mercoledì 22 dicembre 2010

l’Unità 22.12.10
Qualcosa di nuovo
di Luigi Manconi


E se questo movimento studentesco non si esaurisse con la giornata di oggi? Se, cioè, la definitiva approvazione della cosiddetta riforma Gelmini non bruciasse una volta per tutte le aspettative e le energie della mobilitazione? È possibile. In altre parole, è possibile che, dopo alcuni decenni di fuochi fatui e dopo molte avvisaglie non concretizzatesi e dopo agitazioni tumultuose ma gracili, questa volta un movimento giovanile e studentesco riesca a rafforzarsi, riprodursi nel tempo e insediarsi con radici robuste nel tessuto sociale. Certo, è altrettanto possibile che nulla di tutto ciò accada e che questa mobilitazione si concluda come, in precedenza, si sono concluse quelle dei movimenti degli anni ’80 e ’90, come la Pantera e l’Onda. Sono due i fattori che consentono di ipotizzare un esito diverso. Il primo è rappresentato dalla dimensione non esclusivamente italiana del fenomeno: manifestazioni di massa, a composizione non solo studentesca, si sono registrate negli ultimi mesi e settimane in molti paesi europei, con connotati simili. Il secondo, rilevantissimo fattore è costituito dallo scenario nel quale si sviluppa la mobilitazione, segnato dagli effetti di una profondissima crisi economica. Pressoché tutti gli altri movimenti studenteschi della storia italiana, e non solo italiana, si aggregavano in periodi di risorse affluenti e di aspettative crescenti. Alla fine degli anni ’60 il movimento si formava in una scuola diventata infine di massa e in una società che infine conosceva il benessere e il consumismo. Erano movimenti sostanzialmente ottimisti, proiettati verso il futuro, tesi a immaginare e a tentare di afferrare, in qualche modo, una prospettiva di maggiore ricchezza. Ricchezza di beni materiali e di conoscenze intellettuali, di opportunità sociali e di spazi di libertà, di diritti individuali e di garanzie collettive. (E, nei paesi dell’Est, i movimenti studenteschi hanno contribuito potentemente alla democratizzazione di regimi non democratici). Potevano fallire, come è accaduto, ma lasciavano una traccia: profonda, profondissima, quale quella impressa sul corpo della società italiana. Quei movimenti, certo, non hanno “fatto la rivoluzione” – e come potevano? – ma hanno contribuito, più di qualunque altro soggetto, a modernizzare la comunità nazionale, le relazioni sociali e gli stili di vita. Anche i movimenti successivi hanno operato in una condizione di relativo benessere, dove il conflitto ruotava intorno ai criteri di distribuzione di risorse (materiali e immateriali) che tendevano a scarseggiare, ma che pure rappresentavano una apprezzabile posta in gioco. Oggi non è più così. La frase che più spesso si sente ripetere da chi partecipa ai cortei, “ci negano il futuro”, sarà pure retorica e farà arricciare il delizioso nasino del ministro Gelmini, ma allude a una verità brutale. In Italia la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa, nel sud è ancora maggiore e tra le donne meridionali cresce ulteriormente. Il paesaggio è né più né meno che desolante.   
Il movimento giovanile studentesco di questi mesi sembra il solo capace di resistere a una sindrome depressiva sociale e psicologica, collettiva e individuale. E di contrastare la miseria, considerata come scrivevano nel 1966 gli studenti di Strasburgo, nell’opuscolo De la misère en milieu étudiant «nei suoi aspetti economici, psicologici, politici, sessuali e in particolare intellettuali». Infine, c’è la questione della violenza. È superfluo qui, poi insistere sulla condanna: va da sé. Ma è altrettanto ovvio che la violenza è l’espressione maldestra e deforme, che può arrivare a farsi criminale, di un bisogno di comunicazione, tanto più destinato a diventare sopraffazione quanto più si scopra impotente perché inascoltato. La violenza, in particolare, è totalmente improduttiva perché immorale e immorale perché totalmente improduttiva (è questo il fondamento più robusto della nonviolenza). La manifestazione di martedì 14 scorso trasmetteva una sorta di aspra malinconia, forse perché la violenza è sempre cupa in quanto incapace di emancipazione per sé e per gli altri. Ma la violenza del movimento del ’77 si alternava a importanti espressioni di creatività e di fantasia, perché comunque, cercava una
proiezione in avanti, nello spazio e nel tempo. Ora, è infinitamente più difficile. È come se quella violenza fosse la manifestazione di una afasia (dei giovani) e di una sordità (degli adulti). Oggi è il tempo delle passioni tristi, secondo la notissima formulazione di Spinoza, ripresa alla lettera da Vasco Rossi (sì, Vasco Rossi) nel suo concerto all’Olimpico del 29 maggio 2008: «chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza». Nonostante tutto, questa è una stagione di grandi passioni: tocca alla politica e, forse ancor prima ai movimenti sociali, far sì che quella passione si liberi dalla tristezza e trovi una via magari tortuosa e certamente faticosa per continuare a immaginare un futuro.

l’Unità 22.12.10
Intervista a Emanuele Fiano
«Io deputato Pd in piazza per ascoltare gli studenti»
Il movimento può rappresentare una grande opposizione di massa ma non deve farsi strumentalizzare da nessuna minoranza violenta
di Mariagrazia Gerina


Da una parte il sindaco Alemanno che senza attendere verifiche parla di un ordigno pronto a esplodere, nella metropolitana di Roma. Dall’altra gli studenti delle scuole superiori che conquistano piazza Montecitorio per consegnare fiori agli agenti in servizio. «Ecco mi auguro che anche durante la manifestazione possa prevalere la loro ironia e allegria», dice Emanuele Fiano, deputato e responsabile sicurezza del Pd, che in tasca, di buon auspicio, conserva una di quelle piccole dalie. È stato lui, alla vigilia della manifestazione a organizzare un incontro tra studenti e poliziotti. E oggi sarà in piazza: «Sento un dovere di rappresentanza, voglio vedere da vicino quello che succede in un grande fenomeno di massa».
Cosa si aspetta che accadrà?
«Non ho la sfera di cristallo, ma mi auguro che prevalga la fantasia e il ragionamento politico: io credo che alcuni episodi che si sono verificati il 14 abbiano fatto paura, il ragazzo colpito in pieno viso da quel manifestante, il calpestamento da parte degli agenti di quell’altro ragazzo, alcune scene violentissime di attacco alle camionette, il mio augurio è che anche questo riconduca tutti a un ragionamento diverso, la protesta si rinforza se riesce ad aggregare il fronte sociale più vasto possibile e il movimento può centrare questo obiettivo se non accetta in nessun modo di venire strumentalizzato da minoranze violente, chi oggi coordina le varie sigle studentesche ha la responsabilità di un dirigente politico e deve sapere che il movimento degli studenti può essere un grande movimento, capace di esprimere una vera opposizione di massa, ma se sfocia in forme di protesta violenta rischia di ottenere l'effetto contrario».
Certo se sarà una manifestazione pacifica non sarà merito di chi dalla maggioranza le ha tentate tutte per invelenire il clima.
«Io mi auguro che la benzina gettata sul fuoco non abbia esito. Non dimentico la storia di questo paese: è già successo in momenti complicati della vita politica parlamentare che possibili cambiamenti venissero bloccati perché fatti violenti spostavano l’asse dell’opinione pubblica, io mi auguro che nessuno abbia questo disegno. Bisogna invece abbassare i toni e fare quello che ha detto il presidente della Repubblica: essere contro la violenza ma insieme ascoltare le istanze che vengono dalle manifestazioni degli studenti».
Loro dicono “Non ci rappresenta nessuno”. O anche: “Io non mi fido”. Vale per tutte le forze politiche, anche per
il Pd...
«Non c’è dubbio, la politica ha mancato, la loro rabbia nasce da domande rimaste senza risposta e per evitare che si trasformi in violenza, dobbiamo dare quelle risposte. E sarebbe sbagliato pensare che le loro manifestazioni parlino solo al governo e non anche l’opposizione. Il Pd sul ddl Gelmini ha presentato 300 emendamenti, ma la politica un partito non la deve fare solo nell’aula. Non a caso, all’indomani del 14 dicembre, abbiamo preso l’iniziativa, facendo incontrare poliziotti e studenti. L’idea è nata da un fatto parti-
colare: il 13 dicembre davanti a Montecitorio a manifestare erano tutte le sigle della polizia, protestavano contro i tagli voluti dal governo, che poche ore dopo li avrebbe chiamati a fronteggiare gli studenti. Ecco, mi ha colpito questa trasversalità degli effetti delle scelte dell’esecutivo. E ho pensato che sarebbe stato bello che alcuni studenti senza casco potessero interloquire con poliziotti non in tenuta antisommossa». Hanno parlato di quello che è accaduto il 14 dicembre?
«Si è discusso molto di come evitare che i ragazzi possano identificare negli agenti di polizia il nemico. Un agente ha raccontato che anche lui ha dei figli che vorrebbero andare all’università: “io però devo capire se riuscirò a mandarceli”, ha detto. Dietro ogni visiera c’è un uomo e dietro ogni casco un ragazzo. Ecco, è questo il messaggio che volevamo far passare. Un no a qualsiasi forma di violenza pronunciato da tutte e due le parti. E un no a qualsiasi proposta di restringimento della libertà di manifestare il proprio dissenso, anche questo detto contemporaneamente sia dalle sigle sindacali di polizia che dagli studenti».
Degli infiltrati avete parlato?
«No, ma credo che Anna Finocchiaro sia stata travisata: non si riferiva ad agenti provocatori. Io non credo che ci fossero, ma rivendico il diritto di un partito di esercitare la funzione di controllo e critica».
Con gli scontri del 14 dicembre è ritornato lo spettro di Genova 2001. «Io credo che quella vicenda abbia cambiato l’immaginario anche nella polizia: il 14 dicembre la gestione dell’ordine pubblico è stata molto diversa, anche se ci sono stati episodi come quello del manifestante calpestato dagli agenti che vanno puniti, io credo che la filosofia trasmessa agli agenti sia di non cercare lo scontro, di contenere la protesta senza reazioni rabbiose».

l’Unità 22.12.10
Una legge contro l’Università
Riforma Gelmini, perché il Pd vota no
di Vittoria Franco


Perché il Pd vota contro la legge Gelmini? La risposta è semplice: perché è una legge che non risponde ai bisogni reali dell’università, non è all’altezza dei cambiamenti necessari. Il risultato sarebbe stato certamente migliore se l’intento fosse stato non la punizione di docenti e rettori che ha portato a ripristinare un anacronistico centralismo con norme minuziose e prescrittive bensì la promozione dell’autonomia nella responsabilità, la qualità della didattica, il diritto allo studio: in una parola l’investimento e non il disinvestimento, con la conseguente riduzione delle risorse. Il risultato sarebbe stato diverso se la riforma fosse stata concepita come un’occasione per contribuire a costruire un’Italia più dinamica, più competitiva, più capace di cooperare a quel progetto ambizioso di costruire un’Europa della conoscenza e un’economia fondata sul sapere.
Indico qui solo alcune delle criticità legate a questa legge: 1) autonomia e responsabilità avrebbero dovuto costituire il principio cardine e invece, si mortifica l'autonomia e si rende difficile l'esercizio della responsabilità. Servono poche regole e molta sostanza nella pratica dell’autonomia. Lacci e lacciuoli di norme eccessivamente prescrittive rendono invece la vita difficile anche a chi voglia davvero innovare, differenziarsi, per accrescere la qualità; 2) la meritocrazia di cui tanto si vanta il Governo è finta. Noi siamo a favore della selezione in base al merito, perché solo valutando il merito si crea una società più giusta. Ma la meritocrazia deve andare insieme con la costruzione di condizioni di pari opportunità per poter valorizzare i talenti dovunque siano, a prescindere dalla provenienza sociale e familiare. Ma ciò che a oggi abbiamo visto nella legge di stabilità è la riduzione delle borse di studio, che ha giustamente allarmato gli studenti, le famiglie, le Regioni. Il Fondo per il merito non ha una copertura finanziaria, non distingue fra abbienti e non abbienti e finirà per avvantaggiare chi gode già di vantaggi familiari. Non modificherà in niente la scarsissima mobilità sociale. C’è poi una modifica, in virtù della quale si premiano gli studenti che frequentano l'università nella propria Regione. Per accontentare la Lega si introduce il principio della discriminazione territoriale e si dà un colpo alla qualità dell'apprendimento. Si parla di merito e di qualità e poi si premia il Cepu, come se fosse la Bocconi; 3) le risorse sono scarse e non serviranno a finanziare la riforma, tanto che i decreti legislativi che comportino oneri possono essere emanati solo dopo aver reperito le relative risorse: un modo per rinviare alle calende greche nuovi ingressi nelle università. Il reclutamento è bloccato e rimangono tante figure precarie. Insomma, siamo contrari anche perché vengono penalizzati i giovani nello studio e nella ricerca.

il Fatto 22.12.10
Cultura e cannone
Mentre si votano i tagli all’Università l’Italia paga oltre 15 miliardi per aerei militari
di Daniele Martini


