lunedì 20 dicembre 2010

l’Unità 20.12.10
D’Alema: «Governo con ampio arco di forze. anche lontane. La violenza rafforza il potere»
Oggi si riunisce il gruppo di Veltroni. Civati e Renzi: «No alle logiche di Palazzo»
Gasparri e Vendola compattano il Pd. Solo i rottamatori attaccano
Bersani si prepara alla Direzione di giovedì. Sul tavolo la proposta di «patto costituente». I big faranno quadrato attorno al segretario. Veltroni segnerà qualche punto di distanza ma non si metterà di traverso.
di Simone Collini


La proposta degli arresti preventivi di Gasparri da una parte e gli attacchi di Vendola al Pd dall’altra daranno una mano a Bersani a far passare senza problemi, alla Direzione del partito di giovedì, la proposta di un «patto costituente» con tutte le forze politiche e sociali interessate ad andare «oltre» Berlusconi. A blindare la proposta del segretario, ora che si fa sempre più evidente sia l’Opa sul centrosinistra lanciata dal governatore pugliese sia l’« emergenza democratica» rappresentata da Berlusconi e soci, ci pensano Letta, Franceschini, Bindi, D’Alema. E anche Veltroni, che oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico per una prima discussione, segnerà qualche punto di distanza ma non si metterà di traverso.
Le critiche ora arrivano soltanto dai cosiddetti “rottamatori” di Renzi e Civati, che dal sito «prossimaitalia.it» lanciano al «caro Segretario» un «appello per salvare le primarie», a cui il Pd «sarebbe disposto a rinunciare in nome di un’alleanza con il nascente Polo della nazione». «Credevamo si legge nella lettera pubblicata sul sito web animato da Renzi e Civati che pur nelle differenze talvolta aspre che convivono nel Pd, due elementi ci unissero tutti senza distinzioni: l’essere il PD un partito sempre e comunque alternativo alle destre (a tutte le destre) e che il metodo del Pd per scegliere le candidature fosse quello delle primarie aperte ai nostri elettori. Il tuo proposito dicono i “rottamatori” a Bersani smentisce entrambi questi minimi comuni denominatori, senza peraltro che sia stato possibile su questo consultare la base o almeno discuterne nelle sedi opportune, in modo trasparente».
La discussione ci sarà alla Direzione di giovedì, e a giudicare dalle dichiarazioni di questi giorni a criticare la proposta di Bersani sarà una ristretta minoranza (oltre ai “rottamatori”, Marino e Parisi) mentre i big faranno quadrato. Veltroni oggi discuterà la posizione con cui presentarsi insieme a Gentiloni, Fioroni e agli altri di Movimento democratico, ma sembra intenzionato a mantenere un’apertura di credito nei confronti del leader del Pd. Secondo l’ex segretario il partito deve «investire su se stesso» e solo dopo discutere di alleanze. E se Bersani aprendo i lavori incentrerà il suo discorso sulle proposte di riforma costituzionale e rilancio economico, sottolineando che poi starà alle altre forze avviare o meno su questo un confronto, non mancherà il via libera.
LA PREOCCUPAZIONE DI D’ALEMA
Sul fatto che adesso non si tratta di prospettare un’alleanza con Vendola e Di Pietro o con Fini e Casini insiste anche D’Alema parlando a “Che tempo che fa”: «A noi spetta presentare il progetto. Poi chi lo condivide lo sosterrà. Non siamo noi che dobbiamo guardare da una parte o dall’altra. È come in fisica, il corpo più consistente ha maggiore potere d’attrazione. Noi vogliamo fare un governo che affronti i problemi e dia speranze, un governo che per me può unire un arco ampio di forze, anche forze che sembravano lontane». Per il presidente del Copasir quella attuale è una fase molto delicata, in cui «le elezioni restano probabili» e in cui non c’è solo la «politica dell’acquisizione a trattativa privata dei deputati» a rappresentare «un brutto passato del quale ci dobbiamo liberare». Alla vigilia della discussione al Senato della riforma Gelmini, che dovrebbe essere approvata definitivamente mercoledì, Gasparri ha lanciato la proposta di procedere con degli arresti preventivi di studenti e manifestanti. D’Alema si rifiuta di interrompere la sua tradizione di non commentare le parole del capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, ma alla domanda se tema che succeda qualcosa di serio nelle prossime settimane, il presidente del Copasir risponde: «Bisogna stare molto attenti, perché l’interesse alla violenza è un interesse dei gruppi violenti, ma potrebbe diventare anche un modo di chi è al potere di rafforzare il proprio potere. È un gioco che abbiamo già visto anche nel passato».

l’Unità 20.12.10
La sfida di Nichi: «Mi votano anche a destra»
Letta: «Pensa solo a sé»
Il governatore da Lucia Annunziata: «Mi attaccano perché nervosi, la loro base è in rivolta contro una strategia confusa Non capisco perché allearsi con Fini, non c’è bisogno di un Cln»
di A. C.


Il “fuoco amico” di Vendola torna a colpire il Pd. Intervistato da Lucia Annunziata su Rai3, il governatore picchia duro. A Enrico Letta, che ieri sul Corriere lo ha accusato di aver fatto cadere con Bertinotti i due governi Prodi, di «pensare solo a sé» e di fare una politica «autistica», replica: «Parole frutto di nervosismo, l’attacco ad alzo zero contro di me serve a coprire la rivolta del popolo democratico contro una linea confusa e un’orizzonte inquietante. Se Letta dedicasse alla Gelmini la stessa passione polemica che dedica a me forse saremmo più forti nel difendere la scuola pubblica...». «È stato Mastella, un centrista, a far cadere l’ultimo governo Prodi. Quando al precedente, chiediamo a Prodi chi costruì l’inciampo per quel governo...». «Ma di che parliamo?», si scalda Vendola. «Questo teatrino polemico è lontano dalla realtà. E se alle europee ho preso solo un milione di voti, di cosa si spaventano i dirigenti del Pd?». Verso Bersani utilizza parole più concilianti. L’intervista con cui il leader Pd ha proposto di archiviare le primarie per fare un’alleanza con il Terzo polo «mi ha stupito e addolorato. Non capisco la sequenza di svolte. Fini vuole rifare il centrodestra, perché bisognerebbe allearsi con lui? La sinistra non è archeologia, è il futuro. E poi ho letto dei sondaggi sull’Unità che dicono che il Pd col Terzo Polo arriva al 35%, con noi e l’Idv al 37%...». Bocciatura netta anche della proposta di Franceschini di un Cln contro Berlusconi: «Non so con quali strani partigiani dovremmo allearci...».
Vendola rilancia la sua idea di una nuova «narrazione»: «L’Italia ne ha bisogno, anche negli Stati Uniti un leader politico non può farne a meno. Il centrosinistra deve fare una proposta per salvare l’Italia, c’è una domanda di cambiamento gigantesca che coinvolge anche le famiglie moderate che temono per il futuro dei figli, non si può rispondere con un minuetto di palazzo». Altro messaggio al Pd: «In Puglia ho un partito del 10%, ma ho vinto le primarie con il 70% dei voti e soprattutto ho vinto le elezioni due volte». Sì ma nel 2010 il centro correva da solo e questo ha favorito lei... «Nel 2005 avevo vinto contro tutto il centrodestra unito. E chi lo dice che quei voti nel 2010 sarebbero andati tutti dall’altra parte? Io prendo i voti anche a destra». Il governatore definisce Fini e Casini «renitenti alla leva del Pd». Ma non chiude tutte le porte all’Udc: «Serve un cantiere in cui tutti, e Casini è il benvenuto, arricchiscono una cultura riformatrice di cui il Paese ha bisogno». «Non ho il mito delle primarie, è stato il Pd a insegnarmele, sono una risposta all’autismo dei partiti». Durissima la reazione alla proposta di arresto preventivo dei manifestanti lanciata da Gasparri: «È un annuncio di fascismo».

La Stampa 20.12.10
Primarie, scontro tra Vendola e D'Alema
Massimo: sei ossessionato dalla leadership. E Nichi: voi lontani dalla base
di Carlo Bertini

qui
http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/380695/

Repubblica 20.12.10
Il rebus delle primarie e le incertezze del centrosinistra
Il mito del voto dal basso da ancora di salvezza a psicodramma politico
di Filippo Ceccarelli


Ora Bersani propone di dargli una "aggiustata" o addirittura ne invoca il sacrificio, mentre Vendola è sparato e non c´è città che non lo veda reclamare le primarie come unica possibilità
Chi le vuole crude, chi le vuole cotte, chi non le ha mai volute, chi non le vuole più In principio, cinque anni fa, fu Prodi, poi seguirono Veltroni, Bersani, Vendola e innumerevoli competizioni a livello locale

Primarie: chi le vuole crude, chi le vuole cotte, chi non le ha mai volute, chi non le vuole più, ma potrebbe rivolerle, però cotte, oppure crude, e il giro ricomincia per la delizia degli iscritti e degli elettori del centrosinistra senza troppo distinguere, come invece avviene su questo impervio terreno, tra Pd e coalizione.
Sono ormai cinque anni, e a ripensarli in termini di primarie - pretese, negate, ritardate, digerite, svuotate, eccetera – si è colti da un senso di sfinitezza che rimbalzando in principio da Prodi a Veltroni per poi irradiarsi da Bersani a Vendola fino alle innumerevoli competizioni intestine a livello locale, ecco, questa esausta percezione prende la via di un solenne mal di capo. Al solo sentire la parola primarie: che pure, o forse proprio per questo furono vissute la prima volta come l´ultima grande speranza. Adesso invece non sono neanche più loro il problema. Trascolorano i ricordi lasciando alimentare nell´immaginario brandelli stranianti, pagliacceschi: la ragazza con il passamontagna del comandante Marcos, i seguaci e intrusi di Mastella ai seggi, il tesoretto che non s´è mai capito che fine ha fatto (come del resto gli indirizzi dei votanti del 2005), il regolamento pazzesco che ricordava "la patente a punti", come disse Ascanio Celestini. Troppo facile la chiave narrativa secondo cui da strumento di salvezza, le primarie si sono trasformate in un ordigno di distruzione.
Troppo comodo pensare che erano un modo per eleggere leader già decisi nelle segrete stanze. Troppo indulgente lo schema che le vorrebbe causa principale e dilaniante in periferia (Puglia, Campania, Calabria, Umbria, Roma, Firenze, Milano) e ora cataclisma terminale nel cuore del Pd. No: se proprio ci si deve abbandonare – e non è detto - a un´immagine alata, o demoniaca, il dispositivo che senza scampo le primarie hanno il potere di scatenare su un organismo complesso è più intimo e sottile: nec tecum, nec sine te vivere possum.
Come dire un´incertezza a tal punto crudele da rasentare la più dolorosa schizofrenia. Per cui, senza andare troppo indietro nel tempo, accade che a metà ottobre, mica due anni fa, Bersani e Vendola quatti quatti se ne vanno a mangiare i carciofi in un ristorantino sotto il Campidoglio; e poi, "scoperti" dai giornalisti, dicono: ecco, è fatta, siamo d´accordo, si faranno le primarie, evviva. Bene, passano appena due mesi e il patto dei carciofi va a farsi a benedire. Definitivamente, perché nel frattempo Bersani ha già cominciato a limitarne gli effetti, a ridimensionarne gli orizzonti, le primarie necessitano semmai di un´"aggiustata", sono un´opportunità teorica, non un obbligo pratico e così via, fino al sacrificio invocato l´altro giorno. Mentre Vendola è già partito sparato, non c´è luogo d´Italia che non lo veda reclamare le primarie come l´unica opzione possibile, un traguardo salvifico, una specie di palingenesi.
E il dramma è che hanno ragione tutti e due ed entrambi hanno torto. Nessuno infatti ha mai capito a che servono le primarie, e ancora di più quale sistema di regole debba disciplinarne lo svolgimento. Questo fa sì che esse non solo vivano di vita propria e immaginaria, ma che ad esse si affianchino altre forme d´integrazione o sostitutive, dalle "mezze primarie", che un po´ ricordano le mezze porzioni in trattoria, alle "doparie", che al contrario sarebbero un sistema di sapienziale buonsenso democratico elaborato da un volonteroso scienziato di nome Raffaele Calabretta.
E tuttavia, in mancanza di alternative, il modello ha finito per tracimare nella fantasia connotandosi a vuoto e alla rinfusa, ma pervicacemente, come psicodramma, dogma, accanimento, buco nero, totem, inganno, aria fresca, ricatto, tradimento, papocchio; adesso arriva De Magistris, no è Di Pietro, e allora Chiamparino, e Renzi, e Veltroni, e lo stesso Bersani, e magari Beppe Grillo, i nomi vanno, i soggetti si ritirano, a un certo punto viene addirittura fuori, per la penna di Peppino Caldarola, che le primarie "portano jella".
Si salvano nella memoria le esperienze ormai lontane e rarefatte di Prodi, di Veltroni e di Bersani. Ma a rileggere le cronache e i commenti di quest´ultimo anno viene il dubbio che si stia parlando di qualcos´altro, un pretesto che nasconde una realtà inconfessabile, un arcano della post-politica che trascende le singole volontà e forse anche le responsabilità di un gruppo dirigente o se se vuole di un´oligarchia. Il sospetto è che per come si sono messe le cose queste benedette primarie, prima che un marchingegno per farsi male, siano lo specchio incantato di un fallimento, il rilevatore fantastico di una crisi di legittimità, la prova provata che la democrazia è triste e stanca, irriconoscibile, e che per ricrearla, o riconoscerla, serve qualcosa che verrà.

Corriere della Sera 20.12.10
Sinistra, alleanze, primarie Duello Vendola-D’Alema
Il governatore: ho voti anche a destra. L’ex premier: ma per fare cosa?
di Monica Guerzoni


ROMA — A giudicare dalla reazione, non sarà facile per i dirigenti del Pd liberarsi di Nichi Vendola. Da Lucia Annunziata il leader di Sel replica con durezza agli attacchi di Bersani e Letta, difende le primarie e avverte che non si farà mettere all’angolo. Ma il segretario del Pd tira dritto e prepara la direzione di giovedì, quando confermerà la strategia: alleanza col terzo polo e ripensamento sulle primarie per la premiership. E a sera, in tv da Fabio Fazio, anche Massimo D’Alema frena la corsa di Vendola: «È sempre in movimento e intercettarlo non è facilissimo, è in un periodo vulcanico... Vorrei discutere con lui di cosa si dovrebbe fare per il Paese, altrimenti il rischio è parlare di alleanze e di procedure in un dibattito che allude solo all’ambizione legittima della premiership» . È sferzante il presidente del Ma il segretario del Pd tira dritto e prepara la direzione di giovedì, quando confermerà la strategia: alleanza col terzo polo e ripensamento sulle primarie per la premiership. E a sera, in tv da Fabio Fazio, anche Massimo D’Alema frena la corsa di Vendola: «È sempre in movimento e intercettarlo non è facilissimo, è in un periodo vulcanico... Vorrei discutere con lui di cosa si dovrebbe fare per il Paese, altrimenti il rischio è parlare di alleanze e di procedure in un dibattito che allude solo all’ambizione legittima della premiership» . È sferzante il presidente del Copasir, paragona Vendola a Berlusconi per «l’ossessione della leadership carismatica» e ironizza sui gazebo che tanto stanno a cuore al governatore della Puglia: «C’è una tale passione per le primarie che si è smarrito l’interesse per le secondarie, le elezioni vere. Le primarie sono una forma importante di coinvolgimento dei cittadini, ma possiamo aver sbagliato. Abbiamo lanciato un’idea giusta, ma perché funzioni e non produca danni, servono garanzie e regole» . Sistemato Vendola, l’ex premier dà una mano a Bersani sulla strategia e dice, in sostanza, che con Fini si può dialogare per il futuro dell’Italia. E che il primo partito dell’opposizione non deve arrovellarsi su Vendola e Di Pietro da una parte o Fini e Casini dall’altra, ma «presentare un progetto e poi chi lo condivide lo sosterrà» . Vendola però non molla. I vertici del Pd vogliono scongiurare la sua candidatura alla guida del centrosinistra? E lui si appella agli elettori: «Il popolo democratico è un unico grande popolo che ci chiede unità» . Critica la svolta centrista di Bersani: «Immaginare ora un comitato di liberazione nazionale, con non so quali partigiani strani a cui allearci...» . Ma apre all’Udc: «Serve un cantiere in cui tutti, e Casini è il benvenuto, arricchiscono una cultura riformatrice di cui il Paese ha bisogno» . Enrico Letta sul Corriere ha detto che serve «un nuovo Prodi e non un nuovo Bertinotti » e le parole del vicesegretario hanno punto Vendola nell’orgoglio. Il presidente respinge l’idea di «essere messo in un angolo con l’etichetta della sinistra radicale» e rilancia le primarie: «Se io ho solo il milione di voti delle europee, di cosa si spaventano? Facciamole, le primarie» . Lo stop di Letta è arrivato forte e chiaro. Ma Vendola non accetta di essere chiuso nella ridotta della sinistra: «Prendo voti di destra, le famiglie ipermoderate sono angosciate per il futuro dei figli» . Letta lo ha accusato di «autismo» , di cercare «uno spazio a prescindere dalle possibilità di vincere» e, anche qui, Vendola rilancia: «L’autismo è quello dei partiti che non sono in grado di elaborare risposte all’altezza dei dilemmi della società. L’attacco ad alzo zero nei miei confronti serve a coprire la rivolta della base contro una linea confusa» . Anna Finocchiaro propone una moratoria, basta polemizzare su primarie e alleanze: «Serve un radicale cambio di prospettive, partiamo da noi stessi» . Dario Franceschini chiede a Vendola di «mettere da parte i personalismi» . E oggi, nella riunione dei MoDem con Walter Veltroni, le critiche si faranno sentire. Beppe Fioroni ha affidato al Riformista il suo manifesto di idee, col quale propone di agganciare Casini e il terzo polo: «Un Pd autorevole non chiede "vuoi allearti con me"ma propone temi sui quali cercare condivisione» .

l’Unità 20.12.10
Intervista a Guglielmo Epifani
«Cara opposizione, più generosità per battere Berlusconi»
di Rinaldo Gianola


Dopo aver lasciato la guida della Cgil, Guigliemo Epifani si è messo al lavoro per la costituzione dell’Associazione Bruno Trentin che dovrebbe partire a gennaio con l’obiettivo di coordinare e promuovere le attività di ricerca, studi, confronti dei vari istituti legati alla confederazione. Epifani, tuttavia, non si è messo in panchina e oggi analizza con l’Unità le prospettive politiche ed economiche del Paese. Epifani, inutile farsi illusioni: Berlusconi è un fenomeno e anche quando appare debole riesce a vincere. Non si riesce proprio a batterlo? «Viviamo il paradosso del “miracolo” berlusconiano: il paese affonda ma la narrazione che Berlusconi propone ai cittadini trova ancora consenso e appoggi. Questa è la sua grande abilità. Naturalmente io sono convinto che il governo non ha la maggioranza degli italiani dalla sua parte, ha i voti in parlamento grazie a questa sciagurata legge elettorale e alla sua capacità, come abbiamo visto nell’ultima settimana, di strappare consensi, comprare posizioni in Parlamento portando discredito sulle istituzioni rappresentative della nostra democrazia. Questi episodi determinano una caduta verticale della credibilità del nostro Paese nel mondo, all’estero non fanno altro che chiedere ma come è possibile che Berlusconi sia ancora al governo, ancora al suo posto dopo tutto quello che ha fatto?».
Qual è la responsabilità più grave del governo? «Aver negato e sottovalutato la crisi e i suoi effetti sul tessuto produttivo e sull’occupazione. Siamo al terzo anno della crisi e oggi, non solo noi della Cgil ma anche la Confindustria, possiamo misurare l’assoluta irresponsabilità di chi diceva che l’Italia andava meglio degli altri, che la crisi era già finita. Siamo rimasti indietro, ci siamo crogliolati nella soddisfazione di aver un sistema bancario più sano degli altri paesi, ma il governo di centrodestra anzichè lavorare per tenere insieme il Paese ha lavorato per dividerlo, per colpire i lavoratori, i pensionati, i giovani, tutelando invece i grandi interessi. Vorrei ricordare, a questo proposito, Tommaso Padoa Shioppa e la sua vocazione di uomo europeo e di governo a tenere sempre aperto il confronto, il dialogo con le parti sociali, a ricercare l’incontro anche quando le posizioni erano diverse e distanti.
Così si alimenta la democrazia, anche se è un’opera faticosa». Anche gli industriali sono pentiti di aver appoggiato Berlusconi? «Sorprende che anche la Confindustria esprima posizioni che ricalcano quelle della Cgil di uno, due anni fa. La presidente Marcegaglia oggi critica severamente il governo, denuncia che il Paese non cresce, che siamo in ritardo, ma sarebbe più onesto riconoscere di aver sbagliato. Vi ricordate quando Marcegaglia apprezzava e condivideva le politiche anti-crisi di Berlusconi e la Cgil, da sola, esprimeva la sua opposizione? Vi ricordate quando il governo decise di alzare l’età pensionabile senza tenere conto, come noi proponemmo, di fare qualche cosa subito per le nuove generazioni? Dov’era Confindustria? Ora le imprese si sono accorte che Berlusconi non è credibile, bene, era ora. Adesso partiamo dalle cose concrete».
Quali sono?
«Se vogliamo dare una svolta alla politica economica dobbiamo partire dalla lotta all’evasione e da una tassa sui grandi patrimoni, questa è la strada che anche altri governi seguono. Colpire le grandi ricchezze, anzichè tassare lavoro e imprese, è la scelta più giusta per recuperare risorse da destinare allo sviluppo. Il nostro governo si vanta di aver tenuto saldi i conti pubblici, ma questo non basta se non si lavora, se non si investe per arginare la crisi, per fare ripartire l’economia, le costruzioni, i consumi. Abbiamo perso tempo e occasioni, oggi il Paese rischia grosso».
Quali pericoli vede?
«Stiamo smarrendo la fiducia di potercela fare, il Paese si chiude rassegnato, vive alla giornata, alterna protesta e lamento. Il governo ha favorito interessi e aspirazioni corporative, anzichè cercare di tenere insieme il Paese. Al governo imputo di non aver garantito l’interesse condiviso del Paese. Ad esempio, con gli studenti».
Come vede la rivolta degli studenti? E il pericolo di un ritorno della violenza? «La protesta dei giovani è un dato importante, segnala le difficoltà delle nuove generazioni nella scuola, nella formazione, nel lavoro. Il governo risponde a queste manifestazioni come se tutto fosse riconducibile a un problema di ordine pubblico. È bene che gli studenti e i giovani prendano nettamente le distanze dalla violenza, è indispensabile che il movimento stia lontano da queste sollecitazioni altrimenti perderebbe la sua credibilità e la sua forza. Ma a questi ragazzi va data una risposta seria, affidabile, altrimenti smarriamo le nuove generazioni, il futuro del Paese. Questo timore sulla caduta dell’Italia non è solo nostro è anche di ceti moderati, di opinionisti e sociologi liberali. L’ultimo rapporto di De Rita descrive proprio questa Italia e queste preoccupazioni».
Poi c’è Marchionne...
«Il caso Fiat più passa il tempo e più si colora di paradossi. Si sta facendo il contrario di quanto sarebbe necessario fare tanto che anche il segretario della Cisl Bonanni ha dovuto suggerire più cautela a Marchionne. Davanti a un nuovo progetto di investimento una volta si sarebbe avviato un confronto tra azienda e sindacati sulla produzione, sui tempi, sui modi, sugli obiettivi, si sarebbe discusso per trovare il modo di rendere più efficiente l’investimento. Con Marchionne si va al contrario. Come ha deto giustamente Susanna Camusso non si lavora per raggiungere un accordo, una mediazione più ampia possibile, si pongono solo condizioni insostenibili, ricatti, si cercano forzature pericolose com’è
stata Pomigliano e non sa sa mai cosa si produrrà nelle fabbriche». Sono passati otto mesi dall’annuncio di Fabbrica Italia, cosa pensa di quanto è accaduto in questo tempo? «Marchionne non è il diavolo, ma sinceramente non vedo tutta questa innovazione di cui spesso parlano certi commentatori sui giornali. La Fiat si è messa in una posizione che non va bene e non penso solo al rapporto con la Fiom: se Marchionne vuole escludere dalla rappresentanza in fabbrica un’organizzazone come la Fiom qualcuno dovrebbe spiegargli che non è tollerabile per la nostra Costituzione e per la nostra storia. Oggi, mi pare che anche Confindustria e Federmeccanica hanno dei grossi problemi con Marchionne. Mi chiedo dove vuole andare e se davvero vuol fare gli investimenti in Italia».
In questa situazione come le pare lo stato dell’opposizione? «Il centro sinistra paga ancora la profonda delusione degli elettori nei due anni dell’ultimo governo Prodi. Recuperare consenso e credibilità è un percorso lungo. Qualsiasi progetto di governo deve partire dalla definizione di un profilo chiaro, radicale dell’opposizione. Per questo condivido l’idea di Bersani di lavorare a un programma da sottoporre a tutte le opposizioni. Tocca al pd assumere questo ruolo perchè è la forza più importante dell’opposizione e senza il pd non si da nessuna parte, ci teniamo Berlusconi». Lei da dove partirebbe?
«Un programma per i giovani, politiche di sviluppo e innovazione, welfare intergenerazionale, profonda riforma della politica fiscale. Io non avrei timore di avanzare proposte forti, radicali, questo è il momento di delineare una vera alternativa a Berlusconi e di spiegare le nostre proposte agli italiani».
C’è un problema di leadership? Agli elettori di centro sinistra toccherà litigare e dividersi su Vendola e Bersani? «Sono d’accordo che qualche cambiamento nelle primarie va fatto, anche perchè penso che le primarie non possono servire per ribaltare i rapporti di forza politici all’interno dell’opposizione. Le primarie non sono una scorciatoia per regolare dei conti tutti all’interno del nostro recinto, non mi piace questa idea. Con le primarie noi scegliamo il candidato alla guida del paese, che è qualche cosa di più importante delle questioni e delle divisioni personali all’interno del centrosinistra. In questo momento così difficile per i lavoratori, i giovani, le famiglie, serve una grande generosità, come insegnava Vittorio Foa dobbiamo offrire modelli positivi per i giovani che verranno».

