martedì 21 dicembre 2010

l’Unità 21.12.10
Condiviso l’appello di Napolitano per un «salto di qualità» della politica
Sugli studenti il premier è sordo: «Non capisco perché manifestano»
Bersani e Casini d’accordo col Colle «Sennò il Paese rischia»
Il Pd è pronto ad accogliere le indicazioni di Napolitano per un «salto di qualità». L’opposizione apprezza anche l’appello del presidente ad ascoltare le ragioni degli studenti. Berlusconi è sordo: «Ma perché protestano?».
di Natalia Lombardo


Pier Luigi Bersani, al Quirinale per l’incontro con le alte cariche dello Stato, è «in piena sintonia» con l’appello di Napolitano per un «salto di qualità» della politica: «Siamo pronti a raccogliere le indicazioni del presidente, mettendo davanti a tutto l'impegno ad avanzare e a sostenere proposte che aiutino il Paese a mettersi sulla strada delle necessarie riforme», ha detto il segretario Pd, la «strada giusta» indicata dal Capo dello Stato, per Enrico Letta. Bersani apprezza anche la chiarezza del discorso di fronte ai problemi dell’Italia: «Un richiamo molto forte ai compiti di ciascuno». Quanto al Pd, costruirà la coalizione, anche per un eventuale voto sempre in agguato.
Pierferdinando Casini condivide «largamente» il discorso «di grande responsabilità» pronunciato da Napolitano. Il Terzo Polo è alla prova sull’università, oggi decide se avere una posizione comune o se l’Udc voterà contro come alla Camera.
L’Italia dei Valori riconosce al presidente il ruolo di «garante della Costituzione», ma Di Pietro non vede altro sbocco che il voto: «Non vogliamo compromessi al ribasso per mantenere la legislatura in vita con Berlusconi». Ma si rimette «ossequiosamente alle decisioni di Napolitano».
In linea con il Quirinale, negli ultimi giorni in modo più manifesto, è il presidente del Senato Renato Schifani: lo ringrazia come «garante della Costituzione» e torna ad invocare «coesione, stabilità e capacità di visione». Se la Lega smembra il discorso di Napolitano e apprezza la parte sul federalismo, il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, lo capovolge: lo scontro politico nasce dalla demonizzazione che è stata fatta contro Berlusconi da quando è sceso in politica».
È condiviso dalle opposizioni anche l’appello del Capo dello Stato ad ascoltare le proteste, a «non sottovalutare il malessere dei giovani», pur invitandoli a «stare in guardia dai violenti». Una bella risposta a Gasparri, che anche ieri ha soffiato sul fuoco parlando di «assassini» potenziali tra i manifestanti. Lo stesso Bersani si è appellato ai giovani perché «si tengano lontano dai violenti» anche per non «cancellare e oscurare le loro giuste rivendicazioni»; nella sede del Pd si è tenuto un incontro con i sindacati di polizia e i rappresentanti degli studenti. Anche sulla capacità di ascolto concorda Schifani, che condanna «ogni forma di violenza da abbattere con spirito responsabile». Per il ministro Rotonda Napolitano «parole sagge».
I GIOVANI E LA SORDITÀ DI SILVIO
Chi non sa ascoltare le ragioni delle proteste è ancora Berlusconi: «Non capisco perché manifestano gli studenti, non c'è nessun aumento dei costi e se avessi avuto più disponibilità avrei introdotto misure per il merito». Gli viene un dubbio, però: «Forse abbiamo spiegato male la riforma»; sugli arresti preventivi non condanna le sparate di Gasparri e rimanda la pratica «ai ministeri competenti». Ma lo stesso Cicchitto, durante il brindisi di Natale al gruppo Pdl, ironizza sul suo corrispettivo al Senato. «Gasparri? mi sa che agli arresti domiciliari finirà per andarci lui...».
Il finiano Adolfo Urso dà ragione a Napolitano: «In fondo alla protesta c'è un malessere diffuso che la mancata crescita purtroppo aggrava»: e se la questione giovanile «non può più essere negata né confusa con la violenza di pochi teppisti» da condannare, il portavoce di Fli tira un colpo: «Spero che nel Pdl non prevalga la tesi di chi, come Gasparri, propone solo strada della repressione preventiva».

l’Unità 21.12.10
Il segretario giovedì presenterà «la piattaforma di proposte: fatti sui quali costruiremo la coalizione»
Dall’ex ministro arriva un nome e cognome: «Casini nuovo Prodi?Perché no, anche lui è bolognese»
Bersani vuol cambiare l’Italia Fioroni vuol cambiare il Pd
Fioroni propone: alleati con Casini e Fini, via Vendola e Idv. Furiosi i vendoliani, Di Pietro rilancia l’ultimatum: se insiste io e Vendola da soli. Bersani: in direzione le proposte Pd, ci rivolgiamo a tutte le opposizioni.
di Andrea Carugati


Pier Luigi Bersani prova a «spazzare via» le polemiche su alleanze e primarie che sono scoppiate negli ultimi giorni dentro il Pd e nel centrosinistra. «Ci vogliono i fatti e su questi costruiremo la coalizione, perchè si possa far fare alla politica quel salto di qualità che chiede il Capo dello Stato». «Giovedì in direzione aggiunge proporrò la piattaforma del Pd per cambiare l’Italia. Tutte le forse dell’opposizione dicano cosa si può fare insieme per il Paese, basta con i personalismi». Le parole del leader tracciano la linea dell’intervento che terrà in direzione, e che sarò tutto centrato sulle proposte Pd per il Paese, tema chiave che viene prima delle alleanze. Questa è la linea su cui tenere unito il partito, l’orgoglio Pd, la sua «centralità», mentre su alleanze e primarie si è aperto uno scontro durissimo. Ieri Beppe
Fioroni ha ribadito il concetto espresso domenica da Enrico Letta («Serve un nuovo Prodi») e soprattutto ha reso esplicita l’idea che circola tra i moderati del Pd: un’alleanza col Terzo polo, senza Di Pietro e Vendola. «Serve un’alleanza forte stabile con il Polo di Casini, non una cosa emergenziale. E questo comporterà dire dei no pesanti ad altre alleanze». E chi sarebbe il nuovo Prodi? Casini? «È anche lui di Bologna, perché no», sorride Fioroni. «Ma ci sono anche altri nomi possibili. È ora di vedere le carte...». Una posizione non condivisa dalla truppa dei veltroniani di Modem, di cui Fioroni fa parte, che si è riunita ieri sera in vista della direzione. Veltroni non stoppa l’apertura al Terzo polo, ma punta soprattutto a incassare il risultato di rimettere, finalmente, al centro le proposte del Pd. Le alleanze, poi, verranno automaticamente. «Se saranno proposte davvero riformiste, sarà più facile incontrare Casini che Vendola», si ragiona tra i veltroniani. La proposta di Fioroni non piace a Cesare Damiano, mentre entusiasma l’ex popolare Giorgio Merlo: «Con una coalizione di sinistra vince Berlusconi».
Furiosi Sel e Idv. «Il Pd sta preparando la sconfitta sua, di tutti noi e del popolo del centrosinistra», dice Claudio Fava di Sel. «C’è una distanza imbarazzante tra il Pd e il Paese reale». Di Pietro ribadisce il suo ultimatum a Bersani: «Se dopo il 23 dicembre ci sarà ancora una risposta attendista, è bene che io e Vendola
partiamo da soli per rappresentare gli elettori del centrosinistra». E Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria Pd, risponde: «Bersani farà la sua proposta a tutte le opposizioni, nessuno escluso».
Intanto il coordinatore Pdl Denis Verdini cerca di seminare zizzania, parlando di deputati cattolici «a disagio nel Pd» e incerti se passare col Cavaliere. Replica Gero Grassi: «Non siamo in vendita, la nostra storia è alternativa alla sua anche moralmente».

l’Unità 21.12.10
Intervista a Fabio Mussi
«Nuovo Cln? Essere contro non basta»


Il presidente di Sel «Al Pd chiedo: quali riforme si possono costruire insieme a Fini e Casini?»
Mi fa piacere che il Pd, dopo aver pensato a una legislatura costituente con Berlusconi, ora ne riscopra la pericolosità fino a proporre un nuovo Cln. Ma proprio a loro, che ci insegnavano che non si vince con la demonizzazione, dico che non basta essere contro», ragiona Fabio Mussi, presidente di Sel. «Tramontate la spallata in Parlamento e il governo di transizione, bisogna essere pronti alle elezioni. E serve una proposta riformatrice che dia risposte al disagio sociale. Ora, ammesso che Fini e Casini accettino, mi chiedo: quale programma di riforme si può costruire con loro? Penso al precariato, all’università, al lavoro, ai temi etici. Nel terzo polo ci sono tifosi di Gelmini e Marchionne e del clericalismo. E Fini resta un uomo di destra». Per voi è accettabile solo un centrosinistra tradizionale?
«Non ci sono veti verso l’Udc, ma bisogna prima ricostruire un centrosinistra, una vera alternativa». Forse il Pd ritiene che un fronte con voi e l’Idv sia troppo debole...
«Secondo i sondaggi c’è un distacco di 2-3 punti da Pdl e Lega, che può essere colmato di slancio se c’è convinzione e spirito di lotta. Un Pd assorbito dal Terzo polo, ammesso che Fini e Casini ci stiano, è destinato alla sconfitta. L’unica chance per riaprire la partita è il centrosinistra, non la sua dissoluzione».
Nel Pd dicono che Vendola stia combattendo una battaglia personale e non per l’unità del centrosinistra.
«Non puoi rivolgerti a Fini e Casini e poi dire che Vendola divide il centrosinistra». Sel esclude di aderire a un eventuale fronte con Pd e Terzo polo?
«Non vedo su quale programma ci si potrebbe incontrare». Un nuovo Prodi non sarebbe più adatto di Vendola a guidare la coalizione? «E chi sarebbe? Casini? Perché cercare la leadership sempre al centro? L’idea che la sinistra può governare solo se si traveste è sbagliata, le sinistre europee così sono andate a sbattere contro il muro. Vendola ha un vocabolario in grado di recuperare i voti di tanti astenuti, e anche di pescare a destra».
Per voi le primarie sono inevitabili?
«Non si accendono a comando di qualche autonominato principe. Il Pd ha il 24%, noi siamo piccoli. Di cosa hanno paura? Forse hanno poca fiducia nelle loro forze... ».
Se Vendola vince le primarie Casini non ci starà mai... «E allora lo incoronino leader la Notte di Natale, come Carlo Magno. E se pensano di vincere, auguri». A.C.

l’Unità 21.12.10
«Ma da soli rischiamo di non farcela...»
Il dirigente Pd «Partiamo dai problemi del Paese Vendola fa passare in secondo piano i contenuti»


La proposta di Bersani non punta a escludere Sel e Idv dalla coalizione. Il punto è che il Paese non ce la fa più, e questa crisi non si può affrontare con strumenti tradizionali. Per questo vogliamo rivolgerci al Paese e a tutte le forze di opposizione che condividono questa analisi e proporre loro di impegnarsi per uscire da questa situazione», dice Davide Zoggia, responsabile Enti locali della segreteria Pd.
Dunque cosa farete?
«Chiamiamo tutti alla responsabilità, sia la sinistra che il Terzo polo, per mettere a posto questo Paese». Ma cosa potreste fare con una coalizione così ampia?
«Prima di dire che è impossibile, discutiamo delle misure indispensabili per l’Italia, uscendo dagli schemi tradizionali. Penso al lavoro e a una riforma dello Stato: confido che ci saranno punti di convergenza. Altrimenti ne prenderemo atto». Pensate che Pd, Idv e Sel siano così deboli da soli?
«La proposta di Bersani non muove dall’idea della debolezza del centrosinistra. Anzi, sarebbe competitivo. Ma forse non sufficiente per rispondere alle sfide che il Paese ha davanti». È possibile un’alleanza con Fini? «Nessuno pensa a un’alleanza organica con Fli, ma di fronte a una situazione di emergenza alcune risposte si possono dare insieme, anche sul piano economico».
Questa alleanza deve essere un fronte tipo Cln o qualcos’altro? «Il tema non è “Berlusconi sì o no”, così avremmo già perso. Bisogna partire dai problemi del Paese, dalle nostre proposte per uscire da questa crisi drammatica. Non sarà un Cln, ma una proposta di governo per far ripartire la crescita».
Siete disposti anche ad allearvi solo col Terzo polo come dice Fioroni? «Credo che il senso di responsabilità ci sia anche dentro Sel e Idv. Il punto è confrontarsi con tutti sulle ricette, a partire da quelle economiche». Sembra complicato...
«Certo, questa è una fase politica molto complicata. E capisco che i cittadini capiscano più facilmente schemi più classici. Ma noi abbiamo il dovere di provarci».
Le primarie finiranno in soffitta?
«Ora bisogna concentrarsi sui programmi e sul perimetro delle alleanze. Poi vedremo come scegliere il leader. In questa fase non servono primarie da tifosi, basate solo sull’appeal dei candidati».
Ma Vendola e Bersani potrebbero riempirle di contenuti... «Bersani di sicuro, Vendola non lo so. Il suo continuo richiamo alle primarie rischia di far passare i contenuti in secondo piano». A.C.

il Fatto 21.12.10
Ecco l’ultimo progetto di Bersani: “Chi cista bene. Gli altri amen”
Il segretario Pd annuncia un vertice a gennaio, aperto alle opposizioni
di Luca Telese