Si chiama Joint Strike F-35, è un cacciabombardiere monoposto sofisticatissimo, definito dai tecnici di “quinta generazione”. Costa uno sproposito, 130 milioni di euro ad esemplare, e per l’Italia sta diventando la pietra dello scandalo. Per diversi motivi. Primo: nonostante il bilancio dello Stato pianga e il governo tagli in ogni direzione, infierendo soprattutto nei confronti dell’Istruzione, dai fondi per l’Università alla ricerca, dalle borse di studio alle pulizie delle aule, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è in procinto di firmare il contratto per la fornitura della bellezza di 131 aerei, dando un’accelerata finale a un impegno assunto 12 anni fa dal governo presieduto da Massimo D’Alema. Costo stimato: oltre 15 miliardi di euro, la spesa più alta in assoluto decisa da un governo italiano per un aereo militare. Azienda fornitrice la Lockheed Martin, marchio che in Italia fa venire alla mente un’altra stagione e un altro scandalo avvenuto tra il 1972 e il 1976, collegato anche quello a una fornitura di aerei, i mastodontici C 130 da trasporto militare. Una vicenda in cui rimasero coinvolti, tra gli altri, lo Stato maggiore dell’Aeronautica e il presidente della Finmeccanica, Camillo Crociani, che dovette rifugiarsi in Messico.
Gli spiccioli di Alenia
NELLA LEGGE diStabilità (la ex Finanziaria) sono già stati stanziati i primi 471 milioni per dare all’Italia la possibilità di presentarsi al tavolo per la firma definitiva, più altri 185 milioni che sono la prima tranche di un contratto da 800 milioni che lo Stato ha stipulato con la ditta costruttrice Maltauro per la realizzazione nell’area dell’aeroporto militare di Cameri, in provincia di Novara, di hangar e strutture per la produzione della parte italiana dell’aereo (le ali) riservata all’Alenia, società posseduta al 100 per cento da Finmeccanica, a sua volta quotata in Borsa, posseduta solo per un terzo dalla parte pubblica e per il resto da privati. In pratica lo Stato sta pagando per intero i costi per le strutture produttive di un’azienda in larga misura privata. L’avvio dei lavori è previsto per l’inizio di gennaio.
Secondo motivo di perplessità: per recuperare le risorse per gli F-35, il ministro non esita a contrarre gli stanziamenti per l’acquisto di un altro aereo da combattimento, l’Eurofighter Typhoon, anche questo molto costoso, ma che almeno aveva il merito, dal punto di vista economico e strategico, di essere prodotto da aziende europee. L’Eurofighter è frutto della cooperazione tra Italia, Germania, Inghilterra e Spagna e dà lavoro a 100 mila persone in Europa, piùdi20milainItalia.Equando fu lanciato diversi anni fa, fu presentato come un esempio del tentativo di avviare un progressivo sganciamento strategico dal dominio americano sul versante della tecnologia e della produzione bellica. In confronto, gli F-35 americani lasciano molto meno all’Europa e in particolare all’Italia (ufficialmente considerata solo “partner di secondo livello”), poco più che le briciole, 600 operai, secondo le prime stime, più 2 mila tecnici, in parte spostati dalle linee dell’Eurofighter.
Un gran saluto al caccia “europeo”
IL GOVERNO italiano non ha cancellato del tutto gli acquisti del caccia europeo, ma li sta riducendo parecchio e dopo averne comprato una quarantina di esemplari, ne acquisirà altri 60 fino al 2018, ma cancellerà la fornitura successiva, quella che i tecnici chiamano la “tranche 3B”. Per rientrare un po’ dei costi altissimi sostenuti finora per l’Eurofighter, l’Italia sta cercando insieme ad altri governi europei (Spagna, Germania, Gran Bretagna) di piazzarlo in mezzo mondo, dalla Romania all’India, dalla Turchia all’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi al Qatar.
Terzo motivo di dubbio: le caratteristiche specifiche dell’aereo e i ripetuti rallentamenti della fase di sperimentazione dei prototipi. Secondo Silvia Corti, ricercatrice dell’Archivio Disarmo, l’F-35 è un aereo “dotato di grande forza distruttiva e in grado di trasportare armi nucleari”, requisiti che a prima vista non si attagliano molto alle forze armate italiane. Secondo un altro esperto,Francesco Vignarca, perfino i massimi vertici Lockheed hanno ammesso che lo sviluppo del progetto è rallentato da “grossi problemi tecnici e industriali”, mentre l’organismo tecnico di controllo del parlamento Usa, ha espresso riserve sull’efficacia di un progetto d’arma così mastodontico.
Aumentano le spese
L’ULTIMO ELEMENTO di dubbio consiste nel fatto che l’acquisto dei costosissimi F-35 avviene nell’ambito di un nutrito programma di spese militari approvato alcune settimane fa dalla commissione Difesa del Senato (con l’astensione del Partito democratico) nel corso di una seduta lampo durata meno di un’ora. In quell’occasione fu dato il via libera all’acquisto di un arsenale: 10 elicotteri per l’Aeronautica (200 milioni di euro nel periodo 2010-2018), siluri per sommergibili (125 milioni), armamenti controcarro da montare sugli elicotteri d’attacco (altri 200 milioni), una nave di supporto subacqueo in grado di sostituire la vecchia Anteo (125 milioni). Poi 22 milioni per l’acquisto di mortai da 81 millimetri, e infine l’avvio di un sistema di informazioni fra diversi paesi, il Dii (Defense Information Infrastructure), valore 236 milioni.

il Fatto 22.12.10
Ignazio La Russa gli operai italiani e il comparto bellico


Miliardi di euro. Anche in periodo di vacche magre lo Stato italiano investe una cifra considerevole nel settore degli armamenti. E gli studenti, cui il governo nazionale ha deciso di tagliare i fondi viste le poco brillanti performance della nostra economia, e l’orizzonte ancora fosco, chiedono proprio questo al Palazzo: perché investire 13-14 miliardi di euro l’anno in armi e tagliare i fondi alle scuole e all’università? Giovedì scorso, ad Annozero, il rappresentante dei Collettivi universitari Luca Cafagna lo ha chiesto polemicamente all’uditorio, ricevendone una risposta ringhiosa e piccata dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa. La tesi del responsabile delle nostre forze armate è stata, in sostanza, che se l’Italia non investisse nelle industrie belliche ci sarebbero molti più disoccupati. La tesi parrebbe contraddetta dall’ultimo appalto miliardario dei nuovi F-35, che, come racconta Daniele Martini nell’articolo qui sotto, sono prodotti dalla Lockheed Martin, impresa che certo non risiede sul territorio nazionale.

il Fatto 22.12.10
Il Paese reale
L’assalto ai palazzi del potere “fantasma”
di Evelina Santangelo


C’è una cosa che mi ha lasciato sconcertata, alcuni mese fa, trovandomi a passare qualche giorno nella città di Lima: i carri armati d’assalto della Policía Nacional a difesa del Palazzo del governo e, più in generale, la quantità di forze dell’ordine, unità cinofile, poliziotti in assetto antisommossa, che presidiavano la zona, quasi che il corpo estraneo fosse proprio quel Palazzo difeso fino all’inverosimile contro l’assedio della città e della maggioranza di un popolo che quel Palazzo dovrebbe rappresentare ma che, stando alle cronache passate e presenti, non fa che vessare tra abusi di potere, malaffare e corruzione.
Con questo non voglio in alcun modo istituire paragoni infondati tra universi incommensurabilmente distanti sotto ogni profilo (sociale, culturale, economico e politico).
È su quella impressione di assedio che vorrei piuttosto soffermarmi proprio perché, finora, ho vissuto in un paese in cui nemmeno nei momenti più bui della nostra Repubblica si era stati costretti a chiudere il portone di Palazzo Madama, il portone del “tempio della Costituzione” (ha detto Emilio Fede, prima di dire il resto, infischiandosene di ogni principio costituzionale), contro l’assalto dei manifestanti come è accaduto durante la manifestazione studentesca del 24 novembre, né si era mai stati costretti o si era mai scelto preventivamente di dispiegare un così imponente schieramento di forze dell’ordine a presidio dei luoghi simbolo della vita pubblica in un paese democratico, come è successo il 14 dicembre scorso, durante quella manifestazione (non solo studentesca) che ha assunto i tratti della sommossa. E li ha assunti, non soltanto per gli atti di violenza indiscriminata da parte di quelli che non mi sentirei di definire che teppisti, gente che ben   poco ha a che fare con lo spirito e il senso stesso di ogni protesta (che è sempre “un discorso” che si contrappone anche duramente a un altro “discorso”), ma per il livello di tensione e di esasperazione che ha raggiunto, in modo del tutto evidente, la contrapposizione frontale tra la Piazza e il Palazzo.
Contrapposizione in cui, chiunque abbia un po’ di   senso della realtà, non può non cogliere il segno malato, pericolosissimo, di un conflitto sociale crescente e, nello stesso tempo, del solco sempre più profondo apertosi tra le urgenze del paese reale – confermate dai dati dell’Ocse sulla disoccupazione giovanile e la pressione fiscale, e dalle preoccupazioni di Confindustria sulla paralisi economica – e le priorità di un governo che, mentre liquida quelle urgenze con sufficienza e, a volte, addirittura con lo sprezzo proprio di un potere che rappresenta solo se stesso, calpesta in ogni modo (nelle forme e nella sostanza) le istituzioni i cui luoghi, oggi, le forze dell’ordine sono chiamate a difendere. Giusto per restare nel terreno della protesta studentesca contro un ddl imposto dall’alto sotto tutela di un ministro dell’economia che liquiderebbe Dante in cambio di un panino... una “buona riforma” dell’istruzione non è prima di tutto una riforma il più possibile discussa e concordata con chi ha il dovere di istruire e con chi ha il diritto a essere istruito? E la militarizzazione delle città contro i manifestanti, cioè contro i destinatari della riforma, non è il segno più macroscopico di questo «difetto» di democrazia e di visione?
In questo senso, le parole del prefetto Antonio Manganelli sono davvero pietre, quando in un’intervista all’Unità elenca i “tanti focolai di tensione” e sottolinea come tutto questo, insieme all’“instabilità del quadro politico”, costringa le forze dell'ordine “a un’attività di supplenza sempre più complessa e delicata”.
Ora, evoca davvero brutti fantasmi quell’immagine dei Palazzi difesi dall’assedio della Piazza, in un paese in cui chi governa non contempla il confronto con il paese reale e concepisce il dissenso che esprime un paese reale, soprattutto in tempi di crisi profonda, come una questione di ordine pubblico; mentre chi è governato, non solo non trova risposte alla   propria crescente condizione di precarietà (come fosse una malattia endemica senza via d’uscita tranne la rabbia, la rassegnazione o il privilegio riservati a pochi), ma, cosa ancora più grave, non si sente in alcun modo rappresentato e percepisce-patisce la politica come abuso, malaffare, corruzione, senza discrimine alcuno.
Ed evoca fantasmi ancora più inquietanti quell’immagine dei Palazzi difesi dall’assedio in un paese in cui troppo spesso non si capisce più da chi, e da che genere di assalti (interni, esterni), vanno difese le istituzioni, soprattutto se da una parte non resta che l’abuso, o un potere politico percepito dai più come tale, e dall’altra la rabbia di chi si sente espropriato persino del diritto di scegliere i propri rappresentanti.
Non è un problema di ordine pubblico, questo, è un problema di responsabilità e di scelte politiche che chiamano in causa tutta la classe dirigente di questo paese.

il Fatto 22.12.10
La guerra di Piero
di Massimo Fini


Clamoroso al Cibali. Il molto commendevole professore Ostellino ha scoperto la Legge, con la L maiuscola. “Che va rispettata”. Il professore si riferisce ai disordini di Roma durante le dimostrazioni studentesche contro la legge Gelmini e, più in generale, per manifestare il profondissimo disagio di una generazione che sente di non avere un futuro. Il professore argomenta che ogni forma di indulgenza verso quei disordini è “irresponsabile” o, peggio, di “giustificazionismo morale e ideologico di quelle criminali violenze mal si conciliano con l'idea di democrazia liberale” e sono una versione aggiornata dei “compagni che sbagliano” e spalancano le porte al terrorismo.
Che la legge vada rispettata è fuori discussione. Solo che quando a violarla sono “lorsignori”, poniamo Berlusconi e altri esponenti del centrodestra, la legge diventa improvvisamente minuscola e la Magistratura che è chiamata ad applicarla “fa un uso politico della giustizia”.
NON SO POI quanto “si conciliano con l'idea di democrazia liberale” altri fatti accaduti in questo Paese negli ultimi vent'anni. In nessuna democrazia liberale sarebbe stato permesso a un imprenditore di possedere, per tre lustri e passa, l'intero comparto televisivo privato nazionale. Perché l'oligopolio sta all'opposto di un'idea liberale e liberista della democrazia e contro l'oligopolio alcuni "padri nobili" di questo sistema, da Adam Smith a David Ricardo, hanno speso parole di fuoco perché ne abbatte il cardine principe: la libera concorrenza. In nessuna democrazia liberale si sarebbe permesso a un uomo politico, per giunta diventato presidente del Consiglio proprio grazie a questa illiberistica supremazia, di continuare a essere proprietario di tre network, quando negli Stati Uniti, sempre presi ad esempio dai professori Ostellini, Panebianchi e della Loggia, un uomo politico non può possedere nemmeno un giornale di quartiere. In nessuna democrazia liberale sarebbe stato permesso a un premier di varare leggi solo formalmente valide "erga omnes" ma sostanzialmente costruite a sua misura o dei suoi amici (le note leggi "ad personam" e "ad personas") proprio per sottrarlo alla legge. In nessuna democrazia liberale potrebbe rimanere premier un soggetto che un Tribunale della Repubblica ha riconosciuto, sia pur in primo grado, essere un corruttore di testimoni in giudizio per salvarsi in altri processi. E fermiamoci qui. Il professor Ostellino non solo ha sempre dimostrato una particolare “indulgenza” per queste evidenti violazioni della legge che “mal si conciliano con l'idea di democrazia liberale”, ma le ha sempre giustificate e non ha mai speso una parola contro queste illiberalità.
Si potrebbe dire che Piero Ostellino è “un liberale che sbaglia”. Ma sarebbe concedergli troppo. È semplicemente un uomo in malafede. Neanche le manifestazioni pacifiche gli vanno a sangue, se disturbano il manovratore. Poiché difendendo interessi particolari e corporativi “si precipita in un surreale pluralismo, si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della volontà popolare, nel totalitarismo di una supposta ‘volontà generale’” (e qui lo pseudocolto Ostellino polemizza con Rousseau, il che non stupisce perché Rousseau è il più acuto e singolare degli Illuministi che previde con qualche secolo di anticipo i devastanti effetti della "società dello spettacolo" – Discorso sulle scienze e sulle arti). Aveva scritto Rousseau che i cittadini sono liberi solo al momento del voto e diventano schiavi subito dopo. Per la verità Rousseau si illudeva. Noi non siamo liberi nemmeno al momento del voto, pesantemente condizionato dai media, in mano ai soliti noti, che non per nulla vengono spudoratamente chiamati “gli strumenti del consenso” e, in Italia, non possiamo nemmeno scegliere, o perlomeno tentare di scegliere, i nostri rappresentanti, predeterminati da ristrettissime oligarchie di partito. Vorrei far notare al professor Ostellino, se ne valesse la pena, che nel pensiero di Stuart Mill e di Locke, altri “padri nobili” della liberaldemocrazia, i partiti non sono contemplati e che fino al 1920 nessuna Costituzione liberale nemmeno li nomina. Il perché è evidente: i partiti, le lobbies, sono la negazione in radice di quel principio dell'uguaglianza dei cittadini almeno sulla linea di partenza che è il cardine della liberaldemocrazia. Ma è pressoché inutile discutere di queste cose con un signore che ha storto il suo nobile naso anche davanti ai pacificissimi "girotondi" che non difendevano alcun interesse corporativo, ma quello collettivo dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Nella testa di Ostellino, ammesso che ci sia qualcosa, c'è una sorta di parlamentarismo alla Cromwell in cui i cittadini una volta eletti, si fa per dire, i propri rappresentanti devono starsene zitti e buoni fino alla tornata successiva quando riprenderanno a legittimare gli abusi, i soprusi, le violenze dei loro padroni, come l'unzione del Signore legittimava i re medievali. Perché, è un dato di fatto, esiste anche una violenza del sistema democratico.
CHE È MENO plateale ed evidente, più subdola di quella dei regimi totalitari, ma non meno grave e incisiva perché esclude, emargina, umilia l'uomo libero che conserva quel tanto di rispetto di se stesso per non accettare umilianti infeudamenti in questa o quella lobby, partitica o di altro tipo, e che sarebbe il cittadino ideale di una liberaldemocrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata. Infine, in un discorso di prospettiva, c'è da ricordare che le democrazie sono nate da bagni di sangue e non si capisce per quale mai ragione, per quale privilegio divino, non gli si debba, un giorno, restituire la pariglia dal momento che non rispettano nessuno dei presupposti, nessuno dei pilastri su cui affermano di basarsi. Ma, tornando al presente, è del tutto evidente che la liberaldemocrazia proposta dagli Ostellino, dai Panebianco, dai della Loggia, è la vecchia, cara, schifosa giustizia di classe. Per i delinquenti da strada c'è la Legge, per coloro che detengono il potere solo la legge.