l’Unità 20.12.10
Dategli una lezione
La trappola. C’è una destra che non disconosce la propria storia violenta di piazza
Serve una smentita. Spesso i movimenti sono stati ridotti al rituale dello scontro
di Mario Rossi Doria


Mercoledì il Parlamento andrà alla votazione finale sulla legge universitaria. A pochi giorni dal 14 dicembre migliaia di persone di nuovo protesteranno. C'è di che preoccuparsi. Per quel giorno e, ben più in generale, per il clima nel Paese. In particolar modo, per quello tra generazioni che, come per tanti insegnanti, è stata la mia ragione di lavoro e di riflessione per molti anni. Non ho voglia di fare appelli né sermoni o rimbrotti. Perché penso che questo sia il tempo di ragionare, con passione civile. Nel farlo non penso affatto che ci si debba rivolgere solo ai giovani. Penso, invece, che ci si debba rivolgere a tutti e, dunque, a se stessi e agli altri. A tutti i cittadini. Che abbiano quindici, diciotto, venticinque o trenta anni o quaranta o sessanta o ottanta. In questa riflessione comune si deve partire in primo luogo dal riconoscere una cosa del tutto evidente, che ha cambiato il paesaggio sociale, politico e umano nel quale siamo chiamati a vivere. E che è questa: noi persone «più grandi» stiamo, oggi, consegnando a chi è nato dopo di noi un'Italia peggiore di quella che abbiamo ricevuto in consegna dai nostri genitori.
Peggiore per condizioni materiali e per quantità e qualità delle concrete possibilità di lavoro, di reddito, di studio. Peggiore in termini di accesso ai crediti materiali e spirituali in vista dello sviluppo economico
e civile e dell'imprenditorialità umana. Peggiore per quanto riguarda il riconoscimento del merito e la possibilità di fare parte della ricerca delle soluzioni ai problemi della vita comune. Peggiore per presidio delle procedure e delle regole della civile convivenza e per la tenuta di ritualità e occasioni comunitarie. Peggiore in termini di protezione di fronte all'ineguaglianza e alle avversità della vita. Peggiore riguardo al fare fronte alle normali fragilità, difficoltà personali e alla possibilità di commettere errori. Peggiore per estensione reale e percepita degli orizzonti di speranza.
È nel bel mezzo di questo paesaggio impoverito, depresso, che crea ansia e rancori quotidiani, paure e rabbia diffuse e persistenti che questa destra si è rivolta ai giovani chiedendo loro di approvare le nuove norme che li riguardavano e omettendo, tuttavia, di fornire occasioni per confrontarsi nel merito. «Noi facciamo le leggi secondo quanto crediamo perché abbiamo vinto le elezioni. Ma voi leggetele bene e convincetevene. Se non lo fate, vi state facendo strumentalizzare». Così, non è stata neanche considerata la civile possibilità che i destinatari di misure di governo possano essere in disaccordo ma non per questo preda di strumentalizzazioni, che possano essere portatori di osservazioni e proposte importanti o utili, che possano notare incongruenze tra intenzioni e mezzi. Dietro questo vi è un'idea povera e involutiva in termini democratici della politica: la politica si esprime e decide secondo i rapporti di forza. Punto. Altre volte la destra ha aggiunto a questo una miserevolezza umana: «Studiate e non manifestate. Pensate all'amore e non ai cortei». Come se fossero cose in contraddizione. Mentre non lo sono mai state.
Tale miserevolezza rivela un'assenza di esperienza e curiosità umane che impediscono di pensare che si può, al contempo, studiare e partecipare alle cose pubbliche e che è tanto grande la gioia di stare insieme, parlarsi, cercare comunità, incontrarsi e domandarsi del proprio tempo che viene esaltata la possibilità di amicizia e anche di incontro amoroso. Ma va pur detto anche nell'opposizione troppo spesso, al di là di intenzioni o meno, è prevalso il riflesso teso a ricondurre la protesta alla vicenda politica contingente, alle sue esigenze particolari, al suo gergo. Da tutto questo deriva un pensiero, diffuso nelle nuove generazioni, che è legittimo: non siamo rappresentati.
E' in questa atmosfera che si manifesterà di nuovo. L'ombra del 14 dicembre peserà. Perché ha svelato tutta la gravità della scena italiana riguardo il rapporto tra generazioni. Tanto che tantissimi hanno sentito di condividere l'esplosione di rabbia anche senza partecipare alle sue azioni. Non si è trattato di provocatori isolati. Non si può rimuovere la forza di una rabbia radicata e diffusa. Però non si può neanche nascondere che le cose sono complicate dal fatto che molti indizi fanno sospettare che qualcuno ha voluto tessere trappole brutte e pericolose. E che a farlo non siano stati né la stragrande maggioranza dei manifestanti né i poliziotti. Tali segni, in questi giorni, vengono purtroppo confermati dall'insistenza su un possibile esito terribile per la giornata di mercoledì prossimo. Si tratta di una profezia urlata. In particolar modo da una componente specifica della destra di governo, che ha una storia politica mai rivisitata, fatta anche di brutte vicende di piazza nella propria giovinezza, rimosse e mai ri-elaborate.
Di fronte a questa insistenza su un esito nefasto della prossima protesta acquista ancor maggiore importanza una riflessione su come si manifesterà mercoledì. E diventa ancor più urgente il grande bisogno di smentire una storia italiana che ha spesso depotenziato grandi movimenti, riducendone una parte ai rituali prevedibili dello scontro di piazza e una ben più grande alla mancanza di parola. Questa smentita è forse finalmente a portata di mano. Perché questo movimento sta insegnando a noi altro che sermoni nostri ai giovani! una nuova modalità di azione civile. I titoli dei libri davanti ai cortei, il salire sulle gru e sui tetti, il mostrarsi insieme ai monumenti sono stato questo. E, a me come a tanti, è venuto alla mente Gandhi. È lì che vanno trovati i modelli di azione potente che servono a fare valere le ragioni di chi è escluso dal futuro. E penso quanto sarebbe potente se mercoledì anziché porsi il problema di forzare la zona rossa del centro di Roma, messa lì ed estesa ad arte per attirare nelle vecchie trappole si decidesse di sdraiarsi per terra, nella Capitale e in cento altre città. Vestiti di bianco per bloccare tutto, in silenzio. Come suggerito dalle nevicate di questi giorni. Pacifiche e implacabili.

l’Unità 20.12.10
4 domande a Felice Casson
«Rigurgiti fascisti, cercano lo scontro per nascondere i propri fallimenti»


Daspo, arresti preventivi. Poi le leggi speciali? «Chiaro rigurgito fascista. Gasparri non ha ancora digerito bene la no-
stra Costituzione e pensa piuttosto agli stadi di Pinochet». Una ipotesi assurda, quindi? «Assolutamente improponibile da un punto di vista costituzionale e fuori dalla realtà del nostro sistema giuridico. Già il Daspo creerebbe problemi notevoli sia sul piano della costituzionalità che su quello sociale e politico. Non si può risolvere preventivamente la questione delle manifestazioni con interventi di questo tipo. Una proposta degna dei peggiori regimi». Soprattutto fuori luogo in questo particolare momento, non trova?
«Non si rendono conto che ipotizzare simili strumenti in un momento così delicato di tensione sociale rischia di irrigidire le posizioni e spingere ragazzi, che magari non ne avrebbero alcuna intenzione, su posizioni estremiste. Un modo per tornare indietro di decenni, a eventi che avrebbero dovuto insegnare qualcosa a tutti». Invece di cercare il dialogo il governo soffia sul fuoco...
«La sensazione è che stiano cercando di arrivare allo scontro per scaricare poi le proprie responsabilità. Quelle di un governo incapace di intervenire sul mondo del lavoro, sui temi occupazionali o sul tema della scuola. L’unica ricetta che conoscono è quella dell’ordine pubblico». MA.SO.

l’Unità 20.12.10
Riprende la mobilitazione in concomitanza con il rush finale della controriforma Gelmini
Protesta «con modalità sorprendenti» «A Roma faremo attenzione alle provocazioni»
Gli studenti tornano in strada «Ma radicalità non è violenza»
Da oggi si ricomincia. Con la Riforma Gelmini che torna al Senato per l’approvazione definitiva, gli studenti tornano in piazza e promettono nuove iniziative. Da oggi fino a mercoledì, giorno del voto finale.
di Toni Jop


Ce n’est qu’un debout: da oggi si ricomincia. Assemblee in tutto il paese per decidere tempi e forme di lotta da opporre alla scadenza del voto sul ddl Gelmini, in vista della giornata di mobilitazione del 22 dicembre, a tre giorni da Natale. «Sarebbe stato difficile – spiega Claudio Riccio, portavoce nazionale del Link – ripetere l'exploit del 14 quando siamo riusciti a comporre una iniziativa nazionale a Roma. Ma saremo tanti comunque, in tutte le città».
Nessun passo indietro e parole d’ordine che intonano e promettono una radicalità che non ha niente a che vedere con la violenza. Gasparri ieri ha suggerito nostalgico la detenzione preventiva per le “teste calde”. «Non ci spaventa Gasparri, ma il paese ha il diritto di temere da chi come lui predica una cultura politica autoritaria – commenta Riccio – dobbiamo attenderci provocazioni forti da un sistema che accetta come normali quei richiami ma sapremo riconoscerle e respingerle, non sottovalutino la nostra intelligenza».
L’ORIENTALE IN LOTTA
Teste calde? Piccola storia nella storia: nell’Università della Sapienza, una delle più popolose del continente, si sta consumando pressoché nel silenzio il dramma di una facoltà condannata all’estinzione. A Lingue orientali, un centinaio di studenti lotta da 22 giorni, l’occupazione più lunga di tutto il quadro nazionale. Lì, cinque studenti stanno mettendo in pratica da cinque giorni lo sciopero della fame e mentre conducono lezioni in piazza, invitano altri ad aderire a questa forma di lotta. È l’unica facoltà non in passivo di tutta l’Università romana, ma sarà chiusa in base ad un calcolo numerico che se ha che fare con la ragioneria del mercato, non ha niente a che vedere con l’investimento culturale nel nostro paese. Difendono un corso di studi, non un affare, non un successo: più teste calde di così.
Par quindi di capire che il movimento articolerà la sua iniziativa in una raffica di appuntamenti dislocati in città diverse ma con modalità che si annunciano sorprendenti. Si parla di zona rossa, a Roma e non solo, presa “d’assedio”,
ma badando alle provocazioni e respingendo gli eccessi. “Quel che è accaduto il 14 a Roma – spiega ancora Claudio Riccio – ha scavalcato il dibattito che era maturato nelle nostre assemblee, sia chiaro, ci siamo trovati dentro qualche cosa che non avevamo previsto». Ma anche lui bolla come vecchio e semplicistico il dibattito su «violenza-non violenza» che si è aperto dopo gli scontri soprattutto sul fronte politico. A proposito: quale politica? «Le forze politiche di opposizione ci hanno lasciato da soli – racconta il responsabile nazionale del Link a gestire la critica sociale radicale in un momento storico in cui il potere si pone in termini violenti altro che radicali. Ci interessa poco il dibattito che si è aperto in questi giorni sulle alleanze, ci interessa inquadrare degli obiettivi che hanno a che fare con i bisogni della scuola e della società nel suo insieme e scegliamo la linea di condotta che ci sembra più efficace per raggiungerli».
Sono molto più umani di gran parte di questo Parlamento.

Repubblica 20.12.10
"Una proposta senza senso il clima sociale è difficile non si può soffiare sul fuoco"
Vietti, vice presidente Csm: ma il 1979 è lontano
di Liana Milella


Non possiamo avallare il luogo comune che i poliziotti arrestano e le toghe scarcerano
I magistrati sanno usare la discrezionalità che la legge offre loro, senza bisogno di lezioni
Il Daspo applicato agli studenti mi sembra davvero di difficile praticabilità

Le parole di Gasparri confermano che la "rivoluzione liberale" promessa dal premier fallisce per l´incapacità politica di progettarla
Ci sarà tempo per interrogarsi sulla pressione scaricata sulle forze dell´ordine, sospinte dalla volontà autoritaria dell´esecutivo nello spazio tra violenza e legge
Già poteva bastare per dirsi impensieriti dai giorni che verranno, ma eravamo soltanto all´inizio di una progressione autoritaria. Maurizio Gasparri – chi altro? – chiede ora «arresti preventivi». Il presidente dei senatori della destra dice: «Serve una vasta e decisa azione preventiva. Si sa chi c´è dietro la violenza scoppiata a Roma. Tutti i centri sociali i cui nomi sono ben noti città per città. Qui ci vuole un "7 aprile". Mi riferisco al giorno in cui furono arrestati tanti capi dell´estrema sinistra collusi con il terrorismo».
Sorprendersi? Le parole di Gasparri – non smentito da quel capo di governo che, amante dei trucchi, chiama a sé i «moderati» per difendere il suo malfermo potere – confermano quel che già avevamo capito da tempo, in verità. Innanzitutto che, ammesso e non concesso che non sia stata una trovata da marketing politico, la «rivoluzione liberale» promessa da Berlusconi fallisce per l´incapacità politica di progettarla e per la cultura di un´élite che non si è allontanata di molto dalle celebrazioni del fascismo delle leggi razziali e della Repubblica di Salò. Due. Il "garantismo" della destra italiana non è altro che la difesa di un diritto del privilegio e dell´esclusione che dovrebbe assicurare indulgenze ai Potenti e rigido e inflessibile castigo ai Deboli. Lo abbiamo già visto in azione contro rom e migranti. Ora Gasparri lo pretende contro gli avversari politici richiamando, con la storia del «7 aprile» del 1979, il momento forse più limpido di quel che un filosofo del diritto, Luigi Ferrajoli, ha definito la «crisi della ragione giuridica» che ha attraversato per decenni le emergenze del terrorismo e della mafia. Anche se oggi non si scorge alcun pericolo, alcuna urgenza, alcun terrorismo, nessun terrorista, la destra di governo chiede che siano attive le stesse prassi di quella stagione: prassi in cui prevalgono le ragioni dell´efficienza coniugate alla facile idea, propria del senso comune autoritario, che la giustizia «deve guardare al reo dietro al reato, alla sua pericolosità dietro la sua responsabilità, all´identità del nemico più che alla prova dei suoi atti d´inimicizia» (Ferrajoli). Tre. In coerenza con la propria cultura politica, la destra di governo invoca uno Stato etico dove morale e diritto si confondono e la salvaguardia del principio di stretta legalità è sacrificato ai «poteri arbitrari che trovano il loro spazio naturale nella definizione non tassativa dei reati, nella flessibilità delle pene, nel potere dispositivo, e non cognitivo, del giudice» (Norberto Bobbio).
Ci sarà tempo per interrogarsi sulla pressione scaricata sulle polizie sospinte dalla volontà autoritaria del governo nello spazio stretto tra la politica e il diritto, tra la violenza e la legge (già "Genova 2001" ci ha detto che in uno Stato che si presenta come questurino c´è chi è disponibile a un´illegalità criminale quando il dissidente diventa un "nemico" da annientare). Oggi vale la pena soltanto rinnovare una preoccupazione che sarà opportuno che sia condivisa nelle prossime ore. Contro un movimento di giovani che rifiuta un progetto di ordine sociale, che si oppone a un´eterna precarietà, alla caduta di ogni garanzia di eguaglianza e chiede opportunità e futuro, il governo decide di rafforzare se stesso preparando il peggio. Evoca un "diritto di polizia" e un uso della violenza. Accende la rabbia. Eccita gli animi meno consapevoli. Cinicamente fa di conto: nuovi disordini gli fanno gioco, debole come è. È questa la funesta trappola che, a partire da oggi, i "movimenti" dovranno aggirare con lucidità e intelligenza.
Ha sentito qual è la ricetta di Gasparri per evitare nuovi scontri?
«Quello che è successo è di un´oggettiva gravità e non va assolutamente sottovalutato. Ma non va neppure utilizzato per soffiare sul fuoco di un clima sociale che rischia di farsi incandescente e che tutti abbiamo il dovere di contribuire a raffreddare. Non tocca a me indicare eventuali modifiche normative, anche se mi permetto di notare che non è mai un buon modo di legiferare quello che si muove sull´onda emotiva della cronaca. Un Daspo applicato agli studenti mi sembra pure di difficile praticabilità, mentre, se proprio vogliamo prendere a prestito le misure contro le violenze negli stadi, vedrei meglio l´arresto in flagranza differita».
Dal 14 dicembre, il governo Berlusconi, con Maroni e Alfano, e ora con Gasparri, vuole che i magistrati tolgano le castagne dal fuoco sulla sicurezza?
«La condanna della violenza dev´essere ferma e inequivocabile. Ma non possiamo avallare il luogo comune secondo cui i poliziotti arrestano e i magistrati scarcerano. Nella difesa della legalità le toghe sono sempre state in prima linea, dal terrorismo alla mafia, pagando anche un prezzo di sangue. Le forze dell´ordine sono al loro fianco nella stessa battaglia. É inaccettabile il tentativo di dialettizzare tra servitori dello Stato impegnati nello stesso fronte, pur in diversi ruoli».
Non le pare che dal centrodestra arrivi un pesante attacco ai giudici, con gli ispettori inviati da Alfano, e con Gasparri, un «fascista» per Vendola, che quasi indica loro che arresti fare?
«I magistrati sanno fare il proprio lavoro e sanno usare la discrezionalità che la legge offre loro, senza bisogno di lezioni da nessuno, tantomeno in nome di analogie storiche assai poco calzanti».
Il riferimento al 7 aprile è solo improprio o una provocazione irresponsabile?
«Il 14 dicembre 2010 è un altro mondo rispetto a epoche che tutti ci auguriamo non torneranno e che nulla lascia presagire siano in procinto di ripresentarsi».
Non è singolare che un governo garantista verso gli uomini del centrodestra coinvolti nelle indagini contesti il garantismo verso questi giovani?
«Ovviamente il garantismo non va mai applicato a corrente alternata. I ragazzi vanno distinti tra chi manifesta pacificamente e chi invece ricorre alla violenza, fosse anche solo quella di lanciare una pietra contro i poliziotti. Il nostro Paese è afflitto da una grave crisi di legalità che tocca tutti i settori e va contrastata con la medesima fermezza chiunque sia a violare le regole. Sui processi ai manifestanti per i fatti di Roma non posso esprimere valutazioni in quanto, come presidente della sezione disciplinare del Csm, potrei essere chiamato a giudicare quegli stessi magistrati qualora l´accertamento di Alfano avesse un seguito. E comunque non conosco né gli atti, né gli elementi di accusa, né la gravità indiziaria».
Se lei fosse stato il Guardasigilli avrebbe mandato gli ispettori?
«Al momento sto meglio nei miei panni che in quelli del ministro. Comunque mi risulta che l´ispezione sia finalizzata alla sola acquisizione dei provvedimenti per valutarne eventuali anomalie. Non voglio credere che dietro questa iniziativa ci siano interferenze con l´attività giurisdizionale o invasioni di campo. Il ministro conosce troppo bene i limiti all´attività ispettiva imposti dal Csm e dalla Cassazione, per disattenderli. Certamente ne farà buon uso per riferire eventualmente in Parlamento o per prendere iniziative legislative di coordinamento sulla materia».
Lei mi pare buonista. Non è che il passo di Alfano è un´invasione di campo?
«Escludo si tratti di prove generali dei maggiori poteri al Guardasigilli ipotizzati nella cosiddetta riforma della giustizia, tanto "grande grande grande" quanto misteriosa».
Con la riforma Gelmini da approvare e l´annuncio di nuove manifestazioni, il governo pretende dai magistrati una sentenza esemplare?
«Le toghe non giudicano i fenomeni, ma le responsabilità individuali specifiche e le singole posizioni processuali. Perciò non si può mai chiedere loro di "punirne uno per educarne cento". Peraltro, i processi di cui tanto si parla, celebrati da diversi collegi, sono ancora in piedi perché si è esaurita solo la fase cautelare. Dunque è prematuro lamentarsi dell´esito. La giustizia ha i suoi ritmi che non si possono certo piegare alla polemica o alle logiche della politica. Non si possono criticare i magistrati accusandoli di occuparsi della corruzione "in generale" e poi pretendere che facciano sentenze sulla violenza "in generale"».
Il Csm non dovrebbe discutere sugli spazi di discrezionalità della magistratura?
«I giudici non devono inseguire il consenso con decisioni gradite alla piazza. Devono pronunciare sempre sentenze imparziali. Ma questo non vuol dire che non debbano tener conto del contesto in cui operano. Anche il presidente della Repubblica li ha richiamati alla consapevolezza degli effetti delle proprie decisioni. Discrezionalità vuol dire anche attenzione alla sensibilità collettiva rispetto a un fatto e all´allarme sociale suscitato da determinati comportamenti».

Repubblica 20.12.10
"Una follia autoritaria che alimenta la violenza"
Saviano contro Gasparri e Maroni: scaricano sulla polizia i conflitti sociali
di Antonio Fraschilla


Messaggio dello scrittore su Repubblica tv Dopo gli incidenti di Roma aveva invitato i ragazzi a evitare gli scontri
Lo scrittore su Repubblica tv Dopo gli incidenti ha invitato i ragazzi a evitare gli scontri

ROMA - «Follie autoritarie che alimentano la violenza danneggiando il movimento studentesco, e che scaricano la gestione dei conflitti sociali interamente sulle forze di polizia già mortificate dai tagli alle risorse». Roberto Saviano boccia senz´appello non solo gli «arresti preventivi» invocati dal capogruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri, ma anche il Daspo e le zone rosse per i cortei proposti dal ministro degli Interni Roberto Maroni.
Lo scrittore, tra i primi a denunciare il rischio di una deriva violenta da parte del movimento studentesco dopo gli scontri della scorsa settimana a Roma, interviene sulle iniziative annunciate dalla maggioranza per cortei ed eventi di piazza: «Le ricette del governo contro i manifestanti sono follie autoritarie - dice Saviano a Repubblica Tv - Vogliono risolvere la questione come un problema di forza da affrontare senza dare risposte, ma solo repressione». Uno degli ingredienti della ricetta del governo per evitare il ripetersi di scontri con la polizia è l´applicazione del Daspo per cortei e manifestazioni pubbliche, esattamente come avviene negli stadi: cioè un divieto d´accesso all´evento per soggetti ritenuti «pericolosi» dalla Questura.
Per Saviano, che già aveva invitato qualsiasi manifestante «a fermarsi davanti a una camionetta delle forze dell´ordine perché si manifesta per mostrare al Paese che ci sono diritti da difendere e che c´è chi li difende anche per loro», il rischio è che a pagare le conseguenze delle iniziative annunciate siano proprio i poliziotti: «Il richiamo a queste misure normalmente utilizzate nella repressione delle violenze legate agli eventi sportivi tradisce la volontà del governo di scaricare la gestione dei conflitti sociali interamente sulle forze di polizia già mortificate da notevoli tagli e carenze di risorse», dice Saviano, che suggerisce a Palazzo Chigi altre strade per evitare le violenze di piazza, in primis quella del «dialogo».
«La piazza non è uno stadio, né i cittadini sono ultras scalmanati da reprimere - aggiunge - Il governo non può rifuggire il dialogo, deve ascoltare le ragioni dei precari e degli studenti e a quelle ragioni deve dare risposta». Insomma, per Saviano le iniziative annunciate da Maroni e le richieste di Gasparri sono pericolose: «La violenza, che oscura e danneggia gli obiettivi di questo movimento, va disarmata e non alimentata, come succederebbe invece proponendo arresti preventivi e anticostituzionali, o zone rosse rese più rigide a mo´ di provocazione».

