispetto ai giovani degli anni Settanta. E, quindi, ai loro genitori. Ma, sicuramente, sono molto più incazzati di loro. A mio personale avviso, non senza qualche ragionevole ragione.

Repubblica 6.12.10
Il 66% degli universitari e il 75% dei liceali approva le manifestazioni
Pochi fondi e precariato le ragioni della protesta
Negli atenei solo una minoranza (il 3%) sottolinea la scarsa qualità dei docenti
di Luigi Ceccarini


La scuola, l´Università e la riforma Gelmini sono oggi temi al centro dell´attenzione (e della preoccupazione) degli studenti. Sono loro che hanno vissuto e subito le politiche di riforma dell´istruzione degli ultimi anni. Quando guardano al decennio passato – e ai continui interventi sui corsi di laurea nelle università o, nella scuola primaria, sul tempo pieno, sui maestri unici o prevalenti, sull´insegnamento della geografia e sui grembiuli – vedono un sostanziale peggioramento del sistema. E se guardano al futuro non ritengono che la situazione sarà migliore. Sono particolarmente arrabbiati e per questo si sono mobilitati, anche con occupazioni di grande impatto mediatico: sui tetti delle facoltà e sui monumenti nazionali di mezza Italia. Gli studenti e le famiglie con studenti, che vivono quotidianamente l´esperienza dell´istruzione pubblica, sono i più critici.
È quanto emerge dall´ultima indagine Demos-Coop, che si è concentrata sul tema proprio nei giorni in cui la riforma è in corso di approvazione in Parlamento. Il primo problema degli atenei, secondo gli studenti universitari, è il collegamento con il mondo del lavoro (38%, +16 punti percentuali rispetto alla media). Aspetto non da poco quando la precarietà e l´incertezza fanno da sfondo al presente e da prospettiva al futuro. La scarsa qualità dei docenti viene sottolineata solo da una minoranza degli universitari (3%). Anche se quasi nove su dieci ritengono che i professori andrebbero valutati e i migliori premiati. L´indagine fa osservare che il 66% degli universitari e il 75% dei liceali si ritiene d´accordo con la protesta, ben più di quanto si registra tra gli italiani (55%). Le occupazioni piacciono di più ai liceali (74%) e meno agli universitari (46%). La protesta invece per la mancanza di fondi destinati alla ricerca è ampiamente condivisa: 90% degli universitari, 84% dei liceali e 81% dei cittadini. I liceali, nell´85% dei casi, ritengono che la scuola sia peggiorata nell´ultimo decennio, ben più di quanto si registra tra gli universitari (60%) o nella popolazione (69%). Sono più critici verso la scuola, anche perché la conoscono, visto che la stanno attualmente frequentando. Per quanto riguarda l´università si osserva un comune sentire tra studenti e cittadini. In sei casi su dieci ritengono che l´accademia negli ultimi dieci anni abbia vissuto una fase di declino. Tuttavia, anche la riforma, agli occhi degli studenti e delle loro famiglie, non porterà a miglioramenti nel sistema dell´istruzione. Infatti, il 70% dei liceali ritiene che la scuola peggiorerà. Il 73% degli universitari lo pensa per gli atenei. Anche il 60% dei genitori degli studenti la vede in questo modo, sia per la scuola che per l´università.