il Fatto 22.12.10
Servo di scena
di Oliviero Beha


Facciamo come Pollicino, un sassolino per volta. Cominciamo dalla manifestazione di oggi degli studenti. Ce l’hanno, giustamente, con la riforma della Gelmini. Ce l’hanno, almeno altrettanto giustamente, con una scuola e un’Università che stanno andando indietro da un pezzo, sotto qualunque governo. La Gelmini con la sua impresentabilità professionale (l’esame di Stato avvocatesco a Reggio Calabria) e politica (che ha fatto di dicibile per diventare ministro?) sta adesso perfezionando il precipizio. Ce l’hanno, ancora più giustamente e sacrosantamente, con la classe dirigente di un Paese e un Paese nel suo complesso che ha loro rubato il futuro, e non da oggi. Ce l’hanno, in un Edipo da strada o da Piazza, con i loro padri che si sono divorati tutto il divorabile spartendo qualcosa solo da ottuagenari e con la cooptazione dei “figli di”. Insomma, un crimine culturale ancora prima che politico ed economico. Culturale? Suona a destra uno squillo di tromba, a sinistra (cioè sempre a destra...) risponde una tromba. La “sarta” Gelmini taglia sull’istruzione e la formazione, il “sarto” Bondi taglia e cuce sui fondi alla cultura. Un altro sassolone, questo: tagli indiscriminati, con i quali di certo non si fa fronte a un’odissea di clientele e clientelismi che da generazioni ha fottuto anche le arti e che andrebbe certamente battuta in breccia e invece così non solo non si arresta ma fa affondare quel poco di cinema e di teatro (per rimanere alla “scena del crimine”) ancora in vita. Un’orrenda catena di nepotismi, servitù, raccomandazioni immeritocratiche che nella più piena corruzione materiale e immateriale rovina ormai del tutto o quasi la creatività di cinema e teatro, sottomettendoli alla tv, cioè alla politica in osmosi con essa. Meno soldi vuol dire purtroppo solo meno soldi ai “nemici” e più soldi agli “amici”, indipendentemente dall’arte smorta in un angolo che è stata resa “non più né necessaria né sufficiente”. Del resto Tremonti è stato lapidario: la cultura non si mangia. A studenti e artisti non avrebbe potuto dire di peggio. Così ad esempio il teatro, la forma di spettacolo che più ci potrebbe garantire interiormente perché più antica, più semplice, più aderente alla realtà di tutti i giorni, sta rapidamente trasmutando in “natura morta”. Certo, c’è ancora, ma a patto ormai che tutti artisti, addetti ai lavori, pubblico di abbonati ecc., per convenzione facciano finta che il teatro sia ancora vivo in Italia. Una recita collettiva, davvero una meraviglia triste di “teatro sul teatro”. Eppure, eppure, nella notte di un sabato recente, in un teatro della più periferica periferia romana, a Tor Bella Monaca, naturalmente l’unico teatro del genere quando invece teatri ovunque civilizzerebbero ogni periferia, ho assistito a qualcosa di straordinario. In scena un signore, molto avanti negli anni e molto indietro nella giovanile stamina del più puro teatrante, ci stava dicendo che cosa era, è e potrebbe essere in futuro Shakespeare. Alternando il Bardo alla quotidianità, l’Old Theatre londinese a spicchi di borgata romanesca, trasformava la natura morta cui si vuole ridurre il teatro oggi, in una natura viva e pulsante, faceva scendere in platea un’idea di teatro che è un’idea di vita, di giovinezza e vecchiaia, di eros e potere, di età e consapevolezza e nostalgia e rimpianti. E poesia. Il teatro c’è, malgrado tutti i Bondi (ma anche le Gelmini) del mondo intesi come categoria e non come pupazzi di scena, basta scrostare un poco, volerlo trovare, volerlo consegnare agli altri. Volersi mettere in gioco, voler stupire e stupirsi, non fare calcoli, voler “insegnare ciò che non si sa” che è la grande lezione dei Maestri. Forse questo sasso si lega al primo sasso, al disagio giovanile da cui sono partito e che oggi farà parlare i media, un disagio prima culturale e poi tutto il resto. Il senso della vita, il senso del teatro, il senso del teatro della vita mentre siamo sulla ”scena del crimine”. Quel signore di Tor Bella Monaca ha 87 anni e si chiama Albertazzi. Giorgio, Albertazzi.

il Fatto 22.12.10
Con la scusa dell’emergenza
di Piergiorgio Morosini Segretario generale di Magistratura democratica


I fatti del 14 dicembre, le scarcerazioni del Tribunale di Roma, l’intervento ispettivo del ministro della Giustizia. Sono vicende che sollecitano più di una riflessione. Non toccano solo il problematico rapporto tra politica e giudici. O il modo di intendere la giustizia pena-le in alcuni circuiti istituzionali, a detta della Camera penale di Roma da “Stato di polizia”. Sullo sfondo si agita qualcosa di più preoccupante. Qualcosa che lega idealmente i fatti di Roma a pagine recenti della manifestazione collettiva del dissenso. E che affida alle sole direttive in materia di ordine pubblico la vistosa “crisi sociale” del nostro paese, con una escalation nell’uso della forza nelle piazze.
IL PENSIERO corre ai fatti di Terzigno, Bologna, Palermo e al teatro San Carlo a Napoli. Proteste di gente comune o studenti che si trasformano in scontri con la polizia. Proteste dettate dal disagio nel mondo del lavoro, nella scuola, nelle comunità esposte ai rischi delle discariche di rifiuti. Proteste di disoccupati veri e parassiti dell’emergenza, di studenti motivati e gruppuscoli di delinquenti. Proteste a cui si è risposto sempre e solo con la repressione. Un metodo che, di solito, colpisce persone non attrezzate allo scontro e non intercetta i veri autori delle violenze. E se, come propone il senatore Gasparri, la repressione diventa l’unica parola d’ordine delle nostre istituzioni davanti alle tensioni sociali, allora sono in pericolo le libertà fondamentali. Anche nei momenti di crisi sociale , per una democrazia, la libertà di riunirsi e di manifestare resta irrinunciabile. Le costituzioni europee la riconoscono immancabilmente dall’epoca della rivoluzione francese, fatte salve le parentesi dei regimi autoritari o totalitari. Semmai bisogna fare in modo che quella libertà non degeneri in forme di violenza. Le aggressioni ai poliziotti, l’incendio dei cassonetti o la frantumazione delle vetrine sono solo reati e vanno puniti. Ma le proteste non possono valutarsi in blocco. Le risposte di ordine pubblico, così come quelle giudiziarie, devono sapere distinguere. E in questo poliziotti e i carabinieri vanno aiutati anche dalla parte sana dei manifestanti organizzati. Lo insegnano i fatti di Genova del 2001, serve capacità di interpretare analiticamente i fatti, prima, durante e dopo le manifestazioni. E’ l’unico modo per contrastare chi delinque e ascoltare chi protesta legittimamente; separare i professionisti della guerriglia da chi non ha più nulla se non la propria libertà di manifestare, e agisce pacificamente.
Nel giudicare i fatti di Roma, la magistratura ha differenziato le posizioni dei manifestanti. Da qui nascono le invettive degli esponenti del governo. Senza alcun riguardo per l’indipendenza della funzione giudiziaria, reclamano decisioni esemplari e sommarie in funzione preventiva. È un segnale negativo. Valutare le modalità e i motivi della condotta dei singoli, la loro incensuratezza, è un dovere del magistrato. L’essenza della discrezionalità. Soprattutto quando si decide per una misura eccezionale come il carcere prima del giudizio. Ma nella reazione di certi politici non c’è solo la demagogia o la voglia di interferire. Il disporre l’ispezione ministeriale nei confronti del tribunale di Roma esprime una china costituzionale molto preoccupante. Mostra l’indifferenza per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, e per la presunzione di innocenza. Al tempo stesso alimenta affezione per misure energiche, refrattarie a qualsiasi tipo di controllo.
Dovere di uno Stato democratico è tutelare sempre e in ogni contesto i diritti delle persone arrestate. Reazioni sproporzionate e trattamenti umilianti non sono mai giustificabili. Mettono in crisi un caposaldo dello stato di diritto, ossia il principio di legalità. E, nell’offendere la dignità delle persone, contribuiscono ad alimentare una deriva pericolosissima che tutti dobbiamo impedire.

il Fatto 22.12.10
Frati, pater familias: sistema moglie e figli (all’università)
I quattro componenti della famiglia insegnano tutti alla sapienza di roma. Lui è il Rettore
di Paola Zanca


Luigi, Luciana, Paola e Giacomo, quando la sera si siedono a tavola, sanno di che parlare. Sono papà, mamma, fratello e sorella e lavorano tutti all’Università La Sapienza di Roma. Di cognome fanno Frati. Luigi fa il rettore, Luciana insegna Storia della medicina, Paola è docente a Medicina legale, Giacomo, tra pochi giorni, siederà su una delle cattedre della classe ‘Tecniche mediche assistenziali’. Il concorso lo ha appena vinto, giusto in tempo, prima che il ddl Gelmini venga approvato e blocchi l’assunzione dei parenti fino al quarto grado nella stessa facoltà. Il governo (ieri a Matrix lo ha fatto lo stesso Berlusconi) usa questo argomento per convincere i cittadini che è arrivata la fine delle baronie, dimenticando però che il divieto di piazzare parenti vale solo all’interno della stessa facoltà, e lascia indisturbato il ‘tengo famiglia’ in altri rami degli atenei.
D’altronde, anche nel caso Frati non c’è niente di illegale. Si tratta , spiegano alcuni docenti de La Sapienza, di presentare bene i curriculum e di costruirsi un profilo che ricada a pennello sul posto da coprire. Anche per Giacomo, che nessuno ricorda come particolarmente brillante, potrebbe essere andata così. Il suo curriculum ha fatto storcere il naso a più di qualcuno: tredici pagine fitte di attività di ricerca, didattica, pubblicazioni tutte concentrate in pochi anni, visto che “il rampollo” ha finito di studiare nel 2004.
Carriera lampo, in sei anni ha già una cattedra tutta per sé. Il 10 dicembre, Giacomo ha preso la sua carta intestata e ha scritto al professore che dovrà confermare le chiamate dei vincitori di concorso. Spiega di essere “risultato idoneo per un posto di professore di I fascia” ma si scusa perché “il tempo ristretto” non gli consente di consegnare personalmente il curriculum come “sarebbe buona prassi”. Giacomo, evidentemente, sa di non rischiare. A vegliare su di lui, c'è papà.
LA FAMIGLIA Frati, per ora, è rimasta nell’alveo della Medicina, dove il rettore Luigi è stato preside – per 20 anni – fino all’ottobre scorso. A Neurochirurgia ha piazzato il nipote Alessandro, mentre il suo socio nella Millennium Biotech Marco Artini – come documentò l'Espresso tre anni fa – ha vinto un concorso da ricercatore sempre nella facoltà guidata da Frati. Nel 2004 firmò l'autorizzazione (a se stesso) per occupare a fini privati l’aula grande di Patologia generale. Doveva celebrare il matrimonio di sua figlia Paola, come raccontarono Le Iene, e pensò bene di farlo all'Università, praticamente casa sua. Il “feudo” serve tanto per la politica “interna” che per quella “estera”. Da anni invita il Papa a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico: non c’è ancora riuscito, le proteste lo hanno sempre fermato, ma lui prosegue imperterrito ad aspettareSuaSantitàaLaSapienza,perché negargli l’accesso è contro “la libertà di espressione”. Sempre in nome del “libero confronto delle idee” fu protagonista del caso diplomatico che provocò scontri tra gli studenti, contrari ad un convegno sulle foibe organizzato da Forza Nuova. Alla fine, fu lo stesso Frati a decidere di annullare l’appuntamento. In compenso, è riuscito a portare in ateneo il presidente libico Muammar Gheddafi. Anche qui, professori e studenti, segnalarono che la visita poteva essere inopportuna. Frati fece gli onori di casa, e a chi gli chiedeva un commento sulle ‘amazzoni’, ironia della sorte, fu costretto a rispondere: “Non posso parlare... c’è mia moglie in sala”.
ANCHE la politica nostrana non lo lascia indifferente. La sera del 3 dicembre è a Villa Miani per la prima cena di finanziamento di Futuro e Libertà. Pochi giorni fa il “popolare” del Pd, senatore Lucio D’Ubaldo ha fatto il suo nome per la futura sfida ad Alemanno comesindacodiRoma.Lacittàha bisogno di “cattolici”, secondo D'Ubaldo, niente di meglio che uno come Frati, colonna romana di Comunione e liberazione. Ma i rapporti con la politica non sono una novità. Nel 2005 durante un incontro elettorale a Latina, Frati si lasciò scappare un appello a “votare comunque Storace, scegliendo nel suo schieramento, dove ci sono diverse possibilità”. L’allora rettore, Renato Guarini, fu costretto a chiarire che quelle erano dichiarazioni “a titolo personale” e che La Sapienza “deve e vuole essere equidistante dalla libera scelta dei cittadini”. Non contento, Frati lo ha rifatto nel 2008, anche se in maniera più velata: “Prendo atto – disse – della sensibilità di Alemanno per aver trovato il tempo di passare qui nell’ultimo giorno della campagna elettorale. Mi dispiace che Rutelli non abbia trovato un minuto libero”. Il suo mandato scade nel 2012, un anno prima di quello di Alemanno. Ma se, travolto da Parentopoli, il sindaco dovesse andarsene prima, i romani possono stare tranquilli: in tema di assunzioni, Frati garantisce continuità.