“Ho in mente un calendario per la coalizione e mi sono rotto le balle. A gennaio si parte, e chi c’è c’è”. Atterra a Roma da Milano all’ora di pranzo, Pier Luigi Bersani. Volto sorridente, disteso, soprabito in mano. Il primo giorno di una settimana di fuoco che si apre con la manifestazione degli studenti e prosegue con la riunione degli stati maggiori del Pd. Ancora non si sono sopite le polemiche sull’intervista di Bersani a Repubblica, quella in cui il segretario del Pd adombrava, senza troppe perifrasi, la possibilità di accantonare l’impegno per le primarie di coalizione per la scelta del leader in caso di un’alleanza con l’Udc. Una posizione resa più difficile dalla risposta di Casini, cortese e calorosa nei modi, glaciale nella sostanza: “Ci corteggiano tutti, ci vogliono tutti, noi restiamo coerenti sulle nostre posizioni, impegnati a costruire il terzo polo”. E da quelle di Rutelli (“Il terzo polo , se si votasse oggi, deve correre da solo”). Un bel problema. Provi a chiedere al segretario se il dibattito di questi giorni abbia sconvolto i suoi piani, lui aggrotta il sopracciglio e parte in una sorprendente (quanto esplicita) eruzione di bersanese: “Guarda, mi sono davvero rotto le balle!”.
“Mi sono stufato”. Come, come? Chiedi al segretario del Pd di spiegarsi, e lui aggiunge con altrettanta veemenza: “...basta, mi sono stufato. Qui c’è gente che si diverte a sparare nel mucchio. C’è chi si comporta da irresponsabile. C’è chi vuole giocare al massacro, chi ci attacca per sport su qualsiasi cosa facciamo, voi compresi. Ma lo volete capire – aggiunge Bersani – che io mi pongo il vero problema di questi giorni, che è come liberare questo benedetto Pa-e-seee!! (vocali aperte emiliane, ndr)... Come liberare questo Paese da ’sto governo qui, che è la vera catastrofe, la prima emergenza dell’Italia?”. Allora provi a fare un passo indietro: gli ricordi che sulla sue buone intenzioni non ci sono dubbi, ma anche che l’impegno delle primarie era stato lui a prenderlo, solennemente e in pubblico, durante una conferenza stampa improvvisata dopo un pranzo con Nichi Vendola a Roma.
PRIMARIE o problema? Il leader del Pd prende un sospirone, come un professore che si prepara a ripetere la lezione a uno scolaro distratto. Poi però sorride. È grintoso il segretario: “Ohè, ma l’avete letto il nostro statuto voi? Al contrario di altri, noi le primarie le abbiamo messe persino lì!”. E allora? “Allora il problema è evitare che anziché la soluzione, oggi, in questa difficile crisi, le primarie diventino un problema. Cioè un luogo di protagonismi, una roba che sta prima della soluzione, e finisce per allontanarla”. Il riferimento – nemmeno tanto velato – è a Vendola, ma Bersani non lo cita esplicitamente: “Io mi incasso!”. Prego? Il cronista rimane stupito, ma la parola è inequivocabile . Il segretario si abbandona alla passione: “Sì, io mi incasso, perché voi fate finta di non capire. Quando ripeto la roba che io non voglio nessun nome nel simbolo, dico una cosa che segna la nostra distanza dal leaderismo di Berlusconi e da tutti i protagonismi. Il Pd, e la mia coalizione, qualunque essa sia, non sarà una proprietà privata, una roba di una persona sola. È chiaro questo?”. Obietti che le primarie non sono solo un impegno preso con il leader di Sinistra e libertà, ma con gli elettori del suo stesso partito. Altro sospiro, più riflessivo: “Adagio, calma. Io – aggiunge Bersani mentre scende per le scale mobili – non me ne sto qui con le mani in mano, come ha provato a suggerire qualcuno, e nemmeno troppo innocentemente. Io sto lavorando per tutti, e ho un piano ben preciso nella mia testa, per rilanciare la coalizione”. Non è tardi? Bersani sembra stupito: “Ma se forse non si vota nemmeno a marzo! Come fa ad essere tardi?”. In ogni caso la domanda è superflua, perché il segretario è un fiume in piena: “Io adesso sto preparando quello che secondo me deve essere questo benedetto punto di intesa, chiamiamolo il programma democratico, chiamiamolo la piattaforma, chiamatelo come vi pare!”. Il segretario non si interrompe: “Io stendo la bozza – dentro ci sta tutto, dalla legge elettorale alle liberalizzazioni – ne discuto i punti più importanti con il mio partito...”. E poi? “Poi ho già un calendario molto semplice in testa. A gennaio, passate le feste, convochiamo la coalizione”. E cioè chi? “Oddiosanto! Tutti. Tut-ti, chiaro? Tutti quelli che sono all’opposizione di Berlusconi”. E come si decide chi ci sta e chi non ci sta?
Questa volta sul volto del segretario si allarga un sorriso radioso: “Oh bè! È molto semplice... Noi diamo pubblica lettura di questo testo, invitiamo tutti a discuterne con noi, e chiediamo chi è pronto ad aderire”. Pausa. Sguardo ammonitore al giornalista scettico: “Poi la cosa è più semplice, di quello che si pensi, e non impegna nemmeno tanto tempo: ci vogliono stare? Non ci vogliono stare? Bene, questo è l’ultimo tram: chi c’è, c’è. Chi non c’è, non c’è. Con quelli che ci stanno, anche un minuto dopo, ci si riunisce e si inizia un percorso comune per costruire la coalizione che sfiderà Berlusconi per il governo del Paese”. Non è stato perso troppo tempo? “Ma non vi va bene mai nulla! Altro che perdita di tempo. Io dico che a gennaio, dopo aver costruito questo percorso, si parte”. Quindi se aderisse anche Casini cosa cambia? “La coalizione si deve dare delle regole che stiano bene a tutti quelli che ne fanno parte. Quindi se non c’è Casini si possono fare anche le primarie, se non c’è, non si possono fare”.
L’ULTIMATUM di Di Pietro. Mentre dice queste cose, nella prima mattina di ieri, Bersani non ha ancora letto cosa dicono Giuseppe Fioroni (“Bisogna partire da un’alleanza struttura-le con il terzo polo”) e Antonio Di Pietro, di sera: “Io e Vendola abbiamo detto a Bersani di formalizzare la coalizione. Lui ha risposto: ‘Sì ma anche no’, ci rivediamo il 23. Non si può stare con il piede in due scarpe. Il terzo polo non ci starà, è tempo perso, un’offesa al programma. Se dopo il 23 – aggiunge – da Bersani ci sarà ancora una risposta attendista, io e Vendola – conclude Di Pietro – partiamo da soli per rappresentare gli elettori del centrosinistra”. Dopo Natale scopriremo se i tre poli di oggi rischiano di diventare quattro.

il Riformista 21.12.10
Ieri riunione dell’area che fa riferimento all’ex segretario: ora un partito grande e aperto
La spinta dei veltroniani per l’abbraccio coi terzisti
«Giusta l’impostazione scelta da Bersani: prima rilanciare il progetto riformista e rimet- tersi al centro della scena, e poi discutere di alleanze». Fioroni: «Casini il nuovo Prodi, perché no?»
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/45727524

Corriere della Sera 21.12.10
L’orecchino populista
di Ernesto Galli Della Loggia


D opo il segno premonitore rappresentato da Di Pietro oggi Vendola è la conferma che l’elettorato che fu per decenni quello del Partito comunista ormai è un pallido ricordo perché un pallido ricordo sono ormai il suo mondo concreto e ideale, la sua mente e il suo cuore. L’irruzione vittoriosa di Vendola nelle primarie del Pd segna per la sinistra la fine della «storia» come termine essenziale di riferimento e la sua sostituzione con la «vita» . Finisce cioè l’idea secondo la quale sarebbe per l’appunto nella storia la dimensione più vera dell’esistenza degli uomini perché sarebbe essa la chiave vera della loro soggettività, e dunque sempre la storia sarebbe la causa e insieme la soluzione dei loro problemi. Questa idea, che peraltro non era stata solo della sinistra, finisce da noi con la fine dell’impianto ideologico che arriva all’Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca. Finisce con il declino dell’industrializzazione e dei suoi attori, con l’impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati. La sinistra è semplicemente quella che ha risentito di più del contraccolpo di tale fine perché era quella che più aveva puntato sulla storia e sul suo supposto svolgimento progressivo, credendosene interprete autorizzata, protagonista decisiva ed erede universale. Per la suggestione di «Mani pulite» il grande vuoto così creatosi è stato riempito inizialmente da una sorta di trasfigurazione ideologica della giustizia penale. Il moralismo antico della sinistra (dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche) è divenuto giustizialismo: l’idea cioè che dietro ogni avversario si celi un malfattore, e che quindi il codice penale possa e debba essere l’alfa e l’omega di ogni politica. Per una sua parte il popolo di sinistra in questa idea ancora si riconosce, e sta qui il motivo dell’ipoteca permanente che Di Pietro e il dipietrismo esercitano tuttora sui suoi orientamenti elettorali. Ma ormai, come dicevo all’inizio, un’ipoteca ben maggiore ha preso ad esercitarla un nuovo protagonista: Vendola. Alla sguaiataggine plebea dell’ex pm di Milano subentra lo studiato populismo del governatore pugliese. Con Vendola si può dire che avvenga il distacco completo dall’antico ormeggio ideologico, che in qualche modo con Di Pietro era ancora quello tradizionale, e si entra in qualche cosa di completamente diverso: nel mare della vita. Vendola — anzi universalmente Nichi, in una misura neppure paragonabile a quella in cui Veltroni è mai riuscito ad essere Walter, o la Bindi Rosy: stigmate indiscutibile di una riuscita assimilazione al modello divistico di tipo rockettaro-televisivo — Vendola, dicevo, innanzi tutto non parla: intesse delle «narrazioni» (parola chiave del suo lessico). Narra di «ragazzi» (lui non dice mai giovani, termine «freddo» che sa di Censis, lui adopera solo termini «caldi» , affettuosi), di notti sulla spiaggia ad ascoltare la «taranta» o vecchi cantastorie, di sua madre e dei suoi amici, di grandi speranze e grandi delusioni. Certo, la politica è sempre presente. Ma nella sua «narrazione» la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti, è immagini ed emozioni, fantasiosa capacità di rubricare come «immagini di morte» eguali «la macchia di petrolio del Golfo del Messico e il plastico del garage di Avetrana in uno studio tv» .
In Vendola, lungi dall’essere argomentazione razionale di problemi concreti e di soluzioni possibili, la politica è soprattutto retorica e oratoria fusionale, identificazione emotiva tra chi «narra» e chi ascolta. Con ciò incarnando una versione di populismo in cui il discorso politico è pretesto continuo, in realtà, per segnali allusivi di sdegno o di amore che Vendola mostra di sapere condivisi, che vuole condividere con chi lo ascolta. Garantiscono l’autenticità del racconto vendoliano, e insieme la diversità di questo dai discorsi di tutti gli altri politici, il suo orecchino e l’anello che porta al pollice: esattamente come il copricapo indio o il camiciotto rosso garantiscono l’autenticità di Evo Morales o Ugo Chávez attestandone la diversità. I leader etno-populisti, infatti, hanno bisogno di segni di riconoscimento, segni che il «loro» popolo possa immediatamente vedere e capire; e sanno bene che la politica si può fare — eccome! — anche con il corpo e con l’abbigliamento. Perché Vendola, alla fine (o forse nella sua essenza) è anche un leader etnico: non a caso è, insieme al solo Bossi (ma in modo incomparabilmente più ricco e suggestivo di Bossi), l’unico esponente politico italiano che evochi di continuo la propria origine meridionale e le peculiarità del Sud. Facendo anzi molto di più: e cioè tratteggiandolo come una sorta di luogo pacificato dello spirito, come un modello di essenzialità e di verità umana, da proporre alla sinistra contro il cattivo modello del produttivismo a tutti i costi, del consumismo, dell’inessenzialità acquisitiva (che — non è detto, ma si capisce — abitano altrove). Il Sud, insomma, nella narrazione di Vendola tende a divenire addirittura il riassunto di un nuovo progetto di sinistra possibile in quanto metafora concreta di ciò che è buono e insieme antico; qualcosa che ha in sé quel sapore del passato, quella promessa di ritorno al primigenio e alla vita che il miraggio dell’Eden socialista aveva più o meno inconsapevolmente sempre alimentato. Che si pensava perduto, per l’appunto, ma che ora un leader così evidentemente moderno per la sua omosessualità, così deliziosamente trendy con quel suo orecchino e quel suo anello, proprio con questa sua modernità da copertina rende in qualche modo di nuovo credibile. Tra le magiche virtù del populismo di sinistra c’è dunque anche questa: appurato lo smacco subito dal logos della storia, riesce a renderne in qualche modo di nuovo plausibili gli antichi traguardi attraverso un bagno rigeneratore nel pathos della vita.

il Riformista 21.12.10
Il “vendoliano” Gennaro Migliore
«Il Pd non romperà con Nichi l’autolesionismo ha un limite»
di Ettore Colombo

qui
http://www.scribd.com/doc/45727524

Corriere della Sera 21.12.10
Pd con l’Udc e Casini premier D’Alema: pure Vendola dirà sì
di Maria Teresa Meli


ROMA — È da una settimana che tra i vertici del Partito democratico è andata maturando la decisione di non rinchiudersi in un’alleanza marcatamente di sinistra con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro e di non dare per scontate le primarie, che pure Pier Luigi Bersani aveva pubblicamente promesso al «governatore» della Puglia. Massimo D’Alema è stato il primo a spingere in questa direzione: «Con uno schieramento di quel tipo non andiamo da nessuna parte. E poi se ci dividiamo in tre poli, rischiamo di far vincere Silvio Berlusconi» . L’ex premier ha parlato con Gianfranco Fini, chiacchierato a lungo con Pier Ferdinando Casini. E si è convinto che lo stesso presidente della Camera, a determinate condizioni, potrebbe accettare un’alleanza con il Pd. Ma se anche l’ex leader di An si ritraesse, secondo il presidente del Copasir bisognerebbe comunque insistere con Pier Ferdinando Casini, perché almeno lui dica di sì. D’Alema ritiene che alla fine della festa anche Nichi Vendola non potrebbe sottrarsi a un’alleanza di questo tipo. L’unico vero «problema» è rappresentato da Antonio Di Pietro: «Lui e Casini non vanno d’accordo» . E avere il leader dell’Italia dei Valori come spina nel fianco è un lusso che il Pd non può concedersi. L’ex magistrato deve aver subodorato qualcosa, osservando i movimenti in casa democratica. Non a caso ieri ha fatto capire che non intende aspettare per troppo tempo la risposta di Bersani alla sua proposta di un’alleanza elettorale che non veda dentro l’Udc: «Bersani non può stare con il piede in tre scarpe. Bene faranno Idv e Sel a decidere di rappresentare da soli gli elettori del centrosinistra se, dopo il 23 dicembre, dovesse arrivare una risposta ancora attendista e vetero-democristiana da parte del Pd» . Dunque Di Pietro agita lo spauracchio di un’alleanza tra lui e Vendola per cercare di arginare le mosse del Partito democratico. Ed effettivamente un’operazione di questo tipo creerebbe dei grossi problemi a Bersani. Ma D’Alema è convinto che il «governatore» della Puglia non vorrà assumersi la responsabilità di far vincere Berlusconi e che quindi non seguirà Di Pietro. Vendola però, almeno al momento, non ha intenzione alcuna di abbandonare le primarie e di cedere alle pressioni di D’Alema e Bersani. In questi giorni il presidente della Regione Puglia si è espresso in maniera molto dura nei confronti del Pd, paragonando la situazione dentro quel partito a un libro dell’orrore alla Stephen King. Secondo Vendola «non è affatto un bene l’idea del Pd di consegnarsi a mani alzate ai centristi e di sperare in formule politiche magiche derivate direttamente dalla Prima Repubblica» . Ma c’è una carta che D’Alema e Bersani tengono ancora coperta: la candidatura alla premiership di Casini. È questa la profferta che potrebbe convincere il leader dell’Udc. Questa soluzione viene ufficialmente smentita sia dal segretario che dall’ex premier. Però un politico di lungo corso come Beppe Fioroni ha subito capito dove si voleva andare a parare e ieri è stato lui a fare pubblicamente il nome di Casini come possibile candidato premier del centrosinistra. Secondo Fioroni «il Pd deve fare scelte chiare e dovrà dire dei no pesanti a Sel e Idv, ma l’Udc non può continuare a tirarla per le lunghe: deve dirci se vuole allearsi con noi o no» . In estrema sintesi è la posizione di tutta la minoranza del partito, dove si torna a parlare, come già a settembre, di scissione, nel caso in cui il Pd, alla fine, dovesse acconciarsi ad una mini alleanza con Vendola e Di Pietro.

