domenica 12 dicembre 2010

Repubblica 12.12.10
Sfilata con la Costituzione e "Bella Ciao" "Meritiamo un´Italia diversa e migliore "
Contestato Renzi, sindaco di Firenze: "Sbagliato andare ad Arcore"
di Alessandra Longo


ROMA - Sereni, tranquilli (i malevoli dicono: forse un po´mosci), più ironici che rancorosi, più ottimisti che tafazzisti. Eccoli gli uomini e le donne che credono nel Pd e tifano per «un´altra Italia», tutti in marcia verso piazza San Giovanni per dire basta a Berlusconi ma anche, visto che ci sono, per regolare un conticino in casa, con quel rottamatore del sindaco di Firenze, reo di aver accettato l´invito ad Arcore. «Renzi hai fatto una stronzata!». Lui, Matteo Renzi, si fa vedere solo all´inizio del corteo, toccata e fuga. Giusto il tempo per capire che l´aria che tira non è granché e leggere qualche cartello del tipo: «Renzi ad Arcore, Bersani a Palazzo Chigi». O anche: «Se questi sono i "giovani" ci teniamo i vecchi...». Gentili, educati, «perbene», come li definisce Nicola Zingaretti, questi del Pd, ma sul palco, alla fine, ci andrà, a nome dei "rottamatori", Pippo Civati. Renzi evita così fischi sicuri: «È una giornata importante ma devo scappare. Ho un appuntamento con Benigni».
Il fiume in piena del popolo Pd (ma «basta dare i numeri, siamo comunque uno in più della piazza di Berlusconi...») invade Roma. Migliaia di bandiere a sfondo bianco del partito, quelle color arancio dei «moderati» di Chiamparino, anche le insegne di Italia dei Valori ma Di Pietro non c´è. Un po´ a sorpresa la nota cromatica prevalente è il rosso. Il rosso degli scaldacolli di pile distribuiti a centinaia dagli organizzatori. Il rosso dei pettorali del servizio d´ordine che ondeggia quando, dal palco, Bersani saluta «le democratiche, i democratici, i compagni». E il rosso della bandiera Arci che sventola con la faccia di Enrico Berlinguer.
Musica dai furgoni inquadrati nel corteo, abbinamenti arditi, «Cambierà» di Neffa e «Bella Ciao», bande con gli ottoni tirati a lucido, dirigenti in ordine sparso ma per un giorno non belligeranti, D´Alema e Veltroni, Fassino e Marini, Franceschini, Letta e la Bindi, persino il compagno Diliberto che passa e saluta nel nome dell´unità a sinistra. Epifani e Camusso, parenti Cgil, sfilano in coppia, un gruppo di sindaci toscani marcia con il cappello da mago Merlino («Tremonti vieni te a far tornare i conti»), i giovani sono tanti e avvisano: «Vogliamo riprenderci il futuro». C´è un Dante Alighieri in carne ed ossa, al collo la scritta: «Fatti non foste a viver come bruti». Ci sono i disoccupati, i precari, circola il fantasma di Nichi Vendola (tutti prudenti, quasi imbarazzati: «Sì, per noi è un alleato importante, parla agli operai»). I prossimi giorni saranno nevralgici. Uno slogan di speranza: «Silvio, è Natale. Fai un regalo agli italiani: dimettiti».
Prima di ascoltare Bersani, la piazza scandisce gli articoli della «Costituzione più bella del mondo», canta e balla. Fiorella Mannoia sale sul palco a sorpresa e regala «Clandestino» di Manu Chao, Simone Cristicchi sdogana Toto Cutugno con una versione politically correct di «Italiano vero» e Neffa cambia le parole di «Io e la mia signorina»: «Potrei anch´io fare il presidente... ma non ci andrei con una minorenne». Martina Panagia, arrivata seconda a Miss Padania, è la presentatrice dell´evento. Gambe lunghissime esposte al freddo e sorriso da copertina. I giovani democratici le perdonano volentieri la conduzione da dj («Ehi, voglio vedere la Lombardia. Dove siete? Sventolate le bandiere, fatevi riconoscere... E adesso le isole!»).
Al tramonto, fa sempre più freddo ma quelli di Caserta non mollano la prima fila guadagnata a mezzogiorno. Ci tengono a dire: «Caserta siamo anche noi, Caserta non è solo camorra». Bersani aspetta dietro le quinte, mezzo sigaro in bocca, la cartella con gli appunti. Esce quando la piazza intona l´inno di Mameli. Li abbraccia tutti con lo sguardo: «Siete una meraviglia» e poi sceglie, da direttore d´orchestra, una parola da far risuonare più delle altre. «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». Vergogna per la compravendita di voti di queste ore, vergogna per un Paese dalla doppia morale, una per i ricchi e una per i poveri, vergogna per chi insulta la dignità delle donne ed è tollerante con i razzisti. Lo interrompono: «Chi non salta Berlusconi è». Affidano ai cartelli ironia e disprezzo: «Papi banana bunga bunga; «Cacciamo il sovrano puttaniere». Ecco una gentile signora con scopa di saggina in mano: «Silvio scopa anche questa...». Un´asta con infilati reggiseni e corsetti di pizzo fa coppia con il cartello stradale di Arcore, ritoccato in «Hardcore». È una piazza che chiede di voltare pagina. Un raduno che si scioglie con la sensazione (prudente) che il vento stia andando in un´altra direzione: «Cambiamo Paese. Torniamo in Italia!».

Repubblica 12.12.10
Una boccata di democrazia
di Curzio Maltese


Folla, colori, allegria, il sole e le piazze romane. Ci voleva una giornata di sana democrazia per respirare fra i miasmi di una politica ridotta all´orrido cinepanettone parlamentare recitato da onorevoli macchiette in vendita.
Per distrarsi dallo spettacolo di un grande paese in mano al voto degli ultimi due voltagabbana arruolati da Di Pietro. È un sollievo incontrare le facce di un´Italia diversa, reale. Quanti erano? Chissà. Se Berlusconi giurava di aver superato i due milioni la primavera scorsa, allora qui dovrebbero essere cinque o sei. Basta confrontare le foto di piazza San Giovanni dall´alto. Fuori dalla contabilità di fantasia, comunque una marea. Ma più dei numeri conta l´emozione di veder sfilare i ragazzi dell´Aquila accanto ai precari dello spettacolo, i ricercatori e i migranti, i maestri elementari e i cassintegrati, da tutta Italia, con cento dialetti e un milione di storie.
Una gran bella giornata. Tanto bella quanto probabilmente inutile. A questa politica del paese reale importa poco o nulla. I giochi si fanno altrove, nei palazzi del potere berlusconiano. Quanti se n´è comprati? Quanti ne comprerà nelle prossime 48 ore? Nel retropalco di piazza San Giovanni, mentre parla Bersani, gli specialisti sfoderano il pallottoliere. Dario Franceschini, che di solito ci azzecca («comunque più di Di Pietro» è la battuta), sostiene che il fronte della sfiducia è ancora sopra di due voti. «Se Guzzanti passa di là, siamo pari».
L´unica certezza è che non vi sarà un solo parlamentare, un singolo esponente del popolo, che cambierà idea perché uno, due o cinque milioni d´italiani sono scesi in piazza. Badano ad altre cose, consulenze, contratti in scadenza, rielezione, pensioni, mutui, ipoteche, debiti. La manifestazione di ieri non servirà a dare una spallata al governo Berlusconi. Ma può dare una scossa di fiducia al Partito Democratico, da mesi paralizzato da un paradosso. Il berlusconismo perde colpi, ma il principale partito d´opposizione non guadagna consensi, al contrario scivola nei sondaggi. Perché, se ha potenziale elettorale che supera il quaranta per cento? Perché, se ogni chiamata alla piazza raccoglie milioni di adesioni, quando in tutte le democrazie occidentali mezzo milione di persone in corteo costituiscono un record?
Il Pd è a un bivio storico, di fronte a una scelta difficile, che merita rispetto. Alle prese con un problema assai più profondo di quanto appaia dalle risse fra la ventina di aspiranti segretari. Il Pd deve scegliere se diventare un partito come tutti gli altri, ovvero il comitato elettorale di un leader forte e carismatico. Oppure rimanere l´ultimo partito collegiale sulla scena.
Nel suo bel discorso Bersani, assai più efficace in piazza che in televisione, ha rivendicato con orgoglio la diversità del Pd. «Non vogliamo creare passione per una persona, ma per la Repubblica». È cosa buona e giusta da dirsi, nobile. Bisogna vedere se è anche attuale. Nell´Italia berlusconizzata, ma non solo, i partiti sono la narrazione di un capo. Oggi il Pd, con tutta la fatica e il dolore affrontato per separarsi dalle proprie radici, il Pci e la Dc, si trova a perdere voti nei confronti di Vendola e Casini, rispettivamente un ex comunista e un ex democristiano, entrambi poco ex, i quali semplicemente hanno capito due o tre cose in più su come funziona la comunicazione politica nei tempi moderni. Nell´Italia del 2010 il Pd è un partito che appare fermo al Novecento, mentre il resto del mondo è entrato da tempo nel Duemila. Oppure è regredito all´Ottocento, chissà, ma in ogni caso sta altrove.
All´orizzonte del Pd oggi non esiste un leader carismatico. L´ultimo giovane pretendente l´hanno appena beccato a confabulare in segreto ad Arcore, lui sostiene per il bene di Firenze. Ma anche se si presentasse Obama in persona, il Pd per come è strutturato non accetterebbe mai di diventare il partito di un leader. Gli unici ad averci provato in questi anni, Prodi e Veltroni, sono finiti presto. Sia pure dopo aver raccolto molti più consensi delle direzioni collegiali. Ad ascoltare la gente di San Giovanni, la base del Pd non avrebbe dubbi sulla scelta da compiere. C´è il rischio che la metà delle persone scese in piazza all´appello di Bersani, in caso di primarie si precipitino a votare Vendola. Forse domani cambierà tutto, se cadrà Berlusconi. Ma per far finire il berlusconismo, più che un governo tecnico, servirebbe allora la rivoluzione invocata dal grande Mario Monicelli.

il Fatto 12.12.10
Opposizione. I militanti chiedono un partito più incisivo e meno diviso
 Il Pd vince la prova della piazza Che chiede: via B. ma basta giochini
Bersani: “L’Italia ha intrapreso un percorso nuovo L’esecutivo è finito, non si salverà con una vergognosa compravendita”
Co il Pd tanta bella gente per dire basta
Piazza San Giovanni gremita di persone che vogliono un altro partito
di Enrico Fierro


Quanti sono? Difficile dirlo. Perché la guerra delle cifre oggi non si combatte tra i dati della Questura e quelli del partito. La conta dei numeri in Piazza San Giovanni questa volta fa litigare le correnti. Cinquecentomila, dice il dirigente bersaniano, ma che, replica l’uomo di Veltroni, saranno centomila al massimo. Tacciono i dalemiani. La verità è che nel giorno della riscossa del Partito democratico c’è tantissima gente. Brava gente venuta da tutta Italia con in testa un pensiero solo: mandare a casa Berlusconi e ricostruire l’Italia. “Con gli uomini come Angelo, si vince, quelli come lui devono contare in questo nostro partito”. Sono venuti da Pollica, Campania, e Angelo è Vassallo, il sindaco del paese   ucciso a settembre. “Perché contrastava camorra e speculatori”, dice orgogliosa una ragazza dietro lo striscione con la foto del sindaco-pescatore. “Quelli come lui devono contare nel Pd”, facile a dirsi nel partito dove più degli iscritti,   dei volenterosi e della mitica base, contano altri: le correnti, i gruppi di potere, le antiche appartenenze dei partiti che furono. Ma nel giorno del partito che torna in piazza, a contare, finalmente, sono altri, quelli delle “belle bandiere”. Quelli che credono ancora, e nonostante tutto - gli errori, le sconfitte, il cannibalismo tra leader, le pessime scelte nelle candidature, gli scandali e gli interessi personali - nella forza della politica. Striscione da Piombino, la sezione del Pd è intitolata a Enrico Berlinguer. “Siamo qui per riprendere in mano il destino d’Italia, Berlusconi ci ha portato al disastro economico, civile e morale, noi siamo pronti”, dice sicura di sé una signora sulla sessantina. La vostra sezione è intitolata a Berlinguer, cosa dirà Fioroni? Il coro è unanime: “Chi se ne frega”. Bandiere, colori, maschere. Ci sono i medici-stregoni e caricature di Bossi e Berlusconi, il napoletano vestito col saio francescano che invoca la grazia. Non a San Gennaro, ma al poverello di Assisi: “Fa schiattà a Berlusconi”.   E ci soni i toscani, tantissimi. Ironici, ma anche severi. E con chi è facile immaginarlo. Con Matteo Renzi, il sindaco di Firenze, il rottamatore che vuole archiviare i vecchi dinosauri del Pd, recentemente accolto ad Arcore con tutti gli onori. “A Renzo manca il cervello”, dice secco un livornese. “Fermi, fermi, parla il segretario”, ordina un militante di Scandicci. E il segretario, Daniele Laurini, arriva e parla. “Mi auguro che abbia ottenuto grandi risultati per Firenze. Io al suo posto non sarei andato ad Arcore, ma basta con questa polemica che fa vincere, ancora una volta, un uomo solo: Silvio Berlusconi”. “Renzi è un testa di c….”, fa eco un manifestante dell’Isola d’Elba. Giudizi contrastanti. Matteo Renzi si affaccia al corteo, si trattiene poco, qualcuno lo contesta. “Ho poco tempo, ho un appuntamento con Benigni”. “Renzo, ma cosa sei andato a fare ad Arcore, il Bunga Bunga?”, gli fa un altro toscano   . Il sindaco, abituato allo sberleffo e all’ironia della sua gente, replica con calma: “L’ho fatto per Firenze”. “Renzi ha sbagliato e di grosso – è lo sfogo di Debora Serracchiani – ma certi giudizi non li capisco. Chi ha concepito il patto della crostata (D’Alema, ndr) non può certo fare il maestrino”.
Slogan, cartelli, strette di mano. Un popolo - molti cinquantenni, tanti impiegati, bella presenza di giovani, tante donne - che si ritrova. E che intona “Bella ciao” sulle note della banda musicale di Rapolla (Basilicata). Una signora sulla sessantina   venuta col marito da Brescia canta e si asciuga le lacrime. Perché? “Perché in questa canzone c’è tutto quello che stiamo perdendo, la libertà, la giustizia sociale, il sogno della primavera e del futuro per i nostri figli”. Bella gente in piazza, uomini e donne che sperano, che si affidano ancora una volta a quello che considerano il loro partito. “Ricordi cosa disse Romano Prodi una volta? Siamo persone che lottano per avere il diritto ad un po’ di felicità”, dice Andrea, lavoratore precario a Roma. E’ una folla composita, che chiama   per nome Guglielmo e Susanna (Epifani e la Camusso, insieme alla manifestazione), impazzisce per Rosi Bindi e stringe la mano di Nicola Zingaretti (“’a Montalbà, salvace da Alemanno”, gli gridano i romani), ma si fa anche fotografare con Nicola La Torre. E’ una folla che in una fredda giornata di dicembre è venuta a Roma da tutta Italia per dire basta con le divisioni, i giochetti della politica, le candidature sbagliate dei Calearo, dei Cesario pronti a salvare Berlusconi, basta con i nomi di sempre. Basta con Silvio Berlusconi.

il Fatto 12.12.10
“Cambierà”. E Bersani, in mezzo ai leader di sempre: siamo una forza di governo
di Caterina Perniconi


“Cominciamo che fa freddo!”. Ha le lacrime agli occhi dalla commozione Pier Luigi Bersani quando sale sul palco di piazza San Giovanni. Davanti a lui una folla realmente infreddolita che canta l’inno d’Italia e lo invoca da un’oretta:
“Ber-sa-ni-Ber-sa-ni”. Dietro, le foto in bianco e nero della manifestazione di due anni fa al Circo Massimo. Veltroni è alle spalle, ora la scena è tutta per lui.
“L’Italia deve cambiare” dice il segretario del Partito democratico nell’unico intervento della giornata, “il nostro paese deve togliersi il berlusconismo dalle vene”, deve dire “basta all’uomo solo al comando e al ‘ghe pensi mi”. Poi illustra l’Italia che lui vorrebbe   costruire, e strappa il primo applauso quando dice che “chi ha di più dovrà dare di più”. Arriverà a ventiquattro in cinquanta minuti d’intervento, ma tutti applausi moderati, come il suo discorso: “Il Pd è un partito di governo momentaneamente all’opposizione”   , la crisi del centrodestra “c’è ed è senza rimedio”. Poi il nodo di martedì e del voto di fiducia: “Comunque vada, questa crisi sarà certificata. E non si risolverà con la compravendita di qualche voto, una pratica vergognosa che ci fa arrossire davanti a tutte le democrazie del mondo”. E qui Bersani comincia a gridare “Vergogna!” e lo ripete quattro, cinque volte, insieme al grido della folla, che lo segue.
“ABBIAMO MESSO in moto una nuova Italia” continua il segretario del Pd – senza risparmiare una stoccata al leader dell’Idv Antonio Di Pietro – “e non gli abbiamo offerto l’occasione di ricompattarsi mettendo tutti nel mucchio come ci suggeriva qualche tifoseria o qualche focoso amico   . La mozione di sfiducia è arrivata al momento giusto, non tutti i giorni come loro avrebbero voluto”.
Ma martedì sarà davvero il momento giusto? Per Bersani l’esito del voto è ancora “incerto” ma se si aprirà la crisi, la proposta che il Pd porterà al   presidente della Repubblica è quella di “un governo serio di responsabilità istituzionale”. La necessità è “una transizione ordinata, nuove regole elettorali, alcuni interventi essenziali e urgenti in campo economico e sociale e porti il paese ad un confronto elettorale capace finalmente di rivolgersi al futuro perchè fuori finalmente dalla situazione bloccata e impotente di questi anni”.
Perché l’Italia non sarebbe nelle condizioni di affrontare   un’altra campagna elettorale: “Altri sei mesi a discutere su Berlusconi sì/Berlusconi no, facendo fare al paese un altro giro su una giostra ormai fuori uso?”. Insomma, niente urne. Ma se dovesse capitare “sia chiaro che ce la giochiamo e la vinciamo!”.
Questo è il punto che spaventa di più i big del partito: una competizione, che Bersani potrebbe intraprendere con l’appoggio di Sel e Idv, sperando che il Terzo polo aiuti la sua coalizione a prendere un voto in più di Berlusconi. Walter Veltroni è alla destra del palco,   in mano l’intervento scritto di Bersani. Lo legge, arriva alla frase sulla vittoria e storce il naso. Massimo D’Alema non commenta, ma non applaude.
E SE VINCESSE, dove vuole andare? “Il nostro progetto – spiega Bersani – si misura su due grandi sfide: una riforma per rafforzare la Costituzione e modernizzare le regole, e un’alleanza per la crescita e il lavoro”. In pratica: “Meno parlamentari, una legge elettorale seria, un federalismo responsabile. Riforma della pubblica amministrazione e giustizia   per tutti, non per uno solo. Più norme per snidare illegalità e mafie, stop ai conflitti d’interesse. Leggi contro l’omofobia, per le donne, a favore degli immigrati, dei precari e che garantiscano la dignità del malato”. Un programma ambizioso, molto difficile da realizzare con una coalizione vasta e litigiosa. Ma Bersani assicura: “Noi l’Unione non la rifaremo”. Sul viso di Veltroni appare un’altro momento di perplessità. Ma poi sale sul palco insieme a tutti i leader di un Pd che non vede l’ora di apparire unito agli occhi di una folla che   glielo chiede. Il segretario chiude: “Anch’io ho il mio sogno. Un sogno di un partito che possa finalmente dire all’Italia, Vieni via, vieni via di qui, vieni via con me”. La musica è pronta, il cantante è lo stesso Neffa che ha introdotto il segretario. Le note sono quelle di “Cambierà”. Perché per ora, niente è cambiato: a Palazzo Chigi c’è ancora Berlusconi, sul palco ci sono Rosy Bindi, Livia Turco, Anna Finocchiaro, Giuseppe Fioroni, Paolo Gentiloni e, naturalmente, D’Alema e Veltroni. Come dieci anni fa.

il Riformista 12.12.10
Premiership. Per la scesa in campo ufficiosa, il leader abbandona i
toni sornioni e si profonde in un discorso di orgoglio laburista, tutto
giocato sul recupero dell’autostima. Ma sulle alleanze è buio pesto. Una botta di vita
Il candidato Bersani dice cose di sinistra e già sfida Vendola 
di Stefano Cappellini


Repubblica 12.12.10
L'ok di Vendola: allargare a tutta la sinistra
"Non ero in piazza per evitare malintesi". Il Pdl stronca Bersani: comizio anni ´50
Il leader di Sinistra ecologia e libertà plaude alla "grande speranza" resa visibile dai democratici


ROMA - «Le strade invase dal popolo del Pd sono un segno di grande speranza. Ora, le forze del centrosinistra devono impegnarsi ad allargarla, quella piazza». Nichi Vendola non c´era a San Giovanni (dopo l´infruttuosa trattativa dei giorni scorsi col Pd) ma applaude all´esito della manifestazione. «Un partito ha tutto il diritto di mettersi in campo. Ha sfilato la forza composta, consapevole di chi vuol chiudere la lunga stagione del berlusconismo». E a partire da questa "base" forte che il leader di Sel rivolge il suo appello ad andare avanti sulla strada di un´intesa a sinistra, «credo che sia proprio questo il cuore pulsante di quel cantiere dell´alternativa che i partiti del centrosinistra adesso hanno il dovere di aprire». Dispiaciuto allora di non aver sfilato a Roma pure lui? «No, era il Pd - Pride. Meglio evitare gesti che rischiavano di finire fraintesi, presenze interpretate come la voglia di rubare la scena». A San Giovanni c´era invece un altro pezzo della sinistra ormai extraparlamentare, con Oliviero Diliberto: «Questa è la piazza del Pd ma siamo qui per costruire insieme l´alternativa a Berlusconi», spiega il portavoce della Federazione della sinistra salutando calorosamente Bersani. E saluta il successo della iniziativa un altro alleato, non sempre tenero, del Pd come Antonio Di Pietro: «Di fronte a Berlusconi che usa tutto il suo potere e tutti i suoi soldi per comprare i voti che gli servono - scrive nel suo blog l´ex pm - solo i ciechi possono mettersi a fare conti di bottega e stare lì col bilancino per vedere se una manifestazione è del loro o di un altro partito».
Dal centrodestra invece sparano a zero. «Bersani ha fatto un comizio anni ‘50», attacca Fabrizio Cicchitto. «Il segretario del Pd ha parlato come si faceva in quegli anni ma senza la forza del mito staliniano e senza il radicamento sociale fra la classe operaia, i braccianti e i disoccupati. Anche gli slogan di allora erano molto più efficaci di quelli attuali». In più, secondo il capogruppo del Pdl alla Camera, con l´impossibilità di scegliere le alleanze e l´incubo costituito da Vendola. «In sostanza - conclude - una manifestazione autoreferenziale che lascia le cose come stavano prima». O addirittura, secondo Daniele Capezzone, ancora peggio. Perché dopo piazza San Giovanni Bersani sarebbe più debole, «è tornato il Pds», il progetto democratico fallito: «Tutta la discussione interna ruota intorno a veltroniani e dalemiani, con la sempre più inesorabile marginalizzazione di riformisti e moderati».
(u. r.)