Repubblica 20.12.10
Se il Governo introduce il diritto di polizia
di Giuseppe D’Avanzo


Le parole di Gasparri confermano che la "rivoluzione liberale" promessa dal premier fallisce per l´incapacità politica di progettarla Ci sarà tempo per interrogarsi sulla pressione scaricata sulle forze dell´ordine, sospinte dalla volontà autoritaria dell´esecutivo nello spazio tra violenza e legge

Il disegno, ogni ora che passa, si fa chiaro e non sorprende. Il governo, politicamente debole, sordo alle difficoltà del Paese, lontano da una società che umilia, vuole rilanciare se stesso inventando una nuova emergenza. Addirittura un´emergenza "terrorismo". Secondo una leadership politica che fa vanto di essere stata fascista (La Russa, Gasparri, Alemanno), "terrorismo" sarebbero le manifestazioni di protesta contro la "riforma Gelmini" e potenziali "terroristi" chi vi partecipa.
Quindi, sostenuta dal ministro dell´Interno, prima ha escogitato lo sciagurato trucco di far valere per i manifestanti più ostinati – scelti come? selezionati da chi? – il divieto di accedere alle manifestazioni sportive (D.a.spo.) di fatto ipotizzando un ritorno al Testo di Pubblica Sicurezza in vigore, dal 1926, nel ventennio fascista. Quel testo, che definiva misure di prevenzione in base al solo sospetto, non imponeva di accertare la responsabilità diretta per fatti considerati dalla legge reati.
Per sottoporre il «soggetto pericoloso» a una severa vigilanza e lontano da casa, riteneva sufficiente un ipotetico «pericolo alla sicurezza pubblica e all´ordine politico». Sono più o meno – non vi pare? – le ragioni che hanno convinto in coro il ministro dell´Interno (Maroni) e della Giustizia (Alfano) a dare sulla voce ai giudici che, in attesa del processo, hanno rimandato a casa i giovani e giovanissimi arrestati il 14 dicembre a Roma.
Già poteva bastare per dirsi impensieriti dai giorni che verranno, ma eravamo soltanto all´inizio di una progressione autoritaria. Maurizio Gasparri – chi altro? – chiede ora «arresti preventivi». Il presidente dei senatori della destra dice: «Serve una vasta e decisa azione preventiva. Si sa chi c´è dietro la violenza scoppiata a Roma. Tutti i centri sociali i cui nomi sono ben noti città per città. Qui ci vuole un "7 aprile". Mi riferisco al giorno in cui furono arrestati tanti capi dell´estrema sinistra collusi con il terrorismo».
Sorprendersi? Le parole di Gasparri – non smentito da quel capo di governo che, amante dei trucchi, chiama a sé i «moderati» per difendere il suo malfermo potere – confermano quel che già avevamo capito da tempo, in verità. Innanzitutto che, ammesso e non concesso che non sia stata una trovata da marketing politico, la «rivoluzione liberale» promessa da Berlusconi fallisce per l´incapacità politica di progettarla e per la cultura di un´élite che non si è allontanata di molto dalle celebrazioni del fascismo delle leggi razziali e della Repubblica di Salò. Due. Il "garantismo" della destra italiana non è altro che la difesa di un diritto del privilegio e dell´esclusione che dovrebbe assicurare indulgenze ai Potenti e rigido e inflessibile castigo ai Deboli. Lo abbiamo già visto in azione contro rom e migranti. Ora Gasparri lo pretende contro gli avversari politici richiamando, con la storia del «7 aprile» del 1979, il momento forse più limpido di quel che un filosofo del diritto, Luigi Ferrajoli, ha definito la «crisi della ragione giuridica» che ha attraversato per decenni le emergenze del terrorismo e della mafia. Anche se oggi non si scorge alcun pericolo, alcuna urgenza, alcun terrorismo, nessun terrorista, la destra di governo chiede che siano attive le stesse prassi di quella stagione: prassi in cui prevalgono le ragioni dell´efficienza coniugate alla facile idea, propria del senso comune autoritario, che la giustizia «deve guardare al reo dietro al reato, alla sua pericolosità dietro la sua responsabilità, all´identità del nemico più che alla prova dei suoi atti d´inimicizia» (Ferrajoli). Tre. In coerenza con la propria cultura politica, la destra di governo invoca uno Stato etico dove morale e diritto si confondono e la salvaguardia del principio di stretta legalità è sacrificato ai «poteri arbitrari che trovano il loro spazio naturale nella definizione non tassativa dei reati, nella flessibilità delle pene, nel potere dispositivo, e non cognitivo, del giudice» (Norberto Bobbio).
Ci sarà tempo per interrogarsi sulla pressione scaricata sulle polizie sospinte dalla volontà autoritaria del governo nello spazio stretto tra la politica e il diritto, tra la violenza e la legge (già "Genova 2001" ci ha detto che in uno Stato che si presenta come questurino c´è chi è disponibile a un´illegalità criminale quando il dissidente diventa un "nemico" da annientare). Oggi vale la pena soltanto rinnovare una preoccupazione che sarà opportuno che sia condivisa nelle prossime ore. Contro un movimento di giovani che rifiuta un progetto di ordine sociale, che si oppone a un´eterna precarietà, alla caduta di ogni garanzia di eguaglianza e chiede opportunità e futuro, il governo decide di rafforzare se stesso preparando il peggio. Evoca un "diritto di polizia" e un uso della violenza. Accende la rabbia. Eccita gli animi meno consapevoli. Cinicamente fa di conto: nuovi disordini gli fanno gioco, debole come è. È questa la funesta trappola che, a partire da oggi, i "movimenti" dovranno aggirare con lucidità e intelligenza.

Corriere della Sera 20.12.10
Poteri dello Stato. Il cortocircuito
di Luigi Ferrarella


Prima il Guardasigilli mobilita gli ispettori quando non gli piacciono le sentenze, poi il titolare del Viminale immagina per i cortei un divieto come il Daspo agli ultrà, e ora il presidente dei senatori pdl rimpiange gli arresti preventivi Anni 70.
Tra i danni collaterali delle gravi violenze del 14 dicembre nel centro di Roma, che non possono trovare giustificazioni e che meriteranno i rigori di legge a coloro che ne saranno accertati responsabili, il fine settimana appena trascorso segnala che una cortina fumogena di slogan sta annebbiando la percezione del principio di separazione tra poteri dello Stato. Un giorno il ministro della Giustizia Alfano, annunciando ispezioni ai giudici sgraditi, manifesta la propensione a voler decidere lui se una scarcerazione che non gli garba sia giusta o no. Un altro giorno il ministro dell’Interno Maroni accarezza l’idea di estendere i divieti Daspo dagli stadi di calcio alle piazze, e così di essere di fatto lui, tramite i Questori, a decidere chi non debba più partecipare a manifestazioni pubbliche. E ieri Gasparri chiude il trittico con il suo «qui ci vuole un 7 aprile, e mi riferisco al giorno del 1978 in cui furono arrestati tanti capi dell’estrema sinistra collusi con il terrorismo» . Quest’ultimo vagheggiamento è arduo persino da prendere in considerazione, visto quanto lo vizia il concentrato di errori (era il 1979 e non 1978), confusioni di contesto (l’Autonomia Operaia negli anni delle Br), e scarsa memoria degli striminziti esiti giudiziari per molti dei 140 indagati. Per parte sua, il Guardasigilli sorvola sul fatto che, quand’anche siano erronei i presupposti della decisione dei giudici di confermare l’arresto dei 22 fermati dalla polizia ma di non trattenerli in carcere in vista del processo di giovedì, il rimedio previsto dalla legge non è l’ispezione ministeriale minacciata al Tribunale, ma l’appello della Procura contro le scarcerazioni innanzi al Tribunale del Riesame. Analogo stridore promette l’applicazione ai cortei dell’odierno «Divieto di Accedere a manifestazioni Sportive» (Daspo) da uno a 5 anni per chi in passato abbia preso parte o inneggiato a episodi di violenza. A imporlo, infatti, non è un giudice ma il Questore, cioè una emanazione del potere esecutivo; e come presupposto non c’è bisogno di una sentenza ma basta anche solo una semplice denuncia di polizia. Il destinatario può solo sottoporne i profili amministrativi al Tar, mentre il giudice penale interviene solo qualora il Questore imponga anche l’obbligo di firma (ammesso dalla Consulta nel 2002 proprio perché sottoposto a controllo giurisdizionale). Sembra poi sfuggire, se trapiantata nelle piazze, la delicatezza delle conseguenze per chi, colpito da un divieto amministrativo del Questore sulla base solo di una denuncia, non facesse altro che partecipare lo stesso a una manifestazione: arresto in flagranza, processo per direttissima, condanna da 1 a 3 anni e multa da 10 mila a 40 mila euro. Per capire che sarebbe un pericoloso corto circuito, prima ancora di doversi aggrappare agli articoli 16 e 21 della Costituzione su libertà di circolazione e di espressione, forse può bastare il buon senso. Irrobustito da una gestione dell’ordine pubblico più accorta nell’isolare nei cortei i violenti. E presidiato da sentenze che dalla magistratura bisogna pretendere non «esemplari» , ma pignole e sollecite: come per gli scontri tra estrema destra e centri sociali di sinistra antagonista che l’ 11marzo 2006 devastarono il centro di Milano, e che già nel 2008 videro diventare definitive in Cassazione sentenze capaci di distinguere 15 pesanti condanne (a 4 anni nonostante lo sconto di un terzo per il rito abbreviato) da 11 assoluzioni.

Corriere della Sera 20.12.10
Gli errori di chi guarda al passato per capire le proteste dei giovani
di Paolo Franchi


Q uanti sono i genitori che, guardando ai figli, pensano angosciati che con loro «la realtà è stata ed è avara di occasioni e ladra di sogni» , come ha scritto la signora Valentina Strada nella sua lettera al Corriere di sabato scorso? Probabilmente moltissimi, la grande maggioranza. E già questo dovrebbe turbare il sonno di classi dirigenti degne di questo nome, perché una società in cui tanti giovani sono in piazza senza un briciolo di speranza, e gli adulti coltivano pensieri così tristi, non è il teatro di una rottura generazionale: è una società che per la prima volta nel dopoguerra teme di non avere un domani, e fatica vistosamente anche solo a galleggiare. L’Italia, per mille motivi, è, nella crisi, il Paese meno esposto alle tensioni e alle proteste sociali. Negli ultimi anni questo concetto è stato ripetuto un’infinità di volte: quasi un mantra. Peccato che la rivolta giovanile e studentesca lo stia smentendo clamorosamente. Anche (ma non soltanto) con la carica di violenza che purtroppo si porta appresso. Senza farsene troppi problemi. E anzi considerandola spesso non solo in qualche modo legittima, ma pure liberatoria. Certo, è sempre possibile rifugiarsi in rappresentazioni preoccupate, sì, ma in ultima analisi persino rassicuranti: i black bloc, gli anarchici, gli autonomi, i centri sociali più duri che pianificherebbero guerriglia urbana e devastazioni per trascinare sul terreno della violenza ragazzine e ragazzini che, fosse per loro, manifesterebbero pacificamente e in allegria. Spiace dirlo, ma (purtroppo) le cose non stanno solo (né soprattutto) così. Perché i professionisti della violenza ci sono e fanno il loro mestiere, nella speranza di poter nuotare nel movimento, si diceva una volta, come pesci nel mare. Ma di una rivolta aliena dalle ideologie non sono i protagonisti, e non costituiscono nemmeno l’aspetto più inquietante. Fioccano gli appelli di benpensanti democratici alla grande maggioranza degli studenti: avete tutte le ragioni, ma per farle valere dovete restare allegri e colorati, isolando i violenti che vi strumentalizzano e vi portano in un vicolo cieco. Non sono in discussione le ottime intenzioni di chi li lancia, ma ci sarà pure una ragione se rischiano di lasciare più o meno il tempo che trovano. Forse— forse— è anche perché è infondata la lettura della realtà su cui si fondano: e inforcare occhiali vecchi di trenta o quarant’anni non aiuta a leggerla meglio. A cercare di capire aiutano invece soprattutto le cronache, perché i cronisti raccontano quello che vedono con i loro occhi. Dalle cronache, per esempio, apprendiamo che la protesta non è più solo quella rituale delle università e dei licei frequentati dai nostri figli e dai nostri nipoti, ma coinvolge le scuole della periferia estrema. E che a Roma, mercoledì scorso, la grande maggioranza dei partecipanti ai cortei studenteschi certo è rimasta un passo o due indietro rispetto agli scontri e alle devastazioni, ma altrettanto certamente non si è doluta troppo, anzi, nel vedere i blindati della polizia e le auto di lusso dati alle fiamme, o la minacciosa nuvola di fumo nero che sovrastava piazza del Popolo. Nei confronti della violenza e di chi (non pochi, non pochi) la pratica sono rare la dissociazione e la condanna, frequenti la comprensione, il compiacimento e anche lo spirito di emulazione, come succede a chi si sente parte di una medesima comunità. È un guaio serio, serissimo, un’ombra cupa su questi giorni e su quelli che ci aspettano. Non si tratta di giustificare l’ingiustificabile, ci mancherebbe. Si tratta di capire, e per farlo occorre prima di tutto non nascondersi la verità (o una parte importante della verità), per sgradevole che sia. Gli anni Settanta non c’entrano. Solo chi non ha alcuna idea del presente, e tanto meno del futuro, può pensare di cavarsela rieditando all’infinito le passioni, le parole e i cliché di un mondo che fu, e che non ritorna. Il futuro. È proprio di un futuro (il lavoro, ma non solo il lavoro) che ormai non una, ma almeno un paio di generazioni, si sentono spogliate, nell’indifferenza pressoché universale del mondo che li circonda, genitori esclusi. L’esatto opposto del Sessantotto, quando il futuro sembrava così a portata di mano che si poteva gridare senza passare per matti: siate realisti, chiedete l’impossibile, e, a guardar bene, anche del Settantasette, che fu a modo suo «desiderante» nonostante la stagione delle aspettative crescenti fosse finita da un pezzo. E non si parla solo dell’Italia: forse, anzi, sicuramente, per capire quello che sta succedendo da noi è molto più utile guardare a quel che capita in Francia, in Gran Bretagna o in Grecia, anche per rintracciare analogie e differenze, che cercare lumi nel passato. C’entrano, in tutto questo, la violenza, e persino l’estetica della violenza? Purtroppo sì, e anche molto: contrastarle e isolarle è un’impresa difficile e complessa. Politiche più o meno intelligenti dell'ordine pubblico, da sole, non bastano a venirne a capo. Specie se nessuno, né dai governi né dalle opposizioni, sembra avere la minima idea di come intercettare le motivazioni di fondo, che non sono né di destra né di sinistra, della rivolta.

La Stampa 20.12.10
Ma i diritti non sono tutti uguali
di Michele Ainis

qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8219&ID_sezione=&sezione=

La Stampa 20.12.10
Il 7 aprile del 1979 la maxi-retata contro i sospettati di terrorismo

qui
http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/380640/

La Stampa 20.12.10
"Paragone assurdo. Processa le intenzioni"
Virginio Rognoni (86 anni) nel 1979 era ministro dell’Interno
Non c'è più il clima degli anni Settanta secondo l'ex ministro
di Michele Brambilla

qui
http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/380677/

l’Unità 20.12.10
Biotestamento e cure palliative: non fermiamoci
Welby quattro anni dopo
di Mina    Welby    Carlo Troilo


opo il voto di fiducia al governo Berlusconi, dovrebbe andare in aula alla Camera la legge sul testamento biologico. La legge è in realtà una legge “contro” il testamento  biologico sia perché prevede procedure complesse e onerose, sia perché sbilancia il potere finale di decisione in favore dei medici anziché del malato. Inoltre, prevede l’impossibilità di rinunciare alla alimentazione e alla idratazione artificiali, considerate forme di “sostegno vitale” e non contrariamente al parere di tutte le associazioni scientifiche trattamenti sanitari. Ciò rende la legge sicuramente incostituzionale perché l’articolo 32 della Costituzione contiene una norma tassativa: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Dunque, in caso di approvazione di questo testo, bisognerà indire un referendum abrogativo che potrebbe avere largo consenso della cittadinanza, e inoltre singoli cittadini potrebbero intentare delle cause per non aver visto rispettate le volontà espresse nelle loro disposizioni anticipate sui trattamenti sanitari. Due modi, uno politico e uno giudiziario, per correggere la legislazione dal basso.
Consapevoli del fatto che queste norme avrebbero l’effetto di allungare le sofferenze dei malati terminali e di quelli in stato vegetativo e delle loro famiglie, la stessa maggioranza aveva presentato e fatto approvare un emendamento che stanziava 150 milioni di euro per il triennio 2010-2013 per potenziare le cure palliative, per le quali l’Italia è tra gli ultimi paesi al mondo e l’ultimo in Europa. Recentemente si è però scoperto che questo stanziamento benché modesto non ha ancora trovato la copertura finanziaria. Anzi, il senatore Marino ci ha detto che «questo governo ha finanziato la rete delle cure palliative sul terriotorio per un e dico “un” milione di euro, contro i 240 annui stanziati dalla Germania».
Per queste ragioni, nel quarto anniversario della morte di Piergiorgio Welby, facciamo appello a tutti i membri della Camera: ai deputati del centro sinistra; a quelli del gruppo del Presidente Fini, che si è sempre detto favorevole alla libertà di coscienza sui temi inerenti i diritti civili; ma anche ai deputati “laici” del Popolo della Libertà, a partire dagli ex socialisti, che vengono dal partito di Renato Sansone e di Loris Fortuna, protagonisti delle grandi e vittoriose battaglie per il divorzio e per l’aborto. Diano ai cittadini italiani quello che tutti gli altri cittadini europei hanno da anni: la possibilità di depositare oggi per allora le proprie disposizioni anticipate sui trattamenti sanitari in un database nazionale. E assicurino a chi soffre il sollievo di adeguate cure palliative. Sulla malattia, il dolore e la morte, tutti dovrebbero cercare quello che unisce, non quello che divide.

Repubblica 20.12.10
Da Hitler a Stalin: ecco i profili psicologici Firmati dall´allievo di Freud e ora in un libro
La psiche dei dittatori spiegata agli Usa
Venne assoldato dall´Oss, l´Office of Strategic Service Nome in codice "agente 488"
di Franco Zantonelli


ZURIGO. Per sconfiggere Hitler ed il nazismo il controspionaggio statunitense arrivò a reclutare, come agente segreto, anche uno dei padri della psicanalisi, lo svizzero Carl Gustav Jung, prima discepolo poi antagonista di Sigmund Freud. Fu l´Oss, l´Office of Strategic Service, come si chiamava all´epoca la Cia, ad ingaggiare Jung, attribuendogli il codice di agente 488. Lo psicanalista, all´epoca settantenne, incontrava, nella sua esclusiva residenza di Küsnacht, sul lago di Zurigo, Allen Dulles, il numero uno dell´Oss in Europa. «Insieme, i due - ha rivelato ieri il settimanale svizzero Le Matin Dimanche - hanno dato vita al primo serio tentativo di utilizzare i profili psicologici nelle operazioni di spionaggio».
Giunto in Svizzera nel 1943, Allen Dulles iniziò, ben presto, a frequentare il celebre medico svizzero. Dei suoi incontri sul lago di Zurigo dava poi conto a Washington tramite l´ambasciata americana a Berna. «Le analisi del Dottor Jung sul comportamento dei leader nazisti, soprattutto delle tendenze psicotiche di Hitler, vanno prese molto sul serio», scriveva tra l´altro il capo dell´Oss. Del Führer Carl Gustav Jung, in effetti, si era fatto un´idea molto chiara. «Sono persuaso che Hitler farà ricorso, fino alla fine, a tutti i metodi, anche a quelli più disperati», spiegava lo psicanalista a Dulles. Una previsione azzeccata, se si pensa all´ultima battaglia che il dittatore condusse nella cancelleria del Reich, circondata dai Sovietici. Come pure azzeccata fu quella secondo cui «Hitler, in un momento di crisi, potrebbe ricorrere al suicidio».
Carl Gustav Jung elaborò per il controspionaggio americano un profilo accurato della tipologia dei dittatori europei dell´epoca. Mussolini e Stalin erano «due capi clan, fisicamente più forti e più solidi dei loro avversari». Più sottile, invece, il ritratto di Adolf Hitler. «Una sorta di medico-taumaturgo, non forte in quanto tale, ma per il potere che gli altri proiettavano su di lui», affermava convinto l´agente 488 dell´Oss, e ancora: «Hitler è uno specchio dell´incoscienza tedesca. Più un mago che un politico, è in grado di captare quello che i suoi compatrioti, inconsciamente, pensano del destino della loro nazione». «Nessuno - dirà più avanti ad un amico Allen Dulles - saprà mai quale grande contributo abbia dato alla causa della vittoria alleata il dottor Jung».
Con l´apertura degli archivi e in contemporanea con l´uscita, a Zurigo, del Libro Rosso, sorta di sofferta autobiografia di Carl Gustav Jung oggi si sa tutto dell´importanza dell´attività dell´agente 488. Come ha scritto l´americano Deirdre Blair, autore di una biografia di Jung, lo stesso comandante in capo delle truppe alleate in Europa, il generale Dwight Eisenhower, si basò sulle analisi dello psicanalista svizzero per individuare la strategia migliore da impiegare per convincere i cittadini tedeschi della sconfitta. La sua conoscenza dei metodi della propaganda nazista ci è stata preziosa ha, successivamente, riconosciuto Eisenhower in persona.

Repubblica 20.12.10
Le buge di Mosca
Gli anni ’60 nella città perduta
di Sandro Viola


Il terrore sul volto del burocrate alle parole dello scrittore dissidente e alcolizzato
Nell´esaltare i vecchi oggetti Carlo Levi taceva che non ne esistevano di nuovi
I ricordi dei viaggi emozionanti nella patria del socialismo
La suggestione era tale che molti "abbellivano" la cruda realtà

La lettura del bel libro di Serena Vitale A Mosca, a Mosca! apparso da Mondadori qualche settimana fa, ha ravvivato i ricordi dei miei primi viaggi in Unione Sovietica: 1962,´64,´67. Vi sarei poi ritornato – sinché l´Urss durò – una ventina di volte almeno, e un´altra ventina nella Russia semi-libera di Gorbaciov, Eltsin e Putin. Poiché la Vitale vi giunse nel ´67 per studiare la lingua e la letteratura russe, e divenire con gli anni la più illustre tra i nostri slavisti, molte delle sue memorie della Mosca d´allora coincidono con le mie. I luoghi, i volti aggrondati della folla nelle strade, le continue penurie che sopportava la popolazione, e inoltre alcuni personaggi che entrambi incontrammo in quegli anni. Gli ottimi e amichevoli italianisti, l´alto burocrate che sovrintendeva dal suo ufficio dell´Unione degli scrittori ai rapporti con gli studiosi e i giornalisti giunti dall´Italia.
Da dove scaturiva l´emozione con cui gli italiani tra i venti e i trent´anni approdavano a quel tempo sulla piazza Rossa? Oggi mi sembra di sapere che proveniva innanzi tutto dall´esotismo della "patria socialista". Vale a dire tutto quel che non avevamo mai visto a Roma, a Parigi, a Londra. Le folle malvestite in fila sotto la neve davanti al mausoleo di Lenin (dal quale era appena stata tolta la mummia di Stalin), la rude scortesia dei camerieri e altri inservienti, un alcol da 40-42 gradi come la vodka con cui pasteggiare a pranzo già verso l´una del pomeriggio, le cipolle dorate delle chiese russe, i marmi e i lampadari a goccia della metropolitana, il brivido che si provava venendo interpellati da un semplice poliziotto.
Ma altre suggestioni erano per così dire "indotte", venivano cioè dai libri, racconti e discorsi (tutti entusiastici) dei comunisti italiani e dei loro compagni di strada. Un esempio: qualche anno prima era uscito da Einaudi un libro di Carlo Levi sul suo viaggio in Urss, intitolato Il futuro ha un cuore antico. E il libro di Levi aveva suscitato, anche in chi come me non aveva nulla a che fare col Partito comunista italiano, una fortissima impressione. Non che il libro puzzasse di propaganda. Ma era, a ripensarlo oggi, accuratamente ripulito della più cruda realtà del "socialismo reale". Una fotografia dell´Urss amorevolmente ritoccata. Levi aveva infatti visto, come ogni europeo occidentale per la prima volta a Mosca, l´arretratezza, l´incuria, la sporcizia e i tratti di vera e propria miseria dell´Urss. Ma ne aveva ricavato una sua curiosa (che oggi appare francamente ridicola) conclusione.
Più le rivoluzioni sono radicali, diceva Levi, più esse tendono a preservare le tracce del buono che c´era nel passato. Ed ecco infatti i suoi palpiti per le vecchie "abat-jour" che si trovavano negli alberghi per stranieri, per i centrini di merletto che si vedevano nelle case dei pochi intellettuali alle quali si poteva avere accesso, per le pantofole sfondate che quegli intellettuali, dimesse accanto alla porta le scarpe infangate, si mettevano ai piedi quando rientravano in casa. Secondo Levi, tutto questo era il segno che accanto all´"elettrificazione", ai voli degli Sputnik e all´arsenale atomico, il mondo sovietico aveva salvaguardato una specie di dolce e innocua nostalgia, un attaccamento (non certo politico bensì limitato al gusto per i vecchi oggetti) nei confronti della Russia pre-rivoluzionaria.
Era una conclusione suggestiva, come ho detto. Per giungere alla quale, tuttavia, era stato necessario che Levi tacesse sul fatto che le "abat-jour", i bei piattini Ottocento, i vecchi oggetti che lo incantavano, erano lì solo perché in Russia non se ne producevano di nuovi. Nel libro non c´era una parola sulle immondizie che ingombravano le scale buie e sbrecciate – mai lavate da mesi e forse da anni – delle case, sull´angustia, i cattivi odori e gli intonaci scrostati degli appartamenti dove venivamo ricevuti dagli scrittori di regime o da membri dell´Accademia delle scienze. Russi privilegiati, dato che centinaia di migliaia di persone vivevano ancora nelle "kommunalka", le case dove abitavano in comune – una cucina, un wc – varie famiglie.
Né c´era una sola parola su quanto si poteva trovare nei negozi: patate già quasi marce, salumi nerastri, pesce secco che nessuna madre di famiglia dell´Europa occidentale avrebbe mai portato a casa. Non una parola sulle toilettes dei locali pubblici, spaventevoli per il tanfo e il lordume. Di tutto questo lo scrittore aveva scelto di non far cenno, o quasi, nel suo libro. Ma la verità era che nessuna popolazione bianca al mondo viveva a quel tempo tanto miseramente come viveva l´homo sovieticus.
Nei dormitori dell´università Lenin, Serena Vitale combatteva contro gli scarafaggi, e telefonava in Italia alla madre supplicando un urgente invio di Ddt. Ma non era diverso negli alberghi per stranieri. Anche in quello dove sono sceso quasi tutte le volte, il Nazional, in cui i sovietici ospitavano le delegazioni straniere di rango, sui pavimenti si muovevano notte e giorno ditteri, emitteri, psocotteri, cioè a dire scarafaggi ripugnanti, mentre ogni tanto si vedevano certi piccoli topi nerastri attraversare di corsa la stanza,
Questa era l´Urss, e ancora non ho parlato della burocrazia, di quel riempire moduli e moduli per qualsiasi cosa, cambio di valuta, permesso di andare in taxi sino al bosco di Peredelkino alla periferia della città (quei taxi puzzolenti di cattiva benzina, cattivo tabacco, cipolla, aglio e chi sa che cos´altro ancora),permesso e attesa di 4-5 giorni per recarsi al vicino monastero di Zagorsk, due moduli con le risposte ad una trentina di domande per acquistare un biglietto aereo, tre moduli per prenotare un tavolo al ristorante Aragvi.
Su questo punto, sulla burocrazia e i sorveglianti politici, nei ricordi della Vitale e miei spicca il personaggio d´un burocrate che non era villano come tutti gli altri,e neppure tanto arcigno, anzi tutto sommato benevolente: Gheorghij Brejtburd. Sempre inappuntabile, i modi della vecchia e ormai estinta borghesia russa, Brejtburd risolse alla Vitale, come segretario della sezione italiana dell´Unione scrittori, vari problemi altrimenti insolubili. E a me procurò una serata indimenticabile.
Ero a Mosca nel ´67 per L´Espresso, volevo vedere i giovani poeti russi che Angelo Maria Ripellino aveva appena tradotto per Einaudi, e Brejtburd combinò una cena alla casa Rostov. Era chiamata così (con una licenza poetica che la considerava la casa dei Rostov di Guerra e pace) una bella villa nel centro di Mosca dove aveva sede il Club degli scrittori. Luci sfavillanti, camerieri cortesi, e soprattutto il buon cibo riservato alle categorie che il regime blandiva, privilegiava.
Al tavolo con noi c´erano due eccellenti poeti, Bella Achmadulina e Andreij Voznesenskij, ma durante il pranzo, mentre i camerieri continuavano a portare altra vodka, s´erano venuti a sedere per qualche minuto anche Evghenij Evtuscenko, Vladimir Tendrjakov, e quando la serata volgeva al termine, Viktor Nekrasov. Premio Lenin per il suo romanzo Le trincee di Stalingrado, Nekrasov era a quel tempo un alcolista inveterato, con scoperti, coraggiosi atteggiamenti da dissidente che avevano già reso pericolante la sua posizione nell´Unione degli scrittori.
Al suo arrivo Brejtburd impallidì, e dopo cinque minuti in cui Nekrasov mi si rivolgeva in un francese elementare («C´est un pays de merde», «La police nous surveille»), s´alzò tremante. Raccolse il mio soprabito e mi spinse verso la porta, sicuro che avrebbe pagato caro l´arrivo di Nekrasov al nostro tavolo. Il suo volto era adesso terreo, terrorizzato. Così, la serata nella Casa Rostov fu indimenticabile anche per questo. Perché m´aveva fornito l´immagine penosa, accorante, della paura in cui vivevano i russi ai tempi dell´Urss.

