mercoledì 8 dicembre 2010

l’Unità 8.12.10
In piazza per la spallata
Bersani: cambiamo l’Italia
Due milioni a San Giovanni «Sarà una festa di liberazione»
18 treni speciali, 1500 autobus
Il Pd sabato in piazza per la «spallata» al governo. Quanti saranno? «Non uno in meno di quanti ne portò Berlusconi nel 2006 contro Prodi», annnunciano dal Nazareno. Bersani chiuderà con un lungo intervento.
di Maria Zegarelli

Dare la «spallata» finale al governo Berlusconi e iniziare una nuova fase per la politica e il paese, insomma fare della manifestazione del Pd di sabato prossimo a Roma una Festa della liberazione, a tre giorni dal voto di fiducia alle Camere. Possibilmente portando a Roma «non una persona di meno di quelle che portò Berlusconi nel 2006 contro la Finanziaria del governo Prodi», butta lì Lino Paganelli parlando con Nico Stumpo, responsabile organizzazione del partito. Riguardando le dichiarazioni trionfali dell’allora Fi i conti dovrebbero essere presto fatti: oltre due milioni di persone. «Noi di numeri non ne diamo, sarà la piazza a parlare», frena Stumpo, malgrado il clima di grande ottimismo che si respira nel quartier generale al Nazareno.
GLI ORGANIZZATI
A Roma sabato arriveranno 18 treni speciali, «tutti quelli che possono mettere a disposizione le FFss», oltre ai gruppi che hanno acquistato i biglietti su treni normali; 1500 pullman da tutta Italia (venti dei quali messi insieme dal Movimento dei Moderati piemontesi) e mille persone dalla Sardegna con i traghetti per un totale di circa centomila manifestanti «organizzati». Due i cortei che si snoderanno lungo la città partendo alle 14 da piazza della Repubblica e da piazzale dei Partigiani per confluire in piazza San Giovanni, il cui allestimento è stato curato dall’architetto Malfatto. Un grande palco «che sarà lo specchio della piazza», con gente normale, di tutte le generazioni, che leggerà gli articoli della Costituzione, «il nostro riferimento costante», e con artisti come Neffa la cui «Cambierà» è entrata nella colonna sonora scelta dal segretario Pd per le ultime iniziative del partito (lo slogan della manifestazione è non a caso “con l’Italia che vuole cambiare”), come Nina Zilli, Roy Paci e Simone Cristicchi, oltre alla Med free Orkestra, la banda di piazza Vittorio che vanta musicisti provenienti da 18 nazioni diverse. Ombrelli e scaldacollo rigorosamente Pd, rossi?, anche se le previsioni annunciano sole su Roma.
IL DISCORSO DEL SEGRETARIO
Bersani chiuderà la manifestazione con un suo intervento «che sarà lungo e articolato» perché raccontano i suoi collaboratori sabato non sarà soltanto un giorno di protesta, «ma anche di proposta, quella del partito democratico per cambiare il Paese con un proprio progetto politico di società». Nel suo discorso Bersani parlerà della crisi politica e del ruolo che deve avere il Pd per traghettare l’Italia oltre il pantano in cui si è arenata, ma affronterà anche i temi della crisi economica, del lavoro, della ricerca. Ci saranno tutti gli stati generali del Nazareno ma sul palco soltanto il segretario, un segnale alla base, ai manifestanti ma al partito stesso: si parla con una sola voce. Un messaggio al paese, soprattutto adesso, in una fase in cui l’evoluzione di questa crisi è tutt’altro che scritta, malgrado i segnali rassicuranti che arrivano dai fedelissimi del premier, malgrado le cifre astronomiche (per le persone normali, ovvio) di cui parla l’ex Pd Massimo Calearo che in questi giorni vengono offerte in cambio di un sì alla fiducia: dai 350mila al mezzo milione di euro. Il percorso politico a cui lavora il Pd è la caduta della maggioranza parlamentare e un governo di transizione per affrontare le riforme più urgenti compresa la legge elettorale e poi tornare alle urne.
Ottimista al riguardo Massimo D’Alema che in un’intervista che verrà trasmessa oggi su La7, nel programma Exit dice: «Le elezioni si vincono e si perdono. Abbiamo perso nel '94, abbiamo vinto nel '96, abbiamo perso nel 2001, abbiamo vinto nel 2006, abbiamo perso nel 2008: la prossima volta vinciamo. È il nostro turno: ci stiamo organizzando per vincere e durare a lungo». Ma per raggiungere l’obiettivo bisogna scaldare i cuori degli elettori più scettici a raggiungere quelli di chi è tentato di restare a casa e mancare l’appuntamento con le urne. Prima ancora bisogna invertire la curva dei sondaggi e puntare la risalita dei consensi. Bersani sa bene che passa da lì anche la tenuta interna del partito, come sa che c’è chi è pronto ad andare all’assalto della dirigenza.

il Fatto 8.12.10
Perché Renzi è andato a Arcore?
Malumori Democratici Bersani: “Si può pensare male”
di Giampiero Calapà

Che cosa è andato a fare il sindaco di Firenze Matteo Renzi due giorni fa ad Arcore in gran segreto? “Sono stato ad Arcore – ha confermato Renzi – non c’erano né Emilio Fede né Lele Mora. Solo io e Berlusconi e ci siamo dati del tu”. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, però, lo ha rimproverato: “Meglio fosse successo in sedi istituzionali. Così si può capire male”. Male? A cosa si riferisce Bersani? Nel corso della giornata di ieri si sono rincorse le voci – provenienti da ambienti dello stesso Pd che non sono mai stati felici di farsi rottamare – rispetto a un Renzi già in passato più volte ospite del premier a Palazzo Grazioli. E, addirittura, secondo le “malelingue” Renzi sarebbe finito in alcune intercettazioni di Denis Verdini, in cui il coordinatore del Pdl avrebbe espresso apprezzamenti fino a chiedere ai suoi di sostenere Renzi alle primarie per le elezioni del sindaco di Firenze. Insomma, un Renzi convocato dal solito Berlusconi dei dossier pronti all’uso. Ma Palazzo Vecchio, sede del Comune di Firenze , smentisce tutto:
“NON SALTERÀ mai fuori una fotografia di Renzi a Palazzo Grazioli perché il sindaco non sa neppure dove si trova e di intercettazioni di quel tenore non sappiamo nulla, non esistono”. Nelle carte note dell’inchiesta sulla P3, nata da quella dell’area Castello di Firenze,ilnomediRenzicomparesoloin relazione a quel volo promesso da Riccardo Fusi, ex presidente dell’azienda edilizia Btp e grande amico di Verdini, per permettere a Renzi (in quel momento presidente della Provincia) di non far tardi ad una trasmissione televisiva. La promessa venne fatta ad Andrea Bacci, che presiedeva il Cda di Florence Multimedia (società creata da Renzi per la comunicazione della Provincia di Firenze): il 12 dicembre 2008 in un colloquio telefonico Bacci chiede espressamente a Fusi un elicottero per Renzi: “Scusami Riccardo... abbi pazienza… Matteo deve andare di corsa a Milano in trasmissione… alle “Invasioni Barbariche”... dalla Biscardi... i treni sono tutti in ritardo di due ore... due ore e mezzo e non so come... è bloccata... lui ha bisogno di andarci in elicottero... ce l’hai disponibile?”. Riccardo Fusi ribatte che per le condizioni meteorologiche avverse l’elicottero non può decollare. Insomma, il meteo impedisce il volo. Ma il 3 aprile Bacci telefona di nuovo a Fusi alludendo ancora a Renzi: “Lunedì pomeriggio alle 3 e mezzo... io avevo bisogno... dell’elicottero... sempre per la nostra persona... insomma… avre bisogno dell’elicottero alle 3 e mezzo per andare a Milano... e ritornare giù alle 7 e mezzo”. Per Fusi questa volta non ci sono problemi: “Va bene Andrea, non ti preoccupare, ti organizzo io... dove... lo porti a Calenzano te... per partire di qui... o te lo mando a Peretola?”. Renzi smentì tutto a stretto giro di posta: “Mai volato su un aereo di Fusi, non ho mai chiesto a Fusi o ad altri imprenditori l’utilizzo per fini personali o istituzionali di un elicottero, non so perché Andrea, che è un mio amico, lo abbia fatto”.
Ieri mattina, dopo le uscite di Repubblica e Libero che hanno riferito dell’incontro di Arcore, Renzi ha consegnato a Internet, alla sua pagina Facebook, la sua spiegazione, alla quale a Roma, nel suo partito, i più mostrano di non credere. Così Renzi: “Ho incontrato Silvio Berlusconi, che mi ha gentilmente fissato l’appuntamento che gli avevo chiesto qualche settimana fa. Ho chiesto al presidente del Consiglio di mantenere gli impegni per Firenze che il Pdl si era preso in campagna elettorale, a partire dalla legge speciale. Dieci giorni fa ho corso persino una Maratona per dimostrarlo (e ancora mi fanno male le gambe, ma avevo dato la mia parola). Se il Governo vuole mantenere gli impegni, l’occasione più logica è il decreto mille proroghe che va in votazione a stretto giro: non sarà una legge speciale, ma potrebbe esserci un gesto di attenzione per Firenze”.
ANCHE il suo socio-fondatore dei “Rottamatori” Giuseppe Civati ha preso le distanze: “Avrei preferito una sede istituzionale (anche perché Arcore porta parecchia sfortuna, ultimamente) e un momento diverso da questo, con B. che sta per cadere (o, almeno, lo speriamo tutti)”, anche se non rinuncia a pungere Bersani in difesa dell’amico: “Mi pare che qualcuno stia esagerando con la dietrologia, anche perchè lo stesso Bersani, ad Arcore, ci sarebbe andato anche a piedi, ricordate?”. L’incontro di Arcore è stato possibile grazie all’intermediazione di Enrico Marinelli, personaggio noto a Firenze per esser amico di Berlusconi. Renzi ha raccontato: “Abbiamo discusso delle questioni concrete che riguardano Firenze. Qualcuno mi ha detto che non dovevo andare ad Arcore. Io gli incontri istituzionali del Comune li faccio in Palazzo Vecchio. Se il premier invece riceve nella sua abitazione, io vado nella sua abitazione e alla fine ringrazio dell’ospitalità“. Perché, però, la visita è rimasta segreta? Palazzo Vecchio risponde: “Il nostro sogno era avere la certezza del contributo di scopo, 17 milioni di euro per Firenze. Berlusconi in persona ha chiesto riservatezza, perché sul mille-proroghe ci sarà l’assalto alla diligenza”. Un Berlusconi crepuscolare, con la mannaia della sfiducia del 14 dicembre sul collo, chiede riservatezza per regalare i soldi a un sindaco Pd, con un provvedimento approvato da un governo magari dimissionario? L’interrogativo resta aperto.

il Fatto 8.12.10
Ma nelle carceri non cambia nulla
di Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone

Nelle ultime settimane mi è capitato varie volte di esprimere giudizi in pubblico sulla legge di recente approvata che consente di scontare l’ultimo anno di pena in un regime di detenzione domiciliare. Ho letto e riletto i contenuti di quel provvedimento e ho avuto modo di verificare che risulta sostanzialmente inutile. Il sovraffollamento penitenziario rimarrà tale e quale. Oggi, ricordo a Marco Travaglio, la popolazione detenuta è composta da quasi 70 mila detenuti, mentre i posti letto sono 44 mila. Ci sono quindi 26 mila persone accampate in celle di fortuna. Per tutti i detenuti il dettato costituzionale (pena umana e funzionale alla rieducazione) è oramai un mito. Si è costretti a vivere in non più di tre metri quadri a testa (così violando le norme internazionali) bagno alla turca compreso.
PARTO dai punti di dissenso con l’analisi fatta ieri da Marco Travaglio: 1) Non tiene conto che quelle poche migliaia di persone (e non delinquenti come lui li chiama) che usciranno dalle nostre malmesse prigioni sono nella maggior parte dei casi i detenuti-tipo che abitano le nostre carceri, ossia poveri, disagiati sociali e psichiatrici, tossicodipendenti, stranieri. Fra loro non vi sono né mafiosi, né assassini, né narco-trafficanti, né pedofili né colletti bianchi. Di questi ultimi, d’altronde, non vi è traccia nelle patrie galere; 2) L’indulto non è stato un insulto ma un “eccezionale” provvedimento di clemenza che avrebbe dovuto essere usato – come affermò il presidente della repubblica Giorgio Napolitano all’indomani della sua approvazione – per riformare il sistema penale e quello penitenziario. La dura campagna mediatica che ne seguì ha impedito ogni possibile proposta riformatrice e ha indurito i sentimenti dell’opinione pubblica sempre più orientata verso pulsioni di vendetta piuttosto che di giustizia; 3) Va superata l’idea che le misure alternative alla detenzione (lavoro all’esterno, semilibertà , affidamento ai servizi sociali o in una comunità di recupero) siano una negazione della certezza della pena. Esse sono a loro volta una pena.
In un sistema giuridico avanzato va trovato il modo per diversificare le sanzioni. Il lavoro socialmente utile, ad esempio, è meno costoso nonché più vantaggioso della detenzione in termini di prevenzione speciale e generale. Inoltre le statistiche ci dicono che meno dello 0,2% di quelli che sono in misura alternativa commette un reato durante l’esecuzione della stessa e che chi ottiene un beneficio ripaga lo Stato con tassi di recidiva molto più bassi rispetto a coloro i quali scontano tutta la pena in galera, abbrutendosi e aumentando il proprio spessore criminale; 4) Infine, l’ultimo argomento di dissenso con Marco Travaglio, riguarda l’uso forte delle sue parole che rischiano di alimentare sentimenti di insicurezza e richieste di galera, proprio ora che le carceri sono piene di esseri umani oltre il limite del tollerabile.
L’ULTIMA cosa di cui abbiamo bisogno è legittimare o sollecitare l’opposizione anti-berlusconiana a fare l’ennesima pericolosa campagna sulla sicurezza (quella precedente di sinistra ha prodotto la lotta ai lavavetri e ai rumeni). I ricchi raramente finiscono in galera. Men che meno i colletti bianchi. Fra quei detenuti in via di scarcerazione che avrebbero potuto usufruire del provvedimento sulla detenzione domiciliare avrebbero potuto esserci: Alberto Grande, 22 anni, morto suicida nel carcere di Ancona, Giancarlo Pergola, 55 anni, morto suicida nel carcere di Foggia, Gheghi Plasnicj, 32 anni, morto suicida nel carcere di Bologna, Antonio Gaetano, 46 anni, morto suicida nel carcere di Palmi, Rocco D’Angelo, 53 anni, morto suicida nel carcere di Carinola. Solo per citare gli ultimi detenuti che si sono tolti la vita. Nessuno può accusare noi di Antigone – che da anni monitoriamo e denunciamo le condizioni di vita nelle prigioni italiane – di collusione o intelligenza col nemico berlusconiano. Questa legge però non è un indulto né un insulto. È un inefficace, provvisorio e emergenziale atto di consapevolezza della tragedia in cui versano le prigioni italiane. Una tragedia che richiederebbe ben altro coraggio politico e l’approvazione di riforme di sistema. Ne cito alcune: la introduzione del crimine di tortura nel codice penale, l’istituzione di un organismo indipendente di controllo dei luoghi di detenzione, la decriminalizzazione della vita dei consumatori di droghe, la depenalizzazione dello status di immigrato irregolare, la cancellazione di quelli leggi (ex Cirielli sulla recidiva in primis) che hanno trasformato il diritto penale in un diritto che giudica le persone e non i fatti da loro commessi.
IL PUNTO di convergenza con l’analisi di Marco Travaglio riguarda la natura sommaria e elitaria della giustizia penale ai tempi di Berlusconi (tale per colpa delle leggi ad personam ma anche di quei giudici che applicano burocraticamente le leggi mandando in galera gente come Stefano Cucchi): inflessibile con i poveri e generosa con i ricchi, clemente con chi ha un buon avvocato e inesorabile con chi si affida al difensore d’ufficio.

