giovedì 16 dicembre 2010

Agi 10.12.10
Libri: A Firenze “Storie di Amore e Psiche”
Firenze, 10 dic. - Il segreto di un'identita' invisibile, i cui protagonisti sono da sempre ragazze e ragazzi innamorati, di ogni civilta', pervade gli strati della storia, appartiene a tutte le zone del mondo, e definisce un filone narrativo senza confini: e' la favola universale dello sconosciuto che la fanciulla puo' amare soltanto di notte. Dopo averne tradito il mistero, istigata da parenti invidiosi, deve poi superare ardue prove per riconquistarlo. Un'affascinante testimonianza del vagabondare attraverso l'antichita' di questa arcaica trama, talmente diffusa da poterla considerare "la storia d'amore piu' antica del mondo", si scopre in "Storie di Amore e Psiche", a cura di Annamaria Zesi, studiosa di storia della letteratura di tradizione orale, uscito nelle librerie di tutta Italia per i tipi de L'Asino d'oro edizioni, e che verra' presentato a Firenze domenica 12 dicembre 2010 presso la Libreria Melbookstore. Interverranno insieme all'autrice Cecilia Iannaco, Saverio Sani, Federico Masini e Romina Krieger. Il volume raccoglie diciannove "varianti" della favola - una delle quali, intitolata "'U Re d'Amuri" e' stata riscritta in siciliano per l'occasione da Andrea Camilleri -, che dall'Hindustan alla Scandinavia, dalla Persia alle coste Berbere del Mediterraneo, fino alla Russia passando per l'Italia, ripropongono in modo diverso il "plot" della favola di "Amore e Psiche". Sintesi di una ricerca che Annamaria Zesi svolge da lungo tempo, inseguendo tra biblioteche e racconti degli anziani ai mercati mediorientali, le tracce di un ciclo narrativo orale che dall'Anatolia e dall'Iran, attraverso il Caucaso, assume origine letteraria nell'India del II millennio a.C., per giungere poi sotto molteplici vesti (Dracula, La Bella e la Bestia, Biancaneve), fino ai giorni nostri. Il racconto che nel II sec. a.C Apuleio traspose nella prima forma letteraria conosciuta, identifica un vero proprio genere, le cui fila la studiosa ha ricostruito con estrema sensibilita' filologica, riportando alla luce e donando un senso a date, traduzioni e documenti a volte incongruenti. E' il sogno del principe azzurro, l'immagine ideale di ogni adolescente, che segna il passaggio all'eta' adulta. Che si chiami Urvasi, come la ragazza indoiranica protagonista di un inno vedico (Rgveda) di quattromila anni fa, oppure si chiami Tulisa, figlia di falegname e amica degli scoiattoli o sia la bellissima Sguardo Amoroso (Mer Niga), la persiana o la misteriosa berbera Yamina, o Parmetella la napoletana, oppure si chiami Rusiddra, protagonista siciliana della fiaba di Camilleri, tradotta da un racconto del Pitre', l'immagine di Psiche attraversa le epoche e ripropone forse il fascino di "una creazione collettiva", come adombra nella introduzione Annamaria Zesi, indagando con sapienza l'origine semantica del nome psyche': dall'omerico vita e respiro, fino all'iconografia etrusca che trasforma la parola in farfalla. E lo sconosciuto sposo, animale di giorno e bel giovane, aitante, di notte? Nella fantasia degli aedi che portavano per il mondo conosciuto le favole dei popoli senza scrittura, diventa a volte serpente, altre volte enorme aragosta oppure un cammello, che al buio si sveste della pelle selvatica e diventa umano. Tra i motivi che tornano in tutti i racconti, assieme a quello del divieto di guardare il volto dell'amante o di conoscerne il nome ("la gioia e lo smarrimento del misterioso abbraccio notturno, commenta Calvino", ricorda Annamaria Zesi nell'introduzione), ci sono l'invidia dei parenti che tramano inganni, e le difficili prove per riconquistare il bene perduto. Quasi che si trattasse di un "apprendistato della ragazza verso l'eta' adulta", afferma la Zesi, che cita nell'introduzione il professore Massimo Fagioli, autore dell'originale disegno di copertina di "Storie di Amore e Psiche", che in una lezione di psicologia parla di Psiche come di "una protagonista, che attraverso tutto il percorso della storia realizza la sua piena identita' di donna". (AGI) Sep qui
 un comunicato di  Giovanni Senatore

l’Unità 16.12.10
Il Pd vede un governo che durerà poche settimane. «In quattro commissioni è in minoranza»
«Serve una convergenza ampia». Fassina: «Fisicamente presenti nei posti di sofferenza»
Bersani riparte: «Ora in viaggio nell’Italia che vuole cambiare»
Il segretario del Pd convoca la Direzione e vede Veltroni. «Con i cambi di casacca si è solo accelerato verso le elezioni». Il governo sarà paralizzato anche nelle commissioni parlamentari, dove Fli è all’opposizione.
di Simone Collini


Bersani prepara un «Viaggio nell’Italia che vuole cambiare». Il leader del Pd non si rassegna all’«idea da irresponsabili» di andare alle urne, e al Nazareno spiegano che non sta pianificando questa serie di incontri con lavoratori di aziende in crisi, studenti e docenti di diverse scuole e università, imprenditori e sindacalisti, come l’avvio della campagna elettorale. Ma di fronte ai membri della segreteria che incontra di buon mattino e con i quali concorda di convocare la Direzione per giovedì, Bersani non esclude affatto tra le ipotesi il voto anticipato.
Il governo ha evitato la sfiducia per tre voti, è il suo ragionamento, ma anche se potrà ora «comprare qualche voto qua e là», con una maggioranza così risicata potrà al massimo «vivacchiare», rimanendo invece impotente di fronte ai gravi problemi che ha di fronte al paese. «Non riusciranno a prendere nessuna decisione importante», è la previsione del leader del Pd, che con i suoi ha ragionato non solo sui numeri ristretti su cui possono contare Pdl e Lega nell’aula di Montecitorio, ma anche sul fatto che ora che il Fli è organicamente all’opposizione, in quattro commissioni parlamentari il centrodestra è in minoranza (Affari costituzionali, Esteri, Difesa e Cultura), mentre c’è una situazione di parità alla Bilancio,
alla quale devono passare tutti i provvedimenti che necessitano di copertura finanziaria. Per questo Bersani pensa che nonostante le «cose invereconde» che hanno assicurato al governo la «sopravvivenza», il voto di quelli che hanno cambiato casacca ha solo «accelerato verso le elezioni».
Al quartier generale del Pd smentiscono però che il viaggio di Bersani attraverso i luoghi della crisi sia il via della loro campagna elettorale. Spiega Stefano Fassina, membro della segreteria e responsabile Economia del partito: «L’Italia ha profondi problemi che questo governo si è dimostrato incapace di affrontare. Il Pd vuole evitare che si allarghi la distanza tra politica, istituzioni e società. Per questo oltre all’elaborazione programmatica saremo presenti fisicamente nelle situazioni di maggiore disagio sociale».
ALLEANZA COSTITUENTE
Bersani ritiene che questa sia una «situazione straordinaria» e propone una «convergenza ampia» di forze politiche, economiche e sociali interessate a realizzare a una riforma istituzionale e a dar vita a un’«alleanza per la crescita e il lavoro». Per ora nell’ottica di un governo di responsabilità nazionale, ipotesi che per il leader del Pd non è definitivamente tramontata. Ma se la situazione dovesse precipitare e si andasse alle urne, questa alleanza “costituente” di cui il Pd sarebbe «perno centrale», potrebbe essere riproposta nella sfida elettorale.
Per quanto riguarda le forze politiche, sia Letta che D’Alema sottolineano la necessità di lavorare insieme al Terzo polo di Fini e Casini. Per il vicesegretario bisogna «ragionare» con loro di «un’alternativa di governo». E anche il presidente del Copasir definisce la
componente moderata «un interlocutore necessario».
Ma prima di tutto Bersani vuole assicurarsi che il partito dia di sé un’immagine unitaria. Per questo ha convocato per giovedì la Direzione del partito, come luogo in cui affrontare ogni possibile discussione, e per questo già ieri ha incontrato Veltroni. Bersani ha assicurato che vuole lavorare per rilanciare il Pd come «perno dell’alternativa», con il suo profilo e le sue proposte, e che sta alle altre forze decidere se unirsi o meno in questa battaglia. La pax democratica regge, ma questo non esclude che qualche battitore libero come Chiamparino vada all’attacco. «Col voto di martedì hanno perso sia il governo che l’opposizione perché pare che non si intraveda la piattaforma su cui si può chiamare gli italiani ad esprimere l’alternativa a Berlusconi», dice il sindaco di Torino, per il quale Vendola invece «sta facendo un lavoro utile perché sta restituendo identità e rappresentanza a spezzoni di una sinistra che ne erano privi e divisi».

Repubblica 16.12.10
Bersani: "Patto con tutte le opposizioni"
Il leader pd vede Veltroni. D´Alema: terzo polo necessario. Il 23 la direzione
Scoppia il caso Fioroni: pronto a passare nel Pdl? L´ex ministro "Balle spaziali"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Prepariamoci alle elezioni che si avvicinano a grandi passi. Abbiamo sfiorato il traguardo di mandare a casa Berlusconi, non ci siamo riusciti, ma la partita è tutta aperta: il premier è sopravvissuto, il governo non c´è e può solo vivacchiare». Bersani apre la segreteria del "day after", rilanciando la strategia delle alleanze e chiedendo di abbassare la litigiosità interna: «Ci vuole unità». Propone, il segretario, un "patto costituzionale" di tutte le opposizioni, dalla sinistra al Polo della nazione di Casini-Fini-Rutelli per la svolta: «È una fase straordinaria che richiede risposte fuori dall´ordinario». D´Alema rincara: «Il Terzo Polo è una componente moderata importante che sta nell´opposizione ed è un interlocutore necessario per il Pd».
Nella riunione mattutina al Nazareno si decide di convocare una direzione per l´anti vigilia di Natale, il 23. La minoranza chiede infatti un dibattito a stretto giro di posta: non si può rinviare. Stefano Fassina in segreteria mette sul tavolo anche la questione primarie: «Vanno "registrate" - dice - perché complicano sia la vita interna che il rapporto con gli alleati». Insomma occorrerà rimettere mano allo statuto del partito per cambiare il meccanismo: prima si decidono le coalizioni e poi il candidato, e non viceversa. Ma ieri nel Pd è una giornata di colloqui: Bersani a Montecitorio ha un faccia a faccia di quaranta minuti con Veltroni, il leader della minoranza di Modem ed ex segretario; sente Di Pietro (tensione dopo lo scambio di accuse sui transfughi Scilipoti e Razzi) e Casini e Fini. L´intervista a Repubblica in cui D´Alema dà del "mentecatti" e "cretini" a chi dissente dalla strategia seguita finora dai Democratici, provoca qualche reazione.
Insorgono i prodiani Sandra Zampa e Mario Barbi («Non credo che dando del cretino si va lontano»). Sul piede di guerra è anche Beppe Fioroni, ex Popolare e uno dei leader di Modem, che deve difendersi dalle voci che lo vogliono in uscita verso il Terzo Polo o addirittura verso il Pdl, convinto da Bonanni e da Sacconi. Lo riporta la "Velina rossa". «Una balla spaziale - si scalda Fioroni - qualcuno provoca perché vuole che me ne vada, è lo stesso assalto fatto alla Cisl». E sui cretini: «I cretini si valutano dai risultati, se sono efficaci o meno». Bonanni e Fioroni si sono telefonati; entrambi la giudicano un´aggressione ai loro danni.
Freddi invece sarebbero i rapporti tra Veltroni e Fioroni, che si è ritagliato uno spazio tutto suo con una fondazione ad hoc. Comunque Modem si riunisce lunedì e prepara il "Lingotto 2" di Torino fissato il 22 gennaio, mentre il Pd ha convocato a Napoli la sua seconda conferenza programmatica, il 29 gennaio. Tutto aperto il fronte a sinistra e l´alleanza con Vendola.
"Sinistra ecologia e libertà" convoca un vertice ieri. Vendola attacca: «Il centrosinistra deve cambiare strada, l´idea di uscire dal ciclo del berlusconismo attraverso strade ingarbugliate, confuse e tutte interne al palazzo del Potere, non ha avuto grande fortuna». Per il leader di Sel bisogna dire «basta con le acrobazie alleanzistiche, con le furbizie, con le reticenze. I professionisti della sconfitta facciano un passo indietro». Irritati i Democratici. In segreteria, Vendola che nel giorno della sfiducia fallita a Berlusconi parlava a Montecitorio della premiership del centrosinistra è stato paragonato a «un falco» che approfitta della situazione.

l’Unità 16.12.10
Libia e Malta, l’inferno dei migranti in fuga da guerre e disperazione
Il libro nero di Amnesty sui profughi intercettati e mandati nelle prigioni La somala Farah Anam: meglio morire in mare che tornare in quelle celle
di Umberto De Giovannangeli


Le sue parole valgono più di mille trattati nel mettere in luce una tragedia annunciata. E da molti, troppi, colpevolmente dimenticata: «È meglio morire in mare che tornare in Libia». A pronunciarle è Farah Anam, una donna somala arrivata a Malta nel luglio 2010 attraverso la Libia. I migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo in fuga dalla persecuzione e dai conflitti armati vanno incontro alla tortura e al carcere a tempo indeterminato nel loro tentativo di arrivare in Europa attraverso la Libia.
A denunciarlo è Amnesty International in un nuovo rapporto dal titolo «Cercare salvezza, trovare paura: rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia e a Malta». Il rapporto mette in luce la sofferenza di quanti cercano di raggiungere l’Unione europea, molti in cerca di asilo e protezione, e le violazioni dei diritti umani che subiscono in Libia e a Malta. «In Libia i cittadini stranieri, compresi i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti, si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità e vivono nella costante paura di essere arrestati e detenuti per lunghi periodo di tempo, torturati e sottoposti a ulteriori violazioni» rimarca Malcolm Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. «Inoltre, molti di essi temono di essere espulsi verso i Paesi di origine, senza alcuna considerazione per il concreto rischio di subire persecuzioni una volta fatti rientrare».
Per le autorità di Tripoli, vi sono oltre tre milioni di «migranti irregolari» in Libia. Molti provengono da altre parti dell’Africa eppure le autorità locali continuano a dire che nessuno di essi sia un rifugiato. Decine di migliaia di persone lasciano la Somalia ogni anno per iniziare un lungo e pericoloso viaggio attraverso nazioni quali la Libia per fuggire al conflitto che sta devastando il loro Paese dal 1991. Molte spendono tutti i loro risparmi per intraprendere una pericolosa traversata del Mediterraneo. I rifugiati e i richiedenti asilo in Libia vivono in un limbo legale che non tiene conto del loro bisogno di protezione. La Libia non ha firmato la Convenzione Onu sullo status di rifugiato del 1951 e non ha un sistema d’asilo in vigore. Quest’anno a novembre il governo ha pubblicamente respinto la raccomandazione di ratificare la Convenzione e sottoscrivere un memorandum d’intesa con l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, l’Unhcr, per consentire a quest’ultima di assistere i rifugiati e i richiedenti asilo in Libia. «I richiedenti asilo e i rifugiati in Libia non hanno nessuno cui chiedere aiuto e sono diventati ancora più vulnerabili da quando, a giugno, le autorità di Tripoli hanno ordinato all’Unhcr di sospendere le attività. Il minimo che il governo libico dovrebbe fare invece è proteggere dagli arresti, dalla violenza e dagli abusi coloro che fuggono da persecuzione e conflitti e garantire che non siano rinviati in luoghi dove potranno correre il rischio concreto di subire gravi danni e persecuzione», afferma Smart. È l’odissea di Ahmed Mahmoud e Miriam Hussein, una coppia somala fuggita dal loro Paese in Libia: hanno vissuto nel costante pericolo di essere arrestati, non hanno potuto trovare un lavoro e sono stati rapinati ripetutamente, fino a quando hanno deciso di tentare di raggiungere l’Europa via mare. Miriam era incinta di sette mesi.
Il 17 luglio di quest’anno i due, facenti parte di un gruppo di 55 somali a bordo di un’imbarcazione in avaria, sono stati intercettati e soccorsi da vascelli libici e maltesi. Miriam Hussein e altre 26 persone sono state immediatamente riportate in Libia mentre le altre 28, compreso Ahmed Mahmoud, sono state condotte a Malta. In Libia, il gruppo di cui faceva parte Miriam Hussein è stato immediatamente portato in carcere. Gli uomini hanno fatto sapere di essere stati picchiati e torturati con scosse elettriche. Due mesi dopo, Miriam Hussein ha partorito un feto morto. Torture e altre violazioni ai danni di rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono un fatto sistematico in Libia. I guardiani delle carceri prendono spesso a pugni i detenuti o li colpiscono con tubi di metallo o bastoni. Chi osa protestare per le condizioni di detenzione o chiede assistenza medica rischia di subire ulteriori aggressioni o punizioni. Ciò nonostante, a ottobre, la Commissione europea ha sottoscritto con le autorità libiche una «agenda per la cooperazione» sulla «gestione dei flussi migratori» e sul «controllo alle frontiere», valida fino al 2013 e in base alla quale l’Ue metterà a disposizione della Libia 50 milioni di euro. Nel frattempo, Unione europea e Libia stanno negoziando un più ampio «Accordo quadro» che consentirebbe, tra l’altro, la «riammissione’ in Libia di cittadini provenienti da “Paesi terzi” entrati in Europa dopo aver transitato in Libia. «La cooperazione tra Ue e Libia deve avere al centro i diritti umani e la condivisione delle responsabilità, ovvero i principi fondamentali della protezione internazionale. Mentre cercano la cooperazione con la Libia per contrastare l’arrivo di persone dall’Africa, l’Unione europea e i suoi Stati membri non devono chiudere gli occhi di fronte alle costanti violazioni dei diritti umani in Libia», ammonisce Smart.
Tra il 2002 e il 2009 si stima che 13.000 persone siano arrivate a Malta dalla Libia. Malta, tuttavia, non si è rivelata il rifugio sicuro che speravano di raggiungere. Sulla base delle leggi maltese, ogni persona che arriva per la prima volta sul territorio, compresi i richiedenti asilo, viene considerata «migrante proibito» e rischia la detenzione obbligatoria a tempo indeterminato, in pratica fino a 18 mesi. I rimedi legali esistenti per opporsi alla detenzione sono stati giudicati «inefficaci» dalla Corte europea dei diritti umani. «Le autorità maltesi devono garantire che le operazioni d’intercettazione e di soccorso in mare non determinino il rinvio forzato o l’espulsione di persone già in condizioni di vulnerabilità verso la Libia o verso altri Stati dove si troverebbero nel rischio concreto di subire gravi violazioni dei diritti umani», rileva Smart. Amnesty ha lanciato un appello alla Commissione europea e all’Italia chiedendo che i diritti umani e le garanzie per i rifugiati, richiedenti asilo e migranti siano al centro della cooperazione con la Libia. Farlo vorrebbe dire entrare in rotta di collisione con il Raìs di Tripoli, Muammar Gheddafi. Il grande amico di Silvio Berlusconi.