Corriere della Sera 22.12.10
I rettori e l’ombra della parentopoli negli atenei romani
Frati ha due figli «ordinari» in università
di  Fabrizio Peronaci


ROMA— Un figlio del rettore. Una nuora di un altro. Che si aggiungono a una figlia, a una moglie. E a un altro figlio. Nella parentopoli universitaria che nessuno pretende di scoprire oggi, perché fu un secolo fa che la Voce di Giuseppe Prezzolini parlò della «crisi morale» degli atenei italiani finiti alla stanga dei «baroni» , oggi una novità c’è: i consigli di facoltà di gran carriera— alla vigilia del varo della riforma che vieta l’assunzione di docenti imparentati fino al 4 ° grado con professori dello stesso dipartimento— si stanno facendo sotto. Approvano a tutt’andare delibere per la «chiamata» di prof ordinari o associati. Accelerano le procedure. Danno seguito ai dispositivi di Senati accademici e Cda per la «presa di servizio» . Un fenomeno commentato ieri dallo stesso ministro: «Le frettolose assunzioni di parenti — ha detto Mariastella Gelmini — dimostrano che i baroni temono la mia legge» . E Roma — in questa corsa al fotofinish— si conferma in testa: i rettori in odore di parentopoli sono due su tre. Nel mirino è tornato lui, il «magnifico» della «Sapienza» Luigi Frati, il cui sistema di potere — equilibratissima triangolazione di cattedre, stipendi e fondi in bilancio — ha messo a punto per un quindicennio come preside di Medicina, finendo a più riprese sotto inchiesta, prima di indossare, due anni fa, l’ermellino. L’ultimo ingresso riguarda il secondogenito: ieri il consiglio di facoltà di Medicina ha deliberato la chiamata di Giacomo Frati a professore ordinario nel dipartimento di Scienze e biotecnologie. Giacomo raggiunge così l’avanzamento di carriera di sua sorella Paola, che è ordinaria di Scienze anatomiche, nota anche per la sua festa di nozze tenuta nell’aula magna di Patologia. E di Luciana Rita Angeletti, docente di Storia della medicina sempre alla «Sapienza» , alias signora Frati. Quattro in un uno, insomma. «Il rettore? No comment» chiarivano ieri i suoi collaboratori. Non più di 20 giorni fa al Corriere, tuttavia, a precisa domanda su parentopoli, Frati rispondeva: «Visto quello che è accaduto in molte università, sono stati stabiliti dei divieti... Ma il problema è se viene assunto un ignorante o uno bravo» . Il sottotesto era chiaro: non sono d’accordo ma mica lo posso dire. E infatti. Anche nell’Università di Tor Vergata, due giorni fa è stato deliberato un passaggio di livello che stava a cuore al rettore, Renato Lauro, pure lui ex preside di Medicina: il consiglio di facoltà ha chiamato come prof associato sua nuora, la ricercatrice Paola Rogliani. Ma lui si difende, eccome: «Distinguiamo il grano dalla pula! I nostri parenti mica possono diventare di serie B!» . Vero, ma sua nuora è finita proprio nell’università da lei diretta... «E allora? — replica il "magnifico"— Paola è stata ricercatrice per anni ed è bravissima, basta guardare il Citation index sulla valutazione delle qualità. Ha fatto un concorso da associato, l’ha vinto e per ora è solo idonea. Che colpa ha? Aver incontrato mio figlio? Cosa vuole, sa come sono i giovani, si innamorano...» . Rettore, anche suo figlio Davide insegna... «Stop, su questo mi mangio le mani! Davide è stato 5 anni in America, dove aveva dimostrato tutte le sue qualità. È ordinario di Biotecnologia nel raggruppamento Med50, mentre il mio è il Med09. Sono stato io a dirgli di tornare, per star vicino ai nipotini... Solo in Italia si giudica ex ante: in tutto il mondo anglosassone e civile, prima si valuta, si premia e poi, se occorre, si colpisce...» . Dunque la Gelmini su parentopoli è in errore? «Diciamo che non può dire diversamente, deve sostenere la sua legge» . Demagogia? «No, una forma mentis sbagliata...» .

il Fatto 22.12.10
Da Parma a Bari
Ateneo che vai, barone che trovi


La facoltà è la stessa Medicina. L’Università no, questo è il secondo ateneo romano, Tor Vergata. Eppure, qui di Frati ce n’è un altro: si chiama Renato Lauro, anche lui prima preside e poi rettore. Due giorni fa, come racconta ‘Il Messaggero’, anche lui aveva particolarmente fretta. La cattedra a Paola Rogliani andava assegnata prima dell’approvazione della Gelmini. Perché? È sua nuora, ovvero moglie di suo figlio Davide, ovviamente anche lui professore ordinario di Endocrinologia nella stessa facoltà. Dal rettore, come ovvio, levata di scudi: Paola e Davide sono regolari vincitori di concorso, non c'è nulla di male. Ma proprio ieri, gli studenti di Tor Vergata hanno deciso di porgli qualche altra domanda: “Chi entrerà, ad esempio, nel Cda di Tor Vergata, quando l’ingresso dei privati sarà obbligatorio per legge? Entrerà qualche parente, qualche amico degli amici? Forse entrerà qualche industriale della cricca di Balducci con cui il Rettore è in stretto contatto, come dimostrato   dalle indagini in merito agli appalti de L’Aquila e del G8 della Maddalena? Oppure qualche palazzinaro che ha già messo le mani sul Masterplan di Alemanno?”. Si riferiscono ad alcune intercettazioni, dove Balducci&C il rettore Lauro lo chiamavano “lo zio”.
Ma in questi giorni, dove i regali fioccano non solo perché è Natale, gli studenti romani non sono gli unici a farsi delle domande. Anche a Bari, l’Assostampa si chiede come mai, il bando di concorso indetto   dall'Università per un contratto di consulenza abbia dei requisiti così stringenti. Si cerca un giornalista che abbia “almeno 25 anni di esperienza” e “per presentare domanda, agli aspiranti vengono concessi dieci giorni, che scadono proprio a Natale”. Difficile non pensare che sia uno di quei bandi costruiti ad uso e consumo di una persona già scelta. Un po’ la stessa cosa che hanno pensato a Sassari: di “ricerca clinica nell'ambito delle patologie oculari del segmento anteriore, dei disordini visivi in corso di malattie sistemiche e della neuroftalmogia, con particolare riguardo ai disordini mitocondriali e ai traumi del nervo ottico”, se ne occupano davvero in pochi. Ma tra questi c'è Arturo Carta, ricercatore a Parma e figlio di Francesco Carta, professore all’Università di Sassari. Carta padre non era tra i commissari – è stato sostituito da un collega, non appena saputo che suo figlio era candidato – ma da Sassari fanno sapere che i ricorsi fioccheranno. Come racconta ‘La Nuova Sardegna’, il caso   Carta non è l’unico ad agitare l’ateneo dell’isola: presto si conoscerà l'esito di altri concorsi. “Uno, per chirurgia generale, vede tra i con-correnti due ricercatori, Carlo e Claudio Feo, figli di Francesco Feo, da qualche tempo in pensione, per un trentennio docente di Patologia generale nella stessa facoltà. Alle prove in Malattie infettive partecipa Ivana Rita Maida, figlia dell’ex rettore. Un secondo figlio, Carmelo, anche lui ricercatore a Sassari, ha rinunciato al concorso in Odontostomatologia”.
È notizia di ieri, infine, la condanna del professor Gian Camillo Manzoni, direttore del Centro cefalee dell’ospedale di Parma: un anno e 5 mesi di detenzione per abuso d'ufficio, anche se la pena è stata sospesa. Nel 2005, ricostruisce ‘La Repubblica Parma’, favorì Paola Torelli nel concorso per un posto di ricercatore nel reparto di Neurologia. Questa volta, nessun legame ufficiale. Semplicemente, con la dottoressa Paola, il professor Gian Camillo aveva fatto due bambini.
(pa.za.)

Corriere della Sera 22.12.10
Non trova lavoro un giovane su quattro
Il tasso di disoccupazione all’ 8,7%
di  Stefania Tamburello


ROMA — Colpisce sempre di più i giovani e le donne, soprattutto al Sud, e riprende a salire: il tasso di disoccupazione in ottobre è balzato dall’ 8,4%all’ 8,7%, il picco più alto dall’inizio — nel gennaio 2004 — delle serie storiche dell’Istat. Ad avere la peggio sono i ragazzi e le donne meridionali: quasi 1 su 3 non lavora. Ed è una costante delle ultime rilevazioni che pure segnalano per il periodo luglio settembre una riduzione di chi non trova un posto, la prima dopo due anni di crescita continua. Ma non basta considerare la brusca inversione dei dati di ottobre. Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha sottolineato come la rilevazione trimestrale, che non comprende comunque ottobre, rimanga sotto la media europea ma nello stesso tempo si è affrettato a comunicare i progressi compiuti dall’Unità operativa per l’occupazione giovanile che si è riunita ieri per varare nuove misure, e verificare quelle in corso, a favore dei giovani utilizzando lo stanziamento di 200 milioni di euro. E che vanno dall’utilizzo del contratto di lavoro nell’artigianato allo sviluppo dei servizi offerti dal motore di ricerca istituzionale "clic lavoro"(www. "clic lavoro" gov. it) Per il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, i dati restano in ogni caso "allarmanti". Lasciando da parte quelli più gravi relativi ad ottobre, la rilevazione del terzo trimestre del 2010 registra un calo all’ 8,2%del tasso di disoccupazione. Tuttavia, spiega l'Istat, il calo è «lieve» , d'altra parte la schiera dei disoccupati anche se assottigliata rimane di oltre due milioni di persone. E soprattutto rimane alto il numero dei senza lavoro tra i giovani, a quota 24,7%nel trimestre (in aumento dell'1,2%a confronto con lo stesso periodo dello scorso anno) e vicini a sfiorare il 28%in ottobre. E poi la percentuale cresce ancora se si guarda al Mezzogiorno, dove il 36%delle giovani donne è alla ricerca di un posto. Sul lato occupazione l'Istat, inoltre, certifica una diminuzione sia a livello congiunturale che tendenziale, a confronto con il terzo trimestre del 2009 l'emorragia è di 176 mila posti. La scure si è abbattuta principalmente sui lavoratori a tempo indeterminato (-258 mila su base annua) e in particolare su quelli impiegati a tempo pieno (-349 mila). Ma non basta: circa la metà dei due milioni di persone in cerca di un lavoro, lo fa da più di 12 mesi. E poi ancora il tasso di inattività, in cui rientrano anche gli scoraggiati, sale al 38,6%, riportandosi ai livelli del 2000. Nel Mezzogiorno la quota di chi non ha un posto e non lo cerca s'impenna al 50%, che diventa 64,5%per la componente femminile. Così Susanna Camusso insiste. Se nel valutare il tasso di disoccupazione «si tenesse conto anche degli scoraggiati vale a dire coloro che hanno rinunciato a cercare un lavoro, potremmo sicuramente affermare che nel Mezzogiorno del nostro Paese quasi la metà dei giovani e delle donne non trova un lavoro o ha rinunciato a cercarlo» . Secondo il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini, «è necessario fare di più per le politiche di ricollocamento attraverso il potenziamento nazionale dei servizi pubblici e privati per l'impiego» .

Repubblica 22.12.10
Quei ragazzi inascoltati
di Nadia Urbinati


Il Senato affidato alla matriarca leghista Rosi Mauro «è la pucchiacchia in mano a creatura». È la sceneggiata, in mezza giornata già un cult di youtube, sul contrasto tra la più sofisticata macchina procedurale e le maniere sbrigative di una volitiva massaia rurale che ha cercato di governare il Senato con la stessa sapienza con cui si governano e si cucinano i conigli. Ma è anche uno dei momenti probabilmente più maschilisti del nostro Parlamento.
Questo governo sa come manovrare intrighi e gestire affari opachi, ma non sa fare la cosa più normale e importante: tenere una relazione di ascolto riflessivo con i cittadini che fuori dalle istituzioni vogliono far sentire la loro voce a chi è stato eletto per prendere decisioni nel nome di tutti. La violenza che si è scatenata nei cortei degli studenti è stata manipolata ed usata per criminalizzare tutto il movimento, giustificare il pugno duro della coercizione e imporre il volere di chi comanda. La risposta al dissenso che questa maggioranza dei 3 voti di limpido consenso dà, è quanto di più improvvido e autoritario; è la dimostrazione del fatto che gli studenti non sono considerati degni interlocutori da questa maggioranza, la quale probabilmente mette in conto che quelli degli studenti non sono voti suoi. Punire gli studenti è come punire l´opposizione tutta, quella parte del Paese che questo governo non rappresenta, che vuole anzi umiliare e reprimere; quella parte che non applaude e che è rubricata come "comunista" e va dalle toghe non domate, ai giornali non padronali, agli operai non marchionisti. Gli studenti sono in buona compagnia. Le loro esigenze sono senza voce, trattate come una questione di "sicurezza".
Eppure le esigenze espresse dagli studenti non sono corporative, non chiedono prebende, l´azzeramento di un mutuo o promesse di posti ad personam. Chiedono cose politiche: che questo progetto di riforma venga fermato e rivisto nella sostanza perché è pessimo per gli studenti di questa generazione e di quelle successive. A queste obiezioni, la politica che siede a Palazzo Chigi e in Parlamento non ha risposte se non il dileggio e il pugno duro. Da settimane gli studenti dicono all´opinione pubblica una cosa molto semplice: manca in questa proposta di riforma una visione di futuro positiva e di crescita per i giovani, ovvero per il Paese. Un riforma che restringe e rende asfittica la ricerca, che monitora la didattica con metodi da contabilità aziendale, che non riesce a dare il senso di un´università aperta al ricambio generazionale per merito provato e documentato. L´immagine dell´università che il ministro Gelmini ci propone è indifferente al mondo della ricerca e soprattutto ai principi scritti nella Costituzione che parlano di eguali opportunità e di cultura come patrimonio nazionale da proteggere e alimentare.
Da anni, i vari governi che si sono insediati, di destra come di sinistra, hanno voluto lasciare alla storia una loro "riforma" dell´università. In molti casi, hanno sbriciolato l´università che c´era nelle risorse e avvilita nelle potenzialità, senza riuscire a renderla migliore. Il risultato di questo sperpero sistematico è il seguente: le scuole e i licei formano generazioni di fuoriusciuti; le tasse dei contribuenti italiani contribuiscono al futuro dei Paesi stranieri. Dal Belgio alla Spagna, dall´Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada o al Brasile: dovunque si trova la stessa realtà, quella di studenti italiani espatriati, non per cercare l´Eldorado o perché figli di papà in viaggio, ma perché bravi e senza futuro degno e onesto nel loro Paese. È questa la realtà, il fatto di riferimento che l´algida Gelmini dovrebbe considerare quando trincera la sua riforma con la rituale dichiarazione che si tratta di una "buona riforma". Non si fa una riforma che è "buona". Si fa una riforma che è ottima, la migliore possibile data la situazione reale alla quale deve rispondere. Una riforma "buona" in questa contingenza è cattivissima: per il sistema di reclutamento, per la subordinazione dei criteri del valore a quelli aziendali, per un´intollerabile decurtazione delle risorse. Zero Euro. È questo il senso della riforma Gelmini. L´anorresia dei cervelli.
Di fronte a questi problemi, che gli studenti comprendono benissimo, la risposta del governo è in linea con la sua identità politica: paternalismo («i genitori facciano stare a casa i figli», come se i ragazzi non fossero adulti e liberi di decidere) e autoritarismo. Infantilizzazione e dominio repressivo; anche a costo di rispolverare l´arresto preventivo, un istituto che con le carte dei diritti non ha alcuna relazione; mentre ce l´ha con il regime del Ventennio nero: quando Mussolini andava in visita in una città si mettevano preventivamente in carcere i sospetti sovversivi per rilasciarli quando il duce se n´era andato. Le soluzioni proposte dal governo non sono né impreviste né irrazionali perché l´autoritarismo è l´esito certo quando si interrompe la relazione tra cittadinanza e rappresentanza. Non la si chiami democrazia autoritaria però, perché la democrazia autoritaria è un non-senso. Ciò che può esistere e c´è, è un esecutivo autoritario che soffoca la democrazia.

l’Unità 22.12.10
Viva l’orgoglio democratico parliamo di noi, non di Casini
Smettiamola di inseguire i dirigenti degli altri partiti. Abbiamo già nominato come leader il capo Udc... Abbiamo idee, progetti, persone: impossessiamoci del dibattito, e gli altri poi cercheranno noi
di Debora Serracchiani