l’Unità 8.12.10
Dal Senato Associazioni umanitarie, parlamentari e Onu hanno spinto il governo ad agire
250 profughi sono da settimane in ostaggio. Trattativa tra servizi egiziani e capi tribù
Eritrei in catene e picchiati Appello all’Italia: salvateli
Associazioni per i diritti umani, parlamentari, l’Unhcr: uniti nell’accogliere il disperato grido d’allarme dei 250 profughi in ostaggio dei trafficanti di uomini nel Sinai. L’incontro al Senato. Una battaglia di civiltà.
di Umberto De Giovannangeli

Quel grido disperato «irrompe» a Palazzo Madama. Dal deserto del Sinai ai palazzi della politica di Roma. Una richiesta di aiuto, ed anche una denuncia di chi poteva agire e sin qui non lo ha fatto. ««Fate presto, fate qualcosa, oggi hanno ricominciato a picchiarci, siamo pieni di lividi e qualcuno ha le piaghe per le percosse» A implorarlo sono i profughi tenuti in ostaggio nel deserto del Sinai ormai da oltre un mese e raccolto dall'agenzia Habeshia, che ieri mattina, in un incontro presso la Sala stampa del Senato, ha rilanciato un appello alle istituzioni italiane affinché facciano pressione sul Governo egiziano per far sì che i circa 250 profughi eritrei, etiopi, somali e sudanesi prigionieri possano essere sottratti ai trafficanti di uomini da cui dipende la loro vita. L'iniziativa, promossa dall'associazione «A Buon Diritto» presieduta da Luigi Manconi e dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), è stata voluta per porre l'attenzione del mondo politico sul ruolo dell'Italia in una nuova tragica vicenda di cui sono vittime i profughi che scappano da scenari di guerra e da condizioni di vita insopportabili. A farsi carico di questa «battaglia di civiltà» parlamentari del Pd Pietro Marcenaro. Jean-Leonard Touadi, Guido Melis, Livia Turco, Luigi Zanda Radicali Rita Bernardini, Matteo Mecacci, Donatella Poretti e anche Flavia Perina e Benedetto Della Vedova di Futuro e Libertà, Savino Pezzotta e Paoloa Binetti (Udc). Ad aggiornare la situazione sulle condizioni di vita dei profughi è don Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo, direttore dell'agenzia Habeshia.
IL RACCONTO
«Ho chiamato alle 9:30 di stamattina (ieri, ndr) per chiedere la situazione attuale spiega Zerai -. Ogni ora che passa è sempre più drammatica». I rapitori hanno ripreso a picchiarli perché non ritengono più sufficienti i 500 dollari a ostaggio versati dalle famiglie domenica, e hanno alzato le pretese. Don Zerai è in contatto con un giovane eritreo di 26 anni che ha sentito per telefono sia ieri a mattina che nel pomeriggio, e nella seconda telefonata gli ha descritto una situazione che va peggiorando. In grave difficoltà anche le donne incinte e quello con bimbi piccoli: «Non ci laviamo da un mese ha raccontato una di loro viviamo nella spazzatura, come in una putrefazione». Alcuni sono feriti a causa delle botte prese, soprattutto con lo scadere degli ultimatum lanciati dai trafficanti sabato e domenica, quelli che non hanno versato neanche un centesimo sono stati picchiati selvaggiamente. «Parlano di teste fracassate, braccia e gambe rotte. C’è chi zoppica e chi sanguina, c'è un'urgenza di cure».
I RESPINGIMENTI
«La politica dei respingimenti ha spostato i flussi migratori verso Est con l'aggravante di una situazione geopolitica ben più complessa e con una crescita della violenza che nè l’Italia, né l'Ue possono tacere perché conseguenza di una politica di chiusura delle frontiere», rimarca Christopher Hein, direttore del Cir. «I profughi hanno cercato altre vie e una di queste è andare verso l'Egitto spiega Hein -, non con l'intenzione di rimanerci perché non ci sono garanzie e possibilità di ottenere protezione nonostante l'Egitto abbia ratificato la convenzione sui rifugiati...». A porre sotto accusa le politiche dei respingimenti è anche Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Alto commissariato per i rifugiati dell' Onu (Unhcr). «È chiaro che saremmo tutti molto felici se la diminuzione degli arrivi sulle coste italiane corrispondesse ad una diminuzione del bisogno di fuggire dal proprio Paese di origine afferma -, ma sappiamo bene che non è così. Si continua a fuggire dalla Somalia, dall'Eritrea, dalla Costa d’Avorio e da altri Paesi, ma la gente non arriva più in un posto sicuro». Per Boldrini, infatti, oltre ad un intervento necessario per liberare gli ostaggi trattenuti nel deserto, in Italia e anche in Europa occorre un'attenta analisi sulle politiche migratorie. «Non possiamo considerare questa vicenda una cosa che non ci appartiene sottolinea la portavoce dell’Unhcr L’Italia riduce gli aiuti per la Cooperazione allo sviluppo e chiude al tempo stesso le frontiere. Con politiche dei respingimenti l'unica conseguenza reale è stata la riduzione drastica delle domande d'asilo, quest'anno saremo a circa 10 mila. L'unico effetto della politica dei respingimenti è stato il contrasto alla fruibilità del diritto di asilo, non all'immigrazione irregolare». L’Unhcr ha preso contatto con il Governo egiziano che ha assicurato l’impegno per localizzare gli ostaggi e organizzare il loro rilascio.
EVACUAZIONE UMANITARIA
I promotori dell’incontro del Senato danno vita a un’iniziativa politica estremamente significativa: una lettera a firma Manconi, Hein e dei parlamentari presenti al ministro degli Esteri Franco Frattini e alla rappresentanza dell’Unione Europea a Roma affinché si lavori per una operazione di «evacuazione umanitaria» che, sotto la tutela dell’Ue, consenta il trasferimento dei 250 profughi nel Continente e la loro distribuzione nei diversi Paesi membri secondo la disponibilità di ciascuno di essi.. E in serata giungono dall’Egitto notizie che alimentano la speranza: e in corso il negoziato fra i servizi di sicurezza egiziani e i capi tribù del Sinai per arrivare alla liberazione degli immigrati tenuti in ostaggio mese dai trafficanti di essere umani. Lo hanno riferito fonti della sicurezza locale all' Ansa, indicando che insieme ai 250 eritrei ci sono circa altre trecento persone, provenienti da vari Paesi africani.

l’Unità 8.12.10
Riscoperte
Da Creta all’India nel nuovo libro del Nobel un viaggio straordinario
Eros e civiltà (e trasgressione...) in tre millenni di storia umana
Escort e lap dance? No grazie Quando l’osceno era sacro
In libreria «L’osceno è sacro» di Dario Fo (a cura di Franca Rame, Guanda, pp.293, euro 20). L’osceno non quotidiano, l’osceno catartico: ecco un libro che ci fa riflettere davvero sulla trivialità. Di ieri e di oggi.
di Gaia Manzini

Anni luce dal bunga bunga, lustri da escort e accompagnatrici, dalla lap dance e sex and the city, dall’età di lulù e dalla depilazione brasiliana, prima dei cento colpi di spazzola (e prima pure delle spazzole), esisteva tutto un esercito di tòpole, che l’immaginario voleva gaudenti, più rubacuori, rubiconde e rubizze, di una rubi qualsiasi.
Già, perché nella tradizione popolare il sesso femminile impazza che è una bellezza dall’Alto al Basso Medioevo: la parpàja (farfalla), il mügnaghìn (albicocchina), la ciumachèlla, la pèrsega (pesca), la ciùccia, la cumachèna, lo sticchiu, il coño, la móna, la fessa, la muscarella (il muschio), il brolo tenerin de dolzo parfùmo (ma qui solo come «auto definizione»). Tutta una storia di trivio e giullarate, che Fo richiama a memoria per riabilitare l’osceno come tale, nella sua funzione giocosa e vitale, parte (ma, attenzione, solo parte) della cultura di un popolo.
Osceno che non è all’ordine del giorno (se no che osceno sarebbe?). Osceno che è e vuole essere osceno, per liberare da vizio e perversione. Osceno catartico, dunque sacro.
E, allora, ecco che non mancano all’appello miti greci ed etruschi, riletture apuleiane e cretesi giochi rituali. E poi, conte popolari che con bretoniano surrealismo mettono in scena sticchi parlanti e dotati di vita propria, che espongono le loro lamentazioni per l’onore calpestato e la dignità vilipesa, direttamente al Padreterno. Oppure storie di fanciulle siciliane violate e di satiri bavosi, che perseguono l’impunità grazie a la defénsa, la legge promulgata a loro favore da Federico II, come racconta Cielo d’Alcamo. Nobiluomini, che con le braghe ancora calate, potevano estrarre duemila augustari, gettarli sulla violata a mo’ di risarcimento e scampare così il carcere e il tribunale. Storie che ricordano pericolosamente tanti fabulazzi odierni, di quelli che fioriscono rigogliosi tra le pagine dei giornali, tra menzogne e agnizioni, finzioni e stratagemmi che manco Plauto...
LA PARPÀJA DIMENTICATA
Poi, storie dell’XI secolo, come quella di Alessia, la donna che non vuole concedersi allo sposo, Giavàn Petro, tonto e poco virile, e inventa che la sua parpàja è stata dimenticata alla casa paterna. Storie di falloforie e fanciulle gaudenti che cavalcano tori con mosse circensi. Storie sacre di ceri da chiesa che evocano altro, e che la tradizione popolare porta in processione e simbolica corsa verso anfore, che dicono di vita e fertilità. Storie desunte e rielaborate da Le mille e una notte. Infine, storie trecentesche di falli falliti, come quello di Bellomo. Falli che mettono in imbarazzo per la loro ingordigia e prontezza di riflessi, e allora, per un incantesimo, cadono insieme ai loro attributi, e così, tutti scissi l’un dall’altro, con personalità precise e a tutto tondo, falli, ammennicoli e «cavalieri sfallati (immagine da augurarsi profetica per l’oggi della nostra storia politica) diventano un’ottima compagnia di giro. Comici che neanche allo Zelig.
Come da copertina, gli splendidi bassorilievi indiani di Khajurhao, nel Madhya Pradesh, rappresentano pratiche erotiche e formosità femminili dalle avvenenti proporzioni. Eppure non c’è nulla di volgare. Nonostante le guide della città attirino i turisti con slogan di basso livello, «The most exciting tour in your life», una volta arrivati si assiste a uno spettacolo di pura e autentica bellezza. L’osceno, dunque, serve a trascendere se stesso e a restituire all’oggetto in questione piena dignità. Ma un problema rimane: se il triviale è parte della cultura d’un popolo, che dire quando (come capita dalle nostre parti) il triviale diventa la cultura di un popolo? Forse la ripetizione continua, la duplicazione arbitraria di fatti osceni e volgari, deve averci ormai anestetizzati alla trivialità... be’ allora, chiedo a Fo, cosa dovremmo fare? Ormai che i giochi sono fatti, a quale osceno sacro possiamo votarci?

