mercoledì 15 dicembre 2010

«L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale»
Repubblica 15.12.10
Il profeta delle illusioni
di Barbara Spinelli


C´è chi dirà che l´iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone.

Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l´accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un´alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l´articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l´insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.
Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.
A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l´etica pubblica, esasperando lo sporco spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l´ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l´hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.
Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell´opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s´insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c´è, dietro l´apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel ´94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell´uso di gas nella guerra d´Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel ´38.
Un´uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all´opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall´anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.
Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: «La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali».
Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.
È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l´Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l´ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l´interiorizzazione non c´è stata. Anche tra il ´43 e il ´44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel ´46 all´elezione dell´assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.
Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d´altro genere – il rischio di uno Stato in bancarotta–e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L´impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d´insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano («Il Quirinale vuole un governo solido») come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.
L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d´opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l´equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell´interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall´inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d´opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell´informazione, autonomia della magistratura, lotta all´evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d´interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt´altro che ridicolo o provinciale.
I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L´unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna «o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono». Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell´ozio: «Sono pronti a dire ai veggenti: ‘Non abbiate visioni´ e ai profeti: ‘Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni´».
Il profeta d´illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.

l’Unità 15.12.10
Un Paese sconfitto
di Concita De Gregorio


Da dove vogliamo cominciare? Dai leghisti in aula avvolti nel Tricolore o dalle auto in fiamme e i novanta feriti nel centro di Roma, dagli pseudo manifestanti che difendono l’idv «Scilipoti dallo strapotere delle banche» e plaudono al suo sostegno al governo e alla sua liberazione dal bisogno o da quegli altri (manifestanti?) che tranquillizzano proteggendolo col braccio il finanziere che in strada impugna la pistola? O forse dalla fine, dal bacio di Berlusconi a Casini e quel che racconta e promette?
Il governo ottiene la maggioranza alla Camera per tre voti 311 a 314 e da qualunque parte la si guardi, la giornata campale di ieri, da qualunque fotogramma si decida di partire è una giornata cupa, grottesca, ridicola, misera, a tratti tragica: in strada tragica. È la giornata della sconfitta: la giornata che segna la sconfitta della politica intesa come confronto di idee e di progetti, l’unico modo lecito di intenderla, la sconfitta di un paese che esibisce al mondo intero come successo la tenuta di un governo che compra col denaro e col ricatto i parlamentari che gli servono e una piazza che dice che la sfiducia è nelle strade, che siamo a un passo dall’irreparabile, che basterebbe niente, ma proprio niente, per trasformare la guerriglia urbana in guerra civile e a poco varrebbe dopo cercare i colpevoli. Dopo è sempre troppo tardi. La tensione sociale è altissima, la distanza tra le scene vissute per strada e quelle viste a Palazzo enorme: per uno Scilipoti o una Polidori che si garantiscono i favori del premier, accolti in saletta riservata per i ringraziamenti, ci sono fuori migliaia di manifestanti, i campani travolti dall’immondizia e gli aquilani dalle macerie, giovani esasperati a cui nessuno farà altrettanti favori, che siano o non siano strangolati dai tassi d’interesse delle banche come il deputato messinese eroe d’un giorno, o di quel giorno lapide.
Ha perso l’opposizione, di un soffio. Perché si possono fare in tanti modi i conti di poi ma non c’è nessun dubbio che se Razzi e Scilipoti, eletti con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, avessero votato con il partito che li ha messi in lista sarebbe finita 313 a 312, il governo battuto. Ha perso Fini perché è altrettanto vero, scegliendo un altro conto del poi, che se le due deputate del suo gruppo Polidori e Siliquini avessero seguito le indicazioni di Futuro e libertà il risultato finale sarebbe stato lo stesso, nonostante i mutui estinti e le università private finanziate (promesse, poi vedremo) ai due idv. Ha perso il Pd e non tanto per Calearo, su cui tutti oggi si accaniscono ma che da tempo aveva traslocato all’Api di Rutelli prima, al gruppo misto poi e infine a quell’improbabile gruppetto di sedicente "responsabilità" si sapeva, di Calearo, e da molto: le sorprese sono state altre ma perché non è stato possibile, evidentemente e per ragioni che i mesi a venire diranno, chiudere un’intesa su una possibile legge elettorale che tenesse insieme una maggioranza alternativa. In questo gran parte ha avuto Casini, che con tutta evidenza baciato in pubblico dal premier non ha perso niente come è solito fare, non vince e non perde quasi mai. Una certa parte l’ha avuta anche la sinistra di Vendola che reclama elezioni, orizzonte del resto prima o dopo inevitabile e oltretutto davvero in queste condizioni salutare.
L’unico problema sembra essere che si andrà molto probabilmente a votare con questo stesso sistema elettorale: quello che ha prodotto i Razzi i Siliquini i Calearo che difficilmente sarebbero stati eletti se la scelta fosse davvero in mano agli elettori.
Ha perso persino colui che in serata con voce impastata vanta da Bruno Vespa di aver vinto: perché ha vinto, sì, ma ha vinto la sua convinzione fondatissima: purtoppo in questo B. ha ragione che si trova sempre qualcuno da corrompere, c’è sempre all’ultimo minuto qualcuno da convincere, con le buone o le cattive da comprare. Diceva Bossi, in aula, un momento prima del colpo di scena: tranquilli, abbiamo anche l’ultimo voto. Ce l’avevano, in effetti. È comparso sotto le spoglie gentili della deputata umbra Catia Polidori, futurista di cui nessuno aveva sino ad allora dubitato, salutata in aula da un applauso scrosciante a mani alte di La Russa e dei suoi sodali, causa di una rissa che fa sospendere la seduta, l’esperto Menia che divide i colluttanti, il grosso Corsetto che si frappone, Fini che sospende i lavori. Battutacce, fischi, applausi. Di Catia Polidori hanno scritto per settimane e in tempi non sospetti il Corriere la Repubblica e i massimi quotidiani finanziari che fosse parente stretta di Francesco Polidori, il signor Cepu, quello che aveva assicurato a Berlusconi una capillare campagna di porta a porta, quello che ha di recente ottenuto votato anche da Catia i favori di una legge che fa grande beneficio al suo istituto per studenti difficili di famiglie facoltose. Ieri in tarda serata, dopo che Luca Barbareschi aveva detto «è stata minacciata, le hanno giurato che avrebbero fatto chiudere la sua società», la deputata Polidori ha smentito di essere legata da parentela al suo omonimo: sono solo vicini di casa, ha detto, in una frazione di Città di Castello che conta 30 abitanti, evidentemente in maggioranza Polidori. Coincidenze.
Siamo sconfitti noi, tutti noi italiani che da settimane siamo costretti ad occuparci dei casi privati le prime mogli, le aziende, i mutui di deputati di terz’ordine ci cui nessuno fino ad oggi aveva sentito parlare e che all’improvviso diventano portatori di un immenso valore marginale, decisivi per le sorti del paese. Se il signor B resta in sella lo si deve a gente come Siliquini, Catone, Cesario, Razzi, Grassano, astenuti Moffa e Gaglione, qualcuno di voi sa dire in cosa si siano distinti finora, a parte forse le loro rispettive professioni? Alcuni di loro hanno tenuto ieri l’aula col fiato sospeso fino all’ultimo: mai nessuno, immaginiamo neppure in famiglia, aveva atteso l’arrivo di Scilipoti con tanta apprensione. Mai l’ingresso in aula di Giulia Cosenza, madre imminente, era stato salutato da tanto sollievo. Federica Mogherini e Giulia Bongiorno, le altre partorienti, accolte da applausi di metà emiciclo. Può un governo dirsi vittorioso a queste condizioni? Possono gli italiani riconoscersi in un simile sistema di rappresentanza? Si può sperare qualcosa di meglio con queste stesse regole, per l’avvenire?
Chi ha più soldi e più potere vince, è questa l’unica regola. Chi ha più soldi, chi può pagare di più e minacciare più forte, chi è più persuasivo. Non è più una questione di idee, la politica non c’entra: il gruppo dei finiani si è smarcato in nome di un’idea, ha cambiato posizione in nome di un dissenso. Ha provato a immaginare una destra possibile senza e dopo il signor B., senz’altro anche immaginando il proprio avvenire: politico, tuttavia. Il proprio avvenire politico. Non un’opposizione da sinistra: un’opposizione da destra. In questo caso ha prevalso l’immediata competizione interna che si scatena ad ogni latitudine fra aspiranti bracci destri del capo: Moffa e non è il solo a pensarlo ha chiesto le dimissioni di Bocchino, ieri. Troppo potere a Bocchino, troppo in vista, troppo favorito: perché lui sì e noi no?
Dentro questo: Melania Rizzoli avvolta al tricolore e l’avvocato Consolo fischiato per aver detto no, gesti dell’ombrello e cori, baci alle dame, favori al cavalieri. Fuori la guerriglia. Roma, in una giornata prenetalizia, deserta: mezzi pubblici sospesi e blindati a transennare le strade, passanti inconsapevoli e turisti sbigottiti. Poi le fiamme, auto bruciate e letame che vola, sampietrini petardi bastoni, agenti in borghese indistinguibili dai manifestanti, manifestanti resi irriconoscibili dai caschi. Studenti delle medie che riparano a casa degli amici per paura, insegnanti che chiamano casa dicendo i ragazzi li teniamo a scuola, fuori c’è pericolo.
Non è una capitale che abbia vinto niente, questa. Non è normale dissenso, non è un Italia in cui continuare a vivere, o per chi lo preferisca tirare a campare, sereni. Non si tira a campare così. Chissà cosa pensa davvero Bossi, che oggi all’improvviso dice con insolita indulgenza verso il detestato Casini che non c’è “nessuna preclusione verso l’Udc”. Chissà se davvero il morbido intervento del suo Giampero D’Alia prelude a una nuova intesa con gli ex democristiani oggi perno del terzo polo, se il terzo polo farà da terza gamba al governo Scilipoti. Ogni tempo ha i suoi trenta denari, diceva l’altra sera Casini in tv. Giuda era uno, però. Qui c’è la fila, col numero in mano. Quindici giorni di troppo, aveva detto Bersani quando la fiducia fu fissata al 14 dicembre con pausa di chiusura delle Camere. Aveva ragione. Due settimane di mercato di troppo. Ora, all’orizzonte, non resta altro che un vivacchiare scambiandosi di volta in volta il sacco dei denari. O il voto, certo.

l’Unità 15.12.10
Il segretario parla di «governo Scilipoti». Franceschini loda la compattezza dei 206 deputati Pd
D’Alema: «Berlusconi fattore di corrompimento». Confronto sulle alleanze, i malumori di Fioroni
Bersani: vittoria di Pirro «Di più non potevamo fare»
«Siamo al governo Scilipoti» ̧ è l’amaro commento del segretario del Pd. Si precipita verso il voto, sul piatto c’è il tema delle alleanze, Veltroni oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico. Fioroni si farà sentire.
di Simone Collini


Bersani si affida all’ironia, per quanto amara: «Siamo al governo Scilipoti». D’Alema, tagliente: «Berlusconi si conferma un fattore di corrompimento della vita pubblica». Franceschini sottolinea il voto unanime dei 206 deputati Pd e il fatto che la mozione di sfiducia
«sarebbe passata se non ci fossero stati i tradimenti di due deputati dell’Idv». Letta invita tutti a «non mollare» dopo questo «primo passo»: «Dobbiamo proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini».
I dirigenti del Pd escono dall’Aula e via via si infilano nell’ufficio del segretario a Montecitorio, nella cosiddetta Galleria dei presidenti. Il risultato della votazione è stato dato da pochi minuti. Su un divanetto di fronte ai ritratti di Saragat e Terracini siede tutto sorridente Scilipoti, che mette il telefonino in modalità viva voce per far sentire al collaboratore che gli sta accanto che Berlusconi lo ha chiamato per ringraziarlo. Arrivano anche Bindi, Fassino, Marino, Fioroni, Gentiloni e Veltroni. Fi-
nocchiaro è bloccata al Senato per via degli scontri di piazza. Anche nel Transatlantico della Camera inizia ad arrivare l’odore di bruciato. Nella stanza di Bersani c’è un clima non proprio allegro. Di fronte agli altri seduti in circolo, il segretario definisce quella di Berlusconi una «vittoria di Pirro», difende la strategia seguita fin qui «abbiamo ottenuto il massimo possibile in questo momento, prima avevamo di fronte una maggioranza di un centinaio di voti, ora si sono ridotti a tre» ribadisce che nell’azione di contrasto al governo ci saranno «rapporti» anche con Fini e Casini e continua a insistere sulla necessità di dar vita a un «governo di responsabilità nazionale». Linea difesa da Franceschini, D’Alema, Bindi e non contestata da nessuno nel corso della riunione.
PERPLESSITÀ E CRITICHE
Ma Veltroni, che oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico e ha deciso di far slittare di una settimana il Lingotto 2, rimane convinto che adesso il Pd debba «investire su se stesso» evitando di impegnare tutte le energie nelle strategie parlamentari con le altre forze politiche. E Fioroni, che sta dando vita a una fondazione di ex-ppi (il nome potrebbe essere, parafrasando don Sturzo, «Liberi dai forti») evita di ripetere durante la riunione ristretta le critiche espresse di fronte ai suoi per la scelta degli interventi in aula: «D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, manca Occhetto e hanno rifatto il Pds»).
Ma lasciando la stanza del segretario e arrivando in Transatlantico, Fioroni non nasconde le sue perplessità per il credito dato ai finiani: «L’avete ascoltato l’intervento di Bocchino? L’avete per caso sentir fare almeno un accenno al governo di responsabilità nazionale?». A un altro ex-popolare come Grassi non sono piaciuti neanche i riferimenti del capogruppo Fli all’Msi e Parisi, che pure era stato tra i primi a sollecitare la presentazione di una mozione di sfiducia, attacca: «Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni, invece che all’inseguimento di un inesistente terzo polo. Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea di condotta?». Per non parlare delle critiche proveniente dal fronte dei “rottamatori”, con Civati che constata che «la zona gianfranca, come temevamo, non ha retto» e con il sindaco di Firenze Renzi che critica apertamente la strategia seguita dai vertici Pd: «Fini in 30 anni non ha azzeccato una mossa, neanche per sbaglio. Penso a chi ha osannato Fini in questi 6 mesi, convinto fosse un “compagno” solido per il futuro».
Lo scenario
Veltroni oggi riunisce quelli di MoDem Dubbi su Fli e Casini
LE URNE E IL NODO ALLEANZE
Bersani per ora non si preoccupa, ma sa che presto potrebbe scatenarsi una discussione all’interno del Pd. Se è vero che anche dopo questo voto «non cambia nulla, il governo non ce la farà e la crisi politica ne esce drammatizzata», è anche vero che lo sbocco più verosimile in questo quadro sono le elezioni anticipate. Bersani rimane convinto che «per un Paese nei guai, pensare al voto è da irresponsabili», ma dice anche che il Pd non teme le urne. Il nodo delle alleanze è però ancora tutto da sciogliere. Non a caso alla riunione si è preferito evitare di impegnarsi in una discussione su questo punto.
Bersani punta a una coalizione in cui non rimangano fuori i centristi, e l’annuncio di Casini che in caso di voto l’Udc non si alleerà al Pd non ha fatto piacere. Un’alleanza ristretta a Pd-Idv-Sel avrebbe poche chance. Inoltre ha provocato non poca irritazione tra i Democratici, tra i lettiani ma non solo, il fatto che in una giornata come questa Vendola si aggirasse per la Camera dicendosi pronto a candidarsi a premier.

l’Unità 15.12.10
Vendola sorride e scalda i motori: «Si vota a marzo Adesso primarie»
Vendola “festeggia” il risultato della Camera: «Non partecipo col cuore alle vicende del palazzo, non c’è spazio per formule artificiali che non hanno fondamento. Si vota a marzo, subito le primarie e io sono pronto».
di A.C.