Repubblica 12.12.10
La tregua nel Pd per il B-day "Ora nessuna divisione"
Ma in caso di fiducia tutti i fronti si riapriranno
I timori di Letta: "Siamo costretti a seguire gli umori del mondo ex missino"
di Goffredo De Marchis


ROMA - L´attesa per il B-day. Di questo si parla dietro il palco di Piazza San Giovanni. Sarà un bivio anche per il Partito democratico. La sfiducia a Berlusconi compatterà un Pd che ieri ha portato tutti i dirigenti in piazza, senza distinzioni di corrente. «Sul governo di responsabilità nazionale non ci sono divisioni», conferma Walter Veltroni. La fiducia al governo invece romperà la fragile tregua tra i leader. Se l´esecutivo si salva, infatti, l´unità mostrata ieri anche plasticamente verrà messa in discussione. Beppe Fioroni ha già la miccia accesa: «Ginoble è dei miei e nessuno può dire che sia tra gli incerti per il voto di martedì. Anzi, lo porterò in aula con il fez e la camicia nera - dice sarcastico -. Così saranno i contenti i dirigenti del Pd che hanno flirtato con il nuovo messia Fini». Anche Enrico Letta, che dell´alleanza con il Terzo polo è un supertifoso, allarga le braccia: «Siamo costretti a seguire gli umori del mondo ex missino, è una sensazione un po´ strana».
Per il Pd, senza la caduta del Cavaliere, si apriranno fronti uno dopo l´altro. Il laboratorio siciliano sta per dichiarare fallimento. Il segretario regionale del Pd Giuseppe Lupo, prima di ascoltare Bersani in piazza, lancia l´ultimatum a Lombardo: «Possiamo aspettare ancora due mesi, dopo di che lo molliamo. Il governatore fa fatica a rispettare gli impegni che aveva preso. E pesa il macigno giudiziario». Anche l´esito del voto di martedì avrà un ruolo «non c´è dubbio», dice Lupo. A Torino, Bologna e Napoli poi gennaio è il mese delle primarie. In nessuna città il candidato sostenuto dal Pd ha la vittoria in tasca e una nuova sconfitta modello Milano avrebbe ripercussioni a Roma. I problemi non mancano. Sergio Chiamparino, sponsor di Fassino per il capoluogo piemontese, invita l´ex segretario Ds a prendere di petto la situazione bypassando le primarie e le trattative di queste ore: «Rivolga un appello alla città, subito. Se lo fa, ha già vinto. Altrimenti crescono le difficoltà». Il 15 gennaio Veltroni, proprio a Torino, lancerà di nuovo lo spirito del Lingotto presentando la sua piattaforma del Pd. E sullo sfondo resta la variabile elezioni. «Fini non tradirà - giura Dario Franceschini -. Non ci credo, si è spinto troppo avanti. Se due o tre dei suoi tornano con Berlusconi non sarà sconfitta la linea del presidente della Camera. Ma la strada in quel caso sono le elezioni a marzo».
Un altro percorso difficile per il Pd. Il 25 per cento che gli assegnano i sondaggi significa 70 deputati in meno. Bersani ha fatto sapere che le liste le faranno lui e i capigruppo. Questa notizia ha innervosito tutti. «Il tavolo va allargato», ha intimato il dalemiano Matteo Orfini. Per Movimento democratico Veltroni ha indicato Marco Minniti come mastino delle candidature. La decisione ha fatto infuriare Fioroni che da mesi viene dato sul punto di uscire dal Pd per confluire con i centristi di Casini.
Il quadro allarmante del Pd post 14 dicembre ha un lieto fine in caso di sfiducia a Berlusconi. «Che per me ci sarà - dice ottimista Franco Marini -. Non vedo il crollo di Fli». Ma Francesco Boccia, deputato lettian-dalemiano, ha indiscrezioni meno rosee. «Temo lo sfaldamento di Futuro e libertà e non escludo che il governo possa durare fino al 2013», è la sua previsione negativa. «Spero non sia così». Ma è meno pessimista sul futuro del Pd. «Anche con Berlusconi in sella faremo la nostra opposizione. Cercando la sponda di Casini, preparando l´alternativa». Pier Luigi Bersani dice di non essersi occupato della fiducia in un giorno di festa e di mobilitazione. «Oggi mi occupo di noi. Non ho parlato né con Fini né con Casini. Mi interessano i numeri di questa piazza non quelli della Camera». Il suo vicesegretario Letta però viene preso da parte da Veltroni e in un angolo i due s´interrogano sul 15 dicembre, cioè sul day after.
L´insuccesso della sfiducia darà di nuovo voce a chi ha sempre criticato il Cln antiberlusconiano. Matteo Renzi ha fatto ieri un passo indietro lasciando la manifestazione dopo 10 minuti e confessando su Facebook di essere stato contestato. Ma non rinuncerà a dire la sua contro Fini, come ha sempre fatto, tanto più nel caso di una sconfitta parlamentare. Vendola ricomincerà a cannoneggiare il Pd, chiedendo primarie a tappeto, lanciando la sua sfida nei comuni con candidati alternativi al Pd. In pratica confermerà l´Opa sul mondo democratico che gli ex popolari di Fioroni denunciano da settimane. E che li sta spingendo sempre di più lontano da un «Pd di sinistra che non parla a un popolo largo».

Corriere della Sera 12.12.10
La festa che non c'è
di Paolo Franchi


La manifestazione del Pd a San Giovanni era stata presentata, incautamente, come una festa anticipata di liberazione da Silvio Berlusconi e dal suo governo. Ma le opposizioni non hanno, almeno per il momento, niente da festeggiare. E il discorso di Pier Luigi Bersani tutto è stato, fuorché festoso. Con ironia di impronta dalemiana, un autorevole esponente del partito, Nicola Latorre, aveva annotato nei giorni scorsi che il Pd, quando le sue difficoltà si fanno più acute, pensa di cavarsela con una grande mobilitazione di piazza: lo aveva fatto due anni fa Walter Veltroni, lo ha fatto adesso Bersani. C’è, in questa battuta maliziosa, un elemento di verità. Ma sarebbe ingeneroso dire che la manifestazione di ieri sia servita pressoché soltanto a certificare l’esistenza in vita politica del Pd, e a riscaldare il cuore di militanti frastornati (e probabilmente anche annoiati) da una interminabile guerriglia interna, e sconcertati all’idea di vedere affidate le prospettive del più grande partito di opposizione all’esito del voto di fiducia di martedì. A queste e ad altre simili preoccupazioni Bersani, che non ha conigli da estrarre dal cappello, non ha dato, e non poteva dare, risposte politiche compiute. Una cosa però poteva fare, e in ultima analisi ha cercato di farla, soprattutto nella seconda parte del suo discorso: provare a scrollare dalla testa degli elettori, in primo luogo dei suoi, l’idea che questa crisi — in un certo senso storica perché segnala, e nel peggiore dei modi, l’esaurirsi di un ciclo politico lungo più di un quindicennio — sia tutta e solo interna al centrodestra, e che di conseguenza il centrosinistra e la sinistra possano al massimo scegliere tra fare da spettatori o svolgere un ruolo ancillare.
A Bersani, fin qui ben più dell’assenza di un carisma da leader (assenza che oltretutto considera non un limite, ma quasi una virtù repubblicana), è stato rimproverato, prima di tutto nel suo partito, di non avere alcuna idea di particolare rilievo sull’identità e la natura del Pd. Di navigare a vista perdendo pezzi al centro aprendo pericolosi varchi a sinistra, fino a esporsi al rischio concreto di vedersi pesantemente insidiato in casa propria da Nichi Vendola in caso di primarie. Di aver archiviato la «vocazione maggioritaria» cara al suo predecessore senza sostituirla con nessun’altra vocazione, a meno che non si voglia considerare tale la disponibilità alle alleanze più diverse al solo fine di chiudere il più rapidamente possibile l’età berlusconiana. Di aver frustrato le ambizioni di un Pd eternamente allo stato nascente illudendosi di poterlo governare come un Pci in versione bonsai. È probabile, anzi è certo che critiche e contestazioni di questa natura (non tutte infondate, ci mancherebbe) restino in piedi, e siano destinate anzi a riprendere quota e vigore se dopodomani Berlusconi, seppure per un soffio, seppure sull’onda di una campagna acquisti a dir poco spregiudicata, riuscisse a tenere la fiducia di Montecitorio. Ma è giusto sottolineare che ieri, forse per la prima volta, Bersani — oltre ad attaccare con molta durezza Berlusconi e quasi tutti i suoi ministri, oltre a confermare la proposta di un governo di responsabilità nazionale, per fare la riforma elettorale e prendere poche misure sull’economia prima del voto — ha detto con una certa chiarezza quale partito ha in testa. Dando quasi per scontato che quello esistente non va.
Per dirla in sintesi estrema, senza disperdersi in citazioni, il Pd che vorrebbe Bersani (non a caso assai attento alla dimensione continentale della crisi) è una forza molto simile, anche se per motivi tutti italiani si chiama diversamente, ai grandi partiti socialisti e social democratici europei; un partito che fa i conti con quello che si muove, e non è pochissimo, alla sua sinistra, e nello stesso tempo propone non un’intesa tattica, ma un’alleanza strategica al centro. Non sarà una novità assoluta: un esito simile è quello che denunciano come un pericolo mortale un giorno sì e l’altro pure gli avversari del segretario ma vorrà pure dire qualcosa il fatto che il segretario l’abbia voluta notificare direttamente alla sua gente. Con le parole e i toni di chi lancia un messaggio rivolto forse più agli elettori che alle varie, litigiose componenti del Pd.

il Fatto 12.12.10
UE contro l'Italia
Immigrati, è Natale e la legge è da rifare
di Marco Palombi


È Natale anche per i clandestini (e pure per i Tribunali). Santa Klaus gli porta in dono la direttiva europea 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, meglio nota come “direttiva rimpatri”, il cui termine per l’applicazione nei paesi membri scade proprio il 24 dicembre e finirà per cancellare un bel pezzo della Bossi-Fini. Detta in maniera spicciola si tratta di un complesso di norme che regolano “il rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare” e che, al momento dell’approvazione, si attirò critiche di ogni genere (l’Onu la bollò addirittura di “razzismo”): una legge dura, insomma, ma rispetto a quella italiana il paradiso dei diritti del migrante. 
IN QUESTI DUE ANNI i singoli stati avrebbero dovuto adeguare le loro leggi a quelle comunitarie, l’Italia però lo ha fatto a modo suo: coi vari pacchetti sicurezza ne hanno preso solo le parti che potevano peggiorare il trattamento dei   clandestini (vedi il prolungamento da due a sei mesi del trattenimento nei Cie). Adesso, però, non ci sono più deroghe: la direttiva europea sarà pienamente operativa a Natale e, dunque, vincolante anche per noi visto l’articolo 117 della Costituzione. Procure e Tribunali dovranno applicarla o, se non se la sentono, ricorrere alla Consulta o alla Corte di Giustizia Ue ed è prevedibile che quest’ultima, per lunga giurisprudenza, faccia strame della legge italiana. E qui viene il bello.
“Il sistema di rimpatrio delineato dalla normativa europea è incompatibile col nostro”, spiega l’avvocato torinese Guido Savio, uno dei membri dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. La direttiva Ue, in buona sostanza, finirà per disapplicare, come si   dice tecnicamente, parti sostanziose del Testo Unico italiano sull’immigrazione. Vediamo perché. Per la Bossi-Fini il clandestino va espulso subito, preso di peso e rimandato a casa. Se questo non è possibile perchè non si sa da dove viene o non c’è un accordo col suo paese, lo si parcheggia nel Cie fino a soluzione del problema. Questo sulla carta: i posti nei Centri sono pochi, i soldi per i rimpatri coatti ancora meno e magari il tizio non verrà mai identificato. Risultato: solo un terzo delle espulsioni “cartacee”, dice la Caritas, sono reali. “La direttiva invece – spiega ancora Savio – prevede l’allontamento forzato solo in casi estremi e punta tutto sul rimpatrio volontario con una sorta di meccanismo premiale: caro migrante, se te ne vai da solo potrai tornare regolarmente,   altrimenti scatta il divieto di ingresso per cinque anni (in Italia sono 10, ndr). Di più, il trattenimento nei Cie per la Ue è l’estrema ratio, per l’Italia la regola”. Ma è un altro, implicito, l’effetto di maggior peso.
LA DIRETTIVA è incompatibile col trattamento “penale” della clandestinità scelto dal governo Berlusconi, in particolare coi famigerati commi ter e quater dell’articolo 14 della legge sull’immigazione, che ingolfano i tribunali e ne svuotano le casse essendo inutilmente responsabili di almeno la metà dei processi per direttissima. In quelle righe si prevede quanto segue: lo straniero che non rispetta l’ordine del questore di andarsene entro cinque giorni si becca da uno a quattro anni di galera e, se insiste dopo il secondo ordine,   da uno a cinque anni. Ancora Savio: “In questo modo si può privare il clandestino della libertà praticamente all’infinito: ti arresto e ti metto in un Cie; non riesco ad espellerti allora ti ordino di andartene; non lo fai, ti arresto e ti do quattro anni; tu   resti ancora e te ne do cinque; quando esci si ricomincia dal Cie”. La direttiva Ue, invece, “stabilisce che il clandestino può essere trattenuto per un massimo di 18 mesi».
Lo sanno tutti che questa è una bomba atomica. Lo sa pure il governo, che infatti ha provato riparare a modo suo. Siccome la direttiva consente agli Stati di fare un’eccezione per quegli “stranieri sottoposti a rimpatrio come sanzione penale”, a palazzo Chigi si sono inventati il trucchetto del reato di clandestinità. Pena: o 10mila euro di ammenda o l’espulsione.   “”È una truffa che la Ue non accetterà mai” insiste Savio, perché così la norma comunitaria in Italia non avrebbe corso, visto che tutti i clandestini commettono il reato di essere quello che sono: questo, hanno spiegato autorevoli studiosi, violerebbe il principio “dell’effetto utile” (sancito dalla Corte di giustizia) perché vanifica gli intenti stessi della norma comunitaria. Risultato: nuove procedure di infrazione e nuove multe. Ecco perché questo 24 dicembre è Natale per i clandestini (e pure per i Tribunali).

Repubblica 12.12.10
Cina, la rivolta delle seggiole scacco alla censura sul Nobel
Centinaia di sedie, vuote come quella di Oslo, lasciate per strada come forma di sostegno a Liu
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Anche una sedia può discretamente dissentire. Se è vuota può addirittura opporsi, e molto. È l´effetto-Liu sulla Cina.
Centinaia di sedie vuote, vecchie, rotte e davvero quasi tutte unte come quelle che si offrono in cella, sono apparse da ieri notte fuori dalle case, allineate lungo le strade come un esercito silenzioso e disarmato. Dopo qualche ora di stupore anche la polizia ha compreso di sfilare davanti alle sedie vuote di un dissenso cinese che credeva defunto, costretto a nascondersi come un sorcio zoppo, o chiuso in gabbia. L´esposizione prodigiosa era ispirata dalla sedia vuota che venerdì ha ritirato il Nobel inconsegnabile di Oslo. Era per Liu Xiaobo, a cui è stata negata la felicità di toccare con le mani il ricordo che voleva dedicare alle anime morte di piazza Tiananmen.
Le sedie vuote cinesi erano però anche un inaudito rimprovero popolare: un modo per dire al governo, con educazione orientale, che una parte di questa grande nazione si è vergognata, sentendosi infine più vicina ad un uomo solo che è stata indotta a disprezzare, piuttosto che dalla parte delle certezze eccessive di un apparato dubbioso che è consigliabile temere. A Pechino, Shanghai, Hong Kong, Guangzhou e Shenzhen sono iniziati così gli arresti delle minacciose sedie vuote. Dissidenti, attivisti, amici e parenti anche di chi osa dichiararsi non del tutto entusiasta, a piede libero non ne restano più.
Poliziotti di quartiere e "volontari socialisti" sono stati dunque impegnati fino al tramonto nella complessa retata delle seggiole dedicate al signor Liu.
Questi sgangherati simboli della resistenza sono stati esposti anche lontano dalle metropoli, nelle città e nei villaggi. Qualcuno ha acceso sulla seduta una candela, ha steso un fiore, lasciato un biglietto, o deposto un biscotto.
La rivolta delle sedie vuote ha spaventato il partito quando è parsa dilagare nelle università. In quattro facoltà le lezioni sono state sospese per due ore e le sedie trovate nei cortili sono state rimosse. In diversi ristoranti, tavoli di gruppo erano prenotati con un posto in più, lasciato libero. Nel centro di Pechino le sedie sequestrate, sollevate come delinquenti, sono state gettate dentro furgoni grigi per sparire come avviene a chi protesta. La grande retata mobiliare si è conclusa con il buio ed è stata condotta con discrezione.
Ufficialmente la polizia ha «accelerato lo sgombero di edifici da ristrutturare». I proprietari delle sedie hanno spiegato di essersi solo liberati «di roba che non ci stava più». Alle forze di sicurezza sono saltati i nervi perché nemmeno in Cina esporre una sedia fuori di casa, o abbandonarla su un marciapiede, è un reato. Nessun arresto è stato eseguito e gli scranni sono spariti perché «intralciavano la circolazione». Il potere è stato però colpito più dalla protesta delle sue sedie che dalla testimonianza di quella di Oslo.
Due giorni fa aveva spaventato con la perfezione di censura e propaganda. Nessuno ha potuto ritirare il premio, non una voce s´è alzata in patria per ringraziare Liu Xiaobo e un vortice di accuse ha travolto Nobel e Usa. La falla aperta nella rete del controllo sociale ha rivelato invece una fragilità inattesa, confermando che ormai è il web la prima leva del cambiamento. È stato il tam-tam online, aggirando i filtri del regime, a lanciare la beffa delle sedie e a invitare ad esporle quanti nel mondo amano sentirsi liberi. Due immagini diffuse sul Twitter made in China hanno mostrato una bandiera cinese con gli auguri a Liu Xiaobo, appesa all´università di Changsha, nello Hunnan. Gli hacker di Stato l´hanno subito distrutta, ma tra gli internauti ormai la sfida era partita e la Rete s´è riempita di inni: «Nessuno può fermare la sedia vuota», o «Liu oggi è diventato il nostro leader». Microblog hanno rilanciato una poesia della dinastia Tang sul dolore dell´assenza di un fratello nel giorno della festa e l´esposizione delle sedie per Liu, reali e virtuali, è scoppiata.
È presto per capire se è tanto o poco, ma il dopo - Nobel inquieta. Pechino non sa come uscire dalla detenzione di Liu Xiaobo, di sua moglie e dei dissidenti arrestati all´annuncio del premio. Il resto del mondo è nell´imbarazzo di riprendere come nulla fosse gli affari vitali con un regime che ha mostrato un profilo terrorizzante e sempre più di successo. Il signor Liu, come noi, è sospeso sopra l´incerto confronto tra i due campi definiti dallo storico Nobel 2010: una sedia vuota, o la cyberguerra delle dottrine.