Corriere della Sera 8.12.10
Così le emozioni degli altri influenzano le nostre azioni
I neuroni delle dinamiche sociali: effetto gregge, bolle speculative
di Massimo Piattelli Palmarini

Il settore di studi chiamato neuro-economia non cessa di stupirci. I ricercatori attivi in questo campo, in essenza, studiano le basi neuronali delle attività psichiche che hanno un impatto diretto sulla vita economica, sia individuale che collettiva. La più recente scoperta, questa volta, ma non certo per la prima volta, made in Italy, è stata appena pubblicata sulla rivista internazionale «Neuroimage» da un gruppo di ricerca interdisciplinare dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano impegnato in un ampio progetto di neuroscienze della decisione sotto la guida del Cresa (Centro di ricerca in epistemologia sperimentale e applicata) e il Cnc (Centro di neuroscienze cognitive), diretti rispettivamente da Matteo Motterlini e Stefano Cappa.
Questa scoperta consiste nella rivelazione degli effetti delle emozioni di rimpianto e di sollievo associate agli esiti della scelta. Sono stati descritti per la prima volta, infatti, i meccanismi cerebrali per mezzo dei quali le emozioni che provano gli altri, di fronte all’esito delle loro scelte, influenzano anche le nostre decisioni successive. Specifiche aree del nostro «cervello sociale» si attivano, «specchiandosi» nell’esperienza degli altri, proprio come se imparassimo per esperienza in prima persona.
Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI), lo studio ha preso in esame diverse lotterie in cui si poteva vincere o perdere denaro, indagando le reazioni di fronte a un soggetto che — avendo scelto una lotteria — rimpiangeva di non aver partecipato a quella vincente o, al contrario, era sollevato per non aver partecipato a quella perdente. In un precedente lavoro, due degli autori di questa ricerca, Nicola Canessa e Matteo Motterlini, avevano già descritto un meccanismo a specchio per tali emozioni, mostrando che la corteccia orbitofrontale, la corteccia del cingolo anteriore e l’ippocampo, associati all’esperienza di rimpianto, sono attivate anche quando si osservano gli esiti delle decisioni di un’altra persona. Proprio come davanti a uno specchio, il nostro «cervello sociale» reagisce per empatia di fronte al rimpianto altrui. Questo nuovo studio estende tale risultato, ponendo tale meccanismo di risonanza empatica al centro delle modalità di apprendimento sociale attraverso l’interazione con gli altri. I dati rivelati da questo raffinato esperimento mostrano che ad essere influenzata è la nostra propensione a rischiare, che diminuisce dopo aver osservato l’altro provare rimpianto per avere perso denaro a causa di una scelta azzardata, e, invece, aumenta dopo aver osservato l’altro provare rimpianto per una scelta conservativa.
Un classico fenomeno di «influenza sociale» — spiega Canessa — che viene per la prima volta tracciato con precisione in termini di attivazioni neurali e che agisce in maniera specifica per i diversi tipi di apprendimento: «Quando dagli altri impariamo a rischiare di più, infatti, lo facciamo mediante il nucleo caudato e la corteccia parietale posteriore (coinvolti in elaborazioni "fredde e razionali" relative ai possibili esiti delle scelte, per esempio in termini di valore atteso). Quando, al contrario, dagli altri siamo influenzati a rischiare di meno o a non rischiare affatto lo facciamo mediante la corteccia orbitofrontale e l’amigdala (che attribuiscono un valore emotivo negativo al rimpianto anticipato) e, degno di nota, la corteccia somatosensoriale e la materia grigia periac queduttale (strutture coinvolte, rispettivamente, nei meccanismi di percezione e modulazione del dolore, il dolore per le conseguenze di una decisione troppo rischiosa. La prima è la regione che registra le sensazioni corporali, la seconda è la materia grigia che circonda una cisterna di liquido cerebrale, ndr) ». La comprensione dei meccanismi neurobiologici dell’influenza sociale sulle decisioni economiche in condizioni di rischio — spiega Motterlini — promette di rendere conto di fenomeni che riguardano i mercati finanziari come l’«effetto gregge» e le «bolle speculative».
«Questo modello di apprendimento attraverso le decisioni altrui si applica infatti anche in borsa, proprio attraverso il meccanismo che vi consente di imparare da scenari ipotetici facendovi sentire tutta la spiacevole differenza tra il guadagno presente e il guadagno che sarebbe potuto essere. Quanto è maggiore questa distanza, tanto maggiore il rimpianto, e tanto più fortemente influenzata sarà la scelta di investimento successiva, che si "adatterà" in questo specifico senso al flusso e riflusso del mercato. I mercati salgono e compriamo perché non possiamo rimpiangere di esserne stati fuori. La bolla scoppia e corriamo a vendere, perché non possiamo rimpiangere di esserne stati dentro. Un effetto rafforzato dal fatto — documentato qui per la prima volta a livello di correlati neurali — che quando prendiamo decisioni di investimento il confronto non è solo con quanto avremmo potuto guadagnare (o perdere) noi stessi, ma anche con quanto stanno guadagnando (o perdendo) gli altri ai quali ci rapportiamo».
Gli stessi ricercatori di questo studio, cioè, oltre a Motterlini e Canessa, Federica Alemanno, Daniela Perani e Stefano Cappa, avevano già mostrato che il rimpianto altrui «risuona» in maniera più forte nel cervello femminile. Ora sappiamo anche che, in maniera proporzionale al loro livello di empatia, le donne «apprendono socialmente» meglio degli uomini, soprattutto quando si tratta di rischiare di meno.
È legittimo chiedersi, se questi correlati neuronali ci dicono davvero qualcosa di nuovo e di importante. L’interesse di queste conferme risiede, innanzitutto, in un fattore comune a tutte le scienze: cioè che uno stesso risultato, quando ottenuto in modo convergente mediante tecniche diverse, viene rafforzato. Inoltre, non è affatto una metafora dire che proviamo dolore per una perdita economica e, all’opposto, gioia per una vincita. Sono proprio gli stessi neuroni attivati, rispettivamente, dal dolore fisico e da una gratificazione fisica ad attivarsi. La verifica non potrebbe essere più reale di così.
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Corriere della Sera 8.12.10
Einstein pacifista: «Chi ama la guerra non usa il cervello»
L’etica rigorosa di un genio della fisica
di Sandro Modeo

Gli adepti — tanti, troppi — della piccola moda imperante del «politicamente scorretto» si astengano. Il mondo come io lo vedo (la prima raccolta di scritti filosofico-politici di Albert Einstein, uscita in Germania nel 1934) non fa per loro. Intendiamoci: a parte qualche passaggio, questo mix di micro-saggi, lettere, discorsi e invettive evita ogni tentazione utopistico-consolatoria: solo che il disincanto del grande scienziato non cede per un attimo al cinismo e all’amoralismo tanto cari all’ideologia del potere e della sopraffazione «inevitabile». In ogni pagina, Einstein è conscio dei vincoli biologici nell’operare del Sapiens, riassunti in una frase di Schopenhauer letta da ragazzo («Un uomo può fare come vuole, ma non volere come vuole») e sa bene che ogni battaglia etico-civile è una «dura lotta» contro «la massa degli indifferenti e dei malconsigliati», maggioranze opache funzionali alle «mire inutili di pochi gruppi interessati». Ma nello stesso tempo insiste su come proprio uno spicchio così esiguo di libero arbitrio implichi una responsabilità enorme: tanto che in molti punti sembra di risentire, come un basso continuo, il finale del discorso di Marco Lombardo a Dante nel Purgatorio («Ben puoi veder che la mala condotta/ è la cagion che ’l mondo ha fatto reo/ e non natura che ’n voi sia corrotta»).
È questo disincanto costruttivo a innervare ogni diagnosi e proposta della visuale einsteiniana. Lo scienziato è tra i primi, per esempio, a vedere la grande crisi economica degli anni Venti e Trenta (per tanti aspetti simile alla nostra), causata non tanto da motivi contingenti, quanto dall’ambivalenza di quei progressi tecnologici («lame taglienti nelle mani di un bambino») che portano, insieme a grandi benefici, i disagi di nuovi sistemi produttivi da ridefinire e correggere. E allo stesso modo il suo pacifismo, pur fondato su un antimilitarismo radicale (chi ama marciare e combattere «è stato fornito del suo grande cervello per sbaglio; gli sarebbe bastata la spina dorsale»), si traduce nella proposta concreta di un mondo inclusivo e precocemente «globale», in cui vengano riassorbiti — con la severità del diritto internazionale — patriottismi equivoci e nazionalismi pericolosi.
Vero liberal democratico avverso a tutti i totalitarismi ( in primis a quello tedesco, fondato su una «malattia mentale» della collettività), Einstein crede alla necessità della cooperazione, della socialità e di uno Stato regolatore, ma anche all’autonomia dell’individuo e della sua spinta creativa: non a caso, è un cultore della società americana, cui pure non risparmia critiche, come l’eccessivo conformismo e il culto del denaro.
E proprio il culto del denaro — insieme a quello del successo pubblico — gli sembra incompatibile con la coscienza di un soggetto evoluto. Da scienziato — e da scienziato che rivendica la sua identità ebraica, cioè l’educazione all’indipendenza di giudizio e al sapere fine a se stesso — Einstein capovolge il luogo comune: ingenuo non è il «lavoratore intellettuale» con le sue elucubrazioni, ma chi — ormai anestetizzato ogni stupore conoscitivo — si trascina «come morto». Sono le pagine più alte del libro, che si spalancano sul rapporto tra scienza e religione. Per Einstein, la scienza aiuta a capire come l’unico Dio pensabile non sia quello che «premia o punisce», concepito dai nostri antenati per la paura della morte e della malattia: ma quello in cui confluiscono «il mistero dell’eternità della vita e l’idea della meravigliosa struttura della realtà». Lo scienziato — insieme all’artista — ci aiuta così a penetrare quest’idea di trascendenza attraverso la «comprensione dei nessi causali»; nel caso di Einstein, di dinamiche come l’incurvarsi dei raggi luminosi sotto il peso della gravità, una delle conseguenze più stupefacenti della relatività generale.
In questa prospettiva, anche l’etica diventa «una faccenda puramente umana», sciolta da dogmi e sacralità sovra determinate. In continuità col suo amato Spinoza, Einstein avverte un legame tra il «sentimento religioso cosmico» e la responsabilità delle nostre azioni; ed è un legame tutt’altro che astratto, che può orientarci nel «breve soggiorno» in questo frammento dell’universo conosciuto.

Liquidazioni!
al prezzo di un euro oltre al prezzo del quotidiano...!
Corriere della Sera 8.12.10
L’esplorazione dell’ignoto nell’universo e nella psiche

Tornano domani «I Classici del Pensiero Libero», grandi libri che hanno trasformato il mondo, in edicola con il «Corriere della Sera» al prezzo di un solo euro più il costo del quotidiano. Dopo Blaise Pascal e Mary Wollstonecraft, è la volta di due illustri indagatori dell’ignoto. Domani esce il libro di Albert Einstein Il mondo come io lo vedo, nel quale il grande scienziato espone la sua concezione filosofica, con prefazione di Giulio Giorello, mentre sabato 11 dicembre vanno in edicola i Tre saggi sulla teoria sessuale dell’inventore della psicoanalisi, Sigmund Freud, con prefazione di Armando Torno. La prossima settimana sarà il turno di due britannici che hanno dato un grande contributo alla conoscenza umana: uno nel campo delle scienze naturali, l’altro in quello delle scienze sociali. Giovedì 16 dicembre esce L’origine delle specie di Charles Darwin, il naturalista inglese che formulò e diffuse la teoria dell’evoluzione dei viventi per selezione naturale, con prefazione di Edoardo Boncinelli. Sabato 18 dicembre va in edicola La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, lo studioso considerato il fondatore della scienza economica moderna, con prefazione di Michele Salvati. Visto il grande successo registrato dai «Classici del Pensiero Libero», i lettori che non riescono ad acquistare i volumi in edicola possono richiederli come arretrati al proprio rivenditore di fiducia o riceverli a casa, chiamando il servizio clienti del «Corriere della Sera» al numero 02.5036.6771. In entrambi i casi non è previsto sovrapprezzo rispetto a quello di copertina. Gli abbonati, invece, possono richiedere l’opera completa senza sovrapprezzo, sempre telefonando al numero 02.5036.6771.

Corriere della Sera 8.12.10
Freud, il guastafeste che minò le certezze della civiltà europea
In viaggio nelle profondità dell’inconscio
di Paola Capriolo

È destino di tutte le teorie scontare il proprio successo con una progressiva perdita di fascino; così le idee della psicoanalisi impregnano ormai a tal punto la nostra cultura da apparirci a volte addirittura banali, quasi appartenessero al patrimonio dei luoghi comuni che tutti noi, volenti o nolenti, condividiamo sin dagli anni della formazione. Per riscoprirne l’importanza occorre risalire molto indietro, a quegli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo in cui il dottor Sigmund Freud curava le «malattie nervose» nel suo studio di Vienna, ricavando dall’esperienza clinica alcune conclusioni destinate a fare epoca. Allora, ai tempi del ballo Excelsior e delle più trionfalistiche esposizioni universali, erano altri i luoghi comuni attraverso i quali gli uomini intendevano se stessi: si dava cioè per scontata l’esistenza di tutta una serie di rassicuranti antitesi. Da un lato la sanità psichica, dall’altro la perversione; da un lato la vita adulta, dove il desiderio sessuale, nei tempi e nei modi opportuni, assume la sua innegabile importanza, dall’altro il candore dell’infanzia, angelicamente ignara delle miserie della carne; da un lato l’uomo civile, il borghese europeo illuminato dalla duplice fiaccola della ragione e del progresso, dall’altro i suoi rozzi antenati, i cui processi mentali non possono che essergli completamente estranei. Insomma, un comodo dualismo, grazie al quale la civilizzazione giunta all’apogeo riesce a escludere dal proprio orizzonte quanto non è in grado di assimilare.

Qualcuno, è vero, aveva già messo in dubbio questa concezione, ma erano filosofi, poeti, artisti, gente insomma da non prendere troppo sul serio; ora invece è un medico, in sobrio stile scientifico, a dire ai suoi contemporanei: scusate, ma le cose stanno diversamente. Dove voi scorgete un’antitesi, esiste in realtà un rapporto genetico, evolutivo, quella che definite normalità è solo l’ultimo e più tardo strato che si costruisce, quando tutto va bene, su una serie di strati anteriori che ai vostri occhi apparirebbero ben poco edificanti e che sopravvivono, sepolti in zone della mente non accessibili alla coscienza, ma sempre pronti a riemergerne: nella nevrosi, certo, nella malattia; o anche semplicemente nel sogno, nel quale ognuno di noi rivela la propria insopprimibile parentela con il «selvaggio», con il «folle», con il bambino che non è affatto un angelo, ma un essere dalla sensualità debordante, se non addirittura un «perverso polimorfo».
Tutto ciò doveva risultare piuttosto sconvolgente per lo spettatore medio del ballo Excelsior, non avvezzo, come il suo omologo odierno, a discorrere con gli amici del proprio complesso di Edipo e a usare con disinvoltura espressioni quali «narcisismo» o «fase orale»; e a volte si ha il sospetto che neppure Freud fosse sempre a suo agio con simili risultati. Dopotutto, è un uomo del suo tempo, un uomo della civilizzazione; ed è soprattutto un razionalista, il lucido erede di una Aufklärung ulteriormente affilata, e resa più scettica e problematica, da una robusta dose di pessimismo schopenhaueriano. Persino all’ipotesi dell’inconscio, di questo fondamento irrazionale della vita psichica, giunge per tener fede alla razionalità obbedendo al più classico e irrinunciabile dei suoi princìpi, quello secondo il quale nulla avviene senza una causa; e il «lieto fine» di tutta la peripezia pulsionale dell’infanzia e della pubertà per lui, come per i suoi contemporanei, può essere soltanto uno: il raggiungimento di una vita sessuale ordinatamente rivolta alla procreazione.
Il mondo in cui è nato, la civile comunità dei popoli votati al progresso, gli appare come una nave che galleggia sopra un abisso, ma una nave ben costruita e capace di tenere l’acqua. Occorrerà la scossa della Prima guerra mondiale perché questa certezza si incrini, dando luogo a pagine di accorata bellezza, come occorrerà il passaggio dalla belle époque alle tragedie del Novecento perché la dottrina psicoanalitica possa assumere pienamente la propria funzione storica: esprimere e rispecchiare, nella teoria, la crescente inquietudine che l’uomo del nuovo secolo è costretto a provare dinanzi a se stesso.
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il Riformista 8.12.10
Buenos Aires riconosce la Palestina e infiamma i rapporti con Gerusalemme
«Stato libero e indipendente». Questa la formula della Casa Rosada, che però si rimette agli accordi che le «parti raggiungeranno durante il processo di pace». È il settimo paese dell’America Latina a fare questo passo.
La comunità ebraica in Argentina conta più di 200mila persone, ed è stata vittima di due sanguinosi attentati all’inizio degli anni 90 i più gravi accaduti in America Latina con un bilancio finale di 107 morti e più di 500 feriti. La presenza araba è invece molto più numerosa, come dichiara al Riformista il presidente del Centro islamico argentino (Cira), Samir Salech: «Tra la prima e la terza generazione siamo quasi 3 milioni, di cui 400mila sono musulmani».
DI Giulia De Luca


il Riformista 8.12.10
Il nuovo film di Peter Weir sui gulag forse non arriverà nei cinema italiani
“THE WAY BACK”. Fino a oggi nessun distributore nazionale lo ha annunciato nei propri listini, nonostante il nome del regista e un cast di tutto rispetto. Un nuovo caso “Katyn”?
di Massimo Benvegnù

il Fatto 8.12.10
L’accusa di Stoccolma: si è rotto il profilattico
Le due donne prima consenzienti, poi a novembre decidono di rivolgersi alla giustizia
di Alessandro Oppes