Repubblica 6.12.10
Il razzismo del dolore
di Chiara Saraceno


C´era da aspettarselo. Quando si è saputo che un nordafricano è stato arrestato perché sospettato di aver ucciso Yara, è esploso il razzismo. Senza neppure aspettare conferme.
E tanto meno la conferma di un giudizio. Quasi un gesto liberatorio: questa volta non è "uno di noi", ma "uno di loro". Dopo Avetrana, ove una quasi coetanea di Yara è stata uccisa da zio e cugina che era andata a trovare fiduciosa, dopo Pinerolo, dove una donna è stata uccisa dall´ex amante del marito con la complicità del figlio, finalmente le cose sono tornate a posto: i cattivi sono gli altri (anche in Calabria dove sono morti sette ciclisti), doppiamente sconosciuti, perché non familiari e soprattutto perché stranieri. Una auto-rassicurazione che cerca capri espiatori su cui rovesciare l´ansia che produce l´insicurezza derivante dal non sentirsi più in controllo del territorio e delle condizioni della vita quotidiana. Non perché ci sono gli immigrati, ma perché sono cambiate molte regole del gioco, ma molti comportamenti, e molte teste, sono rimaste le stesse. Specie per quanto riguarda i comportamenti nei confronti delle donne, incluse le ragazzine.
Essere genitori oggi, specie di una figlia, è spesso fonte di ansie e paure. Non è sufficiente sapere che la maggior parte delle violenze avvengono in famiglia, da parte di familiari (italiani e no). Oggi come un tempo ogni genitore sa che una figlia femmina è più vulnerabile. Non perché sia più debole di un figlio maschio (per altro anch´esso non del tutto protetto dalle attenzioni improprie e violenze, anche da parte di insospettati, come ha segnalato il grande scandalo della pedofilia da parte di ecclesiastici). Ma perché più di un maschio è considerata preda cacciabile da parte di uomini che si credono in diritto di prendere ciò e chi desiderano. È questo timore che ha legittimato in passato la maggiore sorveglianza cui sono state sottoposte le figlie rispetto ai figli, riducendo i loro spazi di libertà, il raggio delle loro esperienze. Chiudendo in un recinto la potenziale preda, perché non si può controllare il cacciatore. Anche se non sempre neppure il recinto è un luogo sicuro, come ha dimostrato appunto l´omicidio di Avetrana ed è documentato quasi quotidianamente dalle cronache che parlano di fidanzati, mariti, fratelli che macellano le donne che per qualche ragione considerano loro proprietà.
Ogni genitore conosce il batticuore con cui aspetta il rientro dei figli, maschi o femmine che siano, ma con un pizzico di ansia in più se sono femmine. Si è stretti tra il desiderio di dare fiducia e autonomia e la consapevolezza di non potere prevedere ed evitare tutti i rischi. L´ansia rischia di diventare divorante di fronte a casi come quello di Yara: sparita in pieno giorno, mentre torna a casa, in un paese dove si conoscono tutti e dove apparentemente il controllo sociale sul territorio dovrebbe essere maggiore che in una grande città. Invece di cercare un capro espiatorio nell´immigrazione, come se il problema dell´insicurezza e della violenza riguardasse solo o prevalentemente gli immigrati, bisognerebbe riflettere sul persistere di queste condizioni di insicurezza per le donne, che costituiscono una gabbia invisibile per tutte, ma che in molti, troppi, casi tolgono la dignità e la vita.
Soprattutto, ora, mentre le speranze di ritrovare Yara viva si stanno spegnendo, sarebbe il caso di rispettare lei, la sua vita e il sorriso bambino, e la dignità dolorosa dei genitori, che non si sono offerti al circo mediatico pronto a documentarne ogni sospiro e ogni lacrima. Che si eviti la caccia agli immigrati, ma anche di fare di una tragedia l´ennesima occasione per uno spettacolo per guardoni. Niente processi e ricostruzioni in pubblico, con o senza modellini ed esperti sempre in servizio. Niente appostamenti per spiare il dolore dei familiari. Nessuna solleticazione del narcisismo più o meno ingenuo di amici e conoscenti. Sobrietà, silenzio e molta autoriflessione.

Corriere della Sera 6.12.10
Se Prometeo indica il futuro
L’attualità di un testo classico che invita a riflettere sul progresso e sui limiti della scienza
La tragedia di Eschilo tradotta e riletta da Edoardo Boncinelli
di Eva Cantarella


