martedì 14 dicembre 2010

Corriere della Sera 14.12.10
Fotografato il «flash» chimico alla base della vista umana
L’invisibile attimo che trasforma gli impulsi in immagini
di  Mario Pappagallo


Flash, il supereroe dei fumetti che ha il potere di muoversi a velocità straordinaria (fino all’invisibilità) sfidando le leggi della fisica, oggi sarebbe fotografabile. Grazie agli scienziati italiani, riusciti per la prima volta a immortalare l’iperveloce reazione chimica alla base della visione umana. Un flash della durata di molto meno di un milionesimo di milionesimo di secondo. È il tempo dei flash fotochimici che consentono l’avvio del meccanismo della visione. Tanti impulsi in sequenza che, «tradotti» dalle vie nervose, sono velocemente letti dal cervello e trasformati in immagini. Questi flash fotochimici sono stati per la prima volta fotografati e fissati in immagini da ricercatori italiani. Il tutto finora era teorico, virtuale, data la velocità con cui il di secondo. È il tempo dei flash fotochimici che consentono l’avvio del meccanismo della visione. Tanti impulsi in sequenza che, «tradotti» dalle vie nervose, sono velocemente letti dal cervello e trasformati in immagini. Questi flash fotochimici sono stati per la prima volta fotografati e fissati in immagini da ricercatori italiani. Il tutto finora era teorico, virtuale, data la velocità con cui il processo avveniva. Ostacolo superato dal genio italico, tra Milano (Politecnico) e Bologna (Università). Alla scoperta hanno partecipato anche l’Università di Berkeley (Usa), l’Università di Oxford (Gran Bretagna) e l’Istituto Max Planck di Mülheim (Germania). Le prospettive che si aprono sono molteplici e importanti, a cominciare dalla retina dell’occhio, le cui patologie sono spesso causa di cecità. Non solo. La fantasia corre verso nuovi tipi di memorie ottiche, verso motori molecolari azionati dalla luce che alimentano nano dispositivi, verso congegni artificiali fotosensibili che riproducono (appunto) il comportamento della retina. Il metodo «fotografico» inventato nei laboratori italiani potrà inoltre essere applicato per lo studio dei meccanismi di fotoprotezione nel Dna. Meccanismi essenziali per la salvaguardia e la trasmissione del codice genetico. Gli impulsi visivi sono uno dei fenomeni più rapidi in natura. Dall’istante in cui un fotone — la particella elementare di cui è fatta la luce visibile — colpisce le cellule della retina dell’occhio (o meglio una determinata molecola-sensore chiamata rodopsina), la prima reazione si conclude in molto meno di un milionesimo di milionesimo di secondo (cioè 0,000000000001 secondi). Solo un’apparecchiatura più veloce poteva immortalarlo. «Siamo stati in grado di realizzare un film in tempo reale di questo processo grazie a una speciale cinepresa che raccoglie i singoli fotogrammi attraverso flash di luce laser ultraveloci (della durata di pochi miliardesimi di milionesimi di secondo)» , spiega Giulio Cerullo del Politecnico di Milano. «Combinando queste informazioni con simulazioni teoriche realizzate con efficienti computer e con complessi programmi di calcolo— aggiunge Marco Garavelli, dell’Università di Bologna —, siamo quindi riusciti a seguire passo passo il velocissimo cambiamento di forma della molecola responsabile della visione umana e a capire il motivo per cui l’occhio è così sensibile» . Insomma, la cinepresa italiana sarebbe riuscita a filmare anche il mitico Flash, il personaggio creato da Gardner Fox e Harry Lampert nel 1940. L’esperimento ha anche fornito la prova dell’esistenza di un fenomeno conosciuto come «intersezioni coniche» . «I buchi neri sono delle singolarità dello spazio. Le intersezioni coniche possono essere viste come "buchi neri della chimica": singolarità che mettono in collegamento stati elettronici diversi della materia» , raccontano Garavelli e Cerullo. «Fino ad oggi queste regioni erano state previste solo teoricamente, eludendo ogni tentativo di osservazione diretta. In questa ricerca per la prima volta questi "buchi neri"sono stati osservati sperimentalmente, dimostrando la fondatezza delle previsioni teoriche. Si tratta di punti che, come in una sorta di "buco nero", catturano le molecole, accelerandone incredibilmente la reazione chimica e rendendola estremamente efficiente. Questa è, in fondo, la ragione dell’elevatissima sensibilità dell’occhio umano» .

l’Unità 14.12.10
Intervengono in aula i leader democratici, da D’Alema a Veltroni, da Bindi a Letta a Fassino
L’ex segretario del Pd cita De Gasperi: il premier rischia di gettare il paese nella sovversione
Bersani: «Il governo è finito Non si va avanti rubando voti»
Il Pd affronta compatto la prova della sfiducia. In aula parlano i big. D’Alema: «Berlusconi non è più il proprietario del centrodestra». Riunione dei parlamentari: niente assenze al momento del voto.
di Simone Collini


Berlusconi vuole la fiducia per andare a nuove elezioni. I parlamentari del Pd lo dicono ai colleghi del gruppo misto che incrociano nei corridoi di Montecitorio, a quelli che hanno cambiato casacca nelle ultime ore e che ora si dicono scettici o contrari alla mozione di sfiducia. E poi lo dicono apertamente anche nell’Aula della Camera, via via che nel corso della giornata si fa chiaro che da oggi, bene che gli vada, il premier potrà contare su una maggioranza troppo risicata per continuare a governare.
Bersani riunisce i vertici del partito la mattina e la raccomandazione è una sola: per 48 tutti concentrati sull’obiettivo di mandarlo a casa, ora niente distinguo sul dopo e soprattutto niente assenze al momento del voto. Anche la decisione di convocare una riunione del gruppo dei deputati per la sera serve a garantire la presenza a Roma di tutti con largo anticipo. I dirigenti del Pd assicurano che oggi non ci saranno assenze tra i loro 206 deputati, ma sono anche coscienti che le variabili sono troppe negli altri gruppi e che nella notte potrà succedere di tutto. Ma si lasciano anche con la convinzione che, in ogni caso, questo governo non reggerà. E che se pure oggi passasse potrebbe andar sotto già domani, quando si voterà il decreto sull’emergenza rifiuti in Campania.
BERLUSCONI IRRESPONSABILE
«È sempre più evidente che l’interesse del paese sarebbe formalizzare la crisi e dare vita a un governo di responsabilità istituzionale», dice Bersani conversando poi con i giornalisti, «solo l’irresponsabilità e un ego smisurato possono portare Berlusconi a non prenderne atto». Il leader del Pd, dopo aver affidato gli interventi di ieri a Bindi, Letta, D’Alema, Veltroni e Fassino (e al Radicale Turco), interverrà oggi per la dichiarazione di voto del suo partito (Franceschini prende la parola per chiedere come mai Berlusconi non sia in Aula a dibattito iniziato: «Vorrei sapere se sta utilizzando anche questi minuti per convincere qualche parlamentare indeciso»). Nel discorso di Berlusconi il leader del Pd non vede «niente di nuovo»: «Un po’ di bastone e un po’ di carota, neanche un barlume di consapevolezza dei problemi del paese. Forse continua a pesare più la compravendita che la sua retorica». Ma se questo è il quadro «la sequenza logica» è che il premier voglia la fiducia per poi andare a elezioni. «Non può pensare di governare rubacchiando un voto». Insomma se oggi Berlusconi dovesse evitare la sfiducia, «siamo daccapo, con in più Fli che è all’opposizione». E con Fini, assicura Bersani, «ci sarà lo spazio per una strategia d’opposizione comune». Se poi questo «governo precario» e questo «tramonto di Berlusconi» dovesse portare alle urne, dice in serata, il Pd non avrà paura delle elezioni «perché dopo 16 anni questo paese non ne più».
Per il Pd la via d’uscita da questa crisi rimane comunque un governo «di responsabilità nazionale» che approvi una nuova legge elettorale e affronti le emergenze economiche. D’Alema, che nel corso della giornata parla con Casini e anche l’ex-Idv Scilipoti, interviene in Aula dicendo a Berlusconi che se fosse uno statista si farebbe da parte nell’interesse del Paese: «Lei non è il leader del centrodestra, ne è stato a lungo il proprietario, credo ormai non lo sia più. Questa è la novità che gli italiani hanno di fronte». Anche Veltroni parla di un premier finito «in un vicolo cieco», da cui potrebbe uscire «solo con un atto di responsabilità, che non mi sembra in grado di compiere». L’ex segretario del Pd cita l’ultimo discorso in Parlamento di De Gasperi (a cui Berlusconi più volte si è richiamato), nel quale diceva che se un politico guarda ai suoi interessi personali e non a quelli del Paese getta la democrazia «nel mare agitato della sovversione». Bindi dice senza giri di parole che «chi vota la fiducia vota per le elezioni anticipate» e Letta dopo aver detto che il governo «si è ridotto a mendicare con mezzi che non fanno onore alle nostre istituzioni una fiducia minima», chiude il suo intervento citando la canzone di Bennato “Venderò”: «Ogni cosa ha il suo prezzo ma nessuno saprà quanto costa la mia libertà». Citazione che piace ai deputati di Futuro e libertà, meno a quelli che hanno cambiato casacca.

Repubblica 14.12.10
Bersani: il Pd pronto a lavorare con Fli
"E il voto non ci fa paura". Casini accusa: "Girati quattrini per far cambiare idea"
Il segretario dei democratici detta la strategia nel caso il governo ottenesse la fiducia
D´Alema evoca la Germania: "Lì le forze politiche sono capaci di trovare convergenze"
di Giovanna Casadio


ROMA Le urla dai banchi democratici a Berlusconi («Questa l´abbiamo già sentita») e Fini annuisce. L´intesa con Fli insomma c´è e, dice Bersani, soprattutto ci sarà: «Nel denegato caso, come dicono gli avvocati, in cui non passi la sfiducia, è evidente che da qui a un mese siamo daccapo, con in più Fli che è all´opposizione. Per carità, saranno due opposizioni diverse, ma ci sarà uno spazio per una strategia d´opposizione comune».
Giornata di riunioni ieri anche per l´opposizione alla Camera. Pier Ferdinando Casini, leader Udc, convoca i suoi nel pomeriggio e poi, in tv, attacca sul mercato dei voti: «Sono girati quattrini, si può anche cambiare idea ma non possono girare soldi». Il Pd si riunisce di mattina in un "caminetto" dei big e a sera tiene l´assemblea del gruppo, che serve per un "serrate le file" e per l´ultima chiamata di Dario Franceschini ai parlamentari: «Vincerà la sfiducia». Bersani accusa: «Il premier è un irresponsabile, l´interesse del paese sarebbe formalizzare la crisi, solo un ego smisurato può portare Berlusconi a non prenderne atto per dare vita a un governo di responsabilità istituzionale». È il leit-motiv dei Democratici, preoccupati dalle elezioni che aprirebbero una partita «pericolosa» per il paese e molto difficile per il partito, alle prese con la scelta delle alleanze e con i malumori interni. In aula intervengono ben cinque big democratici (Letta, D´Alema, Fassino, Veltroni, Bindi); Fioroni è critico: «Vuol dire che siamo sicuri di vincere se ci mettiamo tante facce e quasi tutte di ex segretari Ds... «. D´Alema incalza: «Lei è stato a lungo il proprietario del centrodestra, ora non lo è più». E se si andrà al voto, aggiunge, «se sfida ci sarà, noi non ne abbiamo paura; lei non è invincibile e le elezioni le ha già perse due volte». Però la strada migliore è un´altra, quella tedesca della Grosse Koalition, perché «le forze politiche in certi momenti sono capaci di trovare convergenze». Insomma ci vorrebbero le dimissioni del premier che portino a «un nuovo governo di centrodestra o a un governo di responsabilità nazionale». Anche Veltroni (con il quale D´Alema si complimenta) rilancia, rivolto a Berlusconi: «Lei è in un vicolo cieco e ne potrebbe uscire solo con un atto di responsabilità che non è in grado di compiere». Lo spauracchio delle urne tiene banco. Proprio se Berlusconi oggi dovesse vincere sono più vicine. Gli ex popolari di Modem si vedono a cena (oggi si riuniranno tutti i "75" con Veltroni e Gentiloni;) Bersani invece è alla cena del Pd Lazio con gli imprenditori: «In ogni caso questo governo finisce, non può garantire più stabilità al paese. Le elezioni non ci fanno paura. Noi dovremo rimediare ai suoi danni». Bindi: «Chi vota la fiducia, sceglie le elezioni anticipate». Il Pd pensa di esserci al completo: Marco Fedi, malato, è venuto dall´Australia per votare. Al Senato, Emma Bonino, la leader radicale dice al premier: «Guardare oltre il voto, perché se pure lei ottiene la fiducia lo scenario sarà ancora peggiore di quello vissuto finora».

l’Unità 14.12.10
DaI Colosseo a piazza Venezia, Botteghe Oscure, Corso Vittorio, Lungotevere, piazza del Popolo
La Questura «La gestione dell’ordine pubblico sarà flessibile e modulata caso per caso»
La città proibita della politica sotto l’assedio dei movimenti
Grande corteo «gioioso e pacifico» con i book-block, i libri scudo di gommapiuma. Ma non sono escluse azioni per far sentire la voce di chi protesta «nei palazzi del potere». La Questura: «Scenario complesso».
di Jolanda Bufalini