   La lunga fuga di Julian Assange si è conclusa. Un arresto “consensuale” per il fondatore di Wikileaks, negoziato dai suoi avvocati con la polizia britannica dopo che il mandato di cattura internazionale emesso dall’Interpol aveva reso sempre più complicata la sua posizione. E anche se le accuse che gli vengono mosse – un caso di molestie sessuali denunciato da due giovani donne svedesi – formalmente non hanno niente a che fare con la bomba mediatica scatenata dall’esplosione del Cablegate, a nessuno è sfuggita la straordinaria tempistica di questa vicenda giudiziaria. Il 18 novembre (quando i 5 prestigiosi giornali internazionali avevano già ricevuto e stavano elaborando l’enorme mole di scottante materiale diplomatico che si preparavano a pubblicare) la procura di Stoccolma ha deciso a sorpresa la riapertura del dossier contro l’ex hacker australiano. L’indagine era partita due mesi e mezzo prima, eppure non sembrava che dovesse portare alla formulazione di pesanti accuse, tanto che ad Assange era stato consentito di lasciare la Svezia. E invece, il primo dicembre, scatta l’ordine d’arresto , dietro il quale i legali di Mr. Wikileaks sospettano ci sia l’intervento di diversi servizi di intelligence.
NONOSTANTE la procuratrice svedese, Marianne Ny, abbia più volte assicurato di non aver ricevuto “pressioni politiche di nessun tipo”, la vicenda giudiziaria del fondatore di Wikileaks continua a presentare parecchi lati oscuri, con risvolti degni di un intrigo internazionale. Il mandato di cattura si basa su una figura giuridica chiamata “sex by surprise”, compresa nella legislazione svedese sulla violenza sessuale e applicabile a “qualunque atto di costrizione vincolato al sesso”. Secondo l’avvocato di Assange, Mark Stephens, si tratta di un delitto che – nel caso in cui venisse provato – può essere normalmente estinto con un multa di 715 dollari. Un po’ poco, insomma, per trattare l’ex hacker australiano alla stregua di un pericoloso terrorista, ricercato dalle polizie di tutto il mondo. Tanto più che il reato, previsto in Svezia, non è contemplato nel codice penale britannico e neppure in quello statunitense. I fatti per i quali Assange è accusato risalgono allo scorso mese di agosto, quando si trovava a Stoccolma per un seminario sul tema “Guerra e ruolo dei media”, organizzato dal Brotherhood Movement, un gruppo di ispirazione cristiana legato al partito socialdemocratico. La giornalista che curava l’ufficio stampa della conferenza, Anna Ardin, un passato da femminista radicale, si offrì di ospitarlo nel suo appartamento, sebbene prima non lo conoscesse. Quella sera, dopo cena, ebbero un rapporto sessuale durante il quale – entrambi lo riconoscono – il preservativo si ruppe. Sul momento la giornalista non sembrò dare importanza all’incidente, tanto che continuò a ospitare Assange a casa, e organizzò anche una festa in suo onore. Ma nei giorni successivi entra in scena un’altra ragazza, Sofia Wilden, ventenne di Jonkoeping, una cittadina a poche decine di chilometri da Stoccolma, fidanzata con l’artista statunitense Seth Benson. Vede Assange in tv e si propone di fare di tutto per conoscerlo. Così si presenta tra i volontari che lavorano all’organizzazione del seminario. L’incontro con il fondatore di Wikileaks ha subito l’effetto sperato.
LUI ACCETTA l’invito ad andarla a trovare a casa, e permette anche alla ragazza di pagargli il biglietto del treno (non aveva contanti e non voleva usare la carta di credito). Julian e Sonia fanno sesso due volte, la prima con il preservativo, la seconda senza protezione , ma a detta di Assange in modo consenziente. Sembra che debba filare via tutto liscio. Ma poi la giovane ci ripensa e si spaventa, almeno così dice. Una volta tornata a Stoccolma parla con Anna, e scopre che anche lei ha avuto l’incidente del condom rotto. È a questo punto che le due donne si coalizzano e decidono di presentarsi in tribunale. Violenza, stupro? No, niente di tutto questo. L’unico rimprovero che viene mosso ad Assange è quello di essersi rifiutato di sottoporsi, dopo i rapporti avuti con le ragazze, a una prova per accertare se era affetto da Hiv o da altre malattie veneree. Un “ménage à trois” pagato a caro prezzo.

Agi 8.12.10
Cinema: Belloccho, da noi vince la commedia conciliante col potere

(AGI) - Roma, 8 dic. - "Mi fa piacere che 'Vincere' sia molto apprezzato negli Usa: ha affascinato piu' nel mondo che in Italia, dove la gente accorre in massa a vedere la commedia conciliante con il potere. Per quel che mi riguarda vado oltre 'Vincere', la cui immagine si sta ritrovando in Italia: ho il progetto 'Italia mia' che si occupa drammaticamente di cose italiane vere ed inventate". Cosi' il regista piacentino Marco Bellocchio parla del lusinghiero settimo posto di 'Vincere' nella classifica dei 10 migliori film dell'anno, secondo il prestigioso 'New York Magazine'. Ma si dice pronto "ad andar oltre" con il progetto 'Italia mia' sulla situazione del Paese nell'era berlusconiana. "Al momento il progetto sta pero' incontrando gravi difficolta' per i finanziamenti", ha raccontato all'Agi, "Ma non mi arrendo: bisogna lavorare, fa bene alla salute e alla mente. E' chiaro che cerchero' di fare questo progetto in tempi di democrazia autoritaria". Raccontare dunque l'Italia dell'era Berlusconi e' la nuova, grande sfida di Bellocchio che e' 'maestro' nella 'trasfigurazione' della realta', come ha fatto in 'Vincere' e prima in 'Buongiorno, notte'. "A me non interessa fare un pamphlet contro personaggi reali ma", spiega, "raccontare con la metafora la situazione drammatica del Paese". La 'trasfigurazione' della realta' e non il 'documentario', mediante il linguaggio delle immagini in cui Bellocchio eccelle. "Certo, il contesto politico-sociale e' davvero misero", afferma, "e in questa miseria politico- sociale pero' riemergono, ancora di piu', persone di grande spessore, e penso a Riccardo Lombardi, una figura grande e potente". Il regista di 'Diavolo in Corpo', che piu' di tanti altri ha saputo nel corso degli anni cambiare 'pelle' e 'stile', non demorde dunque. "Cerchero' di far questo film", senza rinunciare allo stile. "Oggi", conclude, "in Italia la gente accorre in massa a vedere la commedia conciliante con il potere rispetto alla stagione 'contro' il potere: altrove, negli Usa, in Francia e nel mondo il dramma e la tragedia come 'Vincere', affascinano rispetto al genere farsesco molto conciliante, come la satira garbata dei telefoni bianchi". (AGI) Pat

martedì 7 dicembre 2010

l’Unità 7.12.10
Bersani: «Dopo Berlusconi disintossicheremo l’Italia»
Per il segretario del Pd il Paese poi andrà disintossicato dal berlusconismo che gli è penetrato nelle vene. D’Alema: «Siamo al degrado. Il governo non ha più la maggioranza, deve dimettersi».
di Vladimiro Frulletti


A Fiesole il leader Pd rilancia il governo di transizione che affronti crisi e cambi la legge elettorale
«Ribaltoni? Il Premier s’è ribaltato da solo». Un passo alla volta: «Prima mandiamolo a casa, poi...»

Primo passo mandare a casa Berlusconi, «il che già vorrebbe dire che siamo avanti di un bel pezzo», ma poi all’Italia servirà un periodo (chissà quanto lungo) di disintossicazione dalla droga del “berlusconismo”. Pierluigi Bersani da Fiesole, dal convegno su paesaggio e democrazia organizzato dall’associazione Viviani e dal Pd, spiega che sì mandare a casa Berlusconi va bene, ma che questo non basterà a ricostruire una nuova Italia. Quella sostanza psicotropa è penetrata nelle vene del Paese e della politica producendo una eccessiva personalizzazione da cui poi bisognerà liberarsi. «Se toccasse mai a me (fare il candidato a premier ndr), assicuro che non ci sarà il mio nome sul simbolo» è la cura che Bersani si dice pronto a fare. Questione che comunque riguarda il post 14 dicembre. Al momento le incertezze sono varie. Fini che non ribalta, ma continua gli affondi. Pezzi del Pdl che offrono trattative (Cicchitto sulla legge elettorale, offerta rispedita al mittente). Ma anche possibili aiuti inattesi al Premier come quello dei parlamentari radicali eletti nelle liste del Pd. Fra oggi o domani Bersani incontrerà Pannella, ma intanto spiega che coi radicali «non si fanno scambi o trattative» ma si parla di politica.
Una situazione che, dice Massimo D’Alema, «si trascina tra polemiche, minacce, quotidiani passaggi di parlamentari da un fronte all’altro, in un quadro che sempre più è quello di un grave degrado della vita politica». E che invece avrebbe bisogno di un taglio netto: visto che il governo non ha più la maggioranza, ragiona il presidente del Copasir, deve dimettersi, «questa è la democrazia». Poi la parola tornerà al Capo dello Stato. A cui, assicura Bersani che nomi non ne fa, il Pd porterà le proprie proposte e rispetterà le decisioni di Napolitano. Troverebbe però simile all’accanimento terapeutico un nuovo governo Berlusconi («sarebbe il quater, abbiamo già dato»), visto anche che il premier ha avuto gli strumenti per governare e non c’è riuscito e ora fa la «vittima», denuncia ribaltoni, mentre «si è ribaltato da solo e adesso il problema è che non si ribalti anche l’Italia». Ovviamente la soluzione che Bersani trova più conveniente per il Paese sarebbe quella di un governo di transizione che riformi la legge elettorale e metta mano alla crisi economica rilanciando gli investimenti. E tutta-
Stop ai personalismi
«Se toccasse mai a me, non metterò il mio nome sul simbolo»
via anche un nuovo governo di centrodestra senza Berlusconi, vedrebbe sì il Pd all’opposizione, ma sarebbe una posizione più avanzata. L’obiettivo (strategico si sarebbe detto) è costruire una vera alternativa di governo da presentare agli italiani. Il bipolarismo a suo giudizio non è in discussione fra gli italiani e non lo potrà mettere in discussione la nascita del cosiddetto grande centro:«non credo a una nuova Balena Bianca». Per Bersani Fini infatti è di destra e a destra rimarrà: «vuol fare una destra non populista, liberale? Auguri», Casomai il centro potrà rendere «flessibile» il bipolarismo decidendo prima del voto, come i Liberali in Germania, con chi allearsi. Da qui il progetto di un centrosinistra che col centro costruisca un’alleanza di governo. Che non sarà la riedizione dell’Unione, ma avrà paletti programmatici chiari. Tipo quelli che Bersani indica sul caso Fiat facendo sapere a Marchionne che il modello americano non fa per l’Italia (non c’è bisogno di cancellare il contratto nazionale per aumentare la produttività), mentre invita i sindacati a utilizzare strumenti democratici per far decidere i lavoratori.

Repubblica 7.12.10
Bersani: no al Berlusconi-bis se ne vada il prima possibile
D’Alema: grave degrado. Di Pietro: dignitoso solo votare


ROMA - Bersani scherza sul Berlusconi bis: «A dire il vero sarebbe il quater, un po´ troppo, abbiamo già dato. Basta, accontentiamoci di quello che abbiamo avuto». Poi però risponde al premier sul voto del 14, sull´ipotesi di un nuovo governo senza il Cavaliere. Che Berlusconi ha già bocciato parlando di ribaltone. «Si è ribaltato da solo, ha fatto tutto lui, e adesso il problema è che non si ribalti anche l´Italia», dice il segretario del Partito democratico. «Non vorrei che Berlusconi cominciasse con la solita cantilena vittimistica, per cui è sempre colpa degli altri, solo colpa degli altri. È una scusa inaccettabile».
Anche la scusa dell´instabilità non sta in piedi perché il capo del governo «è il fatto massimo d´instabilità. Ha avuto in mano tutto, ha fatto tutto quel che voleva, ci ha ridotti così e adesso qualcun altro deve pensarci, questa è la realtà delle cose». L´ambizione resta quella di un governo di responsabilità istituzionale. «Non una vera coalizione, ovvio. Non penso a incontri tra i leader dei partiti per dirimere le questione. Un esecutivo del genere avrebbe già un programma definito: la legge elettorale e alcune misure per salvare l´economia». Oggi Bersani vedrà la delegazione radicale che non ha ancora sciolto il dubbio sul suo voto. «Non sarà una trattativa. Con loro gli scambi sono impossibili, la chiave è un´altra». Ma il voto del 14 sarà al centro della discussione, il Pd cercherà di capire da Pannella dove vuole andare a parare.
Per Massimo D´Alema «la situazione è abbastanza chiara, il governo non è più in grado di governare ormai da tempo, non dispone di una vera maggioranza e la situazione si trascina tra polemiche, minacce, notizie quotidiane di passaggi di parlamentari da una parte all´altra». A questo punto il primo obiettivo è chiudere l´esperienza berlusconiana. «L´unico modo - dice D´Alema - per porre fine a questo stillicidio è che il governo se ne vada». Il dopo invece è solo il voto anticipato secondo il leader dell´Italia dei Valori Antonio Di Pietro. «Il Terzo polo farà la fine dell´asino di Buridano. Morirà di fame perché non starà né di qua né di là. La mia speranza è che Berlusconi apra davvero la crisi e si vada a votare. Così si pone fine all´era del Cavaliere».
A un dopo diverso guarda il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini. E forse su questo punto occorrerà dare una risposta alla manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma di sabato. «Non penso che si possa parlare di ribaltoni - dice Franceschini al Tg3 -, qui si tratta di chiudere l´epoca Berlusconi per aprire una fase di responsabilità e transizione, con un governo che lavori alla legge elettorale e a superare la crisi. Poi, di riconsegnare il paese ad un bipolarismo moderno, con il voto». E agli elettori del Pd che hanno dei dubbi su una soluzione con dentro Fini, Casini e Vendola, il presidente dei deputati replica sottolineando il momento che sta vivendo l´Italia. Un momento che ha qualche analogia con i fatti di 60 e più anni fa: «Siamo in una fase d´emergenza democratica. I nostri padri, durante la Resistenza, non si domandavano su cosa fare dopo, se essere monarchici o per la Repubblica. Prima, liberarono il paese, poi diventarono anche avversari. Ma avversari che rispettano le regole».
(g.d.m.)