Corriere della Sera 21.12.10
Casini apre a Berlusconi
Napolitano: resisto al voto anticipato per il bene del Paese
di M. Gal.


Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, al Tg1: «Se il presidente del Consiglio fa un appello alla responsabilità, noi risponderemo» . Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: «Sono tenuto a resistere, nell’interesse generale, all’improvvida prassi degli scioglimenti anticipati delle Camere»
Casini: pronti a rispondere a un appello del premier Berlusconi soddisfatto

ROMA — Berlusconi lo prende anche in giro, perché se Fini «è destinato a sparire, collocandosi in un’area politica senza voti, che non esiste» , Casini -aggiunge -prende il 6%soltanto perché «piace alle signore» . Eppure è proprio dal leader dell’Udc che arriva la novità della giornata e anche una buona notizia per il Cavaliere. — dice infatti Casini che il suo partito è pronto a sostenere il governo, se arriverà un appello in tal senso. E questo mentre il premier si dice convinto che l’esecutivo andrà avanti, che «si possono fare le riforme e governare anche con numeri scarsi» . Anche grazie ai deputati centristi, aggiunge, «che non ci faranno mancare i loro voti in Parlamento» . Ieri Berlusconi ha scambiato gli auguri natalizi al Quirinale e anche ascoltando le parole della prima carica dello Stato ha rafforzato la convinzione: «Napolitano ha spezzato una lancia per la continuità e questo è in sintonia con quello che noi abbiamo ritenuto sia l’interesse del Paese. Ho avuto riscontro nell’Ue con tutti i leader che tengono al fatto che in Italia non ci sia un vuoto di governo» . Ieri il premier ha parlato soprattutto a porte chiuse, all’hotel Duke, ai Parioli, pranzando con gli eurodeputati. Ha detto che in tanti, in Parlamento, si muovono, in queste ore, perché «stanno riflettendo su un loro posizionamento in sintonia con gli elettori cattolici e moderati» . Ha aggiunto che il Pdl è al 31%, Fli è al 3,4 mentre Pier Ferdinando Casini ha il 6%(per le donne di cui sopra e anche per «la sovraesposizione mediatica di cui gode» ). Ha detto anche di non aver mai comprato alcun deputato, né promesso posti del governo («che infatti non verranno dati a chi ci ha sostenuto» ); di voler «allargare la maggioranza» , un dovere per fare le riforme, anche se prima aveva detto che si possono fare anche con «numeri scarsi» ; di aver in mente di cambiare il nome del partito, anche perché Fini potrebbe aprire un fronte giudiziario sui diritti di proprietà del simbolo. In serata, al Tg1, Pier Ferdinando Casini puntella la voglia di stabilità del Colle, e del premier, con queste parole: se Berlusconi «fa un appello alla responsabilità, noi in nome della responsabilità risponderemo» , viste le difficoltà economiche che attraversa il Paese. Ma «senza posti, senza entrare nel governo perché sarebbe trasformismo» .

Repubblica 21.12.10
Il leader Idv a Repubblica Tv: dica con chi andrà oppure noi da soli  Veltroni: al Pd le primarie servono Di Pietro dà l´ultimatum a Bersani    E Vendola attacca: "Trovo incredibile che il segretario Pd possa pensare di costruire un´alleanza con Fini"  


ROMA Walter Veltroni rilancia: «Il Pd non deve rinunciare ad avere grandi ambizioni, deve anzi tornare ad averle». È il «coraggio riformista» quello di cui l´ex segretario parla ieri sera alla riunione di Modem (Movimento democratico), la minoranza interna che fa capo a lui, a Paolo Gentiloni e Beppe Fioroni. E Veltroni ha insistito anche sulle primarie: non devono essere abbandonate, perché «sono percepite dai cittadini come parte integrante dell´identità del partito». Nella direzione, convocata da Bersani per il 23, questi nodi devono essere sciolti.
A tenere banco c´è comunque la questione delle alleanze. Per Fioroni il partito deve fare chiarezza: «L´alleanza va fatta solo con il Terzo Polo e individuando un nuovo Prodi che parli agli elettori moderati delusi». Non con Di Pietro, quindi.
Ma il leader dell´Idv, a sua volta, lancia un ultimatum: «Giovedì prossimo il Pd deve dire chiaramente con chi si alleerà, oppure noi di Italia dei Valori e Sinistra ecologia e libertà andremo avanti da soli». Antonio Di Pietro, ospite ieri di Repubblica Tv, invia un messaggio preciso al segretario dei democratici Pierluigi Bersani, che nei giorni scorsi aveva invece proposto un patto per il Paese a tutte le forze politiche, a partire dal Terzo polo di Fini, Casini e Rutelli.
«Rispetterò qualunque decisione dice il leader di Idv ma deve essere o un sì o un no. Non si può tenere un piede in due scarpe. Il Pd non può fare come l´asino di Buridano». Secondo Di Pietro, «il Terzo Polo non può stare con il Pd, sarebbe un´offesa alla storia e al programma perché la questione sociale e la laicità dello Stato sono temi che non possono essere racchiusi in una formula enigmistica "centrosinistra più Terzo Polo". Quelli non fanno la stampella ma si fregano tutto lo sgabello». Poi aggiunge: «Se dalla direzione del Pd verrà ancora una risposta incerta, noi e Sel partiamo per dire che vogliamo comunque rappresentare gli elettori del centrosinistra. A quel punto il Pd perderà la leadership».
Vendola ha già sfidato il Pd sia sulle primarie che sulla strategia delle alleanze. E ieri in tv su La7, rilancia: «È incredibile che Bersani possa pensare di costruire un´alleanza con Gianfranco Fini». Sull´ipotesi poi che il Pd rinunci alla primarie pur di dialogare con il Terzo Polo: «E´ importante distinguere ha spiegato tra essere minoranza o essere minoritari, perché in quest´ultimo caso si tratta di rinunciare a combattere la battaglia per capovolgere i rapporti di forza. Non ho nessuna intenzione di tenere in trincea la mia verità. Dobbiamo insieme costruire un percorso per diventare maggioranza senza nasconderci che siamo di sinistra».

l’Unità 21.12.10
Gli studenti si organizzano alla vigilia del corteo: «Convertiamo la rabbia in qualcosa che duri»
Si autodenuncia il ragazzo che ha pestato col casco Cristiano: «Sono vinto dal rimorso»
Gli studenti: non sarà violata la zona rossa
Confessa l’aggressore
Assemblea alla Sapienza alla vigilia della nuova manifestazione studentesca contro la riforma Gelmini. «Convertiamo la rabbia del 14 in qualcosa capace di durare». Intanto confessa l’«aggressore del casco».
di Mariagrazia Gerina


«Non cadiamo nella trappola che ci sta tendendo il governo: i veri violenti sono loro che continuano a gettare benzina sul fuoco, non noi. Loro replicheranno la zona rossa e si aspettano che noi proveremo di nuovo a violarla: e invece no, noi li spiazzeremo anche stavolta».
Alla Sapienza, da dove tutto è partito, nell’aula 1 di Lettere, ieri sera, va in scena il tentativo di salvare il movimento e di lanciare la protesta oltre la scena del trauma. I banchi ad anfiteatro sono pieni di studenti. Le immagini di quello che è accaduto il 14 dicembre ce l’hanno tutti negli occhi. Stavolta non è dato replicare. «La rabbia del 14 dobbiamo dobbiamo convertirla in qualcosa capace di durare». Anche perché tutti sanno come andrebbe a finire il remake. Molti invocano lo sciopero generale. «I giornalisti fuori, però, prego»: lo slogan «non mi fido», a questo punto, vale anche per la stampa. Davanti, c’è l’appuntamento «della vita». Alle 9.30, davanti alla Sapienza, come l’altra volta. Mentre il senato, asserragliato, dirà l’ultima parola sulla riforma Gelmini. La strategia per evitare le trappole è spostare altrove la protesta. «Loro si chiuderanno nella zona rossa, noi vogliamo essere ancora liberi di parlare e di comunicare con la città e con il paese». Parlano di blitz, azioni a sorpresa. I conti però con quello che è accaduto il 14 dicembre non sono ancora chiusi. Il fantasma del ragazzo che prova a imporre il suo «ordine» a colpi di casco fa irruzione anche nell’assemblea. «Ma come ce la prendiamo con gli agenti se ci manganellano e poi dobbiamo vedere uno di noi che prende a cascate un ragazzino di quindici anni?».
Quel fantasma ora ha un nome e un cognome, Manuel De Santis, vent’anni. Non è uno studente, è un pizzaiolo, precario. «Un cane sciolto», dice il suo avvocato. Sabato ha consegnato ai magistrati romani poche righe in cui ammette che è lui ad aver spaccato la testa a quel razzino. «Non reggevo al rimorso, dovevo fare qualcosa». E adesso aspetta di essere convocato dai pm, che hanno aperto un fascicolo per lesioni volontarie gravi.
«Sono io quello con il casco, da quel giorno non riesco più a dormire», recita la sua confessione: «Volevo evitare che la manifestazione avesse una deriva violenta, alcuni manifestanti stavano prendendo di mira la polizia attaccando le loro camionette, volevano raggiungere il senato, mi sono lanciato contro alcuni di loro e ho finito per perdere il controllo, ma non volevo provocare quello che ho provocato».
Ora dice che vorrebbe incontrare Cristiano, il ragazzo finito a terra con la testa spaccata, chiedergli perdono. La famiglia dice che è disposta a risarcire lui e la sua famiglia. «Sono sconvolti e addolorati per quanto è successo», racconta il suo avvocato Tommaso Mancini, già difensore di Tony Negri, di Achille Lollo, di Francesca Mambro. «Tutto molto prematuro», risponde per ora il padre di Cristiano, che ieri ha presentato in Procura la sua denuncia. E intanto in rete spunta un filmato più ampio, in cui si vede Manuel che, qualche minuto prima di mandare a terra Cristiano, imbraccia il casco e colpisce un altro ragazzo.
«Quello era uno del servizio d’ordine», dice intanto il tam tam della Rete. «È uno dei disubbidienti, di Esc». Esc è un centro sociale, vicino all’università, frequentato soprattutto da studenti. Nel video si riconoscono anche alcuni di loro. «Manuel però non è un nostro militante». Ad Esc dicono di ricordarlo come uno che prendeva parte ai cortei, qualche volta alle feste. «Il suo è un gesto senso, che tutti abbiamo condannato».

l’Unità 21.12.10
Viminale e questura cercano il dialogo «Ma duri con i duri»
Già blindate le sedi istituzionali. Il piano è scattato: saranno impiegati più mezzi e più uomini ma l’imperativo è evitare contatti tra forze dell’ordine e manifestanti. «Tutelare la libertà di manifestare e isolare i violenti».
di C. Fus.


Il piano è già scattato. C’è anche se non lo vedi. Le sedi istituzionali, palazzo Madama, sede del Senato in testa, sono blindate da ieri mattina. «Pronti ad intervenire a seconda del tipo di emergenza che si dovesse eventualmente presentare» si spiega in via San Vitale, sede della questura di Roma. «Ma se ci attaccano risponderemo» precisa il Viminale in serata dopo una riunione tra il ministro Maroni e il capo della Polizia Antonio Manganelli. Si parla di circa un migliaio di uomini e di decine di mezzi blindati, sempre più protagonisti in questo modello di ordine pubblico fortemente voluto dal questore Francesco Tagliente che ha preferito impiegare più mezzi più uomini. Evitare il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine è la regola principe.
In questa ennesima vigilia di manifestazione di piazza, un elemento balza agli occhi in modo netto: la differenza di umori tra il dibattito politico e le analisi dei responsabili della sicurezza e dell’ordine pubblico. Allarmati, quasi provocatori nel primo caso; pacati, responsabili i secondi. «Non possiamo fare previsioni, siamo pronti ad ogni eventualità consapevoli che tutto è stato fatto per cercare un dialogo con i manifestanti, consentire la libertà di manifestare ma isolando la violenza» dice una fonte qualificata della questura, in queste ore in primo piano nella sala situazioni.
Dialogo, quindi. Lo ha cercato il questore Francesco Tagliente che ha fatto arrivare ai vari collettivi universitari riuniti in assemblea un messaggio che suona più o meno così: incontriamoci, valutiamo quello che volete fare e come potete farlo. Al momento non ci sono risposte. Un silenzio che «preoccupa».
«I ragazzi prosegue la fonte devono sapere che ci sono tre cose che non possono assolutamente fare: attaccare le sedi istituzionali, attaccare gli uomini in divisa e gli esercizi commerciali. Tutto il resto, che appartiene alla fantasia ma non può avere nulla a che vedere con la violenza, ben venga, è un loro diritto». Agenti e studenti, troppe volte in questi mesi, dalla stessa parte,a protestare, a rivendicare diritti. «Possibile che i ragazzi non capiscano che colgano questo aspetto? Due facce dello stesso problema, perchè non viene colto questo aspetto?» chiede uno dei dirigenti responsabili della piazza.
Per domani, giorno in cui la riforma Gelmini diventerà legge, non è stata autorizzata alcuna manifestazione ma il corteo annunciato potrà muoversi liberamente fino ai confini della zona rossa termine e concetto bocciato in questura «perchè carica la giornata di significati sbagliati». Il centro storico è stato diviso in tre anelli: il più esterno zona di rispetto ha chiusure molto elastiche, accesso libero seppur controllato e può sopportare qualche manifestazione: quello intermedio zona riservata e infine la zona di massima sicurezza dove entrano solo gli autorizzati. Le tre zone possono essere chiuse e sbarrate con i mezzi blindati «in ogni momento nell’arco di tre minuti». Gruppi mobili, personale di polizia in borghese, saranno disseminati lungo il corteo per intercettare e anticipare eventuali mosse, attacchi o blitz. Sulla manifestazione numeri, tipologia, intenzioni c’è ancora molta incertezza. Non viene dato peso ad informative dell’intelligence che annunciano «arrivi dall’estero». «Saremo dove meno vi aspettate» recitava beffardo un post del sito Uniriot, il network delle facoltà ribelli. Fantasia, eventi improvvisi, flash mob contro il governo. Effetto sorpresa. Non sarà la violenza, è la speranza, la cifra della protesta.