Repubblica 11.12.10
Un giorno il mio Paese sarà libero
di Liu Xiaobao


La Cina alla fine diventerà una nazione governata dal diritto, dove i diritti umani saranno messi al primo posto
Cara moglie, il tuo amore è la luce del sole che scavalca le mura del carcere. Riempie di senso ogni minuto che trascorro dietro le sbarre
Voglio ribadire a questo regime che io rimango fedele ai principi espressi nella Dichiarazione per lo sciopero della fame del 2 giugno, vent´anni fa: io non ho alcun nemico e non provo nessun odio

Questo è uno stralcio del discorso letto ieri dall´attrice Liv Ullmann alla cerimonia di consegna del Nobel per la Pace. E´ stato scritto da nel dicembre del 2009, quando venne condannato dal regime di Pechino a 11 anni di carcere

Nel corso dei miei oltre cinquant´anni di vita, il giugno del 1989 ha rappresentato uno spartiacque. Fino a quel momento ero un esponente della prima generazione di studenti entrati all´università dopo la reintroduzione degli esami d´ingresso che la Rivoluzione Culturale aveva abolito. Dopo aver completato gli studi rimasi all´Università Normale di Pechino per insegnare. Gli studenti mi accolsero bene. E nel frattempo facevo l´intellettuale pubblico, scrivevo articoli e libri che suscitarono un certo clamore negli anni 80. Dopo il 4 giugno del 1989 fui gettato in prigione con l´accusa di «propaganda controrivoluzionaria e istigazione» perché ero tornato dagli Stati Uniti per prendere parte al movimento di protesta.
Sono passati vent´anni, ma i fantasmi del 4 giugno non sono ancora svaniti. E ancora adesso mi ritrovo sul banco degli imputati a causa della mentalità del nemico che ha il regime. Ma voglio ribadire a questo regime che mi sta privando della libertà che io rimango fedele ai principi espressi nella «Dichiarazione per lo sciopero della fame del 2 giugno», vent´anni fa: io non ho alcun nemico e non provo nessun odio.
L´odio può corrompere l´intelligenza e la coscienza di un individuo. La mentalità del nemico può avvelenare lo spirito di una nazione, istigare contese feroci e mortali, distruggere la tolleranza e l´umanità di una società e ostacolare il progresso di una nazione verso la libertà e la democrazia. Per questo spero di riuscire a guardare allo sviluppo della nostra nazione e al cambiamento sociale trascendendo le mie esperienze personali, per contrapporre all´ostilità del regime la massima benevolenza, e per dissolvere l´odio con l´amore.
Proprio per queste mie convinzioni e per la mia esperienza personale sono fermamente convinto che il progresso politico della Cina non si arresterà, e guardo pieno di ottimismo all´avvento di una futura Cina libera. Perché nessuna forza può sconfiggere la ricerca di libertà dell´uomo, e la Cina alla fine diventerà una nazione governata dal diritto, dove i diritti umani sono messi al primo posto.
Se mi è consentito, vorrei dire che l´esperienza più fortunata di questi ultimi vent´anni è stato l´amore disinteressato che ho ricevuto da mia moglie, Liu Xia. Lei non ha potuto essere presente qui in aula oggi, ma voglio comunque dirti, mia cara, che sono fermamente convinto che continuerai ad amarmi come sempre. In tutti questi anni in cui sono stato privato della libertà, il nostro amore è stato pieno di amarezze imposte dalle circostanze esterne, ma quando ne assaporo il retrogusto rimane un amore sconfinato. Sto scontando la mia condanna in una prigione tangibile, mentre tu mi aspetti nella prigione intangibile del cuore. Il tuo amore è la luce del sole che scavalca le mura del carcere e penetra fra le sbarre della finestra della mia cella, carezzando ogni centimetro della mia pelle, scaldando ogni cellula del mio corpo, permettendo al mio cuore di rimanere sempre in pace, aperto e radioso, e riempiendo di senso ogni minuto che trascorro in carcere. Il mio amore per te, per altro verso, è talmente pieno di rimorsi e rimpianti che a volte vacillo sotto il suo peso. Sono una pietra inanimata in mezzo alla natura, sferzata da venti violenti e piogge torrenziali, tanto fredda che nessuno osa toccarmi. Ma il mio amore è solido e acuminato, capace di perforare ogni barriera. Anche se fossi ridotto in polvere, userei le mie ceneri per abbracciarti.
Mia cara, con il tuo amore posso affrontare con calma il mio imminente processo, senza avere rimpianti per le scelte che ho fatto e aspettare con ottimismo il domani. Attendo con ansia il giorno in cui il mio Paese sarà una terra con libertà di espressione, dove le opinioni di tutti i cittadini saranno trattate allo stesso modo; dove valori, idee, credenze e opinioni politiche diverse potranno confrontarsi fra di loro e coesistere pacificamente; dove saranno garantite allo stesso modo le opinioni della maggioranza e quelle della minoranza, e dove in particolare saranno pienamente rispettate e protette le opinioni politiche che differiscono da quelle temporaneamente al potere; dove tutte le opinioni politiche potranno essere espresse alla luce del sole perché i cittadini possano scegliere quale li convince di più, dove ogni cittadino potrà affermare le sue opinioni politiche senza timore, e dove nessuno, in nessuna circostanza, potrà essere perseguitato per aver espresso opinioni politiche divergenti. Spero di essere l´ultima vittima delle interminabili inquisizioni letterarie cinesi, e che da questo momento in poi nessuno venga più incriminato per le sue opinioni.
La libertà di espressione è il fondamento dei diritti umani, la fonte dell´umanità e la madre della verità. Strangolare la libertà di espressione significa calpestare i diritti umani, soffocare l´umanità e sopprimere la verità.
Per poter esercitare il diritto alla libertà di parola accordato dalla Costituzione bisogna adempiere al proprio dovere sociale di cittadino cinese. Non c´è nulla di criminale in tutto quello che ho fatto. Ma se mi si accusa per questo, non ho rimostranze da fare.
(Traduzione  Fabio Galimberti)

Repubblica 12.12.10
La figlia di Hitler
"Io, bambina fabbricata dal Reich"
Si chiamava Piano Lebensborn: bambini "di pura razza ariana" nati solo per volere del Terzo Reich Barbara Orlop è una di loro
di Andrea Tarquini


Una madre fanatica ariana, un padre ufficiale nazista, un programma chiamato "Lebensborn" per creare la razza perfetta. La storia di Barbara Orlop e di altri migliaia come lei: nati per volere del partito, affidati a famiglie fedeli, abbandonati dopo la caduta. E costretti a ricostruirsi una vita distrutta da quando hanno saputo come sono venuti al mondo

RUDOLSTADT (Turingia) «Con mia madre feci pace solo due anni prima della sua morte, ma non riuscii mai a chiamarla mamma. L´uomo che mi generò non lo conobbi mai, morì da nazista convinto sul fronte russo. Non l´ho mai sentito come un padre, ho vissuto col timore di vergognarmi di suoi possibili crimini di guerra. Eccomi, io fui uno dei tanti bambini nati con l´organizzazione Lebensborn, gli ariani perfetti voluti da Hitler. Riuscii a darmi da sola la vita normale che il nazismo mi negò organizzando la mia nascita, solo da adulta seppi com´ero nata. Oggi sono una nonna felice, anche se l´uomo che mi ridette una vita, mio marito, è appena morto, stroncato dal cancro».
Il paesaggio innevato splende dalla terrazza della casetta di Rudolstadt, tra valli e colline boscose e quasi toscane della Turingia, dove ascolto Barbara Orlop narrare i suoi ricordi. Lebensborn, fonte della vita, si chiamava quella creazione della demoniaca perfezione nazista.
Nei centri Lebensborn le donne nubili provatamente ariane e fedeli alla tirannide potevano incontrarsi con giovani, aitanti uomini altrettanto ariani e fedeli. Il più delle volte, soldati o ufficiali delle Ss. Dovevano incontrarsi per procreare, oppure se avevano già fatto sesso prima con un uomo ariano e nazista doc la madre partoriva là. Poi il bimbo diveniva proprietà del Partito-Stato. Veniva affidato a famiglie di piena fiducia delle Ss, della Gestapo, della Nsdap (il partito nazista). L´Rsha, l´ufficio centrale per la sicurezza del Reich, vegliava su tutto. Niente famiglia naturale, ma bimbi ariani da spargere per il Paese, per procreare la razza superiore. Non dovevano essere persone felici, solo perfetti e fedelissimi ariani.
«Classe 1918, mia madre Else aveva subito un trauma tremendo. Sua mamma si tolse la vita nel 1933, fu lei a trovare il cadavere. Dall´inizio mia madre fu una nazista convinta, si iscrisse alla Nsdap, divenne capo del Bund deutscher Maedchen, l´Unione delle fanciulle tedesche, a Erfurt». Mentre parliamo Frau Barbara offre un buon caffè caldo con ottimi dolci, tradizione dell´ospitalità e del quotidiano familiare dei tedeschi. Apre una cartella conservata con cura, mostra documenti e foto della sua vita. «Ecco, guardi, questa era mia madre da giovane… e questo palazzotto nel verde è l´istituzione nazista dove sono nata io». Edificio Lebensborn a Wernigerode, Hartmannsweg numero uno. Là, come dice il freddo certificato di nascita nazista stilato da un´anagrafe speciale e segreta, con tanto di timbro con l´aquila che sormonta la svastica, Barbara vide la luce. Come bimba dichiarata benvenuta nel Reich dal regime, ma non voluta dalla mamma. «Lei e l´uomo che mi generò si conobbero negli ambienti delle organizzazioni naziste. Lui era un militare, già sposato». Andarono a letto insieme, erano entrambi ariani. Lei scelse di partorire con l´organizzazione Lebensborn. «Non aveva detto a nessuno in famiglia, neanche ai suoi fratelli, di essere iscritta al partito, e solo molto dopo loro seppero che aveva avuto un bambino».
Era il novembre 1940, Hitler aveva già scatenato la Seconda guerra mondiale quando Barbara venne al mondo, battezzata come tutti i bimbi Lebensborn con un tetro cerimoniale nazista: ufficiali Ss officianti all´altare, il pugnale Ss sul petto del neonato. Varsavia, Danzica, Rotterdam e Coventry erano state rase al suolo dalla Luftwaffe, quasi tutta l´Europa era occupata dalla Wehrmacht e - tra un´America ancora neutrale e l´Urss che si era spartita la Polonia con i nazisti - nel mondo in cui Barbara nacque, solo caccia Hurricane e Spitfire della Royal Air Force resistevano, nel cielo sopra Londra, alla Germania che sembrava invincibile. I tedeschi non avevano ancora assaggiato la guerra in casa, il consenso alla tirannide restava altissimo. Else accettò subito la proposta del Lebensborn: dare Barbara in adozione a una famiglia di fiducia del regime. Non ci pensò un momento, le sue certezze poggiavano tutte sulla fede nel Fuehrer, non sull´affetto verso la piccola. «Fin dall´estate del ´41, passai come una palla da una famiglia affidataria a un´altra. Alla fine approdai a Tautenburg dalla famiglia F., e lì crebbi», racconta Barbara mostrando le foto di lei piccola in braccio alla madre adottiva. «Mamma e papà adottivi furono buoni con me. Finché il regime restò al potere furono ricompensati con soldi e aiuti in natura, il letto per me, la carrozzina, i vestiti, ogni rifornimento. Qualche soldo glielo mandava anche mia madre, ma si faceva vedere poco o mai, non voleva che la riconoscessi».
Nel 1945, la svolta. Per il mondo, e per la vita della piccola Barbara. «Nella Germania distrutta dalla guerra di Hitler regnavano freddo, fame e miseria. Ai miei genitori adottivi andava malissimo, mio padre guadagnava a stento qualcosa come operaio forestale. Mia madre, quella vera? Non so come visse la fine della dittatura in cui aveva gettato anima e corpo, ma so che di tanto in tanto continuava a mandare dei soldi. Continuavano anche le sue visite, là da loro, dove crescevo, e io cominciai a sospettare che la mia vera madre fosse lei. Ma a ogni mia curiosità o bisogno d´affetto lei reagiva con freddezza infastidita. Sapeva solo criticare, davanti a me bambina, il modo in cui mi educavano e mi crescevano. I miei genitori adottivi furono sempre molto cari con me, ma per le loro figlie naturali io ero "il verme", il "parassita". Quella che rubava dai loro piatti il poco che c´era da mangiare. Furono dure, aggressive con me».
Ogni giorno, crescendo, Barbara si sentiva più sola, diversa dagli altri, coetanei e adulti. «Il Natale, anche per i bambini di quella Germania che Hitler aveva lasciato distrutta, all´anno zero, era la festa più attesa e gioiosa. Ma i miei genitori adottivi avevano troppo poco, e non ce la facevano a scontentare le loro figlie naturali. Quando veniva il momento della distribuzione dei doni sotto l´albero, a me dicevano "il tuo Natale arriverà quando verrà tua madre". Ma mia madre ormai non si faceva più vedere, nemmeno per portare qualche soldino in più per farmi un regalo. Passai molte notti sveglia, piangendo nel mio lettino, sognandola e aspettandola invano».
Venne il dopoguerra della Germania divisa. Barbara si trovò a crescere nella Ddr. «Mi sentivo sola al mondo, capivo che la mia madre vera non mi aveva mai voluto, ma non sapevo ancora perché e come ero nata. La disperazione mi spinse a farmi avanti. Dalla piccola Tautenburg, il villaggio dove vivevo con la famiglia adottiva, andai da sola alla scuola di Dorndorf, la più vicina. Chiesi al preside di accettarmi. Di mia iniziativa. Erano anni poveri, andavo a scuola facendo sette chilometri a piedi, quando andava bene il lattaio o il becchino del paese mi davano un passaggio col furgone del latte o con il carro funebre. Conseguii la Abitur, la licenza liceale, cominciai gli studi superiori in un collegio di Stato. Nel weekend ero l´unica a restare al collegio, non avevo una famiglia dove andare. I miei genitori adottivi mi avevano già congedato, era venuto "il momento di salutarsi", mi avevano detto. Conobbi lì mio marito, ci sposammo presto. Solo allora mia madre si fece viva, per dirmi di "non sposarlo, è solo un operaio". Ma noi studiammo, diventammo insegnanti. Lui mi riportò alla vita, mi ha regalato un´esistenza felice di moglie, di madre e nonna».
L´età adulta fu per Barbara la rivincita col passato, per costruirsi una vita normale. I figli, poi i nipoti. «Il passato riemerse nel 1968, durante una gita organizzata dal sindacato. A Wernigerode. Sapevo che ero nata là ma nulla di più. Chiesi informazioni, e per la prima volta appresi - vede questo certificato con la svastica? - che ero nata non per far felice una coppia, una famiglia, ma per i disegni razzisti del Reich». I contatti con la madre si fecero più radi. «Dal 1970, lei volle rompere ogni rapporto con me. Non mi ha voluta vedere per trentasette anni, fino a due anni prima della sua morte». Altre svolte: la crisi del blocco sovietico, la caduta del Muro, la riunificazione. «Nel 2007, ormai anziana e malata, accettò di vedere me, i miei figli, i miei nipoti. A volte piangeva, mi disse "non hai mai avuto nulla da me". "È acqua passata", le rispondevo. Non la chiamai mai mamma, ma accettai le sue lacrime, le fui vicina sul letto di morte. Eppure non volle mai rivelarmi nulla, mai, fino al suo ultimo respiro. Poi riuscii da sola a scoprire chi era l´uomo che mi aveva generato. Trovai il suo certificato di morte: caduto in battaglia a Nikola´evka, sul fronte russo, il 27 luglio 1943, nei ranghi del 542mo reggimento granatieri della Wehrmacht, col grado di sottufficiale».
«Coraggio, mamma, quel che non t´uccide ti rafforza», le dice il figlio. Barbara è scossa dai ricordi. Poi si riprende, racconta ancora. «Ogni anno ci incontriamo, a Wernigerode, noi figli del Lebensborn. Io e altre due donne, una belga e una norvegese, abbiamo storie simili, ci chiamiamo "sorelle". Siamo tre donne forti, andiamo avanti. Ma la maggioranza degli ex bimbi Lebensborn che si rivedono o si conoscono a quei raduni sono persone distrutte. Distrutte da quando seppero come e perché sono venute al mondo».