l’Unità 7.12.10
Il Dossier. Oltre le sbarre /1
Matti da impazzire
di Leonardo Anastasia


Il racconto drammatico di uno scrittore che ha passato alcuni mesi all’interno di uno dei tanti ospedali psichiatrici giudizari italiani. «Siamo in sette dentro la cella e la convivenza non è facile, forzati dentro 20 metri quadri appena». Coi bagni ridotti in latrine e la paura come unica compagna

Non si dormì quella notte nella cella 6 del reparto 5 dell' Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa.
M. stava già male di suo per il diabete e la psicosi, quella notte insisteva per avere da A. qualche cucchiaio di zucchero. A. glielo negava, gli serviva per il caffè. Quando M. in barba a qualsiasi rifiuto è sceso dal letto a castello ed ha messo le mani sullo zucchero, A. si è alzato e l'ha colpito con un pugno in pieno volto. M. è scattato e giù pugni sulla faccia di A.: "Me lo dai lo zucchero adesso!!!", A. è sopraffatto, la sua mole grossa annaspa, il suo sopracciglio si apre e sanguina, urla, arrivano le guardie. M. viene legato e sbattuto in camera di isolamento, griderà tutta la notte, l'indomani verrà trasferito alla "staccata", il reparto punitivo.
Una settimana dopo qualcuno scardina il lucchetto del mio armadietto e mi ruba le sigarette. Non ne posso più, chiedo di cambiarmi di stanza; lì alla 6 il bagno è sporco e puzza di fogna, i compagni di cella non si lavano e tutto è incuria tetra. S. per cagare si siede con il culo dentro il cesso alla turca dove tutti gli altri espletano, senza nessun senso dello schifo.
Quando ruba sigarette a qualcuno le fuma tossendo con una tosse polmonare pesantissima dopo la quale sputa invariabilmente in terra. C. svuota il cestino della cella nel contenitore rifiuti situato nello spazio comune. Mi spostano nella cella 2: un paradiso a confronto. A. c'ha un triplice omicidio sulle spalle ed è tranquillo e taciturno, legge le sue riviste e prende il caffè amaro con un po' di latte. M. è un pittore, capace che ti manda a quel paese per niente, ma poi è subito amichevole. La notte prende il suo banchetto e si chiude in bagno a studiare mentre gli altri in stanza guardano la tv con la luce spenta. Sa cose incredibili M.: ha ottenuto la licenza media inferiore da autodidatta ma ha una curiosità vorace e studia di filosofia, di astrologia, di storia, di letteratura. Ha una cultura schizofrenica e se ci parli ha velleità profetiche. E' un contestatore ma ha davvero un gran talento. Cammina avanti e dietro cento volte per lo spazio comune affiancato al suo discepolo di turno. Puoi fare richiesta per comprare un fornello a gas tipo quelli da campeggio e puoi comprare una caffettiera, poi il caffè e lo zucchero li prendi nella spesa settimanale, così passiamo metà della giornata a fare e ingurgitare caffè. Nella nuova cella, che è la più ricca di tutte, abbiamo comprato anche le pentole e lo scolapasta in modo da cucinare da soli la sera evitando così il rancio tetro che viene distribuito agli altri detenuti.
G. non appartiene fisicamente alla nostra cella, nel senso che è stato spostato alla 4 prima che io arrivassi, ma praticamente sta sempre qui da noi, mangia anche con noi e da il suo contributo per l'acquisto della pasta, dei pelati, del parmigiano,
del pesto e via dicendo. L. come viene chiamato confidenzialmente G. c'ha mezzo corpo ricoperto di tatuaggi ed è in grado di costruire una macchinetta elettrica con l'ago per fare tatuaggi agli altri. Abbiamo approfittato tutti: chi si è fatto disegnare un drago, chi uno scudetto con le insegne della Roma, chi un cuore. Io mi sono fatto disegnare una scritta "Liv" fra due ali, in nome dell'attrice Liv Tayler che adoro, poi le scritte "Femejac" che è il mio soprannome e "Ragazze di Ravenna", per le quali ho una adorazione, il tutto sul braccio sinistro ma in piccolo. Farmi fare questi tatuaggi mi è costato 10 pacchetti di sigarette, tra l'altro la qualità è buona sono ben definiti. Per inchiostro si usa il "nerofumo": si squaglia un rasoio di plastica usa e getta sotto un coperchio di pentola in modo che lì sotto si formi tutta una fuliggine nera, questa viene poi staccata con una lama e si ottiene polvere nera a scaglie che và mischiata con un po' di dopobarba e un po' di crema per le mani in maniera da ottenere questo inchiostro liquido che è un surrogato più scadente della china.
Intanto L. aveva distrutto un mangianastri portatile per ottenere il motorino elettrico il quale collegato ad una serie di batterie farà il lavoro della macchinetta: basta usare la puleggia che esce dal motorino per obbligare il movimento di una canna dentro un percorso lineare costruito con il tubo di plastica di una penna, in fondo alla canna c'è fuso l'ago che compie movimenti vorticosi fuori e dentro il tubo. Basta un po' di scotch per tenere il tutto ed uno spazzolino da denti moncato per reggere la macchinetta e voilà il miracolo è riuscito; basta intingere la punta nel nerofumo ed attivare le batterie attraverso un contatto, ed inizia la tortura sulla pelle del malcapitato. Siamo in sette dentro la cella e la convivenza non è facile, praticamente forzati dentro 20 metri quadri. Sulle pareti i disegni colorati di M. mettono allegria, così come due calendari di donne nude appesi agli armadietti. Quattro di noi dormono in un letto a castello, io dormo sopra M. Sui letti singoli ci sono: A. di cui ho già parlato, M. che ha sparato uccidendo un poliziotto durante una rapina e B. un vecchio di oltre sessant'anni con lunghissimi capelli bianchi e barba. B. un giorno ha scardinato il chiavistello di casa della sua ex convivente, gli hanno dato senza motivo il tentato omicidio. Di due anni in due anni la sua permanenza paradossale in OPG resta. Questo succede perché B. non ha nessuno che si occupi di lui da fuori, che gli cerchi una comunità alternativa, una clinica alternativa. I suoi parenti se ne sbattono, lui se ne sbatte di nominare un avvocato che lo aiuti, così l'OPG se ne sbatte di lui e continua a rinnovare la sua detenzione. Qui funziona così: lo chiamano "Ergastolo Bianco": entri con un tot di periodo di condanna, ma la maggior parte delle volte al riesame te lo prolungano. Alla cella 4 c'e M. che sta qua dentro da 12 anni, c'è impazzito davvero qua dentro borbotta frasi come "Bernardo Provenzano, Bernardo Provenzano..testimone oculare", fa tenerezza così come fa tenerezza R. della cella 3. Sembra una scimmietta R. ed ha il cuore d'oro, sempre disponibile a mediare le situazioni, un ragazzo che sa davvero stare al mondo, c'ha un solo problema che appena provano a metterlo fuori combina casini: brucia macchine, accoltella persone, risse per cui a malincuore lo tengono qui, ma lui come persona è veramente un angelo.
Di giorno le celle sono aperte e stiamo tutti (chi vuole può restare in stanza) in uno spazio comune di non più di ottanta metri quadri dove puoi passeggiare o sederti se trovi una sedia libera.
Ogni tanto chiamano il "passeggio": si scende all'aperto in un rettangolo di asfalto dove passeggi avanti e dietro per quindici minuti. Fra gli infermieri c'è una ragazza bellissima che si chiama P., ce la fanno vedere con il contagocce, qualche volta sostituisce l'infermiere di turno G. che viene a darci la terapia del mattino e del pranzo. Siamo tutti innamorati di P., lei civetta fa sentire la sua voce da fuori e raramente viene a farsi una passeggiata fra le celle quando sono chiuse. E' il sogno di tutti noi ed è anche l'unica donna con cui c'è un contatto.
Qualcuno dei ragazzi collabora con l'amministrazione facendo il "lavorante", pulisce, cambia le lenzuola, serve il pasto a tutti. Sulla qualità dei pasti è meglio sorvolare. Il momento più bello è quando arriva la spesa, sigarette e tutto. A proposito delle sigarette è veramente un supplizio: quelli che non hanno i soldi per comprarle o le finiscono, che poi sono sempre gli stessi, stanno una continuazione a questuare almeno il mozzicone. E' un vero e proprio assedio per cui molti di noi preferiscono restare in cella per non essere seccati. Si crea un vero e proprio mercatino in cambio di sigarette: negli ultimi giorni prima dell'arrivo della nuova spesa puoi comprare un walkie talkie con le cuffie per un pacchetto, ho visto vendere un giubbotto di marca molto bello per cinque pacchetti, poi i più sfigati ti vengono a proporre cose inutili che nessuno vuole per cui non si sta al sicuro neanche dentro le celle. Qualcuno di noi fa prestiti di pacchetti ai più affidabili ricavandone un agio mercantile: B. è uno strozzino! Io non ho problemi: si presta qualche pacchetto ad un amico in difficoltà, ma niente di più.
Un altro momento bello è la visita dei parenti, per chi ce l'ha e li riceve. Ti portano un pacco pieno di leccornie che i tuoi compagni di cella insieme a te provvedono a far sparire nel giro di un giorno: teglie di lasagne, ruoti di parmigiana di melanzane, torte, merendine etc. Nell'ultimo colloquio mia madre mi ha detto che l'avvocato si stava dando da fare per tirarmi fuori, che il rapporto interno dello psichiatra dell'OPG su di me era buono e che si cercava l'alternativa di una Comunità Psichiatrica, ma tutto dipendeva dal Perito nominato dal giudice che sarebbe venuto ad intervistarmi di lì a dieci giorni. Mi chiesi quanto sarei rimasto qui. La libertà non l'avevo mai sentita così lontana.

l’Unità 7.12.10
Il Dossier. Oltre le sbarre /2
«Entro gennaio dobbiamo liberare quasi 300 persone»
Marino, presidente della Commissione sul Ssn, annuncia: «Faremo chiudere gli Opg più disumani». Presto un tavolo con le Regioni
di Maria Zegarelli


Duecentosessantasei persone rinchiuse in ospedali psichiatrici giudiziari senza un vero motivo. Alcune sono lì da quindici anni, altre da trenta, quaranta. In nome di proroghe emesse una dopo l’altra perché non c’è un posto dove mandarli, sarebbero cioè in astratto dimissibili, ma di fatto sono state condannate senza sentenza ad un «ergastolo bianco». I dati emergono dai documenti in mano alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale presieduta dal senatore Pd Ignazio Marino che da un anno ha avviato un’indagine sul buco nero di cui nessuno vuole parlare perché dentro ci finiscono gli ultimi, quelli che nessuno reclama fuori.
Negli Opg (ce ne sono sei: Barcellona Pozzo di Gotto, Reggo Emilia, Montelupo fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli e Aversa) vengono assegnati pazienti con gravi problemi psichiatrici che si sono macchiati di delitti efferati, ma anche persone che hanno disturbi comportamentali pur non essendo pericolose socialmente. A differenza che nel carcere, qui non possono entrare neanche i parlamentari, ecco perché per anni non se ne è saputo nulla, fino a quando la Commissione, che poteri speciali paragonabili a quelli dell’autorità giudiziaria, ha iniziato ad effettuare dei veri e propri blitz insieme ai Nas ed ha aperto le porte dell’inferno dei dimenticati.
I membri della Commissione hanno visto scene raccapriccianti che raccontato pubblicamente trasferendo gli atti all’autorità giudiziaria: persone legate alle sbarre dei letti, nude, buchi nel materasso per far scivolare via gli escrementi (è successo a Barcellona Pozzo di Gotto); costrette in stanze pensate per due e poi adattate fino a nove letti. Ad Aversa c’erano bottiglie d’acqua calate nel bagno alla turca per tenerle al fresco perché ad agosto tutto diventa bollente e non c’è neanche un frigorifero. «Abbiamo riscontrato situazioni disumane racconta Ignazio Marino -, con violazioni gravissime dei diritti, da quello alla salute, a quello del pari trattamento davanti alla legge, fino alla stessa libertà personale: ci ha sconcertato l’aver appreso che il 30% degli internati è lì senza una motivazione». Come nel caso di un giovane che diciotto anni fa entrò in un bar si mise una mano in tasca e simulò di avere un’arma. Rubò 7mila lire, il giudice lo ritenne insano di mente: è ancora nell’inferno. Il presidente dell’associazione nazionale magistrati di sorveglianza, Giovanni Tamburini, che oggi sarà di nuovo audito, ha raccontato che ci sono persone rinchiuse da 40 anni.
Gli Opg dal 2006, sotto il governo Prodi, sono passati nelle competenze delle Regioni, ma mancano personale medico e finanziamenti.
«Noi ci siamo posti un obiettivo in assoluta sintonia in commissione continua Marino perché su questo tema la pensiamo tutti allo stesso modo, abbiamo provato tutti lo stesso sgomento e la stessa vergogna. Entro gennaio vorremmo ricondurre alle rispettive Asl di appartenenza i circa 300 internati non pericolosi per dar loro l’assistenza medica di cui necessitano». Ad occuparsene saranno i sei magistrati di sorveglianza delle regioni dove ci sono gli Opg, ma saranno coinvolti tutti gli assessori regionali. Non sarà facile: in Campania le persone rinchiuse senza motivo sono 63, in Lombardia 53. «Tra i nostri obiettivi conclude Marino c’è anche quello di chiudere alcuni degli Opg che oggi sono aperti in condizioni spaventose». C’è una struttura che andrebbe presa a modello: quella di Castiglione delle Stiviere, Mantova, dove uomini e donne vengono seguiti dai medici, lavorano in laboratori di artigianato e dormono in stanze con due letti. Lì non c’è la polizia giudiziaria. Vivono in condizioni umane, seppur rinchiusi.