Scalda i motori, Nichi Vendola. E non fa nessuno sforzo per mostrarsi dispiaciuto della vittoria ai punti del Cavaliere. «Non partecipo col cuore alle vicende del Palazzo», sorride il governatore passeggiando per il Transatlantico, quando ormai la polvere degli scontri del mattino si è depositata. Non si era mai mostrato particolarmente entusiasta dell’asse del Pd con Fli e Udc, e che vedeva come il fumo negli occhi un governo di transizione che avrebbe allontanato le urne di vari mesi, forse di più. Anche se autorevolissimi dirigenti del Pd lo avevano chiamato per chiedergli fair play, «non sparare contro il nuovo governo, se puoi». E invece no. Alcuni deputati pugliesi del Pd ci scherzano su: «Nichi è sempre maledettamente fortunato...». E lui insiste: «Questa legislatura è finita, è evidente che non c’è spazio per costruire formule un po’ artificiali che non hanno fondamento qui, e soprattutto nella realtà». Ecco, appunto. Vendola, anche per ragioni oggettive, visto che non ha deputati, guarda fuori dai palazzi, alle primarie che (forse) verranno se si andrà alle urne a marzo, come lui stesso pronostica: «Sono pronto a candidarmi per fare il leader del centrosinistra», confida, poco prima che Fini proclami il risultato del voto di fiducia. «È l’Italia che sta sfiduciando Berlusconi, c’è un sentimento collettivo dilagante, tanta gente che non sopporta più questa scena. Il problema è tradurre questa rabbia in un processo positivo».
Sorride Vendola, anche perché non vede nel voto un successo del Cavaliere: «314 è un numero male-
detto, una vittoria provvisoria, la peggiore: è un attimo di euforia che due secondi dopo si trasforma in depressione». Primarie dunque. Da fare «in fretta». «E non lo dico da oggi, do semplicemente voce a una cosa che è nella realtà».
SEL: PRIMARIE A GENNAIO
Il governatore pugliese sintetizza la sua analisi sulle prossime fasi del governo: «Berlusconi tenterà di allargare la maggioranza alle forze centriste, ma penso che non troverà terreno fertile per un nuovo centrodestra». Ecco perchè si voterà presto, a marzo. E allora i gazebo «vanno convocati immediatamente», dice Gennaro Migliore, uno dei colonnelli di Vendola. «Si sono consumati tutti i margini per le manovre di palazzo, l’alleanza naturale che il nostro popolo si aspetta è Pd-Idv-Sel, per eventuali allargamenti si vedrà poi», dice Migliore. Che fissa a «fine gennaio-inizio febbraio» la data utile per le primarie. «Per noi si potrebbero anche fare insieme a quelle di Bologna e Napoli, il 23 gennaio». «Prendere altro tempo e rinviarle ancora sarebbe una beffa per gli elettori. Le primarie sono l’unica strada per mobilitare i nostri elettori, per vincere poi le elezioni vere». E l’alleanza del Pd con Casini? «Quella è sempre stata solo nella mente dei dirigenti del Pd, Casini ha già detto che alle urne si presenterà da solo», dice Migliore. «Ha ragione Parisi: quante altre sconfitte servono prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea?».

l’Unità 15.12.10
Maroni: tutto ha funzionato Ma Bersani accusa: «Spieghi le infiltrazioni violente»
Polemica sulla sicurezza. Il ministro dell’Interno: gestione equilibrata delle forze dell’ordine. Il segretario del Pd punta il dito: «Nessuno ha impedito che si infiltrassero violenti». E Fini parla di «episodio ignobile».


«Se non c'erano i blindati li avremmo visti arrivare qui con i martelli e i picconi», prova a schermirsi Roberto Maroni con i deputati che gli raccontano quale impresa sia stata, ieri, conquistare l’ingresso in Parlamento. E più tardi il ministro dell’Interno affida al capo della Polizia Manganelli il messaggio per il questore di Roma e per tutte le forze dell’ordine, per apprezzare «l'equilibrio e l'oculata gestione dimostrata in tutte le fasi della manifestazione». Ma gli scontri in centro, per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani mettono a nudo come qualcosa non abbia funzionato.
Quando si calma l’aria nelle strade, tutti sono d’accordo nell’esprimere solidarietà agli agenti feriti. Ma è polemica sugli incidenti e la violenza
di questa giornata di fuoco. Con un centrodestra che fa passare l’intero fronte delle mobilitazioni per un esercito di agitatori fino a un Maurizio Gasparri che guarda a sinistra e lancia accuse di complicità «con chi attua la violenza» e Pier Luigi Bersani che chiama in causa con più precisione Maroni: «È intollerabile che dentro le manifestazioni siano riusciti a inserirsi teppisti, violenti e black block ben riconoscibili, e che sia stato possibile produrre devastazioni in pieno centro a Roma. Maroni dovrà chiarire». Durissimo, intanto, il commento del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che sfila a piazza del Popolo per salutare la polizia dopo gli scontri: «C'è stato una sorta di raduno nazionale di tutti coloro che avevano l’obiettivo non di manifestare un'opinione, ma di attaccare le forze dell'ordine e impedire il legittimo percorso dell' attività parlamentare». Sulla stessa linea il ministro del Lavoro, Sacconi: «Una violenza vergognosa che merita solo repressione».

Corriere della Sera 15.12.10
Pd sconfitto, ma Bersani non cambia linea
di  Maria Teresa Meli


ROMA — Lo hanno capito veramente solo un’oretta prima della votazione. Ma in realtà, tranne poche eccezioni, i dirigenti del Partito democratico non ci speravano troppo. Sapevano che i numeri erano ballerini. È stata una sconfitta, sì, anche se meno cocente di quella subita da Fli. E di fronte all’insuccesso, il partito deve mostrarsi unito e solidale. Perciò Pier Luigi Bersani ha convocato il caminetto con tutti i leader, da Veltroni a D’Alema, passando per Fioroni, Gentiloni, Fassino, Franceschini e Marini. Un incontro veloce che dura solo mezz’oretta e che avrà una coda oggi. La versione ufficiale è che tutto è filato liscio come l’olio e che non c’è nessuna divergenza. La accreditava anche la minoranza interna, perché la consegna è stata questa. Gli unici che hanno turbato la pseudo-quiete in casa democratica sono stati Matteo Renzi e Arturo Parisi. Il sindaco di Firenze ha preso in giro quelli che nel suo partito (quasi tutti praticamente) hanno «osannato Fini in questi sei mesi, convinti che fosse un compagno solido per il futuro» , lui che «in 30 anni non ha azzeccato una mossa, nemmeno per sbaglio» . Insomma, una critica, neanche troppo velata, alla linea Bersani-D’Alema. Renzi è fatto così, ama parlare pane al pane e vino al vino. Anche Parisi non è riuscito a fare finta di niente e a tacere: «Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente riveda la sua linea di condotta?» . In realtà Renzi e Parisi non sono gli unici a pensarla così. Perché se è vero, come accreditano le versioni ufficiali, che non c’è stata nessuna lite nel caminetto è anche vero che in quella riunione sono emerse due posizioni molto diverse, se non addirittura opposte. Da una parte, Bersani: «La nostra linea non cambia di una virgola» . E D’Alema che ha ipotizzato la possibilità di varare ancora adesso un governo di transizione. Dall’altra, Veltroni, Fioroni e Gentiloni che hanno chiesto al segretario un momento non c’è stata nessuna lite nel caminetto è anche vero che in quella riunione sono emerse due posizioni molto diverse, se non addirittura opposte. Da una parte, Bersani: «La nostra linea non cambia di una virgola» . E D’Alema che ha ipotizzato la possibilità di varare ancora adesso un governo di transizione. Dall’altra, Veltroni, Fioroni e Gentiloni che hanno chiesto al segretario un momento di confronto nel partito sulla strategia da seguire, perché il Pd non può limitarsi a fare da comprimario a Fini e Casini. «È indispensabile riprendere in mano noi l’iniziativa» , è stata l’esortazione di Veltroni. Per dirla in poche parole, secondo l’ex segretario del Partito democratico «non è possibile fare finta di niente» : la linea strategica è da rivedere, assolutamente. Anche perché, ad avviso di Gentiloni, pur se meramente «tattico» il successo di Berlusconi non può essere derubricato come un «evento marginale» . Sulla stessa lunghezza d’onda Fioroni. Ma con una preoccupazione in più: «Siamo veramente così sicuri che Berlusconi e Casini non tornino a parlarsi in un futuro non più lontanissimo?» . Il rischio effettivamente c’è. Ed è presente a tutti. Proprio per questo secondo Enrico Letta «tattico» il successo di Berlusconi non può essere derubricato come un «evento marginale» . Sulla stessa lunghezza d’onda Fioroni. Ma con una preoccupazione in più: «Siamo veramente così sicuri che Berlusconi e Casini non tornino a parlarsi in un futuro non più lontanissimo?» . Il rischio effettivamente c’è. Ed è presente a tutti. Proprio per questo secondo Enrico Letta «non bisogna mollare proprio ora e si deve invece proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini» . Opposta la posizione dell’ex ppi Giorgio Merlo, vice presidente della commissione di vigilanza Rai: «È bene che Fini, d’ora in poi, vada per conto suo e che non si continui a considerarlo un alleato decisivo» . Dunque, i problemi ci sono, nel Pd, anche se per il momento hanno deciso tutti di stabilire una tregua. Bersani ha convocato il caminetto a questo scopo: per capire se fosse possibile restare ancora uniti almeno fino a quando non si capirà come vanno a finire queste tormentate vicende politiche. E a questo proposito nessuno se la sente di escludere le elezioni. Comunque, finché regge la tregua interna, si va avanti seguendo l’indicazione di Bersani: «Sarà battaglia con le altre opposizioni contro il governo» . Avanti tutta con il tentativo di metter sotto Berlusconi alla Camera nelle votazioni che verranno: i prossimi appuntamenti potrebbero essere la mozione di sfiducia a Bondi e il decreto sui rifiuti.

Repubblica 15.12.10
Bersani tira dritto: "La linea è giusta" ma per la minoranza la rotta va corretta
Il leader pd: il governicchio cadrà. Renzi attacca
I veltroniani chiedono di cambiare linea: "Pensare meno alle alleanze"
di Giovanna Casadio


ROMA - Fino all´ultimo il Pd ha sperato di vincere la partita. Bersani lo ammette: eravamo a un passo dalla nuova fase. Invece, la doccia fredda. «Eccoci nel governo Scilipoti-Razzi», che svela la fragile vittoria di Berlusconi, «una vittoria di Pirro, una scandalosa compravendita dei voti che consegna al Paese un governo più debole e un´opposizione più ampia e un esecutivo nell´impossibilità di dare una rotta». Pochi minuti dopo la fiducia a Berlusconi, il segretario democratico riunisce i big nel suo ufficio a Montecitorio. «Grazie a noi la maggioranza non c´è più - esordisce - ci siamo mossi bene, l´opposizione si è allargata».
E la strategia Pd resta la stessa: no alle elezioni-iattura per il Paese («Chi pensa al voto è irresponsabile»); prestissimo il «governicchio» cadrà, la battaglia ora si fa dura; ci vuole «un governo di transizione». Ma, al di là delle rassicurazioni, per i Democratici, delusi e preoccupati, comincia una difficile scommessa: da un lato, ritrovare un´unità non di facciata come è stata la tregua in attesa della spallata; dall´altro attrezzarsi per affrontare le elezioni che restano uno spauracchio. Matteo Renzi, il "rottamatore" (messo sotto accusa nel partito per essere andato una settimana fa ad Arcore da Berlusconi), si toglie la soddisfazione di dire su Facebook quel che pensa di Fini e di chi si è fidato di lui: «Fini in trent´anni non ha mai azzeccato una mossa, neanche per sbaglio», e c´è stato chi «lo ha osannato in questi sei mesi, convinto fosse un compagno solido per il futuro».
Walter Veltroni e gli altri Modem chiedono al segretario di «cambiare linea», di «tornare a dare le carte e pensare meno alle alleanze». Rischia di essere il Pd troppo a rimorchio di Fini, in pratica. Lo dice Beppe Fioroni, l´ex popolare, che fa pesare la sua forza contando gli aderenti (48) alla Fondazione appena creata. Torna il mantra della scissione dei Modem e della creazione di gruppi autonomi. Smentita indignata: tutte balle. «I gruppi separati non li faranno mai - commenta Franco Marini, leader storico dei Popolari e bersaniano - Ma dove vanno? Rompono, anche se non hanno tutti i torti». Amara considerazione di Arturo Parisi, braccio destro di Prodi quando quel governo fu sfiduciato la prima volta: «Nel 1998 dissi che avevamo perso, ma non ci eravamo perduti; ora abbiamo perso e ci siamo perduti. Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni e non all´inseguimento di un inesistente Terzo Polo. Quanto ci vuole prima che il Pd riveda la sua condotta?».
I Democratici non vogliono sentire parlare di resa dei conti. Già oggi dovrebbe tenersi un nuovo coordinamento; questa sera, assemblea di Modem. C´è irritazione per l´Opa lanciata da Berlusconi sui «democristiani» del Pd. Rosy Bindi, cattolico- democratica e presidente del partito, reagisce: «Berlusconi non punti le sue carte su chi viene dalla storia della sinistra dc. Lui è solo un´anatra azzoppata». Si apre un fronte di aspra polemica con i dipietristi. Dario Franceschini accusa: «Se non ci fossero stati due traditori dell´Idv, Scilipoti e Razzi, avremmo vinto: il Pd è stato compattissimo». Per Idv sono «affermazione sciacallesche». Il Pd sa che la battaglia per fare cadere il governo ora inizia davvero: ci sarà il Vietnam delle commissioni; il decreto-rifiuti; la mozione di sfiducia a Bondi. Nichi Vendola in Transatlantico ieri rilancia: «Se si vota, e le elezioni sono più vicine, sono pronto alla premiership del centrosinistra».