l’Unità 21.12.10
«Caro ragazzo, da poliziotto ti dico: noi stiamo dalla vostra parte»


Sento il bisogno di scrivere queste due righe rivolgendomi allo studente che mercoledì andrà in piazza».
Inizia così l’appassionata “lettera aperta” che Maurizio Cudicio, poliziotto in servizio alla Questura di Trieste, scrive agli studenti che si sono dati appuntamento in piazza a Roma domani, in occasione della votazione in Senato del Ddl Gelmini.
«Io poliziotto, sono figlio e padre e quando finisco di lavorare torno a casa dalla mia famiglia. Mia moglie mi chiama al cellulare e mi dice di non fare tardi che la cena è quasi pronta. Io contento la tranquillizzo e le dico che tornerò il prima possibile. Passano le ore e mi ritrovo in ospedale con la testa rotta. Studente, mi rivolgo a te, io sono consapevole che non sei stato tu, tu hai tutte le ragioni del mondo di manifestare per i tuoi diritti, ma quello che non sai forse è che noi poliziotti siamo con voi, siamo dalla vostra parte e non siamo contro nessuno». «Noi rappresentiamo lo Stato quando ci vedete in strada continua la lettera ma credimi siamo orgogliosi di farlo, noi amiamo il nostro lavoro ma siamo in piazza anche per voi. Non siamo lì per divertimento e facciamo di tutto, credimi studente, di tutto, per evitare che qualcuno si faccia male. Certo gli ordini sono ordini e noi siamo obbligati ad eseguirli, ma sappiamo benissimo dove dobbiamo fermarci per il bene nostro e vostro».
«Abbiamo paura, sì tanta a volte e in certi momenti forse sbagliamo, ma credimi, parlo con il cuore, quando ci troviamo tra due fronti, in mezzo alla guerriglia urbana è veramente dura. Ma per noi siete tutte persone che hanno diritto di manifestare e noi siamo in piazza perché questo diritto sia rispettato. I media e i politici a volte esasperano i toni, non rendendosi conto che in strada ci sono solo persone, che abbiano la divisa o siano studenti», scrive Maurizio Cudicio, che su Facebook ha creato il gruppo “Movimento poliziotti”, per creare un punto di incontro fra cittadini e agenti, che ha superato in pochissimi giorni i mille iscritti.

Corriere della Sera 21.12.10
E il Pd fa incontrare studenti e polizia


ROMA — Un appello «contro ogni forma di violenza politica» . Alla vigilia del ritorno in piazza degli studenti e proprio mentre Maurizio Gasparri propone arresti preventivi, il Partito democratico interviene con un’iniziativa inedita, un incontro faccia a faccia tra studenti e poliziotti. Un tentativo di dialogo, con l’appello agli studenti perché isolino i violenti e un no alle strumentalizzazioni politiche. Nella sede del Pd erano presenti il responsabile sicurezza del partito, Emanuele Fiano, il responsabile studenti Marco Meloni e la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro. Dall’altra parte c’erano alcune delegazioni del mondo della scuola: Rete degli studenti, Associazione 29 aprile dei ricercatori, studenti dell’Acli, Udu, Fuci, Arci studenti e giovani ebrei d’Italia. Di fronte agli studenti, sedevano rappresentanti sindacali delle forze dell’ordine, Siulp, Siap, Silp Cgil, Coisp e Associazione funzionari di polizia. Pier Luigi Bersani, assente, ha però presentato l’appello: «L’Italia non può permettersi il rischio di cadere in una nuova spirale di violenza e di terrore, come è avvenuto in un passato non troppo lontano — si legge nella lettera aperta —. È necessario separare senza incertezze le legittime manifestazioni pacifiche di dissenso da coloro che invece alle manifestazioni partecipano in forma organizzata e squadristica» .

Corriere della Sera 21.12.10
Lucia Annunziata: «Il ’’77 non c’entra niente Hanno Web e pale, non pistole»
di Paolo Conti


ROMA — «Sia Maurizio Gasparri che Anna Finocchiaro hanno commesso un errore legato a un banale riflesso condizionato: rivolta a Roma uguale 1977. Profondamente sbagliato. Se qualcuno decidesse di perquisire un qualsiasi centro sociale del 2010, troverebbe ragazzi impegnati a navigare su Internet, a capire cosa sta accadendo di Wikileaks, magari ad approfondire la medicina ajurvedica. Ma nemmeno l’ombra di una pistola» . E i possibili arresti preventivi? «Ma dove vanno a farli? Nel 1977 arrivavi a via dei Volsci, chiudevi il collettivo, e risolvevi. Ma oggi rischi di rincorrere un ragazzo che la sera è un applaudito disc-jockey in un locale notturno» . Lucia Annunziata racconta agli amici di aver trovato da tempo un bell’equilibrio personale e professionale, soprattutto dopo la complicata avventura della presidenza Rai. Forse per questo riesce a proporre con serenità e ironia un parallelo tra i giorni romani di piombo del 1977 (che ha raccontato in un appassionato saggio Einaudi, «1977-L’ultima foto di famiglia» ) e la piazza del Popolo in fiamme vista a Roma in questo fine 2010. In quel 1977 Lucia era in piazza dalla parte degli extraparlamentari. Giorni fa ha visto un altro film, stavolta da cronista forte dell’esperienza del 77, di una lunga militanza giornalistica e dell’affaccio in una delle stanze dei bottoni del vero potere italiano, viale Mazzini. Dunque, Annunziata, cominciamo da piazza del Popolo... «Sì, cominciamo di lì perché solo quest’anno e il 12 marzo 1977 Roma ha visto disordini nel suo Salotto buono osservato dagli occhi di tutto il mondo» . Ma non è la stessa immagine? «Ma smettiamola! Nel 1977 ci fu il capolavoro di Cossiga ministro degli Interni che alzò al massimo il livello dello scontro. Noi arrivammo in piazza del Popolo, quasi non ci credevamo, e trovammo la polizia. Armata di fucili. Che lentamente scesero a puntarci ad altezza d’uomo, un plotone d’esecuzione virtuale. Prendemmo e ce ne andammo. Invece quest’anno i fucili non ci sono stati e questi ragazzi sono stati infinitamente più bravi di quelli di trentatrè anni fa. Infatti hanno le pale ma non le pistole. Non mi sembra un particolare secondario...» . Un altro flash di ricordi buono per questa analisi: «Ecco, a proposito di pistole, quel giorno venne svaligiata l’armeria di Ponte Sisto. Nulla di minimamente paragonabile è capitato stavolta» . Lei, Annunziata, nel suo libro ricostruisce un Movimento animato da sentimenti politici fortissimi che le ricordavano il parricidio: la sinistra verso il Pci, per esempio. E oggi? «Nel 1977 la sinistra extraparlamentare, sullo sfondo del terrorismo, lanciava un’Opa politica sul Pci per cambiarne i vertici e l’indirizzo, certo non per distruggerlo. Oggi la piazza è occupata da un flusso fluido non solo di studenti ma di ragazzi provenienti da tanti mondi... Gli stessi che vediamo protestare ad Atene, a Parigi, a Londra. Sono i nuovi Sans Papier della società contemporanea internazionale. Si sentono e sono anti sistema. Tutte le loro manifestazioni vogliono gridare un solo concetto: noi non apparteniamo a questa società, anzi ci fate schifo, non vi riconosciamo, ci sentiamo estranei dai vostri riti e dai vostri simboli, non vediamo alcun futuro ed è colpa vostra» . E qui, seguendo l’analisi di Lucia Annunziata, si torna facilmente alla «ricca» piazza del Popolo: «Già, ancora piazza del Popolo. Perché lì c’è un altro simbolo. Le molotov davanti all’Hotel De Russie, uno degli alberghi più lussuosi di Roma, equivalgono specularmente all’assalto alla Rolls Royce di Carlo e Camilla a Londra» . Se dovesse prevedere il futuro? «Penserei a un malcontento sempre più visibile, quasi strutturale e quotidiano. Questi ragazzi, il Popolo Viola, i sostenitori di Grillo, chi va alle primarie del Pd per votare contro il candidato ufficiale... Un mondo collegato, sì, ma non organizzato. Altro che 1977» .

il Fatto 21.12.10
Governo con il morto
di Furio Colombo


Gli ultimi giorni di ciò che resta di Berlusconi e del suo governo amputato saranno pericolosi. Alcune cose le sappiamo. Altre accadono senza portare alcuna chiarezza. Dubbi o discussioni su ciò che è accaduto vengono fatti passare come un insidioso scredita-mento della polizia. Invece è una critica, per forza durissima, del ministro dell’Interno , incompetente, portato come gli altri quadrumviri leghisti, alla rissa, e apparso impegnato fin dall’inizio a far apparire le manifestazioni anti-Gel-mini come criminali (parole sue) pericolose fin da quando i ragazzi venivano avanti con i titoli dei libri sugli scudi di cartone. Che tutto dipenda da chi sta al Viminale lo dimostra il tragico e caotico periodo Scajola (il G8 di Genova) e l’ordinato e civile periodo Pisanu pur nello stesso sgangherato governo. Ma adesso il pericolo è grande non solo per la guida priva di saggezza e di equilibrio di Maroni. Un segnale d’allarme ce lo dà l’articolo di Sergio Rizzo (Corriere della Sera, 17 dicembre) nota che decine di provvedimenti del Consiglio dei ministri, compresi i decreti legge che entrano subito in vigore, vengono approvati in due (due) minuti. È lo stile fascista ma senza una visione del Paese e del mondo che il fascismo, sia pure in modo spregevole, aveva. Per chiarire il senso francamente fascista di questi giorni che promettono rischio costituzionale e pericolo fisico, entra in scena il senatore Gasparri. Questa volta il suo modo confuso e sconclusionato di esprimersi diventa una chiara minaccia e mostra la scomparsa di ogni finzione.
Annuncia che il prossimo corteo di studenti sarà gremito di assassini. Propone, in modo folle ma esplicito, l’arresto preventivo. Con questo presagio tragico si aprono gli ultimi giorni di Berlusconi, i più distruttivi. Il titolo lo lancia – per incarico di Berlusconi – il settimanale Panorama: “Vogliono il morto”. È lo stile Gasparri, fascismo senza più maschere.

il Fatto 21.12.10
La curva sud del Parlamento
di Bruno Tinti


Io non lo sapevo che il divieto di accedere allo stadio si chiamava DASPO (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) e, per la verità, non ero nemmeno troppo interessato alla cosa: di calcio io ho sempre saputo solo che le squadre praticano su scala professionale il falso in bilancio, la frode fiscale e la truffa; reati per i quali ho fatto alcuni processi nei miei ultimi anni di procuratore, alcuni finiti bene e altri male (si capisce, dal mio punto di vista: ci sono state alcune assoluzioni). Lo chiamavo doping finanziario, per darmi delle arie quando chiacchieravo con il collega Guariniello che si occupava di doping farmacologico.   Quando ero di turno, mi arrivavano ogni tanto le denunce a carico di quelli che allo stadio c’erano andati lo stesso, DASPO o non DASPO, e che poi erano stati pizzicati: da 1 a 3 anni e da 10.000 a 40.000 euro; e magari si trattava di gente che se ne era stata seduta al suo posto a vedere la partita. Mi ero baloccato anche con l’idea di sollevare una questione di illegittimità costituzionale; ma qualche collega mi aveva preceduto e la Corte si era già pronunciata (nel 2002) dicendo che andava tutto benissimo: si trattava di una misura di prevenzione e poi tanto doveva essere convalidata dal giudice. E così il DASPO ha continuato ad essere applicato nell’indifferenza generale.
Pena minima un anno
ADESSO CHE la piazza gli soffia sul collo, B&C hanno avuto una bella pensata (chissà chi gliel’ha suggerita): facciamo un altro DASPO, solo che lo chiamiamo DAMA (Divieto di Accedere alle Manifestazioni, il nome di battesimo glielo regalo io). Il questore identifica i facinorosi, gli ficca il DAMA, se li pizzicano di nuovo in piazza, un bel processo e pena minima di 1 anno; sempreché la legge istitutiva del DAMA, attesi i suoi primari scopi a tutela della democrazia, non preveda pene più severe di quelle previste per il DASPO. E così facciamo un altro passo avanti verso la fascistizzazione della Repubblica. Partiamo dal DASPO. Era una legge che non avrebbe mai dovuto essere emanata: le misure di prevenzione sono sempre state al confine dell’incostituzionalità poiché limitano i diritti di una persona che, ancora, non ha fatto nulla. Forse ha fatto qualche cosa in passato; e per questo è stata processata   e condannata; il che è sicuro perché, altrimenti, non si saprebbe che ha fatto qualcosa. Ma condannare qualcuno (impedirgli di andare allo stadio è una condanna) perché si presume che, se ci va, commetterà altri reati significa adottare la stessa logica che servì per limitare i diritti civili di comunisti, ebrei e gay: non hanno(ancora) fatto niente ma sono pericolosi per la sicurezza dello Stato. A ragionare in questo modo potremmo impedire   ai pluripregiudicati per furto (ce n’è una quantità impressionante) di uscire di casa perché c’è la rilevante probabilità che rubino di nuovo; gli potremmo dare gli arresti domiciliari a vita.
E tuttavia il futuro DAMA sarebbe anche peggiore sotto il profilo politico (sotto quello costituzionale si tratta dello stesso scempio). Perché la tutela dell’ordine pubblico negli stadi è problema che non ha colore politico: impedire a Tizio o a Caio di andare alla partita sarà fatto con gli stessi criteri da un governo di destra, di centro o di sinistra. Ma il DAMA sarà riservato agli oppositori politici. Proviamo a immaginare. Il Popolo Viola, o i Girotondi (a proposito, ma quando tornano?) o i Grillini, o l’Idv o il Fli (avete notato che non mi preoccupo   per Udc e Pd?) mettono in piedi una bella manifestazione; Maroni spedisce un centinaio di infiltrati, provoca un po’ di disordini e identifica tutti quelli che può, possibilmente e in particolare gli organizzatori; dopo qualche giorno arriva il DAMA.
Legittima galera
ATTENZIONE, non c’è bisogno che le persone in questione abbiano commesso reati; il DASPO già prevede che il divieto possa essere irrogato anche a carico di persone che si ritiene abbiano “preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive”; insomma anche gente che non è stata denunciata né condannata. E naturalmente questa illuminata disposizione sarebbe riprodotta nel DAMA.   Il gioco poi può continuare; ad ogni manifestazione, nuove identificazioni e nuovi DAMA. Qualcuno disobbedirà, probabilmente molti, e così legittima galera... Ovviamente per l emanifestazioni del partito dell’amore non ci saranno né infiltrati né DAMA. E comunque, se anche succedesse qualcosa( se ci va La Russa …) nessuno ha visto né sentito: il DAMA a chi lo notifichiamo?
La morale di questa riflessione è la stessa di una poesia degli anni Trenta che tutti attribuiscono a Brecht ma che è invece di Niemoller. È molto famosa e un po’ lunga; quindi non la trascrivo. Ma il concetto è: non ho protestato quando sono venuti a prendere zingari, ebrei, omosessuali e comunisti; così, quando sono venuti a prendere me non c’era più nessuno che potesse protestare. Pensiamoci quando roba come il DASPO passa tra l’approvazione generale.

