lunedì 13 dicembre 2010

Bersani: “Noi non dobbiamo suscitare passione per una persona, ma per la nostra Repubblica”
l’Unità 13.12.10
Carisma contro capacità
di Silvia Ballestra


Corriere della Sera 13.12.10
Se domani le Camere finiscono sotto protezione
È una decisione che appare senza precedenti
Piano di sicurezza per Camere e Palazzo Chigi
di Fiorenza Sarzanini


Cordoni di sicurezza intorno alle sedi istituzionali che di fatto trasformeranno in una «zona rossa» il centro di Roma. La questura blinda i palazzi della politica in vista delle manifestazioni di piazza previste per domani, mentre in Parlamento si voteranno le mozioni che decreteranno il destino del governo. Vietato avvicinarsi alla Camera, al Senato, a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli, oltre che alle sedi dei partiti. L’ultima riunione per mettere a punto il piano di sicurezza si svolgerà oggi, ma l’interdizione di queste aree a chi ha annunciato di voler partecipare a «una grande assemblea popolare» è già stata stabilita.
È una decisione che appare senza precedenti. Le informazioni raccolte dai responsabili dell’ordine pubblico assicurano che da tutta Italia arriveranno in treno, in pullman e con mezzi propri migliaia e migliaia di persone decise a «sfiduciare dal basso Silvio Berlusconi».
Il diritto di manifestare deve sempre essere garantito, soprattutto in un giorno cruciale per la vita del Paese. Ma è preoccupante che ai senatori venga suggerito di recarsi molto presto a palazzo Madama proprio per evitare di essere intercettati dai manifestanti. Ai promotori del corteo che avevano chiesto di poter arrivare a Montecitorio, la questura ha risposto con una nota ufficiale nella quale giustifica la scelta di interdire l’accesso alla piazza per la «necessità di garantire il regolare svolgimento delle attività parlamentari».
Manifestazioni di violenza devono sempre essere stigmatizzate e condannate. Senza dimenticare che qui c’è in gioco il diritto a dissentire, la possibilità di protestare in maniera pacifica. A Roma si sono dati appuntamento, tra gli altri, i napoletani esasperati dall’emergenza rifiuti, gli aquilani che attendono la ricostruzione della propria città, gli studenti che non condividono la riforma del ministro Mariastella Gelmini. Certo, una miscela di malcontento che rischia di infiammarsi. Si riuniranno alle 10.30 di fronte al Colosseo, molti hanno già annunciato di voler esplorare percorsi alternativi, organizzare sit-in all’ultimo momento per cercare il modo di coinvolgere quanto più possibile i cittadini.
Compito delle forze dell’ordine è evitare che la situazione degeneri, impedire ai più facinorosi di fomentare la folla, isolare chi ha deciso di andare in piazza per cercare lo scontro. Però l’immagine del centro della capitale ridotta a un’area chiusa e inaccessibile anche ai residenti e ai turisti, a chi ci vive e lavora, trasmette la sensazione di una democrazia che ha paura ed è costretta a blindarsi.
La scelta di creare «zone rosse» ha un tragico precedente che non può e non deve sfuggire. Perché riporta con la mente ai giorni del G8 di Genova del luglio 2001, alla città presidiata dai blindati, controllata metro dopo metro da carabinieri, poliziotti e finanzieri bardati in assetto antisommossa. Riporta ai manganelli, ai fumogeni, agli urticanti, alle molotov. Alla guerriglia urbana. I divieti decisi per garantire l’ordine pubblico sono essenziali. Ma se sono indiscriminati rischiano di ottenere l’effetto opposto.

Repubblica 13.12.10
Uguali diritti
"È barbaro chi non riconosce l'essere umano"
 Tzvetan Todorov intervistato da Maurizio Bettini


Nasciamo in un contesto condiviso di regole e rappresentazioni mentali Poi sta a noi decidere di continuare a viverci o fare scelte volontarie
In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica Deve accordare gli stessi diritti a tutti i cittadini, atei e credenti
L´intervista / Il filosofo bulgaro sarà domani a Roma per ricevere un premio: "Nel Novecento abbiamo sperimentato atti di crudeltà e di assoluto disprezzo per la vita degli altri"

Chi ha incontrato per la prima volta il nome di Tzvetan Todorov in tempi lontani, come editore e traduttore de I formalisti russi, avrà certo seguito con stupore e ammirazione il suo lungo percorso intellettuale. Dallo strutturalismo letterario alla storia delle idee, alla storia dell´arte, alla storia tout court, per approdare infine a una incessante discussione su quei temi semplicemente "umani" o civili che oggi tanto ci riguardano: la violenza, i diritti, l´identità, il totalitarismo, e così via.
Da pochi giorni è apparsa in Italia la tua autobiografia intellettuale, Una vita da passatore (Sellerio). Leggendola mi sono ricordato che durante il colloquio in tuo onore che si è tenuto poche settimane fa a Parigi, Lionel Naccache, sottolineando l´importanza dell´eclettismo nelle scienze umane, ha affermato che anche tu saresti un "eclettico". Ti riconosci in questa affermazione?
«Senza dubbio le circostanze della mia vita sono in parte responsabili della pluralità dei miei interessi. All´età di 24 anni ho lasciato il mio paese, la Bulgaria, per venire in Francia, e questo ha già seriamente trasformato le mie abitudini. Cinque anni dopo sono entrato a far parte del Centre National de la Recherche Scientifique, un´istituzione estremamente liberale. In definitiva, però, sento che le scienze umane si rivolgono tutte quante a un medesimo oggetto, anche se le materie che studiano sono diverse. Un certo enciclopedismo, una pluralità di punti di vista rivolti a questo oggetto mi sembra dunque auspicabile. Nel nostro campo vale questa regola della conoscenza: occorre andare sempre al di là del nostro punto di vista soggettivo e cercare di assumere quello degli altri, in un continuo va-e-vieni».
In questo stesso momento Garzanti pubblica un altro dei tuoi libri, con un titolo davvero programmatico: La bellezza salverà il mondo (Wilde, Rilke, Cvetaeva). Che posto occupa quest´opera nel tuo lavoro?
«Devo dire subito che questa formula, "la bellezza salverà il mondo", tratta da L´idiota di Dostoevskij, può avere molti significati. Mi soffermo sulla vita e il pensiero di tre grandi scrittori europei, che si possono sommariamente collocare nel periodo romantico. Secondo gli ideali romantici, la creazione del bello è il valore supremo dell´esistenza, e si è giustificati se si sottomette ad essa tutto il resto. Ciò detto, però, le modalità secondo cui questo ideale si realizza, divergono: Wilde ha voluto fare della sua vita un´opera d´arte, Rilke era pronto a sacrificare la sua esistenza sull´altare della creazione poetica, la Cvetaeva ha stabilito una cesura radicale fra alto e basso, fra poesia e vita quotidiana. Ebbene, questi tre artisti, le cui opere sono ammirevoli, hanno avuto una vita che si può definire tragica, pur se con gradazioni diverse. Il mio racconto svela la fragilità di questa visione romantica del mondo, e interroga direttamente il modo in cui ciascuno di noi costruisce la propria vita».
Prendiamo un altro dei tuoi temi (e dei tuoi libri), la paura dei barbari. Il termine "barbaro" ha un potenziale semantico enorme. Chiamando "barbaro" qualcun altro, infatti, ci si identifica automaticamente con i (presunti) maestri di ogni civiltà, i Greci, che appunto definivano bárbaroi tutti coloro che Greci non erano; ma anche con i Romani, che impararono rapidamente dai Greci a definire barbari i non Romani, ovvero con Ebrei e Cristiani, che a loro volta definirono "barbari" i gentili ovvero i pagani.
«Fino dalle sue origini la parola "barbaro" possiede due accezioni diverse. Da una lato ha un senso relativo, reversibile: si chiamano barbari quelli che non sono come noi, che non parlano la nostra lingua o che la parlano male; dall´altro invece ha un senso assoluto, indipendente dal punto di vista di colui che parla: in tal caso si definisce barbaro colui che trasgredisce le regole della vita comune, che si comporta in modo particolarmente crudele, che non ha alcun rispetto per la vita degli altri. Confondere questi due sensi è sbagliato, ed è il secondo che conserva ancora tutta la sua pertinenza. Nel XX secolo abbiamo sperimentato atti di barbarie che non hanno più niente a che vedere col fatto di essere stranieri, di parlar male la lingua e così via: pensiamo, in particolare, ai regimi totalitari in Europa. Il barbaro è colui che non riconosce la piena umanità degli altri. Ma bisogna anche ricordarsi che nessun popolo, nessun individuo è "barbaro" una volta per tutte: lo sono solo i suoi atti e i suoi atteggiamenti».
Credo che un individuo abbia il diritto di scegliere la propria identità culturale, proprio come Voltaire sosteneva che ciascuno ha il diritto di scegliere la propria "patria". Purtroppo, però, molti oggi non la pensano così.
«Qualsiasi gruppo umano possiede una cultura, ossia un insieme di regole di comportamento e di rappresentazioni mentali. All´inizio riceviamo la nostra cultura senza averlo deciso: è quella dei nostri genitori. Crescendo però possiamo fare scelte volontarie, conoscere culture diverse da quella in cui siamo nati, oppure decidere di continuare a viverci. D´altra parte, la cultura di ogni gruppo umano si trasforma col tempo. Prova ne sia il fatto che, pur se abitiamo sempre nel medesimo luogo, non parliamo certo la stessa lingua dei nostri antenati! Tuttavia, giorno per giorno nessuno è cosciente di questi cambiamenti. È in questo senso che qualsiasi cultura viva è simile alla mitica nave Argo. Il suo viaggio era durato così a lungo che tutte le sue parti erano state cambiate, assi, funi, vele - eppure era sempre la stessa nave. Una cultura che non cambia è una cultura morta, e non c´è nulla di cui essere fieri».
Eppure in Italia si sostiene spesso che il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche perché simbolo della "nostra" identità culturale: dunque non solo quella di chi sceglie di sentirsi cristiano, ma quella di tutti gli italiani, indipendentemente dalle decisioni individuali.
«In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica, accorda gli stessi diritti a tutti i cittadini, credenti o atei, cristiani, buddisti, ebrei o musulmani. Esigere oggi che tutti abbiano la stessa fede significherebbe rinunziare al carattere secolare dello Stato, confondere la sfera delle convinzioni personali con quella delle norme collettive, come facevano gli stati totalitari. L´unità della legge non ha lo scopo di imporre l´uniformità dei costumi, si può amare la propria chiesa senza dover chiedere nello stesso tempo di chiudere le moschee. È anche per questo che il crocifisso, nella scuola pubblica, non è al suo posto».

l’Unità 13.12.10
È il nuovo romanzo di Helga Schneider, l’autrice tedesca di «Lasciami andare madre»
Ancora un racconto sulla follia del nazismo per lasciare nei «ragazzi un seme di pace»
Storia di Rosel piccola «ariana»
di Manuela Trinci


Repubblica 13.12.10
Chi paga il prezzo dei tagli all´istruzione
di Tito Boeri


In tutti i paesi avanzati è stato il lavoro poco qualificato a pagare il conto più salato nella Grande Recessione. Negli Stati Uniti un quarto dei lavoratori con meno di 12 anni di istruzione ha perso il lavoro tra il 2007 e il 2009. A chi aveva studiato anche solo quattro anni in più è andata molto meglio: "solo" uno su dieci ha vissuto il trauma della perdita del lavoro. Nell´area dell´euro il tasso di disoccupazione tra chi ha al massimo completato la scuola dell´obbligo è aumentato di più di quattro punti percentuali in due anni.
Quello dei laureati è rimasto quasi invariato. Oggi la probabilità di essere disoccupato tra chi ha una laurea è un terzo di quella di chi ha solo un diploma di scuola secondaria inferiore. Prima della crisi il rapporto era di uno a due.
Le cose in Italia non sono molto diverse: l´unica differenza è che da noi molte persone con basso livello di istruzione rimangono ai margini del mercato del lavoro. I divari nei tassi di occupazione tra laureati e diplomati sono attorno al quaranta per cento, come negli altri paesi, e sono cresciuti durante la recessione. L´istruzione è diventata ancora più di prima la migliore assicurazione sociale di cui un giovane oggi può dotarsi per evitare un futuro difficile, fatto di disoccupazione e bassi salari.
I lavoratori poco qualificati dei paesi avanzati sono sempre più l´anello debole della crescita mondiale, schiacciati fra i lavoratori poco istruiti dei paesi emergenti e i lavoratori qualificati dei paesi avanzati. Nel Nord del mondo le imprese che, al di fuori dei servizi, sono cresciute di più sono quelle con un´elevata proporzione di lavoratori qualificati, che hanno saputo innovare producendo beni sempre più tecnologicamente avanzati, al riparo della concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Oggi ci sono scarpe per il jogging in grado di misurare il numero dei battiti cardiaci. Non sarà facile imitarle con scarpe made in Taiwan.
Il nostro esecutivo in questi due anni e mezzo ha tagliato solo un capitolo della spesa pubblica: le risorse per l´istruzione. Nel 2008-2009 sono calate, secondo l´Istat, del 2 per cento, mentre il resto della spesa pubblica aumentava, al netto dell´inflazione, di più del 3 per cento. In termini relativi, la spesa in istruzione è dunque calata del 5 per cento.
Secondo le previsioni della Ragioneria dello Stato, le cose sono destinate ad andare ancora peggio nel 2010. La spesa per la scuola dovrebbe diminuire di circa un punto e mezzo e quella per l´università addirittura del 9 per cento in termini reali. La spesa per l´istruzione sarebbe destinata a perdere un altro mezzo punto percentuale sulla spesa totale, a vantaggio delle pensioni. È significativo che nella crisi siano aumentate in termini relativi le risorse per la previdenza - che si basano su di un trasferimento dai giovani a chi è al termine della carriera lavorativa e non può più essere colpito dalla piaga della disoccupazione - mentre sono calate quelle per l´istruzione - una istituzione che ridistribuisce in senso contrario, guardando al futuro professionale delle nuove generazioni.
È una scelta di bilancio che non ha alcuna giustificazione economica di fronte alla stagnazione del nostro Paese. Si spiega unicamente con lo scarso peso politico delle nuove generazioni. Rischiamo di pagarla molto cara, la classica zappa sui piedi.
I mancati investimenti oggi fatti nell´istruzione potranno tradursi in un futuro non molto lontano in maggiore spesa per offrire protezione sociale a coloro che, in un mondo sempre più competitivo, non riusciranno a trovare o mantenere a lungo un posto di lavoro. Per questi motivi Francia e Germania si sono mosse in direzione diametralmente opposta alla nostra, aumentando durante la crisi la spesa per l´università e la ricerca.
Per coprire questo tentativo di scaricare una volta di più i costi sulle generazioni future, si è creata anche una cultura contraria agli investimenti in capitale umano delle famiglie. Il nostro ministro del Lavoro non perde occasione per invitare i giovani a fare «lavori manuali, umili» anziché ambire a livelli di istruzione più elevati e lavori qualificati.
Illustri editorialisti non più tanto giovani si scagliano contro il «giovanilismo» e contro gli studenti, rei di manifestare il proprio dissenso contro i tagli unilaterali all´istruzione. Prendono, questi ultimi, spesso di mira la cosiddetta «riforma Gelmini», forse perché il disegno di legge che porta il nome dell´attuale ministro dell´Istruzione ha finito per offrire copertura ai tagli, ma il vero nemico sono i tagli all´istruzione ed è molto importante che i giovani facciano finalmente sentire la loro voce.
Certo, conta non solo la quantità, ma anche la qualità della spesa per l´istruzione, conta offrire strutture adeguate e premiare il merito. Ecco una proposta per migliorare quantità e qualità: ripristiniamo lo stesso peso relativo della spesa per l´istruzione di prima della crisi, prelevandolo da quel miliardo e più di «fondi da ripartire», discrezionali, aggiuntivi previsti dalla Ragioneria per il 2010. Destiniamo queste risorse nell´immediato a interventi per garantire edifici scolastici adeguati, in cui non si corra più il rischio di essere travolti dal crollo di un soffitto e si possano tenere lezioni di materie scientifiche in laboratori adeguati. Si lavori, al contempo, per permettere di attribuire ogni risorsa restituita al fondo di finanziamento ordinario dell´università sulla base di criteri di merito, oggettivamente misurati.
Sarebbe una vera riforma perché cambierebbe radicalmente le scelte di reclutamento degli atenei. A proposito: come si fa ad attribuire intenti riformatori a chi per due anni e mezzo non ha portato a termine l´anagrafe dell´edilizia scolastica e non ha neanche nominato i vertici dell´Agenzia di Valutazione della Ricerca (Anvur)? Senza valutazione non ci può essere meritocrazia.