l’Unità 7.12.10
La fabbrica della paura
di Giancarlo De Cataldo


Aguardare i dati di un recente studio sul rapporto fra sicurezza e mass-media ( ̆ AA.VV.: «La sicurezza in Italia. Significati, immagine e realtà», Terza indagine sulla rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza, con un confronto su scala europea, I quaderni di Unipolis n.2/2010) c'è da restare impressionati. I delitti calano, ma nessuno se ne accorge. E nessuno se ne accorge perché i media alimentano un ossessivo clima di paura, ci convincono che viviamo in un mondo dominato dal crimine, in particolare dalla microcriminalità di strada, ci inducono a cercare rifugio in politiche sempre più aspre della sicurezza. E ciò, ovviamente, a prescindere dalla loro reale efficacia. La stessa fonte ci spiega, poi, che il picco del panico, toccato nel biennio 2006/2008, va scemando negli anni successivi. Se ne trova conferma in ulteriori ricerche (www. demos.it./a00498-php) che attestano un modesto, ma comunque significativo, calo della percezione d'insicurezza fra i cittadini del Nord-Est e lo mettono in relazione con il contemporaneo calo di notizie allarmistiche nei principali TG. Quando si parla di notizie allarmistiche, va precisato, non ci si riferisce ai delitti eclatanti, che appassionano il pubblico, ma alla “cucina” del piccolo spaccio, dello scippo di strada, della truffa minima. È lì che si gioca la partita: sulle nostre piccole, umanissime, comprensibili paure quotidiane che, enfatizzate, diventano la Grande Paura. Cioè il più poderoso strumento di controllo delle coscienze. Cose ovvie, si dirà, e risapute: ma quanti meccanismi ovvi e risaputi brillano per la loro costante, inattaccabile funzionalità? Se così stanno le cose, c'è a temere che il calo d'insicurezza percepita rilevato dagli ultimi studi sia solo un fenomeno temporaneo.

il Fatto 7.12.10
Mazzini, l’antitaliano
Pubblichiamo un breve estratto del lungo racconto che Giancarlo De Cataldo fa della vita di Giuseppe Mazzini sul nuovo numero di MicroMega, da oggi in edicola. Mazzini è ormai esule a Londra, ma nel 1857 torna in Italia, a Genova per la precisione
di Giancarlo De Cataldo


   A Genova c’è il tenente Carlo Pisacane, eroe della Repubblica Romana del ’49, e capo designato di una spedizione militare che, risalendo dal Sud, avrebbe dovuto liberare l’Italia. Per la verità, il capo avrebbe dovuto essere Garibaldi. Ma Garibaldi, a cui non faceva difetto l’intuito, aveva capito che i tempi non erano ancora maturi, e si era tirato indietro. Pisacane no. Pisacane non solo voleva combattere, ma credeva di vincere. E, se avesse vinto, l’Italia sarebbe stata non solo repubblicana. Sarebbe stata, addirittura, socialista. Pisacane, bello e di fiero aspetto, sebbene nato barone, era, in quel momento, il leader politico-militare più vicino alle idee di Carlo Marx. Si era accostato al socialismo leggendo, anni addietro, il Manifesto di Marx e Engels. Aveva anche intrattenuto, sul punto, un’affettuosa polemica con Mazzini, del quale era, più che amico, devoto. Mazzini, però, era ostile a Marx, e più in generale al socialismo. Da un lato, egli dava per scontato che la rivoluzione dovesse essere “sociale”. Dall’altro, intravedeva, con estrema lucidità, la deriva potenziale del materialismo storico. Scrisse perciò Mazzini: “La rivoluzione sarà sociale. Ogni rivoluzione è tale o perisce, sviata da trafficatori di potere e raggiratori politici. Né Patria comune può esistere se l’esercizio dei diritti ottenuti col-l’armi riesca, per ineguaglianza soverchia, ironia per la classe più numerosa del popolo – se non si costituiscono più eque relazioni fra il contadino e il proprietario di terre, tra l’operaio e il detentore di capitali…”. (...) Mazzini attaccava i socialisti con violenza: “Io non accuso la vasta idea sociale, che è gloria e missione dell’epoca, della quale noi siamo precursori. Io accuso i socialisti, i capi segnatamente, d’aver falsato, mutilato, ringrettito quel grande pensiero con sistemi assoluti, che usurpano a un tempo sulla libertà dell’individuo, sulla sovranità del paese e sulla continuità del progresso, legge per tutti noi. […] Li accuso di aver sostenuto che la vita è ricerca di felicità, mentre la vita è una missione, il compimento di un dovere. Li accuso di aver fatto credere che un popolo può rigenerarsi impinguando, d’aver sostituito al problema dell’umanità un problema di cucina dell’umanità. Di aver detto: a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, invece di bandire altamente ad ogni ora: a ciascuno secondo il suo amore, a ciascuno secondo i suoi sacrifici…”. A pensare agli argomenti dei quali si nutre, oggi, l’agone politico, monta dentro una sorda rabbia.
QUELLI ERANO titani, al confronto. Tutti. Marx, che avrebbe cambiato il mondo; Mazzini, che aveva preconizzato le tragedie causate da quel cambiamento che nasceva su premesse, ai suoi occhi, distorte. E il generoso Pisacane. Che partì con un manipolo di compagni, liberò i galeotti e non i detenuti politici (e i galeotti se la squagliarono alla prima occasione), sbarcò, cercò di infiammare il Sud, che rimase inerte. E finì trucidato da sbirri e briganti. Un altro fallimento, dunque. Ma l’idea restava intatta. E il piano, il piano in sé era quello giusto. Tanto che, appena tre anni dopo, Garibaldi l’avrebbe replicato, con l’impresa dei Mille, e l’Italia si sarebbe fatta. Soltanto, i tempi erano sbagliati. Quanto a Cavour, se ne era rimasto alla finestra. Se Pisacane ce l’avesse fatta, sarebbe intervenuto a sostegno. A fallimento certificato, condannò l’impresa. Mazzini non era che “il capo di un’orda di feroci e fanatici assassini”. Biosognava prenderlo e impiccarlo. Certo che si volevano un gran bene, gli artefici dell’unità d’Italia! Noi italiani abbiamo un curioso rapporto con il nostro passato. Con il Risorgimento in particolare. Lo crediamo opera di Garibaldi – un eroe senza macchia e senza paura, un po’ avventuriero e un po’ calcolatore, ma tanto, tanto affascinante! – di Cavour – un ministro di respiro europeo, dal grande cervello e dall’intuito sopraffino – di Vittorio Emanuele II, re buono, un po’ pasticcione ma con un cuore grosso così, e… ma sì, anche di Mazzini. In fondo, c’entra anche lui con la nostra storia. Ma, soprattutto, una cosa di cui siamo fermamente convinti è che i nostri grandi eroi, tre eroi e mezzo (Mazzini, mezzo eroe), si amassero, rispettassero, venerassero. Che avessero lavorato come un sol uomo per fare la Nazione, prima, e poi per renderla grande. Niente di più sbagliato. Niente di più tragicamente sbagliato. Quei quattro si detestavano, giunsero persino a odiarsi. Cavour condannò ripetutamente a morte Mazzini. Il re si appoggiò ora all’uno ora all’altro per farsi il suo proprio Risorgimento, quasi sempre senza capirci un accidente e rischiando di mandare a monte il gioco grosso. Garibaldi e Mazzini non si parlarono per anni, il generale scaricò sul vecchio amico di un tempo accuse false e roventi, e Mazzini non rispose mai, e… insomma: il nostro Risorgimento, al pari di tutte le lotte di liberazione nazionale, è stata un’avventura rivoluzionaria fatta di sangue, epica, tradimento, calcolo politico, ingenuità spontanea, rovesciamento di alleanze, opportunismo, trasformismo, e persino terrorismo.
MAZZINI ne incarnava l’anima più pura, libera da ogni compromesso, intransigente eppure sensibile, duttile, realista... E, nello stesso tempo, era un sanguinario della specie più scatenata. “Sono assetato, furiosamente desideroso di azione, e infastidito di ogni altra cosa che riguardi l’Italia e l’Europa”, scriveva proprio in quel ’57 fatidico. “Senza una bella tempesta che spazzi via tutto non c’è speranza. L’aria è inquinata. Le parole hanno perso il loro significato. Si è perduta ogni regola di veridicità e di morale politica”. Vi ricorda, ci ricorda qualcosa?

il Fatto 7.12.10
La riforma in classe
di Marina Boscaino


Immaginate un mondo in cui – voi della mia generazione, più vecchia o di poco precedente – l'adolescenza sia trascorsa senza lo sguardo malinconico di Berlinguer, quello pensoso di Moro, quello acuto di Per-tini. Un mondo privo – peggio – di ciò che quegli sguardi ci hanno consegnato. Un mondo senza sezioni di partito, senza idee forti, senza appartenenza, se non la Curva Sud, un gruppo su Face-book o la Padania. In cui partecipare o dire di no – nella triste lettura degli esternatori di professione che governano – evoca fantasmi paurosi, borderline tra illegittimità, violenza, inconsapevolezza pilotata da altri (Sessantotto, centri sociali). Libertà era partecipazione. Ora è consumo.
OGGI VIVONO in un mondo in cui il capo del governo è accusato di intrattenere rapporti eufemisticamente non limpidi con ragazzine; in cui ogni giorno lo scenario cambia: bipolarismo, terzo polo, fiducia sì, fiducia no, fiducia non lo so; in cui furbizia, vanità , vacuità sono valori por-tanti. In cui giurare sulla Costituzione, servire Stato e interesse generale sono elementi di facciata, dismessi e sostituiti da volgarità e improvvisazione, dilettanti allo sbaraglio, successi senza merito dei cantori del merito. Gli adulti di riferimento, che crederebbero ancora in un altro mondo possibile, sono stanchi, spesso senza voglia di lottare. Questi ragazzi hanno condotto l’intera esistenza bersagliati da messaggi incompatibili con partecipazione seria e responsabile. Nutriti da merendine e pillole di saggezza di Maria De Filippi, simbolicamente orfani di padre, di principio di autorevolezza, di un’idea forte e grande, educati in famiglie e scuole che spesso hanno perso la mira e non comunicano che disagio le prime, saperi liquidi le seconde, senza mai rispondere ai loro perché. Fanno la III liceo, a 6 mesi dall'esame di Stato. Verga e il De tranquillitate animi di Seneca sono il nostro pane quotidiano. Mi hanno chiesto loro – assieme alla II – di destinare la giornata di ieri a leggere il ddl Gelmini sull'università: stanno cercando di esercitare cittadinanza consapevole. Miracoloso, come ciò che è accaduto la scorsa settimana nelle piazze e sui monumenti delle nostre città.
NON ME LA SENTO di scoraggiarli, capiranno meglio la letteratura italiana, dopo. E oggi andranno in assemblea, per decidere come comportarsi verso la mobilitazione studentesca, più informati. E se qualcuno dirà che sono manipolati, peggio per lui. Se mi ammonirà che non si fa politica a scuola, sapremo rispondere. E se penserà che non serve, pazienza. Intanto noi leggiamo insieme e proviamo a capire. E a capirci. Lontani come siamo per età, esperienze, orizzonti. Non potrò spiegare cosa si prova a sentirsi parte di un grande movimento di donne e uomini; né di come ci si ritrova a constatare cosa ne è stato e soprattutto cosa non ne è rimasto. Non potrò pretendere da loro la passione che tempi e prudenza scoraggiano. Ma consapevolezza sì. Il nostro attimo fuggente, prima del ritorno nel grande blob magmatico di notizie pilotate e deragliate, è la celebrazione di Cittadinanza e Costituzione (materia-fantasma dell’immaginario gelminiano): lettura critica del decreto. Provare a capire. E tentare di inoculare un’idea rivoluzionaria: il sospetto che “politica” – nonostante l’oggi – possa essere ancora parola bellissima.

Repubblica 7.12.10
La cultura
Pasolini come il Che adesso è un brand per destra e sinistra
Le ceneri dell’intellettuale contese tra destra e sinistra
Libri, convegni, nostalgie: a 35 anni dalla morte il poeta è diventato un brand, usato come il Che. Ma cosa ci manca davvero del suo pensiero?
Ci seduce il suo estremismo radicale, che rimpiangiamo, e ci perseguita ancora il mistero della sua morte
Molti ricercano la sua vena polemica C´è chi lo accosta a Pound e chi lo legge insieme a Camus
di Valerio Magrelli