Corriere della Sera 21.12.10
Proteste, fantasia, sorprese Dall’assemblea una voce «La zona rossa va violata»
di Alessandra Arachi


ROMA— I mazzi di fiori si confondono con gli striscioni e i megafoni. I flash delle foto ricordo si intrecciano con le telecamere delle televisioni. Buffo pomeriggio ieri alla facoltà di Lettere della Sapienza: la folla dei ragazzi arrivata per l’assemblea di protesta si è mischiata con il gruppetto di studenti appena laureati. Un cambio di guardia repentino: svuotata dalle sedute di laurea, l’aula Uno viene presa d’assalto dai ragazzi del Movimento. È stata convocata per le cinque del pomeriggio l’assemblea di tutto l’ateneo. Quando si riesce ad entrare finalmente nell’aula sono passate da poco le sei. Bisogna decidere cosa fare il 22 dicembre. Il giorno che il Senato darà il via libera alla cosiddetta riforma Gelmini, i ragazzi del Movimento universitario non vogliono stare a guardare. Non vogliono spegnere la voce della loro protesta. Hanno lavorato tutta la mattina per fare assemblee dentro gli atenei e trovare un accordo unitario. Dopo quello che è successo il 14 dicembre gli occhi (e le telecamere, e i taccuini, e i microfoni) sono tutti puntati su di loro. Lo sanno bene, i leader del Movimento E sono severi: vorrebbero sbarrare le porte della loro assemblea. Non fare entrare estranei. Si affrettano sulle gradinate. A guardarli così, assiepati nell’aula, i ragazzi del Movimento universitario sono una folla quieta. Non fanno nulla di strano, dentro l’aula Uno. A parte fumare una sigaretta appresso all’altra. Sono tutti seduti diligenti sui banchi, e soltanto quelli che non trovano posto usano i gradini come sedili. C’è appena qualche barba lunga, qualche piercing isolato, capelli che sfuggono alla regola, una paio di treccine rasta: davvero sono fra questi studenti gli artefici degli scontri? Della brutta violenza che si è vista il 14 dicembre nel centro di Roma? Dopo l’introduzione, è Alessandra di Psicologia che prende la parola. Pacata. Molto decisa. Dà il là: «L’unica certezza è che non vogliamo rispettare la zona rossa. Non vogliamo vivere altri G8» . Parte per lei il primo applauso. Si ripeteranno gli applausi, praticamente ad ogni intervento. Interventi in fotocopia. Sia Andrea di Giurisprudenza o Maria di Studi orientali, dello studente che non dice il nome di Ingegneria o della studentessa, anche lei senza presentazione, di Sociologia: unico obiettivo, violare la zona rossa. Gli applausi assecondano questa loro dichiarazione. A Studi orientali cinque studenti sono da cinque giorni in sciopero della fame: si nutrono soltanto di tè zuccherato e acqua. Maria, che ha appena parlato, è quella che poco prima di questa assemblea era con uno striscione davanti all’aula magna del rettorato a spiegare ai giornalisti che lo sciopero della fame è l’arma finale per cercare di fermare il governo e quella riforma che proprio non digeriscono. Ha anche lanciato un appello, Maria: «Vorrei tanto che intellettuali e professori si unissero a questa nostra protesta» . All’assemblea dell’aula Uno, per adesso, si sono uniti i ricercatori della «rete 29 aprile» , quelli che hanno riempito i tetti, per capire. Ascoltano, non prendono la parola. Quando ha parlato lo studente di Ingegneria, però, hanno applaudito anche loro. Hanno battuto le mani a quel passaggio che si rivolgeva a Giorgio Napolitano: «Lo sappiamo che il presidente della Repubblica, purtroppo, firmerà la legge Gelmini. Sarebbe bello se non lo facesse, eppure non abbiamo troppe speranze. Noi, comunque, dobbiamo fargli arrivare tutto il nostro dissenso» . Il tempo passa, l’orologio rema contro: alle otto si deve chiudere l’aula. Rumore dal fondo delle gradinate: «Ma chi le dice queste regole del c...? Occupiamo la facoltà e non chiudiamo alle otto manco per niente» . Alle otto meno dieci, praticamente, si sbaracca: gli studenti dell’aula Uno hanno deciso. Si sono dati appuntamento alle nove e mezza di mercoledì mattina a piazzale Aldo Moro, l’ingresso della «Sapienza» . Oggi pomeriggio, intanto, a Campo de’ Fiori ci sarà un sit in che anticiperà la protesta, insieme ad alcune iniziative nel centro di Roma che i ricercatori già saliti sui tetti stanno mettendo a punto. Si chiude l’assemblea. Si aprono le porte. Si dettano dichiarazioni ai cronisti: «Non ci sarà nessuna violazione della zona rossa. Ci vedremo davanti alla Sapienza e faremo un percorso a sorpresa» . I portavoce degli studenti hanno anche preparato lo slogan per la manifestazione da regalare ai cronisti: «Voi chiusi nei palazzi, noi liberi per la città» . Sono decisi. E ripetono, senza esitazione: agiranno con la fantasia, ma non violeranno la zona rossa. Come se le dichiarazioni d’intenti e gli applausi dentro l’aula Uno non fossero mai esistiti.

l’Unità 21.12.10
Pedofilia Il Papa chiede un severo esame di coscienza per superare un dramma insanabile
Responsabilità non è solo del sacerdote che ha commesso violenze ma anche delle autorità
Benedetto XVI alla Curia Chiesa sfigurata dagli abusi
Severo esame di coscienza, verità e penitenza per superare il dramma della pedofilia. Lo chiede il Papa nel suo messaggio di augurio alla Curia Romana. Sotto accusa anche il clima culturale e una certa teologia degli ’70.
di Roberto Monteforte


La Chiesa, come una donna bellissima ma con il manto strappato e il volto sfigurato dal peccato. Fa sua l’immagine usata da Sant’Ildegarda di Bingena Papa Benedetto XVI per descrivere ciò che è stato lo scandalo dei preti pedofili. Nella Sala Regia del palazzo Apostolico pronuncia il suo discorso di augurio alla Curia Romana. È la tradizionale occasione per fare un bilancio dell’anno appena trascorso e il pontefice, senza infingimenti, affronta con energia il dramma degli abusi che ha macchiato la Chiesa «in una dimensione riconosce inimmaginabile». Un fenomeno che ne ha minato profondamente la credibilità. «Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva» scandisce. Perché è stato possibile? Cosa era sbagliato nel nostro annuncio enel «modo di configurare l’essere cristiano»? Su questo chiede di interrogarsi, come pure «su cosa fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta.
LA VERITÀ E IL FUTURO
Altro che «chiacchiericcio» costruito ad arte da ambienti ostili alla Chiesa, come aveva affermato nei mesi scorsi il decano del collegio cardinalizio e già segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano. Papa
Ratzinger invita la Curia ad un esame di coscienza profondo e severo che parta dal riconoscimento della verità in tutta la sua crudezza e delle responsabilità. Perché se vi è la colpa del sacerdote che ha abusato del minore, vi è anche quella di chi aveva autorità e responsabilità ed è mancato al suo dovere di vigilare e correggere per tempo. Invita alla penitenza, a « tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere». E ringrazia «tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa». Parla chiaro il Papa anche a chi nei Sacri Palazzi ha contrastato la sua linea della fermezza.
Sotto accusa mette anche il clima culturale che avrebbe favorito la pedofilia. Intanto «il mercato della pornografia concernente i bambini», «la devastazione psicologica di bambini in cui persone sono ridotte ad articolo di mercato», il turismo sessuale che «specie nei Paesi in via di sviluppo minaccia un’intera generazione». Denuncia il fenomeno della droga che «con forza crescente stende i suoi tentacoli intorno al globo». Tutto questo, avverte, è «espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l’uomo». «Ogni piacere diventa insufficiente e l’eccesso nell’inganno dell’ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomo viene minata e alla fine annullata del tutto». Ratzinger invita a guardare ai «fondamenti ideologici» in voga negli an-
ni ‘70 che teorizzavano che «la pedofilia era del tutto conforme all’uomo e anche al bambino». Sotto accusa anche quella teologia cattolica per la quale «non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé». Il compito ora della Chiesa, mette in chiaro il pontefice, è quello di rendere «nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini» i criteri dell’«ethos cristiano». Ridare speranza ad un mondo «angustiato e insicuro», che vive una crisi profonda e ha difficoltà a pensare al futuro. Senza consenso morale, che pare si stia dissolvendo, osserva anche le strutture si dissolvono.
Nel suo bilancio il Papa ha anche ricordato il Sinodo sul Medio Oriente per rivolgere un appello a chi ha responsabilità politica o religiosa: fermino la cristianofobia.

Corriere della Sera 21.12.10
Dal papa una lettura drammatica
Siamo alla caduta dell’impero
di  Andrea Riccardi


Nel discorso alla Curia romana, Benedetto XVI ha evocato la fine dell’impero romano (nella foto, una moneta con l’effigie di Romolo Augusto): «Un mondo stava tramontando, non si vedeva alcuna forza che potesse porre freno a tale declino» . La fine dell’impero ha sempre esercitato un fascino nelle riflessioni sulla sorte delle civiltà. Niente si ripete nella storia, ma ci sono assonanze che il Papa individua con il nostro tempo nel dissolvimento del consenso morale («senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano» ).
Il Papa non allude solo all’Occidente, ma alle guerre, la corruzione nel Terzo mondo e la violenza contro i cristiani in Iraq (parla di «cristianofobia» ). In questo discorso si coglie il dramma e la proposta di papa Ratzinger. Si sente il suo profondo dolore per la Chiesa a causa degli scandali di pedofilia: «Il volto della Chiesa è coperto di polvere» . C’è una lettura drammatica del mondo contemporaneo sotto la «dittatura di mammona che perverte l’uomo» : commercio dei corpi e delle anime, droga («che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo» )... Il Papa non indulge al pessimismo, ma valorizza— come sempre— i fatti positivi pur esterni alla Chiesa, come l’accoglienza fraterna nella Cipro ortodossa o l’intervento sinodale del musulmano Sammak (che ha detto: «Con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi stessi» ). Ma per il Papa ci vuole un soprassalto spirituale e morale. Benedetto XVI manifesta il suo dolore per l’Occidente, frantumato in soggettivismi e senza forza, incapace di cambiare la storia. La visione del Papa non è cupa, perché crede in una verità profonda, che può fondare il tessuto di consenso morale di cui la società ha bisogno per non sfilacciarsi o essere manipolata. Rozzamente si potrebbe dire che vuole confessionalizzare società orgogliosamente laiche. Sarebbe un errore credere in una restaurazione di Benedetto XVI. Nel discorso di ieri, John Henry Newman è stato evocato a lungo. Questi, morto nel 1890, visse in un tempo in cui gran parte dei cattolici pensava che, per risolvere la crisi del proprio tempo, bisognasse restaurare lo Stato cattolico confessionale ed eliminare il pluralismo. La visione di Newman era molto avanti: ruotava attorno ad un’idea di coscienza, non come istanza soggettivistica, ma come capacità personale e libera di riconoscere la verità. Per Benedetto XVI la sua lezione è decisiva nella crisi attuale che, nelle sue multiformi espressioni, non chiede prima di tutto ricette politiche, ma pone un’ineludibile questione spirituale agli uomini e alle comunità civili. In questo clima di declino, si colloca il Natale 2010, che è per il Papa una risposta alla crisi di civiltà: dall’ «apparente assenza» alla scoperta della presenza di Dio.

Corriere della Sera 21.12.10
«Viviamo la crisi che fu dell’Impero Romano»
Benedetto XVI: senza il consenso morale anche oggi è in gioco il futuro del mondo
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — «Excita, Domine, potentiam tuam, et veni» . La voce del Papa è sommessa ma il tono è solenne, «è in gioco il futuro del mondo» , alza lo sguardo a cardinali e monsignori: e ripete quella preghiera di Avvento, «Ridesta, Signore, la tua potenza e vieni» che fu probabilmente formulata, spiega, «nel periodo del tramonto dell’Impero Romano» . Allora come oggi si «disfaceva» quel «consenso morale» senza il quale «le strutture giuridiche e politiche non funzionano» . Nel discorso natalizio alla Curia romana, Benedetto XVI ripercorre l’anno e parla per primo del male interno, la «dimensione per noi inimmaginabile» degli abusi su minori commessi da sacerdoti, l’ «umiliazione» per lo scandalo dal quale «siamo stati sconvolti» e che ha «coperto di polvere il volto della Chiesa» . Quindi allarga lo sguardo «ai fondamenti ideologici» (la «perversione» dell’etica perfino «nell’ambito della teologia cattolica» , l’idea diffusa per cui «niente sarebbe in se stesso bene o male» : «Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino» ) e «al contesto del nostro tempo» e torna a denunciare la pornografia, il turismo sessuale, «la devastazione psicologica dei bambini» ridotti a merce, quel «commercio dei corpi e delle anime» che l’Apocalisse «annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo» ; denuncia «la dittatura di mammona che perverte l’uomo» e trova espressione nella droga «che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all’intero globo terrestre» ; invoca i leader politici e religiosi «perché fermino la cristianofobia» e le persecuzioni dei fedeli in Paesi come il Medio Oriente, dove sulle «voci troppo deboli» della ragione prevalgono «avidità di lucro ed accecamento ideologico» . Tutti «spaventosi segni dei tempi» , tempi difficili nei quali vacillano «le basi essenziali e permanenti dell’agire morale» ed è «in pericolo» il consenso di fondo sulla «grande tradizione razionale dell’ethos cristiano» . Ecco il parallelo con il crollo dell’Impero Romano: «Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio» . Anche oggi, dice Benedetto XVI, «il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo» . Come rivolgendosi al mondo laico, cita Alexis de Tocqueville: «Aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti» . Ma il Papa guarda anzitutto all’interno. Evoca una visione di Sant’Ildegarda di Bingen (XII secolo), il volto della Chiesa «coperto di polvere» , le scarpe «infangate» , il vestito «strappato» per colpa dei sacerdoti, «come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno» . L’ «umiliazione» dei crimini pedofili è «un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento» , sillaba: «Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere» . Ma se «siamo consapevoli» della «nostra responsabilità» , dice, «non possiamo tacere circa il contesto del nostro tempo» . Il consenso etico che si dissolve. E, per contro, l’esempio di tanti sacerdoti, la «capacità di verità dell’uomo» mostrata dal cardinale Newman. Come capitò ai discepoli di Gesù, «anche in noi tanto spesso la fede dorme» , sospira il Papa: «PreghiamoLo di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti -di dare l’ordine giusto alle cose del mondo» .