Repubblica 12.12.10
Reds. L'ultimo comunista americano
Falce e strisce
di Angelo Aquaro


Si chiama Bertell Ollman, professore marxista. Inventò "Lotta di classe", un monopoli socialista per educare le masse operaie. Ancora oggi lui e i compagni si riuniscono a due passi da Wall Street per giocarci, fare militanza e parlare di politica E per prepararsi alla rivoluzione

Bandiera rossa la trionferà: sull´Empire State Building? «Io sono convinto che questa sia una crisi terminale: le cose non vanno per niente meglio. Lo so: Marx non credeva alle crisi terminali. Ma solo perché scriveva centocinquant´anni fa. E questa, davvero, è una situazione che non avrebbe mai potuto prevedere». E no che non poteva: chi se lo poteva immaginare che gli ultimi comunisti si arroccassero proprio qui, nel cuore del cuore del capitale, a due passi da Wall Street? Manhattan, interno notte, stanza 221 della New York University, secondo piano del civico 19 West, Quarta strada. Il professor Bertell Ollman, classe 1936, l´inventore di Lotta di classe, il primo "monopoli socialista" della storia, il gioco con cui trent´anni fa cercò di educare al comunismo nel paese dello Zio Sam, parla di Marx & Obama, Sarah Palin e Friedrich Engels, trade union e robot. E c´è solo un argomento che lo distoglie dalla rivoluzione imminente: «Ma come funziona davvero questo Bunga Bunga?».
Due blocchi più in là, al 42 di Washington Square, giusto cent´anni fa svernava John Reed, l´eroe che l´America conosce più che altro per Reds, il film di Warren Beatty, e che prima di raccontare dalla Russia dei Soviet I dieci giorni che sconvolsero il mondo spendeva le notti scrivendo qui A Day in Bohemia: poemetto mediocre sulla vita d´artista nel Village. Dall´altra parte della piazza cantata da Henry James - dove «con un´aria spaziosa e confidente, che già lasciava presagire i suoi alti destini» inizia la Quinta Avenue - ecco tra Bank e Between Street, proprio lì di fronte all´Hudson, le sale del Brecht Forum. L´altra sera c´era Peter Marcuse, che a ottantadue anni tutti continuano a chiamare ancora «il figlio di Herbert», e da vero comunista ha dedicato una vita alla pianificazione, anche se solo a quella urbana. «Approcci alternativi alla questione della casa: socialismo, socialdemocrazia e capitalismo» era il titolo della lezione, quarto seminario della New York Marxist School, per il modico prezzo di 45, 55 o 65 dollari, «scegli a seconda delle tue possibilità: e grazie del supporto». Un po´ più a nord, dove il Village s´è già stemperato in Chelsea, il quartiere dei pittori e delle gallerie, il New York Communist Party attende i simpatizzanti al 205 West della 23esima strada: tra un negozio di articoli per la pittura e quel Chelsea Sewing Center col suo esercito di cinesini sempre chini sui rammendi. Ma siamo a Manhattan o sulla Piazza Rossa? E quella è Wall Street o il vecchio Cremlino?
La storia sembra contrarsi come un buco nero proprio qui, nel centro del mondo, nel primo decennio del nuovo millennio. E in questo dedalo di contraddizioni ti confonde ancora di più scoprire che il leader dei comunisti di New York è un giornalista quarantenne che si chiama, manco a dirlo, Libero, che di cognome fa Della Piana ed è un afro-italo-americano che sogna di importare negli States il «Socialismo del ventunesimo secolo» teorizzato da Hugo Chávez: e però intanto fa campagna per Barack Obama. «Che peccato che proprio in Italia, il paese di Togliatti e Gramsci, i comunisti non siano più quelli di una volta». Conosce la situazione? «So che la sinistra non è riuscita a restare unita dopo il crollo del vecchio Pci. Oh, i miei venivano dall´Abruzzo: tanti democristiani, ma c´è pure un cugino consigliere di Rifondazione». Anche la storia del professor Ollman sfiora quella d´Italia. Il suo gioco, Class Struggle, fu tradotto nel 1979 da Mondadori («Davvero oggi anche questa è di Silvio Berlusconi?»). E anzi l´Italia «con il più forte partito d´occidente» fu il paese nel quale il monopoli socialista vendette di più. «Solo che il lancio del gioco coincise con l´arresto di Toni Negri: e io avevo firmato una petizione in suo favore. Mondadori era terrorizzata dall´associare il mio nome a quel caso». Il professore è ancora oggi uno dei più grandi teorici del marxismo ma la sua curiosità l´ha portato a contaminare il vecchio Karl con le discipline più diverse. I suoi libri si chiamano Alienazione ma anche Rivoluzione sociale & sessuale. E la sua fama è legata appunto a quel monopoli socialista che in America nessuno voleva pubblicare. Dovette improvvisarsi, proprio lui, piccolo imprenditore: e autoprodurlo. Un´avventura che ha poi raccontato nel libro Confessione di un businessman marxista: vi stupisce che la sua nomina a preside dell´università del Maryland fu stoppata da un certo Samuel Hoover, fratello del più noto J. Edgar, mitico direttore-padrone dell´Fbi?
Essì: sempre stata dura la vita dei Reds in America. Eppure al Brecht Forum, che Ollman ha contribuito naturalmente a fondare, oggi c´è la fila come ai saldi di Gap o Banana Republic. E il Partito Comunista di New York proprio quest´anno - sbandiera con orgoglio il compagno Libero - ha ricevuto la bellezza di settecento domande di iscrizione. Ma come si fa a coniugare Obama e l´Internazionale? «Questo è il nostro novantunesimo anno di vita e quindi è chiaro che la nostra fondazione è ispirata alla Rivoluzione russa: primo esempio di successo del governo "della" e "per la" classe operaia...». Via, Libero, non ce lo venga a raccontare proprio a noi, lei da New York. «Ma la tradizione sovietica si è anche macchiata di tanti errori e tanti crimini. Commessi contro il suo stesso popolo. In nome del socialismo». Ah, ecco. E che cosa vuol dire, allora, essere comunisti, oggi, a Manhattan, anno del Signore 2010? «Nessuno oggi sa più bene che cosa vuol dire essere comunisti: io so solo quello che nel nostro piccolo cerchiamo di fare qui a New York. Stare nei movimenti. Combattere nei quartieri. Sui posti di lavoro. Nelle università. Impegnarsi sulla questione della casa. Dell´educazione pubblica. Dell´ambiente. La battaglia contro il razzismo. Il sessismo. La xenofobia. Il lavoro comune con i sindacati. Con le chiese...»
Con le chiese? Ollman vede un alleato insperato perfino nei Tea Party. «La loro rabbia verso le banche è motivata. Certo è appena il primo stadio: le banche, si sa, sono solo un´espressione del potere capitalista. Però finalmente gli americani si rendono conto: si parte da qui». E per dove? «Per la rivoluzione». Scusi: con la rivolta del proletariato e tutto quel che segue? «Macché: con il voto. Io da marxista americano credo in una società socialista ma democratica. Certo: negli ultimi anni ci stanno rubando anche quello. Non solo Bush contro Gore: sa quanti casi ci sono stati alle elezioni di midterm? E vedrà con la diffusione del voto elettronico». Eccolo là, un classico della sinistra: complottismo & rifiuto del nuovo. O no? Il professore che per educare le masse inventò il monopoli socialista ora sorride malizioso. Oddio, ha un´altra idea: «Ma se provassimo a lanciare in Italia il gioco del Bunga Bunga?».

Repubblica 12.12.10
Frankenstein
Casa dolce casa quel mostro umano in cerca d'affetto
di Mario Serenellini


Mogli, figli, nipoti, amanti, cani: mai nessun personaggio cinematografico ha avuto un albero genealogico fitto come quello nato dal romanzo di Mary Shelley. Ora una rassegna cinematografica torinese li mette insieme tutti. A partire dalla versione restaurata del primo cortometraggio girato esattamente cent´anni fa

Già Dio era corso subito ai ripari, riciclando una costola per dare al primo uomo una compagna e, sia pure con qualche dolore per lei (dopo la mela), una discendenza. Anche il dio-bis, creatore del neouomo Frankenstein, s´è visto reclamare dall´Adamo di laboratorio «una compagna della stessa specie e con gli stessi difetti», una Eva artificiale che gli «riscaldi il cuore» e lo promuova «a pieno titolo alla catena dell´esistenza» da cui è escluso. Gli indugi del papà-scienziato avranno conseguenze funeste nel libro di Mary Shelley, dove per la prima volta, nel 1817, prende forma "la creatura", l´homo-bricolage, il neonato adulto, privo d´infanzia, di passato e di crescita, ma dall´immediata, irresistibile vocazione domestica. Inevitabile in un "senza famiglia", un figlio di bottega, come sarà poi Pinocchio, anch´egli ribelle al genitore single e in cerca per tutta la vita di quella metà femminile negatagli fin dalla nascita.
Burattino in carne e ossa altrui, cavia controvoglia d´una vita in prestito, Frankenstein si è reso conto ben presto del suo anomalo destino, sospeso tra la morte e la morte, mosaico di tanti nessuno, da cui non risulta una nuova identità, ma una somma sconosciuta e smarrita: forse, lo specchio mostruoso, l´alter ego artificiale del suo creatore, in uno sdoppiamento sperimentale che anticipa il Dr Jekyll e Mr Hide di Stevenson. Lasciato scapolo dal suo Geppetto chirurgico, l´enfant prodige d´alambicchi, suture e scosse elettriche dovrà aspettare almeno un secolo per metter su famiglia, quando l´eco dei suoi primi vagiti letterari diventerà cinema. Ma su grande schermo Frankenstein si prenderà la sua rivincita affermandosi come il più prolifico tra i mostri in celluloide. Gli altri - vampiri, licantropi, zombie - non cercano sodalizi, ma vittime, al massimo proseliti. Lui assaggia invece tutte le varianti-famiglia: padre, figlio, fidanzata, moglie, senior, junior e, persino, scodinzolante cagnetto mascotte.
Campionario di questa scalata domestica è, al Sottodiciotto di Torino, la sezione "Frankenstein, cento anni da mostro", aperta dal primo film ispirato al personaggio di Mary Shelley, realizzato in Usa nel 1910, ritenuto a lungo perduto, ritrovato e restaurato: Frankenstein, di J. Searle Dawley, un quarto d´ora di suspense in bianco e nero, con un magnifico finale allo specchio, dove si sovrappongono creatore e creatura. Accanto al film di Searle Dawley, autore, sei anni dopo, di una storica Biancaneve (ispiratrice del capolavoro di Walt Disney, che la vide ragazzino), il festival torinese allinea la più celebre parodia, Frankenstein Junior di Mel Brooks (1974), raddoppiata dal cartoon, da noi inedito, di Anthony Leondis, Igor (2008), dove la fiera annuale di arti malvagie richiama apprendisti stregoni tutti di nome Igor e con gobba scivolosa, cloni a matita della caricatura di Marty Feldman.
Non manca la rilettura "canina" del mito, il delizioso Frankenweenie, secondo cortometraggio, del 1984, di Tim Burton, che gli valse l´espulsione dalla Disney, dove ora è stato in gran fretta richiamato per la versione lunga, in stop motion e 3D, del tenero bull terrier richiamato in vita, tra tuoni e lampi, dal compagno di giochi dopo un incidente stradale: l´epilogo fiabesco prevede un ulteriore colpo di fulmine, stavolta per una barboncina, dall´acconciatura che richiama la permanente dalle elettriche mèche bianche di mogli e fidanzate della creatura. Perché, dopo la prima apparizione, la cine-famiglia di Frankenstein non ha fatto che allargarsi, dando vita ad apparati dinastici, alberi genealogici. Dal primo nucleo coniugale di James Whale - Frankenstein (1931) e La moglie di Frankenstein (1935) - con Boris Karloff nella maschera-icona fabbricatagli dal geniale truccatore Jack Pierce, discendono Il figlio di Frankenstein (1939) di Rowland V. Lee e La figlia di Frankenstein (1958) di Richard E. Cunha, in un progressivo dilagare di partecipazioni speciali (specie nel cartoon, da Topolino a Betty Boop, a Bugs Bunny, a Yellow Submarine) e di fantasiose licenze creative, da Lady Frankenstein (1970) di Mel Welles a La sposa promessa (1985) di Franc Roddam, all´amante cibernetica di Frankenstein 1990 (1984) di Alain Jessua, ai mostri intermedi o prodigi biomeccanici di Robocop o Terminator, sino alle fiabe da laboratorio dello stesso Burton, come Edward mani di forbice o La sposa cadavere.
Finché, con registi come Robert Zemeckis o George Lucas (ora al lavoro su un film in computer grafica, con un cast di star defunte, da Orson Welles a Barbara Stanwyck), è il cinema a farsi officina-monstre. Fabbrica di realtà parallele, in un´autonomia tecnologica crescente, lo schermo, anziché risucchiare immagini dalla vita, ridà vita a se stesso: si resuscita. È il giro circolare della ricetta-Frankenstein, la formula divenuta mito, che il cinema riconduce a formula, per rimanere mito.

Repubblica 12.12.10
Quando la creatura si ribella al creatore
di Giuseppe Montesano


l´inizio della storia del golem, l´automa vivente creato dall´uomo, si trova forse in una delle leggende del Talmud, il libro rituale dell´ebraismo, e non è priva di sapiente ironia: «Rabbi Hanina e Rabbi Oshaya tutte le vigilie del sabato si occupavano del Libro della Creazione, creavano un vitello grande un terzo del naturale, e se lo mangiavano…». In un´altra leggenda Rabbi Rava crea un uomo e lo manda da Rabbi Zera che lo interroga, ma l´uomo artificiale non riesce a rispondere: evidentemente il prototipo di Golem di Rabbi Rava era difettoso. Ma l´idea che l´uomo potesse creare qualcosa di vivo adoperando una formula o delle parole era nata, la storia del robot fatto di terra e di parole magiche cominciò a diffondersi e uno dei fratelli Grimm la riassunse così: «Plasmano con argilla la figura di un uomo, e quando pronunciano il nome di Dio, l´argilla deve prendere vita. È vero che non può parlare, ma capisce ciò che gli si comanda. Lo chiamano Golem, e lo usano come domestico che sbriga tutte le faccende di casa…». Il problema è che il comodo e gratuito tuttofare domestico cresce e diventa sempre più potente e aggressivo, finché colui che lo ha creato non gli cancella dalla fronte le parole che lo animano, e il Golem crolla sul suo incauto fabbricatore uccidendolo.
Nel Romanticismo il mostro ebete che sfugge al controllo del suo maldestro creatore riappare, e il golem si traveste da automa in Hoffmann e da patchwork umano nel Frankenstein di Mary Shelley. Per rivivere un secolo dopo, nel buio della Grande Guerra, nel Golem di Gustav Meyrink, il romanzo che piacque a Kafka e da cui Wegener e Bose trassero un capolavoro del cinema espressionista. Ma nella modernità non ci sono più vitelli in miniatura fabbricati e cotti al momento da giocondi rabbini, ci sono solo terrificanti prodotti della demente logica umana, e il nome di Dio non serve più: basta la tecnica. In piena Guerra Fredda nascono gli androidi di Philip Dick, copie quasi perfette dell´uomo, simulacri che imitano anche le passioni e sono destinati a confondersi ai loro originali e a prenderne il posto: come accade in Blade Runner, il film che Ridley Scott trasse da un romanzo di Philip Dick intitolato Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Del resto, in anticipo su Philip Dick, i sinistri padri dei totalitarismi avevano scoperto come si trasforma un essere umano in un meschino Golem con la croce uncinata, in un cupo Frankenstein con falce e martello, in un ridicolo androide con fascio e moschetto: basta un po´ di propaganda e il gioco è fatto. E nonostante i risultati catastrofici, la smania di creare sosia e automi non sembra finita. Non si possono più ottenere gratis servi che spazzano per noi? La pecora elettrica giapponese che piange se la trascuri è solo una nuova fonte di depressione? La maggior parte degli umani si ostina a preferire ai robot sexy il sudore dei corpi mortali, sia pure imbottiti di silicone? Allora, pur di illudersi di creare qualcosa, si creano gli Avatar: presenze che esistono nella rete di Internet e vivono al nostro posto una vita che noi non sappiamo vivere. Vivono o simulano? Forse gli avatar sono il vero "me stesso" di chi li genera, e il presunto originale, l´essere seduto dietro il computer, è la copia, l´automa. il simulacro. E, perso nel suo sogno di fuga, l´essere che non distingue più tra la copia e il modello non si accorge dei frankenstein e dei golem volontari che sorgono e si moltiplicano al suono dei nuovi pifferai magici.

Repubblica 12.12.10
Faccia a faccia con Modigliani
di Lea Mattarella


Parigi e l´esperienzacon Picasso lo avvicinano all´arte africana, esperienza fondamentaleper il suo universodi pietra
L´esposizione vuole uscire dai confinidel mito che segue da sempre il suo genio e la sua sregolatezza per riportare l´attenzione alle opere

Modigliani e la scultura: un grande amore durato solo un paio d´anni. Che però ha lasciato un gruppo di capolavori, teste ieratiche e sintetiche, idoli enigmatici e silenziosi, esposti dal 18 dicembre e fino al 27 marzo al Mart, nella prima grande mostra dedicata al rapporto tra questo artista leggendario e la statuaria. Curata da Gabriella Belli, Flavio Fergonzi e Alessandro Del Puppo, l´esposizione si propone il compito di uscire dai confini del mito che accompagna da sempre Modì-Maudit - fatto di genio e sregolatezza, una vita bruciata tra alcol, droghe, donne, insoddisfazione creativa e miseria bohémienne - per riportare l´attenzione sul valore delle opere. È la ragione per cui qui si inserisce il suo mondo scolpito in un contesto che lo avvicina a quello di altri importanti artisti cercando di evidenziarne affinità e differenze. Si tratta di uno sguardo rivolto non soltanto sugli scultori coevi come Zadkine, Nadelman, Brancusi, ma anche verso il passato, con alcuni momenti di intensità sorprendente come il confronto tra il suo fare immobile e potente e la classicità impassibile di Francesco Laurana del Ritratto di Battista Sforza o di un antico kouros. D´altra parte, Modigliani quando arriva a Parigi da Livorno, dov´era nato nel 1884, ha in tasca il suo bel bottino di immagini del Rinascimento italiano - Carpaccio, Botticelli, Filippo Lippi, Lorenzo Lotto, Perugino - che non abbandonerà mai. Questo non gli impedisce di diventare uno dei protagonisti della grande rivoluzione visiva che si compie all´ombra della Tour Eiffel, dove arrivano figure da ogni parte d´Europa.
È nota la sua frequentazione con Picasso di cui lascerà un ritratto dipinto nel 1915, presente in questa mostra nella sezione dedicata alle tele che seguono l´esperienza della scultura riprendendo modelli e stili messi a punto proprio nella plastica. È il 1907 quando Picasso apre le porte alla modernità con le Demoiselle d´Avignon. Modì è nella capitale francese da un anno e, attraverso lo spagnolo e grazie alle frequenti visite al Trocadero, scopre la scultura africana che sarà fondamentale per il suo universo di pietra. Ma l´attenzione del giovane italiano afferra anche suggestioni dall´Oriente, dove lo affascina l´imperturbabilità di certe raffigurazioni di Buddha, dalla tradizione italiana, dall´Egitto. La poetessa Anna Achmatova a questo proposito ricorda: «In quel tempo Modigliani sognava l´Egitto. Mi portò al Louvre perché visitassi la sezione egizia… Disegnò la mia testa in acconciatura di regina egizia». Negli anni tra il 1911 e il 1913 che sono quelli in cui l´artista scolpisce senza sosta, disegna nello stesso modo. Questa esposizione chiarisce il rapporto tra il segno netto e incisivo sul foglio e quello, molto simile, che scalfisce la pietra, perché Amedeo concepisce la statuaria non come modellato e fusione, ma come intaglio diretto della materia. Un modo di agire che gli consente un controllo assoluto del blocco scultoreo, suggeritagli dall´amico Costantin Brancusi, arrivato a Parigi dalla Romania ed entrato in contatto con lui nel 1907.
Nel 1913, dopo un soggiorno livornese Modigliani abbandona lo scalpello e si rimette a dipingere. Ma traghetterà nelle sue tele quello che gli aveva dato la statuaria: forme allungate, sintesi, frontalità. Mentre, con la morte precoce, avvenuta nel 1920, nasce la sua leggenda, la scultura resta la Cenerentola degli studi. E dal 1984, anno della beffa del falsi Modì, ritrovati nel Fosso Reale di Livorno, dove si diceva che l´artista li avesse gettati in un momento di sconforto, nessuno ha più avuto il coraggio di occuparsi seriamente di questo lato dell´artista. Grazie alla mostra è stato possibile rintracciare nuovi documenti e fare ulteriori scoperte, capire le ragioni reali dell´abbandono del mezzo scultoreo: la salute cagionevole, certamente, ma anche il confronto con altre situazioni, come l´esempio di Boccioni, riconducono Modigliani tra i confini della tela. Fino a oggi si credeva che le sculture effettivamente realizzate dal 1911 al 1913 fossero venticinque. Dopo le ricerche compiute in questa occasione al catalogo ne sono state aggiunte con sicurezza tre. Lo stesso numero di quelle eseguite dagli spiritosoni del Black and Decker. Solo che questa volta sono vere, frutto della fatica, dello scontro fisico e mentale tra un genio indebolito dalla tubercolosi e la materia che ha scelto di conquistare. Da cui ha origine questa costellazione di volti dalla serenità senza tempo.