il Fatto 16.12.10
Movimento spaccato
Gli studenti divisi sugli incidenti: molte condanne ma c’è chi giustifica
di Caterina Perniconi


Nella cittadella universitaria regna la quiete dopo la tempesta. Sotto la statua della Minerva de La Sapienza a Roma ci sono gruppi di ragazzi che studiano al leggero tepore del sole di dicembre. La manifestazione di ieri è l’argomento del giorno. Ne parlano tutti. A Radio Sapienza se ne discute già la mattina presto. Davanti a una rassegna stampa che per lo più tratta di facinorosi e black bloc, gli speaker trasaliscono. Che qualche ragazzo proveniente dai centri sociali facesse parte della manifestazione è indubbio, ma che negli   scontri siano coinvolti per lo più frange studentesche estremiste e non esterni a loro è chiaro. Come ai ragazzi raccolti nelle assemblee delle varie facoltà a La Sapienza. È da qui che è partito il corteo di martedì e anche molti dei giovani coinvolti negli scontri.
NELLE AULE occupate, infatti, non sono pochi quelli che rivendicano la violenza come strumento di lotta politica ed espressione del disagio sociale. “È l’unico metodo col quale possiamo portare in piazza la rabbia e l’esasperazione – spiega Roberta, studentessa di Sociologia – io martedì ho dovuto lasciare il   corteo in anticipo e non ho visto gli scontri di piazza del Popolo, ma non li condanno. Sono solo contraria alle devastazioni gratuite, quelle non servono”.
Pareri simili sono emersi anche durante l’assemblea di Giurisprudenza. Ma c’è una maggioranza che non la pensa così, e che ieri è andata all’Università agguerrita per dimostrare il proprio dissenso: “Quello che è successo martedì è la dimostrazione della peggiore realtà del movimento – dichiara Cosimo – in un pomeriggio sono riusciti a cancellare il lavoro di un anno. Avevamo alzato la voce e la politica ci aveva sentito. Ora penseranno che siamo tutti studenti   esaltati”. Di certo, fanno notare, c’erano diverse componenti tra i violenti. Quelli che spaccano i bancomat, per intendersi, sono giovani legati alle realtà dei centri sociali. Mentre tra coloro che hanno tentato di forzare i blocchi, scontrandosi con la polizia, gli studenti sono la maggioranza. Agli infiltrati danno poca importanza: “Ci siamo accorti che   i ragazzi dei centri sociali ogni tanto non riconoscevano alcune persone nei loro gruppi, ma non abbiamo pensato a un piano studiato, anche se qualcuno ci poteva essere”. I testimoni dei momenti di massima tensione lamentano la disorganizzazione delle forze dell’ordine rispetto a una manifestazione molto più ampia del previsto:   “Se non avessero perso la testa i poliziotti – raccontano gli universitari – probabilmente anche i ragazzi non sarebbero arrivati a tanto”.
Il punto, però, è capire dove vogliono arrivare i contestatori. “Sicuramente non cercano il dialogo – spiega ancora Cosimo – ma non ho sentito nemmeno parlare di alternative percorribili, come per esempio il referendum   dopo l’approvazione della legge Gelmini. E allora, con una giornata come ieri nella quale non hanno ottenuto nulla, cosa vogliono davvero?”.
PER CLAUDIO Riccio, del coordinamento universitario Link, il problema è proprio quello della rappresentanza e del futuro: “Siamo stati lasciati soli in troppe battaglie, adesso dobbiamo capire come produrre il cambiamento. Questa classe dirigente non funziona e noi dobbiamo costruire il consenso intorno a noi. La sensazione di martedì, dopo la fiducia a Berlusconi, era quella di una sconfitta, ma non abbiamo perso. Ci siamo fatti sentire. Ora la domanda che ci dobbiamo porre è: al di là della reazione istintiva, come proseguiamo?”.
E la rivendicazione studentesca degli scontri è arrivata anche da Torino: “Ma quali infiltrati e facinorosi? In strada a Roma come a Torino c’erano soltanto studenti arrabbiati che hanno voluto esprimere il loro dissenso”.   Le parole di Dana Lauriola, leader del movimento studentesco autonomo di Torino, chiariscono la posizione dei manifestanti: “Chi divide i contestatori tra buoni e cattivi non capisce che in piazza è andata semplicemente la rabbia collettiva e diffusa che per una volta è riuscita a organizzarsi”.

Repubblica  16.12.10
Ho visto esplodere la rabbia è una rivolta generazionale"
Uno dei leader anti-Gelmini: si rischia la deriva
I giovani sanno che per loro l´ascensore sociale sta andando al contrario, la disperazione è sempre più forte
di Maria Novella De Luca


ROMA - «Ero lì, tra i ragazzi, nel corteo. E quello che mi ha colpito di più è stato vedere la rabbia che cresceva, e centinaia di studenti unirsi ai gruppi che fronteggiavano la polizia e provavano a sfondare i blindati. Sbaglia chi pensa che si tratti soltanto di frange organizzate. Martedì nel corteo è esplosa una rabbia generazionale, la frustrazione di chi sa di non essere ascoltato. E questo è pericoloso e preoccupante». Gianni Piazza ha 47 anni, insegna Scienze Politiche all´università di Catania, ed è uno dei ricercatori della "Rete 29 aprile" che da un mese "occupa" il tetto della facoltà di Architettura di Roma.
Piazza, perché parla di rabbia generazionale? E che cosa sta succedendo nel movimento?
«Si sapeva fin dall´inizio che ci sarebbero stati gruppi che avrebbero provato a violare la cosiddetta zona rossa. Era già successo in alcune manifestazioni precedenti. Ma erano rimasti episodi limitati. Anche perché questo movimento non ha alcuna matrice ideologica di violenza, e martedì erano davvero pochi quelli arrivati alla manifestazione con l´intenzione di mettere a ferro e fuoco la città».
Però è accaduto…
«Infatti, e invece di indietreggiare, di isolare i violenti, una buona parte di manifestanti si è buttata negli scontri. Come se, soprattutto dopo la notizia della fiducia a Berlusconi, il senso di frustrazione, di essere centomila in piazza ma nessuno per il governo, avesse avuto il sopravvento».
Voi ricercatori siete la parte "adulta" della protesta. Si può ancora in qualche modo fermare la deriva violenta?
«Mi auguro di sì, perché ripeto questo movimento universitario che si è collegato con le grandi aree di disagio sociale del paese, finora ha mostrato lucidità e anche resistenza. Ma se continuerà ad esserci questa chiusura totale da parte del governo, la situazione può diventare ingestibile».
Ma lei, tra i suoi studenti, ha percepito la tentazione di una svolta verso forme di protesta più estreme?
«No, direi di no. Però la disperazione è forte. E riguarda anche le fasce più adulte, i ricercatori. I giovani sanno che stanno prendendo l´ascensore sociale al contrario, studiano ma sono consapevoli di non avere futuro, la loro sfiducia adesso si è trasformata in rabbia, e questo può portare ad una escalation di violenze».
Lei ha scritto diversi libri sui movimenti studenteschi, di cui l´ultimo sull´Onda. Oggi però le similitudini più forti sembrano essere quelle con gli anni Settanta.
«Forse nelle modalità degli scontri, o nella protesta sociale. Ma per fortuna nell´università, come nella società, non ci sono modelli di gruppi armati e soprattutto non ci sono ideologie. Non siamo negli anni Settanta, però da martedì qualcosa è cambiato, e adesso le reazioni di questo movimento fino ad ora pacifico sono diventate imprevedibili. Per questo credo che sia gravissima la decisione del Governo di voler approvare la legge Gelmini il 22 dicembre, rischiando un´altra giornata di guerra».
Proprio il 22 dicembre sarà un mese che siete sul tetto di Architettura.
«Sì, e fa molto freddo, ma quel tetto è diventato davvero un simbolo importante. E da come vanno le cose rischiamo di restarci ancora a lungo».

Corriere della Sera 16.12.10
Quei due incappucciati e il giallo del doppio fermo
Usano transenne, manette e manganelli. Studenti o provocatori?
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Il sospetto è nato esaminando foto e filmati degli scontri avvenuti ieri a Roma. E si è concentrato sull’atteggiamento di due giovani, entrambi con il cappuccio in testa e la sciarpa a coprire il volto, che si confondono tra i manifestanti ma si comportano come se appartenessero alle Forze dell’ordine. «Infiltrati in piazza» , denuncia il Partito democratico. In realtà i politici del centrosinistra guidati da Anna Finocchiaro sembra vogliano alludere alla presenza nel corteo di veri e propri agenti provocatori. In serata la questura respinge in maniera netta l’accusa con una nota ufficiale e dichiara che uno dei due è stato in realtà «identificato, è minorenne ed è attualmente ricercato» . Dopo un’ora arriva la notizia che la polizia lo ha arrestato. Rimane il mistero del doppio fermo, perché sono proprio le immagini a dimostrare come il ragazzo fosse già stato portato via durante gli scontri. Per ricostruire quanto accaduto si torna dunque in via del Corso, nei momenti concitati di quella guerriglia urbana andata avanti per oltre tre ore. Si nota un uomo con i jeans, le scarpe da ginnastica e un giubbotto beige che in altre immagini compare con una pala in mano mentre colpisce un blindato della Guardia di finanza che fa marcia indietro per sfuggire alla furia dei dimostranti. Accanto a lui c’è sempre un altro uomo, più corpulento che indossa jeans, felpa grigia e giubbotto blu. Le telecamere li inquadrano mentre sono vicinissimi al finanziere che, dopo essere stato aggredito, ha impugnato la pistola. Quello vestito di blu gli cinge il collo quasi a sorreggerlo, come se volesse proteggerlo e aiutarlo a risollevarsi; l’altro osserva la scena dal marciapiede. Nelle mani ha un paio di manette e un manganello. I video lo inquadrano mentre lo agita senza però colpire nessuno. In un’altra sequenza si accanisce su un finanziere mentre è a terra. Ci sono poi le immagini scattate davanti all’hotel Plaza. I due giovani trasportano insieme una transenna al fianco di un uomo che si protegge con lo scudo della Guardia di finanza. Chi è? Sembra un agente in borghese, però non si preoccupa di quei due che stanno alzando un muro di protezione contro le "cariche"e li lascia fare in indisturbati. Si tratta dunque di un manifestante che ha rubato lo scudo? A questo punto bisogna andare avanti con il film della giornata e giungere fino al momento del fermo. È un video girato da "Youreporter"visibile sul sito internet del Corriere della Sera a mostrare quanto accade. Il giovane viene portato via da due poliziotti e mentre un terzo si avvicina comincia a gridare: «Sono minorenne» . Non se ne sa più nulla fino a ieri, quando si scopre che è ricercato per l’aggressione al finanziere. Perché non è stato trattenuto subito? Per quale motivo, nonostante gli scontri così violenti, si è deciso di lasciarlo andare. In questura spiegano che in realtà inizialmente non c’erano accuse specifiche e soltanto la visione delle immagini ha consentito di accertare il suo coinvolgimento nell’aggressione al finanziere. E poi fanno sapere che «ha 16 anni, una militanza nell’estrema sinistra e alcuni precedenti all’hotel Plaza. I due giovani trasportano insieme una transenna al fianco di un uomo che si protegge con lo scudo della Guardia di finanza. Chi è? Sembra un agente in borghese, però non si preoccupa di quei due che stanno alzando un muro di protezione contro le "cariche"e li lascia fare in indisturbati. Si tratta dunque di un manifestante che ha rubato lo scudo? A questo punto bisogna andare avanti con il film della giornata e giungere fino al momento del fermo. È un video girato da "Youreporter"visibile sul sito internet del Corriere della Sera a mostrare quanto accade. Il giovane viene portato via da due poliziotti e mentre un terzo si avvicina comincia a gridare: «Sono minorenne» . Non se ne sa più nulla fino a ieri, quando si scopre che è ricercato per l’aggressione al finanziere. Perché non è stato trattenuto subito? Per quale motivo, nonostante gli scontri così violenti, si è deciso di lasciarlo andare. In questura spiegano che in realtà inizialmente non c’erano accuse specifiche e soltanto la visione delle immagini ha consentito di accertare il suo coinvolgimento nell’aggressione al finanziere. E poi fanno sapere che «ha 16 anni, una militanza nell’estrema sinistra e alcuni precedenti » . Dettagli resi pubblici per smentire con decisione che possa trattarsi di un «infiltrato» . Nulla si sa invece dell’uomo con il giubbotto blu che ha prestato soccorso al finanziere prima che i suoi colleghi in divisa lo portassero via con la testa sanguinante e lo sguardo perso, visibilmente sotto choc. Durante i cortei è prevista la presenza in piazza di poliziotti e carabinieri in borghese che hanno il compito di «monitorare» per quanto possibile i manifestanti cercando di scongiurare pericolose degenerazioni. Si tratta di un’attività che viene affidata agli specialisti della Digos e del Ros proprio per le loro capacità particolari di gestire anche le situazioni di massima criticità. In questo caso i sospetti rilanciati dal Partito democratico riguardano la possibilità che tra quei giovani ci fossero veri e propri provocatori, appartenenti alle Forze dell’ordine travestiti da contestatori per «agitare» il clima e far salire la tensione. Ma è una circostanza che gli stessi promotori della protesta si affrettano a negare. Lo dice senza mezzi termini Andrea Alzetta, di Action che ammette come «la situazione sia sfuggita di mano anche a noi organizzatori perché in piazza c’erano ragazzini tra i 20 e i 25 anni e addirittura molto più piccoli, che hanno colto l’occasione per scatenare la propria rabbia. Ma se il Pd si inventa la presenza degli infiltrati vuol dire che non ha capito che cosa sta accadendo e soprattutto non conosce questa realtà giovanile, è distante dalle loro dinamiche e sta cercando un capro espiatorio» . Nicola Tanzi, segretario del sindacato di polizia Sap, chiarisce che «queste tecniche non sono più usate in ordine pubblico da almeno trent’anni e dunque ritengo si stia cercando di strumentalizzare la situazione, mentre sarebbe opportuno ricercare le radici di questo disagio e condannare con fermezza l’azione dei violenti» . Ancor più chiaro è Claudio Giardullo del Silp-Cgil, secondo il quale «l’arresto del manifestante vestito di beige dovrebbe mettere fine alle illazioni. Non c’è alcun elemento per parlare di infiltrati e credo che in casi come questi ci voglia estrema prudenza» .

il Fatto 16.12.10
L’economia secondo Vendola
di Sandro Brusco
, Stony Brook University, New York