Il 14 dicembre l'obiettivo di far cadere il governo Berlusconi è fallito. Questa sconfitta rischia di avere delle conseguenze assai pesanti sul Partito democratico, gettando un’ombra scura sulle future possibilità di rivincita per il centrosinistra.
Non è necessario soffermarsi a lungo sulle ragioni di questo episodio, ma è sicuro che bisogna guardare con freddezza allo scenario che ci si presenta nell'immediato e nel medio termine.
Qualcuno ha sostenuto che una mozione di sfiducia si presenta quando si ha in mano un'alternativa pronta, altrimenti è flatus vocis. Almeno un accordo su un punto, almeno un nome da indicare al Paese. Diversamente è crisi al buio, e ho l'impressione che il Paese abbia percepito questa debolezza, tanto da evidenziare uno scarto tra il dibattito politico e le urgenze dei cittadini.
La stessa emergenza democratica, di cui si nutriva la mozione di sfiducia, pare non essere percepita nei termini ultimativi in cui la vive il nostro ceto politico. Là fuori, la gente sa che finché c'è Berlusconi c'è almeno una certezza, magari qualcosa che non piace, ma c'è. E sono moltissimi a temere il ripetersi in Italia di situazioni come quella greca e irlandese. La scelta tra un incerto qualcosa e un solido nulla è fin troppo facile.
Le ripercussioni di questa fallita sfiducia sono state l'ulteriore indebolimento della centralità del Pd e la riapertura dell'ennesimo dibattito politico imperniato pressoché esclusivamente sulle alleanze, che rischia di alimentare lo scarto tra la politica politicante e il Paese reale.
Ma perché siamo sempre meno centrali?
Al Pd non mancano certo parecchie proposte concrete, ma il problema è l'autorevolezza del partito che queste proposte dovrebbe portare avanti. Siamo scarsamente persuasivi se le nostre idee vengono messe continuamente in discussione. Il caso tipico è la legge elettorale, su cui il partito si è espresso ma su cui si continua ugualmente a dibattere. Ma potremmo allo stesso modo parlare del lavoro o di altro.
Cominciamo con lo smettere di farci condizionare, da fuori, da Vendola e Casini. Ma anche, dentro, dalla disputa tra quelli che dicono che bisogna allearsi solo con Vendola o solo con Casini, quasi a riprodurre nelle alleanze le inclinazioni dei dirigenti dei due partiti di provenienza.
La stessa questione della leadership e delle alleanze, allora, non potrà prescindere dalla recuperata centralità del Pd. Temo che finora, anche su questo punto, abbiamo abbassato troppo l'asticella, fino a farci sfuggire il nome di Casini come possibile leader. È difficile spiegare ai nostri militanti che il maggior partito del centrosinistra appalta la leadership al minor partito dell'opposizione di centrodestra.
Bisogna al più presto dare il senso che il Pd si sta occupando delle cose essenziali, che ha come priorità il Paese e non se stesso. Soprattutto bisogna che il Pd la smetta di rincorrere i dirigenti degli altri partiti e che cominci a parlare ai loro elettori. La discussione con gli altri si dovrebbe aprire solo dopo aver piantato i nostri paletti, sapendo bene peraltro che da loro giunge ben poco di concreto. Solo così riusciremo davvero a stare al centro del ring.
Le recenti fughe e i malesseri, anche e soprattutto quelli dei 'moderati' del Pd, sono un'altra conseguenza di questa perdita di centralità, di un' oscillazione tra destra e sinistra che contraddice l'ispirazione del riformismo democratico. Non pochi sono i dirigenti tra cui sta sfumando l'orgoglio dell'appartenenza e la fiducia nelle grandi sfide, sentimenti che pure resistono tra i militanti. Ma fino a quando? 'Non mollare' era la parola d'ordine di alcuni tra i nostri padri nobili: penso che valga la pena di ricordarsene se non vogliamo perdere la sfida di un Pd forte e autorevole.

il Riformista 22.12.10
Cherchez le Pier Il Pd insegue Casini
Bersani si prepara alla direzione del 23: rilancio delle proposte del partito e costruzione di un’alleanza larga. Letta: «L’importan è non ripetere l’errore del ’94». Da Veltroni niente rottura col segretario


«Casini. Seguite Casini». Tutto, nel Pd, ruota intorno all’alleanza con il Terzo Polo. Sono palpabili, tra i deputati, i timori che proprio il presunto alleato decisivo, quello a cui nello schema di D’Alema va conferita la premiership della coalizione togliendo di mezzo le primarie, possa sfilarsi da ogni vincolo futuro preferendo l’interlocuzione con il governo e, forse, in futuro, una leadership sì, ma quella del centrodestra. Anche se, ieri, sia lo stesso Casini che Rutelli hanno detto di guardare «con rispetto» al dibattito sulle alleanze in corso nel Pd. Come dire: se son rose fioriranno, ma il Pd faccia chiarezza. Bersani, in direzione, riproporrà lo schema lanciato con l’intervista a Repubblica: alleanza larga, dal centrosinistra al Terzo Polo (nessuno escluso), sospensione della questione primarie, proposte forti. Rosy Bindi, presidente del partito, puntualizza con il Riformista: «Il Pd è centrale, non se ne può fare a meno, devono capirlo tutti. Le distanze tra le forze in campo non sono incolmabili: sul fisco come sul lavoro o sull’immigrazione tra Pd, Fli e Udc le idee sono simili. Se poi prevalgono, invece, gli interessi di bottega, è un’altra questione, ma sia chiaro di che si parla». Anche Enrico Letta, che del Pd è vicesegretario, torna a spingere sull’alleanza con il Terzo Polo: «La strategia è comune con quella del Pd, la tattica è una partita a scacchi, ma è un’altra cosa, l’importante è non ripetere l’errore del’94». Letta e i suoi ma anche Dario Franceschini e Area Dem sono attestati su questa linea (apertura al Terzo Polo) in modo granitico e sono anche convinti che il Pd è unito e che la minoranza, Veltroni in testa, «giovedì non romperà con il segretario». Complice anche una data pre-natalizia, quella del 23 dicembre, che non agevola drammatiche rotture. E, in effetti, tra i veltroniani c’è la forte consapevolezza che «in un clima di emergenza nazionale, da Cln, come quello che ancora viviamo, c’è poco da fare: non possiamo sparare sul quartier generale». Se però, continuano, non si va a elezioni anticipate, la legislatura si prolunga, il governo si allarga a Casini e altri, allora «anche i giochi nel Pd si riaprono: possiamo tornare a chiedere con forza di cambiare linea». E, anche se nessuno lo dice apertamente, ridiscutere “anche” il segretario. In ogni caso, mentre Fioroni e i suoi popolari si sono attestati su una posizione paradossalmente più morbida, nei confronti di Bersani, soddisfatti dell’apertura a Casini e pronti a rilanciare l’apertura fino a un patto di sistema che taglierebbe, inevitabilmente, l’ala sinistra della coalizione, i veltroniani puri e duri come Tonini ma anche il terzo in lista dei MoDem, Paolo Gentiloni, nella riunione d’area dell’altra sera hanno provato a forzare i toni e lo spartito, in vista della Direzione. Stabilito che va rilanciata l’iniziativa programmatica del Pd (lo stesso Veltroni, in vista del Lingotto 2 previsto per il 22 gennaio a Torino, annuncia «cinque idee, fortemente innovative»), hanno chiesto «qual è il piano B, se Casini ci risponde picche». Per Gentiloni e Tonini «il Pd deve tornare centrale, facendosi promotore di nuove alleanze e anche di una nuova leadership», identificabile in quello che da più parti viene definito «il nuovo Prodi», a costo della solitudine. Veltroni è vicino alla linea dei suoi falchi e ieri in un’intervista all’Unità, ha chiesto a brutto muso a Bersani di riconoscere di aver cambiato linea: « si ritorna alla vocazione maggioritaria, va reso esplicita la correzione di rotta. Per ora vedo prevalere tattica sulla strategia e l’inseguimento di alleanze piuttosto che l’investimento sulle possibilità grandi di del Pd». Ma giovedì non romperà.

il Riformista 22.12.10
Come mai il Pd ha così tanta paura di Nichi Vendola?
di Ritanna Armeni


Chi ha paura di Nichi Vendola? La risposta è abbastanza semplice: è il gruppo dirigente del Partito democratico a temere soprattutto il governatore pugliese. Ha paura che vinca le elezioni primarie e teme che, se anche non dovesse raggiungere il primo posto, possa comunque avere un tale consenso da mettere in grave difficoltà la leadership di Pier Luigi Bersani e la credibilità di tutto il gruppo dirigente. Di qui la svolta, le decisioni di non fare le primarie e di tentare l’alleanza con il centro e di prendere le distanze del governatore pugliese e delle sue posizioni.
Di questo rigetto colpiscono diversi elementi. Intanto esso sembra esprimere qualcosa di profondo, di viscerale, di prepolitico. Assomiglia alla difesa di un animale ferito, che ha paura di morire e che, quindi, si difende senza razionalità, ripetendo gesti e colpi che sono già stati inferti senza alcun risultato. E che, addirittura, approfondiscono e rendono più gravi le sue ferite.
E, infatti, il secondo elemento che colpisce in questo irrazionale rifiuto è proprio la coazione a ripetere. Il rigetto del pericoloso Vendola avviene, e con la stessa irrazionalità, secondo un copione che è sempre lo stesso. Lo abbiamo visto sei anni fa quando ci sono state le prime elezioni primarie alle quali Nichi ha partecipato, poi lo abbiamo rivisto alle elezioni regionali del 2005 poi di nuovo alle primarie di un anno fa e quindi alle ultime elezioni per l’elezione del governatore. Esso, in sintesi, prevede le seguenti convinzioni e le conseguenti battute: Vendola non può vincere perché è un estremista e un radicale. Oppure: può vincere le primarie, ma non le “secondarie” quelle in cui si decide il governo della regione o del paese. Insomma può affermarsi fra i militanti perché è un leader che scalda il cuore, ma poi la politica è una cosa seria e si fa con i grandi partiti, o con i medi purché di centro. E infine: il suo successo è effimero e rientrerà rapidamente quando si formerà lo schieramento antiberlusconiano e, come si dice, l’intendenza seguirà, gli elettori si renderanno conto di che cosa è davvero in gioco e daranno di nuovo un voto utile. E questo non si può che dare al maggiore partito dell’opposizione che, cifra più cifra meno, rimane il Partito democratico.
È quasi un mantra quello dei vertici del Pd. Ripetuto non si sa bene se per convincere se stessi o gli elettori e i militanti. Comunque ripetuto, tenendo gli occhi chiusi e le orecchie tappate. Non ascoltando quindi proprio la voce di quella base che vorrebbero convincere e che invade i siti di proteste per il rifiuto delle primarie e per il tentativo di alleanza al centro e non facendo attenzione ai sondaggi che almeno per il momento mostrano uno spostamento di voti a favore del governatore pugliese.
Quando le paure sono così profonde, irrazionali e prepolitiche è doveroso chiedersi che cosa le motivi davvero, che cosa porti a comportamenti che appaiono innanzitutto autolesionisti. Paure di questa dimensione e di questa irrazionalità nascono quando si ritiene o si teme che vengano rotti i punti di forza della propria esistenza, della propria immagine o della propria identità. Che si metta in forse il “compromesso storico” con gli ex democristiani e con esso l’immagine che il Pd ha tentato di dare al paese senza peraltro riuscirsi -, quella di una forza di sinistra anche se moderatamente riformista. Questa immagine, questo tentativo non si sono basati su proposte forti, vincenti (ogni volta che si affrontano i temi operai per non parlare dei temi etici assistiamo a una vera e propria paralisi), ma sono fondati da una parte sull’anti-berlusconismo tanto sbandierato quanto di maniera e dall’altra sulla opposizione, sulla netta distinzione da una sinistra radicale ed estremista, portatrice di idee dannose e perdenti. Si tratta, a ben vedere, di una rendita di posizione, ma pur sempre di una rendita, da difendere a tutti i costi. E per farlo i nemici quelli veri e quelli presunti sono molto utili perché servono a rafforzare una identità sbiadita e anche a darsene una nel caso si fosse perduta. Insomma finché c’è Berlusconi e finché c’è l’estremismo di sinistra si può immaginare e cercare di far credere di essere una forza riformista responsabile anche se non si è in grado di fare alcuna proposta. Ma e arriviamo al punto Nichi Vendola non è un estremista radicale, non corrisponde per nulla allo stereotipo che il Pd vorrebbe costruire. Governa da sei anni la Puglia, sa costruire alleanze, fa proposte ragionevoli, sposta l’elettorato del Pd dalla sua parte non sul sogno del “sol dell’avvenire” o su parole d’ordine rivoluzionarie, ma affrontando i problemi della vita e del presente. E nella sua Puglia ha fatto molte cose riformiste. Ernesto Galli Della Loggia ne ha tracciato ieri un profilo sul Corriere della sera sottolineando il suo «“completo distacco dall’antico ormeggio ideologico» e il suo ancoraggio «nel mare della vita». Ed ecco che la stessa esistenza di un leader che è fuori dal Pd ma nell’anima di molti suoi militanti ed elettori, che non corrisponde allo stereotipo del rivoluzionario parolaio e impotente, che è insieme radicale e riformista, capace di scaldare il cuore e di governare rompe, destabilizza, distrugge certezze. Con la sua sola presenza intacca una rendita di posizione, ne fa emergere l’infruttuosità, rivela l’aspetto inutile e mortifero di polemiche che si svolgono nel cielo della politica.
Il punto è se oggi Nichi Vendola, rispetto a quanto si sta facendo e si farà contro di lui, riesca a resistere. Non tanto agli attacchi a quelli penso ci sia abituato ma alla tentazione di scendere sul terreno dei balletti della politica, della polemica continua, nel quale i suoi avversari vogliono condurlo per costruirne un immagine di avversario. Perché questo sì gli sarebbe letale.

il Riformista 22.12.10
Non è ancora il tempo di Vendola
di Peppino Caldarola


Seguo le performance di Nichi Vendola con l’affetto di sempre. Una caratteristica del personaggio è che se l’hai conosciuto gli resti legato anche se non condividi tutti i suoi messaggi. Credo che questa sua autenticità, questa passione coinvolgente per la politica siano le ragioni che lo fanno amare da tanta gente anche politicamente diversa da lui. Il suo populismo gentile prima o poi lo porterà lontano. Ho già scritto che penso a lui come a un Lula italiano. Quando accadrà? Nelle mie elucubrazioni di solitario uomo della sinistra mi sono convinto che questo tempo non sia arrivato. Oggi l’obiettivo è quello di sconfiggere Berlusconi e di far arretrare il berlusconismo. A legge elettorale invariata c’è bisogno di fare una massa critica elettorale che superi il 45%, cosa che si può ottenere solo alleandosi con il centro e cedendo il posto di premier a un suo rappresentante o a una personalità indipendente. Non è il Cln, non viviamo nel fascismo, ma il necessario compromesso fra opposti per avviare il Grande Cambio. La fuoriuscita di Berlusconi potrà vedere successivamente una bella competizione fra destra e sinistra per il primato nel paese. È in questo momento che nelle mie fantasticherie colloco l’ipotesi di una soluzione lulista con Vendola al centro della scena. Essendo un moderato dovrò ingoiare molte frasi radicali, ma l’idea è attraente. Spero che Nichi Vendola si metta a disposizione del grande compromesso per mandare in pensione il Cavaliere. Il futuro può attendere.