I titoli dei libri scudo sono stati scelti con un sondaggio on line organizzato dagli studenti di uniriot: il più votato è stato «Volontà di sapere» di Foucault, al secondo posto c’è «1984» di George Orwell e al terzo «Il cavaliere inesistente» di Italo Calvino ma c’è anche «Fahreneheit 451», «La tempesta» di Shakespeare, Q Luther Blisset, «Shock Economy» di Klein, «I Demoni» di Dostoevskij. Più di 5000 i votanti di cui il 30 per cento da Nanterre-Parigi. L’idea ha fatto strada, anche gli studenti cinesi chiedono istruzioni su come costruirli: gommapiuma e plastica, «L’attacco alla cultura è il nostro futuro negato», dice Francesca, studentessa di lettere alla Sapienza di Roma e «i Bookblock sono un simbolo immdiatamente riconoscibile delle nostre ragioni».
SCENARIO COMPLESSO
Scenario «complesso» dicono alla Questura, «assedio» è la parola che passa di bocca in bocca, di movimento in movimento: «assedio sonoro», «assedio ai palazzi del potere», «assedio a Montecitorio». Un popolo variegato si è dato appuntamento in tre piazze di Roma, movimenti territoriali, «uniti contro la crisi», studenti universitari, studenti medi, ricercatori, Fiom, che ha aderito agli appelli della rete antirazzista, di «uniti contro la crisi» e degli studenti. E poi: «tutti a casa» (il movimento dei lavoratori dello spettacolo che invase il Red Carpet alla festa del cinema di Roma) mentre la Flc-Cgil ha indetto un’ora di sciopero, popolo viola e aquilani terremotati (con lo striscione “macerie di democrazia”, i caschetti gialli e le bandiere verde-nere della città), i comitati anti-discarica di Terzigno, Chiaiano e tutti movimenti sorti in difesa dei beni comuni. I pullman dal resto d’Italia sono cominciati ad arrivare già ieri sera: Napoli, Pisa, Bergamo, Nord-Est, Pomigliano d’Arco, Fincantieri di Marghera e di Ancona. Gli universitari romani partiranno da piazzale Aldo Moro (Sapienza) e dall’Ostiense (Roma3), gli studenti medi si raccoglieranno nelle rispettive zone per raggiungere piazza Esedra, tutti i cortei confluiranno al Colosseo dove c’è l’appuntamento dei movimenti territoriali alle 10 e 30. La previsione è di almeno 50.000 persone che, a quel punto, muoveranno verso piazza Venezia.
L’incognita è lì. Per la Questura «non c’è una zona rossa predefinita e ci prepariamo a gestire le situazioni all’impronta, eventuali chiusure saranno decise per motivi di sicurezza e di ordine pubblico in modo flessibile, valutando volta per volta». Millecinquecento gli uomini delle forze dell’ordine mobilitati. Non la chiamano «zona rossa» però le autorizzazioni per piazza Montecitorio sono state negate, sarà «garantito il diritto di manifestare a chi ha «preannunciato o è stato autorizzato», aggiunge la Questura, però la zona intorno al Parlamento era già isolata ieri sera.
CONFLITTO E CONSENSO
Per gli studenti e i movimenti, però, è importante far sentire la propria voce «per la sfiducia dal basso» e quindi arrivare quanto più vicino alle sedi del dibattito parlamentare. Conflitto e consenso i termini da combinare. «Gli studenti hanno saputo suscitare un conflitto intelligente capace di conquistare consensi molto al di là della sinistra», dice un veterano dei movimenti romani come Andrea Alzetta (Tarzan). «Non siamo preoccupati» spiega Francesca, la studentessa di lettere, «noi abbiamo le nostre pratiche pacifiche e comunicative, gioiose. Certo il 30 novembre il centro storico barricato è stato un sintomo della debolezza del governo e della politica, ciò che è consentito negli altri paesi europei, da noi non è stato permesso». E allora? «Tutto dipende dalla gestione della piazza». Conflitto e consenso, «rabbia come quella espressa dagli studenti inglesi». Il corteo da piazza Venezia imboccherà Botteghe Oscure, corso Vittorio Emanuele e poi il Lungotevere. Raggiungerà piazza del Popolo dove si terrà una «grande assemblea popolare». Ma non sono escluse altre azioni per far sentire le voci della protesta nei palazzi dove si discute la fiducia e dove potrebbe essere calendarizzato, se l’esito sarà favorevole a Berlusconi, il Ddl Gelmini sull’università. E c’è a chi sono piaciuti i lanci di uova contro le sedi Cisl, «Meglio un uovo oggi che la cancellazione dei diritti domani», recitava una scritta trovata in una delle sedi contestate.
Mobilitazioni cittadine e regionali del movimento degli studenti e dei ricercatori anche nel resto d’Italia. Continuano le occupazioni sui tetti e ci saranno (sostenute anche da Flc-Cgil) le occupazioni simboliche dei rettorati. La Rete 29 aprile fa sapere che, se la legge Gelmini sarà approvata, l’indisponibilità dei ricercatori alla docenza sarà rinnovata anche nel secondo semestre.

l’Unità 14.12.10
«Portiamo in piazza l’indignazione di una generazione»
«Grideremo “noi non siamo sfiduciati” mentre in Parlamento si deciderà il futuro di questo governo: per cambiare l’Italia pochi voti non bastano. Serve ricostruire un senso comune»
di Roberto Iovino


Nel buio della democrazia italiana uno spiraglio di luce c’è. Oggi da nord a sud, a prescindere dall’esito del voto di fiducia, le piazze del nostro paese saranno piene di studenti e studentesse, e questo rappresenta un fatto politico nuovo. Come nuova è l’idea di partecipazione popolare che abbiamo praticato lungo tutto l’arco di questo autunno, non solo manifestazioni “contro” ma una riappropriazione reale della politica, parola troppo spesso associata alla compravendita di parlamentari e a scandali sessuali.
In Italia c’è un fatto nuovo, gli studenti e le studentesse hanno suonato la sveglia ad un paese da anni atrofizzato dal berlusconismo come dottrina del controllo e del consenso. Abbiamo posto sul piatto l’indignazione di un’intera generazione, decisa a costruire un’alternativa alla fuga, a denunciare lo sfruttamento esistenziale a cui ci condanna la precarietà, a urlare a squarciagola il vuoto di senso in cui versano scuola e università.
Non siamo solo noi i “senza futuro” ma rischia di esserlo l’intero sistema/paese. E allora perché scendere in piazza proprio nel giorno in cui si deciderà il futuro politico del nostro paese? Perché noi non abbia-
mo nessuna intenzione di essere spettatori, in un verso come nell’altro. Il berlusconismo non finisce con Berlusconi e noi pensiamo di avere gli anticorpi giusti, pensiamo di poter costituire un pezzo fondamentale del rinnovamento culturale di un paese che annega nel degrado. Pensiamo che costruire un’alternativa sia possibile solo tramite la contaminazione della carica positiva che abbiamo portato nelle piazze, nelle scuole e nelle università.
Per questo oggi saremo in piazza al grido di «noi non siamo sfiduciati», perché se in parlamento tutto si giocherà per pochi voti, per cambiare l’Italia i voti non bastano, serve invece ricostruire un senso comune che noi sentiamo di condividere. La nostra, quindi, è una battaglia rivolta a tutto il paese e in questo momento siamo convinti di essere in vantaggio, di poter vincere.
Se la fiducia a Berlusconi dovesse venire meno sarà anche merito nostro, come merito nostro sarà ricostruire l’Italia dalle macerie in cui versa. Abbiamo deciso di uscire fuori a riveder le stelle, convinti che tutto il paese debba uscire con noi a rivedere questo meraviglioso spettacolo.

il Fatto 14.12.10
Il Quarto Stato marcia su Roma
Mentre continuano i giochi di palazzo i cittadini assediano la piazza:
«Ora basta»
di Caterina Perniconi


Oggi il Quarto Stato marcerà su Roma. Mentre in Parlamento Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini misureranno deputati e distanze al centimetro, i cittadini scenderanno in piazza. Gli stessi che il premier ha invocato nel suo discorso come “sovrani”, arriveranno nella Capitale per sfiduciarlo “dal basso”.
Non solo studenti, quindi, in corteo verso Montecitorio, ma anche tutti quelli che negli ultimi due anni e mezzo hanno pagato un prezzo troppo alto per la gestione del paese portata avanti dal governo Berlusconi. Ci saranno rappresentative dei terremotati de L’Aquila, delegazioni dalla Campania con i sacchetti d’immondizia al seguito, gli operai di Pomigliano d’Arco, gli immigrati asserragliati sulla gru a Brescia, precari da tutta Italia e studenti mobilitati contro la riforma Gelmini dell’Università.
PER L’OCCASIONE la città sarà inevitabilmente bloccata e blindata con un piano straordinario senza precedenti: più di duemila uomini circonderanno il centro di Roma, con una “zona rossa” che la Questura definisce “flessibile” a seconda delle necessità e “dell’atteggiamento dei manifestanti”, che si prevede siano più di centomila. Di certo, nel-l’unica occasione in cui il nostro paese si è trovato a dover fronteggiare una situazione di tensione simile, con una “zona rossa” così ampia, non è stato all’altezza. E il G8 di Genova è ancora una ferita aperta.
Il blocco vuole impedire ai manifestanti di raggiungere i Palazzi del potere. Ai parlamentari è stato chiesto di affrettarsi nel raggiungere il Senato e la Camera per non incontrare i contestatori. I cortei saranno molteplici: l’appuntamento è per gli studenti “medi” alle 9:30 in piazza della Repubblica , per gli universitari alla stessa ora in piazzale Aldo Moro, di fronte all’ingresso de La Sapienza, mentre la società civile si raccoglierà al Colosseo alle 10:30, guidata dal Popolo Viola.
“Sono in arrivo 60 pullman da tutta Italia – spiega Claudio Riccio, del coordinamento universitario Link – sarà una manifestazione importante, non legata solo ai temi studenteschi, ma a quelli del futuro del paese”. In piazza scenderanno anche i ricercatori della Rete 29 aprile che hanno protestato sul tetto nelle ultime settimane.
“Cercheremo di avvicinarci quanto più possibile al centro – ha detto Stefano Vitale, dell’Unione degli studenti – perché vogliamo portare i nostri regali al governo, pacchi pieni di soldi fasulli, come le loro promesse”.
LE PROTESTE non si svolgeranno solo a Roma. Sit-in e flash mob caratterizzeranno tutte le più importanti piazze italiane. Atteso a Milano un corteo di studenti e di precari che partirà alle 9:30 da largo Cairoli. A Torino l’appuntamento è alle 9 a piazza Arbarello. Alla stessa ora concentramenti anche a Napoli e Palermo. Per dire “basta” all’era berlusconiana.

il Fatto 14.12.10
Costituzione e “segretezza”


“Le sedute sono pubbliche: tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta”. Nell’articolo 64 della Costituzione, al comma 2, esiste effettivamente l’opzione della “seduta segreta”, ma la possibilità “eccezionale”, ricorda il sentatore Pd e costituzionalista Stefano Ceccanti, “di una seduta segreta fu inserita su particolare sollecitazione del democristiano Giovanni Uberti motivandola sulla base di un precedente relativo alla prima guerra mondiale per affrontare questioni di politica estera che non potevano essere trattate in pubblico”. Il 20 settembre del 1946, il padre costituente Uberti, che sarà anche sindaco di Verona all’inizio degli anni ‘50, ritenne che si dovesse tenere aperta questa opzione proprio ricordando la specificità di alcune decisioni di politica estera. “Con tutta evidenza chiosa Ceccanti essa non è in alcun modo utilizzabile per una seduta relativa a voti di fiducia e sfiducia per i quali la Costituzione (art. 94, comma 2) prevede l’appello nominale, collegata indissolubilmente alla pubblicità della scelta”.

l’Unità 14.12.10
L’atroce destino dei minori migranti cacciati come gli adulti


Il Comitato per i minori stranieri non accompagnati (organo istituito presso il ministero del Lavoro) ha calcolato che dal 2000 al 2009 il dato che ne quantifica la presenza oscilla tra le 7/8 mila unità. Si tratta di un dato approssimativo in quanto non tutti gli arrivi vengono registrati, a causa delle reti criminali che li gestiscono, e anche quando la registrazione avviene è forte il rischio di una fuga successiva. Infatti, l’Italia non è considerata generalmente la meta finale ma una via di transito verso altri paesi come la Svezia o la Norvegia. Le modalità di arrivo sono quelle, via mare e via terra, riportate dalla cronaca: viaggi estenuanti a bordo di barconi affollati oppure – ed è ancor peggio, se possibile – precariamente appesi al fondo di un tir o nascosti all’interno del suo carico. L’ultima notizia del genere è di qualche giorno fa: undici ragazzi afghani tra i 13 e i 17 anni scaricati da un camion sull’Autostrada del Sole, sono stati intercettati dai carabinieri a San Cesario e affidati a una struttura di prima accoglienza. Il fatto è in linea con quanto avviene solitamente: l’età dei minori arrivati, la provenienza (si tratta infatti di paesi in stato di guerra o di guerra civile), la modalità di arrivo e la successiva sistemazione. Al momento dell’arrivo si provvede ad affidare la persona a una comunità o a una famiglia, garantendo un titolo di soggiorno (per minore) valido fino alla maggiore età. E poi? Se non c’è un lavoro o un percorso di studio avviato con una regolare documentazione, interviene la legge italiana in materia di immigrazione che, oltre a non essere comprensiva nei confronti di chi è irregolare, non predispone adeguate politiche di accompagnamento.

l’Unità 14.12.10
L’esposto presentato dall’associazione Telefono Viola alla procura
Il nosocomio smentisce e annuncia una indagine interna
Abusi nei reparti di psichiatria del Niguarda: 5 decessi sospetti
La denuncia in procura dell’associazione Telefono Viola: morti e abusi nei reparti psichiatrici dell’ospedale Niguarda. La direzione sanitaria respinge le accuse. Il Pd con Marino chiede un’istruttoria ai carabinieri.
di Giuseppe Vespo