Repubblica 11.12.10
La pedofilia e il Vaticano secondo Wikileaks
"Nessuna collaborazione sui casi di abusi in Irlanda"


Il Vaticano ha rifiutato di permettere ai suoi uomini di testimoniare di fronte alla commissione chiamata a fare chiarezza sugli abusi dei sacerdoti su minori in Irlanda. Non solo: la Santa Sede si irritò quando vennero convocati a Dublino da Roma a questo scopo. Lo rivelano i file di WikiLeaks pubblicati ieri dal Guardian. La richiesta di presentarsi di fronte alla commissione Murphy «ha offeso molte persone in Vaticano. Pensano che l´Irlanda non abbia protetto e rispettato la sovranità vaticana durante l´inchiesta», dice un cablogramma. Il documento in questione è intitolato «Lo scandalo degli abusi sessuali mette a dura prova le relazioni fra l´Irlanda e il Vaticano, scuote l

Repubblica 11.12.10
Israele

50 rabbini contro la vendita di case ai non ebrei
Yehoshua: "Una follia, il governo intervenga"

GERUSALEMME - «Sono disgustato. Il governo deve intervenire e fermare questa follia». Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua non nasconde la sua indignazione per la lettera - firmata nei giorni scorsi da 50 rabbini ultraortodossi israeliani - nella quale si istruiscono i cittadini ebrei di Israele a non vendere o affittare case ai non ebrei. La presa di posizione dei rabbini sta suscitando numerose proteste e prese di posizione. Giovedì una dichiarazione del Centro del Memoriale della Shoah di Yad Vashem, a Gerusalemme, aveva duramente bocciato l´iniziativa: «Il passato ci ha insegnato quanto siano fragili i valori della coesistenza», si legge. La lettera «è un grave colpo al valore delle nostre vite come ebrei ed esseri umani in uno stato democratico».

allora non aveva tutti i torti...
Repubblica 12.12.10
"Ho perso la testa, sono pentito ... ma lo faceva di continuo: consumava e se ne andava"
Non paga il conto al bar, ucciso a bastonate

venerdì 10 dicembre 2010

Repubblica 10.12.10
"I radicali voteranno la sfiducia"
Il Pd trova l´accordo con i sei deputati di Pannella. E prepara la manifestazione di domani
Bersani: "Quello è un partito che non si vende". E su Fini: "Non può smentirsi con un Berlusconi bis"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il Partito democratico dà per sicuri i sei voti radicali alla sfiducia. Marco Pannella insiste: «Decideremo all´ultimo minuto e faremo una scelta non scontata». Ma il piano per non perdere la pattuglia di Pr è già scattato. Il capogruppo alla Camera Dario Franceschini ha incontrato i sei deputati, ha ascoltato le loro ragioni, ha offerto spazio e voce ai pannelliani sapendo bene che con loro la trattativa e la compravendita del Pdl non hanno cittadinanza. Di solito, ai radicali, il gruppo del Pd riserva in aula solo il tempo di un intervento a titolo personale. Cioè, un minuto. Stavolta invece un loro rappresentante parlerà all´interno della discussione generale, durante il tempo riservato ai democratici (40 minuti). Significa avranno a disposizione un discorso di 5 minuti. Un timing utile per articolare i motivi della sfiducia distinguendosi dalla posizione ufficiale del Pd. Ai radicali verrà quindi riconosciuta la loro specificità e autonomia.
Così il Pd può garantire, a meno di sorprese, 206 voti contro Berlusconi su 206 deputati complessivi. Il 100 per cento, con l´unica incognita di Federica Mogherini. Il tempo della sua gravidanza scade il 13 , da quel momento ogni minuto è utile per il parto. Ancora ieri pomeriggio gli uffici del gruppo democratico hanno contattato i deputati uno ad uno. Franceschini ha inviato un sms a tutti specificando che martedì è previsto un meteo pessimo. Perciò l´invito (obbligatorio) è: arrivate entro lunedì, il giorno prima del voto finale. In realtà il meteo del 14 non pronostica affatto bufera su nessuna parte d´Italia. Ma il messaggio è chiaro. Non sono ammesse defezioni e alibi.
Bersani conferma la sua fiducia nel voto radicale: «Quello è un partito che non si svende». Berlusconi però studia alcune contromosse per garantirsi almeno l´astensione dei 6. Nel suo discorso ci sarà un passaggio sulla situazione delle carceri e un riferimento all´applicazione della moratoria sulla pena di morte. Un po´ meno granitica è la sicurezza di Bersani sulle mosse di Futuro e libertà: «Non credo che Fini possa smentirsi appoggiando un Berlusconi bis». Il segretario del Pd ieri ha visto alcuni dirigenti di prima fila: Finocchiaro, Franceschini, Veltroni e D´Alema. Da questi incontri è venuta la conferma di una fiducia a rischio per il premier. E di una tenuta di Fli. «È solo il gioco del cerino», garantiscono i democratici. «Non dovrebbe avere il sì», dice Bersani. Ma le certezze vacillano. Bisogna prepararsi al dopo che potrebbe non essere il dopo Berlusconi. Si parte dalla manifestazione di domani a Piazza San Giovanni. Poi si metterà in conto un Berlusconi ancora vivo dopo il 14. E la definizione di una nuova strategia. «Le primarie? Non le ha mica ordinate il dottore», risponde Bersani preparandosi alla ristrutturazione del centrosinistra.

l’Unità 10.11.10
Tormenti radicali. Pannella tentato da Berlusconi Sei voti in bilico
«Deciderà la base» Il leader si è visto con il premier, «prima avevo incontrato Bersani»


Cosa faranno i radicali? Quello che sembrava improbabile sta prendendo corpo: un possibile voto favorevole a Berlusconi (no alla sfiducia, sì alla fiducia, a seconda del ramo parlamentare in questione). Marco Pannella è «assolutamente lieto» che Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Angelino Alfano abbiano accettato di ascoltarlo ma non dissipa i dubbi sul voto della pattuglia dei Radicali a Montecitorio in vista della verifica del 14 dicembre prossimo: «Vogliamo deciderlo con il massimo di dibattito, di riflessione, di partecipazione pubblica, fino all’ultimo momento utile, senza dare assolutamente nulla per scontato», scrive sulla sua pagina Facebook. Fatto sta che nei conti dei berlusconiani i voti dei radicali oscillano fra l’astensione e il favore.
«Da un anno almeno, da Radio Radicale e con pubbliche dichiarazioni afferma Pannella deprecavo il (mis)fatto del persistente rifiuto di Berlusconi di incontrarci e discutere insieme sulla situazione politica, nazionale, europea, globale. Ho ottenuto questo incontro, ne ho subito informato tutti così come dell`incontro con Bersani. Il “mondo radicale” ha così immediatamente avuto modo di reagire anche pubblicamente, su facebook e con interventi diretti da Radio Radicale. È in rivolta, su supposizioni infondate. Da giorni, da ogni parte, si esige di sapere se il 14 dicembre daremo fiducia o sfiducia. Vogliamo deciderlo con il massimo di dibattito, di riflessione, di partecipazione pubblica, fino all`ultimo momento utile, senza dare assolutamente nulla per scontato. Le scontatezze appartengono a tutta “la politica” italiana, e non solo. Mai, ripeto mai, a noi Radicali».
Va ricordato che i radicali sono in parlamento con il Pd non avrebbero avuto i numeri per esserci con il loro partito e fino a poche settimane fa l’antagonismo fra loro e il modo di pensare (negazionista sui temi etici) del governo Berlusconi sembrava una distanza incolmabile.

il Fatto 10.12.10
La fame di Pannella e i “magnifici sei”
di Pino Corrias


DIAVOLO d’un Pannella. Ringalluzzito dal lungo sciopero dei capelli, il vecchio leader ha smesso di tormentare i Radicali per dedicarsi al Paese. Si è astutamente infilato nella compravendita dei voti per il 14 dicembre. Avendo in dote sei parlamentari da spendere, ha incontrato Bersani e Berlusconi. Con il primo ha parlato della fame nel mondo. Con il secondo della fame dei Radicali. Ha detto che lui si muove a destra, al centro, a sinistra. Segue solo i valori. Se ne frega delle macerie de L’Aquila, dei roghi di Terzigno, dei disoccupati sui tetti, degli studenti sulle strade e del sangue che cola dal nuovo plastico di Vespa, dove vorrebbe abitare almeno qualche volta. Respinge l’ipotesi dei governi tecnici con Draghi, oppure Monti, oppure Montezemolo, ma se è libero anche Alonzo. Non lo persuade l’ultima proposta dei finiani che offrono a Berlusconi dimissioni, ma con reincarico in 72 ore, purché su un piede solo, più un contratto con Gazprom e dodici nuove nipoti di Mubarak in sei comode rate. Pensando alle rate ha avuto l’illuminazione. La sintesi. Il Papa straniero che sta bene a tutti. Candidare David Mills a Palazzo Chigi che è libertario, liberista e off-shore.

l’Unità 10.11.10
Oggi a Oslo il conferimento del premio al dissidente paladino della democrazia
p Assenti una ventina di governi che hanno ceduto alle pressioni delle autorità cinesi
Liu in cella non ritira il Nobel Pechino censura la cerimonia
La maggioranza dei governi invitati saranno rappresentati oggi ad Oslo al conferimento del Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo. Ma una ventina, cedendo alle pressioni di Pechino, diserterà la cerimonia.
di Gabriel Bertinetto


Non ci sarà Liu Xiaobo, trattenuto in carcere dalle autorità cinesi. Non ci saranno i rappresentanti di una ventina di Paesi, trattenuti a casa da svariate forme
di opportunismo politico. La cerimonia per il conferimento del Nobel per la pace si svolgerà oggi ad Oslo nel segno di due opposte assenze. Quella forzata del protagonista numero uno, il premiato, e quella del tutto volontaria di alcuni governi che hanno ceduto alle pressioni di Pechino affinché stessero alla larga dall’evento.
SEDIA VUOTA
La sedia riservata a Liu resterà vuota. Le autorità della Repubblica popolare non hanno permesso che a ritirare l’onorificenza andas-
sero altri in sua vece. La moglie Liu Xia è da mesi agli arresti domiciliari, così come altri parenti, amici e decine di dissidenti del movimento per la democrazia. Della loro sorte non ha voluto dire nulla ieri Jiang Yu, portavoce del ministero degli Esteri, che qualche giorno fa aveva sprezzantemente definito la cerimonia di Oslo una «farsa anti-cinese».
Jiang Yu ha insistito sulla tesi del suo governo, secondo cui «la maggioranza dei popoli del mondo» è contraria alla scelta del Comitato per il Nobel, e si è scagliata contro il Congresso degli Stati Uniti, accusandolo di «arroganza» per avere approvato una «cosiddetta risoluzione» a favore di Liu.
La lista degli assenti è lunga, ma fra i Paesi di maggior peso politico, economico e strategico, comprende solo la Russia. Ci saranno tutti i governi dei Paesi occidentali oltre a grandi Stati democratici emergenti, come India, Brasile, Sudafrica. Pechino è riuscita a convincere Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Colombia, Cuba, Egitto, Iraq, Iran, Kazakhstan, Marocco, Pakistan, Serbia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Venezuela, Vietnam. In un primo tempo avevano aderito a quello che era sostanzialmente un boicottaggio non dichiarato, anche Filippine ed Ucraina, che ieri però hanno fatto marcia indietro, annunciando la propria presenza.
CAMPAGNA SPROPORZIONATA
Liu Xiaobo è fra i firmatari di Charta O8, una petizione inviata due anni fa ai vertici del regime comunista, nella quale si perorava la causa di un cambiamento democratico. Anziché ottenere maggiore libertà per i concittadini, Liu e compagni hanno pagato il loro coraggio civico con l’arresto. Liu, 54 anni, docente di letteratura, è in carcere, condannato a 11 anni per istigazione a sovvertire i poteri dello Stato.
La mobilitazione cinese contro il Nobel a Liu è stata «un totale disastro», secondo l’attivista per i diritti umani Nicholas Becquelin, residente a Hong Kong. L’intensità degli attacchi cinesi è stata «del tutto sproporzionata», e secondo Becquelin ha fatto perdere a Pechino «le simpatie che si era conquistata in due o tre decenni di diplomazia cauta».
La veemenza della campagna governativa ha avuto risvolti al limite dell’assurdo, come il divieto imposto ai gestori dei ristoranti della capitale di accettare prenotazioni per più di sei persone nella giornata odierna. Il timore è che raduni conviviali si trasformino in celebrazioni della premiazione di Oslo.
I siti web di alcuni media internazionali, fra cui le reti televisive americana e britannica Cnn e Bbc, ieri in Cina sono stati oscurati. Intanto un comitato messo in piedi in gran fretta tre settimane fa, assegnava l’anti-Nobel, il premio «Confucio per la pace». Peccato che il vincitore, il politico taiwanese Lian Chen, non fosse al corrente ed abbia affermato di «non avere in programma» di accettarlo.

l’Unità 10.11.10
Intervista a Guido Samarani
«Evitato il ko. Ma per la Cina è una sconfitta»
Il docente di storia cinese: «Pesa l’assenza di Mosca ma Pechino avrebbe potuto cantare vittoria solo in caso di defezioni europee»


Per il professor Guido Samarani, che insegna Storia della Cina all’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Nobel a Liu Xiaobo ed il
fatto che la maggior parte dei grandi Paesi oggi non disertino la cerimonia di Oslo, è per Pechino una sconfitta, anche se “ai punti”.
Come spiega, professore, una così forte e plateale irritazione della Cina al Nobel per il dissidente Liu? «Effettivamente ho trovato anch’io molto marcata la loro reazione. Anche mettendosi dal loro punto di vista, secondo cui la scelta del Comitato di Oslo è una strumentalizzazione politica, mi sembra che in questo modo loro ingigantiscano ulteriormente la portata dell’evento, anziché cercare di sminuirla come potrebbero fare dandogli una limitata importanza. Tra l’altro Liu Xiaobo, che meriterebbe piuttosto un Nobel per la democrazia, se esistesse, piuttosto che un Nobel per la pace, non è certo un pericolo per lo Stato, anche se l’accusa formale a suo carico è proprio quella di sovversione. Sono un po’ sorpreso dal comportamento delle autorità della Repubblica popolare, che in altri casi hanno dimostrato di essere molto più sagge e riflessive».
La moderazione cinese di fronte ai grandi temi della politica e dell’economia internazionali viene meno quando devono affrontare questioni interne, riguardanti i diritti civili e umani. È questo il problema?
«In parte sì. Tra l’altro se con Taiwan o il Tibet entrano in gioco questioni che riguardano la sovranità nazionale e l’integrità territoriale, non è questo il caso dei dissidenti. Credo che ai dirigenti cinesi disturbi comunque in modo particolare quella che ritengono un’interferenza esterna nei propri affari domestici». Fino a quando durerà l’illusione che un’impetuosa crescita produttiva e tecnologica possa convivere con un sistema autoritario?
«Di fatto quella convivenza sinora c’è stata. Nel breve periodo non prevedo cambiamenti significativi. Ci sarà piuttosto una trasformazione graduale e guidata, “alla cinese”, fatta di aperture pezzo per pezzo. Sarà un processo più lento di quanto non sia stata e sia la modernizzazione economica. Il dibattito in corso nel partito e nei think-tank collegati ipotizza varie opzioni, tranne quella di un pluralismo democratico di tipo occidentale. Verrà introdotta sempre più democrazia nel partito, maggiore collegialità decisionale, come primo passo verso modifiche da estendere poi alle istituzioni, a partire dalle aree periferiche, con le elezioni nei villaggi ad esempio. È uno scenario che poggia su un prerequisito però, quello della stabilità politica. Se dovesse aprirsi una fase di gravi turbolenze interne, se i conflitti sociali si acuissero, allora diventerebbe davvero difficile pronosticare i passaggi successivi». Contano di più i venti Paesi che disertano la cerimonia di Oslo o gli oltre quaranta che hanno resistito alle pressioni di Pechino?
«I governi che non saranno rappresentati hanno tutti bisogno per diverse ragioni di mantenere buoni rapporti con la Cina. Qualcuno magari pensa che in futuro potrebbe ritrovarsi in una situazione simile e quindi prende contromisure preventive. Pesa certamente l’assenza della Russia. Vuol dire che per Mosca la partnership cinese è davvero importante. E magari nella decisione di non mandare nessuno a Oslo hanno considerato anche la loro situazione interna. Gli altri grandi Paesi però ci saranno. Pechino avrebbe potuto cantare vittoria, se fosse riuscita a convincere qualche governo dell’Unione Europea. Stando così le cose, può solo accontentarsi della relativa ampiezza numerica del gruppo di coloro che hanno aderito all’invito di disertare la cerimonia. È la soddisfazione di chi perde ai punti anziché subire un ko».

l’Unità 10.11.10
Si astengono dal lavoro tecnici, impiegati, costumisti, dirigenti. Aderiscono anche i giornalisti
Laprotesta contro i tagli del direttore generale. Dalla mobilitazione si sfila solo la Cisl
Una giornata senza Rai Sciopero contro il piano Masi
Oggi la Rai si ferma: sciopero di 24 ore dei lavoratori, tecnici, impiegati e quadri. Promosso dalla Cgil e da tutti i sindacati, meno la Cisl. Aderiscono anche i giornalisti dell’Usigrai. Tg ridotti e nessuna diretta.
di Natalia Lombardo


Oggi la Rai si ferma 24 ore per lo sciopero dei tecnici, dagli operatori ai costumisti, degli impiegati e dei quadri dirigenti. Si ferma la macchina, il cuore tecnologico della tv pubblica, per protestare contro il piano industriale da lacrime e sangue che «impoverisce l’azienda» in condizioni mai così disastrose, denunciano da tempo i sindacati. E la novità è l’adesione dei giornalisti dell’Usigrai alla giornata di sciopero «audio-video», anche se saranno presenti sul posto di lavoro. con telegiornali ridotti,
Lo sciopero è promosso da tutti i sindacati, dalla Cgil allo Snaters, con lo schema ormai consueto della dissociazione della Cisl, alla quale plaude il direttore generale, Mauro Masi che pure dice di «rispettare» la protesta. La protesta mira a «rilanciare l’azienda» e a non far pagare la crisi solo a chi lavora. I sindacati sono «disponibili a sedersi intorno a un tavolo», spiega Emilio Miceli, segretario generale della Slc Cgil, «purché si tolgano le esternalizzazioni», soprattutto quelle delle «torri» di RaiWay, gli impianti di trasmissione.
Le sigle promotrici sono tante: Slc Cgil, Uilcom Uil, Ugl Tlc, Snater, Libersind-Confsal; l’Adrai, l’associazione dei dirigenti Rai, solidarizza e partecipa con una autotassazione devoluta a Telethon. La Filt-Cisl non aderisce perché
giudica la protesta «fuori tempo» e «controproducente in questa dinamica fase di discussione con l'azienda». La dinamica fase di dialogo, per la verità, è iniziata molto in ritardo perché il dg Masi ha quasi «criptato» per lungo tempo il piano industriale, tanto che gli stessi vicedirettori generali hanno per due volte sollecitato maggiore discussione proprio con i sindacati, per non arrivare a delle rotture. E il consigliere del Pdl, Verro, auspica «il dialogo» ma critica Barenboim: «Inopportuno leggere l’articolo 9» alla Scala.
LO SLOGAN DELLO SCIOPERO
«Non paghi il costo della crisi quella parte produttiva della Rai, quella di chi si alza la mattina e lavora», spiega Miceli a l’Unità, «ma si intervenga con tagli agli sprechi, alla “marea nera” delle consulenze, dei contributi, delle società che non danno un ritorno all’azienda»; in due parole, «i costi della politica che, tra fino al 2006 pesavano per 2 terzi sul bilancio, l’anno scorso erano di 2 miliardi, ora il Cda sostiene di aver ridotto a 1 miliardo e 400mila». A pagare, secondo il piano, saranno solo i lavoratori, con esuberi, blocco dei contratti e degli aumenti. Insomma, la Rai è a «rischio Alitalia», conclude il sindacalista. E resta il mistero: la Rai ha più ascolti di Mediaset ma meno pubblicità. Alla Cisl, infine, dice: «Quando tornerete sacrificheremo l’agnello migliore»,
Dalle 6 di mattina di oggi fino alle 6 di domani non dovrebbero andare in onda i programmi in diretta (La vita in diretta,Piazza Italia, Uno Mattina), i tg dureranno 6 minuti, letti in studio e senza servizi; non si vedranno le rubriche regionali Buongiorno Regione e Buongiorno Italia. I giornalisti si ridurranno dalla retribuzione lorda per il 45% di 1/26 della retribuzione mensile.
E stamattina dalle undici i lavoratori protestano a Viale Mazzini con l’Orchestra nazionale della Rai; parleranno tutti i rappresentanti e saranno presenti le associazioni delle troupe, del broadcast e del sindacato attori, intellettuali e politici.
Santoro ha annunciato lo sciopero a Annozero, riportando i dati del bilancio Rai: «i giornali dicono che perderà 100 milioni nel 2011, 200 nel 2012 e che in due anni avrà circa 650 milioni di debiti». L’azienda smentisce: «Dati non veri».

l’Unità 10.11.10
La Rai si è fermata a Daverio
La cultura secondo viale Mazzini
di Vittorio Emiliani


Il bell’articolo di Luca Del Frà su l’Unità di ieri conferma i gravi limiti e gli alibi sbagliati della Rai odierna. Il più strategico? Vedrete, col digitale terrestre e la moltiplicazione dei canali, quanta cultura faremo... Favole. Intanto gli ascoltatori su Rai5 per la “Walkiria” della Scala sono stati molti di meno, e serviti peggio, di quelli che a suo tempo seguirono su Rai3 il tanto contestato “Macbeth” verdiano, una “prima” scaligera in diretta che costò al presidente musicofilo Enzo Siciliano un “crucifige” permanente nonostante “prendesse” ben un milione e mezzo di telespettatori.
Allora in Rai si chiamavano specialisti come Guido Barbieri, Piero Gelli e altri. Ora sembra che ci sia soltanto Philippe Daverio, buono per ogni trasmissione. Il troppo stroppia e induce a commettere qualche svarione. Sere fa Daverio è comparso da Santoro ad Annozero dove si parlava di post-terremoti. Confesso di aver visto soltanto qualche passaggio, quando peraltro si mettevano in evidenza gli errori marchiani commessi nel costruire tutt’attorno all’ancora atterrato capoluogo abruzzese le cosiddette “new towns” e altre strutture. Purtroppo Philippe Daverio assentiva dicendo che anche in Umbria si era costruito molto intorno. In realtà nel post-terremoto umbro-marchigiano come già in quello del Friuli il Ministero per i beni Culturali, con Mario Serio direttore, si tenne la regìa del tutto usando la Protezione Civile quale braccio esecutivo, e fece subito partire anche la ricostruzione. Vennero usati i container perché la stagione era già avanzata (fine settembre). Ma si passò nella primavera-estate alle casette prefabbricate in legno di tipo siberiano mantenendo in loco le comunità. Nel contempo furono adeguatamente finanziati i lavori (ministro Walter Veltroni), reclutati i migliori specialisti: strutturisti, Giorgio Croci e Paolo Rocchi, storici dell’arte e architetti delle Soprintendenze e dell’Università, Antonio Paolucci, Maria Luisa Polichetti, Marisa Dalai, Bruno Toscano, Giuseppe Basile, ecc. per un’area terremotata vastissima, da Assisi a Urbino, con 1500 chiese colpite nelle sole Marche e con la Basilica assisiate di San Francesco a rischio di rovina totale.La Rai seguì allora così da vicino quest’ultimo formidabile recupero da dedicarvi 40 ore di filmati tecnici. Risultato: la Basilica integralmente restaurata venne riconsegnata in un biennio ai frati francescani e con attenzione venne realizzato il graduale ripristino, in sicurezza, di centri storici come Foligno, Tolentino, Nocera Umbra, Gualdo, la stessa Assisi. Con un eccellente rapporto MiBAC-Regioni-Enti locali. Un rapporto oggi cancellato e sostituito dal “ghe pensi mi” di Berlusconi&Bertolaso. Con risultati in ogni senso desolanti. Questa la realtà vera dei fatti.