Le quotazioni di Nichi Vendola sono in costante crescita ed è giunto il momento di esplorare, al di là degli slogan e delle dichiarazioni altisonanti, qual è la sua effettiva proposta di politica economica. La sua esperienza come governatore della Puglia non è di particolare aiuto. L’Italia non è un paese federale e la politica economica che si può attuare a livello regionale sulla variabili che contano, in particolare le decisioni di tassazione e spesa pubblica, ha ben poco a che vedere con le decisioni intraprese a livello centrale. Il giudizio, necessariamente provvisorio, sulla proposta economica di Vendola deve quindi basarsi sulle sue (poche) uscite pubbliche sul tema. Baserò la mia analisi su due interviste che Vendola ha rilasciato al Sole 24 Ore, una lo scorso 27 ottobre e l’altra il 21 agosto. Il materiale è limitato, ma alcune idee risultano abbastanza chiare. 
 Lo Stato e la crisi
I CARDINI di qualunque organica di politica economica dovrebbero essere due. Primo, dato che l’Italia manifesta da più di un decennio un drammatico problema di crescita del reddito e della produttività, occorre un’analisi delle ragioni di tale crisi e una proposta per riattivare il processo di crescita. Secondo, dato che l’Italia resta un paese con un altissimo debito pubblico occorre spiegare come si intende ripagare tale debito. La prima questione è normalmente ignorata nel dibattito politico. Il centrodestra ha propagato l’assurda favola del paese in cui va tutto bene, facendo finta che i problemi non esistano. Il centrosinistra oscilla tra timide proposte di liberalizzazione e difesa dello status quo. La seconda questione è invece normalmente affrontata in modo sostanzialmente simile nei due schieramenti: il debito si paga tassando in modo massiccio gli italiani e senza toccare la spesa pubblica. Sto parlando dell’azione concreta di governo, non dei proclami retorici. In questo quadro, qual è la novità della proposta di Vendola? Direi nessuna.
Spero di non far troppa violenza al pensiero di Vendola se dico che le risposte che appaiono dai suoi interventi sono: 1) la produttività è bassa perché le imprese non investono e non innovano; 2) la soluzione è un attivo intervento dello Stato che dovrebbe investire direttamente e finanziare le imprese nei settori più utili alla crescita della produttività. Vendola quindi pensa che i politici siano più bravi degli imprenditori a scegliere gli investimenti e le industrie giuste. Questo è quello che pensano e fanno anche Berlusconi e Tremonti, per esempio dirigendo l’operazione Alitalia o sussidiando l’acquisto di motori fuoribordo e altri aggeggi i cui produttori stanno simpatici al governo. Se decenni di partecipazioni statali, interventi straordinari, cattedrali nel deserto e altri simpatici frutti degli “investimenti strategici” guidati dalla mano pubblica non sono stati sufficienti a convincere che sia una cattiva idea presumere che i politici sappiano   meglio degli altri come investire i soldi (sempre degli altri), dubito che niente possa esserlo. Anche su spesa pubblica e tassazione la posizione di Vendolamanifesta una sostanziale continuità con il pensiero unico delle classi dirigenti politico-economiche italiane. Per esempio, nel-l’intervista di agosto, Vendola afferma che “occorre sostenere la domanda interna, dare ossigeno ai ceti medio-bassi, aumentare l'area di consumo, sbloccare la spesa degli enti locali ibernata dalle ridicole penalità delle norme sul patto di stabilità”. Andando al sodo, Vendola propone di sussidiare i consumi privati e aumentare la spesa pubblica locale. Questo può sembrare diverso da ciò che sta facendo Tremonti ma non lo è affatto. Per esempio, appena insediato, Tremonti si sbracciava affermando la necessità   di ''sostegno della domanda'', che poi voleva dire abolire l'Ici.E quando gi unge l'ora, la faccia dura del Tremonti rigorista si trasforma sempre nel sorriso compiacente del distributore di mancette, basta guardare l'ultimo maxi-emendamento alla legge finanziaria, in cui tra le altre cose si viene incontro esattamente alla richiesta vendoliana di allentare il patto di stabilità per i comuni.
Un giorno al governo
SE MAI ANDASSE al governo Vendola, che ha più volte dato prova di pragmatismo, dovrebbe prendere atto dei vincoli imposti dalla presenza di un debito pubblico che naviga al momento verso il 120 per cento del Pil. Il governo non può allentare i cordoni della Borsa. Se i mercati si convincessero che il tempo della responsabilità   è passato, i tassi sul debito schizzerebbero immediatamente a livelli greci o irlandesi. Vendola lo sa, e sa anche che più di tanto le tasse non si possono aumentare. Ne segue che grandi programmi di aumento della spesa pubblica, indipendentemente dal giudizio sulla loro desiderabilità   , semplicemente non sono possibili. Per cui tutte le menate sull'allargamento dell'area del consumo e sulla spesa degli enti locali non possono che ridursi, in perfetta continuità con la linea seguita finora, in interventi cosmetici e necessariamente di entità ridotta. In altre parole, cose come la detassazione dei premi di produzione e gli “incentivi” per motori fuoribordo, probabilmente con un twist di sinistra. Poca roba, comunque. Nel frattempo, la pressione fiscale verrà mantenuta agli attuali, insopportabili, livelli. Una volta esclusa la possibilità di una riduzione della spesa pubblica questa è infatti l’unicaalternativa che resta alla crisi finanziaria. 
Non sono in grado di esprimere un giudizio globale sulla proposta politica di Vendola. Per ciò che riguarda la politica economica, che è l’unica area in cui posso esprimere un giudizio informato, mi pare che non ci sia alcuna novità. Mi aspetto quindi che, se Vendola si trovasse un giorno a Palazzo Chigi, la stagnazione italiana continuerebbe, più o meno con le stesse modalità con cui è continuata sotto i governi di centrodestra.

il Fatto 16.12.10
Saltano le teste dell’informazione francese
Cacciato il direttore di “Le Monde”, la regina della tv rischia il posto
di Gianni Marsilli


Parigi. Tempi duri per le teste coronate della stampa francese. Una è rotolata ieri sul selciato di boulevard Blanqui, davanti alla sede parigina di Le Monde. Era quella del direttore Eric Fottorino, entrato in rotta   di collisione a tempo di record con i nuovi padroni del giornale: il trio composto da Pierre Bergé, Xavier Niel e Mathieu Pigasse l’ha congedato appena un mese dopo aver formalizzato l’acquisto del quotidiano. Era stata la redazione a scegliere con un voto i propri “salvatori” (c’erano altri candidati),   che lo stesso Fottorino aveva salutato con grande favore. I tre sono decisamente targati a sinistra: Pierre Bergé, per esempio, ha finanziato diverse campagne elettorali dei socialisti, non ultima quella di Ségolène Royal. La leggendaria indipendenza del giornale, si disse, era salva, garantita dall’ampiezza di mezzi   degli acquirenti e dagli impegni solennemente assunti. Tutto ciò non ha impedito il varo immediato di un piano di riduzione dei costi, il blocco del rinnovo dei contratti dei precari, nuovi criteri per viaggi e note spese, l’apertura di uno sportello per incoraggiare le dimissioni e negoziare le buonuscite, e soprattutto l’arrivo di un nuovo management. È quest’ultimo che ha fatto saltare i nervi a Fottorino, che già un paio di settimane fa aveva inviato ai nuovi   proprietari una lettera nella quale denunciava, tra l’altro, “molestie morali” nei suoi confronti: i nuovi padroni, in sostanza, facevano come se lui non esistesse. Fottorino ipotizzava: “Lo scopo di tutto ciò è disgustare il management e costringerlo alla porta evitando di versargli le indennità di licenziamento”   . Il divorzio era dunque nell’aria: da ieri “le funzioni manageriali e editoriali sono ormai separate”, come recita il comunicato del Consiglio di sorveglianza. Fottorino rimane ancora per qualche settimana alla guida del quotidiano (non più del gruppo), il tempo di trovargli un successore. L’altra illustre   testa ieri in bilico era quella di Christine Ockrent, 66 anni, notissima anchor woman della tv francese nonché direttore generale di Aef, che raggruppa tutto ciò che il servizio pubblico produce per l’estero: France 24 (nelle intenzioni una Cnn francofona), Rfi (Radio France Internationale) e Tv5. I 500 e passa dipendenti del gruppo in serata erano chiamati a votare o meno una mozione di sfiducia nei suoi confronti. Appena venerdì scorso, inoltre, quasi tutti i direttori   e i vicedirettori del gruppo avevano annunciato che non avrebbero più partecipato ad alcuna riunione nella quale fosse presente la celebre Christine, essendo venuto a mancare “il legame di fiducia” necessario.
LA OCKRENT è accusata nientemeno che di spionaggio interno. Avrebbe affidato alla sua più fedele collaboratrice, Candice Marchal, il compito di spiare, sapere e riferire. La fedele Marchal si è allora procurata tutte le password necessarie per leggere le mail di direttori e redattori. A consegnarle i codici è stato proprio il responsabile della “sicurezza” del gruppo, un vecchio amico della Ockrent. Purtroppo per quest’ultima, esistono le mail che si scambiava con la Marchal, il cui senso appare inequivocabile: questo pensa male di te, l’altro è troppo ambizioso, e via di questo passo. La Ockrent, peraltro moglie di Bernard Kouchner, ex socialista, fino ad un mese fa ministro degli Esteri di Sarkozy,   nega tutto ferocemente, si considera disonorata ed è passata alle vie legali. Ha però già subito una severa ramanzina da parte del ministro della Cultura, Frederic Mitterrand, che non fa presagire nulla di buono sul suo futuro.

Corriere della Sera 16.12.10
I tre nuovi azionisti alla testa di Le Monde silurano il direttore
Scontro sulla gestione del quotidiano
di  Stefano Montefiori


Si avvia alla conclusione l’esperienza di Eric Fottorino alla testa di Le Monde, il quotidiano francese da poche settimane in mano alla nuova proprietà del trio «Bnp» (Pierre Bergé, Xavier Niel e Matthieu Pigasse). L’azienda ha evocato una «divergenza di vedute» per estrometterlo, da ieri, dalla gestione manageriale del gruppo (era presidente del direttorio) e per trovare entro i primi giorni del 2011 un suo sostituto alla direzione giornalistica del quotidiano. Un nuovo scossone nella tormentata vicenda del giornale, dopo la fine dell’era Colombani, durata 13 anni, nell’estate del 2007. Fottorino, cinquantenne nato a Nizza, giornalista e scrittore («Piccolo elogio della biciletta» , Excelsior 1981), ha provato a risolvere i problemi economici del gruppo abbandonando la politica delle acquisizioni e concentrando gli sforzi su Le Monde, appoggiando poi la cordata di Bergé, Niel e Pigasse in contrapposizione a quella Perdriel-Orange-Prisa giudicata vicina all’Eliseo. Ma l’affermazione del trio composto dal mecenate e compagno di Yves Saint Laurent (Bergé), il fondatore del provider Free (Niel) e il banchiere di Lazard (Pigasse) non gli ha portato fortuna. La nuova proprietà si è subito lanciata in una politica di risparmi e tagli agli sprechi, estromettendo Fottorino che ai primi di dicembre ha inviato una dura lettera: «Sono vittima di una persecuzione morale manageriale — scriveva Fottorino a Louis Dreyfus, che Da metà novembre nessuno di questi impegni è stato rispettato, mi sento deluso e tradito». Il fatto è che il trio Bnp ha preferito delegare Michaël Boukobza, un uomo di Niel, alla riduzione degli sprechi nel giornale, dopo avere scoperto l’esistenza di 46 auto blu a disposizione del giornale. Non è piaciuto neppure un durissimo intervento di Fottorino che, usando le colonne del suo giornale, si è scagliato contro le scelte sbagliate del suo predecessore Colombani. Che si è difeso qualche giorno dopo ricordando come Fottorino fosse al corrente di quelle scelte e le avesse condivise, in quanto già parte del gruppo dirigente del giornale. Settantatré giornalisti del Monde avevano allora espresso pubblicamente la loro solidarietà a Colombani, indebolendo il direttore in carica. Fottorino, dopo avere rifiutato di dimettersi, avrebbe chiesto di restare nel quotidiano come semplice giornalista, ma non è detto che Bergé, Niel e Pigasse lo accontentino. Il 2011 sarà l’anno decisivo per Le Monde: il primo obiettivo è il pareggio di bilancio, e bisognerà decidere se trasformarlo da giornale del pomeriggio a quotidiano del mattino.

Corriere della Sera 16.12.10
L’Italia che si è fatta da sé, senza ideologie
Dall’Unità ad oggi nazionalismo, statalismo, comunismo sono sempre state etichette vuote
di Giuseppe De Rita


Pur essendo stato partecipe per molti anni del percorso intellettuale di Aldo Bonomi, ho letto con nuovo interesse il suo ultimo libro, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Sotto la pelle dello Stato. E mi sono trovato a domandarmi il perché di tale nuovo interesse. In fondo so tutto delle convinzioni dell’autore sul valore del territorio, sulle dinamiche dell’egoismo localistico, sull’intreccio fra radicamento nei luoghi e impegno sui flussi globali, sulla centralità del capitalismo personale, figlio del postfordismo, sulla crisi della società di mezzo e dei soggetti collettivi in essa operanti, sulla non-nascita (o sul fallimento) di una neoborghesia nazionale, sul pericoloso scivolamento delle masse verso l’essere moltitudine e conseguentemente del potere verso il populismo. Sono tematiche che Bonomi ha approfondito con grande accanimento professionale e che fa bene a metterle in sequenza ordinata. Ed anche convincente visto che ad ogni verifica su quei percorsi di analisi e di riflessione ha sempre avuto ragione lui, spesso anche in rabbioso contrasto con le forze politiche a lui vicine, che parlano molto di territorio, di populismo, di post fordismo e quant’altro, ma non si comportano di conseguenza. Il fatto è che, contrariamente a loro, egli questa società l’ha abitata nel profondo, prima ancora di pensarla e descriverla. Non basterebbe comunque questo riassunto di cose viste dal di dentro, e non con pensieri di sorvolo, per suscitare il senso di nuovo (di nuovo anche per me) avvertibile in quest’ultimo lungo racconto, un senso di nuovo che sorge da tre constatazioni. La prima è che dalle riflessioni di Bonomi esce con chiarezza che l’Italia «si è fatta da sé» , senza alcun riferimento a paradigmi predefiniti. Ce ne son stati proposti tanti di paradigmi in questi 150 anni di unità politica, dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo fascista, dal liberalismo il perché di tale nuovo interesse. In fondo so tutto delle convinzioni dell’autore sul valore del territorio, sulle dinamiche dell’egoismo localistico, sull’intreccio fra radicamento nei luoghi e impegno sui flussi globali, sulla centralità del capitalismo personale, figlio del postfordismo, sulla crisi della società di mezzo e dei soggetti collettivi in essa operanti, sulla non-nascita (o sul fallimento) di una neoborghesia fordismo e quant’altro, ma non si comportano di conseguenza. Il fatto è che, contrariamente a loro, egli questa società l’ha abitata nel profondo, prima ancora di pensarla e descriverla. Non basterebbe comunque questo riassunto di cose viste dal di dentro, e non con pensieri di sorvolo, per suscitare il senso di nuovo (di nuovo anche per me) avvertibile in quest’ultimo lungo racconto, un senso di nuovo che sorge da tre constatazioni. La prima è che dalle riflessioni di Bonomi esce con chiarezza che l’Italia «si è fatta da sé» , senza alcun riferimento a paradigmi predefiniti. Ce ne son stati proposti tanti di paradigmi in questi 150 anni di unità politica, dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo fascista, dal liberalismo nazionale, sul pericoloso scivolamento delle masse verso l’essere moltitudine e conseguentemente del potere verso il populismo. Sono tematiche che Bonomi ha approfondito con grande accanimento professionale e che fa bene a metterle in sequenza ordinata. Ed anche convincente visto che ad ogni verifica su quei percorsi di analisi e di riflessione ha sempre avuto ragione lui, spesso anche in rabbioso contrasto con le forze politiche a lui vicine, che parlano molto di territorio, di populismo, di post ottocentesco allo statalismo del secondo dopoguerra, dal comunismo al berlusconismo, con una continua rincorsa della politica a progetti e disegni sempre vanificati dai comportamenti dei tanti nostri soggetti economici e sociali, la cui vitalità ha via via cambiato questo Paese, ha in fondo creato un modello. La seconda constatazione è molto politica: non c’è dialettica fra l’Italia che fa da sé, con tutti gli impulsi positivi e tutti i rancori che in essa si esprimono, e chi fa politica in termini sempre più autoreferenziali. Spesso mi ritrovo a domandarmi perché la politica non riesca ad incorporare nella sua azione tutte le suggestioni che Bonomi impone da anni e che ripete in questo libro, e mi rispondo che il torto non è dell’inascoltato raccontatore degli eventi ma nella sordità ormai cronica di chi dovrebbe ascoltarli e decifrarli. E la terza conseguente constatazione è che il disallineamento fra realtà sociale e pensiero politico porta ad una crescente tentazione della società a disegnarsi ulteriori traguardi, a far da sola; è una tentazione che spesso aleggia ai vertici di alcune rappresentanze sociali (basta pensare ad alcune dichiarazioni di Emma Marcegaglia nelle ultime settimane) ma che più ancora si avverte mettendo l’orecchio a terra, sulle dinamiche territoriali emergenti. E in questo Bonomi, specialmente nell’ultimo capitolo del libro, è molto chiaro: la società tende ad organizzarsi in termini comunitari, a svilupparsi «assumendo come luoghi del pensare e dell’agire le parole chiave del territorio e della comunità» ; si tratti di fronteggiare le comunità del rancore, disattivandone i meccanismi più perfidi del rattrappimento aggressivo; si tratti di sviluppare le comunità di cura che si vanno moltiplicando in una solidarietà che si fa sempre più tessuto sociale; si tratti di accompagnare le tante antiche e nuove comunità operose che restano il vero patrimonio socioeconomico dell’Italia di oggi. Tre linee di lavoro che non vanno certo nella riscoperta delle teorie olivettiane o nella nostalgica riproposizione dei più tradizionali luoghi di microsocializzazione, ma che indicano una strada nuova, tutta da tentare: la strada di un’Italia comunitaria, costruita nell’abitare e gestire i processi in atto. A qualcuno può sembrare un esito flebile rispetto ai «drammatici problemi» che ci vengono riproposti ogni giorno dalla comunicazione di massa, ma è un esito da non scartare a cuor leggero se non si vuole, in alternativa, continuare a sobbollire nel brodo della moltitudine e del populismo, solo a parole governato da soggetti presuntivamente di governo — si parli di una presunta neoborghesia o di un presunto nuovo e accentrato potere politico. Ed è la coscienza di questo vuoto che fa pensare che Bonomi continui il suo racconto, da partigiano interprete della società che nel bene e nel male si fa da sé.