Pazienti legati ai letti per giorni, violenze e lesioni, morti per maltrattamenti: le corsie dei tre reparti di psichiatria dell’ospedale Niguarda, uno dei più grandi di Milano, sono un inferno per chi viene ricoverato. Almeno così vengono descritte nell’esposto presentato ieri dall’associazione Telefono Viola con l’avvocato Mirco Mazzali alla procura del capoluogo lombardo. Secondo la denuncia, in cui si ipotizzano reati che vanno dall’omicidio alle lesioni, tra il 2005 e il 2010 cinque persone sarebbero morte a seguito degli abusi del personale medico, mentre altre cinque avrebbero subito forti lesioni.
Casi come quello del signor Filippo S., in gergo (non molto elegante) definito un «residuo manicomiale»,
ricoverato in un reparto di psichiatria del Niguarda il 10 marzo scorso e morto sette giorni dopo. Secondo quanto ricostruito nell’esposto, intontito dai neurolettici il paziente sarebbe stato abbandonato a se stesso durante il pranzo e il cibo l’avrebbe soffocato. Medici e infermieri, dicono quelli del Telefono Viola, avrebbero dovuto sapere che intense terapie di neurolettici (detti anche neuroparalizzanti) possono sviluppare disfagia iatrogena, quindi soffocamento. Filippo S. non sarebbe stato l’unico a morire in questo modo: la stessa sorte sarebbe toccata ad un’altra paziente, la signora Maria Graziella B., morta a 71 anni il 13 gennaio.
La signora Rita F., invece, viene ricoverata in una delle tre strutture psichiatriche del Niguarda il 2 marzo 2006. Entra in ospedale con le sue gambe, ma secondo quanto denunciato, ne esce sulla sedia a rotelle. Ad impedirle di camminare sarebbero state le piaghe da decubito provocate dalla lunga «contenzione», ovvero dalla pratica (non vietata dalla legge) di legare i pazienti a letto. Rita, che si sarebbe mostrata reticente alla cura del medico, sarebbe stata legata per troppo tempo, tanto da causarle oltre alle piaghe anche infezioni alle vie urinarie, trombosi venosa e tromboembolia polmonare. La «contenzione» al Niguarda, dice Giorgio Pompa del Telefono Viola, è praticata ai limiti della «tortura». Prova ne sarebbe la testimonianza della signora Marinella S., una paziente che secondo la denuncia sarebbe stata legata al letto per 438 ore consecutive, cioè 18 giorni e sei ore. Un tempo, si legge nel documento presentato ai magistrati, «pari a trentasei volte la durata massima della contenzione consigliata dai protocolli». E ancora: «Al Grossoni 2 (uno dei tre reparti di psichiatria, ndr) sono riportate le centinaia di firme del controllo della lunghissima contenzione». Al Niguarda sarebbe poi «avallato» anche «lo spallaccio»: pratica che consiste fissare il paziente «supino con un lenzuolo arrotolato che ferma le spalle al piano del letto». L’ospedale respinge le accuse sulle violenze e annuncia l’apertura di un’indagine interna da parte della direzione sanitaria e del dipartimento di salute mentale. Mentre il senatore Pd Ignazio Marino, già impegnato su questo fronte con la Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario, ha chiesto ai carabinieri un’istruttoria su quanto denunciato.

l’Unità 14.12.10
La denuncia di padre Zerai: «Sappiamo chi è il sequestratore, si chiama Abu Khaled»
Tra i 250 prigionieri nel Sinai ci sono almeno 80 profughi scappati dai lager libici
«Gli eritrei prigionieri a Rafah L’Italia sa tutto, deve salvarli»
Padre Zerai ha fatto il nome del capo della banda. Ha indicato la città dove sono tenuti in ostaggio. Lo ha detto a funzionari della Farnesina. Ma il governo egiziano continua a negare l’esistenza dei 250 ostaggi eritrei.
di Umberto DE Giovannangeli


Il suo nome è Abu Khaled. È lui il capo della banda di predoni che da oltre un mese tiene in ostaggio 250 eritrei, somali, uccidendoli uno dopo l'altro se non pagano 8mila dollari a testa. La città-prigione è nota alle cronache (di guerra) internazionali: Rafah, tra Egitto e la Striscia di Gaza. «Ho fatto nomi e località a funzionari della Farnesina che a loro volta mi hanno assicurato di averli trasmessi all'Ambasciata italiana al Cairo...Ma le autorità egiziane continuano a sostenere di non saperne nulla, per loro quelle persone sembrano non esistere..», dice a l'Unità don Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente di Hadashia, l'Ong che si occupa dell'inserimento dei migranti africani in Italia».
TRAGEDIA INFINITA
La mattanza continua. Nell'inerzia del Governo egiziano. E nell'immobilismo della Comunità internazionale. Sono almeno 8 gli ostaggi finora uccisi. Gli ultimi erano due «diaconi»: «Li chiamavano così spiega don Zerai perché erano gli animatori del gruppo, coloro che organizzavano le preghiere collettive, leggevano la Bibbia...Li hanno prima picchiati selvaggiamente e poi li hanno uccisi». L'ultimo contatto telefonico risale a sabato pomeriggio: «Su molte persone riferisce il prelato – grava anche la minaccia dell'espianto di organi per pagare il loro riscatto». «Altri ostaggi aggiunge sono in fin di vita dopo essere stati picchiati selvaggiamente sabato pomeriggio, mentre da qualche giorno viene negata loro l'acqua da bere e vengono costretti a bere la loro urina». Quello che sta accadendo è una barbarie», sottolinea il sacerdote chiedendo ancora una volta che «la comunità internazionale condanni tutto ciò e richiami il Governo egiziano ad intervenire con decisione per sottrarre queste vite umane dalle mani dei trafficanti e il loro complici in quella regione del Sinai». «Non si possono più aspettare i tempi della diplomazia insiste il missionario eritreo perché la gente sta morendo a causa della fame e della sete quando non è massacrata di botte. Al Governo italiano torno a chiedere, a implorare un suo intervento sul Governo egiziano perché intervenga con decisione per sottrarre queste vite umane dalle mani insanguinate dei trafficanti e dei loro complici nel Sinai». Don Zerai non lo dice, ma fonti bene informate rivelano a l’Unità che i predoni godono di protezione tra la polizia di Rafah.
ROMA COLPEVOLE
Dal Cairo, il ministro degli Esteri egiziano Ahmed Abul Gheit si è detto nuovamente «sorpreso» delle affermazioni «europee» circa questo gruppo di eritrei che si presume sia tenuto in ostaggio in Sinai e su cui il dicastero dell'Interno «non ha alcuna informazione». Dal punto di vista egiziano è certo solo che un gruppo di eritrei ha tentato di arrivare in Italia e che, dopo essere stato fermato, ed è stato rimandato in Libia; almeno 83 di loro si sono infiltrati in Egitto ed hanno cercato di attraversare il canale di Suez, senza però riuscirvi. Nell’affermarlo, Abul Gheit ha aggiunto che ci sono tentativi per fare entrare clandestinamente immigrati nel Sinai per arrivare in Israele, ma che il Governo egiziano fa del suo meglio per prevenire questo fenomeno.
I REDUCI DA BRAK
Secondo la ricostruzione di padre Zerai molti di quegli 80 suoi connazionali sarebbero stati respinti dall’Italia (dove avrebbero avuto diritto di asilo) in Libia nel 2009, quindi rinchiusi nel carcere di Al Brak. Dopo qualche mese gli 80 escono a seguito di una amnistia. Si disperdono nel deserto, non potendo tornare in Eritrea dove verrebbero incarcerati nuovamente e molto probabilmente giustiziati. Sono intrappolati: l’Italia li ha respinti, la Libia se ne è lavata le mani. Riescono a mettersi in contatto con un gruppo di trafficanti che promettono, per 2.000 dollari a testa, di farli arrivare nel Sinai e di lì in Israele. Il destino di questo gruppo di eritrei è comune a decine di altri immigrati provenienti da vari Paesi africani che tentano di raggiungere Israele risalendo l'Africa, attraversando il Mar Rosso e tentando di risalire il Sinai fino ad arrivare alla frontiera. Proprio per arginare questo fenomeno Israele ha cominciato, il 22 novembre scorso, a costruire una barriera anti immigrati clandestini lunga 240 chilometri per rendere la sua frontiera con l'Egitto impermeabile a uomini, ma anche a traffici di altro genere. Secondo stime della stampa israeliana, dall'inizio del 2010 sono entrate illegalmente nel Paese 12mila persone e il numero mensile di ingressi è in aumento costante. Trasportati su camion cisterna o per il bestiame, gli immigrati arrivano nel Sinai e devono pagare 1.000 dollari ai trafficanti, spesso armati, che percorrendo i sentieri montagnosi del Sinai li avvicinano al confine con Israele. Spesso vengono presi in ostaggio. E se non pagano altre migliaia di dollari, uccisi.

il Fatto 14.12.10
La verità sugli immigrati
di Ignazio Marino


Per lavorare da immigrato avevo fatto anche io il mio test di lingua inglese. Nonostante questo la centralinista dell’ospedale mi riconosceva sempre prima che finissi di dire “good morning” per il mio forte accento straniero. Sono arrivato in America a metà degli anni Ottanta e, come tanti, sono rimasto con un visto a studiare, ma anche a lavorare come chirurgo. La mia situazione non era stabile e annualmente dovevo rinnovare i documenti e farmi riprendere le impronte digitali. La cittadinanza americana è arrivata dopo diversi anni. Ma questo non mi impedì di divenire il direttore del Centro Trapianti del Veterans Affairs Medical Center, l’unico dipartimento per trapianti di fegato appartenente al governo degli Stati Uniti.
In Italia potrebbe accadere? Permetteremmo, per esempio, a un marocchino di 37 anni di dirigere l'Agenzia Spaziale Italiana oppure il Consiglio Nazionale delle Ricerche?
L’invasione straniera
MI SEMBRA che la politica di questi tempi, anche a livello locale, sia molto impegnata nel rassicurare chi è preoccupato per una "invasione straniera" incapace di integrarsi: è una cultura che si nutre di provvedimenti simbolici e di ipertrofia burocratica, di affermazioni e scandalose campagne xenofobe, come il sapone anti-immigrati distribuito qualche mese fa dalla Lega Nord nell'aretino; oppure del principio che lega il diritto di voto esclusivamente alla cittadinanza e non, ad esempio, alla contribuzione fiscale.
I diritti, tuttavia, dovrebbero accompagnare le regole perlasicurezza:ildirittoalle cure, allo studio, al lavoro, ad avere un tetto sulla testa. Il rispetto della dignità personale dovrebbe essere al centro delle decisioni, come ha chiesto Mohammed Fikri, il ragazzo marocchino accusato per errore della scomparsa di Yara Gambirasio.
Contraddizioni leghiste
COME MAI la Lega non ha alcun problema a concedere spazio ai cittadini extracomunitari quando si tratta di accudire i nostri anziani, pulire le nostre case, mandare avanti le fabbriche, raccogliere pomodori? Per la Lega è importante che siano invisibili e muti, resi incerti da una legge (la Bossi-Fini) che ha dimostrato di non funzionare e ha creato maggiore clandestinità. Il nostro dovere, invece, è di rendere più semplice la regolarizzazione per chi lavora e rispetta le leggi: barriere burocratiche insormontabili e incomprensibili fanno solo proliferare l'illegalità.
Sfatiamo qualche luogo comune. Non è vero che "vengono tutti qui": da noi gli immigrati rappresentano il 6% della popolazione, contro il 12 dell'Irlanda, l'11 della Spagna il 10 dell'Austria e l'8 della Germania. Non è vero che "nei loro paesi non ci fanno costruire le chiese": in Marocco, ad esempio, i cattolici sono circa 27 mila (su una popolazione di 34 milioni di persone) e hanno 3 cattedrali e 78 chiese. Non è vero, inoltre, che "vengono qui e ci rubano il posto, lavorando in nero": semmai contribuiscono a pagare le nostre pensioni, visto che il 92% degli immigrati con permesso di soggiorno sono iscritti all'Inps . Di più, contribuiscono alla produzione del Pil per l'11%, secondo i dati della Caritas.
Un bimbo afghano
RAMLAH è un bambino afghano di 9 anni, giunto in Italia 3 anni fa, perché la sua mamma ha pagato mani estranee affinché lo portasserovia.Nelcongedarsi,con le lacrime che le rigavano il volto, gli disse: “Figlio mio, voglio che tu cresca in un paese dove non rischierai di saltare su una mina, dove se ti ammalerai potrai essere curato e dove potrai studiare”. E Ramlah studia e parla bene l’italiano. L’immigrazione assieme alla tutela dell’ambiente sono le sfide della nostra epoca. Dobbiamo affrontarle con razionalità, rigore, intelligenza, e non diffondendo paura e odio. Ecco la verità. Alla luce di ciò, a mio avviso, gli unici che dovrebbero prendere "cammelli e barchette" e andare a casa (per citare un celebre adagio anti-immigrati) sono la Lega e il Partito dell'Amore.