Repubblica 10.12.10
Non agiremo mai contro il Vaticano"
Berlusconi pranza con Bertone: lavoro perché il Papa possa andare a Mosca
All´incontro per i nuovi cardinali l´assenza di Bagnasco conferma il gelo con la Cei
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO - «Caro ambasciatore, lei ora lascia l´incarico di rappresentare l´Italia presso la Santa Sede per andare a Mosca, dove c´è il mio amico Vladimir Putin. Io vengo criticato per questo rapporto. Mi accusano. Mi attaccano. Ma non capiscono che il mio vero obiettivo è quello di portare la Russia in ambito occidentale. E che grazie a questa relazione privilegiata sto lavorando anche con il patriarca ortodosso Kirill perché si creino le condizioni affinché il Papa possa andare un giorno a Mosca».
Sono passate le 14 a Palazzo Borromeo, sede della legazione italiana presso il Vaticano, quando il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si rivolge all´ambasciatore Antonio Zanardi Landi, padrone di casa e organizzatore dell´incontro. Mezzo governo è schierato sulla lunga tavolata che domina la sala grande. Ci sono Letta, Bonaiuti, Frattini, Tremonti, Alfano, Bondi, Fazio, Fitto, Romani, Gelmini. C´è anche il consigliere per la politica internazionale del premier, il deputato del Pdl, Valentino Valentini, uomo di collegamento di Berlusconi con la Russia. E dall´altro lato del tavolo i commensali sono il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, e 9 dei 10 nuovi cardinali italiani usciti dal recente Concistoro in cui Benedetto XVI ha creato 24 porporati.
Palpabile l´attesa per un evento che, se è una tappa ormai di prammatica dopo ogni Sacro collegio (fu Prodi a presenziare nel 2007), cade ora a pochi giorni dal decisivo voto di fiducia del 14 dicembre per il governo, con un presidente del Consiglio alla ricerca di appoggi autorevoli. Un momento delicato, a cui la Segreteria di Stato vaticana ha risposto in maniera positiva.
Ai cardinali di fresca nomina il premier ha fatto i complimenti e regalato una croce pettorale. E a tutti ha espresso ottimismo per l´imminente passaggio in aula, confidando di poter ottenere i numeri richiesti. «Da parte mia - ha assicurato prima di ricordare gli anni trascorsi dai salesiani (guardando Bertone che appartiene a quell´ordine) - non verrà mai nulla contro il Vaticano». E dopo alcune frasi del sottosegretario Gianni Letta, il collaboratore del Papa ha risposto ringraziando il governo di aver condotto una politica a favore della Chiesa. Con i giornalisti Bertone si è poi schernito («era solo un pranzo di cortesia, io ero ospite, prego per l´Italia e prego per il futuro di ogni Paese con cui siamo in relazione perché i problemi toccano tutto il mondo, non solo l´Italia»).
Della delegazione ecclesiale facevano parte i cardinali Ravasi, Romeo, De Paolis, Sardi, Amato, Piacenza, Monterisi, Sgreccia e Bartoloni. Assente giustificato Baldelli. Spiccava piuttosto l´assenza del presidente dei vescovi, Angelo Bagnasco, che aveva un impegno precedente a Genova, sua arcidiocesi cui tiene molto. Al suo posto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata.
E´ da tempo del resto che i vescovi italiani non nascondono malumore verso Berlusconi. Il loro quotidiano di riferimento, Avvenire, l´altro giorno in un editoriale si è schierato contro il voto anticipato se in Parlamento si trovasse un´altra maggioranza. C´è chi guarda al dopo. Tremonti (che ieri si è speso sulla necessità di sostenere la famiglia), gode di grande stima. Stuzzica l´idea di un Ppe italiano prospettata da Formigoni. L´ingresso dell´Udc nella maggioranza offrirebbe qualche rassicurazione. Ma non convince la prospettiva di un partito di centro con il ‘laicista´ Fini.
All´uscita del palazzo bocche cucite, comunque, per i porporati. «Meno litigi e scosse ci sono, meglio è», commenterà più tardi uno dei cardinali che ha partecipato alla colazione di lavoro. «Gli uomini di governo devono perseguire il bene comune, non quello del proprio partito», aggiungeva un altro. Nei saloni in cui, fra pochi giorni, Zanardi Landi sarà sostituito dal nuovo ambasciatore Francesco Greco, Berlusconi si lasciava infine andare su una poltrona: «Se poi non otterrò la fiducia - diceva scherzando - vorrà dire che mi riposerò».

il Fatto 10.12.10
I sospetti della Bindi su Renzi: vuole un futuro fuori dal centrosinistra
Cattolici entrambi, ora lei non perdona la visita ad Arcore
di Giampiero Calapà


Sinalunga-Rignano sull’Arno. Ci sono una ottantina di chilometri tra la città di Rosy Bindi e quella dove è cresciuto a pane, politica e scout, Matteo Renzi, non lontano dalla Firenze di cui oggi è sindaco. Ma, ormai, anni luce separano la politica dei due pur sempre “compagni” toscani del Pd. Entrambi provengono dalla tradizione cattolico democratica di quella parte della Democrazia cristiana che guardava a sinistra. Gli scout lui, appunto, e l’Azione cattolica lei. Proprio per questo motivo, per l’origine comune, l’onorevole Rosy Bindi non perdona a Renzi le ultime mosse, dalla fondazione dei Rottamatori fino al “sacrilegio” della visita ad Arcore: “Renzi dice di aver superato le ideologie. Ma è proprio questo il punto? Il berlusconismo non ha alcuna ideologia. È un comportamento”, e Renzi “andando ad Arcore è caduto nel berlusconismo”, ha detto la Bindi ieri all’Unità, arrivando a definire il sindaco di Firenze appartenente alla categoria degli “apparenti viventi, che in realtà sono anime morte perché sono il frutto della politica di questi quindici anni”.
INSOMMA, per Rosy Bindi il rottamatore Renzi andando ad Arcore non ha fatto altro che svelare la sua natura. Che agli occhi della presidente del Pd era già chiarissima in precedenza, almeno dai tempi delle primarie, nel momento in cui Renzi, per correre da solo, voltò le spalle a quello che era considerato il suo “padrino” politico: Lapo Pistelli, altro ex della Margherita che poi ha abbracciato il veltronismo. Autunno 2008, la corsa per le primarie a Firenze diventa rovente, e il giovane presidente della Provincia ha la sua sponda politica più importante in città in quell’assessore-sceriffo che rispondeva al nome di Graziano Cioni, comunista doc empolese , pronto a sostenere l’amico cattolico: “O vinco io o vince Renzi e va bene... o vince Pistelli ed è un’epoca secondo me di quelle micidiali... quindi bisogna che si corra tutti e due, Renzi e io: se vince lui gli fo da vicesindaco, se vinco io fa il vice-sindaco lui”. Poi Cioni fu travolto da vicende giudiziarie, indagato per corruzione e violenza privata, costretto a ritirarsi da quelle primarie in cui era dato per favorito e che poi vinse Renzi. L’amicizia che intercorse tra i due è testimoniata da alcune intercettazioni finite nell’inchiesta sull’area fiorentina di Castello. (Quando Cioni chiama Renzi, presidente della Provincia, per informalo che “all’Isolotto ci s’ha una fedifraga. La Sonia Innocenti: sta con Pistelli”. Renzi: “Quanti voti sposta”. Cioni: “Pochi, ma questo volta-spalle lo deve pagare. La mia porta la trova chiusa oggi, domani e domani l’altro”. Qualche giorno dopo, Renzi: “Ascolta due cose al volo: alla Sonia quel messaggio che mi dicevi ieri gliel’ho fatto dare in modo molto brutale”. Cioni: “A chi l’hai dato”. Renzi: “Al suo capo e a voce tramite Filippo Vannoni, che me l’ha portata a pranzo una settimana fa”). Renzi non esitò a prendere le distanze da Cioni, però, appena lo “sceriffo” finì sotto scacco: “Il passo indietro di Graziano Cioni è un fatto utile e positivo”. Ieri, invece, Renzi nel difendersi ancora dalle accuse sulla visita ad Arcore ha scritto: “Mi dicono che sembro arrogante e forse lo sono. Ma se c’è una cosa che proprio non sento come problema è questo: ho sempre avuto una sola parola. E una sola faccia , che non sarà granché, ma che non cambio”.
Rosy Bindi è indispettita, quindi, da un atteggiamento che considera lontanissimo dalla scuola e dalla tradizione di lealtà politica che ha in Giorgio La Pira, sindaco di Firenze dal 1951 al ‘64, il più importante “padre nobile”. Rosy Bindi, addirittura, sospetta che Renzi non disdegni di prepararsi la strada per un futuro politico fuori dai confini del centrosinistra. Ma il sindaco, sempre nella nota di ieri, pare rispondere indirettamente anche a questo sospetto: “A chi mi dice così ti bruci come leader della sinistra, dico che io ho preso l’impegno a fare bene il sindaco di Firenze. Se lo faccio bene, ok. Se lo faccio male, mi brucio. E soprattutto se lo faccio male mi vergogno, che è peggio di bruciarsi, perché tengo alla dignità più che alla mia carriera”.
NEL FRATTEMPO a Firenze esplode un altro caso. Dopo Renzi ad Arcore si discute della sovrintendente del Maggio Fiorentino, Francesca Colombo, che ha preferito essere presente alla prima della Scala piuttosto che a quella del “suo” teatro, subito difesa dal sindaco: “La sovrintendente del Maggio ha fatto benissimo ad andare alla prima della Scala. È stata una scelta che abbiamo preso insieme”. Valdo Spini, l’ex ministro ora consigliere comunale della “sinistra” d’opposizione, critica il sindaco su questa scelta, perché “un capitano non abbandona mai la nave, e la sovrintendente Francesca Colombo ha sbagliato a non essere presente alla prima del Maggio”.

il Fatto 10.12.10
“Una vergogna i sindaco, un fighetto che lavora solo per la sua setta”
Lo sfogo del destrissimo Buttafuoco: “Ormai è spacciato”
di Beatrice Borromeo


Il più arrabbiato per la parentopoli del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è uno che nell’efficacia della destra sociale al potere ci aveva davvero creduto, prima di vedere come è stata gestita la Capitale in questi due anni e mezzo: Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista di Panorama, cresciuto da irregolare tra le file del Movimento sociale e il Secolo d’Italia. “Sono deluso come uno che scopre violenze terrificanti dentro casa sua e si chiede: e io, povero fesso?”.
Buttafuoco, i numeri sono da ufficio di collocamento: 854 assunti all’Atac e 1400 all’Ama da quando Alemanno ha vinto le elezioni.
È tipico della sua cultura che ha radici settarie. È la vergogna dell’Alemannismo, anzi la vergognissima.
Si aspettava qualcosa di diverso?
Hanno cercato di farsi demo-cristiani a suon di clientele familistiche. Non ci sono giustificazioni, a maggior ragione per chi è cresciuto in questo mondo. Chissà come starà soffrendo Pino Rauti.Anche quella destra, quindi, al potere si è comportata come tutti gli altri.
Eppure erano quelli che mordevano la realtà, che andavano sui marciapiedi, ma per altre storie.
Come reagisce, secondo lei, la base elettorale di Alemanno a questa politica delle clientele?
Non esiste più un’area culturale di riferimento. Gli attivisti del Movimento sociale non votano più per nessuno.
Neanche lei?
No.
Ma che destra era quella da cui viene Alemanno?
La destra sociale è solo un artificio, non c’entra col conservatorismo né col moderatismo: è una dottrina politica che nasce nel solco del Novecento e che ha avuto una sua ragione d’essere nella militanza in favore del popolo e delle sue priorità. L’idea di farne una destra arriva a posteriori, è posticcia.
Era poco destra e molto sociale.
Per dirla con Antonio Pennacchi, è stata un’esperienza politica assolutamente di sinistra. Fondata sull’emancipazione, la tutela dei lavoratori e l’idea di dare un futuro a chi aveva difficoltà a ritagliarsi uno spazio nella società italiana.
Esiste ancora questa visione ?
Solo in certe analisi di Gianni De Michelis o di Massimo Fini, nelle pagine di Pennacchi, nelle atmosfere di qualche ambiente. Ma è un mondo che è finito nel secolo scorso, che forse sopravvive da qualche parte fuori dal perimetro europeo.
Un bel cambiamento rispetto alla parentopoli di oggi?
Già. Non è certamente il Movimento sociale di Beppe Niccolai, né quello di Giorgio Al-mirante e tantomeno di Pino Rauti.
Hanno piazzato figli, nipoti, mogli e persino una ex cubista nelle municipalizzate.
Tipico. Si sono ritrovati fra le mani un giocattolo che è diventato l’arma con cui si stanno massacrando.
Colpa dell’influenza berlusconiana del bunga bunga?
No, assolutamente. Si fanno del male da soli.
Qual è la differenza tra Alemanno e l’altro uomo di destra che ha guidato il Lazio, Francesco Storace?
Storace non aveva la tribù, è più simpatico, più ruspante. Alemanno si è infighettito parecchio e i suoi uomini sono sempre stati settari... Chissà ora quanti anatemi mi lanceranno.
Qual è stato l’errore più grande di Alemanno?
Il sindaco di Roma deve fare il sindaco di Roma. Invece che fa? Politica: costruisce il suo gruppo, piazza i suoi uomini, coltiva il suo giardino di consensi. Avrebbe dovuto occuparsi delle strade, delle buche, del traffico.
Chiudere le buche porta più consensi di qualche centinaio di assunzioni?
Certo! Ma Gianni si ubriaca facilmente: è bastato che gli arrivasse all’orecchio che forse il Cavaliere voleva lui come erede. O che i delusi di Fini intasassero i centralini del municipio urlando “Gianni aiutaci tu”. E la fine risulta imbarazzante. È diventato un interventista politico, politiche-se e politicuzzo. Flavio Tosi, per dire, è un sindaco di tutt’altro livello.
Cadono già le prime teste, come quella del capo-scorta di Alemanno, Giancarlo Marinelli.
Marinelli è stato un vero signore ad andarsene. Ma sono altri che si devono dimettere.
Cioè Alemanno?
Certo. Marinelli gli ha dato una bella lezione. Ma io, che amo molto i retroscena, sono convinto che dietro questa operazione si debba temere un’aggressione più dall’interno che dall'esterno.
Complottista.
No, hanno fatto tutto da soli. Ma c’è chi è pronto ad approfittarne.
Facciamo i nomi.
L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Aspetta in un angolo, con l’acquolina in bocca, immaginandosi già la campagna elettorale come prossimo sindaco di Roma. Ho notato strane mobilitazioni. È nell’aria: non può stare con le mani in mano.
E chi lo dice?
Se ne parla negli ambienti di città, dove ci si annusa, ci si cerca, ci si dà appuntamento: dove si decidono le cose più concrete.
Quindi Alemanno è considerato spacciato?
Ha preso una brutta botta. Pari all’appartamento di Montecarlo di Fini.
Qui i favori ai parenti sono molti di più.
Lo dico col cuore, è una vergogna totale. Dalla casa di Montecarlo, alle suocere in Rai, a Parentopoli sono colpi durissimi. Ti hanno levato un mondo, un partito. Con chi ne parli? Cosa fai? È fi-ni-ta!
Ma Fini potrebbe ancora intercettare i delusi?
Sì, se intende Massimo. È l’unico Fini che riconosciamo. Gianfranco no.

l’Unità 10.12.10
La fecondazione il Nobel e l’anatema
Oggi la consegna del Premio a Edwards
di Maurizio Mori


Il Nobel per la medicina che oggi viene consegnato a Bob Edwards è il sigillo che la scienza considera la scoperta della fecondazione in vitro una delle tappe fondamentali per il progresso della civiltà. Il Vaticano, invece, già dal 1986 ha condannato la fecondazione assistita con la Istruzione Donum Vitae, ed ora, all’annuncio del conferimento ad Edwards del più alto riconoscimento scientifico, ha protestato osservando che si è trattata di una scelta ideologica dal momento che la scoperta di Edwards avrebbe favorito «l’indebolimento della dignità della persona umana».
Il contrasto non è da poco. In primis perché impedisce di vedere che la fecondazione in vitro non è tanto o solo una “terapia della sterilità”, ma è piuttosto una tecnica che amplia enormemente il controllo sulla riproduzione umana, aprendo nuovi orizzonti alle scelte generative. È una nuova forma di riproduzione che consente per esempio di estendere la capacità riproduttiva della donna anche dopo la menopausa o di operare la diagnosi pre-impianto. Grazie ad Edwards è aumentata la libertà di scelta delle persone circa le modalità di trasmissione della vita.
Si obietta che non di autentica libertà si tratta, ma di arbitrio, perché la vera libertà si esercita seguendo i binari stabiliti dalla natura, per la quale «i figli devono essere il risultato di un atto d’amore non di un atto medico». Questo perché «la vita umana è sacra perché fin dal suo inizio comporta “l’azione creatrice di Dio” e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore» (Donum Vitae). La fecondazione in vitro profanerebbe la sacralità della generazione umana perché «solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio».
Emerge così che la radice del contrasto tra scienza e teologia cattolica è sempre la stessa. Come Galileo è stato condannato perché, scoprendo col cannocchiale che la Luna è un corpo celeste come la Terra, ha tolto sacralità al cosmo operando la secolarizzazione come disincanto circa il mondo astronomico, così Bob Edwards viene oggi criticato e ostacolato perché, rendendo accessibile e controllabile il processo riproduttivo umano, ha proseguito l’opera di secolarizzazione come disincanto circa il mondo della generazione umana e spogliato l’inizio della vita umana della sacralità in cui era avvolta. Come Galileo fu criticato in base al «Fermati o Sole!» (Gs. 10,12), così Edwards viene criticato in base al «i due saranno una sola carne» (Gn. 2, 24). La condanna della scoperta di Edwards è una riedizione in piccolo del più celebre processo a Galileo, ma le conseguenze non sono meno dure e nefaste, come mostra la ben nota legge 40.