Corriere della Sera 20.12.10
«Emotivi anonimi, in cura come gli alcolisti» Famosi e introversi Le confessioni
Sedute di gruppo, inni e slogan: in dodici tappe riusciamo a superare ansie e timori
di Andrea Galli


MILANO — Emo che? Emotivo a chi? Piano, parliamone. Ce n’è il tempo (una riunione fissa alla settimana), modo (è gratis) e luogo (in 35 nazioni con tre sedi in Italia). Per di più all’ingresso non fanno selezione, anzi, sono di ampie e variegate vedute. Nel senso che sono benvenuti i portatori di ansia, invidia, gelosia, malinconia, scarsa fiducia in se stessi, tristezza, panico, incapacità di relazionarsi, tic, scatti d’ira, e soprattutto timidezza, maledetta timidezza. O almeno, questo fu il catalogo da censurare, la ferita da curare, il male da estirpare secondo i padri fondatori degli Ea. Dei tizi americani, nel 1971, in Minnesota, crearono i primi gruppi di Emotivi anonimi. Costola, seguaci e discepoli, questi, degli Alcolisti anonimi, per appunto copiati nello schema e nel metodo di lavoro. Servono una stanza, una quindicina di sedie e un moderatore, che più che altro deve frenare eventuali monologhi dei presenti. Ci si mette seduti, in cerchio. Se uno vuole parla e racconta quel che gli pare, a cominciare dai suoi problemi, omettendo nome, cognome, indirizzo, età, moglie, figli, lavoro. Ma può pure star zitto, alzarsi e andar via. Oppure può tornare il prossimo incontro e per l’infinito, farlo diventare un’abitudine. Dura un’ora e mezza. La terapia è questa, e dicono che funzioni: sfogarti con qualcuno e trovare qualcuno che abbia le tue stesse ansie. Ti senti meno solo, si smoscia l’ego, t’accorgi che c’è sempre chi sta peggio. Certo, verrà obiettato, per scoprirlo non bisogna per forza infilarsi in una riunione degli Ea; comunque, procediamo. Ognuno ha la sua strada. La nostra ci porta all’Isola. La sede milanese degli Emotivi, circa duecento persone in media in un anno, sta in via Borsieri, sotto l’ombra dei grattacieli in costruzione. Stanza piccola, semplice e spoglia, una lavagnetta appena. Sulla lavagnetta, a rotazione ecco le frasi inno-motto-slogan e le parole chiave. Una è «Impotenti» . E non saltate la riga, per scansare la questione: ci riguarda se non tutti, beh, tanti sì. Nessun riferimento sessuale. L’impotente, spiegano gli Emotivi anonimi nella brochure consegnata all’interno di una busta bianca nel primo incontro, è chi non governa le emozioni e i sentimenti, chi si domanda «perché capita tutto a me?» , s’adira contro il prossimo, si sente colpevole per un fatto provocato da altri. Se ammettete la vostra impotenza, avete fatto il primo passo. Bene. Ne restano undici, e ci si possono impiegare anni. Ogni passo è una tappa, uno sforzo, la consapevolezza di un avvenuto cambiamento. Qualche esempio. Il settimo passo: «Abbiamo umilmente chiesto di porre rimedio alle nostre insufficienze» . Il nono: «Abbiamo fatto ammenda verso tutte le persone cui abbiamo fatto del male» . L’ultimo passo, infine: «Avendo ottenuto un risveglio spirituale, abbiamo cercato di trasmettere questo messaggio ad altri» . Ea non è una setta. Non è un movimento religioso. Viene spesso affiancato ad altre terapie, come l’analisi, e consigliato dagli psichiatri. S’ispira, abbiamo detto, agli Alcolisti anonimi, che restano un percorso duro, faticoso, ma utile, se non altro contando il moltiplicarsi, anche da noi, di strutture e partecipanti. Gli Ea hanno delle regole, e ci tengono: «Il nostro mantenimento è autonomo» ; «Dobbiamo conservare l’anonimato nei confronti di stampa, televisione e cinema» ; «La politica delle nostre relazioni pubbliche è basata sull’attrazione più che sulla propaganda» . Chi debutterà con gli Ea ricordi che nell’introduzione sentirà due frasi canoniche: a) «Qualunque problema abbiate vi sarà di conforto sapere che almeno uno di noi è passato attraverso le stesse difficoltà» ; b) «Evitate i pettegolezzi» . Ci perdonino un’eccezione: viene raccontato che di seduta in seduta possono nascere innamoramenti, passioni, amori. Ecco, gli Emotivi anonimi sono contrari, e di brutto. Ma scusate, mettiamo che capiti a due timidi: non è un traguardo raggiunto, la soluzione dei disagi? «No, no, no. Così il disagio anziché sconfitto viene raddoppiato. Meglio restare soli» . Difatti, sarà un caso, fra i duecento dell’Isola ci sono un fracco di separati.

Corriere della Sera 20.12.10
In Francia cresce l’associazione e i timidi in terapia arrivano al cinema
di Stefano Montefiori


PARIGI— «Non ho alcun problema con le donne... Solo che mi terrorizzano» , dice Jean-René (Benoît Poelvoorde). Assieme a Angélique (Isabelle Carré), Jean-René è il personaggio principale di «Les Émotifs Anonymes» , storia dell’incontro tra il titolare di una fabbrica di cioccolato e una sua nuova dipendente, entrambi straordinariamente timidi. La commedia romantica che uscirà mercoledì è uno dei film più attesi in Francia: per la bravura dei protagonisti e per il tema che riguarda molti, a partire dal regista Jean-Pierre Améris. «Ho detto a Isabelle Carré che accettavo subito dopo avere letto la sceneggiatura, e in questi casi di solito il regista chiama entro mezz’ora... Invece nulla — racconta Poelvoorde —. Dopo tre settimane di attesa il mio agente mi ha spiegato: "Sai, Améris è un tipo così, non riesce a telefonare alle persone...". Ho saputo poi che il regista, oltre a non chiamarmi, aveva fatto per un’ora il giro del palazzo prima di trovare il coraggio di suonare a Isabelle» . Il titolo del film è ispirato all’associazione con lo stesso nome fondata a Parigi, in rue Saint-Roch, nel 1992, sul modello degli alcolisti anonimi. Può partecipare alle riunioni chi ha l’impressione di avere la vita quotidiana rovinata dall’eccesso di emotività: oltre ai timidi chiedono aiuto angosciati, depressi, collerici... Una specie di alternativa di gruppo alla terapia psicologica individuale, fondata sull’ascolto di sé e degli altri seguendo lo schema delle «12 tappe» inaugurato negli Stati Uniti, per gli alcolisti, nel 1935. Per capire come funzionano le sedute, Isabelle Carré ha partecipato in incognito a cinque incontri, osservando il consueto rituale di presentazione: «Sono Isabelle, emotiva» . Nel film, spossata dalla breve frase, Angélique crolla dalla sedia. Che rappresentino una meritoria forma di aiuto, o piuttosto la moderna tendenza a trattare come patologica la normalità, gli «Emotivi anonimi» — al cinema e nella realtà — si rivolgono a un pubblico pressoché illimitato.

La Stampa 20.12.10
McLuhan, oggi il mezzo siamo noi
Il profeta della "rivoluzione comunicativa", trent'anni dopo . Il futuro che aveva descritto è diventato il nostro presente
di Massimiliano Panarari

qui
http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/380711/

domenica 19 dicembre 2010

l’Unità 19.12.10
Video messaggio di Franceschini: «Nell’emergenza alleanza anche con i nostri avversari»
Casini: «Io ballo da solo». Bindi: «Primarie strumento fondamentale ma da regolare»
Bersani a Vendola: «Io sto fuori dal Palazzo, non tu»
Il segretario del Pd replica agli attacchi del governatore pugliese. Videomessaggio di Franceschini con riferimento alla Resistenza: «I nostri padri prima liberarono il paese, poi iniziarono il confronto politico».
di Simone Collini


«Io sto fuori al palazzo, non Vendola». Pier Luigi Bersani si aspettava letture “interessate” alla sua proposta di un «patto costituente» a tutte le forze politiche e sociali interessate ad andare «oltre» Berlusconi, prevedeva che qualcuno l’avrebbe ridotta a un’operazione «politicista» per imbarcare Fini e Casini. Ma di fronte all’ennesimo attacco del governatore pugliese («sembra una proposta di annessione del Pd al Terzo polo», dice il leader di Sel), di fronte alla richiesta del capogruppo dell’Idv alla Camera Massimo Donadi di «non cadere nell’errore di abbandonare la costruzione di un’alleanza riformista per inseguire il Terzo polo», il segretario del Pd perde la pazienza. «È ora di finirla con questi giochini», dice ai giornalisti che incontra a Piacenza nel giorno in cui esce il suo colloquio con l’Unità, nel quale spiega la linea che presenterà formalmente al partito alla Direzione di giovedì. «Chi vuol leggere quel che ho detto penso che abbia l’intelligenza per capirle. Io ho messo prima di tutto il tema del progetto, cosa vogliamo fare per questo benedetto paese, non ho parlato né di Vendola né di Casini, questi sono politicismi. Io voglio capire che pensa di fare l’opposizione per questo paese, e il Pd a gennaio presenta il suo progetto. Da quelle proposte cominciamo a discutere le eventuali alleanze, perché è ora di finirla con questi balletti di Palazzo. Io sto fuori dal Palazzo non Vendola».
Bersani è convinto che la sua proposta si chiarirà strada facendo, anche quando si registreranno convergenze con Udc e Fli in Parlamento (una è attesa per il voto sulla proposta di riforma fiscale del Pd, calendarizzata alla Camera), che molti nodi si scioglieranno quando comincerà a incontrare imprenditori, sindacalisti, artigiani, docenti, studenti e tutte quelle categorie che vivono le difficoltà legate a una crisi economica a cui il governo non ha saputo far fronte, quando da gennaio girerà il paese presentando punto per punto la piattaforma programmatica del Pd. Ma ora bisogna mettere un argine alle critiche esterne ed interne al partito (Marino, Parisi, Civati, mentre Veltroni non ha commentato pubblicamente e domani sera riunisce per una discussione gli esponenti di Movimento democratico) a difesa della linea del segretario parlano il presidente Rosy Bindi e il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini. «La proposta di Bersani è un’offerta di collaborazione per il futuro dell’Italia a tutte quelle forze democratiche riformiste che hanno a cuore il futuro del nostro paese», dice Bindi definendo le primarie uno strumento «importantissimo e fondamentale» ma che come ha detto Bersani vanno «regolate e utilizzate politicamente».
VIDEOMESSAGGIO DI FRANCESCHINI
Ma nel giorno in cui Casini ribadisce il suo no grazie («Noi balliamo da soli», dice il leader dell’Udc definendo quelle tracciate da Pd e Pdl «strade già battute che si sono rivelate fallimentari») è soprattutto da Franceschini che arriva una strenua difesa della linea. Se le critiche arrivano soprattutto dai commenti degli internauti, il capogruppo del Pd alla Camera manda online su Youtube un messaggio in cui fa appello alla «vigilanza democratica»: «Di fronte all’esigenza di chiudere la fase del berlusconismo penso si possa fare un tratto di strada anche con i nostri avversari». Franceschini dice che bisogna ragionare come fecero «i nostri padri», che «prima di fare le lotte partigiane, non si domandavano “sei per la monarchia o per la Repubblica”»: «Prima liberarono il Paese e poi iniziarono il confronto politico». Dopo la fine del berlusconismo, aggiunge, «la fase di ricostruzione dovrà essere necessariamente gestita da un arco di forze largo», ci sarà bisogno di «persone che vengono da storie diverse»: «Anche se vincessimo noi le elezioni forse non avremmo da soli le forze per fare quello che serve». Il Pd non sa quale sarà la risposta definitiva delle altre forze politiche alla «proposta di responsabilità». Ma dice Franceschini: «È difficile per Fini, è difficile per Casini, è difficile per Vendola, perché tutti veniamo da storie diverse, ma penso che sia il momento di far prevalere l’interesse generale».

l’Unità 19.12.10
Intervista a Anna Finocchiaro
«Partiamo da noi, senza il Pd né Terzo Polo né sinistra vinceranno»
La presidente dei senatori democratici: basta parlare di primarie e alleanze «Dobbiamo costruire un progetto per l’Italia e su questo avviare il confronto»
di Andrea Carugati


Al Pd propongo una moratoria: basta parlare di primarie e alleanze. Basta essere remissivi: dobbiamo metterci in testa che in Italia una possibilità di superare l’era di Berlusconi esiste solo se si parte dal Pd», dice Anna Finocchiaro, capogruppo Pd in Senato. «Il cuore di qualunque alleanza possibile siamo noi: abbiamo la forza e il radicamento che ci consentono di interloquire con l’Italia, con i lavoratori, gli imprenditori, gli intellettuali, i professionisti. È con loro, e non solo con le forze politiche, che dobbiamo tessere relazioni, e costruire un progetto per l’Italia per i prossimi dieci anni. Sulla base del progetto poi andremo a verificare quali alleati siano in grado di offrire un contributo di progetto ma soprattutto di governo. Se non partiamo da noi, e continuiamo ad affannarci nel ping pong tra più o meno convenienti somme di partiti, non andiamo molto lontano. E rischiamo anche di creare tensioni dentro il Pd». Eppure in questi giorni nel Pd si parla molto di intese col terzo polo. «E infatti serve un radicale cambio di prospettiva: partiamo da noi stessi, senza di noi nessuno va da nessuna parte, né il Terzo polo, né la sinistra. Oggi abbiamo il 25%, se cominciamo subito questo lavoro possiamo arrivare molto più lontano». Ribadisco: il cuore della discussione sono leadership e alleanze... «È un errore: sono temi da affrontare alla fine del percorso che ho indicato, solo allora si vedrà qual è il candidato che meglio incarna il progetto,più affidabile per la maggioranza degli italiani. Il Pd un candidato ce l’ha, ed è Pierluigi Bersani. Non siamo noi a dover entrare in fibrillazione».
Si dice che il Pd voglia archiviare le primarie per paura di Vendola... «Non escludo le primarie. Ma non vorrei che tutto cominciasse e finisse con la somma tra partiti e con il meccanismo delle primarie. Non è un modo adeguato ad affrontare la durezza delle questioni che abbiamo davanti. È possibile che le primarie siano un ostacolo nel costruire un’alleanza con pezzi di Italia che vogliamo associare a una proposta di cambiamento: in quel caso il Pd può anche fare una scelta di responsabilità, e verificare se c’è consenso generale verso un’altra candidatura, come facemmo nel 1995 con Romano Prodi. Ma questo si decide alla fine: il Pd ora deve partire con il suo progetto e il suo candidato che è Bersani». Ritiene possibile un’alleanza che comprenda anche Fini?
«In astratto è inutile ragionare. Voglio sapere cosa significa in concreto su lavoro, sociale, mezzogiorno. Ho sempre considerato Fini un leader che cerca di costruire una destra più moderna e liberale. Non escludo che nel nostro percorso ci possa essere un incontro anche con Fini, magari transitorio. ma solo sulla base delle proposte concrete». Franceschini parla di un’alleanza costituzionale...
«L’idea di Dario di un fronte di resistenza costituzionale che unisca tutte le opposizioni è degnissima, ma credo che sia un ragionamento prematuro. Pensare solo al rapporto tra i partiti è stato un errore, non tiene conto del livello di scollamento che c’è tra partiti e società, dei pezzi di Italia che restano fuori da questo schema».
La sua critica al Pd suona simile a quelle del gruppo di Veltroni. «Non credo che si possa più coltivare la vocazione maggioritaria, ma è chiaro che il Pd deve rimettersi al centro». E i malumori nell’area moderata del Pd? Ci sono rischi di fuoriuscite? «Stiamo diventando ipocondriaci, ci inventiamo mali che non abbiamo, e prendiamo medicine inutili».
Cosa pensa dell’invio degli ispettori ministeriali alla procura di Roma dopo la scarcerazione dei manifestanti? «Non mi piacciono le ispezioni quando si decide della libertà personale, se i magistrati hanno deciso di scarcerare è evidente che non ci fossero gli estremi per trattenerli. E tuttavia credo che si possano adottare misure di prevenzione, come quelle che impediscono agli ultras violenti di andare alle partite. Su questa forma di “Daspo” per i manifestanti violenti io sono d’accordo».

Corriere della Sera 19.12.10
«Nichi pensa solo a se stesso Al Pd serve un nuovo Prodi»
Letta: il terzo polo capirà che deve allearsi con noi
di  Monica Guerzoni


ROMA — «Per vincere serve un nuovo Prodi, non un nuovo Bertinotti» . Onorevole Enrico Letta, perché Vendola non può battere Berlusconi? «La logica di Vendola è autistica. A lui sembra interessare solo avere uno spazio, a prescindere dalle possibilità di vincere. La domanda è, siamo candidati a vincere o a restare all’opposizione?» . E lei pensa di vincere alleandosi con il terzo polo. Ma se Casini e Fini non vi vogliono? «Il tema dell’accordo con il centro per noi è strategico. Con questa legge elettorale non c’è spazio per una terza posizione, se il nuovo polo non viene con noi verrà riassorbito di là, fatalmente. Un terzo polo che va da solo, o una sinistra radicale isolata come quella di Vendola, uscirebbero dalle urne con un diritto di tribuna o poco più» . Ne è sicuro? In Puglia, Vendola ha vinto. «La Puglia non è l’Italia. E ricordiamoci che Berlusconi l’ha battuto solo uno con le caratteristiche a la storia di Romano Prodi» . Ma Vendola si candiderà lo stesso e molti elettori del Pd potrebbero seguirlo. «Le posizioni solitarie non hanno grande spazio. Non può essere lui l’elemento unificante e mi stupisce che non se ne renda conto. Bertinotti non ha mai pensato di fare il leader di tutto il centrosinistra... Va bene che siamo abituati al trasformismo, ma non dimentico che Vendola e Bertinotti hanno tirato giù per due volte i governi Prodi e la prima volta formalmente, votando, insieme a Berlusconi, la sfiducia contro Prodi e Ciampi. Non possono darci lezioni» . Davvero volete rompere? «Gli attuali gruppi dirigenti hanno una responsabilità storica, è l’ultima chance che abbiamo per non essere travolti. Perdere ancora contro Berlusconi vorrebbe dire togliere al Paese l’ultima possibilità di evitare il declino che incombe. I sondaggi, e il buon senso, dicono che il Pd alleato a Di Pietro e Vendola farebbe rivincere il premier, dobbiamo costruire una cosa più larga» . Vi accusano di avere una linea ondivaga e gli elettori sono preoccupati. Che fine ha fatto il Nuovo Ulivo? «Non è incompatibile. Ma nel rapporto con Vendola ci si era infilati in un vicolo cieco e bisognava mettere un punto fermo. La sua agenda, tra Fiom e movimenti antagonisti, è quella di un’opposizione e non di un’alternativa di governo. Dobbiamo dialogare e costruire un’alleanza con lui, ma non può essere il punto unificante» . La sua proposta per le alleanze? «È unita al progetto per il Paese. La proposta la farà Bersani in direzione e sarà aperta a tutti, partendo da un asse col terzo polo che lasci Berlusconi schiacciato con la Lega. Non possiamo regalargli la vittoria come nel ’ 94, quando ci presentammo con tre poli. Sarebbe un suicidio» . Il vostro elettorato vi permetterà di sacrificare le primarie? «Bersani non le ha affossate, sono lo strumento per la selezione delle candidature. Ma nel nostro statuto è scritto che, per la premiership, prima si decide la coalizione e poi il candidato premier» . Quindi è vero: addio primarie. «No, tanto siamo favorevoli a un uso efficace delle primarie che le proporremo per i parlamentari. Non ci vengano a fare la morale. Nessuno, da partiti «personali» quali sono Sel e Idv, può darci lezioni. Se pensiamo di attrarre il terzo polo di qua è perché lo riteniamo indispensabile per vincere, quindi è con loro e con gli altri alleati che sceglieremo il candidato premier. Berlusconi è vivo e vegeto e batterlo sarà difficilissimo, non possiamo fare l’errore di riconsegnargli il terzo polo» . Casini giura che correrà da solo... «Lo spazio per una corsa solitaria del terzo polo è molto esiguo. Da quando hanno lasciato Berlusconi, Casini e Fini hanno fatto scelte coraggiose e coerenti. Certo, per ora si tratta di un cantiere ed è normale che ci siano difficoltà» . Il Vaticano è una di queste? «Come cattolico impegnato in politica, soffro quando sento parlare di pressioni ecclesiali per un rafforzamento di Berlusconi. Non ci credo. Perché il modello di vita di Silvio Berlusconi è l’esatto opposto di ciò che ogni giorno si insegna in ogni oratorio italiano» . Chi è il candidato che può battere Berlusconi? «Dobbiamo individuare insieme una candidatura che sia adatta a smuovere la società italiana e a far ripartire la crescita. Quando penso a un nuovo Prodi, penso a uno che deve immaginare tre missioni. Mettere in campo un pacchetto di proposte per ridare speranza ai giovani su casa, lavoro e famiglia. Riportare al centro l’investimento sul sapere e costruire un fisco che aiuti chi ha voglia di fare» . Bersani ha fatto un passo indietro? «No, Bersani è il nostro candidato naturale. La linea di queste settimane, che tiene i piedi ben piantati nel disagio sociale e guarda a una proposta di alternativa di governo, è un passaggio coraggioso. Ed esercitare la leadership vuol dire anche fare scelte coraggiose che ti portano a subire critiche» . La svolta al centro di Bersani la riconcilia col segretario? «Non c’è stata mai nessuna tensione. La linea del congresso era la costruzione di un Pd che ambisse a governare con alleanze al centro e non di un Pd candidato all’opposizione per sempre. Per battere Berlusconi dovremo fare i salti mortali e non possiamo partire azzoppati. La destra vede come fumo negli occhi un asse tra noi e il terzo polo...» .

Repubblica 19.12.10
Franceschini, confronto online con la base "Fronte di emergenza come i partigiani"
Vendola: Pd arreso ai centristi. Bersani: io fuori dal Palazzo non tu
di g.d.m.