il Fatto 14.12.10
Se lo Stato cede alla Chiesa
di Ferruccio Sansa


Disarmati. Impotenti. Così si sentono oggi tanti cattolici italiani di fronte all’ennesima improvvida ingerenza politica del cardinale Bertone. Ma che cosa può fare un cattolico per manifestare la propria profondissima disapprovazione verso gli uomini che rappresentano la sua Chiesa (e più in profondità perfino la sua fede)? Si parlava una volta di cattolicesimo del dissenso. Ma quando i motivi di distacco prevalgono su quelli di unione allora bisogna affrontare questioni più profonde. Mettere in discussione perfino un’appartenenza che ti porti dentro da bambino, che è una delle ragioni fondanti della tua persona. Già, pensi per un attimo a un gesto di protesta personale, ad abbandonare la messa. Ma capisci che non avrebbe senso: chi se ne accorgerebbe, chi ne sarebbe turbato, a parte te che ti priveresti di un colloquio di cui hai bisogno? Nessuno.
E POI PERCHÉ punire quei poveri sacerdoti già lasciati soli in chiese vuote, uomini che – tra l’altro – spesso si trovano altrettanto spaesati di fronte a una Chiesa cui hanno dedicato la vita e di cui non capiscono più le decisioni? Ma allora, che cosa... allontanarsi definitivamente da questa Chiesa? No, non bisogna lasciarla a loro, perché non è soltanto di Ratzinger e di Bertone, non più di quanto sia nostra, come insegna San Paolo: ognuno è un membro dello stesso corpo, nessuno più importante dell’altro.
Lo smarrimento – di fronte alle immagini di Bertone e Berlusconi sorridenti, oppure ai resoconti delle incredibili cene a casa Vespa – può arrivare perfino a far vacillare la stessa fede già messa a dura prova dal dolore che spesso sembra prevalere in questo mondo. Ma qui non stiamo parlando nemmeno più della stretta attualità. Ormai tanti cattolici e cittadini italiani hanno rinunciato a sperare che questa Chiesa riesca ad afferrare il significato della parola laicità. Tornano in mente le cristalline parole del cardinal Mar-tini: “Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità”. I cattolici sono rassegnati di fronte alla perversa commistione tra gerarchie ecclesiastiche e potere, di cui la cronaca offre quotidiani esempi: dalla strenua difesa di Antonio Fazio, ai conti opachi dello Ior, fino all’appoggio a Berlusconi per mendicare due soldi per le scuole private. Sono allibiti di fronte al sostegno che la Chiesa concede a uno schieramento che lancia ogni giorno messaggi intrisi di razzismo e immoralità.
IL PUNTO è un altro. Avvilisce (e smarrisce) nelle notizie delle “trattative” tra Bertone e Berlusconi la debolezza della Chiesa, la totale mancanza di fiducia che le gerarchie ecclesiastiche manifestano nel proprio messaggio. No, non si chiede al Vaticano di schierarsi a sinistra, piuttosto che a destra. Anzi, si chiede soltanto alla Chiesa di essere testimone – coerente – del Vangelo.
Non sono le leggi che salvano formalmente la tutela della vita nello stesso istante in cui concretamente l’esistenza degli immigrati viene calpestata. Non sono le scuole cattoliche che salvano la fede. È piuttosto la testimonianza. E sbaglia, di quanto!, chi pensa che i cattolici – e non solo loro – respingano il rigore, perfino la severità del rivoluzionario messaggio di Cristo. Anzi, proprio questo attendono in tanti: qualcuno che ci ricordi di amare il nemico e ci ripeta ogni giorno che beati sono i miti, i poveri, chi ha fame e sete di giustizia. Qualcuno che invece di accanirsi sui diritti degli omosessuali ricordi le parole di Sant’Agostino: “Ama e fai ciò che vuoi”.
È falso che gli uomini contemporanei non credano più nel messaggio del Vangelo. Si allontanano piuttosto dalla Chiesa perché nei suoi vertici non vedono più chi lo testimoni. Ma poi si trovano soli, smarriti, e perdono anche la fede.

Repubblica 14.12.10
Un bel sorriso alla gravidanza
Sedici su cento sperimentano varie forme di depressione, poche chiedono aiuto, pochissime vengono curate. Per le donne incinte arriva una campagna triennale sul web e sui cellulari, mentre aprono sei centri di riferimento


Gravidanza e nascita non sempre sono periodi felici per la madre e la coppia. Tant´è che il 16 per cento delle donne sperimenta una qualche forma di depressione perinatale. Poche quelle che chiedono aiuto, poche quelle curate. Per loro, per farle sentire meno sole e rompere il muro di silenzio, inizia la Campagna triennale "A smile for moms" promossa dall´Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) che stavolta mette in campo tutti gli strumenti di comunicazione (Sms, Tim Spot, You Tube, Facebook) incluso un sito dedicato, una rete regionale di sei Centri di riferimento a Milano, Torino, Pisa, Ancona, Napoli, Catania, e una mozione presentata da 68 parlamentari bipartisan, appena approvata in Senato.
«La gravidanza è un momento di profondi cambiamenti e di sentimenti contrastanti per la donna che non sempre è in grado di affrontarli ed esprimerli - dice la presidente di Onda, Francesca Merzagora - per questo abbiamo deciso di occuparcene, per evitare che diventino vera malattia». Sono 90 mila le donne che ogni anno in Italia soffrono di un disturbo più o meno grave dell´umore, di loro meno della metà riceve aiuto. Perché la depressione è una malattia taciuta e perché mancano allo stato attuale le competenze. «Chiediamo al governo - sottolinea la senatrice Emanuela Baio - che dentro gli ospedali vi sia personale sanitario formato e capace di individuare una donna in difficoltà e che siano garantiti assistenza e accesso alle cure per evitare che la depressione si aggravi».
In attesa che vengano emanate presto le linee guida della gravidanza fisiologica, una raccomandazione del ministro della Salute, Ferruccio Fazio, ai professionisti degli ospedali e del territorio: «È opportuno rivolgere attenzione agli incontri con la futura mamma per rilevare anche il minimo disagio, un aiuto può essere quello delle domande aperte».
Da considerare, inoltre che la nascita, il rientro a casa e l´avvio della quotidianità aprono scenari complessi e faticosi: il 70-80% delle mamme, attempate o giovani, scivola nella malinconia puerperale, una forma di labilità emotiva fastidiosa ma transitoria che nulla ha a che vedere con la più importante e meno frequente depressione post partum che riguarda il 10-15 per cento delle donne.
(mp. s.)

«Faccio sogni chiari, a colori, ha idea di quanto sia bello sognare continuando a vedere le cose perfettamente?»
il Fatto 14.12.10
Sergio Staino
Provaci ancora Bobo
di Malcom Pagani


Per gli amici che vanno e ritornano indietro, Sergio Staino rimane ancorato al tavolo di sempre. Vedere senza osservare è un esercizio inutile, ma Bobo ha vissuto e quindi, indifferente alla decadenza, tratteggia anche con gli occhi velati. Iniziò nel '79, su Linus, il mensile che amava e che negli anni freddi delle tasche vuote e del vino versato nel cammino, divenne molto più di una coperta. Poi Messaggero, Unità e le massime familiari di un microcosmo militante che emigrarono nella calda culla di un messaggio universale. L'architetto Sergio Staino disegna da trent'anni e nonostante la retina fosse impazzita già al tramonto dei '70, tirarsi indietro non era tra le variabili. Cammina con il bastone, ride spesso, si orienta a fatica mantenendo stabile la religione unica dell'ironia: “Oggi è Santa Lucia, protettrice dei non vedenti, giorno perfetto per un'intervista”.
Staino, da dove partiamo?
Dai primi anni, sono quelli a formarci e renderci ciò che siamo. Fortunatamente Sono un meticcio perché gli incroci, anche quelli estremi, portano con loro un vento consolante.
La sua tramontana?
Mio padre era lucano, sud estremo, un bracciante fuggito dalla povertà con due sole strade davanti: fare il prete o il carabiniere.
Vicoli corti.
Babbo era una testa calda, i preti non lo vollero. Così indossò il pennacchio e da carabiniere conobbe questa fanciulla toscana figlia di un contadino anarchico poi diventato sindacalista, ferroviere e rivoluzionario.
Ossimori sentimentali.
Casini deliranti e contraddizioni politiche figlie dell'incontro tra due etnie che si comprendevano a stento. Il giorno dell'attentato a Togliatti, il padre di mia madre si trovò di fronte al mio babbo. Davanti alla ribollita, la discussione si alzò di tono. Il vecchio aprì le ostilità: ‘Guardia, fatti vedere poco in giro perché per l'insurrezione popolare aspettiamo soltanto il via da Roma’.
E suo padre?
Laconico. Freddo. Indignato. Si alzò e guardandolo dritto negli occhi disse soltanto: ‘Pregate dio che non succeda, perché la mia prima fucilata sarà per voi’.
Un bel clima.
A mio padre devo l'estroversione e la capacità di contaminarsi con gli altri, a mia madre la serenità. Se sono diventato un disegnatore lo devo a lei. Perdeva ore per insegnarmi a copiare figure fiabesche e stilizzazioni. Mi ha fatto amare il disegno e una cosa la fai bene solo se la ami. Altrimenti, qualsiasi mestiere è una condanna.
Altri precetti?
La dignità nel comportamento. La capacità di dire no all'ingiustizia, di sollevarsi senza ribellismi parolai, pure fertili per tradizione, a tutte le latitudini della Toscana. ‘Ricordati Sergio, i doveri vengono prima dei diritti’.
Sembra un motteggio di Bobo.
Bobo è morale e moralista. In ogni caso ha lasciato un segno. Me ne accorgo quando trovo dei giovanottoni di 30 anni: ‘Me lo fa un disegnino per mio padre?’. Richieste che mi rivelano quanto tempo sia passato davvero.
Perché Bobo è sopravvissuto alle epoche?
Fa scattare l'identificazione, in molti si riconoscono. Per le masse popolari legate alla sinistra, ha rappresentato lo sdogana-mento del fumetto. Oggi sembra automatico, ma nei primi anni '80, per chi faceva satira avvicinare un lettore trinariciuto era un'impresa.
Addirittura?
Per uno abituato a leggere testi di Marx o editoriali di Togliatti e Berlinguer, trovare le mie figurine in mano ai suoi figli equivaleva a uno choc.
Quale l'orizzonte di Bobo oggi?
Soffre anche lui. Non è in crisi la satira, è in crisi la politica. L'autore satirico è l'ironico sintetizzatore di una passione. Se quella passione langue, piange anche la satira.
Il primo a darle fiducia fu Oreste Del Buono.
Non avevo una lira e la spinta pratica a inventare fumetti dipese da un imperativo prosaico: arrivare in fondo al mese. Io ero un precario dello scuola. Bruna, la mia compagna, una peruviana senza permesso di soggiorno. Del Buono era un galantuomo, Linus il mio faro e un po' meccanicamente, pensai di spedirgli una mia striscia. Andò bene e continuai.
Fortunato.
La ventura fu che nel bagaglio che poi ebbi il coraggio di riversare sulle strisce, pulsava una vera crisi. C'erano ideali crollati, disillusioni, ferite. L'impegno militante nei marxisti-leninisti ai quali mi ero iscritto perché ritenevo il Pci troppo revisionista, mi aveva temprato e bruciato al tempo stesso, in un arco di tempo lungo un decennio. Dal '68 al ‘78.
In vacanza, lei andava in Albania.
Raggiunsi la cecità ideologica prima di quella fisica. Avevamo il prosciutto sugli occhi, vedevamo nell'estremismo cinese o cubano il sol dell'avvenire. Quando mi snebbiai e intuii gli sbocchi tragici nei quali ci stavamo incanalando e il destino dei miei compagni di militanza, in bilico tra l'ingresso in manicomio e quello nel partito socialista, per recuperare il tempo perduto era già tardi.
Ma l'Albania di Enver Hoxha?
Gli albanesi si servivano di noi non perché sperassero che in Italia avremmo rovesciato il potere per instaurare la dittatura del proletariato, ma per una ragione più terrena. Ci usavano come specchietto per le allodole.
Specchietto?
Erano talmente isolati e raccontavano così tante balle al loro popolo per giustificare la follia totalitaria il regime che avevano necessità di una legittimazione dall'esterno. Utili idioti, questo eravamo. Però mi lasci dire una cosa.
Prego.
Non si può capire la parabola di un militante nei ‘70, senza capire cosa furono i primi anni ‘60. I fermenti che a un tratto trasmutarono in movimento.
I suoi ‘60 come furono?
Mi sentivo solissimo e in balera non andavo di certo. Mi dividevo tra il lavoro nella fabbrica di ceramica di Marcello Fantoni, l’ascolto dei dischi del Sole, i cineforum e i libri. Leggevo moltissimo: i volumi Einaudi, i testi teatrali, quelli sulla mobilitazione antifranchista.
Un’esperienza come Tango sarebbe ripetibile?
No, manca il partito totalizzante in funzione di stimolo. All'epoca c'era il Pci. La satira vive dell'intelligenza dell'autore e dell’ambiente circostante. Io non fui cattivo, irriverente tutt’al più, ma dall'interno della stessa chiesa, i graffi bastarono a creare il caos.
Aneddoti?
Al congresso di Rimini, il prologo dello scioglimento del Pci ero a pranzo nell'albergo in cui era ospitata la nomenklatura. A un tratto entrò Natta, il segretario.
Scena?
Mi vide nella sala e venne verso di me urlando. Gridò, diventò paonazzo: “Tu, tu, tu, te e il tuo maledetto Tango. Siete stati voi a trascinarci nella tragedia che stiamo vivendo”.
Esagerato.
Era un'accusa sovradimensionata, però un contributo a far crollare il Pci monolitico e ad aggiornarne le istanze, io, Pazienza, Ellekappa e Altan lo fornimmo.
Degli impulsi giovanili il Pci ha spesso capito poco.
È sempre stato così. Hanno uno schema in tasca e pensano di poterlo applicare a tutte le sfere. Alle pulsioni che animano gli operai, hanno sempre preferito i modelli prestampati, i giochi di corridoio. Un peccato.
Dicono che D’Alema la detesti.
Credo che tra noi ci sia un’amicizia profonda e che in certi momenti, come è normale, Massimo mi avrebbe visto volentieri morto.
Renzi le piace?
Non sono d’accordo con lui e la parola rottamare non mi garba. Però chi ha avuto la sua occasione , chi ha perso ripetutamente e ci ha ridotto in questo modo, dovrebbe sparire dal partito.
Duro.
Perché mai? Tirarsi indietro e occuparsi di altro non è mica una bestemmia. Questa prolungata eterodirezione bicefala tra Veltroni e D’Alema, è grottesca. Prolunga l’agonia, rende impossibile comprendere ciò che accade realmente nel Paese.
Tra Veltroni e D’Alema chi preferisce?
Veltroni sa fingere meglio, D'Alema almeno è trasparente. Walter, tra gli altri, ha anche quel difetto.
Insomma per l’assoluzione piena di un dirigente bisogna tornare al suo antico maestro di vita, Berlinguer.
Enrico aveva visto lungo ma noi non lo capimmo. Parlava di questione morale e austerità e quanto avesse ragione l’abbiamo capito molto tempo dopo, osservando i comportamenti di Craxi e Berlusconi.
Prospettive?
Quegli idioti dei brigatisti, eliminando Moro hanno ucciso l’ultima speranza di reale compromesso. Da allora etica, politica generale e interesse comune hanno preso strade diverse.
Un’ultima curiosità. Lei tra il 1989 e il ‘92 girò alcuni film. Poi si fermò.
Purtroppo non sono più stato in grado di farlo. Il cinema è molto divertente e puoi fare cose in compagnia, che è consolante. Mentre il disegno con le tavole elettroniche e i prodigiosi strumenti della modernità può mettere la cecità in un angolo e continuare a farmi pittare strisce a ritmi fordisti, la macchina da presa senza l’occhio somiglia da vicino al nulla.
Però resta la testa.
Infatti. È il cervello che fa ogni cosa. Disegno in automatico e anche senza l’autonomia di un tempo, mi resta l'attività onirica. Faccio sogni chiari, a colori, ha idea di quanto sia bello sognare continuando a vedere le cose perfettamente?