Prometeo, figlio del Titano Giapeto, apparteneva a una stirpe divina. Ma amava molto gli esseri umani, ai quali un giorno, dopo averlo rubato agli dèi, fece dono del fuoco: lo strumento che consentì loro di intraprendere la strada del progresso, accorciando la distanza che li separava dagli immortali. Per punirlo, Zeus lo fece incatenare a una roccia agli estremi confini del mondo, immobilizzato da catene di ferro che lo serravano agli arti e al torace, condannato a subire atroci, infiniti tormenti. Così il Titano ribelle veniva rappresentato sulla scena ateniese. Così venne rappresentato, più precisamente, quando Eschilo, attorno al 470 a.C., mise sulla scena il Prometeo incatenato (parte di una trilogia per il resto andata perduta, che comprendeva, rispettivamente prima e dopo quello «incatenato», un Prometeo portatore di fuoco e un Prometeo liberato). Dei dubbi sulla autenticità della tragedia non parleremo, non solo perché questione filologica impossibile da affrontare in questa sede, ma anche e soprattutto perché quel che qui interessa, oggi, è soprattutto il contenuto dell’opera.
Rispettando la regola della «distanza tragica», secondo la quale quel che veniva portato sulla scena doveva distaccarsi dalla particolarità, dalla specificità del presente, la storia di Prometeo induceva gli ateniesi a riflettere su un tema molto importante nella Atene che, nel V secolo a.C., aveva raggiunto il massimo del suo splendore: l’incivilimento del genere umano e le conquiste del progresso, di cui gli ateniesi andavano giustamente fieri. E che oggi, a distanza di duemilacinquecento anni, è importante come forse non è stato mai. In una bella prefazione alla nuova traduzione di Edoardo Boncinelli, (Eschilo, Prometeo incatenato. L’uomo dal mito alla vita artificiale, Editrice San Raffaele, pp. 118 euro 14), Luca Ronconi (al quale si deve una splendida messa in scena del Prometeo nel teatro greco di Siracusa, nel 2002, e successivamente al Piccolo Teatro di Milano) osserva, giustamente, che «un filo percorre tutta la tragedia: che cosa accadrà domani»? E prosegue: «Se mai un’epoca si è chiesta cosa accadrà domani, questa è la nostra. Senza per ciò cercare in questa o in altre opere del passato un rapporto diretto. Sarebbe chiudere gli occhi sulla nostra contemporaneità. No, dobbiamo guardare ai grandi testi del passato come alla luce di stelle che non ci sono più. Quello che conta è l’energia originaria. Questo il loro fascino. La sola attualità è nei nostri occhi di lettori critici». E come tali appunto, sulla scorta delle parole di Ronconi, eccoci dunque a rileggere la storia del figlio di Giapeto.
Personaggio ambiguo, astuto, preveggente (come dice il suo nome «colui che sa, che vede prima») Prometeo, lo abbiamo detto, era amico dei mortali che aveva difeso a cominciare dal momento in cui Zeus, conquistato il potere, aveva preso a distribuire doni e prerogative a tutti, senza tenere alcun conto della stirpe degli umani, che voleva addirittura sterminare mandandoli nell’Ade, per sostituirli con una nuova stirpe. Donando loro il fuoco, Prometeo non li aveva solo salvati dalla distruzione, aveva consentito loro di intraprendere il camino della civiltà: prima, essi «non conoscevano case di mattoni alla luce del sole, abitavano invece come minute formiche nei recessi oscuri delle caverne»; non conoscevano l’agricoltura, né le stelle, né i numeri e i segni dell’alfabeto; non sapevano aggiogare gli animali selvatici, interpretare i sogni, solcare i mari con le navi. Non conoscevano la medicina, non sapevano come contrastare le malattie... È Prometeo stesso a fare l’elenco delle benemerenze conquistate nei confronti dell’umanità, che si conclude con una orgogliosa rivendicazione: «Tutte le arti ( technai) dei mortali vengono da Prometeo» (vv. 442-471; 476-506).
A dimostrare l’importanza del tema, nella Atene dell’epoca, sta il suo ritorno, di lì a poco, nello splendido, primo stasimo dell’Antigone di Sofocle (vv.332-375). Ma attenzione: anche se erano passati meno di trent’anni (Antigone andò in scena nel 442 a.C.), la prospettiva di Sofocle era diversa. In Eschilo, Prometeo è un eroe benefattore senza ombre. La visione eschilea del progresso è fondamentalmente ottimistica, alle origini di esso il poeta riconosce il dono di un dio: un ribelle, certo, ma pur sempre un dio. In Sofocle, invece, il rapporto tra l’essere umano e il progresso è visto in termini problematici: l’umanità ha trovato rimedio a tutto, tranne che alla morte, e «possiede, oltre ogni speranza, l’inventiva della techne, che è saggezza». Ma può prendere sia la via del bene, sia quella del male, può rivolgere la techne in due direzioni: può farne un uso giusto, ma se il suo coraggio diventa arroganza può farne un cattivo uso (vv.364-371). La civiltà e il progresso sono il frutto dell’ingegno umano. L’uomo, «la più mirabile tra quante cose mirabili esistono» (vv.333-363) guarda con orgoglio alle sue conquiste: ma sa che queste tengono in sé un pericolo. Il valore morale del progresso dipende dall’uso che l’essere umano ne fa. Il dio è scomparso. È un’etica laica, quella che Sofocle esorta i suoi concittadini a discutere, con questi versi. Un’etica che pone l’uomo davanti alla sua responsabilità. Non è un caso, certamente, che a proporci questa nuova, bella traduzione della storia di Prometeo sia uno scienziato (oltre che appassionato grecista) come Edoardo Boncinelli.