Repubblica 13.12.10
Rischio collasso per la Pompei del Mare
Pisa, ridotti del 90 per cento i fondi per il museo delle navi antiche
Il direttore: i soldi bastano solo per la vigilanza. Appello per ottenere la tutela dell´Unesco
di Cinzia Dal Maso


PISA - «Siamo al limite dell´emergenza. Altri sei mesi senza scavare, e quest´estate ci sarà il collasso». È disperato Andrea Camilli, direttore scientifico del Cantiere delle navi antiche di Pisa. E arrabbiato per la mancanza di fondi che da due anni blocca pericolosamente i lavori nel cosiddetto "porto delle meraviglie", la "Pompei del mare". Il più grande giacimento di navi antiche mai rinvenuto: 30 imbarcazioni di cui 10 quasi integre, e con tutto il carico perfettamente conservato, persino le corde, le reti, gli oggetti personali dei marinai. Tutto sigillato dalle sabbie umide che, nelle molte alluvioni dell´Arno, hanno travolto quell´approdo fluviale per mille anni fino alle soglie del Medioevo. «La scoperta più importante di fine millennio», si gridò nel 1998 quando venne alla luce durante i lavori per un centro direzionale delle ferrovie. Si mobilitarono tutti, nell´entusiasmo generale. Le Ferrovie migrarono altrove e si scavò alla grande grazie ai proventi del gioco del Lotto. Ma, spente le luci e terminate le passerelle dei politici, la situazione cambiò. Si risollevò un poco nel 2001 e 2002 quando vennero asportate le prime due navi, emerse dal fango tutte intere con grande spettacolo. Poi di nuovo l´oblio. Mentre le navi e tutto il resto, un po´ scavati e un po´ no, rischiavano di svanire.
«Il problema è che si è voluto aprire tutto lo scavo subito, anziché scavare poco alla volta», spiega Camilli. Si è insomma scoperchiato tutto insieme il sigillo che ha conservato fino a oggi quei materiali delicatissimi in assenza di ossigeno. Per questo bisognava poi recuperare tutto al più presto. «Finora siamo sempre riusciti a tenere comunque la situazione sotto controllo - continua Camilli - Ora non più. E l´anno scorso il cantiere è stato pure travolto dall´alluvione». Nel 2002, coi riflettori puntati, al Ministero dei beni culturali si decise di proseguire lo scavo come cantiere-scuola aperto a studenti da tutto il mondo. Finanziamento previsto: un milione di euro l´anno per dieci anni. «Ma sono diminuiti sempre più, e i 300mila euro l´anno degli ultimi due anni sono bastati appena per le spese vive. Per l´anno prossimo, poi, sono previsti solo 20mila euro. Non ci si paga neppure la guardiania».
Anche perché dal 2005 quei soldi hanno tenuto in vita pure l´annesso Centro di restauro del legno bagnato, dove si studia e conserva tutto quel che viene alla luce. Realizzato solo allora (con 1.200.000 euro di fondi Cipe) grazie al ministro Urbani, dopo anni di commissioni speciali e riunioni con enti locali, università, possibili sponsor. Con la scoperta delle navi antiche, Pisa pareva aver ritrovato la sua vocazione marinara. Si progettavano sia un Centro di restauro di caratura mondiale che un grande Museo delle navi agli Arsenali Medicei. Si pensava di offrire una seconda importante attrattiva turistica a chi oggi visita solo il Campo dei Miracoli o poco più. L´università Bocconi e la Normale di Pisa elaborarono un piano di ampio respiro per una spesa di 25 milioni di euro. Poi però il ministero dovette limitarsi a un progetto da soli 2,5 milioni di euro. La prima sezione del museo (1 milione di euro da Arcus) doveva aprire in questi giorni ma, assicura Camilli, «mancano solo gli ultimi ritocchi». Aprirà probabilmente col nuovo anno. Rischiando però di diventare uno dei tanti musei statali al limite della sopravvivenza. Non erano questi i progetti, le idee, i sogni. Mauro Del Corso, presidente nazionale degli Amici dei Musei, ha lanciato un appello per candidare scavi e museo come sito Unesco (da oggi sul sito www.iltirreno.it). Si preparano interrogazioni parlamentari di deputati Pd (Realacci e Fontanelli) e Idv (Evangelisti). Si sta insomma tentando di tutto per attirare l´attenzione dell´Italia e del mondo. Perché la Pompei del mare non merita di finire così.

Repubblica 13.12.10
La denuncia degli avvocati matrimonialisti: vogliono tutti i bimbi maschi e bianchi. La Commissione: affermazioni infondate
"Adozioni, le famiglie fanno scelte razziste"
di Vera Schiavazzi


ROMA - «Un razzismo strisciante orienta buona parte delle adozioni internazionali. Le coppie vogliono bambini di pelle chiara, possibilmente maschi, biondi e sani». L´accusa arriva dall´Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani, che ieri ha diffuso una serie di elaborazioni basate sui dati ufficiali della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali guidata da Carlo Giovanardi. La stessa Cai ha poi replicato esprimendo «sconcerto» e definendo «infondate» le affermazioni dei legali. Nel 2009 – aveva detto l´Associazione, presieduta da Gian Ettore Gassani – i bambini di origine straniera adottati in Italia sono stati 3.964, mentre il totale degli ultimi dieci anni è di 27.965 bambini. «Un fenomeno – sostiene Gassani – che resta sostanzialmente riservato alle coppie benestanti e del Centro-nord: Lombardia al primo posto, seguita da veneto e Toscana». Non solo: «La maggior parte degli aspiranti genitori preferisce un maschio, si orienta sempre di più verso la Russia e l´Ucraina e anche la Corte di Cassazione è dovuta intervenire, nella scorsa primavera, per impedire la prassi dei decreti "mirati" che consentivano alle coppie di ricongiungersi a un determinato bambino dopo averlo scelto direttamente».
I dati generali parlano, in effetti, di un 42-48 per cento di piccoli adottati (l´età media si è alzata, e sfiora ormai i sei anni, anche a causa dell´invecchiamento delle coppie che si rivolgono all´adozione) da paesi europei, Russia e Ucraina in testa, mentre i bambini che provengono dall´Africa sono soltanto il 12 per cento. Ma le motivazioni sono varie: si va dalla severità delle leggi dei singoli paesi (in Africa molti Stati non contendono adozioni, mentre altri, come il Kenya, prevedono un periodo di permanenza di sei mesi da parte della famiglia adottiva) fino alle caratteristiche delle coppie candidate, perlopiù formate da marito e moglie che lavorano entrambi. I costi? Dai 15.000 ai 22.000 euro, per i quali è previsto un rimborso parziale.

Repubblica 13.12.10
Solgentsyn.
Oggi il premio Nobel avrebbe 92 anni Il carcere raccontato dalla moglie Natalja
"Così mio marito ricordava il Gulag"
di Marina Zavada, Jurij Kulikov


"Lavorava sempre, la sua era una frenesia continua Pensava di essere sempre in ritardo"
"Ogni anno, il 9 febbraio, celebrava il suo arresto concedendosi solo pane e acqua"

Mosca. C´è un libro nel cassetto di Natalja Solgentsyna. Si chiama Diario di un romanzo e suo marito, il premio Nobel Aleksandr Solgenitsyn, l´autore di Arcipelago Gulag, aveva passato tutti gli ultimi anni della sua vita a chiedersi se valesse la pena pubblicarlo. «Una sera gli diede un´ultima lettura e mi guardò a lungo - racconta la signora Natalja nel salotto senza tende della casa nel bosco di Troitse-Lykovo - Era soddisfatto. Da allora ci lavoro ogni giorno. Piccole correzioni, qualche ripulitura. Prima o poi lo darò alle stampe. Glielo devo».
Di cosa si tratta?
«È un diario di lavoro. Gli appunti che prendeva mentre scriveva il ciclo della Ruota rossa, la storia della Rivoluzione del ´17. Appunti sulla difficoltà di trovare documenti originali, l´indignazione per i tanti falsi testimoni che raccontavano una verità di regime e che lui smascherava. Ma è interessante anche la parte tecnica, la ricerca negli archivi, le lunghe chiacchierate per strappare un paio di informazioni utili...».
Sabato suo marito avrebbe compiuto 92 anni. Fino al giorno della sua morte aveva continuato a lavorare 10 ore al giorno. Era un´esigenza o un´ossessione?
«Tutte e due le cose. Certamente hanno influito gli anni duri del gulag. Ma dal nostro ritorno a Mosca nel ´94, era come se sentisse passare il tempo troppo velocemente. Se venivano ospiti, ci piantava in asso dopo un po´ e andava a chiudersi nel suo studio. Non voleva sprecare un solo minuto. Una volta mi rimproverò perché andavo troppo spesso ai concerti. Così non finiremo mai tutto quello che c´è da fare, mi disse».
E cosa c´era da fare?
«Leggere, correggere, progettare nuove opere. Una frenesia continua, la sensazione di essere sempre in ritardo».
Una frenesia che lo portava a innervosirsi?
«Difficile capire quando fosse veramente irritato. Dai tempi del gulag aveva acquisito uno strano autocontrollo, non perdeva mai la pazienza. Al massimo, quando qualcosa non gli andava bene era capace di tacere per giorni interi. Senza astio né polemica. Solo un pesantissimo silenzio che rompeva solo quando gli era passato il malumore».
Gli fecero male i piccoli insuccessi del suo ritorno a Mosca? Per esempio lo scarso successo delle sue apparizioni televisive, la freddezza del pubblico...
«Si era preparato alla cosa. In una delle ultime interviste a una tv francese disse che chi propone grandi riforme non è mai molto amato nel proprio Paese. E poi il successo e la mondanità non gli sarebbero mai piaciute».
Era dunque un uomo malinconico, forse anche cupo?
«Sentiva bisogno di pace. Amava i silenzi. Passava ore davanti a queste finestre, anche nel buio dell´inverno. Si perdeva a fissare i larici, i pini. Diceva che non c´è niente di meglio che sentirsi così sprofondato dentro la natura. Per questo odiava le tende».
Reclusi in un bosco. Che tipo di vita facevate?
«La vita di due persone che si stimano e si rispettano. Ci godevamo le comodità che finalmente potevamo permetterci senza cercare altro. Tranne che in un giorno».
Quale?
«Il 9 febbraio. Era un anniversario particolare. Quello del suo arresto nel 1945 e l´inizio della sua odissea personale. Quel giorno riproduceva la vita del gulag. Si concedeva solo un tozzo di pane raffermo, un bicchiere d´acqua e una speciale zuppa di latte senza latte come quella che veniva data ai detenuti».
Si commuoveva nel ricordare quegli anni?
«No. Negli anni la cosa diventò quasi un rito di purificazione spirituale. Alla sera era proprio ridotto come un internato. Lo sorprendevo a leccare il piatto e raccogliere mollichine anche per terra. Diceva che per ricordare veramente le sofferenze materiali, bisognava assolutamente riviverle».
Culto della sofferenza, dunque?
«No, affatto. Parlavamo poco della morte, ma una volta mi disse che infelicità, dolore, rabbia non avevano cambiato molto le cose. Devo ammettere che fui sorpresa quando concluse: in fondo in fondo ho avuto un esistenza felice. Un attimo di silenzio, poi ci facemmo una bella risata liberatoria».
(Copyright Izvestia - la Repubblica)

Repubblica 13.12.10
A Berlino scoperte decine di migliaia di volumi destinate ai roghi nazisti da Proust a Mann, da Remarque a Sinclair, tutti nascosti sotto una bottega
La cantina dei libri proibiti "Qui li salvammo da Hitler"
di Andrea Tarquini


Andreas Wolff, libraio di origine russa, creò il bunker segreto nel cuore della città rischiando la propria vita
Spostando la scrivania-cassa del negozio si vede una botola che porta nel caveau ancora ricolmo di capolavori letterari

A Berlino, si sa, cammini a ogni passo sui drammi della Storia. Ma adesso è riemersa dal passato più tragico anche la cantina segreta dei libri proibiti. Un sottoscala ben nascosto dalla scrivania-cassa d´una libreria di grido d´allora, dove Andreas Wolff, colto e temerario libraio d´origine russa, nascose tutte le decine di migliaia di opere letterarie che la tirannide nazista aveva vietato e bruciato in pubblico nei famigerati roghi di libri. Wolff rischiò con la vita, ma era deciso all´impossibile e ci riuscì: tramandare ai contemporanei e ai posteri la grande letteratura tedesca, in lingua tedesca o straniera e tradotta che i nazisti bruciarono in piazza, esaltanti e ubriachi al canto dello Horst-Wessel-Lied. L´edizione domenicale della "Frankfurter Allgemeine" ha scoperto il bunker dei libri proibiti, e ieri ce lo ha raccontato a piena pagina quasi conducendoci per mano in quella scoperta mozzafiato.
Bundesallee 133, nel quartiere di Friedenau, è l´indirizzo della libreria, che si chiamava Buchandlung Wolff dal nome del fondatore fino a qualche anno fa, e oggi porta il nome "der Zauberberg", la montagna incantata, un omaggio a Thomas Mann e a uno dei più illustri tra i suoi libri dati alle fiamme da quello che lui nel "Doktor Faustus", con le parole del coprotagonista narratore Serenus Zeitblom, definì "il governo della feccia". È un vivace e insieme tranquillo quartiere amato dagli intellettuali: ci vissero Guenter Grass, Herta Mueller, Hans Magnus Enzensberger, Uwe Johnson e Max Frisch. Ma la cosa straordinaria è un´altra. Appunto, l´impresa che riuscì a gospodin (o Herr) Andreas Wolff. Harald Loch, l´attuale gestore della libreria della montagna incantata, la mostra volentieri a chi va a trovarlo, dopo un buon bicchiere di champagne offerto agli ospiti e alla sua amica Natalia Liublina. È facile, ma perfetti quanto stupidi i gendarmi della repressione nazista non ci arrivarono mai, e gospodin Wolff si seppe guardare dai delatori. Loch ripete quanto Wolff faceva ogni volta, per i clienti fidati: scansa con una spinta la scrivania-cassa. Appare una botola, una piccola scala di legno ti porta nel sotterraneo. Ci arrivi e l´emozione ti toglie il fiato, gli occhi guidati da flebili luci al neon perdono lo sguardo tra le migliaia di titoli proibiti, accumulati sugli scaffali. Polvere, odore di stantìo, eppure il bunker della salvezza che sfidò e sconfisse l´Indice del divieto nazista ha resistito al tempo. Se apri un qualsiasi volume di Thomas Mann o di Bertolt Brecht non si rompe, e lo leggi ancora chiaramente. Questa cantina racconta una storia sconosciuta, fa capire Harald Loch. O peggio, una storia dimenticata, o mai inseguita per curiosità da chi nacque e crebbe dopo il 1945 della disfatta nazista o il 1989 della caduta del Muro. I libri erano cari, spesso chi voleva leggerli ma non poteva permetterseli veniva dal buon gospodin Wolff a noleggiarli. E questa fama, forse, salvò il libraio e il suo bunker della sfida.
La svolta fu brutale, aprile 1933. Pochi mesi dopo la presa del potere, i nazisti aprirono i Lager, decapitarono ogni opposizione, resero impossibile così il sorgere d´ogni resistenza. E quei grandi roghi di libri, un sinistro rito pagano del fuoco, furono il loro trionfo. Wolff salvò migliaia di titoli: tutto Thomas Mann, Remarque, Marcel Proust, testi di altri autori stranieri. Riuscì persino, racconta Herr Loch, a procurarsi titoli degli autori tedeschi emigrati per sfuggire alla repressione, organizzando un contrabbando con l´estero che avrebbe potuto portarlo alla ghigliottina come i fratelli Scholl. «Riuscii grazie a lui a leggere Mephisto di Klaus Mann nel 1936, mentre di Heinkel di Goering radevano al suolo le città spagnole», narra un vecchietto. Le regole del leasing clandestino dei libri proibiti erano ferree: chi voleva leggerli, ed era abbastanza fidato per scendere nel bunker con gospodin Wolff, doveva divorarli e restituirli entro 24 ore. Sia perché la richiesta di leggerli era grande, sia perché il solo averli a casa era reato gravissimo. Ecco ancora tra gli scaffali i volumi proibiti di Upton Sinclair, o Carlotta a Weimar. Fino a un volume poco conosciuto, ma rivelatore: "die Pflasterkaesten", le casse di gesso. Memorie della prima guerra mondiale, ricordi dal fronte d´un giovane soldato che ricorda quel suo commilitone sempre isterico e paonazzo di panico a ogni attacco degli inglesi. L´isterico era Adolf Hitler, lo scrittore che ne narrò quel volto si chiamava Alexander Mortiz Frey. I nazisti distrussero la sua casa, lui riuscì a fuggire in Svizzera dove morì nel 1957, povero e dimenticato. Non tornò mai in Germania, oggi la memoria di lui rivive, in quel bunker segreto sotto la cassa della libreria della montagna incantata, a Bundesallee 133 di Berlino, unita e libera.