anima e neuroscienze
Avvenire Agorà 14.12.10
L’anima della neuroscienza

Domani e giovedì a Milano dibattito tra storici, teologi, filosofi, fisici e psichiatri: un’indagine a tutto campo sui nodi ancora irrisolti tra mente, comportamento e immortalità
Da una parte le indagini sui meccanismi cerebrali e sul loro rapporto con libertà e volontà; dall’altra la millenaria tradizione del pensiero occidentale che riflette su corpo e spirito.
A che punto è arrivato il confronto? È ancora un limite invalicabile quella corrente «riduzionista» che vorrebbe correlare ogni azione e ogni scelta dell’uomo a un moto meccanico dell’encefalo? Faccia a faccia tra un filosofo e un fisiologo 
Avvenire 1.
Ghisalberti: «Scienze dello spirito e scienze del cervello dialoghino»
Ma è innegabile che il senso comune mantiene un riferimento all’anima, soprattutto nel vissuto del singolo sog­getto
di Andrea Lavazza


Alessandro Ghisalberti, pro­fessore di Filosofia teoretica presso l’Università Cattolica di Milano, ha dedicato la sua lunga at­tività di studio e ricerca alla filosofia scolastica e ai rapporti tra razionalità filosofica e rivelazione cristiana.
Che cosa resta oggi vitale della vene­randa tradizione filosofica e teologi­ca sul concetto di anima?
«La parola anima, assunta a indicare in senso generale la parte spirituale dell’uomo, appartiene in modo irre­versibile alle tradizioni religiose, teo­logiche, filosofiche, letterarie e scientifi­che della civiltà occi­dentale, così come, nonostante il caratte­re astratto dell’anima, la sua raffigurazione in modalità pittoriche e figurative di ogni ge­nere si riscontra sin dai primordi del­le civiltà mediorientali. Direi che del­l’anima oggi resta tutto in teologia, ma anche in filosofia. Si potrebbe dire che il caso dell’anima è analogo a quello di Dio: chi vuole negarne con prove filosofiche o scientifiche l’esistenza, è costretto a dichiarare di avere una no­zione di anima. Ma sappiamo che 'provare' (e non semplicemente dire a parole) la non esistenza di entità concettuali così forti, come Dio e ani­ma, invisibili perché immateriali, è impresa del tutto impossibile».
La scienza sta erodendo nel senso co­mune l’idea di anima come compo­nente immateriale dell’uomo. Che cosa può replicare la filosofia?
«Non ritengo che la scienza possa se­riamente minare la nozione di anima come componente o facoltà immate­riale dell’uomo, composto di anima e corpo; certamente la divulgazione scientifica meno rigorosa ha portato a un diffuso modo di concepire in ter­mini fisicistici (materiali) i processi che determinano le funzioni psichi­che, emotive e cognitive dell’uomo».
Mente è un sinonimo moderno di a­nima o si rischia di fare ulteriori e pe­ricolose confusioni?
«Servirebbero molte distinzioni, si può tuttavia osservare, in generale, che se si prende l’uomo nella sua de­finizione più diffusa di organismo do­tato di un corpo animale e della ca­pacità di pensare, allora il significato di anima razionale può avvicinarsi al moderno termine di mente. Con l’av­vertenza, però, che all’anima appar­tiene tutto il vissuto biopsichico del­l’io, con le sue aspirazioni intime».
In che senso si può dire, come nel te­sto introduttivo del convegno, che le neuroscienze sono una dimensione che più adeguatamente delinea e di­fende l’anima?
«Le neuroscienze difendono l’anima perché sanno di trovarsi, nei territori complessi dell’anima, su terreni assai delicati. Quello che esse verificano sperimentalmente nella corteccia ce­rebrale offre dati positivi certi, che però sono circoscritti al campo d’in­dagine attivato; il re­sto, come spiegare la natura del pensiero a­stratto, o la dimensio­ne della coscienza sog­gettiva, non è compito delle neuroscienze, ma costituisce ogget­to dell’interpretazione sulla base di analisi filosofiche o teo­logiche. Non è il neurone che avverte lo stato di depressione o di angoscia, ma spesso accade che si producano reazioni nell’interiorità del soggetto, prima sentite come angoscia, poi co­me ritorno alla normalità: angoscia o serenità sono elaborazioni dell’ani­ma, ossia del vissuto peculiare del sog­getto umano».
Quale dialogo vi può essere attual­mente tra scienze dello spirito e scienze del cervello? Ci sono utili ter­reni di confronto?
«Indubbiamente, vi deve essere dia­logo tra scienze dello spirito e scien­ze del cervello, perché trattano tutte la specificità dell’uomo: affrontare u­na stessa questione da molteplici punti di vista arricchisce la visuale, e consente un discorso complessivo sulla realtà unitaria dell’uomo, del suo essere unità di anima e corpo. Senza dimenticare che la millenaria rifles­sione sull’anima ha costituito proprio il campo base della ricerca da cui si sono poi sviluppate le varie branche della psicologia e delle neuroscienze».

Avvenire 2.
Berlucchi: «Ma l’approccio interdisciplinare resta arduo»
intervista di Andrea Lavazza


Giovanni Berlucchi, professore di Fisiologia al dipartimento di Scienze neurologiche e del­la visione dell’Università di Verona, è uno dei decani delle neuroscienze i­taliane.

Le neuroscienze hanno qualcosa da dire sul concetto di anima, così co­me è stato delineato da teologi e fi­losofia nei secoli, oppure ne pre­scindono completamente?
«Se per anima si intende un’essenza immateriale che sopravvive alla mor­te (e a me pare che oggi questo do­vrebbe essere il senso del termine) le neuroscienze non hanno niente da dire, se non che non si vede come questa es­senza possa contene­re la mente del defun­to, visto che questa è inscindibilmente lega­ta al cervello. Il proble­ma della resurrezione della carne va lasciato teologi».
Alle scienze del cervello, che usano un indispensabile riduzionismo me­todologico, si imputa spesso anche un riduzionismo ontologico, che o­scurerebbe una parte fondamenta­le della nostra vita personale. Come risponderebbe a questa critica?
«Dagli anni ’60 le neuroscienze (al­meno quelle illuminate) hanno attri­buito all’esperienza soggettiva una dignità ontologica propria, anche se imprescindibilmente dipendente dall’attività nervosa. Il mio dolore non ci sarebbe senza una specifica attività del mio cervello, ma ho il di­ritto di considerarlo diverso da quel­­l’attività. Il grande enigma rimane quello della possibile efficacia cau­sale dei processi mentali sui proces­si cerebrali. Forse non c’è, ma negar­la equivarrebbe a negare i concetti di libertà e responsabilità, indispensa­bili alla coesistenza umana».
Se al neuroscienziato si chiede di parlare di anima, qual è la sua rea­zione? La mente è diventato sinoni­mo moderno di anima? Ma anche la mente sembra perdere rilievo a fa­vore del funzionamento 'materiale' del cervello...
«Il neuroscienziato può parlare di a­nima come tutti, e ciò che dice può avere senso o no. Certo, non mi pare utile equiparare anima a mente, o ri­tenere che l’anima come essenza spi­rituale immortale contenga la men­te. Per quanto riguarda la mente con­scia o inconscia, crederla totalmen­te dipendente dall’attività nervosa non significa affatto negarne l’esi­stenza.
La scienza del cervello che 'cancel­la' l’anima è necessariamente desti­nata a entrare in urto con la religio­ne? Oppure i loro ambito possono o devono restare distinti, senza prete­sa di trovare un punto di incontro?
«Se si restringe (come mi pare op­portuno) il concetto di anima alla so­pravvivenza di una entità che non ha bisogno del corpo, le neuroscienze non cancellano affatto l’anima. Anzi, l’esigenza di prolungare oltre alla morte la propria esistenza va ricono­sciuta come un’aspirazione intrinse­ca del cervello umano, da cui sono nate tutte le religioni. Se la religione dà conforto di fronte alla previsione certa della fine del proprio mondo, per quale ra­gione la scienza do­vrebbe entrare in conflitto con essa?».
Immagino che tra gli scienziati, al di là del comune linguaggio dei dati, vi sia di­versità di opinioni. Uno scienziato può continuare a credere all’anima senza subire ostracismi? Il confron­to tra scienziati, filosofi e teologi può dare risultati significativi o è diven­tato un dialogo tra sordi?
«Penso che credere o non credere (in senso religioso) rifletta in ogni per­sona l’esistenza di fondamentali dif­ferenze psicologiche (cerebrali) fra gli individui, dipendenti dai geni, dall’e­sperienza, dall’educazione e da mol­tissimi altri ingredienti dell’esisten­za umana. Quindi, vi sono scienziati che credono e altri no. Entrambi so­no liberi e degni di rispetto. Conosco personalmente grandi scienziati al­cuni dei quali sono religiosi e altri no. Non mi pare in genere che la loro scienza (né per il vero la loro mora­lità) dipenda dalla loro religiosità. Quanto agli incontri fra filosofi, teo­logi e neuroscienziati, le mie espe­rienze sono state spesso negative. Non si tratta di sordità, ma di hybris professionali».

lunedì 13 dicembre 2010

Bersani: “Noi non dobbiamo suscitare passione per una persona, ma per la nostra Repubblica”
l’Unità 13.12.10
Carisma contro capacità
di Silvia Ballestra


Corriere della Sera 13.12.10
Se domani le Camere finiscono sotto protezione
È una decisione che appare senza precedenti
Piano di sicurezza per Camere e Palazzo Chigi
di Fiorenza Sarzanini


Cordoni di sicurezza intorno alle sedi istituzionali che di fatto trasformeranno in una «zona rossa» il centro di Roma. La questura blinda i palazzi della politica in vista delle manifestazioni di piazza previste per domani, mentre in Parlamento si voteranno le mozioni che decreteranno il destino del governo. Vietato avvicinarsi alla Camera, al Senato, a Palazzo Chigi e a Palazzo Grazioli, oltre che alle sedi dei partiti. L’ultima riunione per mettere a punto il piano di sicurezza si svolgerà oggi, ma l’interdizione di queste aree a chi ha annunciato di voler partecipare a «una grande assemblea popolare» è già stata stabilita.
È una decisione che appare senza precedenti. Le informazioni raccolte dai responsabili dell’ordine pubblico assicurano che da tutta Italia arriveranno in treno, in pullman e con mezzi propri migliaia e migliaia di persone decise a «sfiduciare dal basso Silvio Berlusconi».
Il diritto di manifestare deve sempre essere garantito, soprattutto in un giorno cruciale per la vita del Paese. Ma è preoccupante che ai senatori venga suggerito di recarsi molto presto a palazzo Madama proprio per evitare di essere intercettati dai manifestanti. Ai promotori del corteo che avevano chiesto di poter arrivare a Montecitorio, la questura ha risposto con una nota ufficiale nella quale giustifica la scelta di interdire l’accesso alla piazza per la «necessità di garantire il regolare svolgimento delle attività parlamentari».
Manifestazioni di violenza devono sempre essere stigmatizzate e condannate. Senza dimenticare che qui c’è in gioco il diritto a dissentire, la possibilità di protestare in maniera pacifica. A Roma si sono dati appuntamento, tra gli altri, i napoletani esasperati dall’emergenza rifiuti, gli aquilani che attendono la ricostruzione della propria città, gli studenti che non condividono la riforma del ministro Mariastella Gelmini. Certo, una miscela di malcontento che rischia di infiammarsi. Si riuniranno alle 10.30 di fronte al Colosseo, molti hanno già annunciato di voler esplorare percorsi alternativi, organizzare sit-in all’ultimo momento per cercare il modo di coinvolgere quanto più possibile i cittadini.
Compito delle forze dell’ordine è evitare che la situazione degeneri, impedire ai più facinorosi di fomentare la folla, isolare chi ha deciso di andare in piazza per cercare lo scontro. Però l’immagine del centro della capitale ridotta a un’area chiusa e inaccessibile anche ai residenti e ai turisti, a chi ci vive e lavora, trasmette la sensazione di una democrazia che ha paura ed è costretta a blindarsi.
La scelta di creare «zone rosse» ha un tragico precedente che non può e non deve sfuggire. Perché riporta con la mente ai giorni del G8 di Genova del luglio 2001, alla città presidiata dai blindati, controllata metro dopo metro da carabinieri, poliziotti e finanzieri bardati in assetto antisommossa. Riporta ai manganelli, ai fumogeni, agli urticanti, alle molotov. Alla guerriglia urbana. I divieti decisi per garantire l’ordine pubblico sono essenziali. Ma se sono indiscriminati rischiano di ottenere l’effetto opposto.