Corriere della Sera 6.12.10
Il diario pubblico del cronista Bocca
di Francesco Cevasco


Più o meno la sua ricetta è così: alzare il culo, andare, guardare, vedere, (tentare di) capire, congegnare un’idea quanto più vicina possibile a quella giusta, raccontare, spiegarsi in maniera semplice e diretta senza inutili giochi di parole (è ammesso sbagliare ma non per ideologia e/o malafede). Giorgio Bocca, a novant’anni battuti, ci regala un altro libro; sempre con la stessa ricetta ( Fratelli Coltelli, 1943-2010 L’Italia che ho conosciuto, Feltrinell i , pp. 329, 19). Sembra un’antologia dei suoi scritti che, su quegli anni, ha sparpagliato negli articoli e nei libri che ha firmato. Ma è molto di più, perché negli «snodi» che collegano un capitolo all’altro, un brano all’altro, è il Bocca di oggi che ti parla. E non lo fa per mettere le cose e le persone che ha raccontato nel contesto giusto — non c’è bisogno, va da sé — lo fa per dirti che cosa resta e non resta degli anni che hanno segnato nel bene e nel male il nostro Paese. E così la fuga a Pescara del re, all’alba del 9 settembre ’43 è dipinta «come qualcosa di peggio che una manivatoi e Thundelbolt ultimo modello, maglie, camicie, lambrusco e busti di Lenin tra fiori di plastica... la Ferrari dodici cilindri in piazza e l’amante a Correggio, il popolo lavoratore che dice "no al fazismo" e i "milioun" e magari i miliardi di tutti ’sti fenomeni».
E bum! Esplode il Sessantotto, sit-in e assemblee: «Non ero il solo a non capire. Non capivano neppure Mario Moretti e Giorgio Semeria, due futuri brigatisti rossi spettatori di quelle assemblee, a cui pareva, come a me, che far politica e preparare rivoluzioni in assemblee confuse, isteriche fosse una presa in giro di una seria volontà rivoluzionaria. A un provinciale uscito dalla guerra partigiana che era stata fatta con una selezione dei migliori, la disciplina dei militanti e queste chiacchiere in libertà, questo ondeggiare della masse, questo attivismo frenetico parevano fini a se stessi».
Al Sessantotto seguono — almeno cronologicamente — gli anni di piombo. All’inizio del terrorismo, secondo Bocca: «Un quadro preciso, una dichiarazione di guerra datata, non esistono. Esiste il fiume carsico della violenza che riemerge questa volta contro il potere statale, della borghesia d’ordine». E alla fine, nel momento della sconfitta: «I rivoluzionari hanno sempre l’argomento dei tempi lunghi, tanto lunghi che nessuno dei viventi può contestare o verificare». Un venticello in qualche modo da rivoluzione del buonsenso Bocca lo ha visto nella Lega. Qui la data bisogna scriverla: 8 giugno 1993 sulla «Repubblica»: «Ho votato per la Lega come da dichiarazioni di voto pubblicate dalla stampa, per ragioni che a me sembrano di comune buonsenso politico. Chi come me pensa che il sistema dai partiti abbia fatto il suo indecoroso tempo, chi è convinto che bisogna arrivare presto a una nuova legge elettorale, a una nuova Costituzione, a facce nuove, in pratica a Milano non aveva scelta». Una Lega «rozza», con «comportamenti da mucchio selvaggio», con un leader dalla «navigazione spesso contraddittoria», ma che, per essersi saputa ribellare alla corruzione della prima repubblica, fa (fece) dire a Bocca: «Grazie barbari».
Bastiancontrario per settant’anni di giornalismo già compiuti, il Vecchio Leone non si addolcisce certo adesso, ma accanto a quel pessimistico «Coltelli» del titolo c’è anche un «Fratelli» che nasconde un pizzico di fiducia negli italiani. «Se non altro quando tutto sembra perduto sappiamo ritrovarci per non cadere nel baratro. Forse è questa la nostra peculiarità: dobbiamo ancora imparare a vivere in società, a essere Stato, inutilmente furbi, inguaribilmente infantili ma molto umani nelle debolezze come nelle virtù, in un certo senso rassegnati a questa nostra umanità: capaci di fermarci prima della ferocia e del fanatismo».