Repubblica 15.12.10
D´Alema: con questi numeri lo sbocco più naturale restano le elezioni
"Da cretini fare dietrofront il dialogo con Udc e Fli necessario alla transizione"
di Goffredo De Marchis


Fini ha fatto una battaglia vera contro Berlusconi. Gli va dato atto. Certo, non ha né i soldi né il potere del Cavaliere
Bel partito del cavolo ha fatto Di Pietro. Loro la vera opposi-zione? Figuriamoci. E qualcuno gli dà pure corda

ROMA - «Mentecatti». Così Massimo D´Alema definisce quelli che ora mettono in discussione il sogno democratico di un governo di responsabilità istituzionale e la strada del dialogo con il Terzo polo di Fini e Casini. «Credo che nessuno nel Pd sia così stupido da poter sollevare questa obiezione. Cosa dovevamo fare? Votare la fiducia a Berlusconi per non fare sponda con Fli e Udc? Roba da mentecatti, appunto. La politica non è fatta di scenari, è una scienza semplice, basta ragionare». Eppure intorno al Pd le voci critiche sulla linea non mancano. Da Renzi ai veltroniani, da Fioroni a Parisi. Naturalmente, il presidente del Copasir non fa nomi. «Cretini in giro ce ne sono sempre. Ma spero che nel Pd non vengano fuori».
La sconfitta del fronte di opposizione D´Alema non può negarla. «Partivano da più 70 deputati, sono arrivati a più 3. Prima o poi vinceremo noi», è il commento al voto sulla fiducia venato da una nota di amarezza più che di sarcasmo. «Ma Berlusconi può governare con questi numeri? Assolutamente no. Già domani (oggi per chi legge ndr) si vota alla Camera e si troverà davanti la stessa opposizione. Vale a dire un Parlamento diviso a metà». A questo punto D´Alema scommette tutto sulle elezioni. «È lo sbocco più logico, mi pare». Senza rinunciare però allo spiraglio di un altro governo, di un esecutivo di transizione. «La prospettiva di un´alleanza con Fini e Casini resta in piedi, il voto a Montecitorio non la esclude». La allontana, però. Il presidente della Camera si è indebolito, per esempio. «Fini ha fatto la sua battaglia contro il premier, una battaglia vera - risponde D´Alema -. Gli va dato atto. Certo, non ha né i soldi né il potere di Berlusconi. Questo conta». Per l´ex premier il Parlamento ha raggiunto il livello più basso di «degrado mai visto nella storia della Repubblica. Deputati comprati, deputati nascosti dietro le tende fino all´ultimo per proteggere la vergogna di un voltafaccia. Uno spettacolo indecente per le istituzioni, per la democrazia. Che dobbiamo in larghissima parte a Berlusconi, alla sua parabola politica. Motivo in più per togliercelo dalle scatole (non dice proprio scatole, ndr)».
Il Partito democratico, al pari di Fini, ha fatto la sua battaglia, con i compagni di strada giusti. «Non siamo in un angolo. E non è vero - spiega D´Alema - che ora dovremo lavorare in una cornice di alleanze che va da Vendola a Di Pietro e basta. Chi lo dice? Le altre porte restano aperte per noi». Sicuro? «Noi dobbiamo fare la nostra parte ma non possiamo rispondere anche per gli altri. Non decidiamo solo noi». L´Italia dei Valori, ancora di più dopo la diserzione di due suoi deputati, è un partner indigesto per il presidente del Copasir. «Bel partito del cavolo (non dice proprio cavolo) ha costruito Di Pietro. Sono gli stessi che mettono i manifesti con la scritta "la vera opposizione". Loro, la vera opposizione. Figuriamoci. E qualcuno gli dà pure corda, i giornali li esaltano, credono o vogliono credere che sia davvero così». Il Pd non è messo male, secondo D´Alema, perché «ha dimostrato di essere la forza centrale dell´opposizione. Ha portato 206 deputati su 206 a votare la sfiducia. E il suo lavoro è cominciato prima, con le battaglie parlamentari delle ultime settimane, con la manifestazione di piazza San Giovanni. C´è un gruppo dirigente unito, non isolato, che non ha perso il sostegno della sua gente».
Non abbandonare Fini, non consegnare Casini al centrodestra, semmai scaricare Di Pietro sembra lo schema seguito da D´Alema. Dire che il governo di responsabilità è «ancora in campo» significa prendere atto dei numeri difficili per il premier ma anche tenere insieme un´ipotesi di coalizione in vista delle elezioni anticipate. Certo, per realizzarla ora ci vorrà una nuova iniziativa del Pd. Magari l´offerta a Casini della candidatura a premier che scavalcherebbe Bersani ma darebbe sostanza alla strada di un accordo. «Vengo adesso da una riunione con il gruppo dirigente. Siamo uniti, nessuna spaccatura», dice. Il che non esclude divisioni nelle prossime ore, anche laceranti. Ma il presidente del Copasir sa che solo un Partito democratico compatto può condurre in porto operazioni difficili come una nuova alleanza che rompe vecchi rapporti, che ha più di un nemico tra i democratici, che deve convincere potenziali alleati dubbiosi. Altrimenti un centrosinistra limitato a Pd, Di Pietro e Vendola diventa inevitabile.

il Riformista 15.12.10
Al Pd che cerca alleati il Terzo Polo dice no
L’Udc si sfila,Vendola inizia il pressing: «Pronto a candidarmi a premier del centrosinistra». I democrat sempre più divisi sulla strategia da seguire
di Ettore Colombo


Repubblica 15.12.10
Se la Chiesa assolve il suicidio e non l’eutanasia
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, grazie per aver pubblicato la mia lettera, anche se nella sua risposta trovo una affermazione parzialmente vera, e cioè «la Chiesa concede i suoi riti ai suicidi in base al sofisma: nell'ultimo nanosecondo potrebbe essersi pentito». Lei commenta «è una scappatoia un po' vile». In realtà la Chiesa aveva già manifestato in alcuni documenti conciliari la sua volontà di dialogare con le "scienze umane", in quanto ci permettono di considerare i possibili condizionamenti di ordine psichico-fisico o sociale che possono determinare una scelta. Tutto ciò che condiziona una scelta, la rende meno libera e responsabile. Ecco perché si è più prudenti, da qualche tempo, nel "giudicare" una scelta drammatica come quella di togliersi la vita, lasciando il Giudizio solo a Dio. È importante che la teologia, dialoghi con le scienze umane, in modo particolare con le neuroscienze, per una migliore conoscenza della persona umana e del complesso mondo che la circonda. Anche in questo caso fede e scienza, come continua tenacemente ad affermare Benedetto XVI, non sono in contrasto, non si escludono, ma possono dialogare.
Don Felice Bacco - Canosa di Puglia

Mi dispiace sinceramente, davanti alla cortesia di don Felice, dover insistere. Ma non vedo la differenza tra colui che scrive una lettera d'addio e si spara alla tempia e il povero Welby che, disperato, rifiuta di continuare ad essere prigioniero della sua carcassa immobile e implora di essere "liberato". Al primo la Chiesa concede il rito funebre, al secondo no. La mia ipotesi è che la differenza sia "politica": il diverso clamore delle vicende, il possibile valore esemplare della seconda, come accaduto anche per Monicelli. Più in generale noto che non esiste una vera spiegazione alle parole tante volte ripetute "fine naturale della vita" che se vengono analizzate rivelano di non avere molto senso. Mi scrive Elisa Merlo ( lisamer@ tiscali.it ): « Riguardo alla "morte naturale", spiacente per don Felice Bacco, la confusione resta. La Chiesa afferma che il "tramonto naturale" è stabilito da Dio (cf Catechismo , enciclica Evangelium vitae , ecc.). Ora, giacché la lunghezza della vita è cambiata nel corso dei secoli, e cambia secondo il luogo dove si nasce, vien fatto di chiedersi se Dio cambi idea, stabilendo che generazioni di sue creature "tramontino naturalmente" per esempio a quarant'anni, altre invece a settanta. La somministrazione di medicinali o l'intervento di una macchina della tecnologia clinica può determinare l'ora della "morte naturale". Tutto stabilito da Dio?». Infatti la questione non si scioglie. Siamo di fronte a una di quelle espressioni che suonano benevole e rassicuranti ma prive di vera sostanza logica e assai deboli anche dal punto di vista teologico.

l’Unità  15.12.10
Il partigiano e l’ultimo Rom di Auschwitz
Mirko, Amilcare e la memoria dell’Italia
di Dijana Pavlovic


In questi ultimi giorni sono morti Mirko Levak, rom kalderash di Marghera, l’ultimo rom sopravvissuto ad Auschwitz, e Amilcare Debar, detto «Taro», sinto piemontese, staffetta e partigiano combattente (col nome di «Corsaro») nella 48 ̊ Brigata Garibaldi «Dante Di Nanni», comandata da Napoleone Colajanni, «Barbato». È stato ferito nella battaglia delle Langhe.  ̆Nel dopoguerra è stato rappresentante del suo popolo alle Nazioni Unite a Ginevra; ha ricevuto il diploma di partigiano combattente dalle mani del Presidente Sandro Pertini.
Queste due figure fanno parte della storia dimenticata di rom e sinti nel nostro Paese.
Mirko Levak testimonia lo sterminio programmato dai nazisti per il popolo zigano sulla stessa base dello sterminio degli ebrei: il genocidio etnico, sterminare una razza impura. Due parole, l’Olocausto per gli ebrei, il Porrajmos per i rom e i sinti, indicano lo stesso destino ma non hanno lo stesso riconoscimento e lo stessa significato nella coscienza collettiva.
Il popolo rom e sinto ha subito nei secoli discriminazioni e persecuzioni come è accaduto agli ebrei e insieme hanno condiviso lo stesso destino nelle camere a gas e nei forni crematori di Auschwitz. Ma ancora oggi mentre la parola «Olocausto» esprime la colpa collettiva nei confronti di tutto il popolo ebreo, «Porrajmos» è una parola sconosciuta ai più, esattamente come lo è lo sterminio razziale degli “zingari”.
Amilcare Debar, come il rom istriano Giuseppe Levakovic, che combatté nella «Osoppo», Rubino Bonora, partigiano della Divisione «Nannetti» in Friuli, Walter Catter, fucilato a Vicenza l’11 novembre 1944, suo cugino ventenne Giuseppe Catter, fucilato dai brigatisti neri nell’Imperiese, testimonia la partecipazione di rom e sinti italiani alla guerra di liberazione dai nazifascisti.
Il silenzio che circonda queste storie, anche nelle ricorrenze ufficiali come la giornata della Memoria e il XXV Aprile, non solo segna il destino di marginalità che viene assegnato al popolo rom, ma indirettamente contribuisce alla sua emarginazione sociale, alla costante discriminazione nei suoi confronti e al ruolo di capro espiatorio per chi fa la propria fortuna elettorale sulla caccia allo zingaro. Per queste ragioni, se la memoria della nostra storia ci aiuta a essere orgogliosi della nostra identità troppo spesso negata, vogliamo che questa memoria sia occasione e motivo per restituirci la dignità che ancora oggi ci viene negata nel paese dove sono vissuti e morti uomini come Mirko e Amilcare.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l'Unità 15.12.10
«Non piangete la mia morte» dell’anarchico condannato a morte negli Usa con Nicola Sacco
Il volume in uscita per Nova Delphi ripropone lo storico caso attraverso testi scritti in carcere
Signor giudice sono innocente. L’ultima arringa di Vanzetti
Ecco l’ultima arringa di Bartolomeo Vanzetti al processo che lo porterà sulla sedia elettrica insieme a Nicola Sacco. Il brano è tratto da «Non piangete la mia morte», in uscita presso i tipi di Nova Delphi.
di Bartolomeo Vanzetti


Il 9 aprile 1927 la Corte superiore di Dedham, presieduta dal giudice Webster Thayer, si riunì per notificare la sentenza di morte a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Prima che la sentenza fosse emessa, i due imputati ricevettero però l’invito a pronunciare la dichiarazione di rito.
«Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dire perché la sentenza di morte non sia pronunciata contro di voi?»
«Sì. Quel che ho da dire è che sono innocente, non soltanto del delitto di Braintree, ma anche di quello di Bridgewater. Che non soltanto sono innocente di questi due delitti, ma che in tutta la mia vita non ho mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue. Questo è ciò che voglio dire. E non è tutto. Non soltanto sono innocente di questi due delitti, non soltanto in tutta la mia vita non ho rubato né ucciso né versato una goccia di sangue, ma ho combattuto anzi tutta la vita, da quando ho avuto l'età della ragione, per eliminare il delitto dalla terra.
Queste due braccia sanno molto bene che non avevo bisogno di andare in mezzo alla strada a uccidere un uomo, per avere del denaro. Sono in grado di vivere, con le mie due braccia, e di vivere bene. Anzi, potrei vivere anche senza lavorare, senza mettere il mio braccio al servizio degli altri. Ho avuto molte possibilità di rendermi indipendente e di vivere una vita che di solito si pensa sia migliore che non guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
Mio padre in Italia è in buone condizioni economiche. Potevo tornare in Italia ed egli mi avrebbe sempre accolto con gioia, a braccia aperte. Anche se fossi tornato senza un centesimo in tasca, mio padre avrebbe potuto occuparmi nella sua proprietà, non a faticare ma a commerciare, o a sovraintendere alla terra che possiede. Egli mi ha scritto molte lettere in questo senso, e altre me ne hanno scritte i parenti, lettere che sono in grado di produrre. (...)
Vorrei giungere perciò a un'altra conclusione, ed è questa: non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina di Bridgewater, non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina e agli omicidi di Braintree né è stato provato che io abbia mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue in tutta la mia vita; non soltanto ho lottato strenuamente contro ogni delitto, ma ho rifiutato io stesso i beni e le glorie della vita, i vantaggi di una buona posizione, perché considero ingiusto lo sfruttamento dell'uomo. Ho rifiutato di mettermi negli affari perché comprendo che essi sono una speculazione ai danni degli altri: non credo che questo sia giusto e perciò mi rifiuto di farlo.
Vorrei dire, dunque, che non soltanto sono innocente di tutte le accuse che mi sono state mosse, non soltanto non ho mai commesso un delitto nella mia vita degli errori forse, ma non dei delitti non soltanto ho combattuto tutta la vita per eliminare i delitti, i crimini che la legge ufficiale e la morale ufficiale condannano, ma anche il delitto che la morale ufficiale e la legge ufficiale ammettono e santificano: lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. E se c'è una ragione per cui io sono qui imputato, se c'è una ragione per cui potete condannarmi in pochi minuti, ebbene, la ragione è questa e nessun'altra. (...)È possibile che soltanto alcuni membri della giuria, soltanto due o tre uomini che condannerebbero la loro madre, se facesse comodo ai loro egoistici interessi o alla fortuna del loro mondo; è possibile che abbiano il diritto di emettere una condanna che il mondo, tutto il mondo, giudica una ingiustizia, una condanna che io so essere una ingiustizia? Se c'è qualcuno che può sapere se essa è giusta o ingiusta, siamo io e Nicola Sacco. Lei ci vede, giudice Thayer: sono sette anni che siamo chiusi in carcere. Ciò che abbiamo sofferto, in questi sette anni, nessuna lingua umana può dirlo, eppure lei lo vede davanti a lei non tremo lei lo vede la guardo dritto negli occhi, non arrossisco, non cambio colore, non mi vergogno e non ho paura. (...)
Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un'altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie».