Repubblica 13.12.10
Uguali diritti
"È barbaro chi non riconosce l'essere umano"
 Tzvetan Todorov intervistato da Maurizio Bettini


Nasciamo in un contesto condiviso di regole e rappresentazioni mentali Poi sta a noi decidere di continuare a viverci o fare scelte volontarie
In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica Deve accordare gli stessi diritti a tutti i cittadini, atei e credenti
L´intervista / Il filosofo bulgaro sarà domani a Roma per ricevere un premio: "Nel Novecento abbiamo sperimentato atti di crudeltà e di assoluto disprezzo per la vita degli altri"

Chi ha incontrato per la prima volta il nome di Tzvetan Todorov in tempi lontani, come editore e traduttore de I formalisti russi, avrà certo seguito con stupore e ammirazione il suo lungo percorso intellettuale. Dallo strutturalismo letterario alla storia delle idee, alla storia dell´arte, alla storia tout court, per approdare infine a una incessante discussione su quei temi semplicemente "umani" o civili che oggi tanto ci riguardano: la violenza, i diritti, l´identità, il totalitarismo, e così via.
Da pochi giorni è apparsa in Italia la tua autobiografia intellettuale, Una vita da passatore (Sellerio). Leggendola mi sono ricordato che durante il colloquio in tuo onore che si è tenuto poche settimane fa a Parigi, Lionel Naccache, sottolineando l´importanza dell´eclettismo nelle scienze umane, ha affermato che anche tu saresti un "eclettico". Ti riconosci in questa affermazione?
«Senza dubbio le circostanze della mia vita sono in parte responsabili della pluralità dei miei interessi. All´età di 24 anni ho lasciato il mio paese, la Bulgaria, per venire in Francia, e questo ha già seriamente trasformato le mie abitudini. Cinque anni dopo sono entrato a far parte del Centre National de la Recherche Scientifique, un´istituzione estremamente liberale. In definitiva, però, sento che le scienze umane si rivolgono tutte quante a un medesimo oggetto, anche se le materie che studiano sono diverse. Un certo enciclopedismo, una pluralità di punti di vista rivolti a questo oggetto mi sembra dunque auspicabile. Nel nostro campo vale questa regola della conoscenza: occorre andare sempre al di là del nostro punto di vista soggettivo e cercare di assumere quello degli altri, in un continuo va-e-vieni».
In questo stesso momento Garzanti pubblica un altro dei tuoi libri, con un titolo davvero programmatico: La bellezza salverà il mondo (Wilde, Rilke, Cvetaeva). Che posto occupa quest´opera nel tuo lavoro?
«Devo dire subito che questa formula, "la bellezza salverà il mondo", tratta da L´idiota di Dostoevskij, può avere molti significati. Mi soffermo sulla vita e il pensiero di tre grandi scrittori europei, che si possono sommariamente collocare nel periodo romantico. Secondo gli ideali romantici, la creazione del bello è il valore supremo dell´esistenza, e si è giustificati se si sottomette ad essa tutto il resto. Ciò detto, però, le modalità secondo cui questo ideale si realizza, divergono: Wilde ha voluto fare della sua vita un´opera d´arte, Rilke era pronto a sacrificare la sua esistenza sull´altare della creazione poetica, la Cvetaeva ha stabilito una cesura radicale fra alto e basso, fra poesia e vita quotidiana. Ebbene, questi tre artisti, le cui opere sono ammirevoli, hanno avuto una vita che si può definire tragica, pur se con gradazioni diverse. Il mio racconto svela la fragilità di questa visione romantica del mondo, e interroga direttamente il modo in cui ciascuno di noi costruisce la propria vita».
Prendiamo un altro dei tuoi temi (e dei tuoi libri), la paura dei barbari. Il termine "barbaro" ha un potenziale semantico enorme. Chiamando "barbaro" qualcun altro, infatti, ci si identifica automaticamente con i (presunti) maestri di ogni civiltà, i Greci, che appunto definivano bárbaroi tutti coloro che Greci non erano; ma anche con i Romani, che impararono rapidamente dai Greci a definire barbari i non Romani, ovvero con Ebrei e Cristiani, che a loro volta definirono "barbari" i gentili ovvero i pagani.
«Fino dalle sue origini la parola "barbaro" possiede due accezioni diverse. Da una lato ha un senso relativo, reversibile: si chiamano barbari quelli che non sono come noi, che non parlano la nostra lingua o che la parlano male; dall´altro invece ha un senso assoluto, indipendente dal punto di vista di colui che parla: in tal caso si definisce barbaro colui che trasgredisce le regole della vita comune, che si comporta in modo particolarmente crudele, che non ha alcun rispetto per la vita degli altri. Confondere questi due sensi è sbagliato, ed è il secondo che conserva ancora tutta la sua pertinenza. Nel XX secolo abbiamo sperimentato atti di barbarie che non hanno più niente a che vedere col fatto di essere stranieri, di parlar male la lingua e così via: pensiamo, in particolare, ai regimi totalitari in Europa. Il barbaro è colui che non riconosce la piena umanità degli altri. Ma bisogna anche ricordarsi che nessun popolo, nessun individuo è "barbaro" una volta per tutte: lo sono solo i suoi atti e i suoi atteggiamenti».
Credo che un individuo abbia il diritto di scegliere la propria identità culturale, proprio come Voltaire sosteneva che ciascuno ha il diritto di scegliere la propria "patria". Purtroppo, però, molti oggi non la pensano così.
«Qualsiasi gruppo umano possiede una cultura, ossia un insieme di regole di comportamento e di rappresentazioni mentali. All´inizio riceviamo la nostra cultura senza averlo deciso: è quella dei nostri genitori. Crescendo però possiamo fare scelte volontarie, conoscere culture diverse da quella in cui siamo nati, oppure decidere di continuare a viverci. D´altra parte, la cultura di ogni gruppo umano si trasforma col tempo. Prova ne sia il fatto che, pur se abitiamo sempre nel medesimo luogo, non parliamo certo la stessa lingua dei nostri antenati! Tuttavia, giorno per giorno nessuno è cosciente di questi cambiamenti. È in questo senso che qualsiasi cultura viva è simile alla mitica nave Argo. Il suo viaggio era durato così a lungo che tutte le sue parti erano state cambiate, assi, funi, vele - eppure era sempre la stessa nave. Una cultura che non cambia è una cultura morta, e non c´è nulla di cui essere fieri».
Eppure in Italia si sostiene spesso che il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche perché simbolo della "nostra" identità culturale: dunque non solo quella di chi sceglie di sentirsi cristiano, ma quella di tutti gli italiani, indipendentemente dalle decisioni individuali.
«In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica, accorda gli stessi diritti a tutti i cittadini, credenti o atei, cristiani, buddisti, ebrei o musulmani. Esigere oggi che tutti abbiano la stessa fede significherebbe rinunziare al carattere secolare dello Stato, confondere la sfera delle convinzioni personali con quella delle norme collettive, come facevano gli stati totalitari. L´unità della legge non ha lo scopo di imporre l´uniformità dei costumi, si può amare la propria chiesa senza dover chiedere nello stesso tempo di chiudere le moschee. È anche per questo che il crocifisso, nella scuola pubblica, non è al suo posto».

l’Unità 13.12.10
È il nuovo romanzo di Helga Schneider, l’autrice tedesca di «Lasciami andare madre»
Ancora un racconto sulla follia del nazismo per lasciare nei «ragazzi un seme di pace»
Storia di Rosel piccola «ariana»
di Manuela Trinci


Repubblica 13.12.10
Chi paga il prezzo dei tagli all´istruzione
di Tito Boeri


In tutti i paesi avanzati è stato il lavoro poco qualificato a pagare il conto più salato nella Grande Recessione. Negli Stati Uniti un quarto dei lavoratori con meno di 12 anni di istruzione ha perso il lavoro tra il 2007 e il 2009. A chi aveva studiato anche solo quattro anni in più è andata molto meglio: "solo" uno su dieci ha vissuto il trauma della perdita del lavoro. Nell´area dell´euro il tasso di disoccupazione tra chi ha al massimo completato la scuola dell´obbligo è aumentato di più di quattro punti percentuali in due anni.
Quello dei laureati è rimasto quasi invariato. Oggi la probabilità di essere disoccupato tra chi ha una laurea è un terzo di quella di chi ha solo un diploma di scuola secondaria inferiore. Prima della crisi il rapporto era di uno a due.
Le cose in Italia non sono molto diverse: l´unica differenza è che da noi molte persone con basso livello di istruzione rimangono ai margini del mercato del lavoro. I divari nei tassi di occupazione tra laureati e diplomati sono attorno al quaranta per cento, come negli altri paesi, e sono cresciuti durante la recessione. L´istruzione è diventata ancora più di prima la migliore assicurazione sociale di cui un giovane oggi può dotarsi per evitare un futuro difficile, fatto di disoccupazione e bassi salari.
I lavoratori poco qualificati dei paesi avanzati sono sempre più l´anello debole della crescita mondiale, schiacciati fra i lavoratori poco istruiti dei paesi emergenti e i lavoratori qualificati dei paesi avanzati. Nel Nord del mondo le imprese che, al di fuori dei servizi, sono cresciute di più sono quelle con un´elevata proporzione di lavoratori qualificati, che hanno saputo innovare producendo beni sempre più tecnologicamente avanzati, al riparo della concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Oggi ci sono scarpe per il jogging in grado di misurare il numero dei battiti cardiaci. Non sarà facile imitarle con scarpe made in Taiwan.
Il nostro esecutivo in questi due anni e mezzo ha tagliato solo un capitolo della spesa pubblica: le risorse per l´istruzione. Nel 2008-2009 sono calate, secondo l´Istat, del 2 per cento, mentre il resto della spesa pubblica aumentava, al netto dell´inflazione, di più del 3 per cento. In termini relativi, la spesa in istruzione è dunque calata del 5 per cento.
Secondo le previsioni della Ragioneria dello Stato, le cose sono destinate ad andare ancora peggio nel 2010. La spesa per la scuola dovrebbe diminuire di circa un punto e mezzo e quella per l´università addirittura del 9 per cento in termini reali. La spesa per l´istruzione sarebbe destinata a perdere un altro mezzo punto percentuale sulla spesa totale, a vantaggio delle pensioni. È significativo che nella crisi siano aumentate in termini relativi le risorse per la previdenza - che si basano su di un trasferimento dai giovani a chi è al termine della carriera lavorativa e non può più essere colpito dalla piaga della disoccupazione - mentre sono calate quelle per l´istruzione - una istituzione che ridistribuisce in senso contrario, guardando al futuro professionale delle nuove generazioni.
È una scelta di bilancio che non ha alcuna giustificazione economica di fronte alla stagnazione del nostro Paese. Si spiega unicamente con lo scarso peso politico delle nuove generazioni. Rischiamo di pagarla molto cara, la classica zappa sui piedi.
I mancati investimenti oggi fatti nell´istruzione potranno tradursi in un futuro non molto lontano in maggiore spesa per offrire protezione sociale a coloro che, in un mondo sempre più competitivo, non riusciranno a trovare o mantenere a lungo un posto di lavoro. Per questi motivi Francia e Germania si sono mosse in direzione diametralmente opposta alla nostra, aumentando durante la crisi la spesa per l´università e la ricerca.
Per coprire questo tentativo di scaricare una volta di più i costi sulle generazioni future, si è creata anche una cultura contraria agli investimenti in capitale umano delle famiglie. Il nostro ministro del Lavoro non perde occasione per invitare i giovani a fare «lavori manuali, umili» anziché ambire a livelli di istruzione più elevati e lavori qualificati.
Illustri editorialisti non più tanto giovani si scagliano contro il «giovanilismo» e contro gli studenti, rei di manifestare il proprio dissenso contro i tagli unilaterali all´istruzione. Prendono, questi ultimi, spesso di mira la cosiddetta «riforma Gelmini», forse perché il disegno di legge che porta il nome dell´attuale ministro dell´Istruzione ha finito per offrire copertura ai tagli, ma il vero nemico sono i tagli all´istruzione ed è molto importante che i giovani facciano finalmente sentire la loro voce.
Certo, conta non solo la quantità, ma anche la qualità della spesa per l´istruzione, conta offrire strutture adeguate e premiare il merito. Ecco una proposta per migliorare quantità e qualità: ripristiniamo lo stesso peso relativo della spesa per l´istruzione di prima della crisi, prelevandolo da quel miliardo e più di «fondi da ripartire», discrezionali, aggiuntivi previsti dalla Ragioneria per il 2010. Destiniamo queste risorse nell´immediato a interventi per garantire edifici scolastici adeguati, in cui non si corra più il rischio di essere travolti dal crollo di un soffitto e si possano tenere lezioni di materie scientifiche in laboratori adeguati. Si lavori, al contempo, per permettere di attribuire ogni risorsa restituita al fondo di finanziamento ordinario dell´università sulla base di criteri di merito, oggettivamente misurati.
Sarebbe una vera riforma perché cambierebbe radicalmente le scelte di reclutamento degli atenei. A proposito: come si fa ad attribuire intenti riformatori a chi per due anni e mezzo non ha portato a termine l´anagrafe dell´edilizia scolastica e non ha neanche nominato i vertici dell´Agenzia di Valutazione della Ricerca (Anvur)? Senza valutazione non ci può essere meritocrazia.