l’Unità 22.12.10
Intervista a Walter Veltroni
«Il Pd non esisterà più se non saprà ritrovare le ragioni per cui è nato»
La vocazione maggioritaria «È la stessa cosa del Partito democratico». La proposta lanciata da Bersani sembra riproporla? «Se è così va detto in modo esplicito». «Il 22 gennaio al Lingotto la nuova frontiera del riformismo»
di Giovanni Maria Bellu


Walter Veltroni, siamo davvero a una fase cruciale per il futuro della nostra democrazia? «Siamo in una fase drammatica. Non ricordo una fase precedente nella quale si sia verificata la coincidenza di tanti elementi di crisi. Oggi li abbiamo tutti assieme: la debolezza e la fragilità della maggioranza che, sommate all'arroganza, creano una condizione pericolosa; una crisi sociale molto forte, anche molto più forte di come la si avverte nel dibattito pubblico: la rivolta degli studenti ne è una testimonianza drammatica; la crisi del rapporto tra cittadini e politica con un riemergere prepotente della questione morale in termini forse più acuti del tempo della denuncia di Berlinguer; la difficoltà di far emergere un’alternativa credibile che restituisca ragioni alla speranza e renda visibile la possibilità di uscire dal tunnel».
E in più il timore che Berlusconi possa vincere ancora. «Sì, il pericolo è reale. Proprio per questo se Berlusconi, dopo aver ottenuto la fiducia, facesse una specie di autosfiducia, istituto fino a ora sconosciuto alla democrazia italiana, la conseguenza non dovrebbe essere un automatico ritorno alle urne. In proposito condivido totalmente quanto ha detto Napolitano: le elezioni, in questa fase economica e finanziaria delicatissima, sarebbero un salto nel buio, un rischio mortale per la democrazia. E una vittoria di Berlusconi dischiuderebbe la strada a esiti devastanti, tra i quali c’è anche il pericolo dello snaturamento del ruolo del Quirinale come arbitro e garante dell’unità nazionale. Ma di certo Berlusconi non può pensare d’essere il padrone dell’Italia, non può accendere e spegnere la luce a suo piacimento. Se si autosfiduciasse ci vorrebbe un governo forte, sostenuto da un ampio consenso nel Paese e perciò capace di affrontare l’emergenza».
Ma ormai non è affatto detto che esistano le condizioni per farlo questo governo.
«Sì. Ma insisto: Il primo obiettivo per le forse responsabili è evitare le elezioni nell’interesse dell'Italia. Dobbiamo fare di tutto per spingere il paese verso questa prospettiva. E, per esempio, nel caso di autosfiducia, sottolineare con forza l’anomalia di un simile passaggio».
E anche attrezzarsi per far fronte all’inevitabile accusa di ribaltonismo. «Il ribaltonismo non c’entra. Non ho mai pensato a nulla di simile ma a un governo di larghe intese, sul modello di quello di Ciampi». Ma se si andasse al voto?
«Allora il Partito democratico non potrebbe fare altro che assolvere al suo ruolo storico. Investire su cinque grandi idee e vedere chi su queste idee vuole convergere. La domanda che dobbiamo porci è per quale motivo siamo nati come partito. E la risposta è che siamo nati per essere un’alternativa al centrodestra dal punto di vista programmatico, dei valori, del modo di governare. Il Pd è nato per essere il cuore di quella stagione riformista che l’Italia non ha mai conosciuto a parte brevi fasi come il primo governo di centrosinistra e il primo governo Prodi. Su questa prospettiva, nelle elezioni del 2008, abbiamo conquistato il 34 per cento dei voti. È la “vocazione maggioritaria” che è la stessa cosa del Partito democratico. Se il Pd perde, questa ambizione inevitabilmente rifluisce». Un attimo fa ha detto: in caso di elezioni il Pd deve elaborare un programma forte e poi vedere chi ci sta. È uno schema analogo a quello che pochi giorni fa è stato illustrato da Bersani. Vede in questo un ritorno alla “vocazione maggioritaria”?
«Se lo è davvero    va reso esplicito. Deve essere chiaro che si tratta di una correzione di rotta. Per ora vedo prevalere un’oscillazione di posizioni che mi sembra nascere da un vizio originario: la prevalenza della tattica sulla strategia, l’inseguimento di alleanze piuttosto che l’investimento sulle possibilità grandi del Pd. Il rischio si sta appalesando in questi giorni. Un giorno guardiamo a Vendola, un altro a Casini e così rischiamo di sbattere contro un muro. Non possiamo perdere la nostra ambizione e a cercare affannosamente alleanze con forze che non le vogliono. Non possono esserci alleanze strumentali. Ci si allea non solo per vincere, ma per cambiare». Ma vale sempre, anche quando la democrazia è in pericolo?
«Credo che a maggior ragione in una situazione di questa gravità dobbiamo parlare all’Italia e ritrovare noi stessi. Dobbiamo evitare di riproporre lo schema, perdente, del 1994. Questo significa ripresentare un Pd aperto, fresco, nuovo, capace di parlare della vita delle persone. La precarietà dei giovani è una bomba atomica, paragonabile alle più feroci ingiustizie della storia come lo sfruttamento e l'emigrazione. L’insicurezza sociale è un delitto che non può avvenire senza reazione. Intendo dire che il rischio che la reazione diventi rivolta è molto forte». Diceva che la “correzione di rotta” andrebbe esplicitata.
«Sì, perché alla vocazione maggioritaria abbiamo rinunciato. Ed è stato rimesso in discussione il bipolarismo, si comincia a dubitare delle primarie... si sono messe sostanzialmente in discussione le architravi del Partito democratico. Il Pd deve essere centrosinistra, altrimenti rischia di non essere appetibile neanche per le alleanze con le quali si spera di sostituire la vocazione maggioritaria. Mi spiego: se perdi il centrosinistra, il centro non si allea e non essere di centrosinistra rende minoritaria l’alleanza con Di Pietro e Vendola. Voglio essere ancora più chiaro: se il Pd fosse quello del 2008, alleato con Vendola, potrebbe avere la maggioranza. Oggi mi pare molto più difficile. Ho già detto che mi è dispiaciuto che Bersani da Fazio non abbia mai usato la parola “democratico”. Per me non c’è nulla più di sinistra del voler cambiare le cose. Di certo non si è di sinistra in base a una sorta di autocertificazione. Conosco gente “di sinistra” che ha concezioni inaccettabili del potere e della politica».
Torniamo alle primarie. Bersani non dice di volerle abolire ma regolamentare. E, quanto a quelle di coalizione, dice che non possono essere imposte alla coalizione.
«Nello schema di un partito a vocazione maggioritaria le primarie sono di partito. Quelle di coalizione sono uno strumento che va governato attraverso il mutuo convincimento nella ricerca del candidato che meglio può garantire unità e consenso...»
Anche questo, in effetti, lo dice Bersani...
«Sì, il punto è che deve essere chiaro, al di là di ogni dubbio, che le primarie sono la regola del Pd. Lo devono essere al punto che il pd dovrebbe battersi per introdurre le primarie per legge, come un obbligo democratico che regoli la vita interna di tutti i partiti. È un ragionamento semplice: se i partiti godono del finanziamento pubblico, devono dotarsi di regole democratiche al loro interno».
Lei era il segretario e si è dimesso. Ora, a quanto pare, è tornato... «Non ci si dimette dall’impegno civile. Non si può rinunciare a dare il proprio contributo di idee. Ma non a tutti è chiaro. Quando abbiamo elaborato il documento dei 75 si è scatenato un putiferio assurdo, figlio di una concezione del partito sbagliata. Anche nel Pci Berlinguer, Napolitano e Ingrao avevano idee diverse e non le tenevano segrete. E poi se guardo al contenuto di quel documento e leggo l’intervista recente di Bersani, ritrovo molte di quelle esigenze, quel reclamare un cambiamento di rotta».
Parlava della campagna elettorale del 2008. tra i candidati c’era anche Calearo. Rosy Bindi non ha mancato di ricordarlo...
«Mi è molto dispiaciuto. In primo luogo perché Rosy Bindi è il presidente del partito e più di ogni altro dovrebbe tutelare e rappresentare tutti. Quelle candidature furono votate all’unanimità e ho ritrovato una dichiarazione di allora della Bindi che diceva “Calearo capolista funziona; è uno verace, non costruito, ci sa stare in squadra”. Mi sarebbe piaciuto che il presidente del partito ricordasse davanti a milioni di spettatori che il Pd ha saputo garantire l’impegno di più di trecento parlamentari. E che la percentuale di abbandono del mandato originario è inferiore a quello di tutti gli altri gruppi. Calearo si è dimostrato una persona pessima, anche dal punto di vista umano. Quando lo candidammo era presidente degli industriali veneti e, in una regione dove eravamo scesi al 15%, bisognava recuperare consenso. Operazione che riuscì visto che risalimmo di quasi dieci punti. Il Pd allora voleva dare il senso della sua identità e portare in Parlamento industriali e operai, piccoli imprenditori e intellettuali cercando di trasmettere il senso di una forza maggioritaria, capace di rivolgersi all’intero paese. Così scegliemmo Boccuzzi, operaio Thyssen, o Umberto Veronesi, o Gianrico Carofiglio, o Sangalli e Fioroni, rappresentanti della media impresa. Non è stato solo Calearo a non votare la sfiducia. Anche altri due parlamentari eletti dal Pd, e non certo proposti da me. Calearo si è dimostrato una scelta sbagliata. E anche se il suo voto non è stato determinante ciò che ha fatto è insopportabilmente meschino. Penso però a quante forze sane negli anni abbiamo portato in Parlamento. Mi piace citare, tra gli altri, Rosa Calipari, Sabina Rossa, Olga D’Antona, Daria Bonfietti. Scelte nelle quali credo di aver avuto un ruolo».
L’unità del Pd è in pericolo?
«No. Non lo è. L’unità dipende dalla capacità di ascolto e di interlocuire con le diverse culture. È quanto da parte mia continuerò a fare. Il 22 gennaio    torneremo al Lingotto per proporre al Partito democratico una nuova frontiera del riformismo italiano. Non un programma generico ma cinque idee fortemente innovative che implicano scelte impegnative. Ripeto. Scelte impegnative, non una generica lista di propositi».

Repubblica 22.12.10
Pd, Veltroni boccia la linea Bersani "Troppa tattica, basta inseguire Casini"
E c’è chi riparla di scissione. Il segretario: avanti con tenacia
Gentiloni: "Se si dimostra che non c´è spazio per costruire qualcosa nel Pd bisognerà pensare a una nuova stagione"
di Goffredo De Marchis


ROMA «Dobbiamo chiedere un congresso straordinario per cambiare il segretario». «Siamo in un vicolo cieco, la linea di Bersani è indifendibile». «Ma se la rotta non cambia cosa fare? L´unica strada è uscire dal Pd». Sono voci sparse dalla riunione di Movimento democratico, tenuta lunedì notte nella sede dell´associazione. Walter Veltroni è la guida dell´area. Ieri ha sintetizzato la sua posizione in un´intervista all´Unità: «Se c´è un ritorno alla vocazione maggioritaria, va reso esplicito. Deve essere chiaro che si tratta di una correzione di rotta. Per ora vedo prevalere un´oscillazione di posizioni che mi sembra nascere da un vizio originario: la prevalenza della tattica sulla strategia, l´inseguimento di alleanze piuttosto che l´investimento sulle possibilità grandi del Pd», dice l´ex segretario.
Parole forti, giudizi molto critici sul nuovo sentiero indicato da Pier Luigi Bersani nella sua conversazione con Repubblica la scorsa settimana. «Non dobbiamo impazzire dietro a Casini che non vuole essere inseguito. O dietro a Vendola. Occorre invece ritrovare la nostra ragion d´essere», spiega ancora Veltroni. Questa bocciatura verrà riproposta domani nell´ultima direzione del Partito democratico, che arriva dopo l´illusione della caduta di Berlusconi nel voto di fiducia. Paolo Gentiloni, uno dei leader di Modem, non ha paura di lanciare un ultimatum al vertice. «Faremo una battaglia dentro al Pd, ma non con tempi illimitati. La nostra è una scommessa, rifondiamo il partito se ne siamo capaci. Ma non possiamo aspettare anni. Se si dimostra che non c´è spazio per costruire qualcosa nel Pd, bisognerà pensare a una nuova stagione». La scissione, al livello di ipotesi, cioè come piano B in caso di fallimento del piano A, è stata evocata dai veltroniani Salvatore Vassallo e Raffaele Ranucci. Enrico Morando ha spinto per la richiesta di un congresso straordinario. Partendo dal presupposto che le elezioni anticipate non siano più dietro l´angolo. «Si tratta di considerazioni teoriche spiega Gentiloni -. Però i sondaggi sono chiari. Mentre il gruppo dirigente sostiene che il 14 dicembre non è successo granchè, si dimostra che la base, al 70 per cento, attribuisce la nostra sconfitta alla mancanza di alternativa».
Beppe Fioroni la via l´ha indicata ed non è esattamente la stessa di Veltroni: alleanza con Casini e offerta al capo dell´Udc della premiership. Giorgio Tonini, in intervento molto apprezzato, ha dato una lettura diversa: «Stiamo assistendo a una ristrutturazione del centrodestra. Nella quale Berlusconi può essere accompagnato alla porta in modo soft per fare posto a Casini. Vedo i segnali nelle parole di Sacconi, nella posizione della Chiesa. Se finisce così, il Pd rischia grosso».
Insomma, il Pd deve fare i conti con l´apertura di una nuova fase. Partire dalla consapevolezza di «aver preso una sberla il 14», dalla necessità di rilanciare se stesso. Dopo la tregua in vista del voto di fiducia, Veltroni riapre il fronte di sfida e il suo percorso culminerà nell´assemblea del Lingotto il 22 gennaio, vera data di esordio per la sua area. Un primo braccio di ferro andrà in scena domani alla direzione, se queste sono le premesse. Bersani spiegherà la sua posizione su alleanze e primarie. La riunione dovrebbe concludersi senza un voto, ma ci sono tutte le condizioni per delineare meglio maggioranza e minoranza interne. Alla riunione del gruppo parlamentare della Camera, Dario Franceschini ha confermato la linea sua e della segreteria: un´alleanza con il Terzo polo non solo «per vincere le elezioni» e battere Berlusconi, ma per creare un «arco parlamentare» che sostenga la «ricostruzione» del Paese, da un punto di vista economico e anche sotto il profilo delle «regole comuni e della legalità». Bersani si riserva una risposta agli attacchi domani. «Andiamo avanti con tenacia», ha detto ieri. Enrico Letta invece replica a Veltroni: «Nessuna confusione tra tattica e strategia. Nessuna ossessione delle alleanze. Il Pd andrà al confronto con la sua proposta per il Paese».