Repubblica 16.12.10
Se una nazione non sa più riconoscersi
Sappiamo tutto sul nostro carattere, ma da mezzo secolo nell´autobiografia collettiva manca una riflessione su chi siamo
Chi annoveriamo nella categoria? E quali sono i criteri per scegliere quelli più rappresentativi?
Oggi un convegno alla Treccani avvia una riflessione che ha un risvolto anche politico
di Simonetta Fiori


La domanda è "semplice", ma come tante domande "semplici" non ha una riposta. O, meglio, ne ha più di una. Chi sono gli italiani? Chi includiamo nella categoria di italianità? Gli abitanti della penisola dall´anno Mille, come fece Giuliano Procacci in una delle sue opere più famose? O i nostri connazionali all´indomani dell´unità d´Italia, quindi non prima di un secolo e mezzo fa, come sollecitava Croce? La questione non è accademica – come ci ricorda in questa pagina lo storico Andrea Graziosi – investendo anche la sfera della politica oltre che quella culturale, e dunque una nozione inclusiva o esclusiva della nostra identità.
In Italia siamo maestri nel coltivare l´italianologia, ossia quella "disciplina" che consiste nel percuotersi il petto sulle infinite magagne del nostro carattere nazionale. Però da circa mezzo secolo non ci domandiamo più chi siamo. Sappiamo come siamo fatti – molto male, almeno così parrebbe dal suggestivo filone dell´antitalianità – ma abbiamo trascurato di interrogarci su cosa intendiamo quando parliamo di italiani. L´hanno fatto singolarmente gli studiosi – storici, linguisti, letterati – ma non c´è stata una riflessione collettiva in quella che è la principale autobiografia nazionale, il Dizionario Biografico degli Italiani, opera fondamentale riconosciuta dalla comunità intellettuale di tutto il mondo, però ancora ferma ai criteri fissati negli anni Cinquanta del secolo scorso.
La riflessione su chi siano gli italiani – e su quali siano degni di figurare nella fotografia di gruppo più rappresentativa – sarà avviata oggi e domani all´Istituto dell´Enciclopedia Italiana, nel corso di un convegno al quale parteciperanno il giurista Mario Caravale, il vecchio direttore che con rigore ha guidato il Biografico per vent´anni, e lo storico Raffaele Romanelli, appena nominato alla guida del Dizionario. A Romanelli abbiamo chiesto com´è cambiata la nozione di "italiani illustri" nel corso di questi decenni, mentre Anna Bravo si concentra sulle "italiane illustri e invisibili", che sono ancora di più.
Il convegno cade in un momento molto particolare della vicenda italiana, che precede di poco il suo centocinquantesimo compleanno. L´Italia s´è persa, il suo mondo culturale rischia di andare a pezzi e anche alla Treccani soffia vento di crisi, come sta a indicare lo sciopero indetto in questi giorni e dettato dall´incertezza sul futuro dell´Istituto dell´Enciclopedia. Non rimane che ripartire dagli italiani, rubando l´esergo scelto da Procacci per la sua Storia. «Professore», domanda un personaggio di Cesare Pavese in La casa in collina, «voi amate l´Italia?». «No – dissi adagio – non l´Italia. Gli italiani».

Repubblica 16.12.10
È sbagliato credere che questa pratica sia talmente radicata da risultare immodificabile. Ma dalla società provengono parecchi segni di insofferenza. E la storia insegna che i cambiamenti sono spesso inevitabili
Perché il favoritismo si diffonde senza limiti
Gli interessi prima di tutto
di Paul Ginsborg


Con impressionante ostinazione il tema del familismo si ripropone a intervalli regolari nella storia della Repubblica, non importa se la Prima, la Seconda o addirittura la Terza, come l´etichettano con disinvoltura i politici, i giornalisti e i politologi. I meccanismi di fondo sono rimasti sostanzialmente gli stessi da più di sessantacinque anni.
Nel lontano febbraio del 1945 l´allora Governatore della Banca d´Italia, Luigi Einaudi, annotò nel suo diario l´esistenza di «parecchi clan» nella Banca e «numerose interferenze di parentela tra gli impiegati, con diramazioni varie». Più recentemente, nel 2008, le attività varie del clan di Clemente Mastella nella sfera pubblica campana, regolarmente denunciate dalla magistratura, portarono alle sue dimissioni dalla carica di Ministro della Giustizia (in ogni caso non la poltrona più adatta a lui) e addirittura alle dimissioni del Presidente del Consiglio, Romano Prodi. Adesso scopriamo un´estesa e numerosissima rete di favoritismi parentali e clientelari nel governo municipale di Roma. Si vede da questi e tanti altri esempi che il delicato rapporto tra famiglia e stato è luogo di fortissime tensioni nella storia della nostra Repubblica.
Cos´è il familismo? Il termine è alquanto controverso ma vorrei suggerire una definizione che mette l´accento sui rapporti che esistono tra famiglia, società (e dove esiste, società civile) e lo stato. Il familismo è una forma squilibrata di questi rapporti in cui i valori e gli interessi della famiglia prendono il sopravvento su tutti gli altri. Il familismo esiste quando trionfano forme esasperate di privatismo familiare, di perseguimento esclusivo degli interessi familiari, di cecità o sordità verso i bisogni di gruppi più estesi della ristretta cerchia familiare e amicale, di rifiuto di un rapporto con lo Stato democratico basato sull´uguaglianza dei cittadini e sull´obbligo reciproco. Ma le responsabilità non sono solo delle famiglie. Lo stato, invece di costituirsi storicamente come una sfera pubblica forte, con le sue regole e codici di comportamento, con i suoi servizi efficienti e il suo comportamento trasparente, ha delegato alle famiglie tutta una serie di responsabilità e di oneri che avrebbe dovuto assumersi in proprio. Stato inefficiente e famiglie prepotenti vengono così a legarsi in un patto scellerato di lunga durata.
Nei lunghi anni del Berlusconismo nulla è stato fatto per mitigare gli effetti del familismo. Al contrario, le forme squilibrate di rapporti tra famiglia, società e stato sono state rafforzate: dal trash televisivo, dall´incoraggiamento alla passività e al consumismo delle famiglie, dal miscuglio micidiale tra privato e pubblico, con un presidente del consiglio "Papi" che non esita a ricompensare le sue amichette con cariche nel partito e nello Stato. Viene la tentazione di concludere che il familismo è talmente radicato da risultare immodificabile. Sarebbe un errore perché se la storia ci insegna qualcosa, è proprio la possibilità, anzi l´inevitabilità del cambiamento nel tempo. Nulla è fisso, nulla è predeterminato. Già dalla società civile vengono molti segnali di insofferenza. Per invertire la tendenza però, ci vorrebbe un riconoscimento teorico e pratico del problema, un´analisi approfondita dei gemelli terribili – il familismo e il clientelismo – e soprattutto una forza politica lungimirante, decisa ad agire in modo diverso.

Corriere della Sera 16.12.10
«Benito mi ha lasciata col bambino»
Ida Dalser chiese aiuto a Luigi Albertini per il figlio avuto da Mussolini

di Dino Messina

«Giovane Dottoressa. Vedova, con piccino, cerca posto presso distintissima, buona ricca persona. Non esige stipendio purché volessero accettarla col pargoletto. Offre serietà, documenti, ottime cure a persona sofferente» . Il 16 gennaio 1916 un allibito Luigi Albertini riceve questa richiesta di inserzione assieme a una lettera firmata da Ida Dalser, in realtà non una dottoressa ma una massaggiatrice, che spiega al direttore del «Corriere della Sera» l’origine dei suoi guai: la relazione con Benito Mussolini che dopo averla «lasciata in mezzo alla strada prima di dare alla luce il suo piccino, oggi è partito nuovamente per il fronte» , lasciandola sola, «vestita d’estate col conto da pagare dell’Albergo, il piccino mezzo nudo» . Comincia così una corrispondenza a senso unico che durerà sino al 1925. Albertini non risponderà mai alla donna anche se le farà scrivere dal fratello Alberto o dal segretario di redazione Andrea Marchiori cui darà l’incarico di aiutarla con piccole somme di danaro. Quelle lettere, custodite in parte presso l’Archivio storico del «Corriere della Sera» , in parte presso il Fondo Albertini dell’Archivio di Stato a Roma, sono state ora raccolte a cura di Lorenzo Benadusi nel volume edito dalla Fondazione Corriere della Sera con il titolo Mussolini ha deciso di internarmi col piccino (pagine 141, e 10). È un capitolo inedito del dramma che già milioni di italiani conoscono grazie al documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli trasmesso su Rai Tre il 14 gennaio 2005 (Il segreto di Mussolini) e al bel film di Marco Bellocchio, Vincere. Ida Dalser conobbe Mussolini nel 1909, ne divenne l’amante e forse lo sposò in chiesa, ma di questo non si sono trovate prove. Di certo ebbe da lui un figlio, Benito Albino, nato l’ 11 novembre 1915, che Mussolini riconobbe solo per poter esercitare la patria potestà e inviarlo in un brefotrofio. Mussolini il 16 dicembre del ’ 15 si sposò civilmente con Rachele Guidi da cui aveva avuto nel 1910 Edda. Ida chiese per tutta la vita di vedere riconosciuti i suoi diritti. Una lotta impari che si concluse con l’internamento di madre e figlio in due manicomi diversi e con la morte nel 1937 della donna e nel 1942 del ventisettenne Albino. Cosa aggiunge di nuovo questa testimonianza a quello che si sa già e che è stato scritto in molti libri, a cominciare dai saggi di Alfredo Pieroni, Il figlio segreto del duce (Garzanti), e di Sergio Luzzatto, «La demente Dalser» inserito nel volume Sangue d’Italia (manifestolibri)? Come spiega Benadusi nell’introduzione, queste lettere oltre a restituirci la voce di una donna coraggiosa e moderna, pur se fragile e con tratti maniacali, ci aiutano a leggere la biografia di Mussolini e la nascita del suo mito, la dialettica fra sesso e potere, i costumi di inizio Novecento e i rapporti che uomini come Albertini e lo stesso Francesco Saverio Nitti tenevano con l’astro nascente della nuova politica. I testi della Dalser ci dicono innanzitutto che il mito dell’uomo Mussolini, la fronte ampia, il collo taurino, il fisico forte, le labbra sensuali, nasce ben prima della conquista del potere. Benito M. è il prototipo della nuova bellezza, nervosa e spregiudicata, e la povera Ida ne sarà una delle prime vittime. Il fatto poi che Albertini non abbia risposto mai all’ex amante di Mussolini ci dice non soltanto che forse non credeva alla sua promessa di documenti scottanti sui finanziamenti francesi al «Popolo d’Italia» e di altre prove contro l’ex socialista interventista, ma anche che il direttore del «Corriere» , uno dei maggiori promotori dell’intervento nella prima guerra mondiale, non voleva inimicarsi l’uomo espulso dal Partito socialista proprio per il suo interventismo. Così più avanti il presidente del Consiglio Nitti avrebbe chiuso un occhio sui peccati privati del politico rampante per guadagnare un atteggiamento meno aggressivo in parlamento. Una volta al potere il capo del fascismo riesce letteralmente a seppellire le prove del suo scomodo passato privato. Ida sente la morsa e il 14 agosto 1925 nell’ultima lettera ad Albertini scrive: «Mani unghiate mi opprimono mi soffocano (...). Le mie lettere sono intercettate mandatemi vostre nuove a mezzo persone fidate» . Sembra un delirio, era la realtà.

Corriere 16.12.10
Il misticismo vive in tutte le culture
di Giovanni Reale


Il termine «misticismo» esprime una esperienza spirituale che congiunge il soggetto con l’oggetto, e in particolare l’unione o identificazione spirituale dell’anima con Dio. Il misticismo è ritenuto in genere connesso quasi esclusivamente con la religione cristiana. Ma, in realtà, si tratta di un fenomeno a vasto raggio che si estende non solo a tutte le grandi religioni, ma anche alla filosofia, e proprio a partire da quella classica. La prima testimonianza di tale esperienza si ha nel Simposio di Platone, nel finale del discorso che Socrate fa sull’Eros (come hanno riconosciuto non pochi studiosi: P. Natorp, A. E. Taylor, G. Krüger, K. Richter). Si tratta di quel momento della vita «che più di ogni altro merita di essere vissuto» , in cui si contempla il Bello in-sé, e ci si sente pronti «pur di vedere l’amato e stare sempre insieme a lui, a non mangiare e bere se fosse possibile, ma contemplarlo solo e stare con lui» e in cui diventiamo immortali. Nell’ambito del pensiero greco l'esperienza mistica si ritrova solo in Plotino (e nei neoplatonici), con approfondimenti paradigmatici. Nelle Enneadi leggiamo: «Questo è il fine dell’Anima: aver contatto con la luce di Lui e vedere la luce con la luce, ma non con la luce di qualcos’altro. Egli infatti è la stessa luce grazie alla quale essa può vedere (...). Ma come può avvenire questo? Spogliati di tutto!» (traduzione di R. Radice, Mondadori). Cerca di congiungerti «solo con Lui solo» . In epoca moderna Hegel ha ripreso la figura della mistica addirittura come espressione metaforica del concetto di «speculativo» come unità inclusiva del soggettivo e dell’oggettivo, e dice: «Si deve ricordare che per speculativo si va inteso quello che in altri tempi, soprattutto in relazione alla coscienza religiosa e al suo contenuto, soleva essere definito mistico» . L’esperienza mistica è comunque per sua natura connessa con il religioso, come viene mostrato nel bel libro di Marco Vannini, La mistica delle religioni (Le Lettere, pp. 389, e 20) in questi giorni in libreria. Vannini — uno dei massimi esperti in materia a livello nazionale e internazionale — analizza in modo dettagliato questa esperienza spirituale nell’induismo, nel buddismo, nell’ebraismo, nell’islamismo leggiamo: «Questo è il fine dell’Anima: aver contatto con la luce di Lui e vedere la luce con la luce, ma non con la luce di qualcos’altro. Egli infatti è la stessa luce grazie alla quale essa può vedere (...). Ma come può avvenire questo? Spogliati di tutto!» (traduzione di R. Radice, Mondadori). Cerca di congiungerti «solo con Lui solo» . In epoca moderna Hegel ha ripreso la figura della mistica addirittura come espressione metaforica del concetto di «speculativo» come unità inclusiva del soggettivo e dell’oggettivo, e dice: «Si deve ricordare che per speculativo si va inteso quello che in altri tempi, soprattutto in relazione alla coscienza religiosa e al suo contenuto, soleva essere definito mistico» . L’esperienza mistica è comunque per sua natura connessa con il religioso, come viene mostrato nel bel libro di Marco Vannini, La mistica delle religioni (Le Lettere, pp. 389, e 20) in questi giorni in libreria. Vannini — uno dei massimi esperti in materia a livello nazionale e internazionale — analizza in modo dettagliato questa esperienza spirituale nell’induismo, nel buddismo, nell’ebraismo, nell’islamismo e nel cristianesimo. La tesi di fondo del libro è che il misticismo si connette soprattutto con il cristianesimo, che si incentra su Cristo come Dio fatto uomo: «Ciò equivale a dire che il cristianesimo è religione mistica per eccellenza, e non nel senso che al suo interno la mistica può svilupparsi e fiorire (...) nel senso che "mistica"è l’essenza stessa del cristianesimo, il quale, senza la mistica, resta mera "credenza", non diversamente dalle altre religioni» . Fra le altre religioni quella che ha connessioni con il misticismo in maniera meno lontana dal cristianesimo è l’induismo: «Nella religione classica dell’India, a partire dai Veda e dalle Upanishad, è innanzitutto presente il concetto dell’unità essenziale di Dio e uomo: "questo sei tu", dice appunto la parola sacra delle Upanishad, rivelando all’uomo la sua realtà divina» . In questi giorni il lettore troverà nelle librerie la nuova edizione (con testo sanscrito a fronte) delle Upanishad a cura di Raphael (Bompiani, pp. 1.237, e 20), dove si legge: «Colui che ha realizzato il senza misura è beato e senza dualità» ; «Si cerchi con estremo impegno di purificare la mente (...). Si diviene ciò che si pensa» . Vannini ritiene che il maggiore dei mistici cristiani sia Meister Eckhart (1260-1327/8), e dal punto di vista teoretico ha ragione; tuttavia, per l’afflato poetico Giovanni della Croce (1542-1591), del quale è in libreria dal primo dicembre l’opera omnia (con testo spagnolo a fronte) a cura di Pierluigi Boracco (Bompiani, pp. 2.450, e 45), non è da meno. È un’opera accuratissima, che presenta gli scritti del santo a partire da quelli minori che contengono in nuce concetti sviluppati nelle successive grandi opere, la Salita del Monte Carmelo e la Notte oscura. L’uomo deve (come diceva Plotino) spogliarsi di tutto per poter congiungersi con Dio. Scrive Boracco: «Il libro della Salita del Monte Carmelo e il commento alla Notte oscura sono totalmente dedicati alla radicale spogliazione di sé, al vero e proprio denudamento che l’uomo deve saper operare in vista di questo coniugium (l’unione coniugale), dove Dio si consegnerà nudo e senza veli come già l’Uomo posto sulla Croce» . Per chi si accinge alla lettura di libri come questi vale, in ogni caso, ciò che Taylor diceva: «Se non abbiamo in noi quel tanto di misticismo necessario per considerare l’annullarsi e il rinnovarsi dell’anima come il compito essenziale della vita, il discorso non avrà per noi un valore reale e non potremo fare altro che considerarlo un "bel sogno"mitologico» .