Il segretario: non inseguo Casini, chi definisce la mia proposta politicista non capisce niente
Il capogruppo difende la proposta del segretario con un filmato su Youtube e Facebook
Bindi: la nostra è un´offerta di collaborazione a chi vuole chiudere l´epoca Berlusconi

ROMA - Dario Franceschini sposa la linea indicata da Pier Luigi Bersani nell´intervista a Repubblica. E lo fa con un richiamo storico che gli è caro. «Siamo al livello massimo di emergenza democratica, i rischi sono fortissimi. Prendiamo un insegnamento dal passato: i nostri padri, prima di andare in montagna, fare le lotte partigiane, non si domandavano "sei per la monarchia o per la Repubblica?". Prima liberarono il Paese e poi iniziarono il confronto politico. Dobbiamo ragionare allo stesso modo».
È il ritratto, anche diretto, a una sorta di Cln. Profilo negato dal segretario nel presentare la sua piattaforma democratica. Ma la sostanza è la stessa. Un nuovo patto fondativo, costituente. «Siamo ad un passo dalla fine del sistema di potere di Berlusconi, potevamo già essere in una fase diversa se alcuni deputati, due dell´Idv che hanno tradito il loro mandato perchè avevano firmato la mozione di sfiducia, non sappiamo perchè hanno cambiato idea», dice il capogruppo in un filmato diffuso su Youtube e Facebook per rispondere anche alle critiche online degli elettori. «Ora non dobbiamo rassegnarci, deprimerci, accettare l´idea scema che Berlusconi è invincibile. Anzi, è un politico che ha fallito come leader di governo. Dobbiamo insistere. I momenti più difficili e rischiosi sono quando si avvicina il momento di andarsene a casa. Ci sono i colpi di coda». Il sostegno all´apertura decisa verso il Terzo polo è pieno. L´idea di non escludere anche un´intesa con Vendola e Di Pietro pure, visto che si fa appello al senso di responsabilità di tutti. Però sono parole forti, quelle di Franceschini, ascoltate dall´altra parte del campo. E Sandro Bondi replica parlando di «un impazzimento del Pd. Il riferimento alla Resistenza è il segno emblematico di questa deriva».
Nichi Vendola respinge invece la proposta di Bersani. Difende a spada tratta le primarie e legge nelle parole del leader Pd «una resa a Casini». O peggio: «Quello che propone il Pd - dice al Corriere - mi sembra un´annessione nel Terzo polo». Il popolo del web, in larga maggioranza, condivide i timori del governatore pugliese. Ma a loro e non solo, risponde Bersani. «Chi definisce la mia proposta politicista non ha capito un tubo», spiega all´Unità. «Non inseguo Casini, propongo un patto costituente. E non sto chiuso nel Palazzo. Io sto fuori dal Palazzo, Vendola no». Il segretario definisce anche «balle» le ipotesi di defezioni nel Pd messe in giro dal centrodestra.
La sua intervista continua a dividere il mondo democratico. Per gli ecodem Della Seta e Ferrante una rottura con Vendola «segnerebbe la fine del Pd». I rottamatori mantengono una certa prudenza ma sono critici: «Al leader di Sel stiamo facendo una quantità di cross che non finisce più. Poi il ragazzo è talentuoso, la butta dentro», avverte Pippo Civati. Che ieri però ha mandato un eloquente sms agli amici: «Se Bersani vuole lasciare il Pd noi non lo seguiremo». Altre reazioni sono decisamente positive. «La proposta di Bersani non è politicista, asfittica, chiusa nell´ambito dei partiti - spiega Stefano Fassina -. Serve al Paese». Il segretario regionale Giuseppe Lupo parla di «progetto che semmai esce dal politichese e indica una prospettiva. E sarà il Pd a mostrare al Paese la sua proposta». Rosy Bindi sottolinea il senso della linea indicata da Bersani: «È un´offerta di collaborazione a tutte le forze che non vogliono solo chiudere l´epoca di Berlusconi. Vogliono molto di più: rilanciare il futuro dell´Italia».

Repubblica 19.12.10
Un comitato di liberazione nazionale per sconfiggere il Cavaliere
di Carlo Galli


Il primo risultato del voto di fiducia a favore del governo è che quando si andrà alle elezioni – anticipate o meno che siano – a Palazzo Chigi ci sarà Berlusconi, e si voterà con questa legge elettorale. Che era appunto il principale obiettivo del premier, dimostratosi ancora una volta un duro e spregiudicato combattente. Ma il secondo risultato è che i suoi margini di maggioranza, e quindi di manovra, si sono paurosamente assottigliati a tre deputati (forse dieci, se i suoi ultimi proclami di vittoria si riveleranno fondati), mentre, specularmente, l´opposizione, pur restando minoranza, si è molto rafforzata. Non solo nei numeri, ma anche nella qualità. Il Terzo Polo, infatti – la convergenza tra Fini, Casini, Rutelli – può introdurre grossi elementi di novità nella dinamica politica. Prima di tutto per il suo potere di coalizione – la capacità di allearsi sia con la destra sia con la sinistra, che è propria di tutti i Centri – ; e poi perché questo è, in una prima fase, limitato. La violenza del conflitto tra Fini e Berlusconi, non rende infatti immediatamente verosimile una loro collaborazione di governo. Il Terzo Polo, almeno in una prima fase, dovrà correre da solo, o avere come unico possibile alleato il centrosinistra.
Se seguisse la sua vocazione e si presentasse in piena autonomia agli elettori, e ottenesse un accettabile successo – la quantificazione è ora del tutto prematura, ma dovrebbe collocarsi verso il 15%, o almeno con grande margine sopra il 10 – , vorrebbe dire che avrebbe intercettato un settore di elettorato moderato ma non reazionario, stanco dell´inconcludenza di Berlusconi e di Bossi, e dello sfascio sociale e istituzionale prodotto dalla destra al governo. Anche solo per questa via la presenza del Terzo Polo alle elezioni potrebbe far perdere alla destra la maggioranza al Senato. Naturalmente, contro questa ipotesi le armi di Berlusconi sono le solite: per impedire il formarsi di quel clima di normalità che rende possibile l´emergere anche di un´opinione moderata, cercherà di esasperare i toni della campagna elettorale, di trasformarla in uno scontro di civiltà per la difesa della libertà, e insomma di accentuare la polarizzazione dell´elettorato. Fra i dogmi berlusconiani c´è la convinzione che l´Italia sia un Paese strutturalmente di destra, e che sia sufficiente alzare la voce per fare emergere questa verità. Il che, finora, gli è riuscito.
Ma la legge elettorale vigente vuole che alla Camera si corra per vincere, e quindi per accaparrarsi il premio di maggioranza su scala nazionale. E qui l´alleanza del Terzo Polo con il centrosinistra si rende necessaria. Si tratta di capire se è anche possibile politicamente. A questo riguardo, un importante effetto del Terzo Polo è appunto di rendere Fini – proprio in quanto federato con Casini e Rutelli – una risorsa spendibile anche in un patto elettorale con il Pd, al quale un´alleanza solo con il leader di Fli avrebbe potuto creare non pochi problemi. Naturalmente, il Pd dovrebbe chiarire che con il Terzo Polo si tratta di stipulare un patto di carattere emergenziale, dettato non solo dalla legge elettorale ma anche e soprattutto dall´esigenza di mettere in sicurezza la democrazia in Italia con una legislatura costituente, capace di riformare profondamente la scuola, il lavoro, la pubblica amministrazione, per dare respiro e prospettive ai giovani – oggi disperati – e alle famiglie, ormai allo stremo. E anche per modificare, naturalmente, la legge elettorale, proprio per consentire, dopo l´emergenza, una più libera e normale espressione delle forze e delle dialettiche che appartengono alla storia d´Italia.
Questa prospettiva politica, per reggersi davanti agli elettorati di centrodestra e di centrosinistra che la dovrebbero avallare e premiare, deve essere animata da fortissima carica riformista, da potente afflato etico, da spiccato spirito repubblicano; e presentarsi come un nuovo Cln, come l´ultima spiaggia della salvezza nazionale. Ma può incontrare due difficoltà. La prima è data dall´evidente sua vulnerabilità da parte di coloro che, a sinistra – da Vendola a Di Pietro – , vi si sottraessero e, tenendo le mani libere, denunciassero il compromesso tra i due Poli come innaturale e sterile, come una cinica alleanza di potere, come un tradimento del bipolarismo e, ben più importante, delle stesse ragioni della esistenza di una sinistra. Un´obiezione che sarà opportuno il Pd tenga ben presente, se non altro per elaborare un´adeguata e credibile narrazione legittimante. La seconda difficoltà sta, ovviamente, nella contro-strategia di Berlusconi – che potrebbe avere come alleate le gerarchie ecclesiastiche – di garantire una governabilità di lungo periodo riunendo i moderati (com´egli dice) in un nuovo partito Popolare, e portando Casini nell´area di governo (la Lega non fa più obiezioni) magari per garantirgli il premierato, quando il Cavaliere si farà eleggere al Quirinale. Sarebbe la fine del Terzo Polo, e la sconfitta radicale per Fini (oltre che l´inizio di un indispensabile ripensamento profondo della linea del Pd). C´è da scommettere che, nonostante le sue ultime affermazioni, se questa iniziativa verso Casini fallisse Berlusconi preferirebbe le elezioni anticipate – la seduzione in massa del popolo italiano – all´unica alternativa che gli rimarrebbe, se il Terzo Polo avesse invece successo: l´acquisto alla spicciolata di qualche deputato.

l’Unità 19.12.10
Il sangue e il fango
di Giovanni Maria Bellu


Se la cosa fosse rimasta circoscritta a Ignazio la Russa forse non ci sarebbe stato da preoccuparsi. Il nostro Paese non possiede armi atomiche e quindi può anche permettersi un ministro della Difesa che esce fuori dai gangheri con la facilità di quelle che lui chiama “femminucce”, parla del suo mediocre passato neofascista come nemmeno un reduce della battaglia delle Termopili e protetto dall’immunità parlamentare, dalla scorta, dall’esercito e anche dall’aviazione grida con gli occhi fuori dalle orbite e la bava alla bocca “vigliacco” a un inerme studente che sì, in modo un po’ confuso parlava in un talk show di una manifestazione di piazza.
E pure quando questa furia ha contagiato un altro ministro Angelino Alfano si potevano ancora trovare ragioni per stare tranquilli. Tutto sommato quando il Guardacavilli ha reagito a una decisione della magistratura la scarcerazione degli studenti inviando i suoi ispettori al Palazzo di giustizia di Roma non ha fatto altro che confermare al suo padrone d’essere capace di qualunque incoerenza pur di affermare il sacro principio della disuguaglianza dei cittadini di Berlusconia davanti alla legge. Forte coi deboli, debole coi forti: il dipendente ideale di Silvio Berlusconi.
Ma se anche Roberto Maroni testa pensante della Lega Nord, ministro apprezzato, uomo equilibrato con un passato di sinistra, addirittura a quattro giorni da una delle giornate più delicate per l’ordine pubblico degli ultimi trent’anni comincia a sparare spropositi che hanno l’unico effetto di alimentare la tensione e di dare argomenti alle teste calde e ai provocatori di professione, allora c’è qualcosa che non va. Qualcosa di cui preoccuparsi davvero. Quando poi a seguirlo è nientemeno che il primo cittadino della città dove quella giornata si svolgerà, Gianni Alemanno, uno che di disordini di piazza se ne intende, è obbligatorio chiedersi cosa stia accadendo e parlare chiaro prima che sia troppo tardi.
Riassumiamo. Il ministro della Difesa insulta gli studenti, quello della Giustizia vorrebbe che restassero in galera, quello dell’Interno propone di estendere alle manifestazioni di piazza il provvedimento di interdizione che si applica negli stadi e il sindaco di Roma si sveglia di soprassalto dagli incubi di Parentopoli e annuncia «il rafforzamento della zona rossa». È un piano governativo per alimentare la tensione? È la convergenza casuale verso lo stesso risultato di autonome bislacche iniziative? È un mix delle due cose? Chissà. Staremo a vedere.
Ma certo è molto strano. E farebbero bene a porsi qualche interrogativo in proposito anche i manifestanti. In particolare quelli che faticano tanto a dissociarsi dalla violenza in base all’incredibile idea secondo la quale dissociarsi dalla violenza sarebbe un modo di negare le ragioni del malessere, la disperazione di una generazione, la fondatezza dei motivi di una protesta. Nella storia del nostro Paese ci sono già stati dei momenti nei quali il sangue sull’asfalto è servito a nascondere il fango dei palazzi. Facciamo di tutto, impegniamoci tutti, perché non si ripetano.

l’Unità 19.12.10
Il ministro degli Interni vuole allargare agli studenti lo strumento utilizzato per gli stadi
Dubbi di costituzionalità L’esecutivo vuole scavalcare la magistratura e alza la tensione
Maroni: Daspo a chi protesta Il governo fa la faccia feroce
Governo e maggioranza ignorano le proteste studentesche e alla vigilia della settimana decisiva per l’approvazione della riforma Gelmini scelgono la solita via per affrontare le tensioni: quella dell’ordine pubblico.
di Massimo Solani


Quando venerdì il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano aveva proposto l'estensione del Daspo, il divieto di assistere agli eventi sportivi introdotto per combattere la violenza negli stadi, alle manifestazioni di piazza, in pochi l’avevano preso sul serio. Fra quei pochi, evidentemente, anche il ministro Maroni che ieri ha rilanciato l’idea. Senza stare troppo a sottilizzare sulle implicazioni di tipo costituzionale di una simile misura. «Mi sembra una proposta interessante ha spiegato il ministro Riteniamo che questo modello sia esportabile. C’è la possibilità di inserirlo già nel ddl sicurezza».
Sulla scia degli incidenti di Roma del 14 dicembre e con le polemiche ancora fresche fra maggioranza e magistratura sulle scarcerazioni dei giovani fermati nella Capitale, quindi, il governo decide di mostrare il pugno duro alla vigilia di una settimana “calda” che vedrà ancora in strada gli studenti a protestare contro l’approvazione della riforma universitaria, da domani al Senato per l’ok definitivo. Del resto le preoccupazioni della maggioranza sono ben chiare, e lo stesso presidente del Senato Renato Schifani ieri ha ripetuto che «l’eccesso dell’uso della piazza come luogo di violenza, la conflittualità politica che scivola spesso in denigrazione e la violenza verbale non fanno che mettere a repentaglio il principio inviolabile della coesione sociale, del rispetto delle regole della nostra democrazia».
Così il governo, anziché scegliere il dialogo per disinnescare lo scontro, sceglie la via del muro contro muro. Scavalcando così anche il fastidioso “impiccio” di quei magistrati che, codice alla mano, hanno rimesso in libertà gli studenti fermati nel corso degli incidenti. «La risposta giudiziaria è stata molto deludente sotto questo fronte commentava infatti ieri Mantovano per questo credo che si sia legittimati a un intervento sul piano della prevenzione che permetta di tenere lontani dai luoghi delle manifestazioni questi soggetti». Del resto che il governo abbia vissuto come un vero affronto le decisioni del tribunale di Roma era già abbondantemente chiaro dopo l’iniziativa del Guardasigilli Alfano di inviare gli ispettori ministeriali a Piazzale Clodio. «Una iniziativa sorprendente» è stata la risposta di Magistratura Democratica, la corrente progressista delle toghe. «Preoccupa inoltre hanno scritto in una nota il segretario Piergiorgio Morosini e il presidente Luigi Marini il tenore di certe dichiarazioni di esponenti politici che paiono voler incidere sul sereno svolgimento dell’attività di quei giudici chiamati ad individuare responsabilità penali di natura personale».
Chi sembra entusiasta della proposta di Alfredo Mantovano, rilanciata dal ministro Maroni, è il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «Mi sembra una idea valida ha spiegato ieri può aiutare a isolare i violenti senza costringere la magistratura ad eccedere in misure cautelari». Anche il primo cittadino di Roma, così, si aggiunge alla schiera di coloro che soffiano sul fuoco innalzando l’asticella della tensione quando si lascia andare a previsioni catastrofiste spiegando che «da lunedì a mercoledì saranno giornate critiche durante le quali si potrebbero riproporre immagini simili a quelle del corteo di martedì scorso». E la soluzione proposta da Alemanno, è ancora una volta la stessa: «saranno predisposte tutte le misure di ordine pubblico necessarie per tenere lontane dal centro le manifestazioni. Il centro storico conclude era già zona rossa e lo diventerà ancor di più, con la massima mobilitazione delle forze dell’ordine».

Repubblica 19.12.10
Coro di no alla proposta: "In nome della sicurezza non si possono espropriare i diritti fondamentali"
"Le piazze non sono come gli stadi" i costituzionalisti bocciano il governo
"La limitazione della libertà personale spetta alla magistratura e non ai questori"
di Vladimiro Polchi


ROMA - «In nome della sicurezza non si possono espropriare i diritti fondamentali». I costituzionalisti lanciano l´allarme e bocciano l´estensione del Daspo alle manifestazioni di piazza: «Il rischio è di violare le libertà costituzionali».
Il divieto di assistere a spettacoli sportivi è una misura restrittiva della libertà personale, disposta dall´autorità di pubblica sicurezza (il questore) nei confronti di una persona ritenuta pericolosa. È una misura di prevenzione - che prescinde cioè dalla commissione di un reato - giudicata legittima dalla Consulta con la sentenza 512 del 2002. Qual è allora il problema?
«Una cosa è comprimere il diritto di tifare Lazio, un´altra limitare il diritto di manifestare contro una riforma universitaria - risponde Michele Ainis, costituzionalista a Roma Tre - in questo secondo caso, infatti, c´è una tutela costituzionale rafforzata, perché esistono diritti funzionali ad altri». Tradotto: «La democrazia non si limita al voto e se prima delle elezioni non potessi manifestare la mia opinione, verrebbe aggredito un bene costituzionale di valore ben superiore al tifo calcistico». Per questo «i beni costituzionali vanno bilanciati e in nome della sicurezza, o della paranoia della sicurezza, non si possono certo espropriare i diritti».
Sulla stessa linea, il ragionamento di Stefano Merlini, costituzionalista a Firenze: «In base all´articolo 17 della Costituzione, le riunioni in luogo pubblico possono vietarsi "solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica". Il divieto vale dunque per tutti ed è esclusa la possibilità di impedire a un singolo cittadino di partecipare a riunioni non vietate. Non solo. Sulle misure di prevenzione si discute ormai da anni. Limitare la libertà personale con pronuncia dell´autorità di pubblica sicurezza, e non del giudice, è già al limite della costituzionalità nell´ambito sportivo; se esteso alla piazza travolgerebbe tutto il sistema delle libertà costituzionali, violerebbe la riserva di giurisdizione indicata dall´articolo 13 della Costituzione e rischierebbe di riportarci a una situazione simile a quella originaria del Testo unico di pubblica sicurezza, così come varato in epoca fascista».
Contro il rischio di generalizzare una misura eccezionale si schiera anche Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma: «Con una reazione emotiva e poco razionale agli avvenimenti complessi degli ultimi giorni - sostiene il giurista - il governo ancora una volta si contrappone all´autonomia e al ruolo della magistratura, alla quale sola spetta il potere di limitare la libertà di circolazione». E ancora: «Tutto questo è segnale di una cultura di governo più attenta alle questioni d´ordine pubblico, che alle garanzie di libertà dei cittadini, col rischio concreto di disattendere il chiaro quadro costituzionale improntato al garantismo».
Alla cautela invita Federico Sorrentino, docente di diritto costituzionale a Roma, «perché - premette - vanno comprese le legittime esigenze della sicurezza pubblica». Ma non per questo il giurista nasconde la sua «perplessità su una misura grave e di dubbia conformità al quadro costituzionale». L´estensione del Daspo al di là del ristretto ambito sportivo, infatti, «non incide tanto sull´articolo 21 della Costituzione relativo alla libertà di manifestazione del pensiero, quanto principalmente sull´articolo 17 che prevede la possibilità di vietare le riunioni per motivi di sicurezza, ma mai fa riferimento al singolo manifestante».

l’Unità 19.12.10
«Vogliono inchiodarci alla logica della violenza. Li spiazzeremo ancora»
Tra gli studenti che preparano le nuove manifestazioni «Non siamo soltanto un problema di ordine pubblico»
di Toni Jop


Spiazzeremo ancora, così come abbiamo sempre fatto, loro, Maroni e Alemanno, seguono schemi fissi, il movimento no, garantito». Francesco, dottorando in Scienze Politiche, promette sorprese per il 22 dicembre. La strategia non è ancora stata messa a punto, le assemblee hanno ruminato riflessioni su quel che è accaduto il 14 dicembre quando le immagini delle auto date alle fiamme e i pestaggi ai danni di alcuni agenti hanno scippato titoli e soggettività a una manifestazione di decine di migliaia di ragazzi che lottavano e lottano perché non passi il ddl Gelmini. Alemanno ieri parlava di zona rossa, Mantovano suggeriva misure restrittive incostituzionali per mettere alla gogna il movimento, la tensione sale, si criminalizza la piazza a pochi giorni di distanza dalla prossima prova di forza per impedire ciò che, secondo i militanti dei collettivi, non verrà impedito, e cioè l’approvazione della distruzione dell’università pubblica da parte di questo governo di destra.
Dice Francesca, ventiquattro anni, facoltà di Lettere della Sapienza: «Stanno cercando di trasformare il dissenso in una questione di ordine pubblico, serve per stornare l’attenzione dal loro fallimento politico e sociale». Sì, ma auto e bancomat dati alle fiamme, poliziotti picchiati mentre sono a terra o alla guida di un automezzo cos'hanno a che vedere con i vostri obiettivi politici? «Vede – risponde quel che è successo il 14 non ce lo aspettavamo, io non me lo aspettavo. Ho provato a spiegarmelo tenendo a mente un contesto atroce: la notizia della fiducia al governo conquistata a quel modo è stata una bomba, la manifestazione in quel momento è cambiata. E guardi che io e tantissimi altri come me di fronte a quella violenza siamo rimasti sbigottiti, ma eravamo noi, era la nostra rabbia. Eppure non ho nulla a che vedere con i pestaggi o con gli incendi. Ho visto persone insospettabili ma che conosco applaudire la camionetta in fiamme. Ma è pratica, la violenza, che non ci appartiene, non è roba nostra, anzi. E non credo che il 22 assisteremo a qualcosa di simile, lo spero con tutto il cuore, chiuderemo gli spazi a pratiche che non condividiamo».
«La violenza del 14? Solo atti marginali – sostiene Alessia 23 anni, dei collettivi di Fisica della Sapienza frutto di una rabbia troppo a lungo accumulata, ma abbiamo dimostrato di saper stare in piazza in modo pacifico anche se per due anni non siamo stati ascoltati». Ma non è vero, come si fa a considerare nulla il credito del movimento e il rispetto politico e sociale, e la stessa fatica con cui il governo sta arrivando al voto sul ddl? Merito del movimento, ma non ne tengono conto... «Non voglio dar fuoco e nessun bancomat, se è questo che vi interessa, anche se non mi sento di condannare un abitante di Terzigno se esasperato ha acceso quelle fiamme. Sì, cercheremo di riportare le cose alla dimensione di lotta che ci compete, la nostra».
«Bella cultura questo governo – questo è Francesco, il dottorando – inquadra il movimento, la piazza, il dissenso, il conflitto come inquadra uno stadio di calcio. Roma città aperta, non fosse tragico, farebbe ridere». D’accordo, ma il 22 che accadrà, c’è una parte grande ed empatica del Paese angosciata al pensiero che il Movimento cada nella trappola del potere... «Vorrei smentire questa angoscia, torneremo in piazza adottando modalità opportune e intelligenti, non saremo dove ci aspettano, riflettiamo su questa nostra forza collettiva, non si temano escalation, pratichiamo conflittualità, non violenza anche se non ci infossiamo in un dibattito sulla dicotomia tra violenza e non violenza». Chiamala dicotomia: la non violenza è un punto politico forte, anzi è la forza, anche di questo movimento.