Repubblica 13.12.10
Antonio Pennacchi replica al paleontologo Giorgio Manzi
“Perché difendo il mio Neandertal”
"Sono gli studiosi a sbagliarsi: il cranio di Grotta Guattari è la prova di riti primitivi"
intervista di Dario Pappalardo


«Ma quali iene? In quella grotta, sono entrati per ultimi gli uomini». Antonio Pennacchi non ci sta. E replica al paleontologo Giorgio Manzi che, intervistato da Repubblica, ha "attaccato" Le iene del Circeo (Laterza), il libro in cui lo scrittore ricostruisce la storia del cranio neandertaliano di Grotta Guattari, rinvenuto al Circeo nel 1939.
Per l´autore, che si rifà alle tesi dell´archeologo Alberto Carlo Blanc, scomparso nel 1960, quel reperto testimonierebbe la cerebrofagia rituale degli uomini di Neandertal (sempre e solo senz´acca). Per Manzi e per altri illustri colleghi (tra cui Tim White, uno dei maggiori paleontologi viventi) non è così: il teschio sarebbe stato portato da una iena in quella grotta, poi sigillata da una frana per 55 mila anni.
«Con tutta onestà – racconta l´autore, quest´anno vincitore del premio Strega per Canale Mussolini (Mondadori) – sono un tipo ansioso: prima di cominciare a leggere l´intervista a Manzi, pensavo mi avessero fatto tana. Invece poi, alla fine della lettura, mi sono tranquillizzato».
Come mai, Pennacchi? Gli studiosi non le danno certo ragione.
«Intanto è curioso che mi rispondano solo ora che ho vinto il premio Strega. Sono vent´anni che porto avanti questa battaglia e non mi hanno mai preso sul serio».
La tesi che sostiene nel libro è stata smentita da tempo. La paleosuperficie dove fu rinvenuto il cranio non contiene tracce umane, ma solo di iena…
«Non è vero. Chi depositò il cranio nella grotta perse un raschiatoio, che fu ritrovato nel 1989. È come se ci avesse lasciato un rolex… non è una prova da poco. Insomma, in quel sito gli strumenti litici umani c´erano ed è stato scritto negli studi pubblicati in passato. Se ora quegli strumenti sono spariti, qualcuno dovrebbe spiegare perché. Per quale motivo si sono incaponiti sulla iena? Lo chieda a loro».
Gli studiosi escludono la cerebrofagia. Il cranio ha un foro praticato alla base.
«Ma chi l´ha detto che se voglio mangiare un cervello devo rompere il cranio dall´alto? I saggi di antropologia sostengono il contrario. E lo dimostra anche la collezione di crani della Melanesia conservata alla Sapienza di Roma. Chiunque pratichi la cerebrofagia rituale lo fa dal basso, utilizzando il cranio come coppa. Da cui "Bevi, Rosmunda dal teschio di tuo padre!". Un´altra prova del rito è il cerchio di pietre…».
I paleontologi mettono in dubbio anche quello.
«Io stesso lo chiesi a White: "Ma il cerchio di pietre? Insinuate che l´abbia costruito a bella posta Blanc, lo scopritore del cranio?". Lui mi fece capire di sì. Io invece non ci credo. Quel cerchio col cranio era isolato da tutto il resto. In quella grotta si celebrava un rito. E non è escluso che sia stata sigillata dagli uomini e non da una frana».
Ma come si è appassionato alla paleontologia?
«Ero più interessato alla storia romana, in realtà. Prevedendo di scrivere sulle bonifiche dell´agro pontino, mi sono messo a studiarla. Poi mi sono imbattuto nei cocci, mi sono iscritto all´università: ho preso 30 e lode a "Metodologia e tecnica dello scavo". Gli scienziati credono che non ne sappia niente di tutto questo, eppure ho all´attivo due campagne archeologiche. Non pensavo di risalire al Neandertal, ma quando ho scoperto questa storia ci ho visto poco chiaro e ho voluto approfondire».
Ha approfondito pure il Neandertal senz´acca.
«Se permette, sulla lingua almeno, l´autorità scientifica sono io. Anche in Germania, Neandertal si scrive senz´acca. Comunque, i nemici fanno bene. Un po´ di provocazione serve sempre. Mannaggia, quando ho vinto il premio Strega, i paleontologi devono essere sbiancati…».

Corriere della Sera 13.12.10
L’italiano (non il latino) è la lingua universale della Chiesa
Un volume di Franco Pierno analizza il ruolo assegnato dal Vaticano al nostro idioma come strumento privilegiato della comunicazione
di Paolo Conti


«Pur derivando da ragioni di tipo pratico, l’insegnamento nelle università e nei collegi pontifici determina una progressiva e ormai pienamente acquisita situazione in cui l’italiano è percepito non solo come lingua del territorio vaticano ma anche come lingua universale della teologia e del magistero teologico... L’italiano è ampiamente utilizzato dalla comunità internazionale dei teologi come lingua di scambio e comunicazione». Mentre l’Europa riduce di fatto a tre (inglese, francese e tedesco) gli idiomi veramente ufficiali dell’Unione, l’italiano può contare su una straordinaria agenzia planetaria che l’ha adottato come il proprio inglese: la Chiesa cattolica romana.
Lo spiega molto chiaramente il saggio «Tra universalità e compromessi locali. Il Vaticano e la lingua italiana» di Franco Pierno che appare nel volume, appena uscito, intitolato L’italiano nella Chiesa fra passato e presente edito da Allemandi e frutto di un lavoro parallelo della Società Dante Alighieri e l’Accademia della Crusca con la promozione dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Pierno, dal 2008 Assistant professor al dipartimento degli Studi Italiani della Toronto University, parte da un presupposto. Cioè che il Vaticano «inteso tanto come realtà territoriale quanto come sinonimo di Santa Sede, pur avendo un’apertura necessariamente universalistica, e di conseguenza un atteggiamento plurilingue, intrattiene un rapporto privilegiato e particolare con la lingua italiana». Formalmente non c’è una regola che lo dichiari lingua ufficiale del Vaticano ma è quella usata di fatto nella legislazione e nelle comunicazioni interne. Il latino resta la lingua ufficiale «per i libri liturgici e il magistero papale» ma ormai da anni la nostra è «la lingua veicolare all’interno di un territorio la cui popolazione, secondo le stime più recenti, è italofona al 40% mentre il restante 60% dichiara di parlare altre lingue». Un’abitudine antichissima, ricorda Pierno, che fa risalire a Martino V verso il 1420, dopo l’esilio avignonese, la decisione di ricorrere «alla lingua cortegiana romana di forte base toscaneggiante».
In effetti, elenca il saggio, in italiano esce l’edizione principale de «L’Osservatore Romano» dal primo numero dell’1 luglio 1861, seguito poi da versioni in molte altre lingue, e lo stesso avviene alla Radio Vaticana e per il sito web vaticano che, nel suo plurilinguismo, però «mostra facilmente una preponderanza della lingua italiana». Ma è soprattutto nell’insegnamento universitario che l’italiano si consolida come lingua «universale» della cattolicità per un semplice motivo organizzativo: «Nelle istituzioni pontificie i corsi sono tenuti, da ormai diversi decenni, in lingua italiana dopo una secolare tradizione didattica di lingua latina».
Molto interessante un esempio proposto da Pierno a proposito del discorso di Benedetto XVI al campo di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006. In quell’occasione, spiega l’autore, il Papa decide di non esprimersi in tedesco per «buon gusto». Quando elenca il dolore leggibile sulle lapidi («una polifonia pluringue del dolore») lo fa in italiano: «La rievocazione di questo patrimonio comune del dolore espresso in modo multilingue non poteva avvenire che in una lingua ormai riconosciuta come universale e super partes dalla Chiesa: l’italiano».

Corriere della Sera 13.12.10
La svolta mariana degli Stati Uniti
di Vittorio Messori


L’orgoglio degli americani soffriva di una mancanza: già avevano fatto venire Gesù nei futuri States (così affermano i 6 milioni di Mormoni) ma la Madonna, almeno ufficialmente, non era mai stata tra loro. Ma ecco che l’8 dicembre, nel giorno dell’Immacolata Concezione, la Chiesa ha sentenziato in modo solenne, per voce del vescovo di Green Bay nel Wisconsin, che Maria è davvero apparsa nell’America del Nord. È la prima volta che una apparizione negli Usa è riconosciuta ufficialmente come autentica.
Il Messico, nel 1531, ha avuto Guadalupe, che provocò la nascita del santuario forse più frequentato del mondo. Per stare nelle Americhe, autentici pure, secondo la Chiesa, i fatti che diedero vita a un altro enorme santuario, quello brasiliano dell’Aparecida (1717). Il Venezuela vide riconosciute le apparizioni della Finca Betania, avvenute nel 1976. Per non parlare della Francia, che ha il primato (Le Laus, 1664; La Salette, 1846; Lourdes, 1858; Pontmain, 1871). Anche il Giappone (Akita, 1973) e la Polonia (Gietrzwald, 1877), ebbero Maria tra loro. Persino l’Africa Nera (Kibeho, nel Rwanda, 1981) ha goduto di una apparizione mariana dichiarata soprannaturale. Nulla, invece, per gli yankee.
Sinora, lo dicevamo, milioni di statunitensi credevano che le popolazioni originarie della loro terra fossero i discendenti di tribù emigrate da Israele prima di Cristo. E Gesù stesso, dopo la Risurrezione, sarebbe venuto nel territorio dei futuri Stati Uniti. Anzi, proprio qui avrebbe dato il meglio del suo insegnamento. È questo, in effetti, il Credo di quella religione tipicamente made in Usa che è il mormonismo, ufficialmente «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni». Quanto alle presunte apparizioni di Maria, sono state numerose, ma nessuna ha superato le severe inchieste della gerarchia cattolica.
Adesso la svolta, anche se sono occorsi 151 anni per giungere alla decisione. I fatti, in effetti, si svolsero a Champion, sobborgo di Green Bay, nel 1859, cioè un anno dopo Lourdes. Anche nel Wisconsin la protagonista fu una ragazzina, figlia di immigrati belgi. Per tre volte, una Signora radiosa, vestita di bianco, le apparve e le disse: «Sono la Regina del Cielo che prega per i peccatori e desidero che tu faccia lo stesso». Aggiunse poi: «Riunisci i figli di questo Paese selvaggio e insegna loro ciò che devono sapere per salvarsi». Il comando della Signora fu preso radicalmente sul serio, tanto che Adele Brise — questo il nome della veggente — aiutata da un’amica che era presente alle apparizioni e che aveva lei stessa visto e sentito, fondò una Congregazione per l’educazione dei figli dei poveri immigrati. Morì nel 1896 in odore di santità e sul luogo dell’Incontro sorse un santuario ancora oggi molto frequentato: la Chiesa vi permetteva il culto, però non si pronunciava sulla verità delle origini.
L’attuale vescovo di Green Bay, monsignor David Ricken, ha ripreso il dossier storico, impressionato soprattutto dal fervore dei pellegrini e basandosi, dunque, sul criterio dato da Gesù stesso: «Dai frutti conoscerete l’albero». Tanta devozione, durata un secolo e mezzo, poteva avere solo origini genuine. Così, nel giorno della Immacolata, nella sua cattedrale, ha letto solennemente un decreto: «Dichiaro con certezza morale e in base alle norme della Chiesa che le apparizioni e i discorsi ricevuti dalla serva di Dio Adele Brise nell’ottobre del 1859 hanno verità di carattere soprannaturale. Io, con la presente, approvo queste apparizioni della Vergine Maria come degne di fede». Il vescovo precisa che accettare questa verità «non è obbligatorio» per i credenti, ma questa è la norma che sempre vale per questi eventi.
Grande esultanza, comunque, non solo nel Wisconsin ma in tutto il Paese, dove — malgrado tutto — quella cattolica è la comunità religiosa con il maggior numero di aderenti. Come ha osservato Massimo Introvigne, sociologo delle religioni: «Anche questo è un segno che la Chiesa americana è molto cambiata. Dopo l’ubriacatura progressista e la crisi dei preti pedofili, i credenti si sono stretti attorno ai vescovi e al loro insegnamento: anche nel rilancio della devozione mariana».

domenica 12 dicembre 2010

Repubblica 12.12.10
Sfilata con la Costituzione e "Bella Ciao" "Meritiamo un´Italia diversa e migliore "
Contestato Renzi, sindaco di Firenze: "Sbagliato andare ad Arcore"
di Alessandra Longo