Corriere della Sera 16.12.10
Russia postcomunista, manuale per arricchirsi
risponde Sergio Romano


Non ho mai letto sui giornali, salvo le recenti «rivelazioni» sullo Stato-mafia, la spiegazione di un fatto tanto evidente quanto sorprendente. Nel 1991 finisce il comunismo sovietico. Vladimir Putin ha sui 35 anni e gli altri magnati ancora meno. La proprietà era tutta statale. Come hanno fatto questi giovanotti a diventare miliardari in dollari? La risposta è semplice. Hanno spartito la roba di tutti e se la sono presa gratis. Il servizio segreto ha fatto il servizio in segreto ai poveri russi che, o zarismo, o bolscevismo, o oligarchismo, sono secoli che vengono calpestati. Perché non si dice? Per quattro motivi: paura, gas, petrolio, mercato. Vorrei comunque il suo parere: la Russia la conosce bene.
Pietro Di Muccio de Quattro dimucciodequattro@alice. it

Caro Di Muccio de Quattro,
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la morte del comunismo, la Russia aveva industrie vecchie, infrastrutture insufficienti e dirigenti aziendali privi di qualsiasi nozione sul funzionamento dell’economia di mercato. I medici occidentali accorsi al capezzale del malato prescrivevano ricette diverse, ma generalmente fondate sulla tesi che occorresse privatizzare e liberalizzare. Un ministro, Anatolij Chubajs, raccolse la sfida e decise la pubblica distribuzione di voucher (noi diremmo buoni o coupon), ciascuno dei quali corrispondeva a una piccolissima percentuale della proprietà di un’industria di Stato. Per diventarne proprietari occorreva naturalmente fare incetta di voucher sul mercato. È questo il momento in cui entrano in scena i personaggi che verranno successivamente chiamati oligarchi. Sono giovani, intelligenti, ambiziosi, quasi sempre provenienti da ottime scuole tecniche e scientifiche e già noti per la loro intraprendenza nelle organizzazioni giovanili del partito comunista. Il denaro di cui hanno bisogno per comprare voucher è nelle Casse di risparmio, enormi salvadanai in cui il cittadino sovietico deposita il denaro che non riesce a spendere nei negozi semivuoti del Paese. Grazie alle loro amicizie nell’apparato politico amministrativo dello Stato, questi giovani intraprendenti ottengono prestiti di favore, usano il denaro per comprare i voucher e lo restituiscono quando l’inflazione a due cifre ha drasticamente ridotto l’ammontare del debito. Il resto della storia è meglio noto. Quando l’azienda comprata gestisce risorse naturali (gas, petrolio, legno, minerali) l’oligarca esporta le ricchezze della Russia, trattiene all’estero gran parte del ricavato, evade il fisco e unge tutte le ruote necessarie al buon funzionamento della sua macchina. Non basta. Per meglio consolidare il suo potere crea una banca che gli permette di gestire segretamente i suoi flussi di denaro e compra giornali o canali televisivi che gli coprono le spalle e possono all’occorrenza condizionare il potere politico. La storia di Vladimir Putin è alquanto diversa. Quando torna a Leningrado dopo la fine del suo incarico in Germania, l’ex colonnello del Kgb ritrova il suo vecchio professore della facoltà di giurisprudenza, Anatolij Sobchak, uomo di grandi qualità morali e intellettuali. E quando Sobchak è eletto sindaco della città, Putin diventa il suo più stretto collaboratore sino al giorno in cui sarà chiamato a Mosca per assumere funzioni sempre più importanti nella cerchia di Eltsin. Putin, quindi, non è un oligarca. Sarà anzi il maggior nemico degli oligarchi, l’uomo che restituirà allo Stato il controllo delle risorse svendute nel decennio precedente e non esiterà a punire duramente quelli che gli oppongono resistenza. Con gli altri, tuttavia, sarà più tollerante e conciliante. Gli oligarchi, quindi, non sono interamente scomparsi. Quelli che obbediscono allo Stato (o, per meglio dire, a Putin) hanno ancora il diritto di conservare i loro tesori e di accrescerli.

Repubblica 16.12.10
Meno stress in sala operatoria e guarigioni più veloci. Sono gli effetti che può avere l´ascolto di una melodia La rivista scientifica Lancet ne fornisce le prove, fino agli studi più recenti effettuati nelle corsie di ospedale
Mozart più forte del dolore così la musica aiuta la medicina
Prima degli interventi facilita la sedazione, subito dopo riduce i farmaci necessari
di Elena Dusi


Non solo pillole e cerotti. Nei kit degli ospedali andrebbe inclusa anche una cuffia per la musica. Tanto grande – e per molti versi misterioso – è il potere della melodia nel curare sia la mente che il corpo, che il professore di Harvard Claudius Conrad ha proposto un suo uso regolare nei reparti di ospedale.
In un editoriale sulla rivista scientifica The Lancet, il medico (e pianista) americano ripercorre la storia dell´abbraccio fra medicina e musica dai tempi di Esculapio (non a caso figlio di Apollo) fino agli studi più recenti, che stanno descrivendo nei dettagli la risposta degli ormoni all´ascolto di brani celebri di musica classica.
La riflessione di Conrad si concentra sui due luoghi più duri di un ospedale: la sala operatoria e il reparto di rianimazione. «Ascoltando brani lenti di Mozart, alcuni pazienti molto gravi ricoverati in rianimazione hanno reagito con un calo degli ormoni che indicano il grado di stress» scrive il ricercatore nella sua pubblicazione. Epinefrina e Interleuchina-6 (i due ormoni misurati) sono diminuiti in alcuni pazienti anche del 20 per cento. «Abbiamo poi osservato un aumento dell´ormone della crescita nel sangue», che secondo Conrad è uno degli indici della guarigione in corso.
Prima degli interventi chirurgici, l´ascolto della musica facilita la sedazione. Subito dopo, riduce la quantità di farmaci necessari a sopportare il dolore. Qualche anno fa un medico italiano, Luciano Bernardi, dimostrò al San Matteo di Pavia che l´ascolto di qualunque brano di musica – inclusa rap e techno – fa momentaneamente accelerare il ritmo del cuore, ma dopo l´ultima nota produce uno stato di relax in cui i battiti rallentano, la pressione sanguigna diminuisce, il respiro si fa meno frequente e più profondo.
«Nessuno ha mai capito a cosa serva la musica dal punto di vista biologico» prosegue Conrad. «Eppure già Esculapio la raccomandava come terapia». Ma se i benefici delle melodie sono noti da tempo e la musica ci accompagna da 40mila anni (a tanto tempo fa risale il primo flauto ritrovato dagli archeologi in Germania), la strada che le note seguono all´interno dell´organismo per apportargli benessere e migliorare l´umore sono ancora al centro della ricerca scientifica. «Solo oggi – prosegue il medico musicista – cominciamo a capire qualcosa degli effetti sul sistema ormonale e immunitario». Quei dentisti ricordati da Lancet che il secolo scorso alzavano al massimo il volume per cercare di distrarre i loro pazienti agivano in nome del più puro empirismo. Ma oggi vedono confermate dalla scienza le loro intuizioni, con una riduzione del bisogno di analgesici nei pazienti con dolore cronico che ascoltano regolarmente i loro brani preferiti.
Usata per cercare di alleviare depressione, Alzheimer, autismo e disturbi del linguaggio, la musica viene sperimentata ora anche nella riabilitazione dopo un ictus. A luglio una pubblicazione sulla rivista Cochrane Systematic Review ha dimostrato che gli esercizi accompagnati da brani di musica molto ritmici venivano eseguiti meglio dai pazienti: con passi più lunghi, movimenti più ampi delle braccia e del bacino. Ascoltare un brano senza ballare, si è dimostrato, è una tentazione a cui gambe e braccia sanno resistere solo a prezzo di uno sforzo di autocontrollo. E allora, invita Conrad, è ora che il nostro istinto musicale inizi a essere sfruttato anche nella terapia.

Repubblica 16.12.10
Einstein, aforismi di un genio
La politica. La ricerca Il maccartismo. La bomba atomica. La condizione degli ebrei. Dagli archivi di Princeton emergono gli appunti inediti dello scienziato
di Gabriele Pantucci


n Albert Einstein privato, ben lontano dall´immagine paludata e seriosa dello scienziato accademico. Un uomo che guarda e giudica con distacco tutti gli aspetti della quotidianità, dell´attualità politica mondiale, e che ci tiene a chiarire la sua estraneità alla creazione e all´uso dell´arma atomica.
Questo è il personaggio che emerge dal nuovo volume The Ultimate Quotable Einstein, appena pubblicato da Princeton University Press. Il libro, curato da Alice Calaprice, aggiunge a quelli apparsi in passato 400 nuove citazioni dello scienziato. Lettere e documenti vari emersi dal suo archivio, che è conservato a Princeton dove occupò dal 1933 la cattedra di studi avanzati di fisica.
La voce dello scienziato - in forma di dichiarazioni o di scritti - percorre in questa antologia la sua intera vita. Dopo la scomparsa delle persone che amministravano l´archivio Einstein di Princeton, avevano lavorato con lui ed erano riuscite sempre a mantenere un controllo rigido della sua immagine, viene alla luce la personalità più autentica del geniale studioso.
Quando Einstein sviluppò la celebre teoria della relatività che avrebbe di fatto segnato l´inizio dell´era atomica non aveva alcuna premonizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate. In una lettera del 1946 che indirizza a suo figlio Hans Albert, il grande fisico si dissocia dalla creazione della terribile arma atomica: il suo coinvolgimento sarebbe stato soltanto molto indiretto.
Nel libro si trovano note di rammarico per gli obblighi della celebrità, che lo costringono a esibirsi «come un bue che ha vinto un premio ad un concorso agricolo», il suo sdegno per la Svizzera - di cui era cittadino - che non era intervenuta quando Hitler confiscò le sue proprietà in Germania, le sue considerazioni sul giudaismo e la forma che avrebbe dovuto prendere la patria ebraica in Palestina.
Non mancano le opinioni politicamente scorrette a proposito dell´America maccartista, su capitalismo e socialismo, sull´Unione Sovietica. In occasione della commemorazione di Sacco e Vanzetti (i due anarchici italiani giustiziati dopo un controverso e clamoroso processo) scrisse queste righe: «Anche le più perfette istituzioni democratiche non sono migliori delle persone che agiscono in loro nome».

Uomini e donne
La sfortuna si adatta incommensurabilmente bene al genere umano: meglio del successo. (1919)

Le persone sono come le biciclette: riescono a mantenere l´equilibrio soltanto se continuano a muoversi. (1930)

L´uomo e´ nato per odiare in misura quasi maggiore d´amare: e l´odio non si stanca d´afferrare qualsiasi situazione disponibile. (1946)

Sono le donne... che dominano tutta la vita americana. Gli uomini non sono interessati a nulla; lavorano, lavorano come non ho mai visto nessuno lavorare in nessun altro posto. Per il resto sono come dei cagnolini di pezza per le loro mogli, che spendono il danaro nel modo più eccessivo e che si nascondono in un velo di stravaganza. (1921)

Da Chaplin a Freud
Persino Chaplin mi guarda come se fossi una specie di creatura esotica e non sapesse che fare di me. Nella mia stanza s´è comportato come se l´avessero portato in un tempio. (1931?)

Comprendo le nozioni vaghe e imprecise di Jung, ma non le considero d´alcun valore; molte parole senza una chiara direzione. Se si deve scegliere uno psichiatra, preferirei Freud. Non credo in lui, ma mi piace molto il suo stile conciso e la sua mente originale, sebbene piuttosto stravagante. (1931)

Kant è una specie di autostrada con tante, tante pietre miliari. Poi arrivano tutti i cagnolini e ognuno deposita il suo contributo alle pietre miliari. (1919)

Cos´è il capitalismo
Cos´è uno Stato capitalista? E´ uno Stato in cui i principali mezzi di produzione, quali la terra coltivabile, la proprietà immobiliare nelle città, la fornitura dell´acqua, gas ed elettricità, trasporti pubblici, oltre che i più grandi impianti industriali, sono posseduti da una minoranza dei cittadini. La produzione è strutturata verso la creazione di un profitto per i proprietari piuttosto che a provvedere la popolazione con una distribuzione uniforme di beni essenziali... (1945)

Credo pure che il capitalismo o, dovremmo dire, il sistema della libera impresa, si dimostrerà incapace di controllare la disoccupazione, che diverrà crescentemente cronica a causa del progresso tecnologico ed incapace di mantenere un sano equilibrio fra produzione e potere d´acquisto della gente. (1947)

Il socialismo come tale non può essere considerato una soluzione a tutti i problemi sociali ma semplicemente una cornice in cui tale soluzione sia possibile. (1947)

Sono convinto che la degenerazione segue qualsiasi sistema autocratico di violenza, poiché la violenza attrae i moralmente inferiori. Il tempo ha provato che i tiranni illustri vengono succeduti dai furfanti. (1930)

Ebrei e arabi
La parola "ebreo" ha due significati. Ha a che vedere: 1) con la nazionalità e la discendenza; 2) con la religione. Sono un ebreo nel primo senso ma non nel secondo. (1921)

Preferirei vedere un ragionevole accordo con gli arabi sulla base di vivere insieme in pace piuttosto della creazione di uno Stato ebraico.... Non siamo più gli ebrei dell´era dei maccabei. (1938)

Tutti i bambini ebrei [in Palestina] dovrebbero essere obbligati a imparare l´arabo. (1929)

Non sono mai stato favorevole ad uno Stato. L´idea di uno Stato [ebraico] non s´accorda al mio cuore. Non posso comprendere perché sia necessario. E´ collegato con molte difficoltà e ristrettezza mentale. Credo sia un male. (1946)

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mercoledì 15 dicembre 2010

«L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale»
Repubblica 15.12.10
Il profeta delle illusioni
di Barbara Spinelli


C´è chi dirà che l´iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone.

Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l´accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un´alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l´articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l´insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.
Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.
A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l´etica pubblica, esasperando lo sporco spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l´ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l´hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.
Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell´opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s´insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c´è, dietro l´apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel ´94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell´uso di gas nella guerra d´Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel ´38.
Un´uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all´opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall´anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.
Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: «La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali».
Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.
È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l´Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l´ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l´interiorizzazione non c´è stata. Anche tra il ´43 e il ´44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel ´46 all´elezione dell´assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.
Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d´altro genere – il rischio di uno Stato in bancarotta–e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L´impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d´insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano («Il Quirinale vuole un governo solido») come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.
L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d´opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l´equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell´interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall´inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d´opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell´informazione, autonomia della magistratura, lotta all´evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d´interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt´altro che ridicolo o provinciale.
I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L´unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna «o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono». Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell´ozio: «Sono pronti a dire ai veggenti: ‘Non abbiate visioni´ e ai profeti: ‘Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni´».
Il profeta d´illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.