Repubblica 6.12.10
L´oroscopo della scienza "Carattere deciso dal sole"
di Elena Dusi


E la scienza ammise: la data di nascita influenza il carattere
I test americani sui topolini di laboratorio svolti in diversi mesi dell´anno

IL MESE di nascita influenza il carattere. Era ovvio per l´astrologia, ora lo è anche per la scienza. Ma lungi dal dare il suo avallo alla lettura degli astri, la ricerca della Vanderbilt University ottiene l´effetto contrario. In uno studio su Nature Neuroscience i ricercatori dimostrano che la quantità di luce assorbita nelle prime settimane di vita produce effetti indelebili sui neuroni ancora vergini dei bebè.
La lunghezza delle giornate che è diversa in estate e in inverno si imprime sul cervello dei bambini appena nati, influenzando per sempre il loro ritmo circadiano e producendo effetti futuri - deboli ma misurabili - su umore, propensione alla depressione e alla schizofrenia.
Gli esperimenti americani sono stati condotti sui topolini in laboratorio, regolando la durata dell´illuminazione artificiale. Ma il fatto che le prove siano state ripetute in diversi mesi dell´anno, e che test simili sull´uomo in passato si siano svolti contemporaneamente nell´emisfero nord e in quello sud (dove agli stessi mesi corrisponde un livello di illuminazione capovolto), dimostrano che è la quantità di luce, non la data di nascita a influenzare il carattere. E che l´unico astro la cui posizione in cielo conti per il nostro futuro è il Sole.
«Ci teniamo a dirlo, anche se il nostro lavoro assomiglia all´astrologia, non lo è affatto. Si tratta di biologia stagionale» precisa Doug McMahon che ha condotto lo studio. La ricerca Usa si è concentrata sugli effetti della luce su una piccola area del cervello ribattezzata "orologio biologico". È questo grappolo di neuroni situato dietro agli occhi a dettare all´organismo i ritmi circadiani, regolando sonno, veglia, appetito, pressione sanguigna, voglia di quiete, movimento e molto altro. Nei topolini vissuti per le prime 4 settimane a un ritmo di 16 ore di luce per 8 di buio, l´orologio biologico si è tarato sul regime estivo, e su questo è rimasto tutta la vita. Il contrario è accaduto ai topolini tenuti al buio per 16 ore al giorno. «Questi ultimi - spiega McMahon - hanno dimostrato di risentire molto dei cambiamenti stagionali. Questo spiega come mai gli uomini nati in inverno siano più spesso affetti da depressione invernale», causata dalla riduzione delle ore di luce.
Gli effetti di questo imprinting riguardano ritmi circadiani e tono dell´umore, ma non solo. «Il mese di nascita influenza anche la tendenza a diventare gufi o allodole» spiega Vincenzo Natale, docente di ritmi del comportamento e ciclo veglia-sonno all´università di Bologna, che da anni si dedica a questo campo di studi. «Per chi è nato in estate le giornate non finirebbero mai. Ecco da dove nasce la tendenza a diventare gufi. I nati in inverno sono invece mattutini doc. Ovviamente si tratta di statistiche e all´interno dei vari gruppi le differenze sono grandi». Nessun risultato invece è stato mai ottenuto dai ricercatori che si sono sforzati di legare data di nascita a tratti della personalità più complessi, come estroversione, socievolezza o addirittura livello di intelligenza.

Repubblica 6.12.10
Il Cicap e le stelle "L´astrologia? Un fallimento a contare è il sole"
di E. D.


Ma non sono gli astri ad essere determinanti, piuttosto la quantità di luce assorbita dai neuroni del neonato Secondo una ricerca su "Nature Neuroscience" la diversa lunghezza delle giornate condiziona il cervello

ROMA - «La luce ha sicuramente un effetto sul cervello e sulla personalità, ed è interessante che la scienza indaghi il loro rapporto. Ma questo cosa c´entra con l´influenza che possono avere gli astri in cielo?». Secondo Massimo Polidoro, segretario del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), uno studio come quello di Nature Neuroscience non aggiunge proprio nulla alla validità dell´astrologia.
Lasciamo stare l´oroscopo del giorno. Ma forse l´astrologia ha qualcosa da dire nella descrizione della personalità dei segni zodiacali?
«Se prendiamo due persone nate nel nord Europa e in un paese del Mediterraneo notiamo la differenza. Tant´è che per gli individui allegri ed espansivi abbiamo coniato la definizione di "carattere solare". Questo vuol dire che è soprattutto l´esposizione alla luce ad avere importanza, non la posizione degli astri al momento della nascita».
Può darsi che l´astrologia avesse colto per via indiretta delle intuizioni che oggi la scienza riesce a confermare.
«Molti test sono stati condotti su questa ipotesi. Agli astrologi è stato chiesto di definire i tratti della personalità di un individuo senza avere nulla a disposizione se non la data di nascita. I risultati sono stati sempre fallimentari. Mai nessuno è riuscito a confermare la validità delle conclusioni dell´astrologia. Teniamo distinta la scienza da questa disciplina».
(e.d.)