Un fantasma si aggira per l´Italia, o forse sarebbe più giusto dire per l´Europa: è quello di Pier Paolo Pasolini. Mentre la morte di molti scrittori suoi coetanei li ha rapidamente condannati alla scomparsa dalla scena pubblica, dal canone universitario, dalle pagine dei giornali, la sua figura è più viva che mai tra gli studiosi, tra gli studenti, tra i lettori. Filologo e sciamano, pedagogo socratico e martire nel senso letterale del termine (ovvero "testimone"), questo strano "friulano di Bologna" continua a rappresentare un punto di riferimento indispensabile per ogni forma di estremismo radicale. Esiste insomma una specie di brand Pasolini come è esistito ed esiste un brand Che Guevara. E tutto ciò, talvolta, con una forza che si fa ancora più sensibile fuori confine: lo dimostra fra tutti un saggio di Georges Didi-Huberman tradotto qualche mese fa con il titolo Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze (Bollati Boringhieri). Perché tanta nostalgia, perché un bisogno così impellente di confronto e richiamo?
In molti, e in molti modi, hanno provato di recente a spiegarlo. Innanzitutto attraverso la formula del gemellaggio. Colpiscono infatti un paio di convegni caratterizzati dall´accostamento fra il nostro autore e due fra i nomi più alti e controversi della letteratura novecentesca. Con il titolo Pier Paolo Pasolini ed Ezra Pound. L´utopia che nasce dal passato, il primo incontro si è tenuto il 4 dicembre presso Villa d´Este, a Tivoli. Tra letture in versi, proiezioni e dibattiti, è stata riproposta l´intervista-documentario di Vanni Ronsisvalle Pasolini-Pound. Un´ora con Ezra Pound. In quel memorabile colloquio del 1967, Pasolini si rivolse a Pound con una frase mutuata dallo stesso poeta americano e riferita in origine a Walt Whitman: «Stringo un patto con Te./ Ti detesto ormai da troppo tempo./ Vengo a Te come un fanciullo cresciuto che ha avuto un padre dalla testa dura./ Sono abbastanza grande ora per fare amicizia./ Fosti Tu ad intagliare il legno./ Ora è tempo di abbattere insieme la nuova foresta./ Abbiamo un solo stelo ed una sola radice./ Che i rapporti siano ristabiliti tra noi». La risposta del vecchio Pound fu: «Bene… Amici allora… Pax tibi… Pax mundi».
Condannato per collaborazionismo con il regime fascista, incarcerato, autoesiliatosi, l´autore dei Cantos esercitò una profonda attrazione sul poeta italiano, il quale aveva visto il proprio fratello, partigiano azionista, ucciso dai partigiani comunisti seguaci di Tito. Più singolare il secondo abbinamento, ossia le Giornate Camus/Pasolini: due scrittori impegnati del XX secolo, organizzato dal 15 al 18 novembre scorso dall´Institut Français de Naples, in collaborazione con l´Università Federico II, l´Università Orientale, L´Université Paris III e l´Université d´Amiens. Anche in questo caso, letture, proiezioni, conferenze hanno tentato di mettere a fuoco due grandi figure dell´impegno. Riconosciuti dalle istituzioni culturali e ammirati da un ampio pubblico, Camus e Pasolini furono ostracizzati dai loro pari e violentemente criticati dagli avversari. Inoltre, aspirando a una società egalitaria, ambedue si schierarono, sia pur diversamente, a difesa dei diseredati. Il Cinquantenario della morte di Camus da un lato, la riapertura dell´inchiesta sulla morte di Pasolini dall´altro, hanno fornito lo spunto per queste "vite parallele", dato che entrambi denunciarono le dittature fasciste e il totalitarismo comunista con un´intransigenza morale e un´autonomia di giudizio che costò loro la messa al bando da parte di una certa sinistra da cui pure provenivano. E proprio a una questione del genere si riferisce il primo di tre libri appena usciti, Una lunga incomprensione. Pasolini fra destra e sinistra, di Adalberto Baldoni e Gianni Borgna (Vallecchi). Qui la materia è ripercorsa sin nei minimi particolari, dall´iscrizione al PCI nel 1948 all´espulsione dell´anno successivo per i fatti di Ramuscello (gli incontri omosessuali di Pasolini con alcuni giovani friulani), su su fino alle famose polemiche sul terrorismo, il consumismo, l´aborto. Rispetto a questa lunga e articolata ricostruzione, colpisce la brevità di un volumetto apparso da Avagliano a firma di Furio Colombo e Gian Carlo Ferretti: L´ultima intervista di Pasolini. A un breve, intenso testo di Ferretti, fa seguito la trascrizione del colloquio fra lo scrittore e Colombo, che si svolse fra le quattro e le sei di pomeriggio di sabato 1° novembre 1975, ossia poche ore prima che avesse luogo l´atroce assassinio. Alla fine dell´incontro, l´intervistatore chiese all´intervistato se intendeva dare un titolo alla conversazione. Ed ecco la sua replica: «Metti questo titolo, se vuoi: Perché siamo tutti in pericolo».
Parole come queste accentuano il carattere sacrificale di una morte da cui l´Italia non riesce a staccarsi. Una morte che ne ricorda un´altra ugualmente inquietante. Lo afferma Marco Belpoliti nel suo Pasolini in salsa piccante, edito da Guanda: «Credo sia venuta l´ora di chiudere con quel decennio di cui Pasolini e Aldo Moro, forse non a caso, sono i due corpi simbolo; e dare loro una degna sepoltura, cosa che nessuna inchiesta giudiziaria riuscirà mai, credo, a fare». Nel film Uccellacci e uccellini, la voce del Corvo proclama una sentenza attribuita al filologo Giorgio Pasquali: «I maestri si mangiano in salsa piccante». Nasce da qui il progetto di Belpoliti, conscio che il pasto non sarà leggero e che la digestione risulterà difficile e lunga. In compenso, commenta, la salsa non verrà certo a mancare, visto che sarà quella offerta dallo stesso Pasolini. Non era lui, del resto, a ricordare la storia del marajà che, impietosito da una tigre affamata, le si dava in pasto?
Strana gastronomia, tanto più se si pensa a un saggio sulla sinistra di pochi mesi fa, che Alfredo Reichlin ha intitolato Il midollo del leone (Laterza), riprendendo la celebre immagine con cui Italo Calvino invitava a nutrirsi di una morale rigorosa. Dunque, Calvino e Pasolini, i due Dioscuri della letteratura italiana, seguivano scuole diverse: il primo preoccupandosi del condimento, l´altro della sostanza, da gustare rompendo il duro osso delle vertebre. Le ricette saranno anche contrapposte, ma a ben vedere il concetto non cambia, poiché l´insegnamento-midollo del maestro-leone rappresenta comunque quel lascito che noi, lettori e eredi, dobbiamo liturgicamente assimilare. Piuttosto, la differenza culinaria riguarda l´oltranza, l´esorbitanza dell´opera pasoliniana. Onnivora e bulimica (per restare nel mondo alimentare), la sua produzione continua a suscitare un fascino illimitato. Il poeta delle Ceneri di Gramsci, il regista di Accattone, il romanziere di Ragazzi di vita, il drammaturgo di Bestia da stile, il corsivista-corsaro del Corriere della Sera, rimane infatti come un esempio unico di artista rinascimentale, nella sua sconcertante poliedricità, e di intellettuale novecentesco, per la sua torturata riflessione. Lo spiega bene lo stesso Belpoliti, affidandosi a tre versi illuminanti: «Lo scandalo del contraddirmi, dell´essere / con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere».

Repubblica 7.12.10
Katyn. Così Mosca e Varsavia provano a dimenticare
Il "mea culpa" di Medvedev abbatte l'ultimo muro. Settant'anni fa Stalin fece sterminare 22 mila polacchi
Per decenni la propaganda sovietica attribuì la strage ai soldati nazisti
Ripristinata la verità storica, i due ex nemici scommettono su "un futuro di pace"
di Andrea Taquini


Polonia-Russia, settant´anni dopo: cade l´ultimo Muro, l´ultimo gelo d´Europa. L´emozione era palpabile ieri pomeriggio a Piazza Pilsudski, cuore di Varsavia, innevata e spazzata dal vento d´inverno, quando Dmitri Medvedev ha reso omaggio al sacrario del milite ignoto polacco. «Lo abbiamo riconosciuto, è innegabile: il massacro di Katyn fu opera della cricca di Stalin. Nella nostra Storia ci sono stati momenti difficili e oscuri, ora guardiamo al presente, liberiamoci dalla condizione di ostaggi del passato», ha detto il presidente russo. 40 anni esatti dopo quel giorno di dicembre del 1970 in cui Willy Brandt, il cancelliere della pace tedesco, s´inchinò qui al Ghetto chiedendo scusa per l´orrore nazista, e avviò il disgelo tra la Polonia grande vittima di Hitler e Stalin e la Germania, ieri è toccato alla nuova Russia riscattarsi dal passato. Qui, in questo paese-chiave, intermediario decisivo tra Ue, Nato e Russia.
Da decenni le ombre gravi del passato pesano tra polacchi e russi. Te lo ricordano ancora oggi gli ultimi veterani dell´Armia Krajowa, l´esercito partigiano nazionale, venuti con le stampelle o la sedia a rotelle a vedere Medvedev. «Ammette colpe che lui di persona non ha, come fece Brandt inchinandosi al ghetto, lui che sotto Hitler fu esule e partigiano», sussurra uno di loro, il distintivo di pilota della Royal Air Force sull´umile cappotto.
La Memoria pesa ancora, anche qui nella Polonia "tigre" della nuova Europa, dove l´economia corre a ritmi quasi cinesi e i lib-con del premier Donald Tusk e del presidente Bronislaw Komorowski hanno seppellito odio e caccia alle streghe del breve ma cupo biennio nazionalpopulista dei gemelli Kaczynski (2005-2007). Katyn è un ricordo che non può passare, e Medvedev lo sa, mentre sotto il vento a Piazza Pilsudski porta il suo omaggio al Milite ignoto polacco. Nel 1939 Hitler e Stalin mossero guerra insieme alla Polonia.
Hitler lanciò così il suo delirio di dominio mondiale, Stalin volle vendicarsi del maresciallo Pilsudski che nel 1920 fermò l´Armata rossa alle porte di Varsavia. Si spartirono anche i prigionieri: tutti i 22mila ufficiali delle forze armate polacche, l´élite della nazione, finirono in mano alla Nkvd, la polizia segreta sovietica. Furono tutti assassinati nel 1940 nella foresta di Katyn, con un colpo alla nuca. Anche familiari di polacchi famosi ancora oggi, come il regista Andrzej Wajda che in serata ha tenuto un dibattito con Medvedev. E in tutta la guerra l´ostilità russa continuò, contro la Polonia che a fianco degli Alleati schierò più soldati che non de Gaulle: nel 1944 l´Armata rossa era sull´altra riva della Vistola quando Varsavia occupata insorse, e lasciò tempo alla Wehrmacht per il grande massacro.
«Ora possiamo cambiare i rapporti tra i nostri due popoli, cerchiamo di non essere più ostaggi del passato, ricordiamo insieme quei momenti oscuri», ha detto Medvedev. Il presidente polacco gli ha fatto èco: «Apriremo un nuovo capitolo, fianco a fianco con l´aiuto di Ue e Nato». C´è voluto un lungo cammino: la Duma russa ha ammesso il crimine di Katyn. Varsavia ha ingaggiato nel negoziato per il summit della svolta i suoi protagonisti di ieri. Anche il generale Wojciech Jaruzelski, ex avversario e poi partner nella svolta democratica, chiamato dall´establishment lib-con ed europeista insieme a Lech Walesa come consigliere speciale per il dialogo col Cremlino.
«Buoni rapporti tra noi e i russi sono prioritari, siamo condannati a coesistere, abbiamo bisogno di relazioni normali, infine e per una buona volta nella Storia», ha commentato a caldo Walesa ieri, benedicendo la svolta. Nel grande giorno delle emozioni, con Medvedev a Varsavia sulle orme di Willy Brandt, Walesa rivedeva forse quei momenti-chiave del 1989. Quando ripartì il dialogo tra lui e Jaruzelski, quando Varsavia era l´unica capitale dell´allora Est dove film e media della perestrojka di Gorbaciov non erano censurati.
Quando Adam Michnik, eroe carismatico dell´opposizione, volava a Mosca ad aprire il dialogo.
Vent´anni dopo, tutto cambia in meglio, ci dice il giovane ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski. «Polacchi e russi hanno molto in comune, riscopriamolo insieme. La cultura russa è stata sempre amata in Polonia. E come avemmo una riconciliazione con la Germania divenuta democrazia, la nostra speranza è da oggi una riconciliazione con una Russia cambiata allo stesso modo». Da ieri, nulla sembra più impossibile. «È interessante anche parlare di nuove idee di rapporti tra Russia e Nato», dice Sikorski. I fantasmi del passato svaniscono lenti nell´aria gelida di Varsavia, mentre a piazza Pilsudski la banda intona prima «Russia, santa Patria», l´inno russo (sovietico, ma con le parole cambiate), poi «La Polonia non è ancora morta finché noi viviamo», il vivace inno dei polacchi.
(ha collaborato Jan Gebert)

Repubblica 7.12.10
Swat, gli archeologici eroi nell´ultimo emirato dei Taliban
Nel 2001 i ribelli distrussero un tempio brahmanico appena riportato alla luce
"Vogliamo formare personale locale come restauratori e guide. E riparare il grande museo"
di Pietro Del Re