l’Unità 15.12.10
Un Paese sconfitto
di Concita De Gregorio


Da dove vogliamo cominciare? Dai leghisti in aula avvolti nel Tricolore o dalle auto in fiamme e i novanta feriti nel centro di Roma, dagli pseudo manifestanti che difendono l’idv «Scilipoti dallo strapotere delle banche» e plaudono al suo sostegno al governo e alla sua liberazione dal bisogno o da quegli altri (manifestanti?) che tranquillizzano proteggendolo col braccio il finanziere che in strada impugna la pistola? O forse dalla fine, dal bacio di Berlusconi a Casini e quel che racconta e promette?
Il governo ottiene la maggioranza alla Camera per tre voti 311 a 314 e da qualunque parte la si guardi, la giornata campale di ieri, da qualunque fotogramma si decida di partire è una giornata cupa, grottesca, ridicola, misera, a tratti tragica: in strada tragica. È la giornata della sconfitta: la giornata che segna la sconfitta della politica intesa come confronto di idee e di progetti, l’unico modo lecito di intenderla, la sconfitta di un paese che esibisce al mondo intero come successo la tenuta di un governo che compra col denaro e col ricatto i parlamentari che gli servono e una piazza che dice che la sfiducia è nelle strade, che siamo a un passo dall’irreparabile, che basterebbe niente, ma proprio niente, per trasformare la guerriglia urbana in guerra civile e a poco varrebbe dopo cercare i colpevoli. Dopo è sempre troppo tardi. La tensione sociale è altissima, la distanza tra le scene vissute per strada e quelle viste a Palazzo enorme: per uno Scilipoti o una Polidori che si garantiscono i favori del premier, accolti in saletta riservata per i ringraziamenti, ci sono fuori migliaia di manifestanti, i campani travolti dall’immondizia e gli aquilani dalle macerie, giovani esasperati a cui nessuno farà altrettanti favori, che siano o non siano strangolati dai tassi d’interesse delle banche come il deputato messinese eroe d’un giorno, o di quel giorno lapide.
Ha perso l’opposizione, di un soffio. Perché si possono fare in tanti modi i conti di poi ma non c’è nessun dubbio che se Razzi e Scilipoti, eletti con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, avessero votato con il partito che li ha messi in lista sarebbe finita 313 a 312, il governo battuto. Ha perso Fini perché è altrettanto vero, scegliendo un altro conto del poi, che se le due deputate del suo gruppo Polidori e Siliquini avessero seguito le indicazioni di Futuro e libertà il risultato finale sarebbe stato lo stesso, nonostante i mutui estinti e le università private finanziate (promesse, poi vedremo) ai due idv. Ha perso il Pd e non tanto per Calearo, su cui tutti oggi si accaniscono ma che da tempo aveva traslocato all’Api di Rutelli prima, al gruppo misto poi e infine a quell’improbabile gruppetto di sedicente "responsabilità" si sapeva, di Calearo, e da molto: le sorprese sono state altre ma perché non è stato possibile, evidentemente e per ragioni che i mesi a venire diranno, chiudere un’intesa su una possibile legge elettorale che tenesse insieme una maggioranza alternativa. In questo gran parte ha avuto Casini, che con tutta evidenza baciato in pubblico dal premier non ha perso niente come è solito fare, non vince e non perde quasi mai. Una certa parte l’ha avuta anche la sinistra di Vendola che reclama elezioni, orizzonte del resto prima o dopo inevitabile e oltretutto davvero in queste condizioni salutare.
L’unico problema sembra essere che si andrà molto probabilmente a votare con questo stesso sistema elettorale: quello che ha prodotto i Razzi i Siliquini i Calearo che difficilmente sarebbero stati eletti se la scelta fosse davvero in mano agli elettori.
Ha perso persino colui che in serata con voce impastata vanta da Bruno Vespa di aver vinto: perché ha vinto, sì, ma ha vinto la sua convinzione fondatissima: purtoppo in questo B. ha ragione che si trova sempre qualcuno da corrompere, c’è sempre all’ultimo minuto qualcuno da convincere, con le buone o le cattive da comprare. Diceva Bossi, in aula, un momento prima del colpo di scena: tranquilli, abbiamo anche l’ultimo voto. Ce l’avevano, in effetti. È comparso sotto le spoglie gentili della deputata umbra Catia Polidori, futurista di cui nessuno aveva sino ad allora dubitato, salutata in aula da un applauso scrosciante a mani alte di La Russa e dei suoi sodali, causa di una rissa che fa sospendere la seduta, l’esperto Menia che divide i colluttanti, il grosso Corsetto che si frappone, Fini che sospende i lavori. Battutacce, fischi, applausi. Di Catia Polidori hanno scritto per settimane e in tempi non sospetti il Corriere la Repubblica e i massimi quotidiani finanziari che fosse parente stretta di Francesco Polidori, il signor Cepu, quello che aveva assicurato a Berlusconi una capillare campagna di porta a porta, quello che ha di recente ottenuto votato anche da Catia i favori di una legge che fa grande beneficio al suo istituto per studenti difficili di famiglie facoltose. Ieri in tarda serata, dopo che Luca Barbareschi aveva detto «è stata minacciata, le hanno giurato che avrebbero fatto chiudere la sua società», la deputata Polidori ha smentito di essere legata da parentela al suo omonimo: sono solo vicini di casa, ha detto, in una frazione di Città di Castello che conta 30 abitanti, evidentemente in maggioranza Polidori. Coincidenze.
Siamo sconfitti noi, tutti noi italiani che da settimane siamo costretti ad occuparci dei casi privati le prime mogli, le aziende, i mutui di deputati di terz’ordine ci cui nessuno fino ad oggi aveva sentito parlare e che all’improvviso diventano portatori di un immenso valore marginale, decisivi per le sorti del paese. Se il signor B resta in sella lo si deve a gente come Siliquini, Catone, Cesario, Razzi, Grassano, astenuti Moffa e Gaglione, qualcuno di voi sa dire in cosa si siano distinti finora, a parte forse le loro rispettive professioni? Alcuni di loro hanno tenuto ieri l’aula col fiato sospeso fino all’ultimo: mai nessuno, immaginiamo neppure in famiglia, aveva atteso l’arrivo di Scilipoti con tanta apprensione. Mai l’ingresso in aula di Giulia Cosenza, madre imminente, era stato salutato da tanto sollievo. Federica Mogherini e Giulia Bongiorno, le altre partorienti, accolte da applausi di metà emiciclo. Può un governo dirsi vittorioso a queste condizioni? Possono gli italiani riconoscersi in un simile sistema di rappresentanza? Si può sperare qualcosa di meglio con queste stesse regole, per l’avvenire?
Chi ha più soldi e più potere vince, è questa l’unica regola. Chi ha più soldi, chi può pagare di più e minacciare più forte, chi è più persuasivo. Non è più una questione di idee, la politica non c’entra: il gruppo dei finiani si è smarcato in nome di un’idea, ha cambiato posizione in nome di un dissenso. Ha provato a immaginare una destra possibile senza e dopo il signor B., senz’altro anche immaginando il proprio avvenire: politico, tuttavia. Il proprio avvenire politico. Non un’opposizione da sinistra: un’opposizione da destra. In questo caso ha prevalso l’immediata competizione interna che si scatena ad ogni latitudine fra aspiranti bracci destri del capo: Moffa e non è il solo a pensarlo ha chiesto le dimissioni di Bocchino, ieri. Troppo potere a Bocchino, troppo in vista, troppo favorito: perché lui sì e noi no?
Dentro questo: Melania Rizzoli avvolta al tricolore e l’avvocato Consolo fischiato per aver detto no, gesti dell’ombrello e cori, baci alle dame, favori al cavalieri. Fuori la guerriglia. Roma, in una giornata prenetalizia, deserta: mezzi pubblici sospesi e blindati a transennare le strade, passanti inconsapevoli e turisti sbigottiti. Poi le fiamme, auto bruciate e letame che vola, sampietrini petardi bastoni, agenti in borghese indistinguibili dai manifestanti, manifestanti resi irriconoscibili dai caschi. Studenti delle medie che riparano a casa degli amici per paura, insegnanti che chiamano casa dicendo i ragazzi li teniamo a scuola, fuori c’è pericolo.
Non è una capitale che abbia vinto niente, questa. Non è normale dissenso, non è un Italia in cui continuare a vivere, o per chi lo preferisca tirare a campare, sereni. Non si tira a campare così. Chissà cosa pensa davvero Bossi, che oggi all’improvviso dice con insolita indulgenza verso il detestato Casini che non c’è “nessuna preclusione verso l’Udc”. Chissà se davvero il morbido intervento del suo Giampero D’Alia prelude a una nuova intesa con gli ex democristiani oggi perno del terzo polo, se il terzo polo farà da terza gamba al governo Scilipoti. Ogni tempo ha i suoi trenta denari, diceva l’altra sera Casini in tv. Giuda era uno, però. Qui c’è la fila, col numero in mano. Quindici giorni di troppo, aveva detto Bersani quando la fiducia fu fissata al 14 dicembre con pausa di chiusura delle Camere. Aveva ragione. Due settimane di mercato di troppo. Ora, all’orizzonte, non resta altro che un vivacchiare scambiandosi di volta in volta il sacco dei denari. O il voto, certo.

l’Unità 15.12.10
Il segretario parla di «governo Scilipoti». Franceschini loda la compattezza dei 206 deputati Pd
D’Alema: «Berlusconi fattore di corrompimento». Confronto sulle alleanze, i malumori di Fioroni
Bersani: vittoria di Pirro «Di più non potevamo fare»
«Siamo al governo Scilipoti» ̧ è l’amaro commento del segretario del Pd. Si precipita verso il voto, sul piatto c’è il tema delle alleanze, Veltroni oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico. Fioroni si farà sentire.
di Simone Collini


Bersani si affida all’ironia, per quanto amara: «Siamo al governo Scilipoti». D’Alema, tagliente: «Berlusconi si conferma un fattore di corrompimento della vita pubblica». Franceschini sottolinea il voto unanime dei 206 deputati Pd e il fatto che la mozione di sfiducia
«sarebbe passata se non ci fossero stati i tradimenti di due deputati dell’Idv». Letta invita tutti a «non mollare» dopo questo «primo passo»: «Dobbiamo proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini».
I dirigenti del Pd escono dall’Aula e via via si infilano nell’ufficio del segretario a Montecitorio, nella cosiddetta Galleria dei presidenti. Il risultato della votazione è stato dato da pochi minuti. Su un divanetto di fronte ai ritratti di Saragat e Terracini siede tutto sorridente Scilipoti, che mette il telefonino in modalità viva voce per far sentire al collaboratore che gli sta accanto che Berlusconi lo ha chiamato per ringraziarlo. Arrivano anche Bindi, Fassino, Marino, Fioroni, Gentiloni e Veltroni. Fi-
nocchiaro è bloccata al Senato per via degli scontri di piazza. Anche nel Transatlantico della Camera inizia ad arrivare l’odore di bruciato. Nella stanza di Bersani c’è un clima non proprio allegro. Di fronte agli altri seduti in circolo, il segretario definisce quella di Berlusconi una «vittoria di Pirro», difende la strategia seguita fin qui «abbiamo ottenuto il massimo possibile in questo momento, prima avevamo di fronte una maggioranza di un centinaio di voti, ora si sono ridotti a tre» ribadisce che nell’azione di contrasto al governo ci saranno «rapporti» anche con Fini e Casini e continua a insistere sulla necessità di dar vita a un «governo di responsabilità nazionale». Linea difesa da Franceschini, D’Alema, Bindi e non contestata da nessuno nel corso della riunione.
PERPLESSITÀ E CRITICHE
Ma Veltroni, che oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico e ha deciso di far slittare di una settimana il Lingotto 2, rimane convinto che adesso il Pd debba «investire su se stesso» evitando di impegnare tutte le energie nelle strategie parlamentari con le altre forze politiche. E Fioroni, che sta dando vita a una fondazione di ex-ppi (il nome potrebbe essere, parafrasando don Sturzo, «Liberi dai forti») evita di ripetere durante la riunione ristretta le critiche espresse di fronte ai suoi per la scelta degli interventi in aula: «D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, manca Occhetto e hanno rifatto il Pds»).
Ma lasciando la stanza del segretario e arrivando in Transatlantico, Fioroni non nasconde le sue perplessità per il credito dato ai finiani: «L’avete ascoltato l’intervento di Bocchino? L’avete per caso sentir fare almeno un accenno al governo di responsabilità nazionale?». A un altro ex-popolare come Grassi non sono piaciuti neanche i riferimenti del capogruppo Fli all’Msi e Parisi, che pure era stato tra i primi a sollecitare la presentazione di una mozione di sfiducia, attacca: «Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni, invece che all’inseguimento di un inesistente terzo polo. Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea di condotta?». Per non parlare delle critiche proveniente dal fronte dei “rottamatori”, con Civati che constata che «la zona gianfranca, come temevamo, non ha retto» e con il sindaco di Firenze Renzi che critica apertamente la strategia seguita dai vertici Pd: «Fini in 30 anni non ha azzeccato una mossa, neanche per sbaglio. Penso a chi ha osannato Fini in questi 6 mesi, convinto fosse un “compagno” solido per il futuro».
Lo scenario
Veltroni oggi riunisce quelli di MoDem Dubbi su Fli e Casini
LE URNE E IL NODO ALLEANZE
Bersani per ora non si preoccupa, ma sa che presto potrebbe scatenarsi una discussione all’interno del Pd. Se è vero che anche dopo questo voto «non cambia nulla, il governo non ce la farà e la crisi politica ne esce drammatizzata», è anche vero che lo sbocco più verosimile in questo quadro sono le elezioni anticipate. Bersani rimane convinto che «per un Paese nei guai, pensare al voto è da irresponsabili», ma dice anche che il Pd non teme le urne. Il nodo delle alleanze è però ancora tutto da sciogliere. Non a caso alla riunione si è preferito evitare di impegnarsi in una discussione su questo punto.
Bersani punta a una coalizione in cui non rimangano fuori i centristi, e l’annuncio di Casini che in caso di voto l’Udc non si alleerà al Pd non ha fatto piacere. Un’alleanza ristretta a Pd-Idv-Sel avrebbe poche chance. Inoltre ha provocato non poca irritazione tra i Democratici, tra i lettiani ma non solo, il fatto che in una giornata come questa Vendola si aggirasse per la Camera dicendosi pronto a candidarsi a premier.

l’Unità 15.12.10
Vendola sorride e scalda i motori: «Si vota a marzo Adesso primarie»
Vendola “festeggia” il risultato della Camera: «Non partecipo col cuore alle vicende del palazzo, non c’è spazio per formule artificiali che non hanno fondamento. Si vota a marzo, subito le primarie e io sono pronto».
di A.C.


Scalda i motori, Nichi Vendola. E non fa nessuno sforzo per mostrarsi dispiaciuto della vittoria ai punti del Cavaliere. «Non partecipo col cuore alle vicende del Palazzo», sorride il governatore passeggiando per il Transatlantico, quando ormai la polvere degli scontri del mattino si è depositata. Non si era mai mostrato particolarmente entusiasta dell’asse del Pd con Fli e Udc, e che vedeva come il fumo negli occhi un governo di transizione che avrebbe allontanato le urne di vari mesi, forse di più. Anche se autorevolissimi dirigenti del Pd lo avevano chiamato per chiedergli fair play, «non sparare contro il nuovo governo, se puoi». E invece no. Alcuni deputati pugliesi del Pd ci scherzano su: «Nichi è sempre maledettamente fortunato...». E lui insiste: «Questa legislatura è finita, è evidente che non c’è spazio per costruire formule un po’ artificiali che non hanno fondamento qui, e soprattutto nella realtà». Ecco, appunto. Vendola, anche per ragioni oggettive, visto che non ha deputati, guarda fuori dai palazzi, alle primarie che (forse) verranno se si andrà alle urne a marzo, come lui stesso pronostica: «Sono pronto a candidarmi per fare il leader del centrosinistra», confida, poco prima che Fini proclami il risultato del voto di fiducia. «È l’Italia che sta sfiduciando Berlusconi, c’è un sentimento collettivo dilagante, tanta gente che non sopporta più questa scena. Il problema è tradurre questa rabbia in un processo positivo».
Sorride Vendola, anche perché non vede nel voto un successo del Cavaliere: «314 è un numero male-
detto, una vittoria provvisoria, la peggiore: è un attimo di euforia che due secondi dopo si trasforma in depressione». Primarie dunque. Da fare «in fretta». «E non lo dico da oggi, do semplicemente voce a una cosa che è nella realtà».
SEL: PRIMARIE A GENNAIO
Il governatore pugliese sintetizza la sua analisi sulle prossime fasi del governo: «Berlusconi tenterà di allargare la maggioranza alle forze centriste, ma penso che non troverà terreno fertile per un nuovo centrodestra». Ecco perchè si voterà presto, a marzo. E allora i gazebo «vanno convocati immediatamente», dice Gennaro Migliore, uno dei colonnelli di Vendola. «Si sono consumati tutti i margini per le manovre di palazzo, l’alleanza naturale che il nostro popolo si aspetta è Pd-Idv-Sel, per eventuali allargamenti si vedrà poi», dice Migliore. Che fissa a «fine gennaio-inizio febbraio» la data utile per le primarie. «Per noi si potrebbero anche fare insieme a quelle di Bologna e Napoli, il 23 gennaio». «Prendere altro tempo e rinviarle ancora sarebbe una beffa per gli elettori. Le primarie sono l’unica strada per mobilitare i nostri elettori, per vincere poi le elezioni vere». E l’alleanza del Pd con Casini? «Quella è sempre stata solo nella mente dei dirigenti del Pd, Casini ha già detto che alle urne si presenterà da solo», dice Migliore. «Ha ragione Parisi: quante altre sconfitte servono prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea?».

l’Unità 15.12.10
Maroni: tutto ha funzionato Ma Bersani accusa: «Spieghi le infiltrazioni violente»
Polemica sulla sicurezza. Il ministro dell’Interno: gestione equilibrata delle forze dell’ordine. Il segretario del Pd punta il dito: «Nessuno ha impedito che si infiltrassero violenti». E Fini parla di «episodio ignobile».


«Se non c'erano i blindati li avremmo visti arrivare qui con i martelli e i picconi», prova a schermirsi Roberto Maroni con i deputati che gli raccontano quale impresa sia stata, ieri, conquistare l’ingresso in Parlamento. E più tardi il ministro dell’Interno affida al capo della Polizia Manganelli il messaggio per il questore di Roma e per tutte le forze dell’ordine, per apprezzare «l'equilibrio e l'oculata gestione dimostrata in tutte le fasi della manifestazione». Ma gli scontri in centro, per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani mettono a nudo come qualcosa non abbia funzionato.
Quando si calma l’aria nelle strade, tutti sono d’accordo nell’esprimere solidarietà agli agenti feriti. Ma è polemica sugli incidenti e la violenza
di questa giornata di fuoco. Con un centrodestra che fa passare l’intero fronte delle mobilitazioni per un esercito di agitatori fino a un Maurizio Gasparri che guarda a sinistra e lancia accuse di complicità «con chi attua la violenza» e Pier Luigi Bersani che chiama in causa con più precisione Maroni: «È intollerabile che dentro le manifestazioni siano riusciti a inserirsi teppisti, violenti e black block ben riconoscibili, e che sia stato possibile produrre devastazioni in pieno centro a Roma. Maroni dovrà chiarire». Durissimo, intanto, il commento del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che sfila a piazza del Popolo per salutare la polizia dopo gli scontri: «C'è stato una sorta di raduno nazionale di tutti coloro che avevano l’obiettivo non di manifestare un'opinione, ma di attaccare le forze dell'ordine e impedire il legittimo percorso dell' attività parlamentare». Sulla stessa linea il ministro del Lavoro, Sacconi: «Una violenza vergognosa che merita solo repressione».

Corriere della Sera 15.12.10
Pd sconfitto, ma Bersani non cambia linea
di  Maria Teresa Meli


ROMA — Lo hanno capito veramente solo un’oretta prima della votazione. Ma in realtà, tranne poche eccezioni, i dirigenti del Partito democratico non ci speravano troppo. Sapevano che i numeri erano ballerini. È stata una sconfitta, sì, anche se meno cocente di quella subita da Fli. E di fronte all’insuccesso, il partito deve mostrarsi unito e solidale. Perciò Pier Luigi Bersani ha convocato il caminetto con tutti i leader, da Veltroni a D’Alema, passando per Fioroni, Gentiloni, Fassino, Franceschini e Marini. Un incontro veloce che dura solo mezz’oretta e che avrà una coda oggi. La versione ufficiale è che tutto è filato liscio come l’olio e che non c’è nessuna divergenza. La accreditava anche la minoranza interna, perché la consegna è stata questa. Gli unici che hanno turbato la pseudo-quiete in casa democratica sono stati Matteo Renzi e Arturo Parisi. Il sindaco di Firenze ha preso in giro quelli che nel suo partito (quasi tutti praticamente) hanno «osannato Fini in questi sei mesi, convinti che fosse un compagno solido per il futuro» , lui che «in 30 anni non ha azzeccato una mossa, nemmeno per sbaglio» . Insomma, una critica, neanche troppo velata, alla linea Bersani-D’Alema. Renzi è fatto così, ama parlare pane al pane e vino al vino. Anche Parisi non è riuscito a fare finta di niente e a tacere: «Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente riveda la sua linea di condotta?» . In realtà Renzi e Parisi non sono gli unici a pensarla così. Perché se è vero, come accreditano le versioni ufficiali, che non c’è stata nessuna lite nel caminetto è anche vero che in quella riunione sono emerse due posizioni molto diverse, se non addirittura opposte. Da una parte, Bersani: «La nostra linea non cambia di una virgola» . E D’Alema che ha ipotizzato la possibilità di varare ancora adesso un governo di transizione. Dall’altra, Veltroni, Fioroni e Gentiloni che hanno chiesto al segretario un momento non c’è stata nessuna lite nel caminetto è anche vero che in quella riunione sono emerse due posizioni molto diverse, se non addirittura opposte. Da una parte, Bersani: «La nostra linea non cambia di una virgola» . E D’Alema che ha ipotizzato la possibilità di varare ancora adesso un governo di transizione. Dall’altra, Veltroni, Fioroni e Gentiloni che hanno chiesto al segretario un momento di confronto nel partito sulla strategia da seguire, perché il Pd non può limitarsi a fare da comprimario a Fini e Casini. «È indispensabile riprendere in mano noi l’iniziativa» , è stata l’esortazione di Veltroni. Per dirla in poche parole, secondo l’ex segretario del Partito democratico «non è possibile fare finta di niente» : la linea strategica è da rivedere, assolutamente. Anche perché, ad avviso di Gentiloni, pur se meramente «tattico» il successo di Berlusconi non può essere derubricato come un «evento marginale» . Sulla stessa lunghezza d’onda Fioroni. Ma con una preoccupazione in più: «Siamo veramente così sicuri che Berlusconi e Casini non tornino a parlarsi in un futuro non più lontanissimo?» . Il rischio effettivamente c’è. Ed è presente a tutti. Proprio per questo secondo Enrico Letta «tattico» il successo di Berlusconi non può essere derubricato come un «evento marginale» . Sulla stessa lunghezza d’onda Fioroni. Ma con una preoccupazione in più: «Siamo veramente così sicuri che Berlusconi e Casini non tornino a parlarsi in un futuro non più lontanissimo?» . Il rischio effettivamente c’è. Ed è presente a tutti. Proprio per questo secondo Enrico Letta «non bisogna mollare proprio ora e si deve invece proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini» . Opposta la posizione dell’ex ppi Giorgio Merlo, vice presidente della commissione di vigilanza Rai: «È bene che Fini, d’ora in poi, vada per conto suo e che non si continui a considerarlo un alleato decisivo» . Dunque, i problemi ci sono, nel Pd, anche se per il momento hanno deciso tutti di stabilire una tregua. Bersani ha convocato il caminetto a questo scopo: per capire se fosse possibile restare ancora uniti almeno fino a quando non si capirà come vanno a finire queste tormentate vicende politiche. E a questo proposito nessuno se la sente di escludere le elezioni. Comunque, finché regge la tregua interna, si va avanti seguendo l’indicazione di Bersani: «Sarà battaglia con le altre opposizioni contro il governo» . Avanti tutta con il tentativo di metter sotto Berlusconi alla Camera nelle votazioni che verranno: i prossimi appuntamenti potrebbero essere la mozione di sfiducia a Bondi e il decreto sui rifiuti.