ROMA - Sereni, tranquilli (i malevoli dicono: forse un po´mosci), più ironici che rancorosi, più ottimisti che tafazzisti. Eccoli gli uomini e le donne che credono nel Pd e tifano per «un´altra Italia», tutti in marcia verso piazza San Giovanni per dire basta a Berlusconi ma anche, visto che ci sono, per regolare un conticino in casa, con quel rottamatore del sindaco di Firenze, reo di aver accettato l´invito ad Arcore. «Renzi hai fatto una stronzata!». Lui, Matteo Renzi, si fa vedere solo all´inizio del corteo, toccata e fuga. Giusto il tempo per capire che l´aria che tira non è granché e leggere qualche cartello del tipo: «Renzi ad Arcore, Bersani a Palazzo Chigi». O anche: «Se questi sono i "giovani" ci teniamo i vecchi...». Gentili, educati, «perbene», come li definisce Nicola Zingaretti, questi del Pd, ma sul palco, alla fine, ci andrà, a nome dei "rottamatori", Pippo Civati. Renzi evita così fischi sicuri: «È una giornata importante ma devo scappare. Ho un appuntamento con Benigni».
Il fiume in piena del popolo Pd (ma «basta dare i numeri, siamo comunque uno in più della piazza di Berlusconi...») invade Roma. Migliaia di bandiere a sfondo bianco del partito, quelle color arancio dei «moderati» di Chiamparino, anche le insegne di Italia dei Valori ma Di Pietro non c´è. Un po´ a sorpresa la nota cromatica prevalente è il rosso. Il rosso degli scaldacolli di pile distribuiti a centinaia dagli organizzatori. Il rosso dei pettorali del servizio d´ordine che ondeggia quando, dal palco, Bersani saluta «le democratiche, i democratici, i compagni». E il rosso della bandiera Arci che sventola con la faccia di Enrico Berlinguer.
Musica dai furgoni inquadrati nel corteo, abbinamenti arditi, «Cambierà» di Neffa e «Bella Ciao», bande con gli ottoni tirati a lucido, dirigenti in ordine sparso ma per un giorno non belligeranti, D´Alema e Veltroni, Fassino e Marini, Franceschini, Letta e la Bindi, persino il compagno Diliberto che passa e saluta nel nome dell´unità a sinistra. Epifani e Camusso, parenti Cgil, sfilano in coppia, un gruppo di sindaci toscani marcia con il cappello da mago Merlino («Tremonti vieni te a far tornare i conti»), i giovani sono tanti e avvisano: «Vogliamo riprenderci il futuro». C´è un Dante Alighieri in carne ed ossa, al collo la scritta: «Fatti non foste a viver come bruti». Ci sono i disoccupati, i precari, circola il fantasma di Nichi Vendola (tutti prudenti, quasi imbarazzati: «Sì, per noi è un alleato importante, parla agli operai»). I prossimi giorni saranno nevralgici. Uno slogan di speranza: «Silvio, è Natale. Fai un regalo agli italiani: dimettiti».
Prima di ascoltare Bersani, la piazza scandisce gli articoli della «Costituzione più bella del mondo», canta e balla. Fiorella Mannoia sale sul palco a sorpresa e regala «Clandestino» di Manu Chao, Simone Cristicchi sdogana Toto Cutugno con una versione politically correct di «Italiano vero» e Neffa cambia le parole di «Io e la mia signorina»: «Potrei anch´io fare il presidente... ma non ci andrei con una minorenne». Martina Panagia, arrivata seconda a Miss Padania, è la presentatrice dell´evento. Gambe lunghissime esposte al freddo e sorriso da copertina. I giovani democratici le perdonano volentieri la conduzione da dj («Ehi, voglio vedere la Lombardia. Dove siete? Sventolate le bandiere, fatevi riconoscere... E adesso le isole!»).
Al tramonto, fa sempre più freddo ma quelli di Caserta non mollano la prima fila guadagnata a mezzogiorno. Ci tengono a dire: «Caserta siamo anche noi, Caserta non è solo camorra». Bersani aspetta dietro le quinte, mezzo sigaro in bocca, la cartella con gli appunti. Esce quando la piazza intona l´inno di Mameli. Li abbraccia tutti con lo sguardo: «Siete una meraviglia» e poi sceglie, da direttore d´orchestra, una parola da far risuonare più delle altre. «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». Vergogna per la compravendita di voti di queste ore, vergogna per un Paese dalla doppia morale, una per i ricchi e una per i poveri, vergogna per chi insulta la dignità delle donne ed è tollerante con i razzisti. Lo interrompono: «Chi non salta Berlusconi è». Affidano ai cartelli ironia e disprezzo: «Papi banana bunga bunga; «Cacciamo il sovrano puttaniere». Ecco una gentile signora con scopa di saggina in mano: «Silvio scopa anche questa...». Un´asta con infilati reggiseni e corsetti di pizzo fa coppia con il cartello stradale di Arcore, ritoccato in «Hardcore». È una piazza che chiede di voltare pagina. Un raduno che si scioglie con la sensazione (prudente) che il vento stia andando in un´altra direzione: «Cambiamo Paese. Torniamo in Italia!».

Repubblica 12.12.10
Una boccata di democrazia
di Curzio Maltese


Folla, colori, allegria, il sole e le piazze romane. Ci voleva una giornata di sana democrazia per respirare fra i miasmi di una politica ridotta all´orrido cinepanettone parlamentare recitato da onorevoli macchiette in vendita.
Per distrarsi dallo spettacolo di un grande paese in mano al voto degli ultimi due voltagabbana arruolati da Di Pietro. È un sollievo incontrare le facce di un´Italia diversa, reale. Quanti erano? Chissà. Se Berlusconi giurava di aver superato i due milioni la primavera scorsa, allora qui dovrebbero essere cinque o sei. Basta confrontare le foto di piazza San Giovanni dall´alto. Fuori dalla contabilità di fantasia, comunque una marea. Ma più dei numeri conta l´emozione di veder sfilare i ragazzi dell´Aquila accanto ai precari dello spettacolo, i ricercatori e i migranti, i maestri elementari e i cassintegrati, da tutta Italia, con cento dialetti e un milione di storie.
Una gran bella giornata. Tanto bella quanto probabilmente inutile. A questa politica del paese reale importa poco o nulla. I giochi si fanno altrove, nei palazzi del potere berlusconiano. Quanti se n´è comprati? Quanti ne comprerà nelle prossime 48 ore? Nel retropalco di piazza San Giovanni, mentre parla Bersani, gli specialisti sfoderano il pallottoliere. Dario Franceschini, che di solito ci azzecca («comunque più di Di Pietro» è la battuta), sostiene che il fronte della sfiducia è ancora sopra di due voti. «Se Guzzanti passa di là, siamo pari».
L´unica certezza è che non vi sarà un solo parlamentare, un singolo esponente del popolo, che cambierà idea perché uno, due o cinque milioni d´italiani sono scesi in piazza. Badano ad altre cose, consulenze, contratti in scadenza, rielezione, pensioni, mutui, ipoteche, debiti. La manifestazione di ieri non servirà a dare una spallata al governo Berlusconi. Ma può dare una scossa di fiducia al Partito Democratico, da mesi paralizzato da un paradosso. Il berlusconismo perde colpi, ma il principale partito d´opposizione non guadagna consensi, al contrario scivola nei sondaggi. Perché, se ha potenziale elettorale che supera il quaranta per cento? Perché, se ogni chiamata alla piazza raccoglie milioni di adesioni, quando in tutte le democrazie occidentali mezzo milione di persone in corteo costituiscono un record?
Il Pd è a un bivio storico, di fronte a una scelta difficile, che merita rispetto. Alle prese con un problema assai più profondo di quanto appaia dalle risse fra la ventina di aspiranti segretari. Il Pd deve scegliere se diventare un partito come tutti gli altri, ovvero il comitato elettorale di un leader forte e carismatico. Oppure rimanere l´ultimo partito collegiale sulla scena.
Nel suo bel discorso Bersani, assai più efficace in piazza che in televisione, ha rivendicato con orgoglio la diversità del Pd. «Non vogliamo creare passione per una persona, ma per la Repubblica». È cosa buona e giusta da dirsi, nobile. Bisogna vedere se è anche attuale. Nell´Italia berlusconizzata, ma non solo, i partiti sono la narrazione di un capo. Oggi il Pd, con tutta la fatica e il dolore affrontato per separarsi dalle proprie radici, il Pci e la Dc, si trova a perdere voti nei confronti di Vendola e Casini, rispettivamente un ex comunista e un ex democristiano, entrambi poco ex, i quali semplicemente hanno capito due o tre cose in più su come funziona la comunicazione politica nei tempi moderni. Nell´Italia del 2010 il Pd è un partito che appare fermo al Novecento, mentre il resto del mondo è entrato da tempo nel Duemila. Oppure è regredito all´Ottocento, chissà, ma in ogni caso sta altrove.
All´orizzonte del Pd oggi non esiste un leader carismatico. L´ultimo giovane pretendente l´hanno appena beccato a confabulare in segreto ad Arcore, lui sostiene per il bene di Firenze. Ma anche se si presentasse Obama in persona, il Pd per come è strutturato non accetterebbe mai di diventare il partito di un leader. Gli unici ad averci provato in questi anni, Prodi e Veltroni, sono finiti presto. Sia pure dopo aver raccolto molti più consensi delle direzioni collegiali. Ad ascoltare la gente di San Giovanni, la base del Pd non avrebbe dubbi sulla scelta da compiere. C´è il rischio che la metà delle persone scese in piazza all´appello di Bersani, in caso di primarie si precipitino a votare Vendola. Forse domani cambierà tutto, se cadrà Berlusconi. Ma per far finire il berlusconismo, più che un governo tecnico, servirebbe allora la rivoluzione invocata dal grande Mario Monicelli.

il Fatto 12.12.10
Opposizione. I militanti chiedono un partito più incisivo e meno diviso
 Il Pd vince la prova della piazza Che chiede: via B. ma basta giochini
Bersani: “L’Italia ha intrapreso un percorso nuovo L’esecutivo è finito, non si salverà con una vergognosa compravendita”
Co il Pd tanta bella gente per dire basta
Piazza San Giovanni gremita di persone che vogliono un altro partito
di Enrico Fierro


Quanti sono? Difficile dirlo. Perché la guerra delle cifre oggi non si combatte tra i dati della Questura e quelli del partito. La conta dei numeri in Piazza San Giovanni questa volta fa litigare le correnti. Cinquecentomila, dice il dirigente bersaniano, ma che, replica l’uomo di Veltroni, saranno centomila al massimo. Tacciono i dalemiani. La verità è che nel giorno della riscossa del Partito democratico c’è tantissima gente. Brava gente venuta da tutta Italia con in testa un pensiero solo: mandare a casa Berlusconi e ricostruire l’Italia. “Con gli uomini come Angelo, si vince, quelli come lui devono contare in questo nostro partito”. Sono venuti da Pollica, Campania, e Angelo è Vassallo, il sindaco del paese   ucciso a settembre. “Perché contrastava camorra e speculatori”, dice orgogliosa una ragazza dietro lo striscione con la foto del sindaco-pescatore. “Quelli come lui devono contare nel Pd”, facile a dirsi nel partito dove più degli iscritti,   dei volenterosi e della mitica base, contano altri: le correnti, i gruppi di potere, le antiche appartenenze dei partiti che furono. Ma nel giorno del partito che torna in piazza, a contare, finalmente, sono altri, quelli delle “belle bandiere”. Quelli che credono ancora, e nonostante tutto - gli errori, le sconfitte, il cannibalismo tra leader, le pessime scelte nelle candidature, gli scandali e gli interessi personali - nella forza della politica. Striscione da Piombino, la sezione del Pd è intitolata a Enrico Berlinguer. “Siamo qui per riprendere in mano il destino d’Italia, Berlusconi ci ha portato al disastro economico, civile e morale, noi siamo pronti”, dice sicura di sé una signora sulla sessantina. La vostra sezione è intitolata a Berlinguer, cosa dirà Fioroni? Il coro è unanime: “Chi se ne frega”. Bandiere, colori, maschere. Ci sono i medici-stregoni e caricature di Bossi e Berlusconi, il napoletano vestito col saio francescano che invoca la grazia. Non a San Gennaro, ma al poverello di Assisi: “Fa schiattà a Berlusconi”.   E ci soni i toscani, tantissimi. Ironici, ma anche severi. E con chi è facile immaginarlo. Con Matteo Renzi, il sindaco di Firenze, il rottamatore che vuole archiviare i vecchi dinosauri del Pd, recentemente accolto ad Arcore con tutti gli onori. “A Renzo manca il cervello”, dice secco un livornese. “Fermi, fermi, parla il segretario”, ordina un militante di Scandicci. E il segretario, Daniele Laurini, arriva e parla. “Mi auguro che abbia ottenuto grandi risultati per Firenze. Io al suo posto non sarei andato ad Arcore, ma basta con questa polemica che fa vincere, ancora una volta, un uomo solo: Silvio Berlusconi”. “Renzi è un testa di c….”, fa eco un manifestante dell’Isola d’Elba. Giudizi contrastanti. Matteo Renzi si affaccia al corteo, si trattiene poco, qualcuno lo contesta. “Ho poco tempo, ho un appuntamento con Benigni”. “Renzo, ma cosa sei andato a fare ad Arcore, il Bunga Bunga?”, gli fa un altro toscano   . Il sindaco, abituato allo sberleffo e all’ironia della sua gente, replica con calma: “L’ho fatto per Firenze”. “Renzi ha sbagliato e di grosso – è lo sfogo di Debora Serracchiani – ma certi giudizi non li capisco. Chi ha concepito il patto della crostata (D’Alema, ndr) non può certo fare il maestrino”.
Slogan, cartelli, strette di mano. Un popolo - molti cinquantenni, tanti impiegati, bella presenza di giovani, tante donne - che si ritrova. E che intona “Bella ciao” sulle note della banda musicale di Rapolla (Basilicata). Una signora sulla sessantina   venuta col marito da Brescia canta e si asciuga le lacrime. Perché? “Perché in questa canzone c’è tutto quello che stiamo perdendo, la libertà, la giustizia sociale, il sogno della primavera e del futuro per i nostri figli”. Bella gente in piazza, uomini e donne che sperano, che si affidano ancora una volta a quello che considerano il loro partito. “Ricordi cosa disse Romano Prodi una volta? Siamo persone che lottano per avere il diritto ad un po’ di felicità”, dice Andrea, lavoratore precario a Roma. E’ una folla composita, che chiama   per nome Guglielmo e Susanna (Epifani e la Camusso, insieme alla manifestazione), impazzisce per Rosi Bindi e stringe la mano di Nicola Zingaretti (“’a Montalbà, salvace da Alemanno”, gli gridano i romani), ma si fa anche fotografare con Nicola La Torre. E’ una folla che in una fredda giornata di dicembre è venuta a Roma da tutta Italia per dire basta con le divisioni, i giochetti della politica, le candidature sbagliate dei Calearo, dei Cesario pronti a salvare Berlusconi, basta con i nomi di sempre. Basta con Silvio Berlusconi.

il Fatto 12.12.10
“Cambierà”. E Bersani, in mezzo ai leader di sempre: siamo una forza di governo
di Caterina Perniconi


“Cominciamo che fa freddo!”. Ha le lacrime agli occhi dalla commozione Pier Luigi Bersani quando sale sul palco di piazza San Giovanni. Davanti a lui una folla realmente infreddolita che canta l’inno d’Italia e lo invoca da un’oretta:
“Ber-sa-ni-Ber-sa-ni”. Dietro, le foto in bianco e nero della manifestazione di due anni fa al Circo Massimo. Veltroni è alle spalle, ora la scena è tutta per lui.
“L’Italia deve cambiare” dice il segretario del Partito democratico nell’unico intervento della giornata, “il nostro paese deve togliersi il berlusconismo dalle vene”, deve dire “basta all’uomo solo al comando e al ‘ghe pensi mi”. Poi illustra l’Italia che lui vorrebbe   costruire, e strappa il primo applauso quando dice che “chi ha di più dovrà dare di più”. Arriverà a ventiquattro in cinquanta minuti d’intervento, ma tutti applausi moderati, come il suo discorso: “Il Pd è un partito di governo momentaneamente all’opposizione”   , la crisi del centrodestra “c’è ed è senza rimedio”. Poi il nodo di martedì e del voto di fiducia: “Comunque vada, questa crisi sarà certificata. E non si risolverà con la compravendita di qualche voto, una pratica vergognosa che ci fa arrossire davanti a tutte le democrazie del mondo”. E qui Bersani comincia a gridare “Vergogna!” e lo ripete quattro, cinque volte, insieme al grido della folla, che lo segue.
“ABBIAMO MESSO in moto una nuova Italia” continua il segretario del Pd – senza risparmiare una stoccata al leader dell’Idv Antonio Di Pietro – “e non gli abbiamo offerto l’occasione di ricompattarsi mettendo tutti nel mucchio come ci suggeriva qualche tifoseria o qualche focoso amico   . La mozione di sfiducia è arrivata al momento giusto, non tutti i giorni come loro avrebbero voluto”.
Ma martedì sarà davvero il momento giusto? Per Bersani l’esito del voto è ancora “incerto” ma se si aprirà la crisi, la proposta che il Pd porterà al   presidente della Repubblica è quella di “un governo serio di responsabilità istituzionale”. La necessità è “una transizione ordinata, nuove regole elettorali, alcuni interventi essenziali e urgenti in campo economico e sociale e porti il paese ad un confronto elettorale capace finalmente di rivolgersi al futuro perchè fuori finalmente dalla situazione bloccata e impotente di questi anni”.
Perché l’Italia non sarebbe nelle condizioni di affrontare   un’altra campagna elettorale: “Altri sei mesi a discutere su Berlusconi sì/Berlusconi no, facendo fare al paese un altro giro su una giostra ormai fuori uso?”. Insomma, niente urne. Ma se dovesse capitare “sia chiaro che ce la giochiamo e la vinciamo!”.
Questo è il punto che spaventa di più i big del partito: una competizione, che Bersani potrebbe intraprendere con l’appoggio di Sel e Idv, sperando che il Terzo polo aiuti la sua coalizione a prendere un voto in più di Berlusconi. Walter Veltroni è alla destra del palco,   in mano l’intervento scritto di Bersani. Lo legge, arriva alla frase sulla vittoria e storce il naso. Massimo D’Alema non commenta, ma non applaude.
E SE VINCESSE, dove vuole andare? “Il nostro progetto – spiega Bersani – si misura su due grandi sfide: una riforma per rafforzare la Costituzione e modernizzare le regole, e un’alleanza per la crescita e il lavoro”. In pratica: “Meno parlamentari, una legge elettorale seria, un federalismo responsabile. Riforma della pubblica amministrazione e giustizia   per tutti, non per uno solo. Più norme per snidare illegalità e mafie, stop ai conflitti d’interesse. Leggi contro l’omofobia, per le donne, a favore degli immigrati, dei precari e che garantiscano la dignità del malato”. Un programma ambizioso, molto difficile da realizzare con una coalizione vasta e litigiosa. Ma Bersani assicura: “Noi l’Unione non la rifaremo”. Sul viso di Veltroni appare un’altro momento di perplessità. Ma poi sale sul palco insieme a tutti i leader di un Pd che non vede l’ora di apparire unito agli occhi di una folla che   glielo chiede. Il segretario chiude: “Anch’io ho il mio sogno. Un sogno di un partito che possa finalmente dire all’Italia, Vieni via, vieni via di qui, vieni via con me”. La musica è pronta, il cantante è lo stesso Neffa che ha introdotto il segretario. Le note sono quelle di “Cambierà”. Perché per ora, niente è cambiato: a Palazzo Chigi c’è ancora Berlusconi, sul palco ci sono Rosy Bindi, Livia Turco, Anna Finocchiaro, Giuseppe Fioroni, Paolo Gentiloni e, naturalmente, D’Alema e Veltroni. Come dieci anni fa.