Corriere della Sera 15.12.10
La corsa di Darwin: così riuscì a beffare il collega più giovane
Accelerò la pubblicazione e cambiò le scienze
di Telmo Pievani


L’ opera alla quale stava lavorando da anni avrebbe dovuto assumere i contorni di un trattato in più volumi, ma l’imbarazzante circostanza di un collega più giovane che era giunto dopo di lui alle stesse conclusioni lo aveva indotto a stenderne in tutta fretta una sintesi. Nei tredici mesi di lavorazione la moglie Emma aveva letto le bozze, trovandovi un certo eccesso di punteggiatura. Infine giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale. L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare — pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri— era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale. L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare — pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri— era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un esordiente, bensì di un cinquantenne ben affermato nella comunità scientifica britannica, Royal Medal per i suoi studi monumentali sui cirripedi, già noto al di fuori della cerchia accademica per quel Viaggio di un naturalista intorno al mondo definito «eccellente» da chi di esplorazioni si intendeva, Alexander von Humboldt. Non fu dunque una pubblicazione per la carriera, ma una sofferta gestazione dopo venti anni di osservazioni meticolose, di sperimentazioni e di congetture teoriche, tenute in gran parte segrete. A quelle idee, che ben presto diverranno evidenze corroborate — e cioè la trasformazione incessante delle specie biologiche per «discendenza con modificazioni» nel corso di milioni di anni e la parentela fra tutti gli esseri viventi sulla Terra, specie umana compresa— il naturalista stava infatti lavorando già dal 1838, quando iniziò a mettere nel cassetto i suoi Taccuini della trasmutazione. Ma l’attualità di Darwin non sta soltanto nell’affermazione dell’evoluzione come fatto assodato, quanto nella solida longevità del «lungo ragionamento» con il quale spiegò cause e meccanismi dei processi evolutivi. Benché nel libro non vi potesse essere traccia dell’ereditarietà, il nucleo centrale della teoria dell’evoluzione continua oggi a essere, pur con le opportune revisioni ed estensioni, quello darwiniano: variazione nelle popolazioni e selezione naturale. Non solo, la sesta e ultima edizione del 1872 venne riscritta da Darwin integrando le risposte alle critiche. In quelle pagine si trovano ipotesi aggiuntive, come quella della cooptazione funzionale di strutture già esistenti, che sono state persino rivalutate in tempi recenti. La storia delle specie veniva per la prima volta efficacemente descritta come un processo interamente naturale, colmo di imperfezioni e di contingenza, senza più il bisogno di ricorrere a cause finali e a creazioni speciali. Da lì i difensori della nuova visione evoluzionistica seppero promuovere una vera e propria politica culturale ed educativa a favore della rivoluzione darwiniana. Nell’Autobiografia, con uno strappo alla solita modestia, Darwin scriverà: «Ha avuto fin dall’inizio un grande successo» . Un successo al quale non sono estranee l’efficacia argomentativa e la prosa suggestiva con cui L’origine, né saggio specialistico né libro divulgativo, fu composto. A farne un classico della letteratura scientifica fu anche, come notò lo scrittore armeno Osip Mandel’štam nel 1932, lo stile affabile del naturalista vittoriano: «Non è una sonata, né una sinfonia... ma piuttosto una suite. L’energia dell’argomentazione si scarica in "quanti", in fasci. Accumulo e resa, inspirazione ed espirazione, flussi e riflussi» . Il «bel tempo scientifico di Darwin» splende quando «raggruppa il dissimile, il contrastante, il diversamente colorato» della natura. Mentre da ogni pagina sventola «la bandiera della flotta britannica» , si assapora il gusto di un’amabile conversazione fra gentiluomini di campagna.

Repubblica 15.12.10
Una giornata di studio per i 90 anni dello storico
Due decenni fa il suo "Una guerra civile", un saggio che sfidava pigrizie intellettuali
Claudio Pavone e i tabù infranti
di Guido Crainz


Raramente un libro ha avuto forza e capacità di persuasione nel rompere tabù e pigrizie intellettuali come Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri), il lavoro più impegnativo di Claudio Pavone. E la giornata di studi dedicata a Pavone per i suoi novant´anni, alla presenza del presidente della Repubblica e in un Archivio del Quirinale gremito di studiosi, si è inserita nella discussione sui 150 anni di vicenda unitaria. Non solo perché ad essa rimandavano le relazioni di Sabino Cassese, Enzo Collotti e Stefano Rodotà, ma perché quel tema è un filo di continuità nel lavoro di uno storico che ha segnato stagioni di studi con autorevolezza e capacità innovativa, rigore e freschezza.
A vent´anni da quel libro appare chiaramente non solo il carattere di cesura che esso ha avuto negli studi sulla crisi italiana del 1943-´45 ma anche la lezione più generale che ha rappresentato. In primo luogo, per la capacità di cogliere in quella crisi il riemergere di «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell´uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro». Attraverso una mole enorme di fonti, vengono scandagliati i differenti modi di "essere italiani" sedimentati in una vicenda lunga. E balzano i diversi percorsi attraverso cui, sulle rovine del fascismo e nella catastrofe della guerra, prese corpo un senso nuovo di patria. Appare oggi altrettanto prezioso un altro asse centrale, l´intensa riflessione etica sul nesso fra scelte individuali e vicende collettive: non vi può essere un grande affresco storico che non sia una riflessione sull´individuo, rigorosa e capace di imporre a se stessa compiti e limiti. Introducendo un capitolo chiave, che ha al centro il rischio di perdere la propria vita e di toglierla ad altri, Pavone annotava: lo storico deve analizzare il contesto in cui i conflitti si collocano ma non può mai dimenticare che esiste un problema della vita e della morte che non compete a lui risolvere. Sta qui il nodo più denso del tema della "scelta", e Una guerra civile disegna con grande finezza il prender corpo delle differenti opzioni che dopo l´8 settembre del 1943 iniziano a mettere in discussione la «rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano», per dirla con Ada Gobetti. Vengono a dar vita a un conflitto che è lotta di liberazione nazionale e guerra civile.
Proprio sul tema della "guerra civile" Pavone incontrò le reazioni più aspre. Quella categoria era stata utilizzata da una pubblicistica neofascista volta a metter sullo stesso piano le opposte parti. Ma il libro poneva alle origini della Repubblica un irto groviglio di questioni, e impediva di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a non appannare limiti e tragedie della Resistenza, a riflettere sul convivere di alto impegno etico e rischio di totalizzazione in una guerra partigiana contro un nemico che aveva tutti i requisiti per essere qualificato come nemico totale. Spingeva a interrogarsi su «quella zona di confine che in ciascun uomo si colloca fra il territorio del bene e il territorio del male, che se lo contendono». Rileggendo questi passaggi si comprende meglio non solo quanto pesanti fossero i tabù che venivano infranti ma anche quanti stimoli ne vennero. Ne venne un interrogarsi sulla nostra storia capace di contrastare quelle volgarizzazioni e svalutazioni complessive di essa che riprendevano vigore in quel periodo, proprio in relazione alla Repubblica e alle sue origini.

Avvenire 15.12.10
L’islam secondo Tommaso
di Jean-Louis Bruguès


Nella maggior parte delle società dell’Europa occi­dentale diventa sempre più visibile e più forte la presenza di popolazioni islamiche. In Fran­cia, Olanda e Germania la religio­ne islamica è ormai diventata la se­conda religione dopo il cristiane­simo. Questa potenza accresciuta dell’islam sta provocando cambia­menti profondi nella percezione del fenomeno religioso da parte di un’opinione pubblica fortemente secolarizzata. In negativo, si po­trebbe dire, che questa stessa opi­nione ha sempre più la tendenza ad associare religione e violenza, a tal punto che alcuni Paesi stanno considerando la possibilità di proi­bire ogni insegnamento confes­sionale nelle scuole, ritenendolo u­na fonte di divisione sociale, sosti­tuendolo invece con una scoperta fredda del fatto religioso. In positi­vo, la presenza massiccia dell’islam obbliga a riconsiderare il ruolo pro­priamente sociale di queste stesse religioni e le pratiche spesso mol­to antiche della laicità. Se l’islam si considera una religione squisita­mente comunitaria, e quindi so­ciale, al punto che il termine co­munità è quello che più la caratte­rizza, è sempre più difficile relega­re il fenomeno religioso nel priva­to, cioè nello spazio ristretto della coscienza individuale. Così è nato il concetto, inatteso, della laicità positiva, per coloro che credevano di aver chiuso con il religioso.
Nel 2000, nel rendere pubblica la Dichiarazione Dominus Jesus sul­l’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, il ma­gistero ha proposto una Carta del­lo sviluppo legittimo della teolo­gia cattolica delle religioni. È dun­que all’interno di questa «carta» che conviene formulare le seguenti domande: come capire l’Islam? Qual è il valore delle sue dottrine e istituzioni culturali? Qual è il suo posto in ciò che noi chiamiamo l’e­conomia della salvezza? La do­manda è nuova in quanto viene posta nel contesto della mondia­lizzazione e del pluralismo cultu­rale che, come è stato ricordato so­pra, sono caratteristiche tipiche della società del nostro tempo. Si tratta anche di una domanda mol­to tradizionale, nel senso che da molto tempo, in verità fin dalla sua nascita, durante l’impero romano, il cristianesimo si è interrogato con personalità forti come san Giusti­no sulla possibilità della salvezza personale per gli «infedeli in buo­na fede». È necessario, dunque, ri­farsi agli antichi. Non è impossibi­le, dopotutto, che questi antichi riescano a illuminarci su proble­matiche nuove o almeno ripropo­ste. Cosa direbbe Tommaso d’A­quino?
Vale la pena ricordare prima di tut­to una proposizione teologica au­dace, relativa alla salvezza perso­nale degli infedeli, che non è si­curo sia condivisa oggi da tutti i teologi. Tommaso insegna che non si può essere salvati senza la fede in Cristo, ma che non è ne­cessario che questa fede sia per tutti così esplicita come presso co­loro che hanno avuto la fortuna di ricevere il Vangelo. Già per sant’A­gostino o Gregorio il Grande, la Chiesa vera che supera di molto i confini istituzionali visibili, rac­coglie i giusti di tutti i tempi. «Dio vuole salvare le persone di ogni categoria», scrive il domenicano, «uomini e donne, giudei e gentili, piccoli e grandi; ma non necessa­riamente tutte le persone di ogni categoria», cioè non quelle che si sono escluse da sé conducendo u­na esistenza contraria alle pre­scrizioni L’Aquinate ci offre una strada da seguire nel dialogo coi musulmani: inutile parlare di Sacre Scritture, perché non ne riconoscono l’autorità.
Ma lo scambio di idee può riguardare la «ragione naturale», come fece lui criticando Avicenna e Averroè della legge naturale.
Tommaso conosceva due tipi di non-cristiani: i musulmani, a cui si sta facendo riferimento, e so­prattutto i giudei, più vicini perché vivono all’interno del mondo cri­stiano. Può darsi che egli avesse sentito parlare dei Mongoli e dei Tartari, ma, salvo errore da parte nostra, egli non vi fa alcun riferi­mento particolare; Marco Polo non aveva ancora fatto uscire il rac­conto dei suoi viaggi in Estremo O­riente.
Per quanto riguarda i maometta­ni, o i saraceni (a volte egli usa l’espressione i mori), Tommaso d’A­quino ci offre tre intuizioni che noi avremmo certamente interesse ad approfondire. In primo luogo, poi­ché questi non riconoscono alcu­na autorità alle Sacre Scritture, è i­nutile portare la discussione su questo terreno; gli argomenti di scambio non possono che riguar­dare la ragione naturale. Notiamo di passaggio che, anche se egli li combatte vigorosamente, Tomma­so riconosce il valore intellettuale dei migliori rappresentanti della fi­losofia araba, Avicenna o Averroè. In effetti, egli stesso non ha mai let­to il Corano, anche se ai suoi tem­pi c’erano due traduzioni in latino. In secondo luogo, il loro Dio non è sicuramente quella trinità di per­sone, che fa apparire il cristianesi­mo ai loro occhi come una specie di politeismo – e si sa che questo punto costituisce uno degli osta­coli più grandi nello scambio teo­logico –, ma egli è comunque una sola persona: «La natura di Dio, co­me è in sé, non la conosce né il cat­tolico né il pagano; ma l’uno e l’al­tro la conoscono secondo una cer­ta ragione di casualità, o d’emi­nenza, o di negazione».
Si può pensare che Tommaso d’A­quino, per i due motivi appena menzionati, non si sarebbe aspet­tato di ottenere grandi risultati da uno scambio propriamente teolo­gico tra le due religioni (sarebbe andato sicuramente in modo di­verso per uno scambio filosofico). È l’opinione della maggioranza dei teologi ancora oggi. Per contro, i cristiani dei nostri tempi si chie­dono quale atteggiamento adot­tare nei confronti dei musulmani. Di fatto la Dichiarazione Nostra aetate incoraggia i cristiani a pro­muovere insieme con i musulma­ni «la giustizia sociale, i valori mo­rali, la pace e la libertà» per tutti gli uomini.
Sicuramente il Dottore della Chie­sa non ha mai avuto una cono­scenza diretta di questo ambiente. Egli propone una riflessione squi­sitamente teologica. Affrontando la questione da un punto molto e­levato, ci offre un prezioso filone di ricerca. Egli ricorda che nella sua onnipotenza Dio permette il veri­ficarsi dei mali nel mondo, per ti­more che eliminandoli siano im­pediti dei beni ancora più grandi. Non afferma che la pratica di un culto pagano sia un bene in sé, ma non conclude neanche che tutte le azioni di questi stessi pagani co­stituiscano dei peccati. Alcuni tra loro, come il centurione Cornelio degli Atti degli Apostoli, possono anche non essere infedeli nel sen­so spirituale del termine. In ogni caso, i pagani non devono mai es­sere costretti ad abbracciare la fe­de in Cristo; non abbiamo il dirit­to di battezzare dei bambini non cristiani contro la volontà dei loro genitori. Tommaso va oltre: i Prín­cipi infedeli possono legittima­mente esercitare la loro autorità su soggetti cristiani, perché il diritto divino della grazia della fede non sopprime la sovranità né l’autorità del diritto umano che emana dal­la legge naturale.

martedì 14 dicembre 2010

Corriere della Sera 14.12.10
Fotografato il «flash» chimico alla base della vista umana
L’invisibile attimo che trasforma gli impulsi in immagini
di  Mario Pappagallo


Flash, il supereroe dei fumetti che ha il potere di muoversi a velocità straordinaria (fino all’invisibilità) sfidando le leggi della fisica, oggi sarebbe fotografabile. Grazie agli scienziati italiani, riusciti per la prima volta a immortalare l’iperveloce reazione chimica alla base della visione umana. Un flash della durata di molto meno di un milionesimo di milionesimo di secondo. È il tempo dei flash fotochimici che consentono l’avvio del meccanismo della visione. Tanti impulsi in sequenza che, «tradotti» dalle vie nervose, sono velocemente letti dal cervello e trasformati in immagini. Questi flash fotochimici sono stati per la prima volta fotografati e fissati in immagini da ricercatori italiani. Il tutto finora era teorico, virtuale, data la velocità con cui il di secondo. È il tempo dei flash fotochimici che consentono l’avvio del meccanismo della visione. Tanti impulsi in sequenza che, «tradotti» dalle vie nervose, sono velocemente letti dal cervello e trasformati in immagini. Questi flash fotochimici sono stati per la prima volta fotografati e fissati in immagini da ricercatori italiani. Il tutto finora era teorico, virtuale, data la velocità con cui il processo avveniva. Ostacolo superato dal genio italico, tra Milano (Politecnico) e Bologna (Università). Alla scoperta hanno partecipato anche l’Università di Berkeley (Usa), l’Università di Oxford (Gran Bretagna) e l’Istituto Max Planck di Mülheim (Germania). Le prospettive che si aprono sono molteplici e importanti, a cominciare dalla retina dell’occhio, le cui patologie sono spesso causa di cecità. Non solo. La fantasia corre verso nuovi tipi di memorie ottiche, verso motori molecolari azionati dalla luce che alimentano nano dispositivi, verso congegni artificiali fotosensibili che riproducono (appunto) il comportamento della retina. Il metodo «fotografico» inventato nei laboratori italiani potrà inoltre essere applicato per lo studio dei meccanismi di fotoprotezione nel Dna. Meccanismi essenziali per la salvaguardia e la trasmissione del codice genetico. Gli impulsi visivi sono uno dei fenomeni più rapidi in natura. Dall’istante in cui un fotone — la particella elementare di cui è fatta la luce visibile — colpisce le cellule della retina dell’occhio (o meglio una determinata molecola-sensore chiamata rodopsina), la prima reazione si conclude in molto meno di un milionesimo di milionesimo di secondo (cioè 0,000000000001 secondi). Solo un’apparecchiatura più veloce poteva immortalarlo. «Siamo stati in grado di realizzare un film in tempo reale di questo processo grazie a una speciale cinepresa che raccoglie i singoli fotogrammi attraverso flash di luce laser ultraveloci (della durata di pochi miliardesimi di milionesimi di secondo)» , spiega Giulio Cerullo del Politecnico di Milano. «Combinando queste informazioni con simulazioni teoriche realizzate con efficienti computer e con complessi programmi di calcolo— aggiunge Marco Garavelli, dell’Università di Bologna —, siamo quindi riusciti a seguire passo passo il velocissimo cambiamento di forma della molecola responsabile della visione umana e a capire il motivo per cui l’occhio è così sensibile» . Insomma, la cinepresa italiana sarebbe riuscita a filmare anche il mitico Flash, il personaggio creato da Gardner Fox e Harry Lampert nel 1940. L’esperimento ha anche fornito la prova dell’esistenza di un fenomeno conosciuto come «intersezioni coniche» . «I buchi neri sono delle singolarità dello spazio. Le intersezioni coniche possono essere viste come "buchi neri della chimica": singolarità che mettono in collegamento stati elettronici diversi della materia» , raccontano Garavelli e Cerullo. «Fino ad oggi queste regioni erano state previste solo teoricamente, eludendo ogni tentativo di osservazione diretta. In questa ricerca per la prima volta questi "buchi neri"sono stati osservati sperimentalmente, dimostrando la fondatezza delle previsioni teoriche. Si tratta di punti che, come in una sorta di "buco nero", catturano le molecole, accelerandone incredibilmente la reazione chimica e rendendola estremamente efficiente. Questa è, in fondo, la ragione dell’elevatissima sensibilità dell’occhio umano» .