Repubblica 13.12.10
Rischio collasso per la Pompei del Mare
Pisa, ridotti del 90 per cento i fondi per il museo delle navi antiche
Il direttore: i soldi bastano solo per la vigilanza. Appello per ottenere la tutela dell´Unesco
di Cinzia Dal Maso


PISA - «Siamo al limite dell´emergenza. Altri sei mesi senza scavare, e quest´estate ci sarà il collasso». È disperato Andrea Camilli, direttore scientifico del Cantiere delle navi antiche di Pisa. E arrabbiato per la mancanza di fondi che da due anni blocca pericolosamente i lavori nel cosiddetto "porto delle meraviglie", la "Pompei del mare". Il più grande giacimento di navi antiche mai rinvenuto: 30 imbarcazioni di cui 10 quasi integre, e con tutto il carico perfettamente conservato, persino le corde, le reti, gli oggetti personali dei marinai. Tutto sigillato dalle sabbie umide che, nelle molte alluvioni dell´Arno, hanno travolto quell´approdo fluviale per mille anni fino alle soglie del Medioevo. «La scoperta più importante di fine millennio», si gridò nel 1998 quando venne alla luce durante i lavori per un centro direzionale delle ferrovie. Si mobilitarono tutti, nell´entusiasmo generale. Le Ferrovie migrarono altrove e si scavò alla grande grazie ai proventi del gioco del Lotto. Ma, spente le luci e terminate le passerelle dei politici, la situazione cambiò. Si risollevò un poco nel 2001 e 2002 quando vennero asportate le prime due navi, emerse dal fango tutte intere con grande spettacolo. Poi di nuovo l´oblio. Mentre le navi e tutto il resto, un po´ scavati e un po´ no, rischiavano di svanire.
«Il problema è che si è voluto aprire tutto lo scavo subito, anziché scavare poco alla volta», spiega Camilli. Si è insomma scoperchiato tutto insieme il sigillo che ha conservato fino a oggi quei materiali delicatissimi in assenza di ossigeno. Per questo bisognava poi recuperare tutto al più presto. «Finora siamo sempre riusciti a tenere comunque la situazione sotto controllo - continua Camilli - Ora non più. E l´anno scorso il cantiere è stato pure travolto dall´alluvione». Nel 2002, coi riflettori puntati, al Ministero dei beni culturali si decise di proseguire lo scavo come cantiere-scuola aperto a studenti da tutto il mondo. Finanziamento previsto: un milione di euro l´anno per dieci anni. «Ma sono diminuiti sempre più, e i 300mila euro l´anno degli ultimi due anni sono bastati appena per le spese vive. Per l´anno prossimo, poi, sono previsti solo 20mila euro. Non ci si paga neppure la guardiania».
Anche perché dal 2005 quei soldi hanno tenuto in vita pure l´annesso Centro di restauro del legno bagnato, dove si studia e conserva tutto quel che viene alla luce. Realizzato solo allora (con 1.200.000 euro di fondi Cipe) grazie al ministro Urbani, dopo anni di commissioni speciali e riunioni con enti locali, università, possibili sponsor. Con la scoperta delle navi antiche, Pisa pareva aver ritrovato la sua vocazione marinara. Si progettavano sia un Centro di restauro di caratura mondiale che un grande Museo delle navi agli Arsenali Medicei. Si pensava di offrire una seconda importante attrattiva turistica a chi oggi visita solo il Campo dei Miracoli o poco più. L´università Bocconi e la Normale di Pisa elaborarono un piano di ampio respiro per una spesa di 25 milioni di euro. Poi però il ministero dovette limitarsi a un progetto da soli 2,5 milioni di euro. La prima sezione del museo (1 milione di euro da Arcus) doveva aprire in questi giorni ma, assicura Camilli, «mancano solo gli ultimi ritocchi». Aprirà probabilmente col nuovo anno. Rischiando però di diventare uno dei tanti musei statali al limite della sopravvivenza. Non erano questi i progetti, le idee, i sogni. Mauro Del Corso, presidente nazionale degli Amici dei Musei, ha lanciato un appello per candidare scavi e museo come sito Unesco (da oggi sul sito www.iltirreno.it). Si preparano interrogazioni parlamentari di deputati Pd (Realacci e Fontanelli) e Idv (Evangelisti). Si sta insomma tentando di tutto per attirare l´attenzione dell´Italia e del mondo. Perché la Pompei del mare non merita di finire così.

Repubblica 13.12.10
La denuncia degli avvocati matrimonialisti: vogliono tutti i bimbi maschi e bianchi. La Commissione: affermazioni infondate
"Adozioni, le famiglie fanno scelte razziste"
di Vera Schiavazzi


ROMA - «Un razzismo strisciante orienta buona parte delle adozioni internazionali. Le coppie vogliono bambini di pelle chiara, possibilmente maschi, biondi e sani». L´accusa arriva dall´Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani, che ieri ha diffuso una serie di elaborazioni basate sui dati ufficiali della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali guidata da Carlo Giovanardi. La stessa Cai ha poi replicato esprimendo «sconcerto» e definendo «infondate» le affermazioni dei legali. Nel 2009 – aveva detto l´Associazione, presieduta da Gian Ettore Gassani – i bambini di origine straniera adottati in Italia sono stati 3.964, mentre il totale degli ultimi dieci anni è di 27.965 bambini. «Un fenomeno – sostiene Gassani – che resta sostanzialmente riservato alle coppie benestanti e del Centro-nord: Lombardia al primo posto, seguita da veneto e Toscana». Non solo: «La maggior parte degli aspiranti genitori preferisce un maschio, si orienta sempre di più verso la Russia e l´Ucraina e anche la Corte di Cassazione è dovuta intervenire, nella scorsa primavera, per impedire la prassi dei decreti "mirati" che consentivano alle coppie di ricongiungersi a un determinato bambino dopo averlo scelto direttamente».
I dati generali parlano, in effetti, di un 42-48 per cento di piccoli adottati (l´età media si è alzata, e sfiora ormai i sei anni, anche a causa dell´invecchiamento delle coppie che si rivolgono all´adozione) da paesi europei, Russia e Ucraina in testa, mentre i bambini che provengono dall´Africa sono soltanto il 12 per cento. Ma le motivazioni sono varie: si va dalla severità delle leggi dei singoli paesi (in Africa molti Stati non contendono adozioni, mentre altri, come il Kenya, prevedono un periodo di permanenza di sei mesi da parte della famiglia adottiva) fino alle caratteristiche delle coppie candidate, perlopiù formate da marito e moglie che lavorano entrambi. I costi? Dai 15.000 ai 22.000 euro, per i quali è previsto un rimborso parziale.

Repubblica 13.12.10
Solgentsyn.
Oggi il premio Nobel avrebbe 92 anni Il carcere raccontato dalla moglie Natalja
"Così mio marito ricordava il Gulag"
di Marina Zavada, Jurij Kulikov


"Lavorava sempre, la sua era una frenesia continua Pensava di essere sempre in ritardo"
"Ogni anno, il 9 febbraio, celebrava il suo arresto concedendosi solo pane e acqua"

Mosca. C´è un libro nel cassetto di Natalja Solgentsyna. Si chiama Diario di un romanzo e suo marito, il premio Nobel Aleksandr Solgenitsyn, l´autore di Arcipelago Gulag, aveva passato tutti gli ultimi anni della sua vita a chiedersi se valesse la pena pubblicarlo. «Una sera gli diede un´ultima lettura e mi guardò a lungo - racconta la signora Natalja nel salotto senza tende della casa nel bosco di Troitse-Lykovo - Era soddisfatto. Da allora ci lavoro ogni giorno. Piccole correzioni, qualche ripulitura. Prima o poi lo darò alle stampe. Glielo devo».
Di cosa si tratta?
«È un diario di lavoro. Gli appunti che prendeva mentre scriveva il ciclo della Ruota rossa, la storia della Rivoluzione del ´17. Appunti sulla difficoltà di trovare documenti originali, l´indignazione per i tanti falsi testimoni che raccontavano una verità di regime e che lui smascherava. Ma è interessante anche la parte tecnica, la ricerca negli archivi, le lunghe chiacchierate per strappare un paio di informazioni utili...».
Sabato suo marito avrebbe compiuto 92 anni. Fino al giorno della sua morte aveva continuato a lavorare 10 ore al giorno. Era un´esigenza o un´ossessione?
«Tutte e due le cose. Certamente hanno influito gli anni duri del gulag. Ma dal nostro ritorno a Mosca nel ´94, era come se sentisse passare il tempo troppo velocemente. Se venivano ospiti, ci piantava in asso dopo un po´ e andava a chiudersi nel suo studio. Non voleva sprecare un solo minuto. Una volta mi rimproverò perché andavo troppo spesso ai concerti. Così non finiremo mai tutto quello che c´è da fare, mi disse».
E cosa c´era da fare?
«Leggere, correggere, progettare nuove opere. Una frenesia continua, la sensazione di essere sempre in ritardo».
Una frenesia che lo portava a innervosirsi?
«Difficile capire quando fosse veramente irritato. Dai tempi del gulag aveva acquisito uno strano autocontrollo, non perdeva mai la pazienza. Al massimo, quando qualcosa non gli andava bene era capace di tacere per giorni interi. Senza astio né polemica. Solo un pesantissimo silenzio che rompeva solo quando gli era passato il malumore».
Gli fecero male i piccoli insuccessi del suo ritorno a Mosca? Per esempio lo scarso successo delle sue apparizioni televisive, la freddezza del pubblico...
«Si era preparato alla cosa. In una delle ultime interviste a una tv francese disse che chi propone grandi riforme non è mai molto amato nel proprio Paese. E poi il successo e la mondanità non gli sarebbero mai piaciute».
Era dunque un uomo malinconico, forse anche cupo?
«Sentiva bisogno di pace. Amava i silenzi. Passava ore davanti a queste finestre, anche nel buio dell´inverno. Si perdeva a fissare i larici, i pini. Diceva che non c´è niente di meglio che sentirsi così sprofondato dentro la natura. Per questo odiava le tende».
Reclusi in un bosco. Che tipo di vita facevate?
«La vita di due persone che si stimano e si rispettano. Ci godevamo le comodità che finalmente potevamo permetterci senza cercare altro. Tranne che in un giorno».
Quale?
«Il 9 febbraio. Era un anniversario particolare. Quello del suo arresto nel 1945 e l´inizio della sua odissea personale. Quel giorno riproduceva la vita del gulag. Si concedeva solo un tozzo di pane raffermo, un bicchiere d´acqua e una speciale zuppa di latte senza latte come quella che veniva data ai detenuti».
Si commuoveva nel ricordare quegli anni?
«No. Negli anni la cosa diventò quasi un rito di purificazione spirituale. Alla sera era proprio ridotto come un internato. Lo sorprendevo a leccare il piatto e raccogliere mollichine anche per terra. Diceva che per ricordare veramente le sofferenze materiali, bisognava assolutamente riviverle».
Culto della sofferenza, dunque?
«No, affatto. Parlavamo poco della morte, ma una volta mi disse che infelicità, dolore, rabbia non avevano cambiato molto le cose. Devo ammettere che fui sorpresa quando concluse: in fondo in fondo ho avuto un esistenza felice. Un attimo di silenzio, poi ci facemmo una bella risata liberatoria».
(Copyright Izvestia - la Repubblica)

Repubblica 13.12.10
A Berlino scoperte decine di migliaia di volumi destinate ai roghi nazisti da Proust a Mann, da Remarque a Sinclair, tutti nascosti sotto una bottega
La cantina dei libri proibiti "Qui li salvammo da Hitler"
di Andrea Tarquini


Andreas Wolff, libraio di origine russa, creò il bunker segreto nel cuore della città rischiando la propria vita
Spostando la scrivania-cassa del negozio si vede una botola che porta nel caveau ancora ricolmo di capolavori letterari

A Berlino, si sa, cammini a ogni passo sui drammi della Storia. Ma adesso è riemersa dal passato più tragico anche la cantina segreta dei libri proibiti. Un sottoscala ben nascosto dalla scrivania-cassa d´una libreria di grido d´allora, dove Andreas Wolff, colto e temerario libraio d´origine russa, nascose tutte le decine di migliaia di opere letterarie che la tirannide nazista aveva vietato e bruciato in pubblico nei famigerati roghi di libri. Wolff rischiò con la vita, ma era deciso all´impossibile e ci riuscì: tramandare ai contemporanei e ai posteri la grande letteratura tedesca, in lingua tedesca o straniera e tradotta che i nazisti bruciarono in piazza, esaltanti e ubriachi al canto dello Horst-Wessel-Lied. L´edizione domenicale della "Frankfurter Allgemeine" ha scoperto il bunker dei libri proibiti, e ieri ce lo ha raccontato a piena pagina quasi conducendoci per mano in quella scoperta mozzafiato.
Bundesallee 133, nel quartiere di Friedenau, è l´indirizzo della libreria, che si chiamava Buchandlung Wolff dal nome del fondatore fino a qualche anno fa, e oggi porta il nome "der Zauberberg", la montagna incantata, un omaggio a Thomas Mann e a uno dei più illustri tra i suoi libri dati alle fiamme da quello che lui nel "Doktor Faustus", con le parole del coprotagonista narratore Serenus Zeitblom, definì "il governo della feccia". È un vivace e insieme tranquillo quartiere amato dagli intellettuali: ci vissero Guenter Grass, Herta Mueller, Hans Magnus Enzensberger, Uwe Johnson e Max Frisch. Ma la cosa straordinaria è un´altra. Appunto, l´impresa che riuscì a gospodin (o Herr) Andreas Wolff. Harald Loch, l´attuale gestore della libreria della montagna incantata, la mostra volentieri a chi va a trovarlo, dopo un buon bicchiere di champagne offerto agli ospiti e alla sua amica Natalia Liublina. È facile, ma perfetti quanto stupidi i gendarmi della repressione nazista non ci arrivarono mai, e gospodin Wolff si seppe guardare dai delatori. Loch ripete quanto Wolff faceva ogni volta, per i clienti fidati: scansa con una spinta la scrivania-cassa. Appare una botola, una piccola scala di legno ti porta nel sotterraneo. Ci arrivi e l´emozione ti toglie il fiato, gli occhi guidati da flebili luci al neon perdono lo sguardo tra le migliaia di titoli proibiti, accumulati sugli scaffali. Polvere, odore di stantìo, eppure il bunker della salvezza che sfidò e sconfisse l´Indice del divieto nazista ha resistito al tempo. Se apri un qualsiasi volume di Thomas Mann o di Bertolt Brecht non si rompe, e lo leggi ancora chiaramente. Questa cantina racconta una storia sconosciuta, fa capire Harald Loch. O peggio, una storia dimenticata, o mai inseguita per curiosità da chi nacque e crebbe dopo il 1945 della disfatta nazista o il 1989 della caduta del Muro. I libri erano cari, spesso chi voleva leggerli ma non poteva permetterseli veniva dal buon gospodin Wolff a noleggiarli. E questa fama, forse, salvò il libraio e il suo bunker della sfida.
La svolta fu brutale, aprile 1933. Pochi mesi dopo la presa del potere, i nazisti aprirono i Lager, decapitarono ogni opposizione, resero impossibile così il sorgere d´ogni resistenza. E quei grandi roghi di libri, un sinistro rito pagano del fuoco, furono il loro trionfo. Wolff salvò migliaia di titoli: tutto Thomas Mann, Remarque, Marcel Proust, testi di altri autori stranieri. Riuscì persino, racconta Herr Loch, a procurarsi titoli degli autori tedeschi emigrati per sfuggire alla repressione, organizzando un contrabbando con l´estero che avrebbe potuto portarlo alla ghigliottina come i fratelli Scholl. «Riuscii grazie a lui a leggere Mephisto di Klaus Mann nel 1936, mentre di Heinkel di Goering radevano al suolo le città spagnole», narra un vecchietto. Le regole del leasing clandestino dei libri proibiti erano ferree: chi voleva leggerli, ed era abbastanza fidato per scendere nel bunker con gospodin Wolff, doveva divorarli e restituirli entro 24 ore. Sia perché la richiesta di leggerli era grande, sia perché il solo averli a casa era reato gravissimo. Ecco ancora tra gli scaffali i volumi proibiti di Upton Sinclair, o Carlotta a Weimar. Fino a un volume poco conosciuto, ma rivelatore: "die Pflasterkaesten", le casse di gesso. Memorie della prima guerra mondiale, ricordi dal fronte d´un giovane soldato che ricorda quel suo commilitone sempre isterico e paonazzo di panico a ogni attacco degli inglesi. L´isterico era Adolf Hitler, lo scrittore che ne narrò quel volto si chiamava Alexander Mortiz Frey. I nazisti distrussero la sua casa, lui riuscì a fuggire in Svizzera dove morì nel 1957, povero e dimenticato. Non tornò mai in Germania, oggi la memoria di lui rivive, in quel bunker segreto sotto la cassa della libreria della montagna incantata, a Bundesallee 133 di Berlino, unita e libera.