il Riformista 12.12.10
Premiership. Per la scesa in campo ufficiosa, il leader abbandona i
toni sornioni e si profonde in un discorso di orgoglio laburista, tutto
giocato sul recupero dell’autostima. Ma sulle alleanze è buio pesto. Una botta di vita
Il candidato Bersani dice cose di sinistra e già sfida Vendola 
di Stefano Cappellini


Repubblica 12.12.10
L'ok di Vendola: allargare a tutta la sinistra
"Non ero in piazza per evitare malintesi". Il Pdl stronca Bersani: comizio anni ´50
Il leader di Sinistra ecologia e libertà plaude alla "grande speranza" resa visibile dai democratici


ROMA - «Le strade invase dal popolo del Pd sono un segno di grande speranza. Ora, le forze del centrosinistra devono impegnarsi ad allargarla, quella piazza». Nichi Vendola non c´era a San Giovanni (dopo l´infruttuosa trattativa dei giorni scorsi col Pd) ma applaude all´esito della manifestazione. «Un partito ha tutto il diritto di mettersi in campo. Ha sfilato la forza composta, consapevole di chi vuol chiudere la lunga stagione del berlusconismo». E a partire da questa "base" forte che il leader di Sel rivolge il suo appello ad andare avanti sulla strada di un´intesa a sinistra, «credo che sia proprio questo il cuore pulsante di quel cantiere dell´alternativa che i partiti del centrosinistra adesso hanno il dovere di aprire». Dispiaciuto allora di non aver sfilato a Roma pure lui? «No, era il Pd - Pride. Meglio evitare gesti che rischiavano di finire fraintesi, presenze interpretate come la voglia di rubare la scena». A San Giovanni c´era invece un altro pezzo della sinistra ormai extraparlamentare, con Oliviero Diliberto: «Questa è la piazza del Pd ma siamo qui per costruire insieme l´alternativa a Berlusconi», spiega il portavoce della Federazione della sinistra salutando calorosamente Bersani. E saluta il successo della iniziativa un altro alleato, non sempre tenero, del Pd come Antonio Di Pietro: «Di fronte a Berlusconi che usa tutto il suo potere e tutti i suoi soldi per comprare i voti che gli servono - scrive nel suo blog l´ex pm - solo i ciechi possono mettersi a fare conti di bottega e stare lì col bilancino per vedere se una manifestazione è del loro o di un altro partito».
Dal centrodestra invece sparano a zero. «Bersani ha fatto un comizio anni ‘50», attacca Fabrizio Cicchitto. «Il segretario del Pd ha parlato come si faceva in quegli anni ma senza la forza del mito staliniano e senza il radicamento sociale fra la classe operaia, i braccianti e i disoccupati. Anche gli slogan di allora erano molto più efficaci di quelli attuali». In più, secondo il capogruppo del Pdl alla Camera, con l´impossibilità di scegliere le alleanze e l´incubo costituito da Vendola. «In sostanza - conclude - una manifestazione autoreferenziale che lascia le cose come stavano prima». O addirittura, secondo Daniele Capezzone, ancora peggio. Perché dopo piazza San Giovanni Bersani sarebbe più debole, «è tornato il Pds», il progetto democratico fallito: «Tutta la discussione interna ruota intorno a veltroniani e dalemiani, con la sempre più inesorabile marginalizzazione di riformisti e moderati».
(u. r.)

Repubblica 12.12.10
La tregua nel Pd per il B-day "Ora nessuna divisione"
Ma in caso di fiducia tutti i fronti si riapriranno
I timori di Letta: "Siamo costretti a seguire gli umori del mondo ex missino"
di Goffredo De Marchis


ROMA - L´attesa per il B-day. Di questo si parla dietro il palco di Piazza San Giovanni. Sarà un bivio anche per il Partito democratico. La sfiducia a Berlusconi compatterà un Pd che ieri ha portato tutti i dirigenti in piazza, senza distinzioni di corrente. «Sul governo di responsabilità nazionale non ci sono divisioni», conferma Walter Veltroni. La fiducia al governo invece romperà la fragile tregua tra i leader. Se l´esecutivo si salva, infatti, l´unità mostrata ieri anche plasticamente verrà messa in discussione. Beppe Fioroni ha già la miccia accesa: «Ginoble è dei miei e nessuno può dire che sia tra gli incerti per il voto di martedì. Anzi, lo porterò in aula con il fez e la camicia nera - dice sarcastico -. Così saranno i contenti i dirigenti del Pd che hanno flirtato con il nuovo messia Fini». Anche Enrico Letta, che dell´alleanza con il Terzo polo è un supertifoso, allarga le braccia: «Siamo costretti a seguire gli umori del mondo ex missino, è una sensazione un po´ strana».
Per il Pd, senza la caduta del Cavaliere, si apriranno fronti uno dopo l´altro. Il laboratorio siciliano sta per dichiarare fallimento. Il segretario regionale del Pd Giuseppe Lupo, prima di ascoltare Bersani in piazza, lancia l´ultimatum a Lombardo: «Possiamo aspettare ancora due mesi, dopo di che lo molliamo. Il governatore fa fatica a rispettare gli impegni che aveva preso. E pesa il macigno giudiziario». Anche l´esito del voto di martedì avrà un ruolo «non c´è dubbio», dice Lupo. A Torino, Bologna e Napoli poi gennaio è il mese delle primarie. In nessuna città il candidato sostenuto dal Pd ha la vittoria in tasca e una nuova sconfitta modello Milano avrebbe ripercussioni a Roma. I problemi non mancano. Sergio Chiamparino, sponsor di Fassino per il capoluogo piemontese, invita l´ex segretario Ds a prendere di petto la situazione bypassando le primarie e le trattative di queste ore: «Rivolga un appello alla città, subito. Se lo fa, ha già vinto. Altrimenti crescono le difficoltà». Il 15 gennaio Veltroni, proprio a Torino, lancerà di nuovo lo spirito del Lingotto presentando la sua piattaforma del Pd. E sullo sfondo resta la variabile elezioni. «Fini non tradirà - giura Dario Franceschini -. Non ci credo, si è spinto troppo avanti. Se due o tre dei suoi tornano con Berlusconi non sarà sconfitta la linea del presidente della Camera. Ma la strada in quel caso sono le elezioni a marzo».
Un altro percorso difficile per il Pd. Il 25 per cento che gli assegnano i sondaggi significa 70 deputati in meno. Bersani ha fatto sapere che le liste le faranno lui e i capigruppo. Questa notizia ha innervosito tutti. «Il tavolo va allargato», ha intimato il dalemiano Matteo Orfini. Per Movimento democratico Veltroni ha indicato Marco Minniti come mastino delle candidature. La decisione ha fatto infuriare Fioroni che da mesi viene dato sul punto di uscire dal Pd per confluire con i centristi di Casini.
Il quadro allarmante del Pd post 14 dicembre ha un lieto fine in caso di sfiducia a Berlusconi. «Che per me ci sarà - dice ottimista Franco Marini -. Non vedo il crollo di Fli». Ma Francesco Boccia, deputato lettian-dalemiano, ha indiscrezioni meno rosee. «Temo lo sfaldamento di Futuro e libertà e non escludo che il governo possa durare fino al 2013», è la sua previsione negativa. «Spero non sia così». Ma è meno pessimista sul futuro del Pd. «Anche con Berlusconi in sella faremo la nostra opposizione. Cercando la sponda di Casini, preparando l´alternativa». Pier Luigi Bersani dice di non essersi occupato della fiducia in un giorno di festa e di mobilitazione. «Oggi mi occupo di noi. Non ho parlato né con Fini né con Casini. Mi interessano i numeri di questa piazza non quelli della Camera». Il suo vicesegretario Letta però viene preso da parte da Veltroni e in un angolo i due s´interrogano sul 15 dicembre, cioè sul day after.
L´insuccesso della sfiducia darà di nuovo voce a chi ha sempre criticato il Cln antiberlusconiano. Matteo Renzi ha fatto ieri un passo indietro lasciando la manifestazione dopo 10 minuti e confessando su Facebook di essere stato contestato. Ma non rinuncerà a dire la sua contro Fini, come ha sempre fatto, tanto più nel caso di una sconfitta parlamentare. Vendola ricomincerà a cannoneggiare il Pd, chiedendo primarie a tappeto, lanciando la sua sfida nei comuni con candidati alternativi al Pd. In pratica confermerà l´Opa sul mondo democratico che gli ex popolari di Fioroni denunciano da settimane. E che li sta spingendo sempre di più lontano da un «Pd di sinistra che non parla a un popolo largo».

Corriere della Sera 12.12.10
La festa che non c'è
di Paolo Franchi


La manifestazione del Pd a San Giovanni era stata presentata, incautamente, come una festa anticipata di liberazione da Silvio Berlusconi e dal suo governo. Ma le opposizioni non hanno, almeno per il momento, niente da festeggiare. E il discorso di Pier Luigi Bersani tutto è stato, fuorché festoso. Con ironia di impronta dalemiana, un autorevole esponente del partito, Nicola Latorre, aveva annotato nei giorni scorsi che il Pd, quando le sue difficoltà si fanno più acute, pensa di cavarsela con una grande mobilitazione di piazza: lo aveva fatto due anni fa Walter Veltroni, lo ha fatto adesso Bersani. C’è, in questa battuta maliziosa, un elemento di verità. Ma sarebbe ingeneroso dire che la manifestazione di ieri sia servita pressoché soltanto a certificare l’esistenza in vita politica del Pd, e a riscaldare il cuore di militanti frastornati (e probabilmente anche annoiati) da una interminabile guerriglia interna, e sconcertati all’idea di vedere affidate le prospettive del più grande partito di opposizione all’esito del voto di fiducia di martedì. A queste e ad altre simili preoccupazioni Bersani, che non ha conigli da estrarre dal cappello, non ha dato, e non poteva dare, risposte politiche compiute. Una cosa però poteva fare, e in ultima analisi ha cercato di farla, soprattutto nella seconda parte del suo discorso: provare a scrollare dalla testa degli elettori, in primo luogo dei suoi, l’idea che questa crisi — in un certo senso storica perché segnala, e nel peggiore dei modi, l’esaurirsi di un ciclo politico lungo più di un quindicennio — sia tutta e solo interna al centrodestra, e che di conseguenza il centrosinistra e la sinistra possano al massimo scegliere tra fare da spettatori o svolgere un ruolo ancillare.
A Bersani, fin qui ben più dell’assenza di un carisma da leader (assenza che oltretutto considera non un limite, ma quasi una virtù repubblicana), è stato rimproverato, prima di tutto nel suo partito, di non avere alcuna idea di particolare rilievo sull’identità e la natura del Pd. Di navigare a vista perdendo pezzi al centro aprendo pericolosi varchi a sinistra, fino a esporsi al rischio concreto di vedersi pesantemente insidiato in casa propria da Nichi Vendola in caso di primarie. Di aver archiviato la «vocazione maggioritaria» cara al suo predecessore senza sostituirla con nessun’altra vocazione, a meno che non si voglia considerare tale la disponibilità alle alleanze più diverse al solo fine di chiudere il più rapidamente possibile l’età berlusconiana. Di aver frustrato le ambizioni di un Pd eternamente allo stato nascente illudendosi di poterlo governare come un Pci in versione bonsai. È probabile, anzi è certo che critiche e contestazioni di questa natura (non tutte infondate, ci mancherebbe) restino in piedi, e siano destinate anzi a riprendere quota e vigore se dopodomani Berlusconi, seppure per un soffio, seppure sull’onda di una campagna acquisti a dir poco spregiudicata, riuscisse a tenere la fiducia di Montecitorio. Ma è giusto sottolineare che ieri, forse per la prima volta, Bersani — oltre ad attaccare con molta durezza Berlusconi e quasi tutti i suoi ministri, oltre a confermare la proposta di un governo di responsabilità nazionale, per fare la riforma elettorale e prendere poche misure sull’economia prima del voto — ha detto con una certa chiarezza quale partito ha in testa. Dando quasi per scontato che quello esistente non va.
Per dirla in sintesi estrema, senza disperdersi in citazioni, il Pd che vorrebbe Bersani (non a caso assai attento alla dimensione continentale della crisi) è una forza molto simile, anche se per motivi tutti italiani si chiama diversamente, ai grandi partiti socialisti e social democratici europei; un partito che fa i conti con quello che si muove, e non è pochissimo, alla sua sinistra, e nello stesso tempo propone non un’intesa tattica, ma un’alleanza strategica al centro. Non sarà una novità assoluta: un esito simile è quello che denunciano come un pericolo mortale un giorno sì e l’altro pure gli avversari del segretario ma vorrà pure dire qualcosa il fatto che il segretario l’abbia voluta notificare direttamente alla sua gente. Con le parole e i toni di chi lancia un messaggio rivolto forse più agli elettori che alle varie, litigiose componenti del Pd.

il Fatto 12.12.10
UE contro l'Italia
Immigrati, è Natale e la legge è da rifare
di Marco Palombi