Corriere della Sera 21.12.10
Quel declino rafforzò la struttura ecclesiale
di Luciano Canfora


Richiamarsi alla fine dell’impero romano (invero dell’impero romano d’Occidente) è stato, nel corso del tempo, un luogo comune, o meglio un motivo ricorrente della angoscia storiografica. Anche il grande Edward Gibbon pensò per qualche momento che la ribellione delle colonie americane e il loro distacco dalla corona britannica fossero una avvisaglia di decadenza, assimilabile — egli pensava — alla fine dell’impero romano. Peraltro proprio il grande libro di Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, documentava come quella cosiddetta decadenza fosse in realtà durata almeno un millennio concludendosi soltanto alla metà del secolo XV con la conquista turca di Costantinopoli. Ma questa corretta prospettiva non si è mai pienamente affermata. Studiosi, soprattutto non professionali, hanno spesso pensato al 476 dei manuali per il fu-ginnasio come alla data catastrofica e conclusiva della vicenda imperiale. Trascuravano di considerare che la parte più ricca e potente dell’impero, cioè la pars Orientis, continuò ad essere per secoli uno degli epicentri della politica mondiale. La visione a tinte fosche o morbose di un mondo che si sgretola affogato nella immoralità è un motivo ricorrente: qualcosa del genere pensava già Orazio nell’epodo XVI al tempo delle guerre civili tardo repubblicane. È una visione essenzialmente oleografica, cui diede forma altamente poetica il celebre sonetto di Verlaine (1883): «io sono l’impero alla fine della decadenza /il quale guarda il passaggio dei grandi barbari bianchi /... ah tutto è perduto! Batillo hai finito di ridere?» etc. La versione popolare di tutto questo si trova nei film peplum. Dei destini dell’impero fu il Cristianesimo uno dei fattori decisivi. E anche in questo caso gli esiti nella parte occidentale e in quella orientale furono diversi. A Occidente il cristianesimo attrasse nella struttura ecclesiale energie ed élites che in altre epoche avevano percorso brillanti carriere politico-militari. A Oriente invece la prevalenza dello Stato sulla Chiesa si consolidò e fu garanzia della durata di un impero millenario antagonista e interlocutore prima degli Arabi e poi dei Turchi.

Corriere della Sera 21.12.10
Ior, respinto il ricorso Il conto con 23 milioni resta sotto sequestro
di F. Hav.


ROMA— La Procura ha pochi dubbi: in assenza dell’osservanza delle norme a garanzia «di un ordinato e trasparente svolgimento dei rapporti tra enti creditizi italiani e Ior in funzione antiriciclaggio» , la banca vaticana «può facilmente divenire un canale per lo svolgimento di operazioni illecite di riciclaggio di somme di danaro provento di reato» . È il passaggio più delicato del parere negativo del procuratore aggiunto Nello Rossi e del pm Stefano Fava al dissequestro dei 23 milioni di euro depositati al Credito Artigiano dallo Ior. E ieri il gip Maria Teresa Covatta ha respinto l’istanza con cui gli avvocati dell’istituto di credito della Santa Sede avevano sollecitato la restituzione della somma, anche perché — ha sottolineato il giudice — «resta impossibile individuare i beneficiari di bonifici e assegni» . Il sequestro era stato disposto nell’inchiesta su presunte omissioni legate alle norme antiriciclaggio da parte della banca vaticana in cui sono indagati il presidente e il direttore generale, Ettore Gotti Tedeschi (nella foto) e Paolo Cipriani. La difesa puntava, tra l’altro, sull’accordo tra l’Istituto per le opere di religione (che ha più volte sostenuto di aver sempre rispettato le regole) e Credito Artigiano al fine di chiarire la natura e la finalità delle operazioni. Nel dispositivo il gip ha motivato la decisione osservando come non siano «intervenute modifiche sostanziali rispetto al quadro indiziario preesistente in ragione della persistenza di quella che correttamente il pm definisce "globale confusione"della disponibilità sui conti riferibili allo Ior» . Una situazione «testimoniata dalla impossibilità di fatto di individuare da parte della banca depositaria— ha scritto la Covatta— i clienti Ior beneficiari di bonifici e assegni, la cui identificazione passa esclusivamente per il tramite dello stesso Ior, senza possibilità di controllo e riscontro da parte delle autorità italiane» . Sull’accordo tra Ior e Credito Artigiano, il giudice ha sostenuto che è «generico e che comunque non sembra introdurre elementi di novità rispetto alla problematica inerente le modalità, indirette, incerte e comunque non riscontrabili, di identificazione dei clienti Ior» . L’indagine è partita sulla base di una segnalazione dell’Unità informazioni finanziarie (Uif) di due operazioni dello Ior sul conto aperto nella sede romana del Credito Artigiano: 20 milioni di euro destinati all’istituto di credito tedesco J. P. Morgan Frankfurt e altri tre alla Banca del Fucino.

Corriere della Sera 21.12.10
Trasloco di carte in Vaticano, perplessi gli studiosi
di Antonio Carioti


Non è un viaggio lungo, poche centinaia di metri, quello che faranno le carte della Segreteria di Stato vaticana sul pontificato di Pio XI (1922-1939) relative alla politica estera della Santa Sede (gestita da quella che allora si chiamava Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari). Dall’Archivio segreto vaticano (Asv), dove si trovavano dopo l’apertura agli studiosi del 2006, i faldoni torneranno nell’archivio in cui erano conservati quando non erano accessibili. Il trasloco, nel ristretto perimetro della Città del Vaticano, avverrà durante le vacanze natalizie e dal 7 gennaio 2011 i documenti potranno essere nuovamente consultati. Tuttavia è la prima volta che materiale accessibile torna indietro dall’Asv, tra l’altro dopo che gli storici hanno lavorato parecchio su quei fondi. Sulle ragioni della decisione il prefetto dell’Asv, monsignor Sergio Pagano, si limita a formulare delle ipotesi: «Il cambiamento mi è stato comunicato dalla Segreteria di Stato: credo abbia delle motivazioni funzionali e logistiche, volte probabilmente ad agevolare il lavoro degli studiosi. E senza alcun dubbio le regole per la consultazione delle carte rimarranno le stesse in uso da noi» . Tra l’altro è presumibile, aggiunge Pagano, che ci si regolerà allo stesso modo per ulteriori aperture archivistiche: «Se il Papa deciderà di rendere accessibili le carte della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari concernenti il pontificato di Pio XII, certamente non verranno gestite da noi e la consultazione avverrà nella sala presso la quale ora vengono trasferiti i documenti su Pio XI» . Gli storici che hanno utilizzato quei documenti mostrano qualche perplessità. «Sono sorpresa— dice Emma Fattorini — perché il lavoro svolto dal prefetto Pagano in questi anni è stato ottimo. A livello internazionale tutti apprezzano la sua gestione equilibrata e la sua competenza, anche come studioso. Tra l’altro sta svolgendo un’opera di grande importanza con la pubblicazione dei "fogli d’udienza", gli appunti che il segretario di Stato Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, teneva durante i suoi incontri con Pio XI» . Anche Francesco Margiotta Broglio è stupito: «Ho lavorato su quelle carte pochi giorni fa, il 15 dicembre, e nessuno mi ha detto nulla dello spostamento. L’importante comunque è che restino pienamente accessibili come adesso» . Il direttore dell’ «Osservatore Romano» , Giovanni Maria Vian, sottolinea però che il viaggio di ritorno era previsto: «Nel 2007 venne conclusa una convenzione tra la Segreteria di Stato e l’Asv, perché la prima ondata di coloro che volevano vedere i documenti su Pio XI era tale da imporre il ricorso a una struttura specializzata. Ma le carte dovevano rientrare nel 2009: poi ci fu una proroga che ora è scaduta. Bisogna tener conto che in Segreteria di Stato si sta lavorando all’apertura dei fondi su Pio XII e c’è bisogno di avere sottomano le carte del pontificato precedente» .

l’Unità 21.12.10
Bocciati Moratti e Maroni Il giudice dà ragione ai Rom «Devono avere una casa»
Il Tribunale ha accolto il ricorso delle dieci famiglie Rom: il sindaco Moratti, il ministro Maroni e il prefetto Lombardi sono tenuti a rispettare gli accordi: immobili «inagibili» che ora dovranno essere messi a norma.
di Giuseppe Vespo


Dove non arriva «il gran cuore di Milano» arriva la giustizia: il Tribunale ha accolto il ricorso delle dieci famiglie rom che chiedevano al sindaco Moratti, al ministro Maroni e al prefetto milanese Gian Valerio Lombardi, il rispetto degli accordi con cui a maggio scorso sono state individuate 25 case popolari da assegnare ad altrettante famiglie del campo nomadi regolare di via Triboniano, nel capoluogo lombardo. L’intesa, che rientrava nei cosiddetti «progetti di autonomia abitativa» sottoscritti dal Comune e dalla Prefettura con le associazioni del terzo settore, era stata sospesa l’estate scorsa dopo lo scoppio di furibonde polemiche politiche, con la La Lega e parte del Pdl che accusavano palazzo Marino di mettere a disposizione dei nomadi alloggi popolari che sarebbero dovuti andare ai milanesi.
In realtà quelle case non potevano essere assegnate ai cittadini in lista d’attesa, anche perché sono tuttora «inagibili» e hanno bisogno di lavori di ristrutturazione. Tanto che il Comune aveva deciso di impiegare parte dei quattro milioni di euro destinati dall’Ue a Milano per l’inserimento abitativo delle famiglie rom e sinti alla ristrutturazione degli stessi appartamenti.
Le polemiche sono andate avanti fino all’intervento del ministro Maroni, arrivato il 27 settembre a Milano per sentenziare che «nessuna casa popolare andrà ai nomadi». Altri alloggi, aveva assicurato allora il titolare dell’Interno, sarebbero stati trovati «facendo leva sul gran cuore di Milano». Cosa che però non è avvenuta. Così le dieci famiglie, insieme agli avvocati Alberto Guarisio e Livio Neri, hanno deciso di fare ricorso al Tribunale. Il giudice Roberto Bichi gli ha dato ragione, e nell’ordinanza ha anche accusato il ministero dell’Interno, la Prefettura di Milano e il sindaco del capoluogo lombardo, di non aver voluto assegnare le case popolari ai rom, come prevedeva invece un accordo già stipulato, «in dipendenza dell’origine etnica» dei nomadi che dovevano entrare negli alloggi. Adesso il Comune ha tempo fino al 12 gennaio per rendere gli alloggi abitabili e consegnarli a queste famiglie, che potranno lasciare così il campo nomadi di via Triboniano.
La sentenza ha fatto infuriare la Lega, che oggi sarà in presidio davanti al Palazzo di Giustizia. Mentre per il vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, il provvedimento del giudice discrimina i milanesi. Eppure, sostiene il capogruppo Pd in Consiglio comunale, Pierfrancesco Majorino, di fronte all’emergenza abitativa «il sindaco si ostina a non rendere utilizzabili i cinquemila appartamenti vuoti di proprietà pubblica, e per questo andrebbe condannata dal Tribunale del buonsenso».
Plaude alla sentenza milanese anche Livia Turco, responsabile politiche sociali e immigrazione del Pd, che sottolinea come sia stato rispettato il principio costituzionale secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e siano eguali davanti alla legge». Mentre don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità, auspica che «non si faccia più polemica, che ci si rimbocchi le maniche e si superi in fretta il campo attraverso i percorsi che erano stati individuati».

l’Unità 21.12.10
Filosofia morale
Il nuovo libro del filosofo, che oggi compie 70 anni, edito da Laterza
L’autore sostiene che le valutazioni morali possono essere «oggettive»
L’etica sentimentale di Lecaldano. Prima lezione
L’ultima opera di Eugenio Lecaldano, «Prima lezione di filosofia morale» (pagine 178, euro 12,00, Laterza), può essere lo spunto per fare un bilancio sull’attività dello studioso. Ecco perché.
di Maurizio Mori


Oggi (ore 15.00) a villa Mirafiori un gruppo di studiosi si riunisce per discutere Prima lezione di filosofia morale (Laterza), l’ultima opera di Eugenio Lecaldano.
L’occasione è propizia per fare un bilancio dell’intensa attività del grande studioso che da decenni è non solo maestro di studi in campo etico e filosofico ma anche esempio di impegno civile.
Come è noto, le opere introduttive sono le più difficili da scrivere, perché presuppongono che l’autore abbia un quadro generale della disciplina e sappia dosare con perizia le parti rilevanti. Il libro di Lecaldano è esemplare al riguardo, in quanto in poche pagine condensa un’intera prospettiva morale, cominciando con una genealogia della moralità, per passare al piano metaetico teso ad affermare una versione raffinata di sentimentalismo, e finire con la proposta di una teoria normativa a favore di un’etica della virtù capace di fornire proposte applicative di notevole interesse.
SENTIMENTALISMO & RAZIONALISMO
La tesi centrale è che il sentimentalismo etico va accolto come valida alternativa al razionalismo etico, il cui errore principale sta nella pretesa di «fondare l’etica» ossia di come «inventarsi» ciò che piacerebbe fosse considerato giusto, buono, doveroso, ecc. Invece, l’etica deve partire tenendo conto della condizione umana ossia i concreti sentimenti che le persone hanno. Questa nuova impostazione morale ha anche il vantaggio di collegarsi meglio con la biologia darwiniana e di accogliere con facilità gli apporti della neuroetica e delle nuove conoscenze scientifiche. Inoltre, questa etica sentimentale abbandona gli assoluti morali, riuscendo a dare una visione più duttile e più dinamica, capace di adeguarsi ai tempi nuovi caratterizzati dalle biotecnologie.
Oltre alle analisi di carattere pratico sui temi morali di attualità, che hanno il compito di dare una sorta di cartina al tornasole della validità della teoria, e ancor più stimolanti sono le riflessioni proposte per mostrare che il sentimentalismo non è schiacciato sul soggettivismo del «mi piace», ma è una prospettiva che riconosce e tiene conto che caratteristica imprescindibile dell’etica è l’argomentabilità, per cui le valutazioni morali possono aspirare ad una «oggettività» che le pone al di sopra del mero «mi piace».
Questo è sicuramente il cuore dell’etica lecaldaniana e la parte al riguardo è forse la più riuscita dell’opera.
UNA SCELTA
Tuttavia, Lecaldano ci dice anche che l’argomentabilità etica non è a sua volta descrittiva, ma presuppone una «scelta» per cui è tesa a far muovere i sentimenti verso la direzione prescelta ed ha una funzione persuasiva tanto che può essere favorita dalla visione di film o dalla lettura di romanzi. Ove così fosse, però, ci si potrebbe chiedere come facciamo a sapere se siano “affidabili” o “giustificati” i sentimenti morali coinvolti nell’argomentazione, o se invece non siano essi stessi una manifestazione di tabù o altri pregiudizi ricevuti.
Lecaldano è persona mite animata da sentimenti nobili e pienamente condivisibili, per cui le conclusioni pratiche cui giunge sono per lo più adeguate e apprezzabili. Resta tuttavia il dubbio teorico che la prospettiva sentimentalista non riesca a dare una «garanzia garantita» della bontà o correttezza dei sentimenti in questione. Il sentimentalismo coglie un aspetto imprescindibile dell’etica, ma, forse, non è l’ultima parola al riguardo.