Repubblica 19.12.10
"Non siamo ultras, così violate i nostri diritti"
Rabbia per la stretta del governo. Ma gli studenti avvertono: niente violenza, vi sorprenderemo
di Corrado Zunino


"Ogni inasprimento dell´ordine pubblico conferma che hanno paura della protesta"
"Ci mobiliteremo e le forze dell´ordine non ci troveranno dove ci stanno aspettando"

ROMA - È il governo ad alzare le barricate, questa volta. E loro, quelli del movimento studentesco, questa volta eviteranno lo scontro: "Li sorprenderemo". L´esecutivo si appresta a battezzare il Daspo per gli studenti che restano impigliati nei fermi della celere: universitari come gli ultras. E il ministro Roberto Maroni per martedì prossimo prospetta la fortificazione dell´area della "zona rossa" attorno ai palazzi della politica. Martedì, infatti, torna al Senato per la sua approvazione definitiva la riforma dell´Università: mercoledì dovrebbe essere licenziata grazie alla blindatura del governo sugli emendamenti e con i voti favorevoli dei finiani. Per due giorni e per la terza volta in poche settimane il centro storico di Roma sarà interdetto agli studenti in corteo con i blindati messi di traverso alle strade d´accesso.
«Ogni atto del governo, ogni successivo inasprimento dell´ordine pubblico, dimostrano che hanno paura della nostra protesta», dice Francesco Brancaccio, dottorando in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. «Una zona rossa sempre più blindata offende l´idea di una Roma città aperta, idea che dovrebbe essere di tutte le forze politiche. Il Daspo è una limitazione della libertà di manifestare e per noi è incostituzionale. Ridurre un fenomeno politico e sociale a un problema di ordine pubblico è la peggiore delle risposte possibili». Quindi, manifesterete o no? «Siamo un movimento intelligente, che sa spiazzare. Da domani torniamo a discutere nelle facoltà, ma è già chiaro a tutti: ci mobiliteremo e la polizia non ci troverà dove ci sta aspettando. Non cadremo nelle trappole che vogliono tenderci». Gli ultimi due "mob" dell´anno saranno quindi a sorpresa e terranno conto del fatto che molti universitari stanno già lasciando le facoltà per i rientri natalizi.
All´Università orientale di Napoli domani ci sarà un incontro con gli studenti di Londra e Atene per sottolineare come l´allargamento in tutta Europa di moti violenti sia il segnale di "una crisi sociale a cui i governi voltano le spalle". Giovanni Pagano, Scienze politiche a Napoli: «Il diritto a manifestare non è paragonabile a una partita e gli studenti, dopo la giornata del 14 con tutti i suoi problemi, sono più motivati di prima. Piazza del Popolo ci ha cambiati, ma non ci ha frenato». A Napoli sono ripartite le occupazioni delle scuole superiori e mercoledì è previsto un corteo cittadino. «C´è voglia di tornare in piazza, non c´è l´ansia. Lo faremo in modo ironico». Alla Sapienza romana domani ci saranno riunioni nelle singole facoltà, e poi dell´intero ateneo, per preparare il martedì della protesta. Luca Cafagna, Scienze politiche: «Viviamo questi nuovi provvedimenti come una provocazione, una richiesta di scontro frontale, e non ci scontreremo. Continuare ad evocare lo spettro della violenza degli Anni Settanta è un ottimo modo per non capire che gli studenti hanno grossi problemi oggi. Noi non facciamo ideologia, il governo sì».
L´opposizione alla "Gelmini" avrà tempi lunghi e il movimento si prepara a una fase di interdizione sostanziale nei confronti del decreto nel momento in cui diventerà legge. «È un provvedimento tecnicamente difficile, con una pletora di decreti attuativi che impegneranno nel tempo il governo e i tecnici del ministero. Noi daremo battaglia su ogni punto». Dalla scuola secondaria arriva l´esempio delle difficoltà concrete che le riforme Gelmini stanno incontrando. I sindacati segnalano che a Torino ottanta scuole fin qui non hanno accettato la sperimentazione che dovrebbe portare alla scelta dei professori da premiare: il "no", in questo caso, è stato dei docenti. «Il campo di battaglia è ampio», assicurano gli universitari. Quelli del Mamiani, liceo di Roma, ieri hanno consegnato occhiali di cartone ai giornalisti, miopi nelle interpretazioni degli scontri di Piazza del Popolo: «In troppi hanno visto black bloc che non c´erano».

il Fatto 19.12.10
Aggrediva i poliziotti oggi fa il ministro di polizia
Maroni ha una condanna definitiva, per resistenza a pubblico ufficiale
di Gianni Barbacetto


C’è un filo d’autolesionismo, nelle ultime scelte di Roberto Maroni, leghista doc e ministro dell’Interno. Sdegnato per le violenze degli studenti contro la polizia durante la manifestazione del 14 dicembre, indignato per le scarcerazioni dei ragazzi fermati quel giorno, oggi chiede che i violenti siano tenuti in carcere. A dargli retta, si otterrebbe un risultato curioso: in carcere dovrebbe finire, e restarci, lui stesso. Per via delle violenze esercitate nei confronti dei poliziotti un pomeriggio del 1996.
ERA IL 18 SETTEMBRE e Bobo Maroni era davanti alla sede della Lega Nord in via Belle-rio, a Milano. Alle 7 del mattino la polizia si era presentata a perquisire, a Verona, uffici e abitazioni di Corinto Marchini, il capo delle “camicie verdi”, e di due leghisti a lui vicini, Enzo Flego e Sandrino Speri. Gli agenti erano stati mandati da Guido Papalia, procuratore della Repubblica di Verona, che stava indagando sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere “un’organizzazione paramilitare tesa ad attentare all’unità dello Stato”. Marchini aveva un ufficio anche in via Belle-rio, a Milano. Così due pattuglie della Digos veronese arrivano alle 11 alla sede della Lega e tentano di entrare. Invano: i militanti leghisti impediscono l’accesso. Tornano il pomeriggio, con un provvedimento integrativo di perquisizione. Riescono a fatica a entrare nell’androne, ma lì sono fermati da un cordone di leghisti, tra cui Maroni, che impedisce l’accesso alla scala. Spintoni, parapiglia. Alla fine i poliziotti sfondano e riescono a salire. Ma Bobo, che in gioventù era stato militante di Democrazia proletaria, non de-morde: “Il primo vero e proprio episodio di violenza”, annotano le cronache, “è compiuto da Maroni che tenta di impedire la salita della rampa di scale, bloccando per le gambe gli ispettori Mastrostefano e Amadu”. I due si divincolano e salgono, con tutti i loro colleghi. Ma la squadra Maroni non si ferma: insegue gli agenti, li copre d’insulti, tenta di bloccarli con la forza. I cori ingiuriosi sono diretti da Mario Borghezio , mentre “numerosi atti di aggressione fisica e verbale nei confronti dei pubblici ufficiali” sono compiuti da Maroni, ma anche da Umberto Bossi e Roberto Calderoli: “Episodi tutti documentati dai filmati televisivi”. Con fatica, gli agenti arrivano davanti all’ufficio di Marchini che devono perquisire. Lo trovano sbarrato. Sulla porta, un biglietto scritto a macchina: “Segreteria politica Ufficio on.le Maroni”. La porta è sfondata. “Operazione che tuttavia era ostacolata violentemente” da Maroni, Bossi, Borghezio, Calderoli e altri, “che aggredivano principalmente il dottor Pallauro e l’ispettore Amadu, il quale veniva stretto fra gli imputati Maroni, Martinelli e Bossi, che lo afferrava dal davanti, mentre il Martinelli lo prendeva alla spalle”. La guerriglia finisce con un malore : Maroni “viene disteso a terra dall’agente Nuvolone, per poi essere avviato al pronto soccorso, ove gli venivano riscontrate lesioni per le quali sporgeva querela”.
FIN QUI la cronaca delle violenze contro la polizia del 18 settembre 1996. Segue inchiesta e processo penale per resistenza a pubblico ufficiale. Il deputato Maroni nel processo mente: sostiene, come un black-bloc qualunque, di essere stato aggredito dai poliziotti. Ma in dibattimento viene dimostrata “la non veridicità dell’assunto del Maroni”, poiché è “documentato che nell’ascesa della rampa delle scale, trovandosi a terra, e non per le percosse ricevute, tratteneva con la forza gli operanti afferrando la caviglia dell’ispettore Mastrostefano e poi le gambe dell’ispettore Amadu”. E lo svenimento finale? Per i giudici è provato che Maroni “era caduto in terra per un improvviso malore, nella fase finale dell’accesso degli operanti nella stanza da perquisire, circostanza attendibilmente confermata dal teste Nuvoloni della Polizia, che lo aveva soccorso, e forse colpito anche involontariamente, in tale posizione, nella ressa creatasi sul luogo, o già raggiunto, presumibilmente, da spinte nel corso della vicenda che vedeva un accalcarsi incontrollato di persone, compresi giornalisti e simpatizzanti della Lega Nord”.
DRAMMATICO ed esilarante insieme. Comunque, “la resistenza” di Maroni e degli altri leghisti “non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto ad opera dei pubblici ufficiali”, i quali “erano comunque tenuti a portare a compimento l’ordine loro impartito”. Così le azioni violente compiute da Bobo sono state ritenute, si legge nella sentenza della Cassazione, “inspiegabili episodi di resistenza attiva, e proprio per questo del tutto ingiustificabili”. Condanna in primo grado a 8 mesi. In appello a 4 mesi e 20 giorni, perché nel frattempo era stato abrogato il reato di oltraggio. La Cassazione conferma, commutando la condanna in una pena pecuniaria di 5.320 euro. Forse Bobo, prima di pontificare sugli scontri di Roma, dovrebbe rileggere gli atti processuali e ripensare ai suoi comportamenti guerriglieri.
Ad “Annozero” il ministro La Russa ha attaccato pesantemente le manifestazioni di Roma. E in studio gli studenti non hanno preso le distanze dalle violenze. Cosa ne pensate? Sul nostro sito già più di 3000 commenti. Scrive Sergio: “Sono stati commessi atti incresciosi ma proprio per questo un governo capace e intenzionato a governare dovrebbe ascoltare con molta attenzione”.

il Fatto 19.12.10
Alemanno-molotov e quegli 8 mesi in carcere
di Stefano Caselli


Che Gianni Alemanno protesti contro la scarcerazione di tutti i fermati durante i disordini di Roma del 14 dicembre è comprensibile. È pur sempre il sindaco della città, e quei venti milioni di danni sono difficili da digerire. Lui nel 1990, quando ai margini della “Pantera” prendeva parte da destra alla protesta studentesca contro la riforma Ruberti, si limitava a tuonare contro “il portato tecnocratico e privatizzante della riforma sull’autonomia universitaria, che favorisce l’omologazione dei nostri atenei ai modelli economicistici pienamente funzionali al sistema neocapitalistico”. Ma forse – chissà – gli saranno tornati in mente anni più lontani, quando uscire di galera non era mica così facile. Nel maggio 1988 Alemanno fu eletto segretario nazionale del Fronte della Gioventù e ai cronisti tornarono subito in mente quegli otto mesi di carcere che il trentenne futuro sindaco di Roma si fece quando di anni ne aveva soltanto ventitré. Correva l’anno 1982, il Muro di Berlino era ancora ben saldo e l’allora giovane militante del Msi, avuta notizia del colpo di Stato del generale Jaruzelski in Polonia, espresse tutta la sua indignazione lanciando una molotov contro l’ambasciata dell’Unione Sovietica a Roma. Sarà poi prosciolto, ma a nessun magistrato venne in mente di scarcerarlo immediatamente; forse per via di quel precedente dell’anno prima. Il 21 novembre 1981 Alemanno fu bloccato da due carabinieri di fronte al bar “La Gazzella” nel rione Castro Pretorio, assieme all’allora segretario del Fronte della Gioventù di via Sommacampagna Sergio Mariani, per aver partecipato all’aggressione dello studente Dario D’Andrea di 23 anni. Il gruppo di missini, giunto al bar con l’intento di aggredire D’Andrea, a causa della presenza dei militari, dovette accontentarsi di lanciare al suo indirizzo, colpendolo, una pesante spranga di ferro. Alemanno non riuscì a dileguarsi e finì dentro, rischiando l’imputazione di tentato omicidio. Incidenti di gioventù, figli di un’epoca in cui la violenza politica era pane quotidiano per una buona fetta di quella generazione. Forse il sindaco ha a cuore che i giovani d’oggi non ripetano gli stessi errori. In fondo fu lui stesso, nel 1988, a dichiarare di aver imparato dal carcere “che la violenza deve essere assolutamente rigettata come mezzo di azione politica”. Rinunciare alla violenza sicuramente, evitare di scontrarsi con le oggi tanto amate forze dell’ordine, forse. Il 29 maggio 1989 Alemanno ci ricasca: assieme ad altri dodici militanti viene arrestato con l’accusa di “resistenza aggravata a pubblico ufficiale, manifestazione non autorizzata, e tentativo di blocco di corteo ufficiale”. A Nettuno, infatti, è atteso il presidente degli Stati Uniti George Bush e al trentunenne segretario del Fronte della Gioventù, con il Muro di Berlino ancora in piedi seppur scricchiolante, gli Stati Uniti non vanno molto a genio. I giovani missini intendono impedire che il corteo presidenziale raggiunga il cimitero americano di Nettuno, visita ritenuta offensiva “alla memoria di migliaia di caduti che si sono battuti per la dignità della patria, mentre altri pensavano solo a guadagnarsi i favori dei vincitori”. I cittadini di Nettuno, che attendono con ansia il presidente Usa, non la prendono granché bene, ma a disperdere i manifestanti ci pensano polizia e carabinieri. Questa volta Alemanno viene scarcerato dopo poche ore, non senza che l’organizzazione giovanile missina critichi con durezza l’operato delle forze dell’ordine, colpevoli di aver “aggredito brutalmente i manifestanti, colpendoli con calci e pugni, con la bandoliera usata come frusta fino a colpire alcuni giovani con le radio in dotazione”. Il giorno dopo, a Milano, si tiene un comizio in piazza Oberdan per esprimere solidarietà ai tredici camerati arrestati. Tra i relatori c’è il segretario regionale del Msi, Ignazio La Russa.

l’Unità 19.12.10
Intervista a Marco Revelli
«Una generazione a futuro zero, è questo il dramma dei giovani»
Lo storico: la piazza di Roma era molto diversa da quella di Genova, senza simboli. Per la violenza provo angoscia pensando che tutti possano farsi del male, non fisicamente, non individualmente, ma collettivamente
intervista di Oreste Pivetta


Che Italia sarà domani? Non contiamo i voti e non contiamo neppure gli equilibri politici e l’efficacia delle strategie. Quanto è accaduto a Roma solo martedì scorso è stata una specie di rappresentazione simbolica del paese: un paese diviso tra le astrazioni della politica e la concretezza delle vite quotidiane, le vite di giovani, di disoccupati, di precari, di cassa integrati, di terremotati, di “consumatori” obbligati di miasmi da discarica, testimoni per forza del dissesto ambientale.
Ne parliamo con Marco Revelli, ex giovane del Sessantotto, professore universitario, storico, presidente fino a quest’anno della Commissione di indagine sui temi della povertà (che fu istituita nel 1984), autore di un libro recente che si intitola Poveri, noi (Einaudi). Marco Revelli, molti si sono indignati di fronte al fumo e al fuoco di Roma, come se si fossero trovati all’improvviso alle prese con manifestazioni di rabbia e di follia impensabili, ingiustificate o addirittura artefatte, organizzate, ispirate da un oscuro disegno antigovernativo, incomprensibili in un paese ben diretto e per questo baciato dalla fortuna e dal benessere: la versione ricorrente è che la crisi che ha messo in ginocchio tutti gli altri noi l’avremmo appena intravista... «Sì, ci raccontano che l’impatto della crisi è stato per noi meno duro. Nessuno spiega come in questa crisi, nel 2008, siamo entrati in una situazione di estrema fragilità sociale, perché è da quindici anni che vediamo la nostra economia in discesa e già nel 2007 tutti gli indicatori sociali ci collocavano in ribasso, in fondo tra i paesi europei (quelli dell’Europa allargata, con gli ultimi arrivati, dalla Polonia all’Ungheria che via via guadagnavano posizioni nei nostri confronti). Lo dice Eurostat, ad esempio, alla luce di un semplice calcolo sull’andamento del prodotto interno lordo pro capite. Siamo nel paese dove le dinamiche salariali sono state sterilizzate, dove il monte ore di cassa integrazione sta salendo a due miliardi, siamo il paese con il più alto tasso di criminalità giovanile. Nel 2007 l’Istat registrava che il 32,9 per cento delle famiglie italiane non era in grado di sopportare una spesa straordinaria e improvvisa di 600 o 700 euro: vuol dire che una famiglia su tre di fronte a un accidente che le sarebbe costato appunto 600 o 700 euro sarebbe precipitata da uno stato di relativa tranquillità alla condizione di povertà. Intanto nel 2008 i pignoramenti di case per mancato pagamento del mutuo sono aumentati del 54%: ciò significa che chi s’era immaginato un certo futuro potendo contare su un reddito sicuro s’è ritrovato senza lavoro, in mobilità o in cig. Gente che esce dallo stato di ceto medio e che viene iscritta nella lista dei falliti. Bisognerebbe mettersi in coda ad un banco dei pegni per assistere alla tragedia di chi impegna l’anello per tirare avanti. Il problema è che la crisi è sistemica, colpisce tutto l’occidente. Ci si sarebbe dovuti immaginare un nuovo stile di vita, una decrescita serena, come spiegava Latouche. Ma sarebbe stato particolarmente difficile in Italia, dove s’è fatto dell’opulenza il valore di riferimento».
Torniamo a Roma, al fumo e al fuoco che a molti hanno consentito di tirare in ballo il Sessantotto, gli anni di piombo, il Settantasette...
«Una ricerca degli antecedenti storici inaccettabile. Sono passati trenta quarant’anni, viviamo un universo completamente diverso».
Poi abbiamo assistito alla messinscena della indignazione... «I commenti li abbiamo letti e ascoltati. Ma tanta indignazione implicherebbe un paese perfetto, una società che esemplificasse la perfezione. L’indignazione è stata espressa nei confronti di chi ha tentato di avvicinarsi alle istituzioni, beatificate e preservate dalla zona rossa, un simbolo ormai, scatole nere intoccabili, che proteggono Dell’Utri, i collusi con la mafia, i corrotti, i venduti, promossi a congregazione di santi assediati dai facinorosi. Pensiamo invece a quei giovani in corteo: una generazione post politica, irriducibile agli schemi della nostra politica. In questo senso era una piazza molto diversa da quella di Genova, del G8: senza bandiere, senza magliette di Che Guevara, spogliata di tutti i simboli. Ma non solo lì si rappresentava una generazione post politica: lì protestava la prima generazione dopo la fine dello sviluppo, cresciuta dentro l’orizzonte del declino, vittima sacrificale del mondo che le abbiamo confezionato. Non è retorica definirla una generazione a futuro zero. Composta da ragazzi che conoscono un presente che è peggio del passato prossimo, destinati a vivere peggio dei padri, giovani che sperimentano sulla loro pelle la falsità della dominante narrazione del benessere, con il sorriso di Berlusconi, con il timbro di Publitalia. Dentro questa esperienza è maturata una rabbia sacrosanta. Chi si indigna fa della ipocrisia. Ignora che cosa sta avvenendo davvero». Ma la violenza? Viene da ripetersi la solita domanda: a chi giova?
«Io non mi indigno. Provo angoscia, invece. Mi mettono angoscia i dieci celerini che si accaniscono contro uno studente, mi mettono angoscia i dieci ragazzi che si accaniscono contro un poliziotto. Provo angoscia pensando che tutti possano farsi del male, non fisicamente, non individualmente, ma collettivamente. Mi indigno anch’io, comunque, nei confronti di una classe dirigente sorda davanti alla protesta...»
La Gelmini che ripete incurante di tutto il ritornello mandato a memoria è un’offesa... «Mi indigno quando vedo il ministro La Russa, che inveisce, paonazzo di rabbia, con le corde del collo tese, contro uno studente che per una volta ha la possibilità di esprimere le proprie ragioni. Nella furia di La Russa c’è violenza autentica: violenza di chi difende un proprio privilegio, di potere, di auto blu. I salvati contro i sommersi...».
Santoro si sarebbe dovuto far illustrare da La Russa la “carriera” del figlio Geronimo... «Quei giovani parlano di un’Italia vera. L’ottanta per cento dei posti di lavoro perduti nella crisi riguarda le classi di età più basse. Quella esplosione di rabbia è una affermazione di verità, una verità celata e distorta da quanto avveniva nei Palazzi. Senza quella protesta l’immagine dell’Italia nel mondo sarebbe venuta solo dallo spettacolo osceno di quel voto al Senato e alla Camera...».
La verità dell’Italia è una verità di ingiustizia sociale, perché ci sono anche quelli con il suv. Nel libro, cita il semplice calcolo di un economista, Guido Ortona, a proposito della vicenda di Pomigliano d’Arco. In sintesi e a proposito della riduzione della pausa da 40 a 30 minuti: con quel taglio la Fiat risparmierebbe tre milioni all’anno, meno di un terzo di quanto hanno ricevuto Marchionne e Montezemelo insieme in un anno. Se Montezemolo di accontentasse di guadagnare diecimila euro al mese e Marchionne novemila si potrebbe evitare quel taglio o dare lavoro a cento operai in più. Ma si dovrebbe riparlare di redistribuzione del reddito.
«Un tema che non ha più corso. Oppure ha corso solo orizzontalmente ai piani bassi. Si toglie ai redditi fissi per dare ai cassintegrati, ai pensionati per dare agli insegnanti, agli insegnanti per un minimo di welfare. Contribuendo così a diffondere un sentimento di invidia sociale al ribasso: contro il rom, se gli si dà una casa, contro l’immigrato se gli si dà l’ospedale. L’ostilità si realizza contro i più deboli, mentre spiamo Berlusconi o Briatore dal buco della serratura».
Che cosa fare per l’economia?
«Ci sarebbe bisogno di un sano keynesianesimo, ma non ci sono soldi. Avremmo dovuto pensarci prima, quando i geni della Bocconi e del Corriere ci illuminavano circa la bellezza del mercato».
Ecco, però poi tanti votano per Berlusconi... «Perché non c’è verità e la tv è uno schermo piatto che riflette falsità e la destra sa raccontare un mondo falso che non esiste. L’illusione che si crea è fortissima. E l’illusione procura voti».

l’Unità 19.12.10
Cari studenti capisco contro cosa protestate. Ma non contro chi
Riflessione pubblica di una studiosa che, donna, a 47 anni è professore ordinario Nelle nostre università una mosca bianca. Ecco cosa ha da dirci la sua esperienza
di Nicla Vassallo


Le manifestazioni a favore della conoscenza: i giovani temono che venga loro sottratta per sempre, manifestazioni né di destra, né di sinistra, piuttosto lezioni di civiltà in un paese incivile, in cui imperversa sovrabbondante ignoranza e maleducazione al potere. Ma se capisco contro cosa i giovani protestano, mi sfugge a tratti contro chi. I baroni, forse? Se tale io sono, pure contro di me. Dopo un lungo precariato, professore ordinario, tra i più giovani, forse il più giovane, del mio settore (filosofia teoretica). Come accade che a quarantasette anni suonati viva ancora un’eterna giovinezza? Pietra filosofale, Sacro Graal, Peter Pan, Dorian Gray? Oscar Wilde fa affermare e domandare: «Now, wherever you go, you charm the world. Will it always be so?». In un certo qual senso, non dovrei più incantare; il compito di incantarci, di sorprenderci con idee e scoperte toccherebbe ai giovani reali. Ma a troppi conviene che io rimanga giovane, così i giovani reali attenderanno a lungo il loro «turno», mentre i reali anziani nutriranno l’illusione che la gerontocrazia non esiste. Qualcosa non funziona. Insieme al paese, l’università non si rinnova, anzi si chiude alla linfa vitale. Un’università senza tempo, come si addice a un paese senza tempo.
Parecchi anni orsono, l’università immette troppi ricercatori, mediocri e validi, immobilizzandosi, ripiegandosi su stessa. Grazie a una serie di concorsi, molti di quei ricercatori diventano professori; hanno oggi, di norma, sessanta e più anni; occupano spesso cariche accademiche di rilievo. Non io. Al potere della carica (da gestirsi con competenze di cui non si dispone), preferisco la ricerca, il potere della conoscenza, il potere della qualifica. Se i baroni sono coloro che amano il potere in sé e per sé, che puntano a un potere sempre più alto, fino ad aspirare a quello del rettore-re-sole, non faccio parte della categoria, pur da professore ordinario.
Una privilegiata? Avete mai contato i professori ordinari donne? Mosche bianche, soprattutto se «giovani». Le pari opportunità, in un’università senza tempo, in un paese senza tempo? Non scherziamo. Una mia giornata tipo inizia all’alba sulla scrivania e sulla scrivania termina in tarda serata: in mezzo molto; il lusso: un’ora di palestra – vi risparmio i dettagli, ma pronta a fornirli. Barone io? Non so cosa significhi il quasi nullafacente, che guadagna fuor di misura, delega docenza e ricerca a qualche «anonimo» tiranneggiato, gestisce il potere e trama per esso, sguazza nelle varie parentopoli, promuove qualche stupido nel timore di venir messo in ombra, realizza cooptazioni, snobba gli studenti, ha una scarsa/media produzione scientifica, non si aggiorna, crea corsi e insegnamenti qui e là, propone e riceve lauree honoris causa, usa il computer a mala pena, è supponente, indisponente, si dichiara innocente, razzola male, accarezza intrighi e politiche, e così via.
Il barone chi è? Ovvio che il barone non coincide necessariamente col professore ordinario, mentre può coincidere col professore associato e col ricercatore. Allora gli studenti manifestano anche contro i ricercatori. Ebbene sì, e dovrebbero farlo, perché alcuni ricercatori anziani, dotati dell’egoismo proprio dell’anziano, pretendono di diventare professori, nonostante curricula spesso inesistenti. Se la gerontocrazia vincerà, l’università tornerà a sbarrare le porte ai giovani meritevoli, e lo stesso accadrà se a venire cooptati saranno i soliti imparentati, portaborse, yesmen (o yeswomen), cari a chi detiene le redini del comando. La riforma Gelmini vi collaborerà? Chissà. Contro essa non manifesto, non sciopero, non salgo sui tetti. Continuo ad adoperarmi per l’università, la ricerca, la didattica, nonostante la leggenda metropolitana voglia che il mio carico lavorativo settimanale non superi le tre ore – invito chi vi crede a trascorrere con me un solo «perfect day». Non so se la riforma ci condurrà definitivamente e irrimediabilmente verso il baratro. I nostri atenei vengono di già considerati e classificati piuttosto male in base agli standard internazionali, non attraggono docenti e studenti stranieri, invogliano i propri a fuggire all’estero, richiamano i «cervelli», che non sempre risultano tali, li maltrattano non appena valicano il confine. Come ogni riforma, conterrà qualcosa di buono, si proporrà di migliorare la situazione, sebbene senza investire risorse, anzi. Una riforma che razionalizza e depatologizza? Chi? Che cosa? Oppure una riforma irrazionale e patologica? Vedremo. Però, attenzione, considerati i recenti avvenimenti, non facciamo di ogni erba un fascio, evitiamo etiche e tuttologi, non richiamiamoci a valori aleatori, non discettiamo di violenza senza competenze in filosofia politica e scienze politiche, non difendiamo l’indifendibile. Se proprio vogliamo, ragioniamo su cosa comporta la zona rossa che sancisce lo strappo spietato del palazzo dalla piazza.
Chiediamoci cosa deve garantire un paese all’università, per non risultare l’uno lo specchio dell’altra, e viceversa, per fare sì che le compravendite non riguardino la conoscenza. L’università deve essere posta nelle condizioni di svolgere la propria funzione formativa, attraverso corsi di studio sensati, attraverso la buona didattica e ricerca; dimostrarsi meritevole per attestare ai giovani che il merito conta, non altro; assicurare pregio a lauree e titoli, dottorato di ricerca incluso; garantire a ogni giovane sapere e serietà, senza l’angoscia di un futuro che non ci sarà, senza la necessità di trasformarsi in yesmen e yeswomen, senza l’invidia per chi ha scelto mestieri dai facili guadagni, senza la rabbia nei confronti del malato egoismo di molti potenti anziani.
Ragionare/indottrinare Questa nostra università deve promettere a tutti ragionamento (con la propria testa), non indottrinamento. L’università pubblica con le finanze pubbliche, quella privata con quelle private. Garanzie minime, quasi banali. Chissà. In questo paese senza tempo, ci troviamo di fronte a un bivio: il potere del denaro che tutto compra e svende, o il potere della conoscenza che nutre la mente e ci rende esseri umani? Una lettura per giovani e anziani: l’Apologia di Socrate. Chi non l’ha presente, ha già scelto senza dignità, sempre che sappia scegliere chi non dispone delle conoscenze per farlo.

l’Unità 19.12.10
Messaggio del Capo dello Stato in occasione della Giornata internazionale voluta dall’Onu
«Lamoderna migrazione italiana è quella dei talenti costretti a lasciare il nostro Paese»
Napolitano: «Gli immigrati hanno un ruolo imprescindibile»
Nella “Giornata Internazionale del Migrante” il presidente della Repubblica ha voluto ribadire «l’imprescindibile contributo dell’immigrazione» alle imprese e alle famiglie. No alle generalizzazioni, sì all’integrazione.
di Marcella Ciarnelli