È Natale anche per i clandestini (e pure per i Tribunali). Santa Klaus gli porta in dono la direttiva europea 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, meglio nota come “direttiva rimpatri”, il cui termine per l’applicazione nei paesi membri scade proprio il 24 dicembre e finirà per cancellare un bel pezzo della Bossi-Fini. Detta in maniera spicciola si tratta di un complesso di norme che regolano “il rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare” e che, al momento dell’approvazione, si attirò critiche di ogni genere (l’Onu la bollò addirittura di “razzismo”): una legge dura, insomma, ma rispetto a quella italiana il paradiso dei diritti del migrante. 
IN QUESTI DUE ANNI i singoli stati avrebbero dovuto adeguare le loro leggi a quelle comunitarie, l’Italia però lo ha fatto a modo suo: coi vari pacchetti sicurezza ne hanno preso solo le parti che potevano peggiorare il trattamento dei   clandestini (vedi il prolungamento da due a sei mesi del trattenimento nei Cie). Adesso, però, non ci sono più deroghe: la direttiva europea sarà pienamente operativa a Natale e, dunque, vincolante anche per noi visto l’articolo 117 della Costituzione. Procure e Tribunali dovranno applicarla o, se non se la sentono, ricorrere alla Consulta o alla Corte di Giustizia Ue ed è prevedibile che quest’ultima, per lunga giurisprudenza, faccia strame della legge italiana. E qui viene il bello.
“Il sistema di rimpatrio delineato dalla normativa europea è incompatibile col nostro”, spiega l’avvocato torinese Guido Savio, uno dei membri dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. La direttiva Ue, in buona sostanza, finirà per disapplicare, come si   dice tecnicamente, parti sostanziose del Testo Unico italiano sull’immigrazione. Vediamo perché. Per la Bossi-Fini il clandestino va espulso subito, preso di peso e rimandato a casa. Se questo non è possibile perchè non si sa da dove viene o non c’è un accordo col suo paese, lo si parcheggia nel Cie fino a soluzione del problema. Questo sulla carta: i posti nei Centri sono pochi, i soldi per i rimpatri coatti ancora meno e magari il tizio non verrà mai identificato. Risultato: solo un terzo delle espulsioni “cartacee”, dice la Caritas, sono reali. “La direttiva invece – spiega ancora Savio – prevede l’allontamento forzato solo in casi estremi e punta tutto sul rimpatrio volontario con una sorta di meccanismo premiale: caro migrante, se te ne vai da solo potrai tornare regolarmente,   altrimenti scatta il divieto di ingresso per cinque anni (in Italia sono 10, ndr). Di più, il trattenimento nei Cie per la Ue è l’estrema ratio, per l’Italia la regola”. Ma è un altro, implicito, l’effetto di maggior peso.
LA DIRETTIVA è incompatibile col trattamento “penale” della clandestinità scelto dal governo Berlusconi, in particolare coi famigerati commi ter e quater dell’articolo 14 della legge sull’immigazione, che ingolfano i tribunali e ne svuotano le casse essendo inutilmente responsabili di almeno la metà dei processi per direttissima. In quelle righe si prevede quanto segue: lo straniero che non rispetta l’ordine del questore di andarsene entro cinque giorni si becca da uno a quattro anni di galera e, se insiste dopo il secondo ordine,   da uno a cinque anni. Ancora Savio: “In questo modo si può privare il clandestino della libertà praticamente all’infinito: ti arresto e ti metto in un Cie; non riesco ad espellerti allora ti ordino di andartene; non lo fai, ti arresto e ti do quattro anni; tu   resti ancora e te ne do cinque; quando esci si ricomincia dal Cie”. La direttiva Ue, invece, “stabilisce che il clandestino può essere trattenuto per un massimo di 18 mesi».
Lo sanno tutti che questa è una bomba atomica. Lo sa pure il governo, che infatti ha provato riparare a modo suo. Siccome la direttiva consente agli Stati di fare un’eccezione per quegli “stranieri sottoposti a rimpatrio come sanzione penale”, a palazzo Chigi si sono inventati il trucchetto del reato di clandestinità. Pena: o 10mila euro di ammenda o l’espulsione.   “”È una truffa che la Ue non accetterà mai” insiste Savio, perché così la norma comunitaria in Italia non avrebbe corso, visto che tutti i clandestini commettono il reato di essere quello che sono: questo, hanno spiegato autorevoli studiosi, violerebbe il principio “dell’effetto utile” (sancito dalla Corte di giustizia) perché vanifica gli intenti stessi della norma comunitaria. Risultato: nuove procedure di infrazione e nuove multe. Ecco perché questo 24 dicembre è Natale per i clandestini (e pure per i Tribunali).

Repubblica 12.12.10
Cina, la rivolta delle seggiole scacco alla censura sul Nobel
Centinaia di sedie, vuote come quella di Oslo, lasciate per strada come forma di sostegno a Liu
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Anche una sedia può discretamente dissentire. Se è vuota può addirittura opporsi, e molto. È l´effetto-Liu sulla Cina.
Centinaia di sedie vuote, vecchie, rotte e davvero quasi tutte unte come quelle che si offrono in cella, sono apparse da ieri notte fuori dalle case, allineate lungo le strade come un esercito silenzioso e disarmato. Dopo qualche ora di stupore anche la polizia ha compreso di sfilare davanti alle sedie vuote di un dissenso cinese che credeva defunto, costretto a nascondersi come un sorcio zoppo, o chiuso in gabbia. L´esposizione prodigiosa era ispirata dalla sedia vuota che venerdì ha ritirato il Nobel inconsegnabile di Oslo. Era per Liu Xiaobo, a cui è stata negata la felicità di toccare con le mani il ricordo che voleva dedicare alle anime morte di piazza Tiananmen.
Le sedie vuote cinesi erano però anche un inaudito rimprovero popolare: un modo per dire al governo, con educazione orientale, che una parte di questa grande nazione si è vergognata, sentendosi infine più vicina ad un uomo solo che è stata indotta a disprezzare, piuttosto che dalla parte delle certezze eccessive di un apparato dubbioso che è consigliabile temere. A Pechino, Shanghai, Hong Kong, Guangzhou e Shenzhen sono iniziati così gli arresti delle minacciose sedie vuote. Dissidenti, attivisti, amici e parenti anche di chi osa dichiararsi non del tutto entusiasta, a piede libero non ne restano più.
Poliziotti di quartiere e "volontari socialisti" sono stati dunque impegnati fino al tramonto nella complessa retata delle seggiole dedicate al signor Liu.
Questi sgangherati simboli della resistenza sono stati esposti anche lontano dalle metropoli, nelle città e nei villaggi. Qualcuno ha acceso sulla seduta una candela, ha steso un fiore, lasciato un biglietto, o deposto un biscotto.
La rivolta delle sedie vuote ha spaventato il partito quando è parsa dilagare nelle università. In quattro facoltà le lezioni sono state sospese per due ore e le sedie trovate nei cortili sono state rimosse. In diversi ristoranti, tavoli di gruppo erano prenotati con un posto in più, lasciato libero. Nel centro di Pechino le sedie sequestrate, sollevate come delinquenti, sono state gettate dentro furgoni grigi per sparire come avviene a chi protesta. La grande retata mobiliare si è conclusa con il buio ed è stata condotta con discrezione.
Ufficialmente la polizia ha «accelerato lo sgombero di edifici da ristrutturare». I proprietari delle sedie hanno spiegato di essersi solo liberati «di roba che non ci stava più». Alle forze di sicurezza sono saltati i nervi perché nemmeno in Cina esporre una sedia fuori di casa, o abbandonarla su un marciapiede, è un reato. Nessun arresto è stato eseguito e gli scranni sono spariti perché «intralciavano la circolazione». Il potere è stato però colpito più dalla protesta delle sue sedie che dalla testimonianza di quella di Oslo.
Due giorni fa aveva spaventato con la perfezione di censura e propaganda. Nessuno ha potuto ritirare il premio, non una voce s´è alzata in patria per ringraziare Liu Xiaobo e un vortice di accuse ha travolto Nobel e Usa. La falla aperta nella rete del controllo sociale ha rivelato invece una fragilità inattesa, confermando che ormai è il web la prima leva del cambiamento. È stato il tam-tam online, aggirando i filtri del regime, a lanciare la beffa delle sedie e a invitare ad esporle quanti nel mondo amano sentirsi liberi. Due immagini diffuse sul Twitter made in China hanno mostrato una bandiera cinese con gli auguri a Liu Xiaobo, appesa all´università di Changsha, nello Hunnan. Gli hacker di Stato l´hanno subito distrutta, ma tra gli internauti ormai la sfida era partita e la Rete s´è riempita di inni: «Nessuno può fermare la sedia vuota», o «Liu oggi è diventato il nostro leader». Microblog hanno rilanciato una poesia della dinastia Tang sul dolore dell´assenza di un fratello nel giorno della festa e l´esposizione delle sedie per Liu, reali e virtuali, è scoppiata.
È presto per capire se è tanto o poco, ma il dopo - Nobel inquieta. Pechino non sa come uscire dalla detenzione di Liu Xiaobo, di sua moglie e dei dissidenti arrestati all´annuncio del premio. Il resto del mondo è nell´imbarazzo di riprendere come nulla fosse gli affari vitali con un regime che ha mostrato un profilo terrorizzante e sempre più di successo. Il signor Liu, come noi, è sospeso sopra l´incerto confronto tra i due campi definiti dallo storico Nobel 2010: una sedia vuota, o la cyberguerra delle dottrine.

Repubblica 11.12.10
Un giorno il mio Paese sarà libero
di Liu Xiaobao


La Cina alla fine diventerà una nazione governata dal diritto, dove i diritti umani saranno messi al primo posto
Cara moglie, il tuo amore è la luce del sole che scavalca le mura del carcere. Riempie di senso ogni minuto che trascorro dietro le sbarre
Voglio ribadire a questo regime che io rimango fedele ai principi espressi nella Dichiarazione per lo sciopero della fame del 2 giugno, vent´anni fa: io non ho alcun nemico e non provo nessun odio

Questo è uno stralcio del discorso letto ieri dall´attrice Liv Ullmann alla cerimonia di consegna del Nobel per la Pace. E´ stato scritto da nel dicembre del 2009, quando venne condannato dal regime di Pechino a 11 anni di carcere

Nel corso dei miei oltre cinquant´anni di vita, il giugno del 1989 ha rappresentato uno spartiacque. Fino a quel momento ero un esponente della prima generazione di studenti entrati all´università dopo la reintroduzione degli esami d´ingresso che la Rivoluzione Culturale aveva abolito. Dopo aver completato gli studi rimasi all´Università Normale di Pechino per insegnare. Gli studenti mi accolsero bene. E nel frattempo facevo l´intellettuale pubblico, scrivevo articoli e libri che suscitarono un certo clamore negli anni 80. Dopo il 4 giugno del 1989 fui gettato in prigione con l´accusa di «propaganda controrivoluzionaria e istigazione» perché ero tornato dagli Stati Uniti per prendere parte al movimento di protesta.
Sono passati vent´anni, ma i fantasmi del 4 giugno non sono ancora svaniti. E ancora adesso mi ritrovo sul banco degli imputati a causa della mentalità del nemico che ha il regime. Ma voglio ribadire a questo regime che mi sta privando della libertà che io rimango fedele ai principi espressi nella «Dichiarazione per lo sciopero della fame del 2 giugno», vent´anni fa: io non ho alcun nemico e non provo nessun odio.
L´odio può corrompere l´intelligenza e la coscienza di un individuo. La mentalità del nemico può avvelenare lo spirito di una nazione, istigare contese feroci e mortali, distruggere la tolleranza e l´umanità di una società e ostacolare il progresso di una nazione verso la libertà e la democrazia. Per questo spero di riuscire a guardare allo sviluppo della nostra nazione e al cambiamento sociale trascendendo le mie esperienze personali, per contrapporre all´ostilità del regime la massima benevolenza, e per dissolvere l´odio con l´amore.
Proprio per queste mie convinzioni e per la mia esperienza personale sono fermamente convinto che il progresso politico della Cina non si arresterà, e guardo pieno di ottimismo all´avvento di una futura Cina libera. Perché nessuna forza può sconfiggere la ricerca di libertà dell´uomo, e la Cina alla fine diventerà una nazione governata dal diritto, dove i diritti umani sono messi al primo posto.
Se mi è consentito, vorrei dire che l´esperienza più fortunata di questi ultimi vent´anni è stato l´amore disinteressato che ho ricevuto da mia moglie, Liu Xia. Lei non ha potuto essere presente qui in aula oggi, ma voglio comunque dirti, mia cara, che sono fermamente convinto che continuerai ad amarmi come sempre. In tutti questi anni in cui sono stato privato della libertà, il nostro amore è stato pieno di amarezze imposte dalle circostanze esterne, ma quando ne assaporo il retrogusto rimane un amore sconfinato. Sto scontando la mia condanna in una prigione tangibile, mentre tu mi aspetti nella prigione intangibile del cuore. Il tuo amore è la luce del sole che scavalca le mura del carcere e penetra fra le sbarre della finestra della mia cella, carezzando ogni centimetro della mia pelle, scaldando ogni cellula del mio corpo, permettendo al mio cuore di rimanere sempre in pace, aperto e radioso, e riempiendo di senso ogni minuto che trascorro in carcere. Il mio amore per te, per altro verso, è talmente pieno di rimorsi e rimpianti che a volte vacillo sotto il suo peso. Sono una pietra inanimata in mezzo alla natura, sferzata da venti violenti e piogge torrenziali, tanto fredda che nessuno osa toccarmi. Ma il mio amore è solido e acuminato, capace di perforare ogni barriera. Anche se fossi ridotto in polvere, userei le mie ceneri per abbracciarti.
Mia cara, con il tuo amore posso affrontare con calma il mio imminente processo, senza avere rimpianti per le scelte che ho fatto e aspettare con ottimismo il domani. Attendo con ansia il giorno in cui il mio Paese sarà una terra con libertà di espressione, dove le opinioni di tutti i cittadini saranno trattate allo stesso modo; dove valori, idee, credenze e opinioni politiche diverse potranno confrontarsi fra di loro e coesistere pacificamente; dove saranno garantite allo stesso modo le opinioni della maggioranza e quelle della minoranza, e dove in particolare saranno pienamente rispettate e protette le opinioni politiche che differiscono da quelle temporaneamente al potere; dove tutte le opinioni politiche potranno essere espresse alla luce del sole perché i cittadini possano scegliere quale li convince di più, dove ogni cittadino potrà affermare le sue opinioni politiche senza timore, e dove nessuno, in nessuna circostanza, potrà essere perseguitato per aver espresso opinioni politiche divergenti. Spero di essere l´ultima vittima delle interminabili inquisizioni letterarie cinesi, e che da questo momento in poi nessuno venga più incriminato per le sue opinioni.
La libertà di espressione è il fondamento dei diritti umani, la fonte dell´umanità e la madre della verità. Strangolare la libertà di espressione significa calpestare i diritti umani, soffocare l´umanità e sopprimere la verità.
Per poter esercitare il diritto alla libertà di parola accordato dalla Costituzione bisogna adempiere al proprio dovere sociale di cittadino cinese. Non c´è nulla di criminale in tutto quello che ho fatto. Ma se mi si accusa per questo, non ho rimostranze da fare.
(Traduzione  Fabio Galimberti)

Repubblica 12.12.10
La figlia di Hitler
"Io, bambina fabbricata dal Reich"
Si chiamava Piano Lebensborn: bambini "di pura razza ariana" nati solo per volere del Terzo Reich Barbara Orlop è una di loro
di Andrea Tarquini


Una madre fanatica ariana, un padre ufficiale nazista, un programma chiamato "Lebensborn" per creare la razza perfetta. La storia di Barbara Orlop e di altri migliaia come lei: nati per volere del partito, affidati a famiglie fedeli, abbandonati dopo la caduta. E costretti a ricostruirsi una vita distrutta da quando hanno saputo come sono venuti al mondo