Repubblica 21.12.10
Il Parlamento e il testamento biologico
Corrado Augias risponde a na lettera di Mina Welby


C aro Augias, dopo il voto di fiducia al governo, dovrebbe andare in aula per il voto finale la legge sul testamento biologico. In realtà, è una legge "contro" il testamento biologico perché piena di ostacoli burocratici e perché affida, nelle scelte finali, un potere molto maggiore ai medici rispetto ai malati. Inoltre, è una legge incostituzionale perché non consente di rinunciare alla nutrizione e alla idratazione artificiali, laddove l'articolo 32 della Costituzione è tassativo: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Vorrei ricordare il quarto anniversario della morte di Piergiorgio Welby rivolgendo un appello a tutte le forze politiche perché diano ai cittadini italiani, con una buona legge, quel diritto alle "dichiarazioni anticipate di trattamento" consolidato da tempo in tutta l'Europa. Destinino, inoltre, finanziamenti adeguati per le cure palliative, nelle quali l'Italia è all'ultimo posto in Europa. Un appello ai deputati dell'opposizione, a quelli legati a Fini da sempre favorevole alla libertà di coscienza su questi temi ma anche ai deputati "laici" del Pdl, specie quanti provengono dal partito in cui militarono Renato Sansone e Loris Fortuna. Penso che dinanzi alla malattia e alla morte dovremmo tutti cercare quello che unisce, non quello che separa.
Mina Welby Roma

Ringrazio la signora Welby per la sua lettera, per il messaggio che contiene, per le parole che ha usato. Viviamo in un paese molto difficile, in un momento di particolare difficoltà. Discutere in Parlamento di un tema così delicato cercando di mantenere toni equilibrati sarà arduo, forse impossibile. I temi che vengono definiti 'eticamente sensibili' sono diventati esplicito oggetto di scambio. Governo e maggioranza appoggiano le tesi delle gerarchie ecclesiastiche le quali chiedono in cambio concreti appoggi alle loro associazioni, alle loro scuole. Ho scritto volutamente 'gerarchie ecclesiastiche' perché esistono anche settori del pensiero cattolico, del clero più vicino alla vita dei fedeli, della stessa teologia che hanno sull'argomento assai più generosa visione. Ero in piazza quattro anni fa quando il cardinale Ruini fece negare a Piergiorgio Welby il rito religioso in Chiesa. Molti mesi dopo l'eminente porporato spiegò la ragione del suo gesto crudele: disse che s'era trattato di una mossa politica per evitare finanche il sospetto che la Chiesa avesse finito per approvare quella morte così lungamente implorata e alla fine ottenuta. Quando la gestione politica di un tema etico scarta con tale brutalità le ragioni della misericordia, mi chiedo con quale coraggio si continui a parlare di vangelo. Chissà se in Parlamento a qualcuno verrà in mente questa intollerabile ipocrisia.

Corriere della Sera 21.12.10
Teheran, sei anni di carcere al regista dissidente Panahi
Per vent’anni non potrà viaggiare né girare film
di Cecilia Zecchinelli


Jafar Panahi condannato a sei anni di carcere, a non girare film, a non lasciare l’Iran, a non avere contatti con i media nazionali e stranieri per vent’anni. L’odissea del celebre regista iraniano che già aveva fatto piangere Juliette Binoche al festival di Cannes, dove la sua sedia di giurato era rimasta vuota perché in carcere a Teheran, continua. Sempre più drammatica. «Mi hanno consegnato il verdetto sabato scorso, abbiamo 20 giorni per fare appello, che faremo» , ha dichiarato ieri ai media iraniani il suo avvocato difensore, Farideh Gheyrat. Identica condanna per il giovane regista e suo collaboratore Mohammad Rasoulof. Panahi, 50 anni, è famoso in Europa fin dal suo primo film premiato a Cannes nel 1995 (Il palloncino bianco), a cui sono seguiti Il Cerchio (Leone d’oro a Venezia, 2000), L’oro rosso (altro premio a Cannes, 2003), Offside (Berlinale 2006). Impegnato e rigoroso, ha appoggiato l’Onda Verde seguita alle elezioni farsa nel giugno 2009. La repressione che poi ha messo (quasi) a tacere il dissenso ha colpito anche lui. Arrestato una prima volta nel luglio 2009 nel cimitero dov’era sepolta Neda, la ragazza simbolo delle proteste, rilasciato ma privato del passaporto. Riarrestato nel marzo 2010 con l’accusa irreale di «preparare un film contro il regime» . Il mondo intero del cinema (e non solo) si era mobilitato per salvarlo, lui aveva iniziato lo sciopero della fame. E tre mesi dopo era tornato a casa. Sembrava che il regime avesse scelto un compromesso: Panahi non va ai festival all’estero, non lavora più, ma resta libero. Ora questa condanna. «E’ durissima, sei anni sepolto in una cella. Da settembre sapevamo che il rischio era grande, lo accusano di essere un nemico della Repubblica islamica» , racconta Abbas Bakhtiari, amico fraterno di Panahi, musicista ed ex militante marxista, da 30 anni esule a Parigi. «Sono in continuo contatto con Jafar, ci siamo appena sentiti. Lui spera molto nell’appello e chiede che ci sia una mobilitazione internazionale perché forse questo peserà sul giudizio. Jafar non è un politico, non è nemmeno un caso alla Sakineh: è un artista e con lui si vogliono colpire tutti gli artisti e gli spiriti liberi d’Iran. Da anni noi amici all’estero e perfino la sua famiglia insistevamo perché se ne andasse dall’Iran, aveva offerte di lavoro qui in Francia. Ma lui ha sempre rifiutato: non lascio il mio Paese che è tutta la mia vita, anche a costo di pagare, ripeteva. Ora il mondo si deve mobilitare per salvarlo» .

Corriere della Sera 21.12.10
«Questo è l’attimo (possibile) in cui nacque l’Universo»
La «particella di Dio»
Bosone di Higgs, il primo indizio dal superacceleratore Lhc
di Giovanni Caprara


DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA — La «particella di Dio» ha già un volto. «Potrebbe essere proprio il bosone di Higgs che cerchiamo» dice Guido Tonelli a capo dell’esperimento Cms, uno dei quattro installati nell’anello del superacceleratore Lhc al Cern di Ginevra. «Il segnale che abbiamo raccolto ha tutte le caratteristiche teorizzate — aggiunge Tonelli —. Una coppia di bosoni Z decadono e ciascuno emette due muoni. L’evento è stato ricostruito nei dati raccolti fino al mese di ottobre. Per la ricerca del bosone di Higgs si cercano, appunto, eventi con quattro muoni di questo tipo che però devono presentarsi in un numero ben maggiore. Quelli identificati sono troppo pochi e quindi sono considerati un fondo di misura. Però ciò che abbiamo visto ad un livello di energia di 200 GeV ci dice che siamo sulla strada giusta. E questo è importante per arrivare a destinazione» . Qualcosa di simile è stato rilevato pure nell’esperimento Atlas di Fabiola Gianotti, sempre all’Lhc, e anche al Tevatron americano. «Questo è uno dei tanti risultati già ottenuti nei mesi scorsi — nota Gianotti — i quali ci hanno mostrato, in brevissimo tempo, cioè nell’anno di attività dopo la riparazione dal guasto dell’autunno 2008, tutta la fisica conosciuta» . Dal 6 dicembre il superacceleratore ginevrino è stato spento per un paio di mesi di manutenzione e così siamo potuti scendere nelle caverne degli esperimenti a cento metri di profondità. Finora l’energia massima raggiunta negli scontri fra le nuvole di protoni all’interno dell’anello è di 7 TeV, cioè la metà della potenza massima per la quale è stato progettato. «Ma il risultato già ottenuto— spiega Tonelli— è stato così importante e significativo che ci ha spinto a cambiare tutti i programmi di lavoro stabiliti. In pratica ci siamo resi conto che molti obiettivi potranno essere raggiunti a questo livello di energia o poco più, ad esempio 7,1 TeV, che è quello che si farà alla riaccensione» . Tonelli e Gianotti fanno parte dei 600 scienziati italiani dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) impegnati con la nuova macchina destinata a riprodurre le condizioni dell’Universo una frazione di secondo dopo il big bang dal quale ogni cosa ha avuto origine. Tutti i quattro esperimenti allestiti sull’anello sono diretti da italiani. Paolo Giubellino governa l’esperimento Alice e Pier Luigi Campana l’esperimento Lhcb. Lo stesso acceleratore con magneti superconduttori è stato costruito sotto la guida di Lucio Rossi. Inoltre, anche il direttore di tutta la ricerca del Cern, Sergio Bertolucci, è un fisico italiano. Insomma, la predominanza internazionale dei nostri scienziati delle alte energie è riconosciuta sul campo: alla guida degli esperimenti, infatti, si è eletti direttamente dai ricercatori del gruppo e sono complessivamente seimila di ogni nazionalità quelli coinvolti da Lhc. Tra loro c’è persino un migliaio di americani, invertendo, nella fisica, il flusso che di solito vede gli europei andare oltre Atlantico. Ma intanto si sta già lavorando per migliorare le capacità di Lhc, potenziandole da 5 a dieci volte rispetto ad oggi. Il programma è stato appena approvato dal Consiglio del Cern e si è impegnati nella realizzazione dei primi elementi. «Sostituiremo alcune parti attuali— precisa Lucio Rossi— con altre di tecnologia più avanzata in modo da aumentare la cosiddetta luminosità dell’acceleratore, vale a dire il numero di collisioni che possono avvenire ogni secondo nello scontro tra i protoni. Questo significa accrescere considerevolmente le possibilità di scoperta. I primi prototipi dei nuovi elementi dell’anello saranno pronti nel 2013; poi si procederà alla costruzione di trenta magneti che rimpiazzeranno nel 2020 altrettanti vecchi elementi» . I test, iniziati lo scorso mese, fanno ricorso al nuovo superconduttore niobio-tre-stagno con il quale si è fabbricato un primo piccolo magnete. Il tempo corre veloce al Cern, ormai diventato il più importante centro di ricerche nucleari del mondo; un primato che rimarrà tale presumibilmente per almeno un ventennio, grazie anche ai miglioramenti in corso.

Repubblica 21.12.10
Un libro racconta le radici dell´identità italiana nei centri urbani
Le nostre città costruite sul mito
Il Quirinale che prende il nome dal dio Quirino poi identificato con Romolo è ancora oggi la sede della più alta istituzione
di Marino Niola


Ogni città si trova all´incrocio di tre strade. Il sogno, il desiderio e la memoria. Non ce n´è una che non ripercorra continuamente questi cammini per ritrovare se stessa. Per costruire il suo passato e vivere il suo presente. In altri termini per fondarsi e rifondarsi. Ieri come oggi la città non è che la forma spaziale di un´identità collettiva. Nulla di più concreto e al tempo stesso nulla di più astratto. La materializzazione di un mito.
E proprio ai miti che raccontano l´origine delle principali città italiane è dedicato un bellissimo volume splendidamente illustrato, edito dal Monte dei Paschi di Siena (Miti di città, pagg. 444, euro 28).
Il libro, curato da Maurizio Bettini, Maurizio Boldrini, Omar Calabrese e Gabriella Piccinni, affronta di petto una grande questione. A che servono i miti di fondazione. Sono solo delle fantasie ingenue, dei travisamenti della storia, delle invenzioni poetiche, delle millantate origini?
Per rispondere alla domanda i quattro curatori hanno convocato fior di studiosi. Come Antonio Prete, Donatella Puliga, Maria Cristina La Rocca, Lionello Puppi, Monica Granchi, Luigi Spina. Fino ad Antonio Tabucchi e molti altri.
La risposta è concorde. La città senza mito è come un edificio senza fondamenta. Solo che queste fondamenta non sono poste all´inizio, ma servono a raccontare l´inizio. Sono architettate a posteriori. Come un´introduzione, che viene scritta dopo aver terminato il libro, per valorizzarne dei particolari, per orientarne la lettura. E, quel che più conta, l´inizio non è dato una volta per tutte, ma ogni epoca lo riscrive. E in questo modo rifonda la città, ne ristilizza il passato per adattarlo alle esigenze del presente.
L´esempio più noto è quello del racconto delle origini di Roma, cui Maurizio Bettini dedica un illuminante intervento. La celebre storia di Romolo e Remo, figli del dio Marte e di Rea Silvia, allevati dalla lupa capitolina viene riformulata innumerevoli volte, sia in età repubblicana che in età imperiale. Con una significativa ripresa novecentesca da parte del regime fascista. E sempre per ragioni strategiche e politiche. Come quelle di Augusto, che incarica un drago della poesia come Virgilio di trovare alla sua famiglia un´origine all´altezza delle sue ambizioni imperiali. E il poeta gli serve su un piatto d´argento l´Eneide che fa del divo Cesare il discendente del mitico Enea e di Iulo, figlio dell´eroe troiano, il capostipite della gens iulia. Cioè del lignaggio augusteo.
In questo modo l´intera vicenda di Roma viene ripensata mescolando, in una sorta di bricolage mitologico, storia e leggenda, realtà e immaginazione. Una vera e propria ricerca di padri, un´adozione a distanza. Come dire che sono sempre le ragioni del presente a costruire la narrazione e l´interpretazione del passato. E spesso la sua reinvenzione. Esattamente quel che fa oggi, peraltro senza l´eleganza virgiliana, la Lega Nord quando mescola pezzi del mito di Eridano, antico nome del Po, con brandelli di folklore celtico e frammenti di medioevo comunale per fondare un´identità padana che non ha riscontri nella storia. Ma in compenso ha molta presa politica ed emotiva perché evidentemente supporta l´attuale revisione padanocentrica della vicenda nazionale.
Spesso sono i nomi stessi dei luoghi a far riaffiorare la voce remota del mito alla superficie della città. Come avviene a Roma la cui topografia simbolica affonda nelle radici remote degli inizi. Non a caso il Quirinale, che prende nome dal dio civico Quirino, poi identificato con Romolo, è ancora oggi la residenza della prima istituzione del paese, il luogo simbolo dello Stato.
Anche Napoli è così profondamente abitata dal mito che i Napoletani si chiamano tuttora partenopei dal nome della sirena Partenope, leggendaria fondatrice della città e non si sono mai identificati con il nome del patrono san Gennaro. A differenza dei Bolognesi che si chiamano petroniani per san Petronio e dei Milanesi, ambrosiani da sant´Ambrogio.
Il mito è dunque come un palinsesto. In certi casi conserva, in altri casi sostituisce una memoria ad un´altra. E alla fondazione pagana sovrappone la rifondazione cristiana. A conferma del fatto che l´immagine della città è sempre un secolare compromesso fra memoria e oblio. Di cui il mito ogni volta verbalizza i termini. E tiene aggiornato l´archivio.