Repubblica 15.12.10
Bersani tira dritto: "La linea è giusta" ma per la minoranza la rotta va corretta
Il leader pd: il governicchio cadrà. Renzi attacca
I veltroniani chiedono di cambiare linea: "Pensare meno alle alleanze"
di Giovanna Casadio


ROMA - Fino all´ultimo il Pd ha sperato di vincere la partita. Bersani lo ammette: eravamo a un passo dalla nuova fase. Invece, la doccia fredda. «Eccoci nel governo Scilipoti-Razzi», che svela la fragile vittoria di Berlusconi, «una vittoria di Pirro, una scandalosa compravendita dei voti che consegna al Paese un governo più debole e un´opposizione più ampia e un esecutivo nell´impossibilità di dare una rotta». Pochi minuti dopo la fiducia a Berlusconi, il segretario democratico riunisce i big nel suo ufficio a Montecitorio. «Grazie a noi la maggioranza non c´è più - esordisce - ci siamo mossi bene, l´opposizione si è allargata».
E la strategia Pd resta la stessa: no alle elezioni-iattura per il Paese («Chi pensa al voto è irresponsabile»); prestissimo il «governicchio» cadrà, la battaglia ora si fa dura; ci vuole «un governo di transizione». Ma, al di là delle rassicurazioni, per i Democratici, delusi e preoccupati, comincia una difficile scommessa: da un lato, ritrovare un´unità non di facciata come è stata la tregua in attesa della spallata; dall´altro attrezzarsi per affrontare le elezioni che restano uno spauracchio. Matteo Renzi, il "rottamatore" (messo sotto accusa nel partito per essere andato una settimana fa ad Arcore da Berlusconi), si toglie la soddisfazione di dire su Facebook quel che pensa di Fini e di chi si è fidato di lui: «Fini in trent´anni non ha mai azzeccato una mossa, neanche per sbaglio», e c´è stato chi «lo ha osannato in questi sei mesi, convinto fosse un compagno solido per il futuro».
Walter Veltroni e gli altri Modem chiedono al segretario di «cambiare linea», di «tornare a dare le carte e pensare meno alle alleanze». Rischia di essere il Pd troppo a rimorchio di Fini, in pratica. Lo dice Beppe Fioroni, l´ex popolare, che fa pesare la sua forza contando gli aderenti (48) alla Fondazione appena creata. Torna il mantra della scissione dei Modem e della creazione di gruppi autonomi. Smentita indignata: tutte balle. «I gruppi separati non li faranno mai - commenta Franco Marini, leader storico dei Popolari e bersaniano - Ma dove vanno? Rompono, anche se non hanno tutti i torti». Amara considerazione di Arturo Parisi, braccio destro di Prodi quando quel governo fu sfiduciato la prima volta: «Nel 1998 dissi che avevamo perso, ma non ci eravamo perduti; ora abbiamo perso e ci siamo perduti. Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni e non all´inseguimento di un inesistente Terzo Polo. Quanto ci vuole prima che il Pd riveda la sua condotta?».
I Democratici non vogliono sentire parlare di resa dei conti. Già oggi dovrebbe tenersi un nuovo coordinamento; questa sera, assemblea di Modem. C´è irritazione per l´Opa lanciata da Berlusconi sui «democristiani» del Pd. Rosy Bindi, cattolico- democratica e presidente del partito, reagisce: «Berlusconi non punti le sue carte su chi viene dalla storia della sinistra dc. Lui è solo un´anatra azzoppata». Si apre un fronte di aspra polemica con i dipietristi. Dario Franceschini accusa: «Se non ci fossero stati due traditori dell´Idv, Scilipoti e Razzi, avremmo vinto: il Pd è stato compattissimo». Per Idv sono «affermazione sciacallesche». Il Pd sa che la battaglia per fare cadere il governo ora inizia davvero: ci sarà il Vietnam delle commissioni; il decreto-rifiuti; la mozione di sfiducia a Bondi. Nichi Vendola in Transatlantico ieri rilancia: «Se si vota, e le elezioni sono più vicine, sono pronto alla premiership del centrosinistra».

Repubblica 15.12.10
D´Alema: con questi numeri lo sbocco più naturale restano le elezioni
"Da cretini fare dietrofront il dialogo con Udc e Fli necessario alla transizione"
di Goffredo De Marchis


Fini ha fatto una battaglia vera contro Berlusconi. Gli va dato atto. Certo, non ha né i soldi né il potere del Cavaliere
Bel partito del cavolo ha fatto Di Pietro. Loro la vera opposi-zione? Figuriamoci. E qualcuno gli dà pure corda

ROMA - «Mentecatti». Così Massimo D´Alema definisce quelli che ora mettono in discussione il sogno democratico di un governo di responsabilità istituzionale e la strada del dialogo con il Terzo polo di Fini e Casini. «Credo che nessuno nel Pd sia così stupido da poter sollevare questa obiezione. Cosa dovevamo fare? Votare la fiducia a Berlusconi per non fare sponda con Fli e Udc? Roba da mentecatti, appunto. La politica non è fatta di scenari, è una scienza semplice, basta ragionare». Eppure intorno al Pd le voci critiche sulla linea non mancano. Da Renzi ai veltroniani, da Fioroni a Parisi. Naturalmente, il presidente del Copasir non fa nomi. «Cretini in giro ce ne sono sempre. Ma spero che nel Pd non vengano fuori».
La sconfitta del fronte di opposizione D´Alema non può negarla. «Partivano da più 70 deputati, sono arrivati a più 3. Prima o poi vinceremo noi», è il commento al voto sulla fiducia venato da una nota di amarezza più che di sarcasmo. «Ma Berlusconi può governare con questi numeri? Assolutamente no. Già domani (oggi per chi legge ndr) si vota alla Camera e si troverà davanti la stessa opposizione. Vale a dire un Parlamento diviso a metà». A questo punto D´Alema scommette tutto sulle elezioni. «È lo sbocco più logico, mi pare». Senza rinunciare però allo spiraglio di un altro governo, di un esecutivo di transizione. «La prospettiva di un´alleanza con Fini e Casini resta in piedi, il voto a Montecitorio non la esclude». La allontana, però. Il presidente della Camera si è indebolito, per esempio. «Fini ha fatto la sua battaglia contro il premier, una battaglia vera - risponde D´Alema -. Gli va dato atto. Certo, non ha né i soldi né il potere di Berlusconi. Questo conta». Per l´ex premier il Parlamento ha raggiunto il livello più basso di «degrado mai visto nella storia della Repubblica. Deputati comprati, deputati nascosti dietro le tende fino all´ultimo per proteggere la vergogna di un voltafaccia. Uno spettacolo indecente per le istituzioni, per la democrazia. Che dobbiamo in larghissima parte a Berlusconi, alla sua parabola politica. Motivo in più per togliercelo dalle scatole (non dice proprio scatole, ndr)».
Il Partito democratico, al pari di Fini, ha fatto la sua battaglia, con i compagni di strada giusti. «Non siamo in un angolo. E non è vero - spiega D´Alema - che ora dovremo lavorare in una cornice di alleanze che va da Vendola a Di Pietro e basta. Chi lo dice? Le altre porte restano aperte per noi». Sicuro? «Noi dobbiamo fare la nostra parte ma non possiamo rispondere anche per gli altri. Non decidiamo solo noi». L´Italia dei Valori, ancora di più dopo la diserzione di due suoi deputati, è un partner indigesto per il presidente del Copasir. «Bel partito del cavolo (non dice proprio cavolo) ha costruito Di Pietro. Sono gli stessi che mettono i manifesti con la scritta "la vera opposizione". Loro, la vera opposizione. Figuriamoci. E qualcuno gli dà pure corda, i giornali li esaltano, credono o vogliono credere che sia davvero così». Il Pd non è messo male, secondo D´Alema, perché «ha dimostrato di essere la forza centrale dell´opposizione. Ha portato 206 deputati su 206 a votare la sfiducia. E il suo lavoro è cominciato prima, con le battaglie parlamentari delle ultime settimane, con la manifestazione di piazza San Giovanni. C´è un gruppo dirigente unito, non isolato, che non ha perso il sostegno della sua gente».
Non abbandonare Fini, non consegnare Casini al centrodestra, semmai scaricare Di Pietro sembra lo schema seguito da D´Alema. Dire che il governo di responsabilità è «ancora in campo» significa prendere atto dei numeri difficili per il premier ma anche tenere insieme un´ipotesi di coalizione in vista delle elezioni anticipate. Certo, per realizzarla ora ci vorrà una nuova iniziativa del Pd. Magari l´offerta a Casini della candidatura a premier che scavalcherebbe Bersani ma darebbe sostanza alla strada di un accordo. «Vengo adesso da una riunione con il gruppo dirigente. Siamo uniti, nessuna spaccatura», dice. Il che non esclude divisioni nelle prossime ore, anche laceranti. Ma il presidente del Copasir sa che solo un Partito democratico compatto può condurre in porto operazioni difficili come una nuova alleanza che rompe vecchi rapporti, che ha più di un nemico tra i democratici, che deve convincere potenziali alleati dubbiosi. Altrimenti un centrosinistra limitato a Pd, Di Pietro e Vendola diventa inevitabile.

il Riformista 15.12.10
Al Pd che cerca alleati il Terzo Polo dice no
L’Udc si sfila,Vendola inizia il pressing: «Pronto a candidarmi a premier del centrosinistra». I democrat sempre più divisi sulla strategia da seguire
di Ettore Colombo


Repubblica 15.12.10
Se la Chiesa assolve il suicidio e non l’eutanasia
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, grazie per aver pubblicato la mia lettera, anche se nella sua risposta trovo una affermazione parzialmente vera, e cioè «la Chiesa concede i suoi riti ai suicidi in base al sofisma: nell'ultimo nanosecondo potrebbe essersi pentito». Lei commenta «è una scappatoia un po' vile». In realtà la Chiesa aveva già manifestato in alcuni documenti conciliari la sua volontà di dialogare con le "scienze umane", in quanto ci permettono di considerare i possibili condizionamenti di ordine psichico-fisico o sociale che possono determinare una scelta. Tutto ciò che condiziona una scelta, la rende meno libera e responsabile. Ecco perché si è più prudenti, da qualche tempo, nel "giudicare" una scelta drammatica come quella di togliersi la vita, lasciando il Giudizio solo a Dio. È importante che la teologia, dialoghi con le scienze umane, in modo particolare con le neuroscienze, per una migliore conoscenza della persona umana e del complesso mondo che la circonda. Anche in questo caso fede e scienza, come continua tenacemente ad affermare Benedetto XVI, non sono in contrasto, non si escludono, ma possono dialogare.
Don Felice Bacco - Canosa di Puglia

Mi dispiace sinceramente, davanti alla cortesia di don Felice, dover insistere. Ma non vedo la differenza tra colui che scrive una lettera d'addio e si spara alla tempia e il povero Welby che, disperato, rifiuta di continuare ad essere prigioniero della sua carcassa immobile e implora di essere "liberato". Al primo la Chiesa concede il rito funebre, al secondo no. La mia ipotesi è che la differenza sia "politica": il diverso clamore delle vicende, il possibile valore esemplare della seconda, come accaduto anche per Monicelli. Più in generale noto che non esiste una vera spiegazione alle parole tante volte ripetute "fine naturale della vita" che se vengono analizzate rivelano di non avere molto senso. Mi scrive Elisa Merlo ( lisamer@ tiscali.it ): « Riguardo alla "morte naturale", spiacente per don Felice Bacco, la confusione resta. La Chiesa afferma che il "tramonto naturale" è stabilito da Dio (cf Catechismo , enciclica Evangelium vitae , ecc.). Ora, giacché la lunghezza della vita è cambiata nel corso dei secoli, e cambia secondo il luogo dove si nasce, vien fatto di chiedersi se Dio cambi idea, stabilendo che generazioni di sue creature "tramontino naturalmente" per esempio a quarant'anni, altre invece a settanta. La somministrazione di medicinali o l'intervento di una macchina della tecnologia clinica può determinare l'ora della "morte naturale". Tutto stabilito da Dio?». Infatti la questione non si scioglie. Siamo di fronte a una di quelle espressioni che suonano benevole e rassicuranti ma prive di vera sostanza logica e assai deboli anche dal punto di vista teologico.

l’Unità  15.12.10
Il partigiano e l’ultimo Rom di Auschwitz
Mirko, Amilcare e la memoria dell’Italia
di Dijana Pavlovic


In questi ultimi giorni sono morti Mirko Levak, rom kalderash di Marghera, l’ultimo rom sopravvissuto ad Auschwitz, e Amilcare Debar, detto «Taro», sinto piemontese, staffetta e partigiano combattente (col nome di «Corsaro») nella 48 ̊ Brigata Garibaldi «Dante Di Nanni», comandata da Napoleone Colajanni, «Barbato». È stato ferito nella battaglia delle Langhe.  ̆Nel dopoguerra è stato rappresentante del suo popolo alle Nazioni Unite a Ginevra; ha ricevuto il diploma di partigiano combattente dalle mani del Presidente Sandro Pertini.
Queste due figure fanno parte della storia dimenticata di rom e sinti nel nostro Paese.
Mirko Levak testimonia lo sterminio programmato dai nazisti per il popolo zigano sulla stessa base dello sterminio degli ebrei: il genocidio etnico, sterminare una razza impura. Due parole, l’Olocausto per gli ebrei, il Porrajmos per i rom e i sinti, indicano lo stesso destino ma non hanno lo stesso riconoscimento e lo stessa significato nella coscienza collettiva.
Il popolo rom e sinto ha subito nei secoli discriminazioni e persecuzioni come è accaduto agli ebrei e insieme hanno condiviso lo stesso destino nelle camere a gas e nei forni crematori di Auschwitz. Ma ancora oggi mentre la parola «Olocausto» esprime la colpa collettiva nei confronti di tutto il popolo ebreo, «Porrajmos» è una parola sconosciuta ai più, esattamente come lo è lo sterminio razziale degli “zingari”.
Amilcare Debar, come il rom istriano Giuseppe Levakovic, che combatté nella «Osoppo», Rubino Bonora, partigiano della Divisione «Nannetti» in Friuli, Walter Catter, fucilato a Vicenza l’11 novembre 1944, suo cugino ventenne Giuseppe Catter, fucilato dai brigatisti neri nell’Imperiese, testimonia la partecipazione di rom e sinti italiani alla guerra di liberazione dai nazifascisti.
Il silenzio che circonda queste storie, anche nelle ricorrenze ufficiali come la giornata della Memoria e il XXV Aprile, non solo segna il destino di marginalità che viene assegnato al popolo rom, ma indirettamente contribuisce alla sua emarginazione sociale, alla costante discriminazione nei suoi confronti e al ruolo di capro espiatorio per chi fa la propria fortuna elettorale sulla caccia allo zingaro. Per queste ragioni, se la memoria della nostra storia ci aiuta a essere orgogliosi della nostra identità troppo spesso negata, vogliamo che questa memoria sia occasione e motivo per restituirci la dignità che ancora oggi ci viene negata nel paese dove sono vissuti e morti uomini come Mirko e Amilcare.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l'Unità 15.12.10
«Non piangete la mia morte» dell’anarchico condannato a morte negli Usa con Nicola Sacco
Il volume in uscita per Nova Delphi ripropone lo storico caso attraverso testi scritti in carcere
Signor giudice sono innocente. L’ultima arringa di Vanzetti
Ecco l’ultima arringa di Bartolomeo Vanzetti al processo che lo porterà sulla sedia elettrica insieme a Nicola Sacco. Il brano è tratto da «Non piangete la mia morte», in uscita presso i tipi di Nova Delphi.
di Bartolomeo Vanzetti