MINGORA (PAKISTAN). Salvo alcuni caseggiati e un lembo del suo muro di cinta, la Pompei asiatica dorme ancora sotto terra. In superficie, invece, il territorio è ormai assediato da sgraziate costruzioni moderne, futuro ostacolo per futuri scavi. Altrove, per via delle buche lasciate dai tombaroli locali, l´antica Bazira indo-greca, città fondata nel II secolo a.C. dai discendenti di Alessandro Magno, sembra un campo di battaglia. Simile a quello arato ieri da due kamikaze che si sono fatti esplodere a poche decine di chilometri da lì, a Ghalanai, in un territorio tribale al confine con l´Afghanistan, uccidendo cinquanta persone.
Per questi motivi, il mensile americano Archaeology ha inserito Bazira tra i dieci siti più a rischio del pianeta. Da qualche anno, tuttavia, altre minacce guatano questi scavi. «Nel 2001, pochi giorni dopo la distruzione dei Buddha afgani di Bamiyan, arrivarono i Taliban i quali, dopo aver legato i due guardiani, distrussero a picconate gli stucchi di un grande tempio brahmanico del VII secolo appena riportato alla luce: per evitare altri vandalismi fummo costretti a seppellirlo nuovamente», racconta l´archeologo Luca Maria Olivieri, romano, classe 1962, responsabile della più antica e longeva missione italiana di scavi in Asia, quella inaugurata negli anni Cinquanta dal grande orientalista Giuseppe Tucci.
Nell´ex principato dello Swat, divenuto distretto pachistano nel 1969, Olivieri scava dal 1987. Qui, l´anno scorso, prima di essere scacciati dall´esercito di Islamabad, i Taliban fondarono il loro ultimo emirato. Perciò, per non dare nell´occhio, l´ideale successore di Tucci veste oggi con quel camicione che arriva alle ginocchia che qui chiamano shalmar kamiz. Anni fa, sulla sua testa, i Taliban avevano anche posto una taglia di diecimila dollari. Eppure, più che a Indiana Jones, Olivieri, forse perché altro e magro, somiglia a un hidalgo dipinto da El Greco. «Fu nel 2004 che mi accorsi del cambiamento, quando nei paesini della valle incontrai per la prima volta facce diverse, insolite, ascetiche. Facce di africani, tagiki, usbeki, arabi, afgani. Erano uomini tutti dall´aria molto devota e tutti con barbe ben curate».
Con la guerra in Afghanistan, lo Swat, come altre regioni di frontiera pachistane, erano infatti diventati le retrovie per Taliban e qaedisti. «Alcuni, dopo aver sposato ragazze molto povere di queste montagne, importarono le tecniche di guerriglia, dai kamikaze alle cariche di esplosivo sul ciglio della strada», dice ancora Olivieri. Nel 2007, dopo i proclami lanciati contro i negozi di Cd, i barbieri e le scuole femminili, cominciò nello Swat una stagione di attentati cruenti. Nel frattempo, i Taliban arruolavano ragazzi per mandarli a morire imbottiti di tritolo, comprandoli alle famiglie per poche migliaia di rupie. L´anno successivo, sempre fiancheggiati dai qaedisti, gli studenti del Corano cominciarono a ricoprire ruoli amministrativi.
All´inizio del 2009 il governo di Islamabad decide di concedere l´applicazione della Sharia e, tra giugno e luglio, i Taliban conquistano la valle. Il capoluogo Mingora diventa la capitale del loro micro-emirato. In pochi mesi i danni ambientali, politici e sociali sono enormi, «mentre i "fedeli a oltranza", per chiamarli come V.S. Naipaul, cominciano a fustigare, strangolare, lapidare», ricorda Olivieri.
L´esercito decide allora di intervenire. Ad agosto è tutto finito. A fronte di trecento militari morti, le stime parlano di circa ottomila Taliban uccisi. Per la prima volta nella storia, nello Swat due divisioni dell´esercito si fermano in modo permanente. «Anche qui i militari applicano la dottrina Petraeus: fanno un passo con le armi e tre con gli attrezzi della ricostruzione civile», dice Olivieri. «Per recuperare i giovani ex guerriglieri, organizzano perfino sedute di de-briefing».
Si chiama Udegram l´altra area di scavi italiani e si trova nell´incavo di una montagna dove tutto l´anno scorre limpida acqua di fonte. La scoperta più importante risale al 1985. Fu allora ritrovata una lastra di marmo che parlava della costruzione di una moschea dell´IX secolo. La moschea esisteva davvero e fu riesumata poco dopo, ancora con la vasca per le abluzioni e la nicchia del mihrab, che indica la direzione della Mecca. «E´ la terza moschea più antica del paese, e per uno Stato musulmano come il Pakistan riveste un valore enorme. Per fortuna i Taliban non se ne sono accorti: avrebbero potuto renderla un luogo di irradiazione ideologica, attirando qui ancora più combattenti qaedisti».
Un attentato compiuto a Mingora durante i mesi più duri della crisi danneggiò pesantemente il Museo dello Swat, la cui apertura fu promossa nel 1963 dallo stesso Tucci per ospitarvi le splendide sculture provenienti dai suoi scavi. La deflagrazione fu così potente che danneggiò anche le finestre della sede della nostra missione archeologica in Pakistan, la cosiddetta "casa Tucci", villa spartana in stile anglo-indiano dove hanno dormito, mangiato e studiato almeno un paio di generazioni di studiosi italiani. «Perché da eminente tibetologo qual era Tucci cominciò a scavare nello Swat? Perché nel 1955 il Tibet era stato invaso dai cinesi e chiuso agli occidentali e perché Alessandro il Grande aveva attraversato queste terre prima di toccare le rive dell´Indo. Trovò subito tali tesori che l´anno successivo chiese di poter iniziare gli scavi e fondò la missione archeologica italiana in Pakistan, che è ancora in vita».
Tuttavia, conoscendo il budget su cui ha recentemente potuto contare la missione (poche migliaia di euro l´anno), verrebbe da dire che essa sia sopravvissuta quasi per caso. Il miracolo è avvenuto l´anno scorso, quando il ministero degli Esteri ha accolto il progetto presentato da Olivieri per ottenere una piccola fetta dell´accordo firmato tra Roma e Islamabad sulla riconversione del debito pachistano: a questa avventura scientifica iniziata più di mezzo secolo fa vengono destinati due milioni di euro. «Serviranno a formare personale specializzato locale, dai restauratori alle guide archeologiche, così come a ristrutturare il museo dello Swat». Serviranno anche a proseguire gli scavi della missione dell´Istituto italiano per l´Africa e l´Oriente. Senza dover quotidianamente litigare con chi continua a costruire sopra l´antica di Bazira.

Repubblica 7.12.10
Renzi-Berlusconi, incontro ad Arcore
di Francesco Bei


Il sindaco chiede fondi per Firenze. Il premier: "Tu mi somigli"
Il leader del Pdl ha apprezzato l´aiuto del primo cittadino toscano sul caso dei rifiuti a Napoli

ROMA - I due si annusano a distanza da tempo. C´è una curiosità reciproca e, almeno da parte del Cavaliere, anche una corrente di schietta simpatia per quel giovane così «diverso dai soliti parrucconi della sinistra». «Un po´ mi somiglia, è fuori dagli schemi», ha confidato a un amico. Insomma, alla fine forse era inevitabile che accadesse e infatti è accaduto: Matteo Renzi, il sindaco della rossa Firenze e leader dei "rottamatori" del Pd, ha varcato ieri il cancello di Arcore.
Per carità, ci saranno state ottime ragioni «istituzionali», come usa dire, a giustificare quel faccia a faccia così poco istituzionale e così tanto politico. Renzi, come ogni sindaco d´Italia, è alla canna del gas, ha un disperato bisogno di fondi per chiudere un bilancio altrimenti "lacrime e sangue". E l´ultimo vagone che si può agganciare è quel decreto "Milleproroghe" che il Consiglio dei ministri si appresta a varare alla fine della settimana. Renzi sperava in una legge speciale per la città di Dante, contava di riuscire a portare a casa qualche norma di vantaggio. Quando ha compreso che non sarebbe stato possibile, è andato a bussare direttamente al portone di Arcore. Soldi chiede, ma non se li aspetta dal governo. Vorrebbe farseli dare dai milioni di turisti che si fermano a visitare gli Uffizi o le altre meraviglie fiorentine, imponendo a ciascuno un piccolo «contributo», una tassa di soggiorno. Pochi euro per il singolo turista, molti per la città: 17 milioni all´anno, calcolano i tecnici del comune. Ma per imporre la tassa serve il via libera del governo. Da qui la visita di ieri ad Arcore.
Eppure non è solo questo, almeno non da parte del Cavaliere. Il premier è infatti davvero intrigato da questo giovane amministratore del Pd. «Ce ne avessimo come lui», sospira. Renzi gli ha toccato il cuore la scorsa settimana, quando Berlusconi annaspava senza trovare una soluzione al problema dei rifiuti a Napoli. I leghisti non ne volevano sapere di dare una mano ai «terroni» e Berlusconi, disperato, ha fatto chiamare Renzi al telefono. «Salve sindaco, mi consente di darle del tu? Dammi del tu anche tu». Un approccio subito confidenziale, che sortisce l´effetto desiderato. Al termine di una telefonata molto amichevole, il sindaco di Firenze tende al Cavaliere una mano preziosa: «Presidente, ti possiamo mandare a Napoli sei camion compattatori per raccogliere l´immondizia dalle strade». «Grazie Matteo, affare fatto. Grazie a Firenze».
Un´amicizia nata nella difficoltà, di quelle che possono prolungare i loro effetti ben oltre l´emergenza. Del resto non è da oggi che il Cavaliere tiene d´occhio quel ragazzo (classe 1975) così «promettente» e di successo, come piacciono a lui. La prima volta che s´incontrarono fu nel 2005, in occasione del flop di Maurizio Scelli, quando l´allora commissario della Croce Rossa tentò di organizzare il suo movimento politico. Berlusconi aspettò due ore (invano) in prefettura che il palazzetto dello sport si riempisse con gli Scelli-boys e, nel frattempo, si intrattenne con quel trentenne presidente della provincia di Firenze che lo era andato a salutare per "cortesia istituzionale". Al termine del colloquio, il premier si congedò a modo suo, lasciando di stucco gli esponenti locali di Forza Italia: «Caro Renzi, ma come fa uno bravo come lei a stare con i comunisti?».
Da allora i due hanno continuato a seguirsi a distanza. Nel frattempo Renzi ha traslocato dalla provincia al comune, mentre Berlusconi ha fatto in tempo a perdere (2006) e rivincere (2008) le elezioni. Renzi è anche il dirigente che ha proposto di «rottamare» gli attuali capi del Pd, a partire da D´Alema, Veltroni e Bersani. Un «coraggio» che, in privato, Berlusconi non ha mancato di lodare. Così come non sono sfuggite al premier quelle dichiarazioni contro la proposta di "Union sacrée" per scacciare il tiranno da palazzo Chigi: «La sinistra - ha detto Renzi - non può mettere insieme la solita ammucchiata selvaggia anti-Berlusconi».
Insomma, da una parte c´è un leader in cerca di giovani, che non vuole lasciare la sua eredità a quei «signori attempati», «professionisti della politica che a cinquant´anni dovrebbero solo dedicarsi ai libri di memorie». Dall´altra c´è un sindaco molto ambizioso che vuole fare politica rompendo gli schemi. E poi l´incontro di ieri ad Arcore, dove nemmeno i sindaci Pdl di Roma e Milano riescono più a farsi ricevere.

La Stampa 7.12.10
E' il nostro cervello a decidere come vediamo il mondo
L'architettura cerebrale rende la nostra visione delle cose unica

qui
http://www3.lastampa.it/scienza/sezioni/news/articolo/lstp/378879/

La Stampa 7.12.10
Paolo Villaggio choc: "Penso al suicidio”
"E conosco già la data della mia morte"
di R. S.

qui
http://www3.lastampa.it/spettacoli/sezioni/articolo/lstp/378952/

Repubblica 7.12.10
Ansia da erezione ultra cinquantenni in cerca di aiuto
di Aldo Franco De Rose


Il ripensamento per la vasectomia Torna tardi il desiderio di paternità
Uno studio in sei città: diffuse eiaculazione precoce e disfunzione erettile. Molti chiedono di aumentare la dimensione del pene

Questa volta i cambiamenti nei comportamenti sessuali vengono da uomini che, superata la soglia magica dei cinquant´anni, chiedono una migliore sessualità e una maggiore capacità riproduttiva. Si tratta di uomini nel pieno del loro vigore fisico, molto spesso professionalmente appagati, che non disdegnano il lifting, le palestre e le creme di bellezza. Ma il superlavoro, unito ai piaceri della buona tavola e al fumo, gli regalano qualche chilo di troppo e i primi dispiaceri. Lui si stressa, si stanca, la relazione al di fuori delle mura domestiche lo preoccupa e alla fine, un po´ per ragioni fisiche, un po´ per questioni psicologiche, sul fronte sessuale, è un vero disastro: è impotente, anzi, come dicono i medici, è affetto da deficit erettile. Colpa dell´ansia da prestazione? L´ansia c´entra ma non è la sola causa. È quanto emerge da una indagine eseguita in sei città (Genova, Roma, Potenza, Brindisi, Nardo e Catania) e presentata recentemente al congresso degli andrologi. Le maggiore richieste di aiuto riguardano la potenza sessuale e l´eiaculazione precoce, ma anche due new entry: l´insoddisfazione dei genitali e il desiderio di paternità.
Dei 3425 soggetti osservati, 1785 (52,1%) hanno richiesto un miglioramento dell´erezione e il 72 % è stato trattato con inibitori delle fosfodiesterasi 5, cioè Cialis, Levitra e Viagra mentre per il 26% si è dovuto ricorrere alla punture di prostaglandine e per il 2% alla chirurgia protesica.
Nelle regioni sembra differentemente distribuita l´incidenza della eiaculazione precoce (EP) con prevalenza al Centro-nord, 40 e 36% rispetto al 24% del Sud. Ma un dato invece sembra simile in tutta la penisola: nel 98% dei casi il disturbo persisteva già dall´adolescenza e per il 32% ha rappresentato la fine della relazione. Ma la vera novità è costituita dalle richieste di aumento delle dimensioni del pene tra gli ultra cinquantenni, soprattutto al Nord. Insomma una dismorfofobia peniena che non rappresenta solo un problema giovanile ma è anche fonte di preoccupazione fra gli adulti, anche in relazioni consolidate: 398 (11,2%) sono state le richieste e di queste 195 al Nord (48,5%). Per gli autori si tratta solo di una questione di pudore e non geografica: infatti molti meridionali trapiantati al centro e nord erano insoddisfatti delle proprie dimensioni. In Italia le richieste annue superano le ventimila, ma solo meno di un terzo vengono soddisfatte. In questo caso solo il 17% è stato sottoposto a intervento chirurgico.
Infine il desiderio di paternità. Dopo i 50 anni interessa persone che, a seguito di un lutto o divorzio, hanno iniziato una nuova relazione e negli anni precedenti, anche dopo 1-2 paternità, avevano deciso di sottoporsi a vasectomia, cioè la sezione dei deferenti, metodo contraccettivo maschile. Dei 94 soggetti del campione (2,06%) la maggiore richiesta di paternità è arrivata dal Nord, 45% contro il 18% del Sud.
* Specialista Andrologo e Urologo, Clinica Urologica, Genova

Repubblica 7.12.10
Lei e lui
Quando il maschio perde l´autostima
di Roberto Giommi


O gni anno presso il nostro centro clinico (Istituto internazionale sessuologia) riceviamo consultazioni individuali e di coppia per il problema della disfunzione erettile. La consultazione individuale riguarda uomini più giovani, la consultazione di coppia persone di età maggiore.
È una disfunzione che produce effetti indesiderati a catena perché impedisce di vivere la sessualità coitale, attacca la dimensione di autostima maschile, rende il maschio meno sicuro della sua identità e perché spesso si trasforma in una chiusura emotiva e affettiva.
I maschi sentono di perdere la loro dimensione di eccitazione spontanea che li rassicura sulla loro potenza: un maschio che deve cercare l´erezione si sente preoccupato. La confusione tra desiderio ed eccitazione è molto forte sia al maschile che al femminile: crea nella donna il sospetto di essere stata sostituita da un´altra donna (gelosia) e nel maschio il terrore di avere perso un canale importante di relazione con il mondo. L´eccitazione è un modo di vivere e di provare sensazioni ed emozioni: il pene è il radar maschile nell´affrontare il mondo e la relazione con le donne e con gli altri maschi. Per un sessuologo clinico è molto importante capire come si è verificata la disfunzione: se prima di iniziare la sessualità, se durante il petting, se una volta iniziata la penetrazione. Il ruolo della partner è altrettanto importante: si deve capire come ha reagito al problema. La consultazione individuale permette di ascoltare la versione di Lui, la presenza della partner, quando esiste, aiuta a capire cosa sta accadendo nella relazione e di quali risorse la coppia dispone.
I risultati della psicoterapia sessuale sono molto positivi se c´è amicizia e complicità di coppia e nella consultazione individuale se si costruiscono nuove strategie per affrontare gli incontri. Si deve smontare il pensiero predittivo che determina l´ansia da prestazione. La modificazione dei pensieri e la rassicurazione producono effetti risolutivi importanti.* www.irf-sessuologia.org