Ricorda il presidente Napolitano, nel giorno dedicato ai migranti di tutto il mondo deciso dall’Onu, che l’Italia è da sempre terra di emigrazione. Un tempo lo era di massa, sotto la spinta di una povertà altrimenti insuperabile. Partivano verso il nuovo mondo sperando fosse migliore manovali, contadini, operai. I più poveri tra i poveri. Ora i nostri emigranti sono per lo più giovani che non trovano lavoro anche se hanno conseguito un brillante titolo di studio. Mentre a vedere l’Italia come la terra promessa ora ci sono i poveri di altre realtà che con il loro lavoro danno «un contributo imprescindibile alle imprese e alle famiglie».
I TALENTI
Il messaggio del Capo dello Stato fornisce una lettura di un fenomeno che non sempre viene letto in modo corretto. Troppe dimenticanze del proprio passato anche recente. Poca disponibilità verso chi arriva ed è innegabilmente necessario. «Non si devono sottovalutare le difficoltà da affrontare e i problemi da risolvere ma questa attenzione non deve oscurare l'imprescindibile contributo che l’immigrazione sta dando e darà al nostro Paese e l’esigenza di facilitare l’integrazione fondata sul rispetto reciproco, sul riconoscimento dei diritti di quanti sono giunti in Italia e vi risiedono laboriosamente osservandone le leggi».
Un saluto augurale «in prossimità dell’inizio del nuovo anno che segna anche il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia» e poi le riflessioni su un Paese «che si caratterizza per il fatto di essere una terra di migranti. Con il tempo l'emigrazione italiana si è notevolmente ridotta, ma non è mai cessata e, anzi di recente ha registrato una ripresa» anche se «il carattere della nostra emigrazione è profondamente mutato. I nuovi emigrati sono solo marginalmente lavoratori poco qualificati. A lasciare il nostro paese non solo per determinati periodi, ma definitivamente, sono spesso brillanti laureati e ricercatori, tecnici, imprenditori, personale altamente qualificato. Questa emorragia di talenti rappresenta allo stesso tempo una perdita per il nostro paese e un segnale di debolezza del nostro sistema scientifico e produttivo, della sua capacità di mettere a frutto risorse umane, di selezionare e promuovere in base al merito». E tutto questo accade mentre si avvia ad essere approvata una riforma dell’Università duramente contestata anche perché non conseguenza di un confronto e mentre scuole, atenei e luoghi della ricerca si trovano a fare i conti con i tagli decisi nella legge di bilancio. «Mi auguro che i nuovi, come i vecchi emigrati italiani, si trovino a loro agio nei Paesi dove vivono, studiano, lavorano, che non siano oggetto di pregiudizi e discriminazioni, che possano realizzare i propri progetti e contribuire al benessere di questi Paesi. Spero soprattutto che l’Italia possa dimostrarsi capace di invogliarli a rientrare, che possano trovare in Patria gli stessi supporti e le stesse opportunità che li hanno motivati a vivere altrove. Ma l'Italia è oggi soprattutto un Paese di immigrazione. Un'immigrazione che costituisce ormai parte integrante della popolazione. Sono già molti i figli di immigrati nati qui, è ampia la presenza di bambini e ragazzi nelle scuole, sono numerosi gli immigrati che comprano casa. L'immigrazione contribuisce a ridurre carenze di popolazione in età produttiva e di manodopera, in particolare per alcuni tipi di lavori e di qualifiche. Solo la presenza di immigrati consente alle imprese di produrre e alle famiglie di essere aiutate nella cura dei propri cari. Inoltre gli immigrati rappresentano oggi una quota significativa non solo dei nuovi occupati, ma anche dei nuovi imprenditori».
Per il presidente del Senato, Renato Schifani, l'Italia deve «bandire ogni forma di intolleranza e razzismo e aiutare chi con il proprio lavoro e la propria cultura, ma nel pieno rispetto della legge, contribuisce ad accrescere la ricchezza sociale ed economica dell'Italia». La Pd Rosy Bindi sollecita «a governare e a non demonizzare l'immigrazione rispettando le differenze e puntando con risorse adeguate all'integrazione cittadini stranieri».

l’Unità 19.12.10
... e piove sulle carte di Caravaggio
Archivio di Stato di Roma Secchi e portaombrelli raccolgono l’acqua piovana che cade sui fogli secenteschi restaurati dai privati. Il problema? Una trascurata manutenzione che finisce per far costare di più i restauri
di Jolanda Bufalini


Piove sulle carte di Caravaggio. Non è una incongrua parafrasi dannunziana e non è uno scherzo. Lo potete vedere dalle fotografie. La finestra affaccia sulle torrette con i monti e la stella simboli araldici dei Chigi, impalcate da quando, tre anni fa, si staccarono frammenti dalle stelle. Nessuno è più venuto ad occuparsi del problema. Siamo all’archivio di Stato di Roma che ha sede nel gioiello borrominiano di Sant’Ivo alla Sapienza, stanze di sottotetto, secchi, giornali e portaombrelli raccolgono l’acqua piovana, alle scrivanie gli archivisti lavorano alle carte di Michelangelo Merisi. Atti notarili, verbali giudiziari. Sette volumi di fogli rilegati cinque-secenteschi, restaurati grazie a finanziamenti privati dopo il grido di dolore lanciato dal direttore dell’Archivio, Eugenio Lo Sardo, un anno fa: l’acidità dell’inchiostro stava riducendo a coriandoli quei documenti in cui (sembra incredibile) si scoprono ancora fatti importanti della vita di Michelangelo Merisi a Roma. Come la storia di Faustina Juvarra, giovane moglie dell’artista siciliano Lorenzo Cari presso cui Caravaggio abitò. Se ne trova traccia nei verbali di un processo in cui Merisi appare come testimone. Si era imbattuto, di notte, in una rissa e aveva raccolto il mantello della vittima, un barbiere. L’artista consegna il mantello a un garzone di sua conoscenza ed è questi a raccontare: «Caravaggio abita nella casa dove vanno a giocare i figli del mio padrone». Faustina era da poco vedova, madre di due figli e incinta. Il pittore l’aiutava, la proteggeva ed è lei la probabile modella della Santa Caterina d’Alessandria e della Marta incinta di Detroit. L’incastro delle date consentirebbe di ritardare, secondo le ricerche di Antonella Pampaloni, l’arrivo di Michelangelo Merisi a Roma al 1594, non l’enfant prodige a cui faceva pensare la cronologia di Roberto Longhi né la successiva datazione del 1593.
Piove anche nella stanza numero 4, quella accanto all’ambiente dove si sta preparando il catalogo della mostra documentaria su Caravaggio. Il cellofan copre un pezzo della scaffalatura. Sono stati spostati i grandi «Cabrei» Odescalchi. Registri catastali, proprietà e tenute, alberi ed edifici documentati ad acquarello, preziosi per scoprire il disegno originale di palazzi e ville.
Non è uno scandalo di per sé che in un edificio secentesco le tegole si spostino, il problema è la manutenzione trascurata che finisce, oltre che a rovinare, per far costare di più i restauri. Spiega Eugenio Lo Sardo: «C’è stato un taglio del 30 per cento quest’anno sul finanziamento ordinario, che rende difficile pagare le bollette del gas e della luce e persino la sicurezza. Se l’anno prossimo ci sarà, come minacciato, un nuovo taglio del 30 saremo nell’impossibilità di funzionare, dovremo chiudere». In più ci sono le lungaggini burocratiche: «Ogni spesa è demandata alla direzione generale regionale» e, mentre la pratica fa il suo percorso, le tegole restano sconnesse e piove.
Per il restauro delle carte di Caravaggio i soldi si sono trovati, «Non è vero che gli archivi non attraggono sponsor», riflette Eugenio Lo Sardo, purtroppo, però, «le carte, che possono essere aggredite da insetti o anche dalla ruggine di graffette metalliche, vanno salvate anche quando non c’è Caravaggio a fare da richiamo». Nell’archivio ci sono 28.000 registri notarili preziosi per la storia di Roma e per la storia dell’arte mondiale, dal 900 al 1870 (l’archivio di Roma capitale è a Portonaccio). Roma non è consapevole del fascino e della ricchezza nascosta nel complesso di corso Rinascimento. Lì dentro ci sono le ultime 24 ore di Giordano Bruno, assistito, prima del rogo, dalla Confraternita di San Giovanni Decollato alla Consolazione. E i verbali di polizia delle ultime ore di vita di Francesco Borromini, dopo che l’architetto si era infilzato con la propria spada. C’è il divorzio di Paolina Borghese e le carte della Repubblica Romana. Per conservare questo patrimonio bisognerebbe programmarne il restauro anno per anno, cosa resa impossibile dall’incertezza finanziaria.
La dottoressa Orietta Verdi, responsabile del restauro dei registri notarili, racconta di un’altra scoperta recente. Protagonista Diego Velazquez che, inviato presso la corte papale dal re di Spagna, dipinge il celebre nudo della Venere allo specchio. Diego ha un figlio da una anonima fanciulla romana. Lo sappiamo perché, qualche anno dopo, il pittore manda un procuratore presso il cardinale vicario per prendere il bambino. C’è la firma in calce: Didacus, Diego in latino. Il bambino stava a balia, la madre potrebbe essere morta. E quel bimbo potrebbe essere il putto che regge lo specchio alla Venere. «Ci sarebbero ricerche da fare ma non possiamo», spiega Orietta Verdi. E qui ci troviamo di fronte a un altro gigantesco ostacolo prodotto dalla filosofia politica del «con la cultura non si mangia». Restauratori e archivisti interni stanno andando in pensione uno dopo l’altro. Naturalmente non si parla di sostituirli. I giovani qualificati ricercatori fino a poco fa riuscivano almeno a lavorare a partita Iva ma le nuove regole impongono tagli persino sul lavoro precario.
1/segue

L’Osservatore Romano 19.12.10
Dopo la riapertura al pubblico a conclusione dei lavori di restauro
La visita di Benedetto XVI  alla Biblioteca Vaticana
di Gianluca Biccini


Un'ora tra gli antichi manoscritti e gli incunaboli della "sua" biblioteca, per benedire quanti, frequentandola "per coltivare le scienze e le arti", "da onesti indagatori del vero" orientano "i loro sforzi alla costruzione di un mondo più umano". Sabato mattina, 18 dicembre, Benedetto XVI si è recato in visita alla Biblioteca Apostolica Vaticana, riaperta al pubblico lo scorso 20 settembre dopo tre anni di restauro e di ristrutturazione.
È tornato per la seconda volta, dopo esservi già stato il 25 giugno 2007, poco prima della chiusura triennale per i lavori. Più di recente, nel messaggio inviato lo scorso 9 novembre per il convegno e la mostra promossi in occasione della riapertura, il Pontefice aveva ricordato come la Biblioteca sia parte integrante degli strumenti necessari allo svolgimento del suo ministero, un mezzo prezioso al quale il vescovo di Roma non può e non intende rinunciare. E a quel messaggio ha fatto riferimento nel congedarsi, quando ha salutato i presenti all'uscita che dà sulla Galea. "Cari amici - si è rivolto loro - vorrei dirvi grazie per il vostro lavoro. Nel mio messaggio ho già detto quanto penso circa la necessità e la grande importanza della Biblioteca", ha concluso prima di impartire la benedizione conclusiva e augurare buon Natale a tutti. L'attenzione di Joseph Ratzinger per questa istituzione, che ha scelto di visitare nel giorno di chiusura per non togliere spazio all'attività di ricerca che vi viene svolta, è stata ricambiata con tre doni (descritti nella scheda in pagina):  una medaglia in bronzo, un'agenda rilegata in pelle bianca e un volume.
Giunto in auto davanti all'ingresso principale sul piazzale del Belvedere, il Papa aveva trovato ad accoglierlo il cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, il prefetto monsignor Cesare Pasini e il viceprefetto Ambrogio M. Piazzoni - che lo hanno accompagnato per tutta la visita - e il consiglio della Biblioteca. Con il Pontefice erano l'arcivescovo Harvey, prefetto della Casa pontificia, il vescovo De Nicolò, reggente della prefettura, e monsignor Gänswein, suo segretario particolare.
Nell'atrio d'ingresso, ai piedi dello scalone, presso la grande statua marmorea di Ippolito, il Papa ha recitato una breve preghiera per la benedizione dei locali rinnovati. Ha diretto il breve rito il maestro delle celebrazioni liturgiche monsignor Guido Marini.
Salito al terzo piano, Benedetto XVI ha quindi raggiunto la sala consultazione stampati. Qui si è affacciato da una delle finestre che danno sul cortile per vedere i due ascensori esterni:  uno completamente nuovo e uno rinnovato per poter raggiungere i livelli più alti della struttura. Il prefetto Pasini gli ha mostrato un volume dotato di badge, che consente di mantenere traccia degli eventuali spostamenti, così da poter ricostruire il percorso dei libri ricollegandoli alle persone che li prendono in carico. Infine il direttore del dipartimento degli stampati, Adalbert Roth, in tedesco, ha presentato al Pontefice i due antichi volumi della Bibbia di Gutenberg conservati dalla Biblioteca Apostolica Vaticana.
Trasferitosi nella sala consultazione manoscritti 2, il Papa si è soffermato su una stampa antica, presentatagli dal curatore delle stampe Barbara Jatta. È l'acquaforte "Vero dissegno deli stupendi edefitii giardini boschi fontane et cose maravegliose di Belvedere in Roma" del 1579, del milanese Ambrogio Brambilla e mostra un'immagine complessiva del Vaticano al tempo di Gregorio XIII, offrendo in primo piano una visione della basilica di San Pietro in costruzione, del cortile del Belvedere e dei giardini Vaticani inseriti nelle mura del Sangallo. Una veduta dello stato dei luoghi antecedente al 1587, quando venne costruita per volontà di Sisto v una nuova sede per la sua Biblioteca. L'architetto Domenico Fontana progettò il nuovo edificio, che ospita tuttora la Vaticana, collocandolo tra il cortile del Belvedere e quello superiore, detto oggi cortile della Biblioteca. L'incisione si trova inserita nella nota raccolta dello Speculum Romanae Magnificentiae di Antoine Lafréry. In particolare è stato mostrato l'esemplare dello Speculum che reca la segnatura Riserva.S.7, il più antico che si conserva in Biblioteca e anche quello che più si avvicina alle prime copie rilegate della raccolta che uscivano dalla stamperia del Lafréry. Il volume proviene dalla biblioteca del cancelliere francese Séguier, politico al tempo dei re Luigi XIII e XIV, tra i fondatori dell'Accademia francese. Esso presenta ancora la legatura originale in pelle marrone, con una decorazione dorata, formata da un seminato di gigli che occupa l'intera superficie dei piatti, mentre al centro sono presenti rami dorati incrociati con altri fregi a formare un ovale. Il volume entrò poi in possesso di Hippolyte Destailleur, quindi dell'archeologo inglese Thomas Ashby e, agli inizi del xx secolo, fu acquistato dalla Biblioteca Vaticana.
Benedetto XVI ha anche ammirato due antiche monete, descrittegli dal direttore del dipartimento del gabinetto numismatico Giancarlo Alteri:  un medaglione in oro del 1929, commemorativo del Concordato tra l'Italia e la Santa Sede e del giubileo sacerdotale di Pio xi, e una moneta da dieci fiorini di Camera in oro, coniata da Sisto iv in occasione del giubileo del 1475. Il primo rappresenta, al dritto, il busto di Papa Ratti; sotto, la firma dell'incisore camerale Aurelio Mistruzzi. Al rovescio la scena rappresentata e le date nel giro, in alto, si riferiscono al Giubileo sacerdotale del Pontefice bibliotecario:  l'ostia sopra il calice in primo piano è il simbolo del sacerdozio; la basilica di San Giovanni in Laterano e quella di San Pietro in Vaticano, sullo sfondo, sono rispettivamente le sedi dell'ordinazione sacerdotale e dell'incoronazione papale di Achille Ratti. Il riferimento ai Patti Lateranensi è contenuto nella leggenda dell'esergo. Questo medaglione, di oltre 82 millimetri di diametro, fu presentato al Papa proprio l'11 febbraio 1929, giorno della firma dei Patti, e piacque tanto al Pontefice, che volle fosse emesso anche come medaglia annuale del 29 giugno seguente, senza varianti.
La seconda al dritto rappresenta Gesù che affida a Pietro il gregge, che pascola in un campo alberato e illuminato dai raggi del sole. All'esergo, due angeli sorreggono lo stemma del Pontefice. Intorno si svolge la leggenda. Al rovescio è rappresentata la nave degli Apostoli sul mare agitato, mentre Gesù, in piedi sulle onde, salva Pietro che sta per annegare. La moneta fu emessa da Papa Della Rovere (1471-1485) in soli tre esemplari.
Passato attraverso la sala consultazione manoscritti 1, e salutato alcuni benefattori, il Papa si è poi diretto nell'ufficio del prefetto. Qui ha ricevuto i tre doni. Successivamente si è recato nella sala consultazione manoscritti 1, dove il direttore del dipartimento Paolo Vian e l'archivista capo Marco Buonocore gli hanno presentato rispettivamente due manoscritti e un documento d'archivio. Il primo Reg. lat. 124:  Rabano Mauro, De laude sanctae Crucis, è un manoscritto vergato e illustrato nell'abbazia di Fulda negli anni (822-847) in cui era abate lo stesso Rabano Mauro, che dunque deve avere seguito da vicino le diverse fasi dell'allestimento del codice, nel quale vi sono alcune miniature a piena pagina. Fra queste:  al foglio 2v, l'immagine di Alcuino (Albinus) che accompagna Rabano Mauro (Maurus) e lo presenta a san Martino di Tours; al foglio 4v, l'immagine dell'imperatore Ludovico il Pio. Il manoscritto è appartenuto a Cristina di Svezia ed è pervenuto alla Vaticana nel 1690. Il secondo è Vat. lat. 9850:  Tommaso d'Aquino, Autografo della Summa contra gentiles (ff. 2-89) e dei Commenti a Boezio (ff. 90-103) e a Isaia (ff. 105-114). Accanto alla scrittura di Tommaso, compare la mano di uno dei suoi segretari, Reginaldo da Priverno. Sono stati mostrati i fogli 14v-15r, con depennamenti di prime stesure autografe dei capitoli 53-54 della Summa contra gentiles e con la stesura definitiva redatta da Reginaldo, del quale è anche probabilmente la testa d'asino disegnata al foglio 14v. Il documento d'archivio è una Bolla di indizione del primo Giubileo (inc. Antiquorum habet fida relatio) che si trova nell'Archivio del Capitolo di San Pietro, capsa i, fascicolo 1, n. 9. Si tratta della lettera solenne (datata 22 febbraio 1300) mediante la quale la cancelleria annunciava l'indizione del primo Anno Santo. Veniva concessa l'indulgenza plenaria a chi si fosse confessato, avesse fatto penitenza nonché visitato le basiliche di San Pietro e di San Paolo fuori le Mura.
Successivamente il Papa è sceso nel primo seminterrato al deposito manoscritti, dove ha visitato anche la sala papiri. In un ambiente tenuto a temperatura e umidità costanti, aprendo il secondo cassetto sopra il ripiano estraibile, Vian gli ha mostrato un rotolo di papiro di tre segmenti (in tutto 2,70 metri) proveniente da un fondo archivistico del "nomos" di Marmarica in Egitto, con registrazioni fondiarie (dell'anno 190 d.C). Riutilizzato poco dopo, all'inizio del iii secolo, per trascrivere sul verso l'opera di Favorino di Arles, il papiro fu acquisito dalla Biblioteca Vaticana nel 1930.
Gli ultimi ambienti visitati dal Papa sono stati i nuovi locali dell'archivio fotografico al secondo piano e, al primo, la sezione nord del laboratorio di restauro, dove ha assistito a una breve rappresentazione del lavoro artigianale che vi viene svolto, eseguita dal responsabile del laboratorio Arnaldo Mampieri.
Sono stati sessanta minuti, quelli trascorsi da Benedetto XVI nella Biblioteca, nei quali ha percorso le grandi sale per rendersi conto di persona dei lavori effettuati e per tornare ad ammirare gli autentici "tesori dell'umanità" che vi sono conservati; ma soprattutto ha assaporato l'atmosfera di quello che avrebbe potuto essere un luogo in cui coltivare la sua passione di studioso, se non fosse stato chiamato al soglio di Pietro.

Corriere della Sera 19.12.10
Se Apollo fa pace con Dioniso
Le divinità della legge e dell’ebbrezza alle origini della civiltà greca
di Armando Torno


A pollineo e dionisiaco: due parole dalla smisurata forza culturale. Se la prima evoca Apollo — dio greco della salute e dell’ordine, difensore delle leggi — la seconda si rivolge a Dioniso, conosciuto dai latini come Bacco, divinità legata al ciclo vitale della natura, signore del vino e dell’ebbrezza. L’antitesi tra le due concezioni e la visione della realtà che rappresentano si registra già in Schelling. Nella Filosofia della rivelazione vide nell’una la forma e nell’altra l’impulso creativo. Sarà poi Hegel nella Fenomenologia dello Spirito a suggellarne l’importanza in una pagina che comincia con la celebre frase: «Il vero è un trionfo bacchico, dove non c’è persona che non sia ebbra» . Richard Wagner riprenderà queste ultime osservazioni in un libro del 1849, L’arte e la rivoluzione. Toccherà poi a Nietzsche far conoscere ai più il contrasto tra la visione apollinea e quella dionisiaca della vita. Nella Nascita della tragedia (1871) il filosofo, per spiegare il miracolo della Grecia, ricorderà che la prima governa l’arte plastica, l’armonia di ogni schema; la seconda, invece, domina la musica, la quale non conosce forme e necessita di ebbrezza, entusiasmo. Nei suoi frammenti ultimi, conosciuti come Volontà di potenza, lo spirito dionisiaco diventa il fondamento dell’arte: forse perché, per Nietzsche, soltanto grazie ad esso fu possibile ai greci sopportare la vita. Ma qui il discorso si amplia a dismisura e si dovrebbero affrontare i motivi di questa tesi estrema. Basterà, tra i molti, rammentare il miracolo più bello compiuto da Dioniso: la trasfigurazione dell’orribile e dell’assurdo in immagini ideali, rendendo così accettabile agli uomini l’esistenza. Giorgio Colli, uno dei massimi conoscitori di Nietzsche e del mondo greco, alla fine degli anni Trenta del ’ 900 progettò un libro di vasto respiro che recava il provvisorio titolo di Ellenismo e oltre. Il piano principale dell’opera conoscerà modificazioni e approfondimenti; o meglio, verrà abbandonato, ripensato, corretto per ragioni diverse. Di certo — come ha notato il figlio Enrico che ha ora curato l’edizione di tali pagine — Ellenismo e oltre traccia un programma di vita per la conoscenza e delinea molti degli interessi speculativi che Colli avrebbe approfondito in seguito» . Adelphi ha appena pubblicato questo libro, aggiungendovi frammenti e riflessioni dell’autore. Innanzitutto diremo che non è stato mantenuto il titolo di Ellenismo e oltre, il quale non rispecchia fedelmente il materiale rimasto, ma si è preferito utilizzare quello di un capitolo, pur invertendone i termini: Apollineo e ai greci sopportare la vita. Ma qui il discorso si amplia a dismisura e si dovrebbero affrontare i motivi di questa tesi estrema. Basterà, tra i molti, rammentare il miracolo più bello compiuto da Dioniso: la trasfigurazione dell’orribile e dell’assurdo in immagini ideali, rendendo così accettabile agli uomini l’esistenza. Giorgio Colli, uno dei massimi conoscitori di Nietzsche e del mondo greco, alla fine degli anni Trenta del ’ 900 progettò un libro di vasto respiro che recava il provvisorio titolo di Ellenismo e oltre. Il piano principale dell’opera conoscerà modificazioni e approfondimenti; o meglio, verrà abbandonato, ripensato, corretto per ragioni diverse. Di certo — come ha notato il figlio Enrico che ha ora curato l’edizione di tali pagine — Ellenismo e oltre traccia un programma di vita per la conoscenza e delinea molti degli interessi speculativi che Colli avrebbe approfondito in seguito» . Adelphi ha appena pubblicato questo libro, aggiungendovi frammenti e riflessioni dell’autore. Innanzitutto diremo che non è stato mantenuto il titolo di Ellenismo e oltre, il quale non rispecchia fedelmente il materiale rimasto, ma si è preferito utilizzare quello di un capitolo, pur invertendone i termini: Apollineo e dionisiaco. Scelta felice, giacché si tratta di una preziosa e acuta riflessione sui celebri termini, facendo tesoro delle lezioni di Nietzsche e del mondo greco. Va altresì ricordato che la prima parte fu pubblicata in spagnolo sulla rivista «Res publica» (VII, 4, Murcia 2001) e in italiano nel 2004 in un’edizione fuori commercio per il convegno dedicato a Giorgio Colli, tenutosi a Pisa. La seconda, invece, con il materiale ordinato dal figlio Enrico, è inedita; non manca inoltre un’appendice, il cosiddetto manoscritto G III, nella quale sono contenuti i piani e i prospetti dell’indagine. Più che un testo, si tratta di un vero e proprio laboratorio: oltre a osservazioni musicali (molte su Wagner e Beethoven, spunta anche Verdi), si trovano numerosi giudizi filosofici riguardanti tra gli altri pensatori antichi e del Rinascimento, Spinoza, Voltaire, Kant, Schopenhauer, ovviamente Nietzsche. Colpisce la capacità di penetrazione di Colli, il suo cogliere un aspetto o un problema in poche battute. Sono pagine da meditare anche se la prosa non è stata tornita. Accanto a Plotino, per esempio, si legge: «Ultima difesa della grecità, del misticismo greco. Pluralismo greco, da Anassimandro ad Aristotele, trionfa nel noûs plotinico. Comprensione vera di Platone, dopo secoli di oblio e prima di secoli di oblio» . Già, il noûs: traduciamolo con intelletto, anche se in Omero è spirito, senza dimenticare che intorno ai suoi significati o inseguendo le sue odissee nasce molta filosofia. Aristotele, tra l’altro, nel De anima lo eviscera sino a distinguere le fasi potenziali dalle produttive; il ricordato Plotino, oltre mezzo millennio più tardi, lo vede formarsi quando l’uno sovrabbondante ridonda fuori di sé e— attraverso un abbraccio mistico senza confini — genera. Né mancano appunti d’arte. Come questo: «Pollaiolo. L’essenziale è per lui di dipingere una pianura immensa che si prolunga nello sfondo all’infinto e continua nel cielo. Questa pianura è la verità ultima delle cose» . Colli in Apollineo e dionisiaco diventa l’esegeta di Nietzsche che invita il lettore contemporaneo a comprendere perché essi sono «principi universali e supremi della realtà» . Del resto, non pochi romantici tedeschi si erano accorti, sollecitati o no da Hegel, che ormai era giunto il tempo di dar vita a una nuova mitologia, e intesero Dioniso come «il dio del futuro» . Non mancò all’appello Friedrich Hölderlin, che lo celebrò nella commovente elegia Brot und Wein (trasposta in un’altra versione con Der Weingott). Ma, si sa, era un vero poeta. E come tale riusciva a vedere oltre la fitta nebbia che stava calando su uomini e cose dell’Occidente.