Corriere della Sera 10.12.10
La voce della solidarietà israelo-palestinese
di Ian Buruma


Da oltre un anno, ogni venerdì pomeriggio, centinaia di ebrei israeliani si raccolgono all’imbrunire in una piazzetta polverosa, nel cuore del quartiere arabo di Gerusalemme. Vi sono anche alcuni palestinesi, compresi un paio di ragazzi che vendono spremute d’arancia. La gente nel quartiere di Sheik Jarrah si raduna per protestare contro lo sfratto delle famiglie palestinesi costrette ad abbandonare le loro abitazioni per lasciar spazio agli insediamenti israeliani. Questi sgomberi forzosi sono umilianti, talvolta vessatori, e terrorizzano le altre famiglie. Gli studenti israeliani sono stati i primi a organizzare la protesta, conosciuta come Movimento di Solidarietà Sheik Jarrah. Poi si sono aggiunti anche professori rinomati, celebri scrittori, ex magistrati.Sulle prime, la polizia ha fatto ricorso alla forza per disperdere i manifestanti, benché tali proteste siano perfettamente legittime in Israele. Ma tale è stato il clamore che la polizia ha dovuto fare marcia indietro, pur mantenendo i posti di blocco. Ai manifestanti non resta che agitare cartelli, picchiare sui tamburi, cantare slogan e dimostrare la solidarietà con la semplice presenza.
I retroscena di questi sgomberi non sono chiari. È vero che alcuni ebrei vivevano nel quartiere prima di esserne scacciati nel corso della guerra per l’indipendenza di Israele nel 1948. Ma un numero assai maggiore di palestinesi è stato spodestato della propria abitazione in diversi settori di Gerusalemme ovest, per trasferirsi successivamente in zone come Sheik Jarrah sotto la giurisdizione giordana, finché gli israeliani non si sono impadroniti anche di Gerusalemme est nel 1967. I palestinesi sono stati lasciati in pace, nella maggior parte dei casi, fino a qualche anno fa, quando gli ebrei hanno cominciato a rivendicare il possesso delle proprietà alienate nel ’48. Tuttavia, i palestinesi che volessero fare altrettanto per le loro case a Gerusalemme ovest, oggi non possono. (...)
Sheik Jarrah, però, non rappresenta il caso peggiore. Altri quartieri palestinesi a Gerusalemme si ritrovano tagliati fuori dal resto della città dal cosiddetto «muro di sicurezza», il che significa che gli abitanti, pur soggetti alle imposte comunali, non godono di alcun servizio pubblico. (...) La situazione è di gran lunga peggiore in località più distanti, nelle cittadine come Hebron, dove i coloni israeliani si comportano spesso da pistoleri del Far West, e — infischiandosene delle leggi del loro stesso Paese — scacciano i palestinesi, tagliando i loro alberi, avvelenando il bestiame, o escogitando altre forme di angherie e vessazioni. (...)
Lo scopo finale, a quanto pare, è quello di rendere ebraica tutta Gerusalemme, facendo leva sia sulle acquisizioni che sulle rivendicazioni storiche e, se necessario, senza escludere il ricorso alla forza. Tale spinta è talmente sistematica, e appoggiata all’unanimità dal governo, che ben poche sono le speranze che uno sparuto manipolo di manifestanti, per quanto rinomati, riesca a fermarla. Che la protesta sia un semplice spreco di tempo? Oppure una sorta di ricevimento radical-chic? Un signore palestinese non la pensa così. Oggi vive a poche strade di distanza dal punto dove si raduna il corteo. «Se non fosse per la vostra presenza», mi dice con un sorriso ottimistico, «sarebbe la fine per tutti noi». Forse si aspetta chissà che cosa, ma non c’è dubbio che la solidarietà ebraica contribuisca a far sentire meno soli i palestinesi. Anche perché a loro non è consentito protestare, pena la perdita del prezioso permesso di residenza in città.
Esiste un’altra ragione per far sentire la propria voce: perché è nell’interesse di Israele. Le contestazioni contro le imposizioni del governo, o la resistenza civile, ben di rado hanno effetti immediati e tangibili. Sotto le dittature, rischiano di essere addirittura controproducenti, perché scatenano rappresaglie feroci, specie nel caso della lotta armata. Ma Israele non è una dittatura, bensì l’unica vera democrazia del Medio Oriente. Malgrado i problemi di segregazione, discriminazione, tensioni etniche e religiose, Gerusalemme rimane l’ultima città davvero diversa nella grande regione mediorientale. Oggi ben pochi ebrei sono rimasti a vivere in città come Teheran, Damasco o il Cairo, mentre la popolazione araba di Gerusalemme ammonta al 36% ed è in costante crescita.
Israele è poi costretto a difendersi inoltre dalla tenace ostilità degli arabi. Ma l’umiliazione sistematica dei palestinesi, quando si dà mano libera ai coloni anche nel caso dei peggiori abusi, ha un effetto corrosivo sulla società israeliana. La cittadinanza si è abituata ad assistere a episodi di brutalità ingiustificata ai danni di una minoranza, e non ci fa più caso. Anche se la maggior parte degli israeliani non vede mai un posto di blocco o il muro di sicurezza, né la gente che viene estratta con la forza dalle case, l’abitudine a girarsi dall’altra parte, a far finta di non sapere, è già una forma di corruzione.
Ecco perché le proteste del venerdì sera, per quanto inefficaci nel breve termine, svolgono un ruolo essenziale. Questa dimostrazione di solidarietà è la voce della società civile di Israele, che mantiene vivo il senso di giustizia e la speranza in una società migliore, sia per i palestinesi che per gli stessi israeliani.
(traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere della Sera 10.12.10
Il bambino costretto a diventare italiano
Peripezie di un triestino sloveno: dagli studi liceali in seminario alla maturità presa sotto le bombe
di Boris Pahor


L’importanza delle lingue Nel lager alsaziano riuscii a salvarmi soltanto perché conoscevo il tedesco, avevo studiato anche il francese e me la cavavo con russo e polacco
Il poeta perseguitato Dedicai la mia tesi a Edvard Kocbek che era stato osteggiato dai fascisti e poi fu attaccato anche dai comunisti perché ne aveva denunciato i delitti
Da giovane mi è capitato di essere studente senza esserlo. Tutto comincia quando fummo improvvisamente costretti a diventare italiani. Dopo quattro classi di scuola slovena e senza capirne il motivo, in quinta elementare, ci viene imposto di cambiare lingua, di scrivere, parlare e pensare in italiano; cambiare lingua però non bastava: bisogna «diventare» italiani. Mi viene imposto di cambiare il mio essere, di annullare la mia identità. Mio padre mi iscrive all’istituto commerciale, e per due anni di seguito vengo bocciato. Non era un problema di intelligenza: ero come bloccato, forse perché ero stato costretto a diventare italiano e non capivo come questo fosse possibile. Mi chiedo: «Come faccio a diventare un altro?».
Esercitazione in uniforme in una scuola di Bagnacavallo in provincia di Ravenna (1930) e, a destra, la copertina di un quaderno di un balilla (banca dati Indire)
Per fortuna qualcuno pensa di mandarmi in seminario; vado così a Capodistria, Koper, dove finalmente riesco a spiegarmi il motivo del mio malessere: vengo infatti a sapere che l’Italia, già nel 1918, aveva conquistato un pezzo dell’entroterra della Slovenia e che Mussolini pensava di annetterne un altro, come poi effettivamente accade nel 1941. Finalmente, comunque, sono contento, perché almeno adesso capisco: in apparenza dobbiamo essere fedeli — esteriormente italiani — per poter essere promossi. Prendo in questo modo coscienza della doppiezza della mia identità, che diventerà una costante della mia vita. Insieme ad altri che si trovano nella mia stessa condizione cerchiamo di mantenere nell’intimo la nostra identità di sloveni, trovandoci nelle gite in montagna, durante le vacanze; dato che la gran parte dei libri in sloveno che si trovano nelle biblioteche sono stati bruciati, li cerchiamo dai privati, li studiamo di nascosto facendoli passare per la frontiera di contrabbando, come le sigarette. Prendendo atto di questa situazione, anche il mio rendimento cambia e vengo promosso con ottimi voti alla maturità: l’unica insufficienza era in tedesco. «Ma come — mi dicevo — mi proibiscono di essere sloveno, devo diventare italiano e adesso devo pure imparare il tedesco: una lingua non nostra, bensì di un popolo che per secoli ci ha sottomessi?». Guai però se non lo avessi studiato! Capire il tedesco è stato di vitale importanza per la mia sopravvivenza nei campi di concentramento in Germania.
Passano intanto due anni e Mussolini, capendo che doveva avere la Chiesa dalla sua parte, riesce a stringere un patto con la Santa Sede, annullando così le forti tensioni che si trascinavano fin dal 1870, quando Roma era stata liberata dal potere temporale del Papa. Si poteva perciò anche comprendere che il Duce fosse visto come «mandato dalla Provvidenza». Il Vaticano si trova sottomesso al regime, che adesso comanda anche in chiesa, e così le funzioni religiose devono essere in italiano o in tedesco. I nostri sacerdoti, che sono in minoranza, si trovano in grossa difficoltà: vengono allontanati, mandati via. Una situazione brutta: anche se mi sento un traditore, decido di lasciare i miei compagni di seminario, che vanno in chiesa a lottare contro il fascismo.
Lasciando il seminario non sono più dispensato dal servizio militare: ormai ho 27 anni, ma vengo mandato in Libia, dove c’è la guerra. Si spara, si bombarda; la cosa interessante però è che durante quell’anno di guerra ho fatto tutto il necessario per affrontare l’esame di Stato. Sì perché, pur avendo conseguito la maturità in seminario, questa non era riconosciuta dallo Stato e dunque non valeva niente.
Porto con me tutti i libri, sperando di riuscire a fare l’esame a Tripoli; arriva invece l’ordine di imbarcarci per andare prima a Bengasi, poi fino al confine egiziano. Appena raggiunta Derna, un villaggio vicino al confine, arriva l’ordine di consentire a chi vuol fare l’esame di maturità il ritorno a Bengasi, che non era certo vicina! Bisogna fare l’autostop e tutta la strada a ritroso. Per mia gran fortuna, però, l’esame viene rinviato di 15 giorni. Pensate: di notte, per scampare ai bombardamenti, ci rifugiavamo sotto la Banca d’Italia lì vicino, lungo il mare, e di giorno andavamo fuori a dare gli orali. Nel 1941 insomma, mentre cadono le bombe delle incursioni alleate, io riesco finalmente a dare l’esame di maturità classica.
Intanto Bengasi viene circondata dagli inglesi e io, che sono ammalato al fegato, vengo imbarcato su una nave ospedale. Il primo anno sotto le armi era trascorso, e con il diploma di maturità decido di iscrivermi alla facoltà di lettere a Padova. Una volta guarito torno a Cremona, dove c’è il mio reggimento, e scopro che sul lago di Garda c’è bisogno di un interprete ufficiale di serbo-croato per i prigionieri di guerra jugoslavi. Chiedo così di essere trasferito sul Garda: all’università avevo infatti studiato il serbo-croato con Arturo Cronia, professore di slavistica, sostenendo due esami. Dal 1941, fino a parte del 1943, faccio dunque l’interprete al seguito di 150 ufficiali jugoslavi prigionieri di guerra, tre dei quali sloveni. Sono anni tranquilli ed è da qui che inizia davvero il mio rapporto con Padova. Come ho già detto, mi iscrivo all’università, a dire il vero più per accontentare mio padre, che mi voleva con il classico «pezzo di carta» in tasca. Essendo ancora militare non posso frequentare le lezioni ma, grazie a un tenente colonnello, ottengo i permessi per sostenere gli esami.
Se non ci fosse stato l’8 settembre mi sarei laureato; due settimane prima però il Sim (il Servizio informazioni militare) aveva dato l’ordine di mandare via tutti gli interpreti perché non familiarizzassero con i prigionieri. Pensate l’assurdità: dopo tre anni passati come interpreti in continuo contatto con i prigionieri, improvvisamente ci ordinano di andarcene per non fare amicizia con loro! Vengo mandato a Bergamo e in quei giorni apprendiamo dell’armistizio; faccio dunque ritorno a Trieste e qui mi capita la «pegola» («sfortuna» in triestino, ndr) della deportazione, per colpa di alcuni sloveni che collaborano con i tedeschi. Vengo imprigionato e comincia il mio peregrinare tra i vari campi di concentramento: Dachau, Bergen Belsen, Dora; è il 1˚giugno del 1944, partiamo in 600.
I campi come quelli in cui andai e di cui parlo nei miei libri, ad esempio in Necropoli, erano destinati ai deportati politici, erano campi di lavoro; nulla a che vedere con quelli in cui si compirono le stragi degli ebrei. Si doveva lavorare e di ebrei ce n’erano ben pochi, restavano solo quelli sani; non c’erano forni crematori né camere a gas, si moriva per lo più per le malattie, tifo o dissenteria. Se non si riusciva a guarire e non si era più in grado di lavorare, non si riceveva più da mangiare e, se non si moriva di stenti, si veniva mandati nei campi come Auschwitz, con le camere a gas. La mia prima meta è Dachau, poi mi portano in Alsazia, presso un campo in montagna sui Vosgi, a 50 km da Strasburgo (Natzweilwer, ndr), che è stato mantenuto ancor oggi come «Centro europeo del deportato resistente».
I miei studi universitari, in particolare due esami di lingua e letteratura francese, mi tornano in questo frangente molto utili: li avevo sostenuti con Diego Valeri, un poeta davvero in gamba, non come quelli di oggi, che non si capiscono e per i quali ci vuole l’interprete! Un giorno, a seguito di un’epidemia di tifo, dobbiamo sgomberare una baracca e ho la fortuna di conoscere un ufficiale francese prigioniero di nome Jean, con il quale mi arrangio a parlare, grazie appunto all’esame sostenuto con Valeri. Jean si stupisce molto di come io riesca comprenderlo e a comunicare. All’inizio, vedendo la «I» sulla giacca, pensa che io sia italiano; quando però gli spiego che sono italiano solo di cittadinanza, da un punto di vista politico insom- ma, ma che all’interno delle mura di casa mia, dove posso, sono sloveno, mi chiede se capisco anche il russo, il polacco e il ceco. Trattandosi di lingue slave con radici simili, le capivo certo meglio di lui. Dovete sapere che in questi campi di lavoro c’erano degli ospedali, anche molto ben strutturati, dove si effettuavano soprattutto operazioni chirurgiche. Molti medici, anche prigionieri e di diverse nazionalità, dovevano intervenire sui feriti. Jean capisce subito che la mia conoscenza delle lingue è preziosa e così corre al comando e mi propone come interprete. In particolare divento interprete di un medico norvegese, deportato come me, che non conosceva né l’italiano, né il francese, né il polacco, né il russo. Adesso potete capire perché la conoscenza del francese e di Jean mi hanno salvato la vita!
Nel momento in cui arrivano i liberatori in Alsazia, vengo mandato con gli altri di nuovo a Dachau, poi portato dalle SS a Dora, dove venivano costruiti i missili. A Dora incontro alcuni sloveni che mi conoscono, perché avevo già iniziato a scrivere qualcosa: poiché lì ero ancora una volta una nullità, mi fanno diventare infermiere. Durante l’arrivo dell’armata sovietica da una parte e di quella occidentale dall’altra, i tedeschi cominciano a svuotare diversi campi. Iniziano così veri e propri «viaggi della morte» su treni di 40 vagoni, che avevano principalmente come destinazione Bergen Belsen, il campo dove morì anche Anna Frank.
Si trattava di un campo destinato a chi doveva morire: qui venivano mandati i deportati che erano troppo malati e questo permetteva che altri campi rimanessero più «puliti». Ed è proprio qui che gli inglesi mi liberano: malato di tisi, con due amici francesi, un po’ a piedi e un po’ in autostop, arrivo in Olanda e da qui, su un treno pulitissimo e fra mille attenzioni, a Parigi. Vengo mandato in sanatorio, restandovi un anno e mezzo, e riprendo lo studio della lingua e della letteratura francese, disteso tutto il giorno al sole su una sedia a sdraio. È un ritorno alla vita ed è in quel periodo che nasce il mio amore per Parigi e la Francia.
Quando torno a Trieste decido di cominciare a lavorare sulla tesi. Inizialmente mi rivolgo al professor Valeri, il quale però mi dice che molto del materiale necessario si trova in Germania. Figuratevi se, appena tornato dai campi di concentramento, avevo intenzione di tornarci! Non avevo voglia di avere a che fare con nulla di tedesco. Di conseguenza sono costretto a cambiare i miei piani, scegliendo il professore di slavistica Arturo Cronia; era un croato italianizzato, iscritto — come tutti d’altronde — al partito fascista, ma era comunque un uomo di larghe vedute: molti infatti erano gli sloveni di Trieste che si laureavano con lui, scegliendo un argomento di letteratura slovena.
Scelsi il poeta Kocbek: lo consideravo un amico, anche se ci conoscevamo solo per lettera; era già famoso, avendo scritto un’opera intitolata Zemlja, «Terra». Arrivo alla laurea, come già detto, più che altro per fare un favore a mio padre che ci teneva tanto, e decido che la mia tesi deve avere un’impronta polemica: la sinistra diceva che Kocbek fosse un autore legato alla tradizione cattolica, ai simboli religiosi, all’espressionismo. Io al contrario sostengo che non è affatto così, che anzi si tratta di un precursore del neorealismo. Il professore mi dà carta bianca e finalmente un anno dopo il mio ritorno a Trieste, nel settembre del 1947, a 34 anni, mi laureo.
Kocbek è un grande poeta; purtroppo è poco conosciuto in Italia, benché sia stata tradotta una sua opera: Compagnia. Ha avuto una sorte infausta pagando, come è successo ad altri letterati, lo scotto di essere inviso prima ai fascisti e poi ai comunisti. Istigato anche da me, Kocbek rende noto l’eccidio ingiustificato di decine di migliaia di prigionieri avvenuto subito dopo la guerra ad opera dei comunisti. Viene «condannato» così non solo dal governo di Belgrado ma anche dagli altri Paesi che considerano in modo positivo la Jugoslavia, trattandosi di un Paese non allineato. Per il suo valore Kocbek meriterebbe di essere rivalutato: io, nel mio piccolo, ci ho provato.

Corriere della Sera 10.12.10
Modigliani La pietra e l’anima
Il fascino misterioso delle opere scolpite da un artista vittima della sua leggenda


Amava presentarsi a mercanti e collezionisti come scultore ancor più che pittore. Quasi a sottolineare quella vocazione antica nata negli anni giovanili quando era rimasto abbagliato dai marmi inondati di luce di Carrara e dai capolavori dei grandi maestri che aveva ammirato nei suoi viaggi in Toscana, a Roma, a Napoli, a Venezia. Una passione rafforzatasi dopo l’incontro a Parigi con Constantin Brancusi e a cui si era dedicato con impegno straordinario, privilegiando la tecnica del taglio diretto, sbozzando cioè e scolpendo direttamente la materia scultorea, in aperta antitesi alla lezione del modellato di Rodin. Eppure quelle stupefacenti opere, quelle teste, quelle cariatidi realizzate in soli ventiquattro mesi, tra il 1911 e il 1913, sono state a lungo avvolte nel mistero, travolte da quella leggenda di genio e sregolatezza, da quelle fantasticherie e colpi di scena che a lungo hanno segnato l’esistenza e la parabola artistica di Modì.
«È così un racconto nuovo quello a cui questa mostra vuole oggi dar voce», ha dichiarato Gabriella Belli, direttrice del Mart e curatrice dell’evento insieme a Flavio Fergonzi e Alessandro Del Puppo. «Un racconto critico di ben altro spessore, nato da lunghe ricerche, da attente ricostruzioni storico artistiche e analisi filologiche che hanno portato anche all’identificazione di tre nuove sculture oltre alle venticinque già catalogate nel 1965 da Ambrogio Ceroni. Se si escludono le due esposizioni curate personalmente da Modigliani, quella del 1911 nello studio di Souza Cardoso e quella del 1912 al Salon d’Automne, la mostra del Mart è la prima al mondo interamente dedicata alla sua vicenda di scultore, la numero zero».
Delle 25 sculture documentate dal Ceroni oggi soltanto di 15 si conosce l’ubicazione: il Mart ne presenta otto, ed è un record perché finora nessuna mostra era riuscita a raccoglierne tante insieme. Tra i capolavori presenti, le due teste di Minneapolis ( mai prestata finora) e di Washington o quella del 1912 proveniente dal Centre Pompidou di Parigi. Un numero ragguardevole per la fragilità della pietra in cui vennero realizzate e che insieme agli studi grafici, agli acquerelli, ai dipinti consente di mettere in luce gli esiti altissimi da lui raggiunti nella ricerca plastica. «Sarà proprio l’esperienza della scultura a trasformare Modigliani da pittore ancora legato a un postimpressionismo d’impronta cézanniana in un grande artista dalle soluzioni assolutamente innovative. Senza la scultura non avrebbe scoperto l’arte moderna, non sarebbe arrivato alla padronanza del segno, alla sintesi, a quella nuova purezza formale così gradita alla Parigi del tempo. Non sarebbe diventato Modigliani», ha sottolineato Flavio Fergonzi. Ed è proprio attraverso la scultura che Modì riuscirà a mettere a punto quell’iconografia fatta di colli allungati, di ovali del volto accentuati, di occhi carichi di profondità e mistero, di quegli archetipi di una bellezza universale senza tempo né luogo che trasporrà anche nei dipinti successivi e che costituiranno il suo originale, personalissimo linguaggio artistico.
Grande merito della mostra è l’aver delineato la mappa delle influenze culturali, dei tanti motivi antichi e moderni che a tale linguaggio contribuirono. I capolavori del Trecento e del Rinascimento italiano (di squisita perfezione, nel suo aristocratico distacco, il busto di Battista Sforza di Francesco Laurana) e quelli di arte egizia, indù, khmer e africana che aveva potuto studiare nelle visite al Louvre, al Guimet, al Trocadéro e che qui sono messi a dialogare, in un confronto di forte impatto, con i suoi lavori. E poi le opere dei contemporanei, scultori come Zadkine, Archipenko e Brancusi, in mostra con Il bacio e Adamo ed Eva, ma anche Picasso, con quel Nudo femminile del 1907 dai tratti che si ritroveranno nelle sculture di Modì.
Ma sarà il progetto delle cariatidi a condurre la ricerca di Modigliani verso ancora più ambiziosi obiettivi: una scultura che si fondesse con la forza, le leggi espressive, l’armonia dell’architettura in un grande insieme decorativo, in un’opera d’arte totale. Un’impresa da risultare quasi impossibile e che contribuirà all’improvviso venir meno, in Modì, di quella passione a cui si era dedicato con febbrile energia. Mentre una stagione creativa si chiudeva, un’altra si apriva nello stesso 1913 sulla scena artistica parigina, quella del giovane Boccioni e delle nuove sperimentazioni plastiche dell’avventura futurista.