l’Unità 14.12.10
Intervengono in aula i leader democratici, da D’Alema a Veltroni, da Bindi a Letta a Fassino
L’ex segretario del Pd cita De Gasperi: il premier rischia di gettare il paese nella sovversione
Bersani: «Il governo è finito Non si va avanti rubando voti»
Il Pd affronta compatto la prova della sfiducia. In aula parlano i big. D’Alema: «Berlusconi non è più il proprietario del centrodestra». Riunione dei parlamentari: niente assenze al momento del voto.
di Simone Collini


Berlusconi vuole la fiducia per andare a nuove elezioni. I parlamentari del Pd lo dicono ai colleghi del gruppo misto che incrociano nei corridoi di Montecitorio, a quelli che hanno cambiato casacca nelle ultime ore e che ora si dicono scettici o contrari alla mozione di sfiducia. E poi lo dicono apertamente anche nell’Aula della Camera, via via che nel corso della giornata si fa chiaro che da oggi, bene che gli vada, il premier potrà contare su una maggioranza troppo risicata per continuare a governare.
Bersani riunisce i vertici del partito la mattina e la raccomandazione è una sola: per 48 tutti concentrati sull’obiettivo di mandarlo a casa, ora niente distinguo sul dopo e soprattutto niente assenze al momento del voto. Anche la decisione di convocare una riunione del gruppo dei deputati per la sera serve a garantire la presenza a Roma di tutti con largo anticipo. I dirigenti del Pd assicurano che oggi non ci saranno assenze tra i loro 206 deputati, ma sono anche coscienti che le variabili sono troppe negli altri gruppi e che nella notte potrà succedere di tutto. Ma si lasciano anche con la convinzione che, in ogni caso, questo governo non reggerà. E che se pure oggi passasse potrebbe andar sotto già domani, quando si voterà il decreto sull’emergenza rifiuti in Campania.
BERLUSCONI IRRESPONSABILE
«È sempre più evidente che l’interesse del paese sarebbe formalizzare la crisi e dare vita a un governo di responsabilità istituzionale», dice Bersani conversando poi con i giornalisti, «solo l’irresponsabilità e un ego smisurato possono portare Berlusconi a non prenderne atto». Il leader del Pd, dopo aver affidato gli interventi di ieri a Bindi, Letta, D’Alema, Veltroni e Fassino (e al Radicale Turco), interverrà oggi per la dichiarazione di voto del suo partito (Franceschini prende la parola per chiedere come mai Berlusconi non sia in Aula a dibattito iniziato: «Vorrei sapere se sta utilizzando anche questi minuti per convincere qualche parlamentare indeciso»). Nel discorso di Berlusconi il leader del Pd non vede «niente di nuovo»: «Un po’ di bastone e un po’ di carota, neanche un barlume di consapevolezza dei problemi del paese. Forse continua a pesare più la compravendita che la sua retorica». Ma se questo è il quadro «la sequenza logica» è che il premier voglia la fiducia per poi andare a elezioni. «Non può pensare di governare rubacchiando un voto». Insomma se oggi Berlusconi dovesse evitare la sfiducia, «siamo daccapo, con in più Fli che è all’opposizione». E con Fini, assicura Bersani, «ci sarà lo spazio per una strategia d’opposizione comune». Se poi questo «governo precario» e questo «tramonto di Berlusconi» dovesse portare alle urne, dice in serata, il Pd non avrà paura delle elezioni «perché dopo 16 anni questo paese non ne più».
Per il Pd la via d’uscita da questa crisi rimane comunque un governo «di responsabilità nazionale» che approvi una nuova legge elettorale e affronti le emergenze economiche. D’Alema, che nel corso della giornata parla con Casini e anche l’ex-Idv Scilipoti, interviene in Aula dicendo a Berlusconi che se fosse uno statista si farebbe da parte nell’interesse del Paese: «Lei non è il leader del centrodestra, ne è stato a lungo il proprietario, credo ormai non lo sia più. Questa è la novità che gli italiani hanno di fronte». Anche Veltroni parla di un premier finito «in un vicolo cieco», da cui potrebbe uscire «solo con un atto di responsabilità, che non mi sembra in grado di compiere». L’ex segretario del Pd cita l’ultimo discorso in Parlamento di De Gasperi (a cui Berlusconi più volte si è richiamato), nel quale diceva che se un politico guarda ai suoi interessi personali e non a quelli del Paese getta la democrazia «nel mare agitato della sovversione». Bindi dice senza giri di parole che «chi vota la fiducia vota per le elezioni anticipate» e Letta dopo aver detto che il governo «si è ridotto a mendicare con mezzi che non fanno onore alle nostre istituzioni una fiducia minima», chiude il suo intervento citando la canzone di Bennato “Venderò”: «Ogni cosa ha il suo prezzo ma nessuno saprà quanto costa la mia libertà». Citazione che piace ai deputati di Futuro e libertà, meno a quelli che hanno cambiato casacca.

Repubblica 14.12.10
Bersani: il Pd pronto a lavorare con Fli
"E il voto non ci fa paura". Casini accusa: "Girati quattrini per far cambiare idea"
Il segretario dei democratici detta la strategia nel caso il governo ottenesse la fiducia
D´Alema evoca la Germania: "Lì le forze politiche sono capaci di trovare convergenze"
di Giovanna Casadio


ROMA Le urla dai banchi democratici a Berlusconi («Questa l´abbiamo già sentita») e Fini annuisce. L´intesa con Fli insomma c´è e, dice Bersani, soprattutto ci sarà: «Nel denegato caso, come dicono gli avvocati, in cui non passi la sfiducia, è evidente che da qui a un mese siamo daccapo, con in più Fli che è all´opposizione. Per carità, saranno due opposizioni diverse, ma ci sarà uno spazio per una strategia d´opposizione comune».
Giornata di riunioni ieri anche per l´opposizione alla Camera. Pier Ferdinando Casini, leader Udc, convoca i suoi nel pomeriggio e poi, in tv, attacca sul mercato dei voti: «Sono girati quattrini, si può anche cambiare idea ma non possono girare soldi». Il Pd si riunisce di mattina in un "caminetto" dei big e a sera tiene l´assemblea del gruppo, che serve per un "serrate le file" e per l´ultima chiamata di Dario Franceschini ai parlamentari: «Vincerà la sfiducia». Bersani accusa: «Il premier è un irresponsabile, l´interesse del paese sarebbe formalizzare la crisi, solo un ego smisurato può portare Berlusconi a non prenderne atto per dare vita a un governo di responsabilità istituzionale». È il leit-motiv dei Democratici, preoccupati dalle elezioni che aprirebbero una partita «pericolosa» per il paese e molto difficile per il partito, alle prese con la scelta delle alleanze e con i malumori interni. In aula intervengono ben cinque big democratici (Letta, D´Alema, Fassino, Veltroni, Bindi); Fioroni è critico: «Vuol dire che siamo sicuri di vincere se ci mettiamo tante facce e quasi tutte di ex segretari Ds... «. D´Alema incalza: «Lei è stato a lungo il proprietario del centrodestra, ora non lo è più». E se si andrà al voto, aggiunge, «se sfida ci sarà, noi non ne abbiamo paura; lei non è invincibile e le elezioni le ha già perse due volte». Però la strada migliore è un´altra, quella tedesca della Grosse Koalition, perché «le forze politiche in certi momenti sono capaci di trovare convergenze». Insomma ci vorrebbero le dimissioni del premier che portino a «un nuovo governo di centrodestra o a un governo di responsabilità nazionale». Anche Veltroni (con il quale D´Alema si complimenta) rilancia, rivolto a Berlusconi: «Lei è in un vicolo cieco e ne potrebbe uscire solo con un atto di responsabilità che non è in grado di compiere». Lo spauracchio delle urne tiene banco. Proprio se Berlusconi oggi dovesse vincere sono più vicine. Gli ex popolari di Modem si vedono a cena (oggi si riuniranno tutti i "75" con Veltroni e Gentiloni;) Bersani invece è alla cena del Pd Lazio con gli imprenditori: «In ogni caso questo governo finisce, non può garantire più stabilità al paese. Le elezioni non ci fanno paura. Noi dovremo rimediare ai suoi danni». Bindi: «Chi vota la fiducia, sceglie le elezioni anticipate». Il Pd pensa di esserci al completo: Marco Fedi, malato, è venuto dall´Australia per votare. Al Senato, Emma Bonino, la leader radicale dice al premier: «Guardare oltre il voto, perché se pure lei ottiene la fiducia lo scenario sarà ancora peggiore di quello vissuto finora».

l’Unità 14.12.10
DaI Colosseo a piazza Venezia, Botteghe Oscure, Corso Vittorio, Lungotevere, piazza del Popolo
La Questura «La gestione dell’ordine pubblico sarà flessibile e modulata caso per caso»
La città proibita della politica sotto l’assedio dei movimenti
Grande corteo «gioioso e pacifico» con i book-block, i libri scudo di gommapiuma. Ma non sono escluse azioni per far sentire la voce di chi protesta «nei palazzi del potere». La Questura: «Scenario complesso».
di Jolanda Bufalini


I titoli dei libri scudo sono stati scelti con un sondaggio on line organizzato dagli studenti di uniriot: il più votato è stato «Volontà di sapere» di Foucault, al secondo posto c’è «1984» di George Orwell e al terzo «Il cavaliere inesistente» di Italo Calvino ma c’è anche «Fahreneheit 451», «La tempesta» di Shakespeare, Q Luther Blisset, «Shock Economy» di Klein, «I Demoni» di Dostoevskij. Più di 5000 i votanti di cui il 30 per cento da Nanterre-Parigi. L’idea ha fatto strada, anche gli studenti cinesi chiedono istruzioni su come costruirli: gommapiuma e plastica, «L’attacco alla cultura è il nostro futuro negato», dice Francesca, studentessa di lettere alla Sapienza di Roma e «i Bookblock sono un simbolo immdiatamente riconoscibile delle nostre ragioni».
SCENARIO COMPLESSO
Scenario «complesso» dicono alla Questura, «assedio» è la parola che passa di bocca in bocca, di movimento in movimento: «assedio sonoro», «assedio ai palazzi del potere», «assedio a Montecitorio». Un popolo variegato si è dato appuntamento in tre piazze di Roma, movimenti territoriali, «uniti contro la crisi», studenti universitari, studenti medi, ricercatori, Fiom, che ha aderito agli appelli della rete antirazzista, di «uniti contro la crisi» e degli studenti. E poi: «tutti a casa» (il movimento dei lavoratori dello spettacolo che invase il Red Carpet alla festa del cinema di Roma) mentre la Flc-Cgil ha indetto un’ora di sciopero, popolo viola e aquilani terremotati (con lo striscione “macerie di democrazia”, i caschetti gialli e le bandiere verde-nere della città), i comitati anti-discarica di Terzigno, Chiaiano e tutti movimenti sorti in difesa dei beni comuni. I pullman dal resto d’Italia sono cominciati ad arrivare già ieri sera: Napoli, Pisa, Bergamo, Nord-Est, Pomigliano d’Arco, Fincantieri di Marghera e di Ancona. Gli universitari romani partiranno da piazzale Aldo Moro (Sapienza) e dall’Ostiense (Roma3), gli studenti medi si raccoglieranno nelle rispettive zone per raggiungere piazza Esedra, tutti i cortei confluiranno al Colosseo dove c’è l’appuntamento dei movimenti territoriali alle 10 e 30. La previsione è di almeno 50.000 persone che, a quel punto, muoveranno verso piazza Venezia.
L’incognita è lì. Per la Questura «non c’è una zona rossa predefinita e ci prepariamo a gestire le situazioni all’impronta, eventuali chiusure saranno decise per motivi di sicurezza e di ordine pubblico in modo flessibile, valutando volta per volta». Millecinquecento gli uomini delle forze dell’ordine mobilitati. Non la chiamano «zona rossa» però le autorizzazioni per piazza Montecitorio sono state negate, sarà «garantito il diritto di manifestare a chi ha «preannunciato o è stato autorizzato», aggiunge la Questura, però la zona intorno al Parlamento era già isolata ieri sera.
CONFLITTO E CONSENSO
Per gli studenti e i movimenti, però, è importante far sentire la propria voce «per la sfiducia dal basso» e quindi arrivare quanto più vicino alle sedi del dibattito parlamentare. Conflitto e consenso i termini da combinare. «Gli studenti hanno saputo suscitare un conflitto intelligente capace di conquistare consensi molto al di là della sinistra», dice un veterano dei movimenti romani come Andrea Alzetta (Tarzan). «Non siamo preoccupati» spiega Francesca, la studentessa di lettere, «noi abbiamo le nostre pratiche pacifiche e comunicative, gioiose. Certo il 30 novembre il centro storico barricato è stato un sintomo della debolezza del governo e della politica, ciò che è consentito negli altri paesi europei, da noi non è stato permesso». E allora? «Tutto dipende dalla gestione della piazza». Conflitto e consenso, «rabbia come quella espressa dagli studenti inglesi». Il corteo da piazza Venezia imboccherà Botteghe Oscure, corso Vittorio Emanuele e poi il Lungotevere. Raggiungerà piazza del Popolo dove si terrà una «grande assemblea popolare». Ma non sono escluse altre azioni per far sentire le voci della protesta nei palazzi dove si discute la fiducia e dove potrebbe essere calendarizzato, se l’esito sarà favorevole a Berlusconi, il Ddl Gelmini sull’università. E c’è a chi sono piaciuti i lanci di uova contro le sedi Cisl, «Meglio un uovo oggi che la cancellazione dei diritti domani», recitava una scritta trovata in una delle sedi contestate.
Mobilitazioni cittadine e regionali del movimento degli studenti e dei ricercatori anche nel resto d’Italia. Continuano le occupazioni sui tetti e ci saranno (sostenute anche da Flc-Cgil) le occupazioni simboliche dei rettorati. La Rete 29 aprile fa sapere che, se la legge Gelmini sarà approvata, l’indisponibilità dei ricercatori alla docenza sarà rinnovata anche nel secondo semestre.

l’Unità 14.12.10
«Portiamo in piazza l’indignazione di una generazione»
«Grideremo “noi non siamo sfiduciati” mentre in Parlamento si deciderà il futuro di questo governo: per cambiare l’Italia pochi voti non bastano. Serve ricostruire un senso comune»
di Roberto Iovino