il Riformista 19.12.10
Quando gli ebrei sfamavano Hitler
I turbamenti del giovane Hitler. Il Führer è nudo
La prima, magnifica mostra sul dittatore fa luce su uno dei più spaventosi buchi neri della storia contemporanea. Mille oggetti, filmati e foto si chiedono “come sia potuto succedere”. Risultato: il capo nazista non era poi così carismatico
di Tonia Mastrobuoni

qui
http://www.scribd.com/doc/45631356

Corriere della Sera 19.12.10
Esploratori
Genetica e vita eterna: la sfida viene dal freddo
di Giuseppina Manin


A qualcuno piace freddo. Anzi freddissimo, meglio «on the rocks» . A cominciare da un Martini da urlo, servito in calici regolamentari non di cristallo ma di ghiaccio, al bar di ghiaccio dell’Aurora Ice Museum, dalle parti di Fairbanks, Alaska. Da gustare in pelliccia e guanti di lana, pena il congelamento delle dita al terzo sorso. Consigliabile ingollarne almeno due o tre prima di infilarsi nel letto dell’hotel a fianco, un matrimoniale king size, sponde, colonne e spalliera di puro ghiaccio. Seicento dollari a notte, sogni surgelati garantiti. Ambitissimo da sposini abbastanza roventi da essersi scambiati il «sì» nella contigua Ice Church, prete in giacca a vento, e affrontare la prima notte stretti stretti in un sacco a pelo, al settimo gelo. E Gelo è la meta e il titolo del libro di Bill Streever, biologo e ambientalista con la passione del termometro sottozero. Tanto da vivere con il figlio e la compagna ad Anchorage, Alaska, dove, tempo permettendo, pratica con passione alpinismo, sci e nuoto subacqueo. E difatti già nella prima pagina di quelle Avventure nei luoghi più freddi del mondo, come recita il sottotitolo del volume pubblicato da Edt (pp. 312, e 20) lo incontriamo in costume da bagno a Prudhoe Bay, dalla parti del Circolo Polare Artico, pronto a un tuffo estivo. Siamo a luglio, acqua calda, due gradi. A un amico rimasto astutamente a riva, Bill comunica le sue sensazioni in diretta: dopo un minuto le dita dei piedi sono intorpidite, dopo quattro il pizzicore sulle cosce si trasforma in dolore bruciante. Al quinto si convince a uscire. Ci vorranno due ore per far riprendere calore al corpo. Bill forse è un po’ masochista, o forse è solo un gourmet dei ghiacci, un fan dell’inverno a oltranza. Ma prima di tutto Streever è uno scienziato. E come tale si avventura fino alle estreme frontiere del freddo, a caccia dell’ultima, algida, Thule. Sulle orme dei grandi esploratori, Vitus Bering, Ernest Shackleton, Robert Falcon Scott, ripercorre la storia delle grandi glaciazioni, studia gli influssi economici, politici e sociali del gelo, medita sulle reazioni del mondo animale e umano quando la colonnina del mercurio va giù, sempre più giù... Con meticolosa puntualità, capitolo dopo capitolo, da luglio al giugno successivo, annota temperature e luoghi di un anno vissuto glacialmente, il letargo di orsi e bruchi, le migrazioni degli uccelli, le rane boreali che d’inverno si fanno di ghiaccio e a primavera risorgono... Una meditazione su freddo e dintorni controcorrente in epoca di riscaldamento globale, una scelta di campo impopolare in una società che sembra aspirare a squagliarsi insieme con i ghiacci polari. D’altra parte, è vero che il freddo non ha mai goduto di buona stampa. Nel crescendo dei tormenti dell’Inferno, Dante sistema i gironi del ghiaccio riservati ai traditori, in fondo in fondo, dopo quelli del fuoco. Immagini e metafore si sprecano. Freddo come la morte, la paura, l’animo e il cuore di chi è insensibile. A sangue freddo uccidono i più perfidi, fredda è la guerra senza armi (ma quella «calda» non è peggio?) fredda la mente dei calcolatori... Per non parlare dei piedi. Freddi sono indice di cattiva circolazione, freddissimi rischiano i geloni. Connotazioni negative che hanno contribuito alla cattiva fama di un fenomeno penalizzato anche da secoli di miseria, in cui neve e gelo erano i temuti killer di piccole fiammiferaie, di poveri, di anziani. Gli stessi che oggi vengono invece stroncati dalle ondate di torrido calore. Se un tempo non avevano i soldi per riscaldarsi, adesso non hanno quelli per raffreddarsi. L’aria condizionata in gran parte del pianeta resta un privilegio di pochi Paesi, e più son ricchi più la fanno andare a manetta. In ufficio, in casa, in metropolitana, in tre- no, in aereo, in taxi... Il freddo artificiale piace, quello naturale è da fuggire. Gran parte dell’umanità dell’emisfero occidentale auspica ormai un’estate perenne, con cieli sempre azzurri e caldo da spiaggia lietamente fasulli come in «Truman Show» . Al primo cenno di nuvole, pioggia, vento, si alza inevitabile il coro dei lamenti. L’autunno viene accolto con scongiuri, l’inverno con sgomento. Persino i metereologi s’adeguano: all’avvicinarsi del temibile zero scatta l’allarme. Qualche centimetro di neve e la Protezione civile si allerta, le città vanno in tilt, com’è successo nei giorni scorsi, tv e media non parlano d’altro. Chi può molla tutto e scappa a Sud, nelle isole beate del sole eterno, chi resta mugugna e alza il riscaldamento a livelli tropicali. Bei tempi quando nevicava sul serio. I fiocchi che caddero su Berlino nel 1915 erano larghi tra i sette e i dieci centimetri. E quelli che sommersero il Montana nel gennaio del 1887 misuravano, testimoniano le cronache locali, quasi 40 centimetri, 20 di spessore. Per non parlare di come morì, nel 1776, il figlio di un funzionario laico della parrocchia di Bampton, nel Devon, Inghilterra. Trafitto da una lama di ghiaccio piombata su di lui dal campanile della chiesa. Sulla sua lapide si legge: «O Signore/qui lui giace/in una triste disgrazia/ucciso da un ghiacciolo» . Dati ed eventi da incubo. Streever riferisce. E ammonisce: l’adattamento al freddo non è eterno, potrebbe scomparire dopo qualche inverno trascorso in Florida. Generazioni cresciute imbottite e surriscaldate non hanno più i necessari anticorpi, così alla prima brina caterve di bambini, anziani e pure adulti, si barricano in casa, si ammalano, si trascinano da uno sternuto all’altro. Quello che ieri era uno sporadico raffreddore oggi minaccia a ogni autunno di trasformarsi in temibile influenza, pandemia cosmica. Il freddo porta con sé germi letali. Invasione di ultracorpi da un algido cosmo. Eppure, garantisce il biologo, preso a giuste dosi il freddo fa bene. Anzi benissimo. Rafforza il corpo, stimola i sensi e la mente. A proposito vale ricordare quel che ha scritto Douglas Mawson, esploratore antartico: «Durante le ore di cammino sugli impervi campi innevati, i pensieri scorrono, la mente è serena e rilassata» . Non per niente i Paesi con la migliore qualità di vita sono tutti al Nord. Il freddo conserva, è motore di buona parte dell’economia, aiuta persino a dimagrire. Secondo recenti ricerche tenere il riscaldamento di casa un po’ più basso, tre-quattro gradi in meno, aiuterebbe il metabolismo a bruciare di più. «Il freddo è come la malaria, se non ti uccide ti aiuta a perdere peso» , assicura Streever. Il freddo è morte e rinascita. Per marmotte, procioni e scoiattoli è l’occasione di lunghi sonni comatosi, per i lemming, piccoli roditori artici, di allegre orge sotto la neve, quando infrattati in tunnel sotterranei si accoppiano furiosamente e riempiono le gallerie di cuccioli. Per gli umani il freddo è salvifico nella criochirurgia, prolifico per la fecondazione assistita. Ovuli e sperma conservati in azoto liquido a -195 ° danno speranza a coppie sterili e innescano dibattiti d’ordine morale. In teoria— ricorda Streever— si potrebbero congelare ovuli e sperma a tempo indeterminato, farli unire in eterno, anche dopo la morte dei loro potenziali genitori. Immersi nell’azoto liquido, sempre a -195 ° , corpi ibernati sognano un’altra illusione di vita. Il primo a sfidare la morte con il ghiaccio è stato James Bedford. Stroncato da un cancro nel 1967, subito dopo esser stato dichiarato morto, secondo le sue volontà, una squadra di tre uomini gli ha pompato glicerina nelle vene, lo ha raffreddato con ghiaccio secco, quindi immerso in azoto liquido. Esempio imitato da altri irriducibili dell’al di qua. Attualmente, riferisce il biologo, sono circa 70 i «pazienti» , così vengono definiti, conservati in azoto liquido da varie compagnie del ghiaccio che promettono di accudirti dietro compenso, 150 mila dollari. Non modico, ma per l’immortalità si può fare. Pagamento anticipato, s’intende. Alcuni di questi corpi in attesa di risveglio sono interi, di altri, meno facoltosi, sono conservate solo le teste, troncate dal resto, da innestare, quando la scienza avrà trovato il rimedio per curare il male che li ha uccisi, su altri corpi, «presumibilmente ancora caldi ma dal cranio vuoto di un donatore straordinariamente generoso» , chiosa ironico Streever. Un’immagine macabra, che evoca il Frankenstein di Mary Shelley, creatura ibrida, pezzi di cadavere assemblati e rianimati. Nella prima versione del romanzo il mostro viene dal freddo, appare su una slitta su un desolato paesaggio artico. Un genio del cinema come Francis Ford Coppola fa iniziare il suo Dracula su un mare di ghiacci, su cui arriva la nave che porta il vampiro. E nei disegni di Doré Il vecchio marinaio di Coleridge congela la sua leggenda tra le colonne di ghiaccio dell’Antartide. D’altra parte, Arthur C. Clark, scrittore di scienza e fantascienza, sosteneva il successo dell’ibernazione al 92 per cento, mentre il criobiologo Arthur Rowe avverte: «Ritenere che l’ibernazione possa riportare in vita qualcuno che è stato congelato è come credere di poter ritrasformare gli hamburger in mucca» . Amen. Ai confini della metafisica si spinge anche la ricerca dello zero assoluto. Lord Kelvin nel 1848, anno dei grandi moti rivoluzionari europei, lo fissa a -459 ° Fahrenheit, ovvero -275 ° Celsius. Temperatura a cui il movimento molecolare rallenterebbe fino a cessare del tutto. Irraggiungibile per ora, sarebbe la morte della materia. Molto meno c’è voluto per sterminare eserciti, cambiare il corso della storia. La neve, ricorda Bill, ha fermato in India la marcia verso Est di Alessandro Magno, ha bloccato l’invasione saracena della Francia del XII secolo. Neve e gelo hanno trasformato i 12mila soldati del Continental Army di George Washington in «un esercito di scheletri» , hanno sbaragliato l’esercito di Napoleone con un dicembre a -37 ° , hanno fatto morire assiderati sessantamila soldati italiani e austriaci sul fronte della Prima guerra mondiale. Nell’ottobre del 1941 Hitler tentò di invadere la Russia ma non fece i conti con l’arma segreta del Paese: il gelo. Il ghiaccio rese inutilizzabili le mine tedesche, i carri armati s’impantanavano e i militari, a -45 ° , aspettavano invano i vestiti invernali. Si calcola che siano stati 250mila i morti per congelamento e ipotermia. I russi, abituati al gelo e attrezzati, se la cavarono. E durante la guerra di Corea, il congelamento tra i soldati afroamericani risultò più frequente che fra i bianchi. I neri avevano una probabilità quattro volte maggiore di subire lesioni causate dal freddo rispetto ai bianchi. D’altra parte, a riprova che la consuetudine con il clima può risultare determinante, gli inuit e i pescatori norvegesi hanno una circolazione sanguigna periferica maggiore rispetto agli europei. Leggendaria la resistenza al freddo delle tuffatrici giapponesi «ama» . La loro tolleranza alle bassissime temperature dei mari in cui si immergono per molte ore, una volta a seno nudo, oggi con la muta, per cercare perle e conchiglie, è oltre ogni canone comune. Ma, come nei gialli, il brivido vero Streever lo assesta alla fine. Visto come va il clima, sostiene, quell’Era glaciale di recente ripercorsa in tre film da una bella serie d’animazione, sta arrivando al suo realissimo e temibilissimo compimento proprio adesso. Un futuro di ghiaccio sembra in agguato. Paesaggi marmorei, lattiginosi, di visionario biancore, come nei quadri di Bruegel o di Caspar Friedrich. Come in quel Paese dei ghiacci in cui Andersen ambienta una delle sue fiabe più misteriose e crudeli, quella della Regina delle nevi che sfida un bambino rapito a comporre un puzzle terribile: scrivere con frammenti di ghiaccio la parola «Eternità» . Promessa mortale di una vita senza fine, senza calore, senza emozioni. L’illusione onnipotente di tenere il mondo sotto controllo che oggi, nell’inverno globale del nostro scontento, in troppi si ostinano a perseguire.

Repubblica 19.12.10
"Mamma canguro" le coccole meglio dell’incubatrice
L’alternativa per i bimbi prematuri
di Elena Dusi


"Erano così piccoli, non pesavano neanche un chilo. Poi, finalmente li ho tenuti sul petto"

ROMA - È uscito troppo presto dalla pancia della mamma. Ma un bimbo prematuro continua a crescere sul suo petto. Nudo, a contatto con la pelle della madre, uno scricciolo di neanche un chilo può trovare un calore e un equilibrio addirittura migliori rispetto all´incubatrice.
Il metodo della "mamma canguro", nato nel 1978 in un ospedale di Bogotà che non poteva permettersi incubatrici per tutti i prematuri, oggi trova sempre più spazio anche in Italia. «Nella nostra terapia intensiva - spiega Claudio Fabris, neonatologo del Sant´Anna di Torino - le mamme hanno un badge ed entrano a tutte le ore. Prendono il bimbo dall´incubatrice e lo tengono sul petto quanto desiderano, sedute su una poltrona reclinata».
La realtà di Torino è tutt´altro che isolata. Riccardo Davanzo, neonatologo dell´Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico Burlo Garofolo, ha pubblicato uno studio su Acta Paediatrica che raccoglie l´esperienza della sua terapia intensiva a Trieste insieme a quella di altri 8 paesi in 4 continenti. «La cura della mamma canguro - vi si legge - rafforza l´attaccamento fra madre e figlio, favorisce l´allattamento, ha effetti positivi sullo sviluppo e la serenità del bambino».
A contatto con la pelle della madre, spiega Davanzo, «il neonato prematuro respira meglio, ha meno apnee, sperimenta quegli stimoli tattili e olfattivi così importanti nelle prime settimane. La sua temperatura entra subito in perfetta sintonia con quella della madre e resta più stabile che all´interno dell´incubatrice». Quando a fare il "canguro" sono i padri, i benefici si mantengono. «Solo la regolazione della temperatura è meno perfetta. I bambini tendono a riscaldarsi troppo, non è chiaro il perché».
Monica Cardarilli al Burlo di Trieste ha partorito due gemelli pretermine. «Erano così piccoli, magri e nudi dentro l´incubatrice» ricorda. «Non pesavano neanche un chilo, piangevano e io non potevo fare nulla. Quando finalmente li ho potuti tenere sul petto non sono riuscita a frenare le lacrime per l´emozione». I neonati possono essere uniti alla madre anche se hanno i tubicini che li aiutano a respirare, basta che siano in condizioni stabili. «Non ci sono limitazioni, si può seguire la marsupio-terapia anche con neonati sotto al chilo di peso» spiega Andrea Dotta, responsabile della terapia intensiva neonatale al Bambin Gesù di Roma. «Recentemente abbiamo avuto una bambina che solo sul petto della madre riusciva a respirare da sola. Nell´incubatrice tornava ad aver bisogno della cannula».
La durata del contatto pelle a pelle dipende solo dalle esigenze della madre. «Restavo con i miei bambini per tre o quattro ore» racconta Monica Cardarilli, che insieme con altri genitori di bimbi prematuri ha fondato e continua ad animare l´associazione onlus "Scricciolo". «Nei week end mio marito mi dava il cambio. Le manine e i piedini erano così piccoli che avevamo paura a toccarli e poi c´erano i monitor che suonavano in continuazione. Sono state settimane lunghissime. I piccoli crescevano pochi grammi alla volta. Ma sentirli sul corpo è stata un´esperienza indimenticabile».

Repubblica 19.12.10
Al vaglio nuove linee guida del Ministero: le analisi per la sindrome di Down solo per chi "rischia"
Stretta sull’amniocentesi, anche dopo i 35 anni
Flamigni: "I test preliminari indicano soltanto dati statistici. Si risparmierà, ma ci saranno più Down"


ROMA - Troppe amniocentesi, il governo pianifica di tagliare i fondi anche ai nascituri. Secondo le nuove linee guida sulla gravidanza, amniocentesi e villocentesi non saranno più gratuite per tutte le donne sopra ai 35 anni. Se le proposte verranno recepite dal ministero della Salute, gli esami diventeranno di "secondo livello". Resteranno cioè a costo zero solo per quelle mamme considerate a rischio secondo un test combinato che mette insieme età della donna, translucenza nucale (un´ecografia che si esegue tra l´11esima e la 14esima settimana) e una serie di test del sangue.
«Come dice Marziale, c´è qualcuno che senza sapere come né perché, non vuole bene alle famiglie» commenta Carlo Flamigni, membro del Comitato nazionale di bioetica e professore di ginecologia e ostetricia all´università di Bologna. «Questi test preliminari non danno i risultati pressoché certi dell´amniocentesi. Si limitano a indicare un dato statistico: la percentuale del rischio che il bambino nasca con la sindrome di Down». In regime privato, il costo di un´amniocentesi parte da 600 euro per toccare i mille quando include la ricerca di altre patologie. «I costi risparmiati riducendo le amniocentesi gratuite - secondo Flamigni - verranno bilanciati dall´aumento di bambini Down. Per non parlare del dolore individuale di genitori e figli. Temo che si faccia tutto questo per scacciare l´idea dell´eugenetica senza tenere conto che le famiglie vogliono semplicemente un bambino normale, non destinato a soffrire».
Secondo gli esperti incaricati dal ministero della Salute di redigere le linee guida, la gravidanza in Italia resta troppo medicalizzata. Ogni 100 parti in media si svolgono 15,4 amniocentesi. «Ma c´è un rischio di perdite fetali di circa il 2%» spiega Vittorio Basevi del Ceveas, il Centro per la valutazione dell´efficacia dell´assistenza sanitaria che con l´Istituto superiore di sanità ha preparato le linee guida. Nelle madri con più di 40 anni il prelievo del liquido amniotico viene effettuato nel 43,4% dei casi.


Avvenire Agorà 19.12.10
Calligrafia In punta di pennino
Scrivere a mano fa emergere la personalità
di Riccardo Maccioni


Un ultimo tocco di pennino, una scrollatina alla pergamena et voilà , la lettera era pronta per essere consegnata; con le sue eleganti «c» panciute, le «o» con il ciuffetto, e un merlettino a completare le «z». Quante volte, ammirati e insieme supponenti, abbiamo visto quella scena nei film in costume. Convinti, nella nostra superbia tecnologica, che la calligrafia fosse allora una necessità da arretratezza, e oggi un passatempo salottiero da condividere all’ora del tè. Non era e non è così. Scrivere a mano facilita l’apprendimento, allena la volontà, sollecita l’immaginazione. In una parola «fa pensare meglio». Lo dicono i cultori della materia, lo sottolinea la scienza. L’ultima conferma, in un elenco che va allungandosi, arriva dall’Università statunitense dell’Indiana dove studi realizzati con la risonanza magnetica nucleare hanno dimostrato che i bambini abituati a scrivere a mano rivelano una maggiore attività nell’area cerebrale predisposta all’apprendimento. Analogamente, secondo una ricerca dell’Università di Washington i cui primi risultati risalgono al 1998, nei temi manifestano una maggiore originalità e creatività rispetto ai coetanei maniaci del computer. Di più: se lo scrivere a mano viene insegnato contemporaneamente al processo della composizione, ne traggono beneficio entrambi. Ma ce n’è anche per gli adulti, la cui capacità cognitiva ha giovamento dall’imparare alfabeti nuovi, come l’ebraico o il cirillico.
«Scrivere a mano ci permette di interiorizzare meglio la lingua – spiega Anna Ronchi presidente onorario dell’ Associazione calligrafica italiana, che ha sede a Milano –. Purtroppo nel nostro Paese l’insegnamento della bella scrittura è stato dimenticato. Il risultato è che ci sono tantissimi bambini e ragazzi dalla grafia illeggibile con inevitabili difficoltà per gli insegnanti e danni nel rendimento scolastico».
Spesso ne derivano deficit, blocchi sia formativi che psicologici. «Sono in aumento i casi di disgrafia e dislessia – aggiunge Ronchi –.
Trascurando l’atto della scrittura, sorgono problemi di lettura. E di apprendimento della lingua». Rilevazioni che contrastano con chi crede che gli esercizi di calligrafia vadano confinati nel libro Cuore e la penna sia utile soltanto per appuntarsi l’elenco della spesa.
Salvo poi telefonare alla moglie, per sapere se davvero c’è bisogno di latte. «Ho dimenticato a casa il biglietto» – la pietosa bugia detta mentre si cerca di interpretare quello che abbiamo scritto. Malgrado e-mail, sms e notebook, insomma c’è ancora bisogno di stilografica e biro. «Negli anni della formazione scolastica non si possono sostituire le tecniche moderne alla capacità del bambino di scrivere, che è a sua volta strumento di apprendimento e comporta l’acquisizione di abilità che vanno sviluppate – sottolinea la presidente Ronchi –. Le nuove tecnologie non possono diventare la fonte dell’istruzione scolastica. Possono, anzi devono essere utilizzate in un secondo momento. Insieme alla scrittura a mano, non per sostituirla». Il popolo «digitale», buona parte di esso almeno, denuncia però il rischio che gli esercizi di bello stile finiscano per creare un scrittura standardizzata, poco personale. «È il contrario. Ciascuno di noi adulti – continua Ronchi – ha una grafia diversa dagli altri. E non potrebbe essere altrimenti. La scrittura si compone infatti di un aspetto grafico, di un aspetto psicologico e di un aspetto linguistico. Anche se il modello è stato uguale, inevitabilmente con il tempo ognuno prende delle strade diverse, adotta dei metodi differenti. Dipende anche dalle condizioni in cui scriviamo, se di fretta o con maggiore cura. Tutti elementi che vanno ad influire sul nostro modo di scrivere e lo personalizzano». Agli amanti della calligrafia piacerà sapere che tanti scrittori moderni preparano a mano la «traccia» dei loro romanzi e che la penna resiste nelle stanze dei bottoni.
Nota, in questo senso la passione di Tony Blair.
L’ex premier britannico, che pure si vanta di aver dotato di computer tutte le scuole del Regno Unito, preferisce scrivere a mano i suoi discorsi e ama regalare stilografiche. Ai tempi di Downing Street donò una Churchill con pennino in oro a George Bush mentre un’altra fu inviata a Parigi per i 70 anni di Jaques Chirac. Più banalmente, istituti privati britannici hanno reso obbligatorio l’uso della stilo al posto della biro e in Francia si è riscoperta l’importanza del dettato. «In Italia anche grazie alla nostra associazione si è risvegliato l’interesse per la calligrafia – aggiunge Anna Ronchi –. Nel 2011 compiamo vent’anni e dopo tanto lavoro fatto soprattutto sull’arte della bella scrittura, oggi vorremmo offrire le nostre competenze per aiutare l’apprendimento dei bambini. In particolare con l’iniziativa 'La calligrafia ritorna a scuola' puntiamo a formare persone capaci di organizzare laboratori scolastici o tenere dei piccoli corsi di aggiornamento per insegnanti».
Nessuna voglia di far tornare indietro le lancette della storia però, nessuna bocciatura di tastiere e telefonini. Solo la consapevolezza che la forma delle lettere non può essere separata dai contenuti e che insieme formano un tutt’uno con la personalità dell’autore. Per dirla con Nabokov «quel che si scrive con fatica, si legge con facilità», e forse davvero, aiuta a pensare meglio. A capire e dire chi siamo.