Corriere della Sera 10.12.10
L’altra bellezza delle sculture tribali Ecco la madre delle prime avanguardie
Il «colpo di fulmine» degli intellettuali d’inizio ’900 per il primitivismo
di Vincenzo Trione


I conservatori. A paragone con i canoni consolidati dell’impressionismo e dei postimpressionisti, quelle inquietanti testimonianze di un’estetica rivoluzionaria suscitarono timori e angosce

La seduzione Dalle opere africane e oceaniche nasce lo «scandalo» del cubismo, a partire da «Le demoiselles d’Avignon» di Pablo Picasso, incipit dell’arte contemporanea
Questa è una storia di scoperte e di rivelazioni. Comincia a Parigi nei primi anni del Novecento. Esattamente alla fine del 1906, quando il fauve Maurice de Vlaminck, durante una passeggiata sulle rive della Senna, entra nella bottega di un mercante di anticaglie. Lì si imbatte in una serie di strani feticci in legno eseguiti da anonimi creatori dell’Africa francese. «Grotteschi e rozzamente mistici», verranno definiti. Qualche mese più tardi — è l’estate del 1907 — Pablo Picasso è in visita al Musée de l’Homme, al Trocadéro: ricco archivio di icone esotiche. Un incontro che inciderà in maniera determinante su «Les demoiselles d’Avignon», il quadro considerato da molti come l’incipit dell’arte contemporanea.
Parigi, o cara Una rara immagine del Salon d’Automne del 1912, dove Modigliani presentò sette sculture. L’artista aveva già partecipato nel 1907 all’esposizione, organizzata con cadenza annuale a Parigi dal 1903 come alternativa più progressista al Salon ufficiale e ad altri spazi espositivi. Sotto, la sua «Cariatide con vaso», acquerello in arrivo dalla Tate di Londra.
Questi due episodi sono all’origine di quella che Guillaume Apollinaire chiamerà «melanomania e melanofilia». Siamo dinanzi a una vera moda, che contagerà artisti, scrittori, intellettuali, galleristi. In una stagione segnata da forti disagi — gli inizi del XX secolo —, molti avvertono l’esigenza di guardare altrove. Ci si richiama a una espressività sorgiva, incorrotta; a una sapienza riscaldata dal divino; al mito del buon selvaggio. Ci si spinge al di là del recinto protettivo della cultura europea, per misurarsi con il fascino del diverso: si vuole riscoprire quel che non è stato corrotto dalla civiltà. Tra i «melanofili», Blaise Cendrars, che pubblica un’Antologia negra; Ricciotto Canudo, che auspica l’avvento di un nuovo primitivismo; Tristan Tzara, che loda le qualità delle opere «coloniali»; André Breton, che invita i francesi a «negrizzarsi». Fino ad Apollinaire e Picasso, collezionisti di statue e di maschere apotropaiche provenienti dal Gabon, dalla Guinea, dall’Egitto. Sarà proprio Apollinaire ad annotare: «La curiosità, dedicandosi alle sculture d’Africa e d’Oceania, ha trovato un nuovo alimento».
Una curiosità che stimola mercanti come Paul Guillaume. Ma risveglia anche paure segrete. Perché quei «testimoni inquietanti» suscitano timori, angosce, ossessioni. Ma possono anche sedurre. Non si tratta solo di costruzioni dal valore antropologico. Sono «attrezzi» dotati di profonda qualità estetica, che indicano una strada per uscire dagli schemi impressionisti e postimpressionisti. A differenza degli artisti occidentali, quelli esotici non rappresentano le apparenze: di una faccia, ad esempio, ritraggono non ciò che vedono, ma ciò che sanno. Conducono una ricerca esclusivamente plastica. Per sfiorare la struttura nascosta dietro il visibile, compiono semplificazioni estreme. Non inseguono una bellezza simmetrica e classica. Non temono il brutto, inteso come il lato perturbante del bello: esasperano dettagli, sperimentando anamorfosi. Quasi istintivamente, elaborano una poetica della deformazione. Plasmano silhouettes drammaticamente ieratiche, caratterizzate da verticalità, da equilibrio geometrico, da essenzialità volumetrica, da purezza compositiva. Architetture che non rimandano a un asettico calcolo, ma rispondono solo a regole interne. Questo bisogno di riduzione è sempre sorretto da tensione spirituale. Pur privi di consapevolezza artistica, gli scultori negri marcano una netta distanza dal reale, per avviarsi verso un inatteso preconcettualismo. Senza rispettare i principi della verosimiglianza, modellano visi e corpi disarticolati. Liberi da condizionamenti esteriori, non replicano la natura. Vogliono qualificare, come ha ricordato Michel Leiris, le forme, «secondo un movimento (...) che va dall’idea (...) alla figura».
Importanti momenti dell’avanguardia parigina primonovecentesca nascono da qui. Da queste lontane memorie traggono origine gli scandalosi gesti dei cubisti, impegnati a portarsi verso una sorta di realismo analitico. Picasso e Georges Braque pensano l’arte non come racconto, né come descrizione, ma come deformazione, tesa a mettere in rilievo alcune unità linguistiche finite e costanti, prive di riferimenti denotativi. Disarticolano identità, scompongono fisionomie, mandano in frantumi anatomie, propongono smontaggi: raffigurano i volti contemporaneamente, da molteplici punti di vista, da molti lati, secondo angolazioni dissonanti. Dal dialogo con i feticci muoverà anche Amedeo Modigliani, per elaborare un’originale ipotesi di arcaismo moderno: uno stile barbarico e, insieme, elegante. Forse, l’ultima figurazione possibile. Ecco le sue compatte e austere teste: solenni e antichissime. Blocchi di pietra grezza, su cui sono incisi lievi tratti: visi inclinati, con palpebre chiuse, occhi senza pupille, nasi aguzzi. Massi grezzi, da cui affiorano sagome ancora etrusche. Silenti cariatidi, ritagliate nella scabra pietra. Custodiscono una trattenuta sensualità. Ma presentano anche aspetti densi di consonanze con i totem africani. Una monumentalità decostruita, fatta di volti ben definiti ma asimmetrici, di proporzioni alterate, di arti lievemente sconnessi.
Anche Modigliani sogna il Paradiso perduto. Anch’egli è sedotto da una struggente nostalgia per l’infanzia e per la giovinezza. Una nostalgia che, come ha scritto Ernst Gombrich, tende a fondersi «facilmente nella mente dell’uomo con il desiderio di ritrovare un’epoca passata o terre lontane: più primitive eppure più spensierate, più innocenti della nostra condizione presente».

Repubblica 10.12.10
Il narcisismo non è più malattia
Così la psichiatria “scagona” chi ama troppo se stesso
di Massimo Ammaniti


Da Freud in poi lo studio dell´egoismo patologico è stato per anni al centro della psicanalisi
Tra le ragioni del "declassamento" la necessità di più evidenze ma anche interessi corporativi
Seicento esperti riscrivono l´intero sistema diagnostico dei disturbi della personalità. Con qualche novità e molte polemiche

Il narcisismo non è più un disturbo della personalità. Sono 600 psichiatri ad affermarlo, proprio nel momento in cui il fenomeno sembra sempre più diffuso. Nel maggio 2013, infatti, verrà pubblicato il "DSM 5", una sigla che sintetizza il sistema diagnostico più diffuso al mondo in campo psichiatrico. Fin dalla sua prima edizione, del 1952, ha impegnato le migliori menti della disciplina per stabilire quali disturbi psichici includere e quali escludere dalla complessa classificazione. Quest´ultima versione, frutto di un lavoro di anni, ha coinvolto 600 specialisti ed è costata 25 milioni di dollari.
Molti disturbi sono stati eliminati, altri sono stati riformulati secondo nuovi criteri: nel sito dell´American Psychiatric Association si possono leggere le proposte di revisione dei disturbi di personalità che, semplificando, sono stati ridotti da 10 a 5. E mentre è rimasto il disturbo borderline di personalità, è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità. Una scelta che ha scatenato molte polemiche. Sull´American Journal of Psychiatry un gruppo di eminenti psichiatri americani e inglesi, fra cui Otto Kernberg, presidente della Società Psicoanalitica Internazionale, ha scritto che in questo modo non è più rappresentato adeguatamente lo spettro dei disturbi di personalità che si possono osservare.
D´altra parte il disturbo narcisistico di personalità ha ricevuto una minore attenzione nella ricerca clinica di questi anni: non è facile riconoscere "campioni" con caratteristiche generali anche perché non si dispone di metodi di indagine adeguati. A questo punto il clinico che tratta questi pazienti nel proprio studio non avrebbe un riferimento diagnostico a cui rifarsi. Ma resta importante chiedersi perché il disturbo narcisistico di personalità sia stato escluso nonostante il narcisismo patologico abbia rappresentato per molti decenni un tema centrale nel pensiero psicoanalitico fin dal saggio di Freud del 1914 Introduzione al narcisismo. Freud aveva messo in luce che il narcisismo, ossia l´investimento e l´amore per sé, permea la nostra vita quotidiana dall´amore dei genitori per il proprio figlio all´amore sentimentale fino alle preoccupazioni ipocondriache per la propria salute.
Nel corso degli anni il concetto di narcisismo ha assunto anche una dimensione sociale, riflettendo orientamenti e comportamenti quotidiani descritti dal sociologo americano Christopher Lasch nel suo famoso libro La cultura del narcisismo, del 1979. Lasch parlando della società americana di allora raccontava come si fossero affermati, con la caduta delle grandi ideologie, modelli di individualismo esasperato che spingevano verso le pratiche di autocoscienza o verso il culto del proprio corpo o verso la liberalizzazione sessuale, per sconfiggere le paure e le ossessioni della vecchiaia e della morte. Il libro di Lasch aveva anticipato tendenze che si sono via via affermate nel mondo occidentale, basti pensare alla pratica di Facebook attraverso cui ci si presenta agli occhi degli altri per confessarsi e ottenere conferme in un intreccio infinito che esalta la propria individualità.
Era questo il contesto in cui ha preso corpo il concetto di narcisismo patologico, caratterizzato da un senso grandioso di sé e dal costante bisogno di conferme da parte degli altri. Inevitabilmente la vita emotiva dei narcisisti è particolarmente povera e superficiale, con un bisogno di costanti rassicurazioni e una incapacità a provare empatia per gli altri, soprattutto per le loro sofferenze. Se il narcisismo è divenuto la coloritura fondamentale della vita quotidiana sfuma il confine fra normalità e patologia. È così diffuso nei comportamenti di tutti i giorni da divenire una costante della personalità umana, secondo l´affermazione dello psicoanalista americano Heinz Kohut. Il termine narcisista, poi, fa parte del lessico comune non solo negli scambi quotidiani con gli altri, ma anche per descrivere i comportamenti di molti governanti, presi solo dai propri interessi ed egoismi. Togliendo il disturbo narcisistico di personalità dalle classificazioni psichiatriche non si verrebbe inevitabilmente a sancire la normalità dei comportamenti dei politici e a giustificarli?
Non credo che queste considerazioni abbiano influenzato la task force che si è occupata dei disturbi di personalità. E allora in base a quali criteri è stata costruita la nuova classificazione? In primo luogo il panorama della ricerca psichiatrica è in rapida evoluzione, studi in campo genetico e neurobiologico stanno ridisegnando i confini dei disturbi psichici e allo stesso tempo occorrono evidenze forti per stabilire che un disturbo realmente esista. Rileggendo i casi clinici di Freud, ad esempio quelli di isteria, difficilmente si potrebbe fare oggi la stessa diagnosi di allora. E poi le scuole psichiatriche più prestigiose, soprattutto americane, vogliono ottenere un adeguato riconoscimento nella nuova classificazione del DSM. Dalla prima edizione si è verificato un profondo cambiamento del paradigma scientifico, da un modello psicoanalitico dominante negli anni ´50 a un approccio basato sulle evidenze, per cui una sindrome clinica, al pari delle malattie internistiche, può essere riconosciuta solo con indagini effettuate nella popolazione generale oppure in gruppi selezionati di pazienti che si rivolgono ai servizi psichiatrici.
Anche altre ragioni, meno scientifiche, pesano sulle decisioni di includere o escludere un disturbo, ad esempio il ruolo delle società di assicurazione americane che coprono le spese psichiatriche dei propri assistiti. Se si amplia troppo l´ambito dei disturbi psichici le assicurazioni dovrebbero affrontare costi crescenti. Infine vi è il ruolo ancora più importante delle industrie farmaceutiche. Qui l´interesse è esattamente il contrario, ossia allargare sempre di più l´ambito delle persone che fanno uso di psicofarmaci. Se la psichiatria dilata la definizione dei disturbi psichici la potenziale utenza può ampliarsi a dismisura, basti pensare che le prescrizioni di antidepressivi sono aumentate in Gran Bretagna del 171% nel decennio 1991-2001, dice il Department of Health. È probabile che l´approccio farmacologico abbia influenzato anche la revisione nel DSM 5 dei disturbi di personalità. Nella nuova proposta rimane il disturbo borderline di personalità che viene curato con prolungati trattamenti farmacologici, mentre è stato escluso il disturbo narcisistico di personalità, per cui venivano consigliati trattamenti psicoterapici. Ma forse il mondo sta cambiando: il narcisismo non solo aiuta a vivere, può addirittura, se assume un carattere di grandiosità personale, predisporre verso una carriera politica.

l’Unità 10.12.10
Il bambino con le braccia all’aria
La storia di Paolo corre quasi parallela alla lunga lotta di Franco Basaglia per rinnovare la psichiatria. A raccontarla è il fratello Carlo, dalle prime stranezze al progredire della malattia, in un libro capace di commuovere e di indignare
di Oreste Pivetta


Paolo rivela appena ragazzo la sua diversità, all’inizio ovviamente in modi lievi, a tratti, a tratti recuperando la sua normalità, manifestando là dove ci si attende che lo faccia, cioè a scuola, la sua intelligenza, la sua sensibilità, la sua diligenza. Paolo cammina «con le braccia larghe», con le braccia all’aria come volesse prendere il volo, liberarsi: è il primo sintomo di una precarietà e dà il senso di un bisogno ma anche di una disponibilità. È il fratello Carlo che osserva quel particolare modo di incedere di Paolo: «Il giorno in cui mi accorsi che Paolo camminava tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo, rimasi più che altro sorpreso. Non capivo se era un gioco o qualcosa di più misterioso. Avevo allora nove anni e mio fratello ne aveva uno e due mesi di più...». È il fratello Carlo che ricorda e che la vicenda di Paolo ha raccontato in un libro, Il bambino con le braccia larghe (edito da Ediesse), titolo splendido per un libro bello, intenso, capace di commuovere e di indignare, e l’ha scritto con semplicità, senza retorica, cronista di due vite accanto, la sua di felice padre di famiglia e quella di Paolo, sofferenza continua sino alla morte, un anno fa. Carlo Gnetti è giornalista, lavora per Rassegna sindacale, il settimanale della Cgil, è autore di molti saggi.
Carlo e Paolo sono figli di una famiglia che gode di qualche benessere economico, il padre ufficiale della marina militare (diventerà ammiraglio), medaglia d’oro per aver condotto in salvo tutto l’equipaggio della sua nave affondata in un episodio di guerra, la madre donna religiosa, con aspirazioni di cultura. Vivono tra Portoferraio, Spezia, Portovenere, Lerici, i luoghi d’origine della famiglia, La Maddalena, Napoli, i porti dove il padre marinaio viene via via trasferito per servizio, e infine Roma. Un’infanzia lieta – siamo tra i Cinquanta e i Sessanta , ci sono anche due sorelle, la scuola, i giochi, gli amici, le vacanze, le prime gite in macchina, stipati nella Millecento verde. E poi il mare e le navi, che resteranno sempre nella fantasia di Paolo. Finché appunto, dopo le prime stranezze, s’avverte il progredire della malattia. A quel punto la vita di Paolo e dei suoi, dei genitori e del fratello, diventa una peregrinazione alla ricerca di una soluzione, che è difficile definire: guarigione è una chimera, alleviare la pena è una speranza, come è una speranza condividere la sofferenza o sentire attorno a sé aiuto. Si comincia con la psicoanalista, che «scopre» le colpe dei genitori e poi rimanda ad altri, si continua con gli psichiatri, si conosce il manicomio, si passa dalle case di cura private, si prova la comunità, si precipita nel pozzo degli psicofarmaci... rare voci fraterne, alcuni esperimenti coraggiosi quando il coraggio supplisce alla povertà delle risorse, soprattutto indifferenza, superficialità, ignoranza (anche dei primari) fino alla brutalità e lo scandalo di una sanità consegnata alla speculazione. L’incontro obbligato con le cliniche psichiatriche romane è un itinerario infernale tra squallore, abbandono, insipienza, violenza: il malato non si sa difendere. Carlo s’illumina d’entusiasmo quando un giovane psichiatra (che non rivedrà più, presto allontanato) gli dirà che i medici non possono «mettere le esigenze degli infermieri davanti a quelle dei pazienti». Sembra Basaglia, quando denunciava nel manicomio una struttura burocratica organizzata a sua difesa e per la sua prosperità sulle spalle dei malati. Anche Carlo Gnetti cita Basaglia. Per ragioni storiche. La vicenda di Paolo corre quasi parallela alla lunga, contrastata lotta di Franco Basaglia e di tanti come lui per rinnovare in Italia la psichiatria, cominciando dalla cancellazione dei manicomi e dalla costruzione di una rete di servizi, che potesse aiutare il malato se non a guarire almeno a ridurre il danno per sé, contro l’emarginazione, l’esclusione, strutture adatte all’assistenza a tempo pieno e a lungo termine, il più possibile umane, il più possibile orientate sulla terapia e sul recupero sociale. Questo doveva consentire la legge 180, la cosiddetta legge Basaglia, approvata nel 1978, come ci ricorda Carlo Gnetti: una legge rimasta in sospeso, applicata male e tardi, peggio in alcune regioni, meglio in altre, rimessa in discussione infinite volte, contestata dalle stesse famiglie che si sono ritrovati a casa i malati. Carlo Gnetti non è tra i critici: riferisce la sua odissea e nel riferire documenta una pessima applicazione che riconduce il malato all’oscurità dei manicomi (tali sono quelle costose e pompose cliniche private, dove capita che un urologo faccia il direttore psichiatrico e dove l’unica terapia è la dose quotidiana, sempre più alta, di psicofarmaci) e che lascia i parenti (e pochi altri volonterosi con loro) alla solitudine e all’impotenza di fronte al dissesto della mente, il mistero che non possono comprendere. Siamo di fronte a una storia familiare che «materializza» condizioni e responsabilità collettive, il peso di una riforma mancata, di una sanità che s’affida al mercato, di una marcia a ritroso nella civiltà, e che rappresenta la tragedia di una società che continua a escludere e che lascia prosperare alcuni sull’esclusione di altri, i più deboli tra tutti, come possono essere Paolo e gli altri.