Il 9 aprile 1927 la Corte superiore di Dedham, presieduta dal giudice Webster Thayer, si riunì per notificare la sentenza di morte a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Prima che la sentenza fosse emessa, i due imputati ricevettero però l’invito a pronunciare la dichiarazione di rito.
«Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dire perché la sentenza di morte non sia pronunciata contro di voi?»
«Sì. Quel che ho da dire è che sono innocente, non soltanto del delitto di Braintree, ma anche di quello di Bridgewater. Che non soltanto sono innocente di questi due delitti, ma che in tutta la mia vita non ho mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue. Questo è ciò che voglio dire. E non è tutto. Non soltanto sono innocente di questi due delitti, non soltanto in tutta la mia vita non ho rubato né ucciso né versato una goccia di sangue, ma ho combattuto anzi tutta la vita, da quando ho avuto l'età della ragione, per eliminare il delitto dalla terra.
Queste due braccia sanno molto bene che non avevo bisogno di andare in mezzo alla strada a uccidere un uomo, per avere del denaro. Sono in grado di vivere, con le mie due braccia, e di vivere bene. Anzi, potrei vivere anche senza lavorare, senza mettere il mio braccio al servizio degli altri. Ho avuto molte possibilità di rendermi indipendente e di vivere una vita che di solito si pensa sia migliore che non guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
Mio padre in Italia è in buone condizioni economiche. Potevo tornare in Italia ed egli mi avrebbe sempre accolto con gioia, a braccia aperte. Anche se fossi tornato senza un centesimo in tasca, mio padre avrebbe potuto occuparmi nella sua proprietà, non a faticare ma a commerciare, o a sovraintendere alla terra che possiede. Egli mi ha scritto molte lettere in questo senso, e altre me ne hanno scritte i parenti, lettere che sono in grado di produrre. (...)
Vorrei giungere perciò a un'altra conclusione, ed è questa: non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina di Bridgewater, non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina e agli omicidi di Braintree né è stato provato che io abbia mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue in tutta la mia vita; non soltanto ho lottato strenuamente contro ogni delitto, ma ho rifiutato io stesso i beni e le glorie della vita, i vantaggi di una buona posizione, perché considero ingiusto lo sfruttamento dell'uomo. Ho rifiutato di mettermi negli affari perché comprendo che essi sono una speculazione ai danni degli altri: non credo che questo sia giusto e perciò mi rifiuto di farlo.
Vorrei dire, dunque, che non soltanto sono innocente di tutte le accuse che mi sono state mosse, non soltanto non ho mai commesso un delitto nella mia vita degli errori forse, ma non dei delitti non soltanto ho combattuto tutta la vita per eliminare i delitti, i crimini che la legge ufficiale e la morale ufficiale condannano, ma anche il delitto che la morale ufficiale e la legge ufficiale ammettono e santificano: lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. E se c'è una ragione per cui io sono qui imputato, se c'è una ragione per cui potete condannarmi in pochi minuti, ebbene, la ragione è questa e nessun'altra. (...)È possibile che soltanto alcuni membri della giuria, soltanto due o tre uomini che condannerebbero la loro madre, se facesse comodo ai loro egoistici interessi o alla fortuna del loro mondo; è possibile che abbiano il diritto di emettere una condanna che il mondo, tutto il mondo, giudica una ingiustizia, una condanna che io so essere una ingiustizia? Se c'è qualcuno che può sapere se essa è giusta o ingiusta, siamo io e Nicola Sacco. Lei ci vede, giudice Thayer: sono sette anni che siamo chiusi in carcere. Ciò che abbiamo sofferto, in questi sette anni, nessuna lingua umana può dirlo, eppure lei lo vede davanti a lei non tremo lei lo vede la guardo dritto negli occhi, non arrossisco, non cambio colore, non mi vergogno e non ho paura. (...)
Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un'altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie».

Corriere della Sera 15.12.10
La corsa di Darwin: così riuscì a beffare il collega più giovane
Accelerò la pubblicazione e cambiò le scienze
di Telmo Pievani


L’ opera alla quale stava lavorando da anni avrebbe dovuto assumere i contorni di un trattato in più volumi, ma l’imbarazzante circostanza di un collega più giovane che era giunto dopo di lui alle stesse conclusioni lo aveva indotto a stenderne in tutta fretta una sintesi. Nei tredici mesi di lavorazione la moglie Emma aveva letto le bozze, trovandovi un certo eccesso di punteggiatura. Infine giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale. L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare — pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri— era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale. L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare — pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri— era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un esordiente, bensì di un cinquantenne ben affermato nella comunità scientifica britannica, Royal Medal per i suoi studi monumentali sui cirripedi, già noto al di fuori della cerchia accademica per quel Viaggio di un naturalista intorno al mondo definito «eccellente» da chi di esplorazioni si intendeva, Alexander von Humboldt. Non fu dunque una pubblicazione per la carriera, ma una sofferta gestazione dopo venti anni di osservazioni meticolose, di sperimentazioni e di congetture teoriche, tenute in gran parte segrete. A quelle idee, che ben presto diverranno evidenze corroborate — e cioè la trasformazione incessante delle specie biologiche per «discendenza con modificazioni» nel corso di milioni di anni e la parentela fra tutti gli esseri viventi sulla Terra, specie umana compresa— il naturalista stava infatti lavorando già dal 1838, quando iniziò a mettere nel cassetto i suoi Taccuini della trasmutazione. Ma l’attualità di Darwin non sta soltanto nell’affermazione dell’evoluzione come fatto assodato, quanto nella solida longevità del «lungo ragionamento» con il quale spiegò cause e meccanismi dei processi evolutivi. Benché nel libro non vi potesse essere traccia dell’ereditarietà, il nucleo centrale della teoria dell’evoluzione continua oggi a essere, pur con le opportune revisioni ed estensioni, quello darwiniano: variazione nelle popolazioni e selezione naturale. Non solo, la sesta e ultima edizione del 1872 venne riscritta da Darwin integrando le risposte alle critiche. In quelle pagine si trovano ipotesi aggiuntive, come quella della cooptazione funzionale di strutture già esistenti, che sono state persino rivalutate in tempi recenti. La storia delle specie veniva per la prima volta efficacemente descritta come un processo interamente naturale, colmo di imperfezioni e di contingenza, senza più il bisogno di ricorrere a cause finali e a creazioni speciali. Da lì i difensori della nuova visione evoluzionistica seppero promuovere una vera e propria politica culturale ed educativa a favore della rivoluzione darwiniana. Nell’Autobiografia, con uno strappo alla solita modestia, Darwin scriverà: «Ha avuto fin dall’inizio un grande successo» . Un successo al quale non sono estranee l’efficacia argomentativa e la prosa suggestiva con cui L’origine, né saggio specialistico né libro divulgativo, fu composto. A farne un classico della letteratura scientifica fu anche, come notò lo scrittore armeno Osip Mandel’štam nel 1932, lo stile affabile del naturalista vittoriano: «Non è una sonata, né una sinfonia... ma piuttosto una suite. L’energia dell’argomentazione si scarica in "quanti", in fasci. Accumulo e resa, inspirazione ed espirazione, flussi e riflussi» . Il «bel tempo scientifico di Darwin» splende quando «raggruppa il dissimile, il contrastante, il diversamente colorato» della natura. Mentre da ogni pagina sventola «la bandiera della flotta britannica» , si assapora il gusto di un’amabile conversazione fra gentiluomini di campagna.

Repubblica 15.12.10
Una giornata di studio per i 90 anni dello storico
Due decenni fa il suo "Una guerra civile", un saggio che sfidava pigrizie intellettuali
Claudio Pavone e i tabù infranti
di Guido Crainz


Raramente un libro ha avuto forza e capacità di persuasione nel rompere tabù e pigrizie intellettuali come Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri), il lavoro più impegnativo di Claudio Pavone. E la giornata di studi dedicata a Pavone per i suoi novant´anni, alla presenza del presidente della Repubblica e in un Archivio del Quirinale gremito di studiosi, si è inserita nella discussione sui 150 anni di vicenda unitaria. Non solo perché ad essa rimandavano le relazioni di Sabino Cassese, Enzo Collotti e Stefano Rodotà, ma perché quel tema è un filo di continuità nel lavoro di uno storico che ha segnato stagioni di studi con autorevolezza e capacità innovativa, rigore e freschezza.
A vent´anni da quel libro appare chiaramente non solo il carattere di cesura che esso ha avuto negli studi sulla crisi italiana del 1943-´45 ma anche la lezione più generale che ha rappresentato. In primo luogo, per la capacità di cogliere in quella crisi il riemergere di «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell´uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro». Attraverso una mole enorme di fonti, vengono scandagliati i differenti modi di "essere italiani" sedimentati in una vicenda lunga. E balzano i diversi percorsi attraverso cui, sulle rovine del fascismo e nella catastrofe della guerra, prese corpo un senso nuovo di patria. Appare oggi altrettanto prezioso un altro asse centrale, l´intensa riflessione etica sul nesso fra scelte individuali e vicende collettive: non vi può essere un grande affresco storico che non sia una riflessione sull´individuo, rigorosa e capace di imporre a se stessa compiti e limiti. Introducendo un capitolo chiave, che ha al centro il rischio di perdere la propria vita e di toglierla ad altri, Pavone annotava: lo storico deve analizzare il contesto in cui i conflitti si collocano ma non può mai dimenticare che esiste un problema della vita e della morte che non compete a lui risolvere. Sta qui il nodo più denso del tema della "scelta", e Una guerra civile disegna con grande finezza il prender corpo delle differenti opzioni che dopo l´8 settembre del 1943 iniziano a mettere in discussione la «rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano», per dirla con Ada Gobetti. Vengono a dar vita a un conflitto che è lotta di liberazione nazionale e guerra civile.
Proprio sul tema della "guerra civile" Pavone incontrò le reazioni più aspre. Quella categoria era stata utilizzata da una pubblicistica neofascista volta a metter sullo stesso piano le opposte parti. Ma il libro poneva alle origini della Repubblica un irto groviglio di questioni, e impediva di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a non appannare limiti e tragedie della Resistenza, a riflettere sul convivere di alto impegno etico e rischio di totalizzazione in una guerra partigiana contro un nemico che aveva tutti i requisiti per essere qualificato come nemico totale. Spingeva a interrogarsi su «quella zona di confine che in ciascun uomo si colloca fra il territorio del bene e il territorio del male, che se lo contendono». Rileggendo questi passaggi si comprende meglio non solo quanto pesanti fossero i tabù che venivano infranti ma anche quanti stimoli ne vennero. Ne venne un interrogarsi sulla nostra storia capace di contrastare quelle volgarizzazioni e svalutazioni complessive di essa che riprendevano vigore in quel periodo, proprio in relazione alla Repubblica e alle sue origini.

Avvenire 15.12.10
L’islam secondo Tommaso
di Jean-Louis Bruguès


Nella maggior parte delle società dell’Europa occi­dentale diventa sempre più visibile e più forte la presenza di popolazioni islamiche. In Fran­cia, Olanda e Germania la religio­ne islamica è ormai diventata la se­conda religione dopo il cristiane­simo. Questa potenza accresciuta dell’islam sta provocando cambia­menti profondi nella percezione del fenomeno religioso da parte di un’opinione pubblica fortemente secolarizzata. In negativo, si po­trebbe dire, che questa stessa opi­nione ha sempre più la tendenza ad associare religione e violenza, a tal punto che alcuni Paesi stanno considerando la possibilità di proi­bire ogni insegnamento confes­sionale nelle scuole, ritenendolo u­na fonte di divisione sociale, sosti­tuendolo invece con una scoperta fredda del fatto religioso. In positi­vo, la presenza massiccia dell’islam obbliga a riconsiderare il ruolo pro­priamente sociale di queste stesse religioni e le pratiche spesso mol­to antiche della laicità. Se l’islam si considera una religione squisita­mente comunitaria, e quindi so­ciale, al punto che il termine co­munità è quello che più la caratte­rizza, è sempre più difficile relega­re il fenomeno religioso nel priva­to, cioè nello spazio ristretto della coscienza individuale. Così è nato il concetto, inatteso, della laicità positiva, per coloro che credevano di aver chiuso con il religioso.
Nel 2000, nel rendere pubblica la Dichiarazione Dominus Jesus sul­l’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, il ma­gistero ha proposto una Carta del­lo sviluppo legittimo della teolo­gia cattolica delle religioni. È dun­que all’interno di questa «carta» che conviene formulare le seguenti domande: come capire l’Islam? Qual è il valore delle sue dottrine e istituzioni culturali? Qual è il suo posto in ciò che noi chiamiamo l’e­conomia della salvezza? La do­manda è nuova in quanto viene posta nel contesto della mondia­lizzazione e del pluralismo cultu­rale che, come è stato ricordato so­pra, sono caratteristiche tipiche della società del nostro tempo. Si tratta anche di una domanda mol­to tradizionale, nel senso che da molto tempo, in verità fin dalla sua nascita, durante l’impero romano, il cristianesimo si è interrogato con personalità forti come san Giusti­no sulla possibilità della salvezza personale per gli «infedeli in buo­na fede». È necessario, dunque, ri­farsi agli antichi. Non è impossibi­le, dopotutto, che questi antichi riescano a illuminarci su proble­matiche nuove o almeno ripropo­ste. Cosa direbbe Tommaso d’A­quino?
Vale la pena ricordare prima di tut­to una proposizione teologica au­dace, relativa alla salvezza perso­nale degli infedeli, che non è si­curo sia condivisa oggi da tutti i teologi. Tommaso insegna che non si può essere salvati senza la fede in Cristo, ma che non è ne­cessario che questa fede sia per tutti così esplicita come presso co­loro che hanno avuto la fortuna di ricevere il Vangelo. Già per sant’A­gostino o Gregorio il Grande, la Chiesa vera che supera di molto i confini istituzionali visibili, rac­coglie i giusti di tutti i tempi. «Dio vuole salvare le persone di ogni categoria», scrive il domenicano, «uomini e donne, giudei e gentili, piccoli e grandi; ma non necessa­riamente tutte le persone di ogni categoria», cioè non quelle che si sono escluse da sé conducendo u­na esistenza contraria alle pre­scrizioni L’Aquinate ci offre una strada da seguire nel dialogo coi musulmani: inutile parlare di Sacre Scritture, perché non ne riconoscono l’autorità.
Ma lo scambio di idee può riguardare la «ragione naturale», come fece lui criticando Avicenna e Averroè della legge naturale.
Tommaso conosceva due tipi di non-cristiani: i musulmani, a cui si sta facendo riferimento, e so­prattutto i giudei, più vicini perché vivono all’interno del mondo cri­stiano. Può darsi che egli avesse sentito parlare dei Mongoli e dei Tartari, ma, salvo errore da parte nostra, egli non vi fa alcun riferi­mento particolare; Marco Polo non aveva ancora fatto uscire il rac­conto dei suoi viaggi in Estremo O­riente.
Per quanto riguarda i maometta­ni, o i saraceni (a volte egli usa l’espressione i mori), Tommaso d’A­quino ci offre tre intuizioni che noi avremmo certamente interesse ad approfondire. In primo luogo, poi­ché questi non riconoscono alcu­na autorità alle Sacre Scritture, è i­nutile portare la discussione su questo terreno; gli argomenti di scambio non possono che riguar­dare la ragione naturale. Notiamo di passaggio che, anche se egli li combatte vigorosamente, Tomma­so riconosce il valore intellettuale dei migliori rappresentanti della fi­losofia araba, Avicenna o Averroè. In effetti, egli stesso non ha mai let­to il Corano, anche se ai suoi tem­pi c’erano due traduzioni in latino. In secondo luogo, il loro Dio non è sicuramente quella trinità di per­sone, che fa apparire il cristianesi­mo ai loro occhi come una specie di politeismo – e si sa che questo punto costituisce uno degli osta­coli più grandi nello scambio teo­logico –, ma egli è comunque una sola persona: «La natura di Dio, co­me è in sé, non la conosce né il cat­tolico né il pagano; ma l’uno e l’al­tro la conoscono secondo una cer­ta ragione di casualità, o d’emi­nenza, o di negazione».
Si può pensare che Tommaso d’A­quino, per i due motivi appena menzionati, non si sarebbe aspet­tato di ottenere grandi risultati da uno scambio propriamente teolo­gico tra le due religioni (sarebbe andato sicuramente in modo di­verso per uno scambio filosofico). È l’opinione della maggioranza dei teologi ancora oggi. Per contro, i cristiani dei nostri tempi si chie­dono quale atteggiamento adot­tare nei confronti dei musulmani. Di fatto la Dichiarazione Nostra aetate incoraggia i cristiani a pro­muovere insieme con i musulma­ni «la giustizia sociale, i valori mo­rali, la pace e la libertà» per tutti gli uomini.
Sicuramente il Dottore della Chie­sa non ha mai avuto una cono­scenza diretta di questo ambiente. Egli propone una riflessione squi­sitamente teologica. Affrontando la questione da un punto molto e­levato, ci offre un prezioso filone di ricerca. Egli ricorda che nella sua onnipotenza Dio permette il veri­ficarsi dei mali nel mondo, per ti­more che eliminandoli siano im­pediti dei beni ancora più grandi. Non afferma che la pratica di un culto pagano sia un bene in sé, ma non conclude neanche che tutte le azioni di questi stessi pagani co­stituiscano dei peccati. Alcuni tra loro, come il centurione Cornelio degli Atti degli Apostoli, possono anche non essere infedeli nel sen­so spirituale del termine. In ogni caso, i pagani non devono mai es­sere costretti ad abbracciare la fe­de in Cristo; non abbiamo il dirit­to di battezzare dei bambini non cristiani contro la volontà dei loro genitori. Tommaso va oltre: i Prín­cipi infedeli possono legittima­mente esercitare la loro autorità su soggetti cristiani, perché il diritto divino della grazia della fede non sopprime la sovranità né l’autorità del diritto umano che emana dal­la legge naturale.