RUDOLSTADT (Turingia) «Con mia madre feci pace solo due anni prima della sua morte, ma non riuscii mai a chiamarla mamma. L´uomo che mi generò non lo conobbi mai, morì da nazista convinto sul fronte russo. Non l´ho mai sentito come un padre, ho vissuto col timore di vergognarmi di suoi possibili crimini di guerra. Eccomi, io fui uno dei tanti bambini nati con l´organizzazione Lebensborn, gli ariani perfetti voluti da Hitler. Riuscii a darmi da sola la vita normale che il nazismo mi negò organizzando la mia nascita, solo da adulta seppi com´ero nata. Oggi sono una nonna felice, anche se l´uomo che mi ridette una vita, mio marito, è appena morto, stroncato dal cancro».
Il paesaggio innevato splende dalla terrazza della casetta di Rudolstadt, tra valli e colline boscose e quasi toscane della Turingia, dove ascolto Barbara Orlop narrare i suoi ricordi. Lebensborn, fonte della vita, si chiamava quella creazione della demoniaca perfezione nazista.
Nei centri Lebensborn le donne nubili provatamente ariane e fedeli alla tirannide potevano incontrarsi con giovani, aitanti uomini altrettanto ariani e fedeli. Il più delle volte, soldati o ufficiali delle Ss. Dovevano incontrarsi per procreare, oppure se avevano già fatto sesso prima con un uomo ariano e nazista doc la madre partoriva là. Poi il bimbo diveniva proprietà del Partito-Stato. Veniva affidato a famiglie di piena fiducia delle Ss, della Gestapo, della Nsdap (il partito nazista). L´Rsha, l´ufficio centrale per la sicurezza del Reich, vegliava su tutto. Niente famiglia naturale, ma bimbi ariani da spargere per il Paese, per procreare la razza superiore. Non dovevano essere persone felici, solo perfetti e fedelissimi ariani.
«Classe 1918, mia madre Else aveva subito un trauma tremendo. Sua mamma si tolse la vita nel 1933, fu lei a trovare il cadavere. Dall´inizio mia madre fu una nazista convinta, si iscrisse alla Nsdap, divenne capo del Bund deutscher Maedchen, l´Unione delle fanciulle tedesche, a Erfurt». Mentre parliamo Frau Barbara offre un buon caffè caldo con ottimi dolci, tradizione dell´ospitalità e del quotidiano familiare dei tedeschi. Apre una cartella conservata con cura, mostra documenti e foto della sua vita. «Ecco, guardi, questa era mia madre da giovane… e questo palazzotto nel verde è l´istituzione nazista dove sono nata io». Edificio Lebensborn a Wernigerode, Hartmannsweg numero uno. Là, come dice il freddo certificato di nascita nazista stilato da un´anagrafe speciale e segreta, con tanto di timbro con l´aquila che sormonta la svastica, Barbara vide la luce. Come bimba dichiarata benvenuta nel Reich dal regime, ma non voluta dalla mamma. «Lei e l´uomo che mi generò si conobbero negli ambienti delle organizzazioni naziste. Lui era un militare, già sposato». Andarono a letto insieme, erano entrambi ariani. Lei scelse di partorire con l´organizzazione Lebensborn. «Non aveva detto a nessuno in famiglia, neanche ai suoi fratelli, di essere iscritta al partito, e solo molto dopo loro seppero che aveva avuto un bambino».
Era il novembre 1940, Hitler aveva già scatenato la Seconda guerra mondiale quando Barbara venne al mondo, battezzata come tutti i bimbi Lebensborn con un tetro cerimoniale nazista: ufficiali Ss officianti all´altare, il pugnale Ss sul petto del neonato. Varsavia, Danzica, Rotterdam e Coventry erano state rase al suolo dalla Luftwaffe, quasi tutta l´Europa era occupata dalla Wehrmacht e - tra un´America ancora neutrale e l´Urss che si era spartita la Polonia con i nazisti - nel mondo in cui Barbara nacque, solo caccia Hurricane e Spitfire della Royal Air Force resistevano, nel cielo sopra Londra, alla Germania che sembrava invincibile. I tedeschi non avevano ancora assaggiato la guerra in casa, il consenso alla tirannide restava altissimo. Else accettò subito la proposta del Lebensborn: dare Barbara in adozione a una famiglia di fiducia del regime. Non ci pensò un momento, le sue certezze poggiavano tutte sulla fede nel Fuehrer, non sull´affetto verso la piccola. «Fin dall´estate del ´41, passai come una palla da una famiglia affidataria a un´altra. Alla fine approdai a Tautenburg dalla famiglia F., e lì crebbi», racconta Barbara mostrando le foto di lei piccola in braccio alla madre adottiva. «Mamma e papà adottivi furono buoni con me. Finché il regime restò al potere furono ricompensati con soldi e aiuti in natura, il letto per me, la carrozzina, i vestiti, ogni rifornimento. Qualche soldo glielo mandava anche mia madre, ma si faceva vedere poco o mai, non voleva che la riconoscessi».
Nel 1945, la svolta. Per il mondo, e per la vita della piccola Barbara. «Nella Germania distrutta dalla guerra di Hitler regnavano freddo, fame e miseria. Ai miei genitori adottivi andava malissimo, mio padre guadagnava a stento qualcosa come operaio forestale. Mia madre, quella vera? Non so come visse la fine della dittatura in cui aveva gettato anima e corpo, ma so che di tanto in tanto continuava a mandare dei soldi. Continuavano anche le sue visite, là da loro, dove crescevo, e io cominciai a sospettare che la mia vera madre fosse lei. Ma a ogni mia curiosità o bisogno d´affetto lei reagiva con freddezza infastidita. Sapeva solo criticare, davanti a me bambina, il modo in cui mi educavano e mi crescevano. I miei genitori adottivi furono sempre molto cari con me, ma per le loro figlie naturali io ero "il verme", il "parassita". Quella che rubava dai loro piatti il poco che c´era da mangiare. Furono dure, aggressive con me».
Ogni giorno, crescendo, Barbara si sentiva più sola, diversa dagli altri, coetanei e adulti. «Il Natale, anche per i bambini di quella Germania che Hitler aveva lasciato distrutta, all´anno zero, era la festa più attesa e gioiosa. Ma i miei genitori adottivi avevano troppo poco, e non ce la facevano a scontentare le loro figlie naturali. Quando veniva il momento della distribuzione dei doni sotto l´albero, a me dicevano "il tuo Natale arriverà quando verrà tua madre". Ma mia madre ormai non si faceva più vedere, nemmeno per portare qualche soldino in più per farmi un regalo. Passai molte notti sveglia, piangendo nel mio lettino, sognandola e aspettandola invano».
Venne il dopoguerra della Germania divisa. Barbara si trovò a crescere nella Ddr. «Mi sentivo sola al mondo, capivo che la mia madre vera non mi aveva mai voluto, ma non sapevo ancora perché e come ero nata. La disperazione mi spinse a farmi avanti. Dalla piccola Tautenburg, il villaggio dove vivevo con la famiglia adottiva, andai da sola alla scuola di Dorndorf, la più vicina. Chiesi al preside di accettarmi. Di mia iniziativa. Erano anni poveri, andavo a scuola facendo sette chilometri a piedi, quando andava bene il lattaio o il becchino del paese mi davano un passaggio col furgone del latte o con il carro funebre. Conseguii la Abitur, la licenza liceale, cominciai gli studi superiori in un collegio di Stato. Nel weekend ero l´unica a restare al collegio, non avevo una famiglia dove andare. I miei genitori adottivi mi avevano già congedato, era venuto "il momento di salutarsi", mi avevano detto. Conobbi lì mio marito, ci sposammo presto. Solo allora mia madre si fece viva, per dirmi di "non sposarlo, è solo un operaio". Ma noi studiammo, diventammo insegnanti. Lui mi riportò alla vita, mi ha regalato un´esistenza felice di moglie, di madre e nonna».
L´età adulta fu per Barbara la rivincita col passato, per costruirsi una vita normale. I figli, poi i nipoti. «Il passato riemerse nel 1968, durante una gita organizzata dal sindacato. A Wernigerode. Sapevo che ero nata là ma nulla di più. Chiesi informazioni, e per la prima volta appresi - vede questo certificato con la svastica? - che ero nata non per far felice una coppia, una famiglia, ma per i disegni razzisti del Reich». I contatti con la madre si fecero più radi. «Dal 1970, lei volle rompere ogni rapporto con me. Non mi ha voluta vedere per trentasette anni, fino a due anni prima della sua morte». Altre svolte: la crisi del blocco sovietico, la caduta del Muro, la riunificazione. «Nel 2007, ormai anziana e malata, accettò di vedere me, i miei figli, i miei nipoti. A volte piangeva, mi disse "non hai mai avuto nulla da me". "È acqua passata", le rispondevo. Non la chiamai mai mamma, ma accettai le sue lacrime, le fui vicina sul letto di morte. Eppure non volle mai rivelarmi nulla, mai, fino al suo ultimo respiro. Poi riuscii da sola a scoprire chi era l´uomo che mi aveva generato. Trovai il suo certificato di morte: caduto in battaglia a Nikola´evka, sul fronte russo, il 27 luglio 1943, nei ranghi del 542mo reggimento granatieri della Wehrmacht, col grado di sottufficiale».
«Coraggio, mamma, quel che non t´uccide ti rafforza», le dice il figlio. Barbara è scossa dai ricordi. Poi si riprende, racconta ancora. «Ogni anno ci incontriamo, a Wernigerode, noi figli del Lebensborn. Io e altre due donne, una belga e una norvegese, abbiamo storie simili, ci chiamiamo "sorelle". Siamo tre donne forti, andiamo avanti. Ma la maggioranza degli ex bimbi Lebensborn che si rivedono o si conoscono a quei raduni sono persone distrutte. Distrutte da quando seppero come e perché sono venute al mondo».

Repubblica 12.12.10
Reds. L'ultimo comunista americano
Falce e strisce
di Angelo Aquaro


Si chiama Bertell Ollman, professore marxista. Inventò "Lotta di classe", un monopoli socialista per educare le masse operaie. Ancora oggi lui e i compagni si riuniscono a due passi da Wall Street per giocarci, fare militanza e parlare di politica E per prepararsi alla rivoluzione

Bandiera rossa la trionferà: sull´Empire State Building? «Io sono convinto che questa sia una crisi terminale: le cose non vanno per niente meglio. Lo so: Marx non credeva alle crisi terminali. Ma solo perché scriveva centocinquant´anni fa. E questa, davvero, è una situazione che non avrebbe mai potuto prevedere». E no che non poteva: chi se lo poteva immaginare che gli ultimi comunisti si arroccassero proprio qui, nel cuore del cuore del capitale, a due passi da Wall Street? Manhattan, interno notte, stanza 221 della New York University, secondo piano del civico 19 West, Quarta strada. Il professor Bertell Ollman, classe 1936, l´inventore di Lotta di classe, il primo "monopoli socialista" della storia, il gioco con cui trent´anni fa cercò di educare al comunismo nel paese dello Zio Sam, parla di Marx & Obama, Sarah Palin e Friedrich Engels, trade union e robot. E c´è solo un argomento che lo distoglie dalla rivoluzione imminente: «Ma come funziona davvero questo Bunga Bunga?».
Due blocchi più in là, al 42 di Washington Square, giusto cent´anni fa svernava John Reed, l´eroe che l´America conosce più che altro per Reds, il film di Warren Beatty, e che prima di raccontare dalla Russia dei Soviet I dieci giorni che sconvolsero il mondo spendeva le notti scrivendo qui A Day in Bohemia: poemetto mediocre sulla vita d´artista nel Village. Dall´altra parte della piazza cantata da Henry James - dove «con un´aria spaziosa e confidente, che già lasciava presagire i suoi alti destini» inizia la Quinta Avenue - ecco tra Bank e Between Street, proprio lì di fronte all´Hudson, le sale del Brecht Forum. L´altra sera c´era Peter Marcuse, che a ottantadue anni tutti continuano a chiamare ancora «il figlio di Herbert», e da vero comunista ha dedicato una vita alla pianificazione, anche se solo a quella urbana. «Approcci alternativi alla questione della casa: socialismo, socialdemocrazia e capitalismo» era il titolo della lezione, quarto seminario della New York Marxist School, per il modico prezzo di 45, 55 o 65 dollari, «scegli a seconda delle tue possibilità: e grazie del supporto». Un po´ più a nord, dove il Village s´è già stemperato in Chelsea, il quartiere dei pittori e delle gallerie, il New York Communist Party attende i simpatizzanti al 205 West della 23esima strada: tra un negozio di articoli per la pittura e quel Chelsea Sewing Center col suo esercito di cinesini sempre chini sui rammendi. Ma siamo a Manhattan o sulla Piazza Rossa? E quella è Wall Street o il vecchio Cremlino?
La storia sembra contrarsi come un buco nero proprio qui, nel centro del mondo, nel primo decennio del nuovo millennio. E in questo dedalo di contraddizioni ti confonde ancora di più scoprire che il leader dei comunisti di New York è un giornalista quarantenne che si chiama, manco a dirlo, Libero, che di cognome fa Della Piana ed è un afro-italo-americano che sogna di importare negli States il «Socialismo del ventunesimo secolo» teorizzato da Hugo Chávez: e però intanto fa campagna per Barack Obama. «Che peccato che proprio in Italia, il paese di Togliatti e Gramsci, i comunisti non siano più quelli di una volta». Conosce la situazione? «So che la sinistra non è riuscita a restare unita dopo il crollo del vecchio Pci. Oh, i miei venivano dall´Abruzzo: tanti democristiani, ma c´è pure un cugino consigliere di Rifondazione». Anche la storia del professor Ollman sfiora quella d´Italia. Il suo gioco, Class Struggle, fu tradotto nel 1979 da Mondadori («Davvero oggi anche questa è di Silvio Berlusconi?»). E anzi l´Italia «con il più forte partito d´occidente» fu il paese nel quale il monopoli socialista vendette di più. «Solo che il lancio del gioco coincise con l´arresto di Toni Negri: e io avevo firmato una petizione in suo favore. Mondadori era terrorizzata dall´associare il mio nome a quel caso». Il professore è ancora oggi uno dei più grandi teorici del marxismo ma la sua curiosità l´ha portato a contaminare il vecchio Karl con le discipline più diverse. I suoi libri si chiamano Alienazione ma anche Rivoluzione sociale & sessuale. E la sua fama è legata appunto a quel monopoli socialista che in America nessuno voleva pubblicare. Dovette improvvisarsi, proprio lui, piccolo imprenditore: e autoprodurlo. Un´avventura che ha poi raccontato nel libro Confessione di un businessman marxista: vi stupisce che la sua nomina a preside dell´università del Maryland fu stoppata da un certo Samuel Hoover, fratello del più noto J. Edgar, mitico direttore-padrone dell´Fbi?
Essì: sempre stata dura la vita dei Reds in America. Eppure al Brecht Forum, che Ollman ha contribuito naturalmente a fondare, oggi c´è la fila come ai saldi di Gap o Banana Republic. E il Partito Comunista di New York proprio quest´anno - sbandiera con orgoglio il compagno Libero - ha ricevuto la bellezza di settecento domande di iscrizione. Ma come si fa a coniugare Obama e l´Internazionale? «Questo è il nostro novantunesimo anno di vita e quindi è chiaro che la nostra fondazione è ispirata alla Rivoluzione russa: primo esempio di successo del governo "della" e "per la" classe operaia...». Via, Libero, non ce lo venga a raccontare proprio a noi, lei da New York. «Ma la tradizione sovietica si è anche macchiata di tanti errori e tanti crimini. Commessi contro il suo stesso popolo. In nome del socialismo». Ah, ecco. E che cosa vuol dire, allora, essere comunisti, oggi, a Manhattan, anno del Signore 2010? «Nessuno oggi sa più bene che cosa vuol dire essere comunisti: io so solo quello che nel nostro piccolo cerchiamo di fare qui a New York. Stare nei movimenti. Combattere nei quartieri. Sui posti di lavoro. Nelle università. Impegnarsi sulla questione della casa. Dell´educazione pubblica. Dell´ambiente. La battaglia contro il razzismo. Il sessismo. La xenofobia. Il lavoro comune con i sindacati. Con le chiese...»
Con le chiese? Ollman vede un alleato insperato perfino nei Tea Party. «La loro rabbia verso le banche è motivata. Certo è appena il primo stadio: le banche, si sa, sono solo un´espressione del potere capitalista. Però finalmente gli americani si rendono conto: si parte da qui». E per dove? «Per la rivoluzione». Scusi: con la rivolta del proletariato e tutto quel che segue? «Macché: con il voto. Io da marxista americano credo in una società socialista ma democratica. Certo: negli ultimi anni ci stanno rubando anche quello. Non solo Bush contro Gore: sa quanti casi ci sono stati alle elezioni di midterm? E vedrà con la diffusione del voto elettronico». Eccolo là, un classico della sinistra: complottismo & rifiuto del nuovo. O no? Il professore che per educare le masse inventò il monopoli socialista ora sorride malizioso. Oddio, ha un´altra idea: «Ma se provassimo a lanciare in Italia il gioco del Bunga Bunga?».