Nel buio della democrazia italiana uno spiraglio di luce c’è. Oggi da nord a sud, a prescindere dall’esito del voto di fiducia, le piazze del nostro paese saranno piene di studenti e studentesse, e questo rappresenta un fatto politico nuovo. Come nuova è l’idea di partecipazione popolare che abbiamo praticato lungo tutto l’arco di questo autunno, non solo manifestazioni “contro” ma una riappropriazione reale della politica, parola troppo spesso associata alla compravendita di parlamentari e a scandali sessuali.
In Italia c’è un fatto nuovo, gli studenti e le studentesse hanno suonato la sveglia ad un paese da anni atrofizzato dal berlusconismo come dottrina del controllo e del consenso. Abbiamo posto sul piatto l’indignazione di un’intera generazione, decisa a costruire un’alternativa alla fuga, a denunciare lo sfruttamento esistenziale a cui ci condanna la precarietà, a urlare a squarciagola il vuoto di senso in cui versano scuola e università.
Non siamo solo noi i “senza futuro” ma rischia di esserlo l’intero sistema/paese. E allora perché scendere in piazza proprio nel giorno in cui si deciderà il futuro politico del nostro paese? Perché noi non abbia-
mo nessuna intenzione di essere spettatori, in un verso come nell’altro. Il berlusconismo non finisce con Berlusconi e noi pensiamo di avere gli anticorpi giusti, pensiamo di poter costituire un pezzo fondamentale del rinnovamento culturale di un paese che annega nel degrado. Pensiamo che costruire un’alternativa sia possibile solo tramite la contaminazione della carica positiva che abbiamo portato nelle piazze, nelle scuole e nelle università.
Per questo oggi saremo in piazza al grido di «noi non siamo sfiduciati», perché se in parlamento tutto si giocherà per pochi voti, per cambiare l’Italia i voti non bastano, serve invece ricostruire un senso comune che noi sentiamo di condividere. La nostra, quindi, è una battaglia rivolta a tutto il paese e in questo momento siamo convinti di essere in vantaggio, di poter vincere.
Se la fiducia a Berlusconi dovesse venire meno sarà anche merito nostro, come merito nostro sarà ricostruire l’Italia dalle macerie in cui versa. Abbiamo deciso di uscire fuori a riveder le stelle, convinti che tutto il paese debba uscire con noi a rivedere questo meraviglioso spettacolo.

il Fatto 14.12.10
Il Quarto Stato marcia su Roma
Mentre continuano i giochi di palazzo i cittadini assediano la piazza:
«Ora basta»
di Caterina Perniconi


Oggi il Quarto Stato marcerà su Roma. Mentre in Parlamento Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini misureranno deputati e distanze al centimetro, i cittadini scenderanno in piazza. Gli stessi che il premier ha invocato nel suo discorso come “sovrani”, arriveranno nella Capitale per sfiduciarlo “dal basso”.
Non solo studenti, quindi, in corteo verso Montecitorio, ma anche tutti quelli che negli ultimi due anni e mezzo hanno pagato un prezzo troppo alto per la gestione del paese portata avanti dal governo Berlusconi. Ci saranno rappresentative dei terremotati de L’Aquila, delegazioni dalla Campania con i sacchetti d’immondizia al seguito, gli operai di Pomigliano d’Arco, gli immigrati asserragliati sulla gru a Brescia, precari da tutta Italia e studenti mobilitati contro la riforma Gelmini dell’Università.
PER L’OCCASIONE la città sarà inevitabilmente bloccata e blindata con un piano straordinario senza precedenti: più di duemila uomini circonderanno il centro di Roma, con una “zona rossa” che la Questura definisce “flessibile” a seconda delle necessità e “dell’atteggiamento dei manifestanti”, che si prevede siano più di centomila. Di certo, nel-l’unica occasione in cui il nostro paese si è trovato a dover fronteggiare una situazione di tensione simile, con una “zona rossa” così ampia, non è stato all’altezza. E il G8 di Genova è ancora una ferita aperta.
Il blocco vuole impedire ai manifestanti di raggiungere i Palazzi del potere. Ai parlamentari è stato chiesto di affrettarsi nel raggiungere il Senato e la Camera per non incontrare i contestatori. I cortei saranno molteplici: l’appuntamento è per gli studenti “medi” alle 9:30 in piazza della Repubblica , per gli universitari alla stessa ora in piazzale Aldo Moro, di fronte all’ingresso de La Sapienza, mentre la società civile si raccoglierà al Colosseo alle 10:30, guidata dal Popolo Viola.
“Sono in arrivo 60 pullman da tutta Italia – spiega Claudio Riccio, del coordinamento universitario Link – sarà una manifestazione importante, non legata solo ai temi studenteschi, ma a quelli del futuro del paese”. In piazza scenderanno anche i ricercatori della Rete 29 aprile che hanno protestato sul tetto nelle ultime settimane.
“Cercheremo di avvicinarci quanto più possibile al centro – ha detto Stefano Vitale, dell’Unione degli studenti – perché vogliamo portare i nostri regali al governo, pacchi pieni di soldi fasulli, come le loro promesse”.
LE PROTESTE non si svolgeranno solo a Roma. Sit-in e flash mob caratterizzeranno tutte le più importanti piazze italiane. Atteso a Milano un corteo di studenti e di precari che partirà alle 9:30 da largo Cairoli. A Torino l’appuntamento è alle 9 a piazza Arbarello. Alla stessa ora concentramenti anche a Napoli e Palermo. Per dire “basta” all’era berlusconiana.

il Fatto 14.12.10
Costituzione e “segretezza”


“Le sedute sono pubbliche: tuttavia ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta”. Nell’articolo 64 della Costituzione, al comma 2, esiste effettivamente l’opzione della “seduta segreta”, ma la possibilità “eccezionale”, ricorda il sentatore Pd e costituzionalista Stefano Ceccanti, “di una seduta segreta fu inserita su particolare sollecitazione del democristiano Giovanni Uberti motivandola sulla base di un precedente relativo alla prima guerra mondiale per affrontare questioni di politica estera che non potevano essere trattate in pubblico”. Il 20 settembre del 1946, il padre costituente Uberti, che sarà anche sindaco di Verona all’inizio degli anni ‘50, ritenne che si dovesse tenere aperta questa opzione proprio ricordando la specificità di alcune decisioni di politica estera. “Con tutta evidenza chiosa Ceccanti essa non è in alcun modo utilizzabile per una seduta relativa a voti di fiducia e sfiducia per i quali la Costituzione (art. 94, comma 2) prevede l’appello nominale, collegata indissolubilmente alla pubblicità della scelta”.

l’Unità 14.12.10
L’atroce destino dei minori migranti cacciati come gli adulti


Il Comitato per i minori stranieri non accompagnati (organo istituito presso il ministero del Lavoro) ha calcolato che dal 2000 al 2009 il dato che ne quantifica la presenza oscilla tra le 7/8 mila unità. Si tratta di un dato approssimativo in quanto non tutti gli arrivi vengono registrati, a causa delle reti criminali che li gestiscono, e anche quando la registrazione avviene è forte il rischio di una fuga successiva. Infatti, l’Italia non è considerata generalmente la meta finale ma una via di transito verso altri paesi come la Svezia o la Norvegia. Le modalità di arrivo sono quelle, via mare e via terra, riportate dalla cronaca: viaggi estenuanti a bordo di barconi affollati oppure – ed è ancor peggio, se possibile – precariamente appesi al fondo di un tir o nascosti all’interno del suo carico. L’ultima notizia del genere è di qualche giorno fa: undici ragazzi afghani tra i 13 e i 17 anni scaricati da un camion sull’Autostrada del Sole, sono stati intercettati dai carabinieri a San Cesario e affidati a una struttura di prima accoglienza. Il fatto è in linea con quanto avviene solitamente: l’età dei minori arrivati, la provenienza (si tratta infatti di paesi in stato di guerra o di guerra civile), la modalità di arrivo e la successiva sistemazione. Al momento dell’arrivo si provvede ad affidare la persona a una comunità o a una famiglia, garantendo un titolo di soggiorno (per minore) valido fino alla maggiore età. E poi? Se non c’è un lavoro o un percorso di studio avviato con una regolare documentazione, interviene la legge italiana in materia di immigrazione che, oltre a non essere comprensiva nei confronti di chi è irregolare, non predispone adeguate politiche di accompagnamento.

l’Unità 14.12.10
L’esposto presentato dall’associazione Telefono Viola alla procura
Il nosocomio smentisce e annuncia una indagine interna
Abusi nei reparti di psichiatria del Niguarda: 5 decessi sospetti
La denuncia in procura dell’associazione Telefono Viola: morti e abusi nei reparti psichiatrici dell’ospedale Niguarda. La direzione sanitaria respinge le accuse. Il Pd con Marino chiede un’istruttoria ai carabinieri.
di Giuseppe Vespo


Pazienti legati ai letti per giorni, violenze e lesioni, morti per maltrattamenti: le corsie dei tre reparti di psichiatria dell’ospedale Niguarda, uno dei più grandi di Milano, sono un inferno per chi viene ricoverato. Almeno così vengono descritte nell’esposto presentato ieri dall’associazione Telefono Viola con l’avvocato Mirco Mazzali alla procura del capoluogo lombardo. Secondo la denuncia, in cui si ipotizzano reati che vanno dall’omicidio alle lesioni, tra il 2005 e il 2010 cinque persone sarebbero morte a seguito degli abusi del personale medico, mentre altre cinque avrebbero subito forti lesioni.
Casi come quello del signor Filippo S., in gergo (non molto elegante) definito un «residuo manicomiale»,
ricoverato in un reparto di psichiatria del Niguarda il 10 marzo scorso e morto sette giorni dopo. Secondo quanto ricostruito nell’esposto, intontito dai neurolettici il paziente sarebbe stato abbandonato a se stesso durante il pranzo e il cibo l’avrebbe soffocato. Medici e infermieri, dicono quelli del Telefono Viola, avrebbero dovuto sapere che intense terapie di neurolettici (detti anche neuroparalizzanti) possono sviluppare disfagia iatrogena, quindi soffocamento. Filippo S. non sarebbe stato l’unico a morire in questo modo: la stessa sorte sarebbe toccata ad un’altra paziente, la signora Maria Graziella B., morta a 71 anni il 13 gennaio.
La signora Rita F., invece, viene ricoverata in una delle tre strutture psichiatriche del Niguarda il 2 marzo 2006. Entra in ospedale con le sue gambe, ma secondo quanto denunciato, ne esce sulla sedia a rotelle. Ad impedirle di camminare sarebbero state le piaghe da decubito provocate dalla lunga «contenzione», ovvero dalla pratica (non vietata dalla legge) di legare i pazienti a letto. Rita, che si sarebbe mostrata reticente alla cura del medico, sarebbe stata legata per troppo tempo, tanto da causarle oltre alle piaghe anche infezioni alle vie urinarie, trombosi venosa e tromboembolia polmonare. La «contenzione» al Niguarda, dice Giorgio Pompa del Telefono Viola, è praticata ai limiti della «tortura». Prova ne sarebbe la testimonianza della signora Marinella S., una paziente che secondo la denuncia sarebbe stata legata al letto per 438 ore consecutive, cioè 18 giorni e sei ore. Un tempo, si legge nel documento presentato ai magistrati, «pari a trentasei volte la durata massima della contenzione consigliata dai protocolli». E ancora: «Al Grossoni 2 (uno dei tre reparti di psichiatria, ndr) sono riportate le centinaia di firme del controllo della lunghissima contenzione». Al Niguarda sarebbe poi «avallato» anche «lo spallaccio»: pratica che consiste fissare il paziente «supino con un lenzuolo arrotolato che ferma le spalle al piano del letto». L’ospedale respinge le accuse sulle violenze e annuncia l’apertura di un’indagine interna da parte della direzione sanitaria e del dipartimento di salute mentale. Mentre il senatore Pd Ignazio Marino, già impegnato su questo fronte con la Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario, ha chiesto ai carabinieri un’istruttoria su quanto denunciato.

l’Unità 14.12.10
La denuncia di padre Zerai: «Sappiamo chi è il sequestratore, si chiama Abu Khaled»
Tra i 250 prigionieri nel Sinai ci sono almeno 80 profughi scappati dai lager libici
«Gli eritrei prigionieri a Rafah L’Italia sa tutto, deve salvarli»
Padre Zerai ha fatto il nome del capo della banda. Ha indicato la città dove sono tenuti in ostaggio. Lo ha detto a funzionari della Farnesina. Ma il governo egiziano continua a negare l’esistenza dei 250 ostaggi eritrei.
di Umberto DE Giovannangeli


Il suo nome è Abu Khaled. È lui il capo della banda di predoni che da oltre un mese tiene in ostaggio 250 eritrei, somali, uccidendoli uno dopo l'altro se non pagano 8mila dollari a testa. La città-prigione è nota alle cronache (di guerra) internazionali: Rafah, tra Egitto e la Striscia di Gaza. «Ho fatto nomi e località a funzionari della Farnesina che a loro volta mi hanno assicurato di averli trasmessi all'Ambasciata italiana al Cairo...Ma le autorità egiziane continuano a sostenere di non saperne nulla, per loro quelle persone sembrano non esistere..», dice a l'Unità don Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente di Hadashia, l'Ong che si occupa dell'inserimento dei migranti africani in Italia».
TRAGEDIA INFINITA
La mattanza continua. Nell'inerzia del Governo egiziano. E nell'immobilismo della Comunità internazionale. Sono almeno 8 gli ostaggi finora uccisi. Gli ultimi erano due «diaconi»: «Li chiamavano così spiega don Zerai perché erano gli animatori del gruppo, coloro che organizzavano le preghiere collettive, leggevano la Bibbia...Li hanno prima picchiati selvaggiamente e poi li hanno uccisi». L'ultimo contatto telefonico risale a sabato pomeriggio: «Su molte persone riferisce il prelato – grava anche la minaccia dell'espianto di organi per pagare il loro riscatto». «Altri ostaggi aggiunge sono in fin di vita dopo essere stati picchiati selvaggiamente sabato pomeriggio, mentre da qualche giorno viene negata loro l'acqua da bere e vengono costretti a bere la loro urina». Quello che sta accadendo è una barbarie», sottolinea il sacerdote chiedendo ancora una volta che «la comunità internazionale condanni tutto ciò e richiami il Governo egiziano ad intervenire con decisione per sottrarre queste vite umane dalle mani dei trafficanti e il loro complici in quella regione del Sinai». «Non si possono più aspettare i tempi della diplomazia insiste il missionario eritreo perché la gente sta morendo a causa della fame e della sete quando non è massacrata di botte. Al Governo italiano torno a chiedere, a implorare un suo intervento sul Governo egiziano perché intervenga con decisione per sottrarre queste vite umane dalle mani insanguinate dei trafficanti e dei loro complici nel Sinai». Don Zerai non lo dice, ma fonti bene informate rivelano a l’Unità che i predoni godono di protezione tra la polizia di Rafah.
ROMA COLPEVOLE
Dal Cairo, il ministro degli Esteri egiziano Ahmed Abul Gheit si è detto nuovamente «sorpreso» delle affermazioni «europee» circa questo gruppo di eritrei che si presume sia tenuto in ostaggio in Sinai e su cui il dicastero dell'Interno «non ha alcuna informazione». Dal punto di vista egiziano è certo solo che un gruppo di eritrei ha tentato di arrivare in Italia e che, dopo essere stato fermato, ed è stato rimandato in Libia; almeno 83 di loro si sono infiltrati in Egitto ed hanno cercato di attraversare il canale di Suez, senza però riuscirvi. Nell’affermarlo, Abul Gheit ha aggiunto che ci sono tentativi per fare entrare clandestinamente immigrati nel Sinai per arrivare in Israele, ma che il Governo egiziano fa del suo meglio per prevenire questo fenomeno.
I REDUCI DA BRAK
Secondo la ricostruzione di padre Zerai molti di quegli 80 suoi connazionali sarebbero stati respinti dall’Italia (dove avrebbero avuto diritto di asilo) in Libia nel 2009, quindi rinchiusi nel carcere di Al Brak. Dopo qualche mese gli 80 escono a seguito di una amnistia. Si disperdono nel deserto, non potendo tornare in Eritrea dove verrebbero incarcerati nuovamente e molto probabilmente giustiziati. Sono intrappolati: l’Italia li ha respinti, la Libia se ne è lavata le mani. Riescono a mettersi in contatto con un gruppo di trafficanti che promettono, per 2.000 dollari a testa, di farli arrivare nel Sinai e di lì in Israele. Il destino di questo gruppo di eritrei è comune a decine di altri immigrati provenienti da vari Paesi africani che tentano di raggiungere Israele risalendo l'Africa, attraversando il Mar Rosso e tentando di risalire il Sinai fino ad arrivare alla frontiera. Proprio per arginare questo fenomeno Israele ha cominciato, il 22 novembre scorso, a costruire una barriera anti immigrati clandestini lunga 240 chilometri per rendere la sua frontiera con l'Egitto impermeabile a uomini, ma anche a traffici di altro genere. Secondo stime della stampa israeliana, dall'inizio del 2010 sono entrate illegalmente nel Paese 12mila persone e il numero mensile di ingressi è in aumento costante. Trasportati su camion cisterna o per il bestiame, gli immigrati arrivano nel Sinai e devono pagare 1.000 dollari ai trafficanti, spesso armati, che percorrendo i sentieri montagnosi del Sinai li avvicinano al confine con Israele. Spesso vengono presi in ostaggio. E se non pagano altre migliaia di dollari, uccisi.