Repubblica 22.12.10
"Il vero bivio del Pd è tra piazza e governo, non tra Vendola e Casini"
Follini: ponte verso il centro o non sto più in questo partito
"Democratici e Terzo polo possono dar corpo all´alternativa. Se però si arroccano nei particola-rismi, Berlusconi rivince"


ROMA Senatore Follini, il Pd oscilla tra Terzo Polo e sinistra?
«Il bivio non è tanto tra Vendola e Casini ma tra piazza e governo, tra una proposta che costruisce l´alternativa e una tentazione che si nutre solo di protesta».
Come Veltroni, anche lei chiede a Bersani un cambio di rotta?
«Concordo con le proposte di Bersani. Sulle alleanze tifo per il centro: non è un mistero».
Fioroni e tanti ex-ppi sul piede di guerra, Latorre che invita a unirsi a Vendola. Il Pd rischia l´implosione?
«Io sto su un ponte. Lavoro nel mio piccolo perché si costruisca un´alleanza tra Pd e forze di mezzo: so quanto questa impresa trovi ostacoli da una parte e dall´altra. Però se percorriamo questa strada arriviamo all´alternativa, se invece Pd e Terzo Polo si arroccano nei loro particolarismi non andiamo da nessuna parte e Berlusconi resta lì».
Se il ponte crolla?
«Se crolla il ponte, non ci sono più io».
Insomma, con Vendola alleanza possibile o no?
«È un´alleanza a cui non credo. Se si prende quella strada, il problema non è che fine faccio io, ma è la fine del Pd».
Dalla direzione di domani, cosa si aspetta?
«Primo: dobbiamo scegliere un´identità coerente con gli impegni internazionali e con la visione del mondo che abbiamo. Non dobbiamo disattendere l´impegno in Afghanistan; la Ue ci chiede di mettere ordine nei nostri conti e ci propone con la Germania un modello di relazioni sociali tese alla produttività e alla partecipazione. Il nostro progetto deve stare dentro questa cornice. Secondo: il Pd non può farsi scudiero di tutte le proteste, dialogo sì ma la piazza non può essere la nostra divisa. Un grande partito deve sforzarsi di capire, però senza scivolare lungo la china del partito preso».
(g. c.)

il Fatto 22.12.10
Di Pietro: “Il Pd vuole i Neo-Dc? Convinca i suoi”
Con Vendola pronti a un cammino comune “vicini alla società civile”
di Luca Telese


“Sono preoccupato. Questo pacco-bomba nella metropolitana può avere solo due significati”. Quali? “O è opera di una mente finissima, che non fa parte del movimento ma vuole destabilizzare come accadde con la strategia dellatensione...”.Oppure?“Oppureè stato preparato da uno del movimento, ma deve essere un autentico imbecille, che non ha capito nulla, e non ha nessun rapporto con gli altri”. Antonio Di Pietro comincia l’intervista con un appello alla piazza di stamattina: “Questo movimento non è il prodotto di pochi scalmanati, come hanno provato a dire, ma è la rivolta sociale di una generazione precaria che, giustamente, prova a riprendersi il suo futuro. Ma se è così, io voglio far loro un appello perché si possa evitare che la violenza da effetto diventi causa, e finisca per rafforzare il governo e le ragioni di chi si oppone al movimento”. Il leader dell’Italia dei Valorièpreoccupato in modo diverso ma forse ancora di più per le posizioni del Pd, e per l’annuncio di Bersani di voler procrastinare la formazione della nuova coalizione di centrosinistra e ipotizza di rinunciarealle primarie: “Se ci pensa ancora un po’, saremo costretti, con Sinistra e libertà, a iniziare il percorso, per ora da soli. Combatteremo fino all’ultimo per aggregare il maggior numero di forze, ma non possiamo nemmeno stare con le mani in mano”.
Volete isolarvi?
Al contrario! Non dico che io e Vendola vogliamo andare da soli. Dico che dobbiamo iniziare a offrire una proposta riformista. Sono gli elettori a chiedercelo.
I suoi?
No, guardi, tutti. C’è uno scollamento enorme dell gruppo dirigente del Pd con la sua base. Io giro l’Italia ogni giorno, me ne rendo conto sempre di più.
Di Pietro, lei vuole accelerare, mentre la fiducia sembra aver rafforzato il governo...
Io credo che non dobbiamo farci ingannare dalla propaganda. Siamo già al dopo-Berlusconi.
Ne è certo?
Il governo è più pericoloso perché è al capolinea. Altro che destra! Ormai l’unico modello del governo è l’autoritarismo fascista, con qualche innesto di cultura piduista.
Ci va giù tenero.
Ma guardi che io non vedo l’ora di mettere da parte il Di Pietro di opposizione per tornare a quello di governo. Quello che costruisce. Ma nel frattempo non abbasso la guardia. Non posso.
Perché proprio ora questa pressione sul Pd?
Perché alle regionali del Lazio siamo rimasti imbambolati fino all’ultimo e abbiamo pagato un prezzo enorme. Perché non imparano?
Cosa la preoccupa del Pd?
Parte dei suoi dirigenti si culla nell’illusione di scaricare le ali radicali, per imbarcare i neodemocristiani. Questo produce disagio e angoscia negli elettori progressisti e anche moderati.
Lei si definisce radicale?
Io e Vendola siamo l’ala social-riformista. Siamo i partiti più vicini alla società civile. Ma noi siamo liberaldemocratici, e infatti a novembre organizzeremo in Italia il congresso dell’Eldr!
Si dice che D’Alema pensi a Casini come possibile premier...
Provi a convincere i suoi elettori. Se lo scopo di tutto è togliere Berlusconi per mettere Casini siamo alla frutta.
Perché non ama Casini?
Perché mi pare che con il Pd sia come il marito che corre dietro all’amante della moglie. Anziché costruire quello che c’è, sogna quello che non c’è!
Perché non riuscite ad unirvi?
Io Bersani non lo capisco proprio. Il terzo polo per definizione è terzo. Gioca la sua partita. Deciderà sicuramente all’ultimo minuto utile dove stare. Per ora dice di non voler stare con noi... Che senso ha corrergli dietro?
Ma queste cose a lui le ha dette?
Ogni volta che ci siamo parlati!
E lui che cosa ha risposto?
Sempre nello stesso modo: “Adesso vediamo”. Adesso vediamo, vediamo, il problema del Pd è che non si vede mai.
Ma perché lei ora si è incaponito proprio sulla data del 23 dicembre? Ha aspettato tanto, può aspettare ancora...
Ma benedetto Signore! Quella data non l’ho mica decisa io! È stato Bersani, a indicarla, è lui adesso a posticipare ancora. E il risultato è che l’opposizione resta imbambolata.
Sa che Enrico Letta sostiene l’idea di una alleanza con il terzo polo che tagli fuori Idv e Sel...
Io sostengo che se Letta vuole infilarsi nel terzo polo, non ha che da iscriversi all’Udc, così si risolve il problema.
Quanto è cattivo con un alleato ...
Nessuna cattiveria. Ci tiene tanto? Si iscriva lì che fa meno danni. Sentendolo parlare mi rendo conto che vede un altro film e vive in un altro paese, non in Italia. I primi a volere l’alleanza di centrosinistra sono i suoi elettori!
Ma lei capisce le preoccupazioni di chi nel Pd dice: non possiamo non allearci con i centristi?
No. Anche perché è sbagliato chiamarli centristi, io preferisco neodemocristiani.
Adesso fa il settario?
Nemmeno per sogno. Se l’Udc volesse allearsi con noi io non avrei nulla in contrario. Ma siccome dice che non vuole farlo, che senso ha inseguirla?
Il suo ragionamento è politico o di non testimonianza.
Ma quale testimonianza? Io voglio vincere. È chiaro ai bambini che il terzo polo più è “terzo”, più prende voti a destra. Invece, se si schiera a sinistra...
Che succede?
Perde voti a destra, è evidente.
Lo dice con dei sondaggi?
No, lo dico perché ogni volta che si è andati a votare è accaduto. Vuole un esempio? La Puglia. È accaduto lì, può accadere anche a livello nazionale.

Corriere della Sera 22.12.10
Amato: finito un ciclo Il patto Pd-terzo polo può avere un futuro
«I giovani protestano contro la voracità dei vecchi»
di Aldo Cazzullo


Alla vigilia del 150 ° compleanno dell’Italia, Giuliano Amato, che presiede il comitato per la celebrazioni, confessa la sua «amarezza» per «un Paese che sta diventando preoccupante» . «Questo continuo parlare del fatto che l’Italia non ha futuro finisce per dimostrare che rischia di non averlo. Questo tema del futuro aleggia come all’interno di un gigantesco laboratorio di analisi sociologica, molto efficace nel dipingere i mali, ma altrettanto incapace di porvi rimedio. Io non amo la parola declino; ma anche questo è un segno del declino. Mi ricorda Petronio, che cantava la fine dell’impero mentre Roma bruciava: un simbolo ormai quasi da operetta, tanto è stato banalizzato nella storia, ma nel quale c’è una profonda verità. Nei momenti di maggiore declino di un Paese, di una storia, la capacità di fare autoanalisi e di dimostrarlo a se stessi è in genere elevata; mentre è bassissima quella di uscirne» . Amato parte dalla rivolta dei giovani. «Sono ormai pochi quelli che si rifiutano di capire che la protesta giovanile non è una protesta contro la riforma universitaria, ma contro una situazione generale nella quale le vecchie generazioni hanno mangiato il futuro delle nuove. E questa frase la diciamo quasi con la stessa voracità con la quale ci siamo mangiati il futuro di chi sta arrivando. Purtroppo sono pochi anche coloro che avanzano una concreta proposta per restituire il futuro. Ci hanno provato sul Corriere, e l’ho molto apprezzato, Di Vico e Ferrera, indicando tre campi: formazione, welfare, lavoro. Sento dire: i precari nei Paesi sviluppati ci sono sempre stati. Perbacco! Ero giovane quando negli Stati Uniti, in una fase di grande espansione, passare da un lavoro all’altro era più un divertimento che una condanna. Ma oggi tu ti attacchi all’unico lavoro precario che trovi come ti attacchi alla canna del gas, e non si profila altro. Sento chiedere: come si fa a prendersela con un governo, quando un Paese è in questa situazione? È vero, le ragioni sono tante. L’identificare queste tante ragioni dovrebbe portare a trovare delle soluzioni. Quanti sono i nostri imprenditori che hanno venduto l’impresa e si sono fatti la villa e lo yacht? Anche loro hanno una parte di responsabilità. Come l’ha il sindacato: che senso ha avuto difendere a spada tratta l’articolo 18, creando una distanza abissale tra il garantito e il non garantito? Non avrebbe avuto più senso creare prima quella rete di rapporti di lavoro garantiti e insieme flessibili che avrebbero evitato la spaccatura in due? E perché i contributi che si pagano sul lavoro dipendente trasparente sono così alti, quando i trattamenti pensionistici sono diventati così bassi? Che cosa pagano questi contributi? Li possiamo ridurre? Ecco, ciascuna di queste responsabilità dovrebbe indicare un pezzo della soluzione. Invece ci fermiamo agli elenchi. Facciamo sociologia, anziché fare riformismo » . Amato una proposta l’avrebbe: «Se è vero che il debito pubblico è la strozza più soffocante sul collo dei nostri giovani, sarebbe responsabilità delle nostre generazioni che quel debito l’hanno creato non lasciarlo in eredità ai giovani, almeno non in questa devastante misura. Il debito è di 30 mila euro a italiano: liberarci di un terzo di esso già lo ricondurrebbe a dimensioni governabili, sotto l’ 80%, quindi fuori dalla zona a rischio; significherebbe pagare 10 mila euro a italiano. Ma siccome gli italiani non sono tutti uguali, potremmo mettere la riduzione a carico di un terzo degli italiani. A quel punto sarebbero 30 mila euro per un terzo degli italiani, magari in due anni. Secondo me è sopportabile. Certo, al solo accennarne ho già ricevuto email nelle quali la definizione che si dà di me è irriferibile» . Forse perché c’è il precedente impopolare del ’ 92, quando lei era presidente del Consiglio... «Certo, è molto più popolare lasciare il debito addosso ai giovani che non invitare i vecchi a fare un sacrificio. Io sono un delinquente perché dico questo, non sono uno che richiama gli altri alle loro responsabilità. Se questo loro lo avvertono come un attentato di qualcuno che vuole mettere le mani nelle loro tasche, vuol dire che questo Paese si è profondamente degradato. E non solo in questo campo. Come diceva giustamente Tommaso Padoa-Schioppa, noi siamo vittime della vista corta, e con la vista corta non possiamo vedere e preparare il futuro: come Gurdulù, il personaggio di Calvino immerso in un piatto di minestra, siamo immersi nel nostro presente. Tutti avvertono il bisogno di più etica. Chi dovrebbe essere maestro d’etica si trova a fare i conti con se stesso in un’ulteriore difficoltà: io ho passato gli ultimi anni della mia vita a sottolineare l’importanza che ha la religione nel creare un senso di appartenenza a una comunità in cui gli altri hanno non meno diritti di me. Ciò ha segnato proprio la vita e il modo di lavorare di Padoa-Schioppa. E il Papa, che è uno che questo tema lo capisce molto meglio di tanti altri, si sente costretto a dire che la sua Chiesa è ricoperta di polvere» . Nella politica spicciola, Amato non intende inoltrarsi. «Siamo arrivati alla fine di un ciclo, ma è chiaramente la fine di un ciclo in cui non vediamo i segni dell’alba del giorno dopo. C’è una persona discussa come poche e certo discutibile, che ha segnato di sé i trascorsi quindici anni e ora è sul finire del suo percorso e non ha successori dal suo lato; e c’è un centrosinistra che è ancora alla ricerca di un’anima, come sempre lasciando il dubbio che o ne abbia troppe o non ne abbia nessuna» . L’alleanza tra il nascente terzo polo e il Partito democratico può avere un futuro? «Certo che può avere un futuro. Il futuro dipende da chi lo costruisce e quindi da come lo costruisce» . E in vista del 150 ° anniversario dell’Unità, che succede? «Succede quel che ha detto molto bene il capo dello Stato, nel saluto di auguri al Quirinale, quando ha messo in evidenza la quantità e qualità di miriadi di iniziative, convegni, mostre, riscoperte di figure locali e di momenti importanti della vita di figure anche nazionali che verrà fuori il prossimo anno. Con una presenza di governo relativamente in ombra, le celebrazioni dei 150 anni stanno prendendo vita in tanti angoli di questa meravigliosa storia italiana fatta non da una capitale ma da tanti centri. Abbiamo comuni grandi e comuni piccoli, istituzioni culturali nazionali come la Treccani, i Lincei, la Crusca e istituzioni locali, tutte impegnate a fare qualcosa per riscoprire il senso dell’Unità italiana, a riscoprire quel che ci aiuta non a vivere questa vicenda negli stereotipi ma a conoscere come è stata. Ci sono stati momenti — con Cavour, con Giolitti, con De Gasperi — in cui l’Italia è riuscita a cambiare, a costruire il futuro. Oggi ne parliamo molto ma abbiamo perso questa capacità di costruirlo, il futuro. Per questo è così difficile stare insieme. Cosa crede che significhi l’espansione dei leghisti al Nord e dei neoborbonici al Sud? Non il postmoderno, ma il riaffiorare di antiche identità, per la fragilità che viene ad avere l’identità nazionale non vivificata dall’impegno per il futuro comune. Se l’impegno per il futuro comune è forte, il sentimento nazionale c’è; altrimenti cede, e vede riemergere quel che c’era prima. È quel che sta accadendo» . Ma la protesta dei giovani è una fiammata? O rischia di essere duratura, come in passato? «I giovani sentono molto le ragioni di questa protesta. La percezione è che noi — con il debito che abbiamo costruito, con il mercato del lavoro che abbiamo costruito, con le pensioni che ci siamo dati e che ora neghiamo a loro— abbiamo preparato un bel piattino; e loro lo rifiutano. Sono fenomeni, com’è stato detto, dovuti a una rabbia che si diffonde e che può durare. Sta a noi fornire risposte, in modo da fare della rabbia il propellente non di altra rabbia ma di cambiamenti che in qualche modo servono a ridurla. Il ’ 68 nacque dalla rabbia contro l’esistente. Si voleva liberare il mondo dalle gerarchie che lo stringevano ai fianchi. Fu una rivolta contro la famiglia e la scuola più che contro la politica. E i risultati arrivarono. Salvo la deriva ideologica, che il movimento prese quando follemente agganciò la rivolta contro il capitalismo, quel movimento pose fine al pesante patriarcato che dava al maschio ogni potere sulla vita famigliare. Quella fu una risposta che si trovò, e fu una risposta giusta. Oggi bisogna cha qualcuno dia risposte su altri terreni. È impressionante che da settimane sui terreni su cui oggi è più elevata la protesta — destinare di più alla formazione, agganciare di più i processi formativi al mercato del lavoro— si siano solo scritti articoli» .