Spinoza...
Repubblica 21.12.10
"Così la scienza ci spiega la mappa dei sentimenti"
Il neuroscienziato Vittorio Gallese illustra come funzionano i meccanismi delle passioni e degli affetti
I neuroni specchio ci dicono perché le storie inventate ci commuovono come quelle autentiche
Anche i progressi più recenti non riescono a risolvere il mistero dell´amore
di Maurizio Ferraris


Quella che vediamo è una mappa delle emozioni basata sull´Etica di Spinoza (1677) pubblicata da Emanuel Derman, analista finanziario sudafricano e professore alla Columbia University di New York sul sito di "Edge". Derman osserva a ragione che si tratta di una classificazione estremamente dettagliata e realistica, dunque sotto il profilo della descrizione delle emozioni non molto è cambiato, come del resto ci insegnano secoli di arte e letteratura. Ciò che è cambiato moltissimo è la conoscenza dei meccanismi fisiologici delle emozioni, e il riconoscimento del ruolo positivo che giocano nella formazione della decisione razionale. Ne abbiamo parlato con Vittorio Gallese, dell´università di Parma, uno dei maggiori neuroscienziati contemporanei, scopritore negli anni Novanta, insieme ad altri ricercatori dell´Università di Parma coordinati da Giacomo Rizzolatti, dei "neuroni specchio", forse la scoperta italiana recente più citata nella letteratura internazionale (la ricerca di "mirror neurons" su Google dà più di mezzo milione di risultati).
Gallese La teoria delle emozioni di Spinoza è per molti versi modernissima. Soprattutto quando afferma che il pensiero è intimamente incarnato nel corpo che lo esprime rappresentadovisi. Spinoza attribuisce al corpo vivo dell´esperienza un ruolo determinante nella generazione dell´attività mentale, considerata come l´idea pensata del corpo, secondo un´impostazione ripresa oggi da molti neuroscienziati come Antonio Damasio o come il sottoscritto. Le neuroscienze e la psicologia hanno dimostrato che l´essenza dell´intelligenza umana non si comprende escludendo le emozioni. Oggi sappiamo che quando le nostre scelte sono dissociate dalle emozioni e dall´affettività sono del tutto "irrazionali" e ci rendono asociali. Il mito di una razionalità assoluta svincolata dal corpo delle passioni è definitivamente tramontato, anche se forse molti fanno ancora fatica ad ammetterlo. In più, abbiamo scoperto che le emozioni degli altri le comprendiamo anche perché condividiamo i meccanismi neurali che le sottendono. Il nostro cervello-corpo risuona con le emozioni dell´altro rispecchiandole. Questo è un aspetto fondamentale di ciò che chiamiamo empatia.
Ferraris Tra le molte applicazioni della scoperta dei neuroni specchio una riguarda il cosiddetto "paradosso della finzione". Non è vero che chi piange leggendo la morte di Hanno Buddenbrook "non piange davvero" perché Hanno non è mai esistito, proprio come le emozioni provocate dalla realtà virtuale sono emozioni del tutto genuine.
Gallese I neuroni specchio si attivano sia quando agiamo che quando osserviamo agire gli altri. Un simile meccanismo è stato dimostrato anche per le emozioni come il disgusto o la rabbia, e per sensazioni come il tatto o il dolore. Per certi versi comprendere l´altro significa simularne l´essere e il fare. La stessa logica si applica alla finzione, sia essa cinematografica, teatrale, narrativa o delle arti visive. Il nostro cervello-corpo simula anche quel tipo di immagini. I neuroni specchio si attivano di più quando l´azione osservata è realmente eseguita di fronte all´osservatore da una persona in carne ed ossa. Ma si attivano anche quando la presenza dell´altro è solo virtuale, apparendo su di un monitor. Credo che sia per questo che la morte di Hanno Buddenbrook può commuoverci come quella di una persona reale. Le emozioni che suscita sono altrettanto "reali". Questa secondo me è un´altra grande scoperta delle neuroscienze: nel nostro cervello la differenza tra reale e immaginario è molto meno netta di quanto ci appaia sulla base del nostro quotidiano rapporto con la realtà. Paradossalmente, come dici tu, talvolta la finzione è più emozionante della realtà. In questi casi si parla di "sospensione dell´incredulità". Credo ci sia dell´altro. Credo che di fronte alla finzione artistica, possiamo abbassare le difese e "liberare" le nostre simulazioni. Nella "finzione" artistica la nostra inerenza all´azione narrata è totalmente libera da coinvolgimenti personali diretti. Siamo liberi di amare, odiare, provare terrore, facendolo da una distanza di sicurezza. Fruire dell´arte, in fondo, significa liberarsi del mondo per ritrovarlo più pienamente.
Ferraris Ci sono delle ottime ragioni per sostenere che se piango tagliando le cipolle "non piango davvero", perché potrei essere allegrissimo. Ma ci sono situazioni più complicate. Per esempio, si può sensatamente sostenere che chi ha paura di una allucinazione ha davvero paura. E, per esempio, il fremito che si prova quando si è innamorati e quello che si prova quando si fanno le scale di corsa hanno qualcosa in comune?
Gallese L´allucinazione è effettivamente un caso complicato, perché non è una percezione senza oggetto, ma una percezione senza oggetto sociale, cioè non condivisa. Ma è altrettanto reale per chi la prova di una percezione condivisa anche dagli altri. Questo perché ogni mia azione, percezione, emozione o sensazione lo è sempre per me che la faccio o la provo. L´emozione d´amore e l´affanno che ci assale dopo avere scalato cinque piani di scale condividono delle modificazioni del nostro corpo. Il respiro si fa più frequente, il cuore batte più forte, la pressione arteriosa sale, ma questo non basta a renderli uguali. È la presenza dell´altro, reale o anche solo fantasmatica, a segnare la differenza. Le neuroscienze ci aiutano a comprendere meglio di cosa sono fatti gli affanni del cuore e quelli della salita al quinto piano, ma i neuroni non bastano per spiegare cosa sia l´amore. La difficoltà del dialogo tra neuroscienze e scienze umane talvolta deriva anche da una certa "neurohybris" secondo cui tutto può essere spiegato in termini neuronali. Non è così, ovviamente. Ma ciò non significa che quello che le neuroscienze possono dirci non sia rilevante, tutt´altro. L´importante è non confondere i linguaggi di descrizione.
Ferraris A proposito di "neurohybris", credi possibile (facciamo un esperimento mentale) che uno scienziato – non saprei dire se saggio o pazzo – riesca a conservare le emozioni ma a liberarle dalla tendenza a soggiacere a illusioni e a mitologie?
Gallese Quello scienziato, riuscendoci, temo che avrebbe realizzato qualcosa di molto diverso dall´essere umano, e non necessariamente migliore. È l´uomo che non può che soggiacere a miti ed illusioni. Siamo fatti così. Però abbiamo anche la capacità di riconoscere le illusioni e i miti in quanto tali. Basterebbe forse sforzarsi un po´ di più di smascherare le illusioni. Gli strumenti non mancano. Le neuroscienze aggiungono a questo proposito un nuovo e importante livello di descrizione. Sarebbe un esercizio ad esempio utilissimo nell´Italia di oggi.


Repubblica 20.12.10
Natale nel Kashmir ecco le origini pagane di Gesù Bambino
di Marino Niola


La festa del solstizio d´inverno della tribù dei Kalasha ha molte somiglianze con quella della natività di Cristo L´antropologo Augusto Cacopardo ha studiato il significato dell´antico rituale, che dura dodici giorni
La popolazione, che vive tra Pakistan e Afghanistan, custodisce le sue radici indoeuropee
L´attesa del dio Indr è associata ad abbuffate di lenticchie e doni per i più piccoli

Per ritrovare l´origine del Natale bisogna andare sugli altipiani dell´Hindu Kush, tra Afghanistan e Kashmir. Dove vivono gli ultimi pagani. Sono i fieri Kalasha, gelosi custodi delle loro remotissime tradizioni indoeuropee. Questi uomini che sapevano d´antico già nel 330 avanti Cristo, quando Alessandro Magno li incontrò durante la sua marcia verso Jelalabad, ci rivelano le radici della nostra storia e della nostra religione. Il loro grandioso rito solstiziale d´inverno, dodici giorni che iniziano con la discesa del dio tra gli uomini e si concludono con l´inizio del nuovo anno, è infatti l´archeologia vivente della natività. A dirlo è l´antropologo Augusto Cacopardo in un libro appena uscito per l´editore Sellerio. Il titolo, più che eloquente, è Natale pagano (Sellerio, pp. 476, euro 20). Argomento è la millenaria gestazione di una festa che non sarebbe stata inventata dal cristianesimo ma comincia molto prima.
In realtà sono stati in molti a sostenere che la madre di tutte le festività dell´Occidente nasce da antichi riti agrari e astronomici precristiani. Come quelli dell´Atene di Pericle, culla della democrazia occidentale, dove nell´ultima decade di dicembre si addobbava un albero sempreverde con coppe e otri in onore di Dioniso, il dio del vino che offre in pasto il suo corpo e il suo sangue. Mentre a Roma, sempre in dicembre, durante i Saturnali si ornavano le case con abeti e altri alberi perenni, simboli della vita che continua. Il tutto culminava nella festa di Mitra, il dio solare nato in una grotta e rappresentato come un bambino risplendente di luce. La sua nascita coincideva con il solstizio d´inverno, quando le giornate cominciano ad allungarsi e il sole ha il sopravvento sulle tenebre. Stessa cosa facevano i Celti dell´Europa del Nord che nello stesso periodo offrivano alle divinità della luce composizioni di vischio e rami di abete.
Il libro di Cacopardo aggiunge a queste ipotesi storiche una prova vivente. I Kalasha, che hanno resistito a ogni tentativo di cristianizzazione e di islamizzazione, continuano infatti a professare una religione sorprendentemente simile a quella dell´antichità. Questi montanari variopinti che Fosco Maraini trovava più antichi che esotici, appaiono come l´eco presente di un tempo lontanissimo, il riverbero di un passato remoto miracolosamente conservato in una bolla della storia. Sospesa a duemila metri sulle alture rarefatte di Birir, a due passi dai teatri di guerra dell´Afghanistan. Questi portatori sani di un´origine altrove scomparsa ci fanno toccare con mano lo spirito della religione prima dell´arrivo dei monoteismi. E soprattutto ritrovare il politeismo degli antichi popoli indoeuropei, spesso ancora presente sotto traccia nel nostro folklore. E perfino nelle nostre grandi solennità religiose.
La grandiosa festa del solstizio d´inverno, che i Kalasha chiamano Chaumos, è a tutti gli effetti un natale prima del Natale. È la matrice ideale della nostra notte incantata. Con il dio luminoso Indr - parente stretto di Indro, nome locale dell´arcobaleno, nonché di Indra, signore della folgore nel pantheon induista - che discende a visitare gli uomini nel periodo più buio dell´anno e dispensa loro la sua energia come un dono benefico. Se si aggiungono i rami di vischio, le abbuffate rituali di lenticchie di montagna, la notte di vigilia in attesa dell´avvento del dio, i doni ai bambini e i fuochi che rischiarano la notte innevata, gli ingredienti del nostro Natale ci sono tutti. A parte "Jingle Bells". Ma non è poi così grave.
Non sarebbe Gesù bambino a fare il Natale, dunque, ma il natale a fare Gesù bambino. Sembra questo il messaggio degli ultimi pagani. Che pare fatto apposta per dar ragione a Sant´Agostino il quale diffidava i cristiani dal celebrare il sole a dicembre perché era roba da idolatri. O a quei sacerdoti francesi che, alla fine degli anni Cinquanta, bruciarono il fantoccio di Babbo Natale sul sagrato della cattedrale di Digione considerandolo un simbolo perverso di paganesimo e al tempo stesso di consumismo. Che sono, a pensarci bene, il prima e il dopo della modernità. Due estremi della storia mescolati insieme. A conclusione di un cammino millenario di cui gli ultimi pagani continuano ancora oggi a celebrare l´inizio.

Repubblica 20.12.10
Vincenzo Paglia, presidente della Federazione Biblica Mondiale
"Non importa se riti e date sono simili per noi cristiani conta il messaggio"
di Orazio La Rocca


«La festa del Natale si è incarnata nelle tradizioni e nelle culture degli uomini e nella varie epoche storiche. La stessa data, il 25 dicembre, da sempre è legata alle feste pagane romane del Sol Invictus. Ma per capire il significare autentico del Natale non ci si deve fermare alle date o alle apparenze». Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, fondatore della Comunità di S. Egidio, nonché presidente della Federazione Biblica Mondiale, non si scompone davanti alla suggestiva tesi dell´antropologo Cacopardo che collega il Natale cristiano ai riti pagani dei Kalasha. «È uno studio come tanti che, però, non tocca la vera essenza della festa cristiana per eccellenza, non riducibile ad una disputa storica su date o ricorrenze. Il Natale è ben altro».
E qual è, allora, il vero significato del Natale cristiano?
«È la novità che, prima della nascita di Gesù, non era stata mai contemplata in nessun´altra religione e in nessun altra epoca storica. Vale a dire, l´incarnazione di Dio in un bambino, povero e indifeso, in una delle periferie più remote dell´impero romano, la Palestina, non in un palazzo imperiale, ma in una grotta. Un Dio che si fa uomo nella forma più povera ed indifesa».
E perchè il Dio dei cristiani si è manifestato nella povertà?
«Un Dio che nasce bambino, povero in mezzo ai poveri, è una chiara scelta di vicinanza ai più deboli, senza tuttavia negare l´incontro anche con il resto della società, come dimostra l´episodio dei re Magi. È questo il vero significato del Natale, specialmente oggi dove tutto è ridotto a mercato. Il Natale non si compra, si cerca, si accetta nel suo messaggio di amore e di vicinanza ai poveri. Peccato dimenticarlo».