il Fatto 14.12.10
La verità sugli immigrati
di Ignazio Marino


Per lavorare da immigrato avevo fatto anche io il mio test di lingua inglese. Nonostante questo la centralinista dell’ospedale mi riconosceva sempre prima che finissi di dire “good morning” per il mio forte accento straniero. Sono arrivato in America a metà degli anni Ottanta e, come tanti, sono rimasto con un visto a studiare, ma anche a lavorare come chirurgo. La mia situazione non era stabile e annualmente dovevo rinnovare i documenti e farmi riprendere le impronte digitali. La cittadinanza americana è arrivata dopo diversi anni. Ma questo non mi impedì di divenire il direttore del Centro Trapianti del Veterans Affairs Medical Center, l’unico dipartimento per trapianti di fegato appartenente al governo degli Stati Uniti.
In Italia potrebbe accadere? Permetteremmo, per esempio, a un marocchino di 37 anni di dirigere l'Agenzia Spaziale Italiana oppure il Consiglio Nazionale delle Ricerche?
L’invasione straniera
MI SEMBRA che la politica di questi tempi, anche a livello locale, sia molto impegnata nel rassicurare chi è preoccupato per una "invasione straniera" incapace di integrarsi: è una cultura che si nutre di provvedimenti simbolici e di ipertrofia burocratica, di affermazioni e scandalose campagne xenofobe, come il sapone anti-immigrati distribuito qualche mese fa dalla Lega Nord nell'aretino; oppure del principio che lega il diritto di voto esclusivamente alla cittadinanza e non, ad esempio, alla contribuzione fiscale.
I diritti, tuttavia, dovrebbero accompagnare le regole perlasicurezza:ildirittoalle cure, allo studio, al lavoro, ad avere un tetto sulla testa. Il rispetto della dignità personale dovrebbe essere al centro delle decisioni, come ha chiesto Mohammed Fikri, il ragazzo marocchino accusato per errore della scomparsa di Yara Gambirasio.
Contraddizioni leghiste
COME MAI la Lega non ha alcun problema a concedere spazio ai cittadini extracomunitari quando si tratta di accudire i nostri anziani, pulire le nostre case, mandare avanti le fabbriche, raccogliere pomodori? Per la Lega è importante che siano invisibili e muti, resi incerti da una legge (la Bossi-Fini) che ha dimostrato di non funzionare e ha creato maggiore clandestinità. Il nostro dovere, invece, è di rendere più semplice la regolarizzazione per chi lavora e rispetta le leggi: barriere burocratiche insormontabili e incomprensibili fanno solo proliferare l'illegalità.
Sfatiamo qualche luogo comune. Non è vero che "vengono tutti qui": da noi gli immigrati rappresentano il 6% della popolazione, contro il 12 dell'Irlanda, l'11 della Spagna il 10 dell'Austria e l'8 della Germania. Non è vero che "nei loro paesi non ci fanno costruire le chiese": in Marocco, ad esempio, i cattolici sono circa 27 mila (su una popolazione di 34 milioni di persone) e hanno 3 cattedrali e 78 chiese. Non è vero, inoltre, che "vengono qui e ci rubano il posto, lavorando in nero": semmai contribuiscono a pagare le nostre pensioni, visto che il 92% degli immigrati con permesso di soggiorno sono iscritti all'Inps . Di più, contribuiscono alla produzione del Pil per l'11%, secondo i dati della Caritas.
Un bimbo afghano
RAMLAH è un bambino afghano di 9 anni, giunto in Italia 3 anni fa, perché la sua mamma ha pagato mani estranee affinché lo portasserovia.Nelcongedarsi,con le lacrime che le rigavano il volto, gli disse: “Figlio mio, voglio che tu cresca in un paese dove non rischierai di saltare su una mina, dove se ti ammalerai potrai essere curato e dove potrai studiare”. E Ramlah studia e parla bene l’italiano. L’immigrazione assieme alla tutela dell’ambiente sono le sfide della nostra epoca. Dobbiamo affrontarle con razionalità, rigore, intelligenza, e non diffondendo paura e odio. Ecco la verità. Alla luce di ciò, a mio avviso, gli unici che dovrebbero prendere "cammelli e barchette" e andare a casa (per citare un celebre adagio anti-immigrati) sono la Lega e il Partito dell'Amore.

il Fatto 14.12.10
Se lo Stato cede alla Chiesa
di Ferruccio Sansa


Disarmati. Impotenti. Così si sentono oggi tanti cattolici italiani di fronte all’ennesima improvvida ingerenza politica del cardinale Bertone. Ma che cosa può fare un cattolico per manifestare la propria profondissima disapprovazione verso gli uomini che rappresentano la sua Chiesa (e più in profondità perfino la sua fede)? Si parlava una volta di cattolicesimo del dissenso. Ma quando i motivi di distacco prevalgono su quelli di unione allora bisogna affrontare questioni più profonde. Mettere in discussione perfino un’appartenenza che ti porti dentro da bambino, che è una delle ragioni fondanti della tua persona. Già, pensi per un attimo a un gesto di protesta personale, ad abbandonare la messa. Ma capisci che non avrebbe senso: chi se ne accorgerebbe, chi ne sarebbe turbato, a parte te che ti priveresti di un colloquio di cui hai bisogno? Nessuno.
E POI PERCHÉ punire quei poveri sacerdoti già lasciati soli in chiese vuote, uomini che – tra l’altro – spesso si trovano altrettanto spaesati di fronte a una Chiesa cui hanno dedicato la vita e di cui non capiscono più le decisioni? Ma allora, che cosa... allontanarsi definitivamente da questa Chiesa? No, non bisogna lasciarla a loro, perché non è soltanto di Ratzinger e di Bertone, non più di quanto sia nostra, come insegna San Paolo: ognuno è un membro dello stesso corpo, nessuno più importante dell’altro.
Lo smarrimento – di fronte alle immagini di Bertone e Berlusconi sorridenti, oppure ai resoconti delle incredibili cene a casa Vespa – può arrivare perfino a far vacillare la stessa fede già messa a dura prova dal dolore che spesso sembra prevalere in questo mondo. Ma qui non stiamo parlando nemmeno più della stretta attualità. Ormai tanti cattolici e cittadini italiani hanno rinunciato a sperare che questa Chiesa riesca ad afferrare il significato della parola laicità. Tornano in mente le cristalline parole del cardinal Mar-tini: “Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità”. I cattolici sono rassegnati di fronte alla perversa commistione tra gerarchie ecclesiastiche e potere, di cui la cronaca offre quotidiani esempi: dalla strenua difesa di Antonio Fazio, ai conti opachi dello Ior, fino all’appoggio a Berlusconi per mendicare due soldi per le scuole private. Sono allibiti di fronte al sostegno che la Chiesa concede a uno schieramento che lancia ogni giorno messaggi intrisi di razzismo e immoralità.
IL PUNTO è un altro. Avvilisce (e smarrisce) nelle notizie delle “trattative” tra Bertone e Berlusconi la debolezza della Chiesa, la totale mancanza di fiducia che le gerarchie ecclesiastiche manifestano nel proprio messaggio. No, non si chiede al Vaticano di schierarsi a sinistra, piuttosto che a destra. Anzi, si chiede soltanto alla Chiesa di essere testimone – coerente – del Vangelo.
Non sono le leggi che salvano formalmente la tutela della vita nello stesso istante in cui concretamente l’esistenza degli immigrati viene calpestata. Non sono le scuole cattoliche che salvano la fede. È piuttosto la testimonianza. E sbaglia, di quanto!, chi pensa che i cattolici – e non solo loro – respingano il rigore, perfino la severità del rivoluzionario messaggio di Cristo. Anzi, proprio questo attendono in tanti: qualcuno che ci ricordi di amare il nemico e ci ripeta ogni giorno che beati sono i miti, i poveri, chi ha fame e sete di giustizia. Qualcuno che invece di accanirsi sui diritti degli omosessuali ricordi le parole di Sant’Agostino: “Ama e fai ciò che vuoi”.
È falso che gli uomini contemporanei non credano più nel messaggio del Vangelo. Si allontanano piuttosto dalla Chiesa perché nei suoi vertici non vedono più chi lo testimoni. Ma poi si trovano soli, smarriti, e perdono anche la fede.

Repubblica 14.12.10
Un bel sorriso alla gravidanza
Sedici su cento sperimentano varie forme di depressione, poche chiedono aiuto, pochissime vengono curate. Per le donne incinte arriva una campagna triennale sul web e sui cellulari, mentre aprono sei centri di riferimento


Gravidanza e nascita non sempre sono periodi felici per la madre e la coppia. Tant´è che il 16 per cento delle donne sperimenta una qualche forma di depressione perinatale. Poche quelle che chiedono aiuto, poche quelle curate. Per loro, per farle sentire meno sole e rompere il muro di silenzio, inizia la Campagna triennale "A smile for moms" promossa dall´Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) che stavolta mette in campo tutti gli strumenti di comunicazione (Sms, Tim Spot, You Tube, Facebook) incluso un sito dedicato, una rete regionale di sei Centri di riferimento a Milano, Torino, Pisa, Ancona, Napoli, Catania, e una mozione presentata da 68 parlamentari bipartisan, appena approvata in Senato.
«La gravidanza è un momento di profondi cambiamenti e di sentimenti contrastanti per la donna che non sempre è in grado di affrontarli ed esprimerli - dice la presidente di Onda, Francesca Merzagora - per questo abbiamo deciso di occuparcene, per evitare che diventino vera malattia». Sono 90 mila le donne che ogni anno in Italia soffrono di un disturbo più o meno grave dell´umore, di loro meno della metà riceve aiuto. Perché la depressione è una malattia taciuta e perché mancano allo stato attuale le competenze. «Chiediamo al governo - sottolinea la senatrice Emanuela Baio - che dentro gli ospedali vi sia personale sanitario formato e capace di individuare una donna in difficoltà e che siano garantiti assistenza e accesso alle cure per evitare che la depressione si aggravi».
In attesa che vengano emanate presto le linee guida della gravidanza fisiologica, una raccomandazione del ministro della Salute, Ferruccio Fazio, ai professionisti degli ospedali e del territorio: «È opportuno rivolgere attenzione agli incontri con la futura mamma per rilevare anche il minimo disagio, un aiuto può essere quello delle domande aperte».
Da considerare, inoltre che la nascita, il rientro a casa e l´avvio della quotidianità aprono scenari complessi e faticosi: il 70-80% delle mamme, attempate o giovani, scivola nella malinconia puerperale, una forma di labilità emotiva fastidiosa ma transitoria che nulla ha a che vedere con la più importante e meno frequente depressione post partum che riguarda il 10-15 per cento delle donne.
(mp. s.)

«Faccio sogni chiari, a colori, ha idea di quanto sia bello sognare continuando a vedere le cose perfettamente?»
il Fatto 14.12.10
Sergio Staino
Provaci ancora Bobo
di Malcom Pagani