Repubblica 12.12.10
Frankenstein
Casa dolce casa quel mostro umano in cerca d'affetto
di Mario Serenellini


Mogli, figli, nipoti, amanti, cani: mai nessun personaggio cinematografico ha avuto un albero genealogico fitto come quello nato dal romanzo di Mary Shelley. Ora una rassegna cinematografica torinese li mette insieme tutti. A partire dalla versione restaurata del primo cortometraggio girato esattamente cent´anni fa

Già Dio era corso subito ai ripari, riciclando una costola per dare al primo uomo una compagna e, sia pure con qualche dolore per lei (dopo la mela), una discendenza. Anche il dio-bis, creatore del neouomo Frankenstein, s´è visto reclamare dall´Adamo di laboratorio «una compagna della stessa specie e con gli stessi difetti», una Eva artificiale che gli «riscaldi il cuore» e lo promuova «a pieno titolo alla catena dell´esistenza» da cui è escluso. Gli indugi del papà-scienziato avranno conseguenze funeste nel libro di Mary Shelley, dove per la prima volta, nel 1817, prende forma "la creatura", l´homo-bricolage, il neonato adulto, privo d´infanzia, di passato e di crescita, ma dall´immediata, irresistibile vocazione domestica. Inevitabile in un "senza famiglia", un figlio di bottega, come sarà poi Pinocchio, anch´egli ribelle al genitore single e in cerca per tutta la vita di quella metà femminile negatagli fin dalla nascita.
Burattino in carne e ossa altrui, cavia controvoglia d´una vita in prestito, Frankenstein si è reso conto ben presto del suo anomalo destino, sospeso tra la morte e la morte, mosaico di tanti nessuno, da cui non risulta una nuova identità, ma una somma sconosciuta e smarrita: forse, lo specchio mostruoso, l´alter ego artificiale del suo creatore, in uno sdoppiamento sperimentale che anticipa il Dr Jekyll e Mr Hide di Stevenson. Lasciato scapolo dal suo Geppetto chirurgico, l´enfant prodige d´alambicchi, suture e scosse elettriche dovrà aspettare almeno un secolo per metter su famiglia, quando l´eco dei suoi primi vagiti letterari diventerà cinema. Ma su grande schermo Frankenstein si prenderà la sua rivincita affermandosi come il più prolifico tra i mostri in celluloide. Gli altri - vampiri, licantropi, zombie - non cercano sodalizi, ma vittime, al massimo proseliti. Lui assaggia invece tutte le varianti-famiglia: padre, figlio, fidanzata, moglie, senior, junior e, persino, scodinzolante cagnetto mascotte.
Campionario di questa scalata domestica è, al Sottodiciotto di Torino, la sezione "Frankenstein, cento anni da mostro", aperta dal primo film ispirato al personaggio di Mary Shelley, realizzato in Usa nel 1910, ritenuto a lungo perduto, ritrovato e restaurato: Frankenstein, di J. Searle Dawley, un quarto d´ora di suspense in bianco e nero, con un magnifico finale allo specchio, dove si sovrappongono creatore e creatura. Accanto al film di Searle Dawley, autore, sei anni dopo, di una storica Biancaneve (ispiratrice del capolavoro di Walt Disney, che la vide ragazzino), il festival torinese allinea la più celebre parodia, Frankenstein Junior di Mel Brooks (1974), raddoppiata dal cartoon, da noi inedito, di Anthony Leondis, Igor (2008), dove la fiera annuale di arti malvagie richiama apprendisti stregoni tutti di nome Igor e con gobba scivolosa, cloni a matita della caricatura di Marty Feldman.
Non manca la rilettura "canina" del mito, il delizioso Frankenweenie, secondo cortometraggio, del 1984, di Tim Burton, che gli valse l´espulsione dalla Disney, dove ora è stato in gran fretta richiamato per la versione lunga, in stop motion e 3D, del tenero bull terrier richiamato in vita, tra tuoni e lampi, dal compagno di giochi dopo un incidente stradale: l´epilogo fiabesco prevede un ulteriore colpo di fulmine, stavolta per una barboncina, dall´acconciatura che richiama la permanente dalle elettriche mèche bianche di mogli e fidanzate della creatura. Perché, dopo la prima apparizione, la cine-famiglia di Frankenstein non ha fatto che allargarsi, dando vita ad apparati dinastici, alberi genealogici. Dal primo nucleo coniugale di James Whale - Frankenstein (1931) e La moglie di Frankenstein (1935) - con Boris Karloff nella maschera-icona fabbricatagli dal geniale truccatore Jack Pierce, discendono Il figlio di Frankenstein (1939) di Rowland V. Lee e La figlia di Frankenstein (1958) di Richard E. Cunha, in un progressivo dilagare di partecipazioni speciali (specie nel cartoon, da Topolino a Betty Boop, a Bugs Bunny, a Yellow Submarine) e di fantasiose licenze creative, da Lady Frankenstein (1970) di Mel Welles a La sposa promessa (1985) di Franc Roddam, all´amante cibernetica di Frankenstein 1990 (1984) di Alain Jessua, ai mostri intermedi o prodigi biomeccanici di Robocop o Terminator, sino alle fiabe da laboratorio dello stesso Burton, come Edward mani di forbice o La sposa cadavere.
Finché, con registi come Robert Zemeckis o George Lucas (ora al lavoro su un film in computer grafica, con un cast di star defunte, da Orson Welles a Barbara Stanwyck), è il cinema a farsi officina-monstre. Fabbrica di realtà parallele, in un´autonomia tecnologica crescente, lo schermo, anziché risucchiare immagini dalla vita, ridà vita a se stesso: si resuscita. È il giro circolare della ricetta-Frankenstein, la formula divenuta mito, che il cinema riconduce a formula, per rimanere mito.

Repubblica 12.12.10
Quando la creatura si ribella al creatore
di Giuseppe Montesano


l´inizio della storia del golem, l´automa vivente creato dall´uomo, si trova forse in una delle leggende del Talmud, il libro rituale dell´ebraismo, e non è priva di sapiente ironia: «Rabbi Hanina e Rabbi Oshaya tutte le vigilie del sabato si occupavano del Libro della Creazione, creavano un vitello grande un terzo del naturale, e se lo mangiavano…». In un´altra leggenda Rabbi Rava crea un uomo e lo manda da Rabbi Zera che lo interroga, ma l´uomo artificiale non riesce a rispondere: evidentemente il prototipo di Golem di Rabbi Rava era difettoso. Ma l´idea che l´uomo potesse creare qualcosa di vivo adoperando una formula o delle parole era nata, la storia del robot fatto di terra e di parole magiche cominciò a diffondersi e uno dei fratelli Grimm la riassunse così: «Plasmano con argilla la figura di un uomo, e quando pronunciano il nome di Dio, l´argilla deve prendere vita. È vero che non può parlare, ma capisce ciò che gli si comanda. Lo chiamano Golem, e lo usano come domestico che sbriga tutte le faccende di casa…». Il problema è che il comodo e gratuito tuttofare domestico cresce e diventa sempre più potente e aggressivo, finché colui che lo ha creato non gli cancella dalla fronte le parole che lo animano, e il Golem crolla sul suo incauto fabbricatore uccidendolo.
Nel Romanticismo il mostro ebete che sfugge al controllo del suo maldestro creatore riappare, e il golem si traveste da automa in Hoffmann e da patchwork umano nel Frankenstein di Mary Shelley. Per rivivere un secolo dopo, nel buio della Grande Guerra, nel Golem di Gustav Meyrink, il romanzo che piacque a Kafka e da cui Wegener e Bose trassero un capolavoro del cinema espressionista. Ma nella modernità non ci sono più vitelli in miniatura fabbricati e cotti al momento da giocondi rabbini, ci sono solo terrificanti prodotti della demente logica umana, e il nome di Dio non serve più: basta la tecnica. In piena Guerra Fredda nascono gli androidi di Philip Dick, copie quasi perfette dell´uomo, simulacri che imitano anche le passioni e sono destinati a confondersi ai loro originali e a prenderne il posto: come accade in Blade Runner, il film che Ridley Scott trasse da un romanzo di Philip Dick intitolato Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
Del resto, in anticipo su Philip Dick, i sinistri padri dei totalitarismi avevano scoperto come si trasforma un essere umano in un meschino Golem con la croce uncinata, in un cupo Frankenstein con falce e martello, in un ridicolo androide con fascio e moschetto: basta un po´ di propaganda e il gioco è fatto. E nonostante i risultati catastrofici, la smania di creare sosia e automi non sembra finita. Non si possono più ottenere gratis servi che spazzano per noi? La pecora elettrica giapponese che piange se la trascuri è solo una nuova fonte di depressione? La maggior parte degli umani si ostina a preferire ai robot sexy il sudore dei corpi mortali, sia pure imbottiti di silicone? Allora, pur di illudersi di creare qualcosa, si creano gli Avatar: presenze che esistono nella rete di Internet e vivono al nostro posto una vita che noi non sappiamo vivere. Vivono o simulano? Forse gli avatar sono il vero "me stesso" di chi li genera, e il presunto originale, l´essere seduto dietro il computer, è la copia, l´automa. il simulacro. E, perso nel suo sogno di fuga, l´essere che non distingue più tra la copia e il modello non si accorge dei frankenstein e dei golem volontari che sorgono e si moltiplicano al suono dei nuovi pifferai magici.

Repubblica 12.12.10
Faccia a faccia con Modigliani
di Lea Mattarella


Parigi e l´esperienzacon Picasso lo avvicinano all´arte africana, esperienza fondamentaleper il suo universodi pietra
L´esposizione vuole uscire dai confinidel mito che segue da sempre il suo genio e la sua sregolatezza per riportare l´attenzione alle opere

Modigliani e la scultura: un grande amore durato solo un paio d´anni. Che però ha lasciato un gruppo di capolavori, teste ieratiche e sintetiche, idoli enigmatici e silenziosi, esposti dal 18 dicembre e fino al 27 marzo al Mart, nella prima grande mostra dedicata al rapporto tra questo artista leggendario e la statuaria. Curata da Gabriella Belli, Flavio Fergonzi e Alessandro Del Puppo, l´esposizione si propone il compito di uscire dai confini del mito che accompagna da sempre Modì-Maudit - fatto di genio e sregolatezza, una vita bruciata tra alcol, droghe, donne, insoddisfazione creativa e miseria bohémienne - per riportare l´attenzione sul valore delle opere. È la ragione per cui qui si inserisce il suo mondo scolpito in un contesto che lo avvicina a quello di altri importanti artisti cercando di evidenziarne affinità e differenze. Si tratta di uno sguardo rivolto non soltanto sugli scultori coevi come Zadkine, Nadelman, Brancusi, ma anche verso il passato, con alcuni momenti di intensità sorprendente come il confronto tra il suo fare immobile e potente e la classicità impassibile di Francesco Laurana del Ritratto di Battista Sforza o di un antico kouros. D´altra parte, Modigliani quando arriva a Parigi da Livorno, dov´era nato nel 1884, ha in tasca il suo bel bottino di immagini del Rinascimento italiano - Carpaccio, Botticelli, Filippo Lippi, Lorenzo Lotto, Perugino - che non abbandonerà mai. Questo non gli impedisce di diventare uno dei protagonisti della grande rivoluzione visiva che si compie all´ombra della Tour Eiffel, dove arrivano figure da ogni parte d´Europa.
È nota la sua frequentazione con Picasso di cui lascerà un ritratto dipinto nel 1915, presente in questa mostra nella sezione dedicata alle tele che seguono l´esperienza della scultura riprendendo modelli e stili messi a punto proprio nella plastica. È il 1907 quando Picasso apre le porte alla modernità con le Demoiselle d´Avignon. Modì è nella capitale francese da un anno e, attraverso lo spagnolo e grazie alle frequenti visite al Trocadero, scopre la scultura africana che sarà fondamentale per il suo universo di pietra. Ma l´attenzione del giovane italiano afferra anche suggestioni dall´Oriente, dove lo affascina l´imperturbabilità di certe raffigurazioni di Buddha, dalla tradizione italiana, dall´Egitto. La poetessa Anna Achmatova a questo proposito ricorda: «In quel tempo Modigliani sognava l´Egitto. Mi portò al Louvre perché visitassi la sezione egizia… Disegnò la mia testa in acconciatura di regina egizia». Negli anni tra il 1911 e il 1913 che sono quelli in cui l´artista scolpisce senza sosta, disegna nello stesso modo. Questa esposizione chiarisce il rapporto tra il segno netto e incisivo sul foglio e quello, molto simile, che scalfisce la pietra, perché Amedeo concepisce la statuaria non come modellato e fusione, ma come intaglio diretto della materia. Un modo di agire che gli consente un controllo assoluto del blocco scultoreo, suggeritagli dall´amico Costantin Brancusi, arrivato a Parigi dalla Romania ed entrato in contatto con lui nel 1907.
Nel 1913, dopo un soggiorno livornese Modigliani abbandona lo scalpello e si rimette a dipingere. Ma traghetterà nelle sue tele quello che gli aveva dato la statuaria: forme allungate, sintesi, frontalità. Mentre, con la morte precoce, avvenuta nel 1920, nasce la sua leggenda, la scultura resta la Cenerentola degli studi. E dal 1984, anno della beffa del falsi Modì, ritrovati nel Fosso Reale di Livorno, dove si diceva che l´artista li avesse gettati in un momento di sconforto, nessuno ha più avuto il coraggio di occuparsi seriamente di questo lato dell´artista. Grazie alla mostra è stato possibile rintracciare nuovi documenti e fare ulteriori scoperte, capire le ragioni reali dell´abbandono del mezzo scultoreo: la salute cagionevole, certamente, ma anche il confronto con altre situazioni, come l´esempio di Boccioni, riconducono Modigliani tra i confini della tela. Fino a oggi si credeva che le sculture effettivamente realizzate dal 1911 al 1913 fossero venticinque. Dopo le ricerche compiute in questa occasione al catalogo ne sono state aggiunte con sicurezza tre. Lo stesso numero di quelle eseguite dagli spiritosoni del Black and Decker. Solo che questa volta sono vere, frutto della fatica, dello scontro fisico e mentale tra un genio indebolito dalla tubercolosi e la materia che ha scelto di conquistare. Da cui ha origine questa costellazione di volti dalla serenità senza tempo.

Repubblica 11.12.10
La pedofilia e il Vaticano secondo Wikileaks
"Nessuna collaborazione sui casi di abusi in Irlanda"


Il Vaticano ha rifiutato di permettere ai suoi uomini di testimoniare di fronte alla commissione chiamata a fare chiarezza sugli abusi dei sacerdoti su minori in Irlanda. Non solo: la Santa Sede si irritò quando vennero convocati a Dublino da Roma a questo scopo. Lo rivelano i file di WikiLeaks pubblicati ieri dal Guardian. La richiesta di presentarsi di fronte alla commissione Murphy «ha offeso molte persone in Vaticano. Pensano che l´Irlanda non abbia protetto e rispettato la sovranità vaticana durante l´inchiesta», dice un cablogramma. Il documento in questione è intitolato «Lo scandalo degli abusi sessuali mette a dura prova le relazioni fra l´Irlanda e il Vaticano, scuote l

Repubblica 11.12.10
Israele

50 rabbini contro la vendita di case ai non ebrei
Yehoshua: "Una follia, il governo intervenga"

GERUSALEMME - «Sono disgustato. Il governo deve intervenire e fermare questa follia». Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua non nasconde la sua indignazione per la lettera - firmata nei giorni scorsi da 50 rabbini ultraortodossi israeliani - nella quale si istruiscono i cittadini ebrei di Israele a non vendere o affittare case ai non ebrei. La presa di posizione dei rabbini sta suscitando numerose proteste e prese di posizione. Giovedì una dichiarazione del Centro del Memoriale della Shoah di Yad Vashem, a Gerusalemme, aveva duramente bocciato l´iniziativa: «Il passato ci ha insegnato quanto siano fragili i valori della coesistenza», si legge. La lettera «è un grave colpo al valore delle nostre vite come ebrei ed esseri umani in uno stato democratico».

allora non aveva tutti i torti...
Repubblica 12.12.10
"Ho perso la testa, sono pentito ... ma lo faceva di continuo: consumava e se ne andava"
Non paga il conto al bar, ucciso a bastonate