Repubblica 13.12.10
Antonio Pennacchi replica al paleontologo Giorgio Manzi
“Perché difendo il mio Neandertal”
"Sono gli studiosi a sbagliarsi: il cranio di Grotta Guattari è la prova di riti primitivi"
intervista di Dario Pappalardo


«Ma quali iene? In quella grotta, sono entrati per ultimi gli uomini». Antonio Pennacchi non ci sta. E replica al paleontologo Giorgio Manzi che, intervistato da Repubblica, ha "attaccato" Le iene del Circeo (Laterza), il libro in cui lo scrittore ricostruisce la storia del cranio neandertaliano di Grotta Guattari, rinvenuto al Circeo nel 1939.
Per l´autore, che si rifà alle tesi dell´archeologo Alberto Carlo Blanc, scomparso nel 1960, quel reperto testimonierebbe la cerebrofagia rituale degli uomini di Neandertal (sempre e solo senz´acca). Per Manzi e per altri illustri colleghi (tra cui Tim White, uno dei maggiori paleontologi viventi) non è così: il teschio sarebbe stato portato da una iena in quella grotta, poi sigillata da una frana per 55 mila anni.
«Con tutta onestà – racconta l´autore, quest´anno vincitore del premio Strega per Canale Mussolini (Mondadori) – sono un tipo ansioso: prima di cominciare a leggere l´intervista a Manzi, pensavo mi avessero fatto tana. Invece poi, alla fine della lettura, mi sono tranquillizzato».
Come mai, Pennacchi? Gli studiosi non le danno certo ragione.
«Intanto è curioso che mi rispondano solo ora che ho vinto il premio Strega. Sono vent´anni che porto avanti questa battaglia e non mi hanno mai preso sul serio».
La tesi che sostiene nel libro è stata smentita da tempo. La paleosuperficie dove fu rinvenuto il cranio non contiene tracce umane, ma solo di iena…
«Non è vero. Chi depositò il cranio nella grotta perse un raschiatoio, che fu ritrovato nel 1989. È come se ci avesse lasciato un rolex… non è una prova da poco. Insomma, in quel sito gli strumenti litici umani c´erano ed è stato scritto negli studi pubblicati in passato. Se ora quegli strumenti sono spariti, qualcuno dovrebbe spiegare perché. Per quale motivo si sono incaponiti sulla iena? Lo chieda a loro».
Gli studiosi escludono la cerebrofagia. Il cranio ha un foro praticato alla base.
«Ma chi l´ha detto che se voglio mangiare un cervello devo rompere il cranio dall´alto? I saggi di antropologia sostengono il contrario. E lo dimostra anche la collezione di crani della Melanesia conservata alla Sapienza di Roma. Chiunque pratichi la cerebrofagia rituale lo fa dal basso, utilizzando il cranio come coppa. Da cui "Bevi, Rosmunda dal teschio di tuo padre!". Un´altra prova del rito è il cerchio di pietre…».
I paleontologi mettono in dubbio anche quello.
«Io stesso lo chiesi a White: "Ma il cerchio di pietre? Insinuate che l´abbia costruito a bella posta Blanc, lo scopritore del cranio?". Lui mi fece capire di sì. Io invece non ci credo. Quel cerchio col cranio era isolato da tutto il resto. In quella grotta si celebrava un rito. E non è escluso che sia stata sigillata dagli uomini e non da una frana».
Ma come si è appassionato alla paleontologia?
«Ero più interessato alla storia romana, in realtà. Prevedendo di scrivere sulle bonifiche dell´agro pontino, mi sono messo a studiarla. Poi mi sono imbattuto nei cocci, mi sono iscritto all´università: ho preso 30 e lode a "Metodologia e tecnica dello scavo". Gli scienziati credono che non ne sappia niente di tutto questo, eppure ho all´attivo due campagne archeologiche. Non pensavo di risalire al Neandertal, ma quando ho scoperto questa storia ci ho visto poco chiaro e ho voluto approfondire».
Ha approfondito pure il Neandertal senz´acca.
«Se permette, sulla lingua almeno, l´autorità scientifica sono io. Anche in Germania, Neandertal si scrive senz´acca. Comunque, i nemici fanno bene. Un po´ di provocazione serve sempre. Mannaggia, quando ho vinto il premio Strega, i paleontologi devono essere sbiancati…».

Corriere della Sera 13.12.10
L’italiano (non il latino) è la lingua universale della Chiesa
Un volume di Franco Pierno analizza il ruolo assegnato dal Vaticano al nostro idioma come strumento privilegiato della comunicazione
di Paolo Conti


«Pur derivando da ragioni di tipo pratico, l’insegnamento nelle università e nei collegi pontifici determina una progressiva e ormai pienamente acquisita situazione in cui l’italiano è percepito non solo come lingua del territorio vaticano ma anche come lingua universale della teologia e del magistero teologico... L’italiano è ampiamente utilizzato dalla comunità internazionale dei teologi come lingua di scambio e comunicazione». Mentre l’Europa riduce di fatto a tre (inglese, francese e tedesco) gli idiomi veramente ufficiali dell’Unione, l’italiano può contare su una straordinaria agenzia planetaria che l’ha adottato come il proprio inglese: la Chiesa cattolica romana.
Lo spiega molto chiaramente il saggio «Tra universalità e compromessi locali. Il Vaticano e la lingua italiana» di Franco Pierno che appare nel volume, appena uscito, intitolato L’italiano nella Chiesa fra passato e presente edito da Allemandi e frutto di un lavoro parallelo della Società Dante Alighieri e l’Accademia della Crusca con la promozione dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Pierno, dal 2008 Assistant professor al dipartimento degli Studi Italiani della Toronto University, parte da un presupposto. Cioè che il Vaticano «inteso tanto come realtà territoriale quanto come sinonimo di Santa Sede, pur avendo un’apertura necessariamente universalistica, e di conseguenza un atteggiamento plurilingue, intrattiene un rapporto privilegiato e particolare con la lingua italiana». Formalmente non c’è una regola che lo dichiari lingua ufficiale del Vaticano ma è quella usata di fatto nella legislazione e nelle comunicazioni interne. Il latino resta la lingua ufficiale «per i libri liturgici e il magistero papale» ma ormai da anni la nostra è «la lingua veicolare all’interno di un territorio la cui popolazione, secondo le stime più recenti, è italofona al 40% mentre il restante 60% dichiara di parlare altre lingue». Un’abitudine antichissima, ricorda Pierno, che fa risalire a Martino V verso il 1420, dopo l’esilio avignonese, la decisione di ricorrere «alla lingua cortegiana romana di forte base toscaneggiante».
In effetti, elenca il saggio, in italiano esce l’edizione principale de «L’Osservatore Romano» dal primo numero dell’1 luglio 1861, seguito poi da versioni in molte altre lingue, e lo stesso avviene alla Radio Vaticana e per il sito web vaticano che, nel suo plurilinguismo, però «mostra facilmente una preponderanza della lingua italiana». Ma è soprattutto nell’insegnamento universitario che l’italiano si consolida come lingua «universale» della cattolicità per un semplice motivo organizzativo: «Nelle istituzioni pontificie i corsi sono tenuti, da ormai diversi decenni, in lingua italiana dopo una secolare tradizione didattica di lingua latina».
Molto interessante un esempio proposto da Pierno a proposito del discorso di Benedetto XVI al campo di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006. In quell’occasione, spiega l’autore, il Papa decide di non esprimersi in tedesco per «buon gusto». Quando elenca il dolore leggibile sulle lapidi («una polifonia pluringue del dolore») lo fa in italiano: «La rievocazione di questo patrimonio comune del dolore espresso in modo multilingue non poteva avvenire che in una lingua ormai riconosciuta come universale e super partes dalla Chiesa: l’italiano».

Corriere della Sera 13.12.10
La svolta mariana degli Stati Uniti
di Vittorio Messori


L’orgoglio degli americani soffriva di una mancanza: già avevano fatto venire Gesù nei futuri States (così affermano i 6 milioni di Mormoni) ma la Madonna, almeno ufficialmente, non era mai stata tra loro. Ma ecco che l’8 dicembre, nel giorno dell’Immacolata Concezione, la Chiesa ha sentenziato in modo solenne, per voce del vescovo di Green Bay nel Wisconsin, che Maria è davvero apparsa nell’America del Nord. È la prima volta che una apparizione negli Usa è riconosciuta ufficialmente come autentica.
Il Messico, nel 1531, ha avuto Guadalupe, che provocò la nascita del santuario forse più frequentato del mondo. Per stare nelle Americhe, autentici pure, secondo la Chiesa, i fatti che diedero vita a un altro enorme santuario, quello brasiliano dell’Aparecida (1717). Il Venezuela vide riconosciute le apparizioni della Finca Betania, avvenute nel 1976. Per non parlare della Francia, che ha il primato (Le Laus, 1664; La Salette, 1846; Lourdes, 1858; Pontmain, 1871). Anche il Giappone (Akita, 1973) e la Polonia (Gietrzwald, 1877), ebbero Maria tra loro. Persino l’Africa Nera (Kibeho, nel Rwanda, 1981) ha goduto di una apparizione mariana dichiarata soprannaturale. Nulla, invece, per gli yankee.
Sinora, lo dicevamo, milioni di statunitensi credevano che le popolazioni originarie della loro terra fossero i discendenti di tribù emigrate da Israele prima di Cristo. E Gesù stesso, dopo la Risurrezione, sarebbe venuto nel territorio dei futuri Stati Uniti. Anzi, proprio qui avrebbe dato il meglio del suo insegnamento. È questo, in effetti, il Credo di quella religione tipicamente made in Usa che è il mormonismo, ufficialmente «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni». Quanto alle presunte apparizioni di Maria, sono state numerose, ma nessuna ha superato le severe inchieste della gerarchia cattolica.
Adesso la svolta, anche se sono occorsi 151 anni per giungere alla decisione. I fatti, in effetti, si svolsero a Champion, sobborgo di Green Bay, nel 1859, cioè un anno dopo Lourdes. Anche nel Wisconsin la protagonista fu una ragazzina, figlia di immigrati belgi. Per tre volte, una Signora radiosa, vestita di bianco, le apparve e le disse: «Sono la Regina del Cielo che prega per i peccatori e desidero che tu faccia lo stesso». Aggiunse poi: «Riunisci i figli di questo Paese selvaggio e insegna loro ciò che devono sapere per salvarsi». Il comando della Signora fu preso radicalmente sul serio, tanto che Adele Brise — questo il nome della veggente — aiutata da un’amica che era presente alle apparizioni e che aveva lei stessa visto e sentito, fondò una Congregazione per l’educazione dei figli dei poveri immigrati. Morì nel 1896 in odore di santità e sul luogo dell’Incontro sorse un santuario ancora oggi molto frequentato: la Chiesa vi permetteva il culto, però non si pronunciava sulla verità delle origini.
L’attuale vescovo di Green Bay, monsignor David Ricken, ha ripreso il dossier storico, impressionato soprattutto dal fervore dei pellegrini e basandosi, dunque, sul criterio dato da Gesù stesso: «Dai frutti conoscerete l’albero». Tanta devozione, durata un secolo e mezzo, poteva avere solo origini genuine. Così, nel giorno della Immacolata, nella sua cattedrale, ha letto solennemente un decreto: «Dichiaro con certezza morale e in base alle norme della Chiesa che le apparizioni e i discorsi ricevuti dalla serva di Dio Adele Brise nell’ottobre del 1859 hanno verità di carattere soprannaturale. Io, con la presente, approvo queste apparizioni della Vergine Maria come degne di fede». Il vescovo precisa che accettare questa verità «non è obbligatorio» per i credenti, ma questa è la norma che sempre vale per questi eventi.
Grande esultanza, comunque, non solo nel Wisconsin ma in tutto il Paese, dove — malgrado tutto — quella cattolica è la comunità religiosa con il maggior numero di aderenti. Come ha osservato Massimo Introvigne, sociologo delle religioni: «Anche questo è un segno che la Chiesa americana è molto cambiata. Dopo l’ubriacatura progressista e la crisi dei preti pedofili, i credenti si sono stretti attorno ai vescovi e al loro insegnamento: anche nel rilancio della devozione mariana».