Per gli amici che vanno e ritornano indietro, Sergio Staino rimane ancorato al tavolo di sempre. Vedere senza osservare è un esercizio inutile, ma Bobo ha vissuto e quindi, indifferente alla decadenza, tratteggia anche con gli occhi velati. Iniziò nel '79, su Linus, il mensile che amava e che negli anni freddi delle tasche vuote e del vino versato nel cammino, divenne molto più di una coperta. Poi Messaggero, Unità e le massime familiari di un microcosmo militante che emigrarono nella calda culla di un messaggio universale. L'architetto Sergio Staino disegna da trent'anni e nonostante la retina fosse impazzita già al tramonto dei '70, tirarsi indietro non era tra le variabili. Cammina con il bastone, ride spesso, si orienta a fatica mantenendo stabile la religione unica dell'ironia: “Oggi è Santa Lucia, protettrice dei non vedenti, giorno perfetto per un'intervista”.
Staino, da dove partiamo?
Dai primi anni, sono quelli a formarci e renderci ciò che siamo. Fortunatamente Sono un meticcio perché gli incroci, anche quelli estremi, portano con loro un vento consolante.
La sua tramontana?
Mio padre era lucano, sud estremo, un bracciante fuggito dalla povertà con due sole strade davanti: fare il prete o il carabiniere.
Vicoli corti.
Babbo era una testa calda, i preti non lo vollero. Così indossò il pennacchio e da carabiniere conobbe questa fanciulla toscana figlia di un contadino anarchico poi diventato sindacalista, ferroviere e rivoluzionario.
Ossimori sentimentali.
Casini deliranti e contraddizioni politiche figlie dell'incontro tra due etnie che si comprendevano a stento. Il giorno dell'attentato a Togliatti, il padre di mia madre si trovò di fronte al mio babbo. Davanti alla ribollita, la discussione si alzò di tono. Il vecchio aprì le ostilità: ‘Guardia, fatti vedere poco in giro perché per l'insurrezione popolare aspettiamo soltanto il via da Roma’.
E suo padre?
Laconico. Freddo. Indignato. Si alzò e guardandolo dritto negli occhi disse soltanto: ‘Pregate dio che non succeda, perché la mia prima fucilata sarà per voi’.
Un bel clima.
A mio padre devo l'estroversione e la capacità di contaminarsi con gli altri, a mia madre la serenità. Se sono diventato un disegnatore lo devo a lei. Perdeva ore per insegnarmi a copiare figure fiabesche e stilizzazioni. Mi ha fatto amare il disegno e una cosa la fai bene solo se la ami. Altrimenti, qualsiasi mestiere è una condanna.
Altri precetti?
La dignità nel comportamento. La capacità di dire no all'ingiustizia, di sollevarsi senza ribellismi parolai, pure fertili per tradizione, a tutte le latitudini della Toscana. ‘Ricordati Sergio, i doveri vengono prima dei diritti’.
Sembra un motteggio di Bobo.
Bobo è morale e moralista. In ogni caso ha lasciato un segno. Me ne accorgo quando trovo dei giovanottoni di 30 anni: ‘Me lo fa un disegnino per mio padre?’. Richieste che mi rivelano quanto tempo sia passato davvero.
Perché Bobo è sopravvissuto alle epoche?
Fa scattare l'identificazione, in molti si riconoscono. Per le masse popolari legate alla sinistra, ha rappresentato lo sdogana-mento del fumetto. Oggi sembra automatico, ma nei primi anni '80, per chi faceva satira avvicinare un lettore trinariciuto era un'impresa.
Addirittura?
Per uno abituato a leggere testi di Marx o editoriali di Togliatti e Berlinguer, trovare le mie figurine in mano ai suoi figli equivaleva a uno choc.
Quale l'orizzonte di Bobo oggi?
Soffre anche lui. Non è in crisi la satira, è in crisi la politica. L'autore satirico è l'ironico sintetizzatore di una passione. Se quella passione langue, piange anche la satira.
Il primo a darle fiducia fu Oreste Del Buono.
Non avevo una lira e la spinta pratica a inventare fumetti dipese da un imperativo prosaico: arrivare in fondo al mese. Io ero un precario dello scuola. Bruna, la mia compagna, una peruviana senza permesso di soggiorno. Del Buono era un galantuomo, Linus il mio faro e un po' meccanicamente, pensai di spedirgli una mia striscia. Andò bene e continuai.
Fortunato.
La ventura fu che nel bagaglio che poi ebbi il coraggio di riversare sulle strisce, pulsava una vera crisi. C'erano ideali crollati, disillusioni, ferite. L'impegno militante nei marxisti-leninisti ai quali mi ero iscritto perché ritenevo il Pci troppo revisionista, mi aveva temprato e bruciato al tempo stesso, in un arco di tempo lungo un decennio. Dal '68 al ‘78.
In vacanza, lei andava in Albania.
Raggiunsi la cecità ideologica prima di quella fisica. Avevamo il prosciutto sugli occhi, vedevamo nell'estremismo cinese o cubano il sol dell'avvenire. Quando mi snebbiai e intuii gli sbocchi tragici nei quali ci stavamo incanalando e il destino dei miei compagni di militanza, in bilico tra l'ingresso in manicomio e quello nel partito socialista, per recuperare il tempo perduto era già tardi.
Ma l'Albania di Enver Hoxha?
Gli albanesi si servivano di noi non perché sperassero che in Italia avremmo rovesciato il potere per instaurare la dittatura del proletariato, ma per una ragione più terrena. Ci usavano come specchietto per le allodole.
Specchietto?
Erano talmente isolati e raccontavano così tante balle al loro popolo per giustificare la follia totalitaria il regime che avevano necessità di una legittimazione dall'esterno. Utili idioti, questo eravamo. Però mi lasci dire una cosa.
Prego.
Non si può capire la parabola di un militante nei ‘70, senza capire cosa furono i primi anni ‘60. I fermenti che a un tratto trasmutarono in movimento.
I suoi ‘60 come furono?
Mi sentivo solissimo e in balera non andavo di certo. Mi dividevo tra il lavoro nella fabbrica di ceramica di Marcello Fantoni, l’ascolto dei dischi del Sole, i cineforum e i libri. Leggevo moltissimo: i volumi Einaudi, i testi teatrali, quelli sulla mobilitazione antifranchista.
Un’esperienza come Tango sarebbe ripetibile?
No, manca il partito totalizzante in funzione di stimolo. All'epoca c'era il Pci. La satira vive dell'intelligenza dell'autore e dell’ambiente circostante. Io non fui cattivo, irriverente tutt’al più, ma dall'interno della stessa chiesa, i graffi bastarono a creare il caos.
Aneddoti?
Al congresso di Rimini, il prologo dello scioglimento del Pci ero a pranzo nell'albergo in cui era ospitata la nomenklatura. A un tratto entrò Natta, il segretario.
Scena?
Mi vide nella sala e venne verso di me urlando. Gridò, diventò paonazzo: “Tu, tu, tu, te e il tuo maledetto Tango. Siete stati voi a trascinarci nella tragedia che stiamo vivendo”.
Esagerato.
Era un'accusa sovradimensionata, però un contributo a far crollare il Pci monolitico e ad aggiornarne le istanze, io, Pazienza, Ellekappa e Altan lo fornimmo.
Degli impulsi giovanili il Pci ha spesso capito poco.
È sempre stato così. Hanno uno schema in tasca e pensano di poterlo applicare a tutte le sfere. Alle pulsioni che animano gli operai, hanno sempre preferito i modelli prestampati, i giochi di corridoio. Un peccato.
Dicono che D’Alema la detesti.
Credo che tra noi ci sia un’amicizia profonda e che in certi momenti, come è normale, Massimo mi avrebbe visto volentieri morto.
Renzi le piace?
Non sono d’accordo con lui e la parola rottamare non mi garba. Però chi ha avuto la sua occasione , chi ha perso ripetutamente e ci ha ridotto in questo modo, dovrebbe sparire dal partito.
Duro.
Perché mai? Tirarsi indietro e occuparsi di altro non è mica una bestemmia. Questa prolungata eterodirezione bicefala tra Veltroni e D’Alema, è grottesca. Prolunga l’agonia, rende impossibile comprendere ciò che accade realmente nel Paese.
Tra Veltroni e D’Alema chi preferisce?
Veltroni sa fingere meglio, D'Alema almeno è trasparente. Walter, tra gli altri, ha anche quel difetto.
Insomma per l’assoluzione piena di un dirigente bisogna tornare al suo antico maestro di vita, Berlinguer.
Enrico aveva visto lungo ma noi non lo capimmo. Parlava di questione morale e austerità e quanto avesse ragione l’abbiamo capito molto tempo dopo, osservando i comportamenti di Craxi e Berlusconi.
Prospettive?
Quegli idioti dei brigatisti, eliminando Moro hanno ucciso l’ultima speranza di reale compromesso. Da allora etica, politica generale e interesse comune hanno preso strade diverse.
Un’ultima curiosità. Lei tra il 1989 e il ‘92 girò alcuni film. Poi si fermò.
Purtroppo non sono più stato in grado di farlo. Il cinema è molto divertente e puoi fare cose in compagnia, che è consolante. Mentre il disegno con le tavole elettroniche e i prodigiosi strumenti della modernità può mettere la cecità in un angolo e continuare a farmi pittare strisce a ritmi fordisti, la macchina da presa senza l’occhio somiglia da vicino al nulla.
Però resta la testa.
Infatti. È il cervello che fa ogni cosa. Disegno in automatico e anche senza l’autonomia di un tempo, mi resta l'attività onirica. Faccio sogni chiari, a colori, ha idea di quanto sia bello sognare continuando a vedere le cose perfettamente?

anima e neuroscienze
Avvenire Agorà 14.12.10
L’anima della neuroscienza

Domani e giovedì a Milano dibattito tra storici, teologi, filosofi, fisici e psichiatri: un’indagine a tutto campo sui nodi ancora irrisolti tra mente, comportamento e immortalità
Da una parte le indagini sui meccanismi cerebrali e sul loro rapporto con libertà e volontà; dall’altra la millenaria tradizione del pensiero occidentale che riflette su corpo e spirito.
A che punto è arrivato il confronto? È ancora un limite invalicabile quella corrente «riduzionista» che vorrebbe correlare ogni azione e ogni scelta dell’uomo a un moto meccanico dell’encefalo? Faccia a faccia tra un filosofo e un fisiologo 
Avvenire 1.
Ghisalberti: «Scienze dello spirito e scienze del cervello dialoghino»
Ma è innegabile che il senso comune mantiene un riferimento all’anima, soprattutto nel vissuto del singolo sog­getto
di Andrea Lavazza


Alessandro Ghisalberti, pro­fessore di Filosofia teoretica presso l’Università Cattolica di Milano, ha dedicato la sua lunga at­tività di studio e ricerca alla filosofia scolastica e ai rapporti tra razionalità filosofica e rivelazione cristiana.
Che cosa resta oggi vitale della vene­randa tradizione filosofica e teologi­ca sul concetto di anima?
«La parola anima, assunta a indicare in senso generale la parte spirituale dell’uomo, appartiene in modo irre­versibile alle tradizioni religiose, teo­logiche, filosofiche, letterarie e scientifi­che della civiltà occi­dentale, così come, nonostante il caratte­re astratto dell’anima, la sua raffigurazione in modalità pittoriche e figurative di ogni ge­nere si riscontra sin dai primordi del­le civiltà mediorientali. Direi che del­l’anima oggi resta tutto in teologia, ma anche in filosofia. Si potrebbe dire che il caso dell’anima è analogo a quello di Dio: chi vuole negarne con prove filosofiche o scientifiche l’esistenza, è costretto a dichiarare di avere una no­zione di anima. Ma sappiamo che 'provare' (e non semplicemente dire a parole) la non esistenza di entità concettuali così forti, come Dio e ani­ma, invisibili perché immateriali, è impresa del tutto impossibile».
La scienza sta erodendo nel senso co­mune l’idea di anima come compo­nente immateriale dell’uomo. Che cosa può replicare la filosofia?
«Non ritengo che la scienza possa se­riamente minare la nozione di anima come componente o facoltà immate­riale dell’uomo, composto di anima e corpo; certamente la divulgazione scientifica meno rigorosa ha portato a un diffuso modo di concepire in ter­mini fisicistici (materiali) i processi che determinano le funzioni psichi­che, emotive e cognitive dell’uomo».
Mente è un sinonimo moderno di a­nima o si rischia di fare ulteriori e pe­ricolose confusioni?
«Servirebbero molte distinzioni, si può tuttavia osservare, in generale, che se si prende l’uomo nella sua de­finizione più diffusa di organismo do­tato di un corpo animale e della ca­pacità di pensare, allora il significato di anima razionale può avvicinarsi al moderno termine di mente. Con l’av­vertenza, però, che all’anima appar­tiene tutto il vissuto biopsichico del­l’io, con le sue aspirazioni intime».
In che senso si può dire, come nel te­sto introduttivo del convegno, che le neuroscienze sono una dimensione che più adeguatamente delinea e di­fende l’anima?
«Le neuroscienze difendono l’anima perché sanno di trovarsi, nei territori complessi dell’anima, su terreni assai delicati. Quello che esse verificano sperimentalmente nella corteccia ce­rebrale offre dati positivi certi, che però sono circoscritti al campo d’in­dagine attivato; il re­sto, come spiegare la natura del pensiero a­stratto, o la dimensio­ne della coscienza sog­gettiva, non è compito delle neuroscienze, ma costituisce ogget­to dell’interpretazione sulla base di analisi filosofiche o teo­logiche. Non è il neurone che avverte lo stato di depressione o di angoscia, ma spesso accade che si producano reazioni nell’interiorità del soggetto, prima sentite come angoscia, poi co­me ritorno alla normalità: angoscia o serenità sono elaborazioni dell’ani­ma, ossia del vissuto peculiare del sog­getto umano».
Quale dialogo vi può essere attual­mente tra scienze dello spirito e scienze del cervello? Ci sono utili ter­reni di confronto?
«Indubbiamente, vi deve essere dia­logo tra scienze dello spirito e scien­ze del cervello, perché trattano tutte la specificità dell’uomo: affrontare u­na stessa questione da molteplici punti di vista arricchisce la visuale, e consente un discorso complessivo sulla realtà unitaria dell’uomo, del suo essere unità di anima e corpo. Senza dimenticare che la millenaria rifles­sione sull’anima ha costituito proprio il campo base della ricerca da cui si sono poi sviluppate le varie branche della psicologia e delle neuroscienze».

Avvenire 2.
Berlucchi: «Ma l’approccio interdisciplinare resta arduo»
intervista di Andrea Lavazza


Giovanni Berlucchi, professore di Fisiologia al dipartimento di Scienze neurologiche e del­la visione dell’Università di Verona, è uno dei decani delle neuroscienze i­taliane.

Le neuroscienze hanno qualcosa da dire sul concetto di anima, così co­me è stato delineato da teologi e fi­losofia nei secoli, oppure ne pre­scindono completamente?
«Se per anima si intende un’essenza immateriale che sopravvive alla mor­te (e a me pare che oggi questo do­vrebbe essere il senso del termine) le neuroscienze non hanno niente da dire, se non che non si vede come questa es­senza possa contene­re la mente del defun­to, visto che questa è inscindibilmente lega­ta al cervello. Il proble­ma della resurrezione della carne va lasciato teologi».
Alle scienze del cervello, che usano un indispensabile riduzionismo me­todologico, si imputa spesso anche un riduzionismo ontologico, che o­scurerebbe una parte fondamenta­le della nostra vita personale. Come risponderebbe a questa critica?
«Dagli anni ’60 le neuroscienze (al­meno quelle illuminate) hanno attri­buito all’esperienza soggettiva una dignità ontologica propria, anche se imprescindibilmente dipendente dall’attività nervosa. Il mio dolore non ci sarebbe senza una specifica attività del mio cervello, ma ho il di­ritto di considerarlo diverso da quel­­l’attività. Il grande enigma rimane quello della possibile efficacia cau­sale dei processi mentali sui proces­si cerebrali. Forse non c’è, ma negar­la equivarrebbe a negare i concetti di libertà e responsabilità, indispensa­bili alla coesistenza umana».
Se al neuroscienziato si chiede di parlare di anima, qual è la sua rea­zione? La mente è diventato sinoni­mo moderno di anima? Ma anche la mente sembra perdere rilievo a fa­vore del funzionamento 'materiale' del cervello...
«Il neuroscienziato può parlare di a­nima come tutti, e ciò che dice può avere senso o no. Certo, non mi pare utile equiparare anima a mente, o ri­tenere che l’anima come essenza spi­rituale immortale contenga la men­te. Per quanto riguarda la mente con­scia o inconscia, crederla totalmen­te dipendente dall’attività nervosa non significa affatto negarne l’esi­stenza.
La scienza del cervello che 'cancel­la' l’anima è necessariamente desti­nata a entrare in urto con la religio­ne? Oppure i loro ambito possono o devono restare distinti, senza prete­sa di trovare un punto di incontro?
«Se si restringe (come mi pare op­portuno) il concetto di anima alla so­pravvivenza di una entità che non ha bisogno del corpo, le neuroscienze non cancellano affatto l’anima. Anzi, l’esigenza di prolungare oltre alla morte la propria esistenza va ricono­sciuta come un’aspirazione intrinse­ca del cervello umano, da cui sono nate tutte le religioni. Se la religione dà conforto di fronte alla previsione certa della fine del proprio mondo, per quale ra­gione la scienza do­vrebbe entrare in conflitto con essa?».
Immagino che tra gli scienziati, al di là del comune linguaggio dei dati, vi sia di­versità di opinioni. Uno scienziato può continuare a credere all’anima senza subire ostracismi? Il confron­to tra scienziati, filosofi e teologi può dare risultati significativi o è diven­tato un dialogo tra sordi?
«Penso che credere o non credere (in senso religioso) rifletta in ogni per­sona l’esistenza di fondamentali dif­ferenze psicologiche (cerebrali) fra gli individui, dipendenti dai geni, dall’e­sperienza, dall’educazione e da mol­tissimi altri ingredienti dell’esisten­za umana. Quindi, vi sono scienziati che credono e altri no. Entrambi so­no liberi e degni di rispetto. Conosco personalmente grandi scienziati al­cuni dei quali sono religiosi e altri no. Non mi pare in genere che la loro scienza (né per il vero la loro mora­lità) dipenda dalla loro religiosità. Quanto agli incontri fra filosofi, teo­logi e neuroscienziati, le mie espe­rienze sono state spesso negative. Non si tratta di sordità, ma di hybris professionali».