Repubblica 22.12.10
Un patto per l’opposizione
di Aldo Schiavone


«Chi parla di vittorie? Sopravvivere è tutto»: il desolato verso dal Requiem di Rilke descrive perfettamente la condizione in cui oggi si trova Silvio Berlusconi. Andare comunque avanti, restare in piedi a tutti i costi, anche se ciò significa mettere sotto sequestro la politica italiana.
La cosa più grave è che tutto questo accade in una congiuntura assai aspra e difficile della vita nazionale, quando la durezza mal fronteggiata (non solo in Italia) della lunga recessione economica si sta trasformando in una crisi sociale sempre più severa, che espone a rischi drammatici la tenuta d´insieme del nostro tessuto civile. Il pericolo di una nuova povertà – tanto più micidiale quanto più inattesa – sovrasta ormai centinaia di migliaia di famiglie di ceti medi e di classe operaia, che mai avrebbero pensato di ritrovarsi così esposte. E un´intera generazione di giovani sta facendo conti feroci con un mercato del lavoro che toglie ogni giorno speranze e respiro. Si stanno dissipando potenzialità enormi: e la perdita prima o poi sarà pagata.
Di fronte a una simile emergenza, il primo impegno di un´opposizione degna di questo nome è di riuscire a trasformare la percezione acutissima e diffusa di un disagio sociale crescente, in una precisa domanda politica di cambiamento. Non è tempo di rassegnarsi. Mi pare che Bersani e Casini abbiano ben presente questo nesso e la sua urgenza.
Che Berlusconi, nelle condizioni politiche in cui si trova possa governare seriamente il Paese, è da escludere con assoluta certezza. Non vi è riuscito quando – appena una manciata di mesi fa – aveva un´autostrada aperta davanti, ed è finita come abbiamo visto; figuriamoci adesso. Non c´è terzismo che possa tenere di fronte all´evidenza. L´Italia ha bisogno di un altro governo, se vuole salvarsi. Sorprende e sconforta che una parte delle gerarchie cattoliche siano esitanti, e sembrino ancora attardarsi a voler offrire una sponda per una continuità che potrà portare solo nuove disgrazie. Ci pensi bene la Chiesa: il futuro dell´Italia passa per altre strade. Il presidente del Consiglio non è il male minore. È solo l´uomo del disastro.
Un altro governo, ma quale? La nebulosità su questo punto non ha aiutato la mozione di sfiducia. E allora? Dal berlusconismo non si può uscire restando nel recinto del centrodestra, gestendo il passaggio solo nell´ambito dell´attuale maggioranza. D´altra parte, sperare di condizionare Berlusconi rimanendo nel raggio di un´alleanza con lui, sarebbe, da parte di Fini e Casini, un´illusione rovinosa, che il premier stesso non autorizza minimamente quando dice di volere dalla sua parte i singoli parlamentari di centro o di Fli, e non i partiti. E perciò, se vogliono trovare un indirizzo e un percorso, devono accettare, per ora, di trattare oltre i loro confini "naturali". Ma anche a sinistra non vi sono forze sufficienti per condurre in autonomia un´azione decisiva. Le combinazioni proposte affannosamente da Di Pietro non andrebbero, oggi, molto lontano. E la presenza sulla scena di un "terzo polo", con una sua capacità di attirare consensi, respinge sullo sfondo qualunque, pur lodevole, "vocazione maggioritaria".
Dunque, fin quando Berlusconi rimarrà in campo dobbiamo lavorare per collegare – provvisoriamente ma credibilmente – questo abbozzo di nuovo centrodestra che sta nascendo, con l´abbozzo di centro sinistra che è tormentosamente vissuto in questi anni. La saldatura potrebbe avvenire intorno a pochissimi punti dettati dall´emergenza: legge elettorale, e misure d´urgenza intorno al nodo famiglie-fiscalità-lavoro, affidati a un Primo ministro di garanzia.
Pensare ad altre soluzioni sarebbe adesso solo velleitario e impraticabile, e non allontanerebbe il Paese dall´abisso. Una volta sgombrato il campo dalle macerie del semi-regime che ci sta avvelenando – sì perché di questo si tratta, di un semi-regime, quando un uomo, un solo uomo, fa della sua personale sopravvivenza politica la ragion d´essere strategica e ideale (se si può dir così) di un´intera maggioranza – una volta liberato il campo, ognun per sé, verso un nuovo e finalmente maturo bipolarismo.
Non vedo altra strada, e so bene che si tratta di un cammino arduo. Lo ostacolano pregiudizi, ambizioni, diversità strutturali non meno che di culture e di stili. Se vi sono idee migliori è il momento di avanzarle. Ma senza finzioni e doppie verità. La minaccia è enorme: che la fase senile del berlusconismo trascini con sé il Paese nel baratro.
«Dopo di me il diluvio»: lo abbiamo già sentito.

Corriere della Sera 22.12.10
Ferrero il comunista e l’idea di «avversario»
di Gian Antonio Stella


«A desso che abbiamo la maggioranza, finalmente possiamo fare una bella opposizione!» , strillò entusiasta una vecchietta strattonando Bertinotti in piazza la sera della vittoria dell’Ulivo del 1996. Quindici anni, mille errori e mille batoste dopo, col partito ridotto a percentuali umilianti, Paolo Ferrero non si è schiodato di un millimetro dalle posizioni di quella vegliarda. Lo dimostrano le parole con cui ha commentato la scomparsa di «Tps» : «Voglio esprimere il mio profondo dolore per la scomparsa di Tommaso Padoa-Schioppa. Nella comune esperienza governativa abbiamo rappresentato punti di vista antitetici per quanto riguarda la politica economica, per questo abbiamo spesso litigato senza che questo abbia mai messo in discussione la stima e il dialogo. Tommaso apparteneva idealmente alla corrente moderata del disciolto Partito d’azione. Rigoroso sul piano morale, animato da grande passione civile e politica, liberista fino all’ottusità sul piano economico. Un avversario, quindi, ma un galantuomo» . «Avversario» ? Uno così è agli occhi del segretario di Rifondazione un avversario? Un uomo che, pur potendo risolvere con una sola telefonata i problemi dei figli, confidava sereno: «Ho figli giovani che sono precari. Autosufficienti, ma precari...» ? Un uomo che aveva saldissime convinzioni antifasciste, laiche, civili ed era stato azzoppato in Banca d’Italia perché, rivelò onestamente Dini, non si inchinava alla Dc? Che era convinto che «i beni fondamentali per cui lo Stato esiste» devono restare nelle mani dello Stato? Che in un mondo ferocemente competitivo scriveva libri sull’Europa partendo dal sentimento della malinconia? Rileggiamo ciò che disse, ricavandone il sarcasmo indecente di chi stravolse quella frase, sulle tasse: «Delle tasse dovremmo prima di tutto fare l’elogio, ossia dirne bene. Le tasse sono il prezzo che paghiamo per procurarci strade, giustizia nei tribunali, istruzione, sicurezza ai confini, ordine interno. Il gergo economico li chiama beni pubblici. Ma l’aggettivo non inganni: il bisogno che essi soddisfano è privato quanto lo sono la fame e il freddo. Pubblico è solo il produttore, e lo è perché quei bisogni, pur prettamente individuali, possiamo soddisfarli solo se ci aiutiamo a vicenda, organizzando una ronda alle frontiere, un tribunale, una scuola, che poi tutti utilizziamo. A tal fine costituiamo una cassa comune e concordiamo come contribuirvi. I beni pubblici hanno due caratteristiche: soddisfano bisogni elementari e nessuno sarebbe in grado di produrli solo per sé. Il bello delle tasse è che esse sono un modo civilissimo ed efficiente di far fronte alle spese comuni. Sono tra le migliori espressioni di una pacifica convivenza tra persone» . Se uomini così sono «avversari» , è sicuro, Paolo Ferrero, di non avere lui una visione ottusa e striminzita della politica e della vita? E con chi vorrebbe parlare, dialogare, governare? Con chi?

l’Unità 22.12.10
Flussi immigrazione
Quel dietrofront per la propaganda
Il decreto per 98.080 ingressi senza le procedure di legge Dietro l’alibi della crisi, gli errori del «cattivismo» di Maroni per espellere tutti gli irregolari in Italia ci vorrebbero 25 anni
di Piero Soldini, resposabile Ufficio immigrazione Cgil nazionale


Siamo alle solite, l’immigrazione è sempre il terreno delle sparate propagandistiche e strumentali dell’improvvisazione e dell’arbitrio.
Prima, il governo ha deciso di bloccare i flussi, adesso ha deciso di sbloccarli con un nuovo decreto che prevede 98.080 ingressi, senza rispettare né prima né adesso le procedure della legge che prevedano una consultazione preventiva con le parti sociali e con le regioni.
Per bloccare i flussi si è sbandierata ai quattro venti la motivazione che, se c’è crisi e le aziende licenziano, non si possono chiamare altri lavoratori stranieri, motivazione vera che però è stata agitata solo strumentalmente, perché altrimenti, avrebbe dovuto essere affrontata con provvedimenti che impedissero che i lavoratori stranieri che perdono il lavoro diventassero irregolari, attraverso l’estensione della durata del permesso di soggiorno e regolarizzassero tutti quei lavoratori immigrati che sono già qui e lavorano in nero. Ciò non è stato fatto, e si è voluto alimentare un altro argomento propagandistico e strumentale, cioè che gli immigrati irregolari (clandestini) vanno espulsi.
Che sia pura propaganda lo dicono i dati, infatti con tutto il «cattivismo» del ministro Maroni, negli ultimi 20 mesi sono state espulse 38.000 persone e siccome le stime più prudenti dicono che in Italia ci sono circa 500.000 irreg olari, per espellerli tutti, ammesso che non ne entri più nessuno (impossibile perché, anche per gli ingressi, nonostante il «cattivismo» del ministro Maroni sui respingimenti, ne entrano oltre 100.000 l’anno) ci vorrebbero 25 anni.
Oltretutto costerebbe una tombola perché espellere uno straniero irregolare, sommando il carico della magistratura, delle forze dell’ordine, del Cie, del vettore ecc. costa circa 10.000 euro.
Infatti non vengono espulsi (salvo le sceneggiate dimostrative) rimangono qui, irregolari impauriti assoggettati, sfruttati, umiliati ed alimentano la concorrenza a ribasso sui salari ed i diritti di tutti i lavoratori e questo fa comodo al governo che continua a gridare al lupo e a “padrocini e padroncioni”, che li sfruttano e li ricattano e con essi ricattano anche i lavoratori italiani.
Adesso si fa un decreto flussi, perché? La crisi è finita? Dall’andamento dei dati sulla cassa integrazione e sulla disoccupazione non si direbbe proprio, ma evidentemente ci si accorge che nonostante la crisi c’è una domanda di mano d’opera che, un mercato del lavoro deregolarizzato e non governato, non soddisfa.
Si fa quindi un decreto flussi 2010 senza sapere come e se si sia concluso il decreto del 2007, del 2008 e la sanatoria per colf e badanti del 2009.
L’unica certezza che solo il Governo non vuole capire, è che sarà di nuovo una grande confusione, la lotteria dei “clik day” produrrà molte domande, molte aspettative, molte truffe, molte frustrazioni, molte tensioni e pochi fortunati, ma il governo dell’immigrazione è un’altra cosa.

l’Unità 22.12.10
Ribellarsi alle bugie del capitale
di Bruno Gravagnuolo


Ci avevano raccontato che il lavoro era finito, smaterializzato come prassi e valore. E che il futuro sarebbe stato flessibile, istantaneo, anti-ergonomico. Ci avevano raccontato che il lavoro dipendente era finito e finiti quelli che vendevano la loro forza lavoro. Che eravamo tutti imprenditori: ceto medio in ascesa. Ci avevano raccontato che il mercato, finalmente libero da lacci, avrebbe redistribuito ottimalmente le risorse. Che ormai il futuro era dei fondi pensione, che superavano la frattura tra lavoratori e Capitale, visto che il primo diventava proprietario. Ci avevano raccontato che il futuro era della formazione permanente e che occorreva abituarsi a cambiare lavoro tante volte nella vita. Già, quante frottole ci hanno raccontato. Infatti non è vero che il lavoro stia finendo e sia meno faticoso. Cresce infatti a dismisura il lavoro marginale, precario, sfruttato, al centro e ai margini del mercato globale. Cresce il lavoro dipendente e comandato, mentre si assottiglia il ceto medio insidiato dalle povertà. E non è vero che il mercato allochi bene le risorse, stante che le diseguaglianze aumentano in modo vertiginoso. Quanto agli «autonomi», le vere partite Iva da noi saranno al più quattro milioni, laddove almeno tre sono dormienti, inattive o fatte di atipici e collaboratori a progetto. I fondi pensione? Bruciati in borsa E la tecnologia, l’innovazione? Egemoni, nel registro della comunicazione e dell’immaginario, o in quello della finanza. Sta di fatto che in Italia su 100 euro di profitto solo 60-70 vanno in investimenti produttivi, con uno 0,5% di risorse private riservate a ricerca/innovazione. Il resto va in rendita, con aumenti di salari reali quasi zero negli ultimi due decenni, e profitti decuplicati. Significa: più produzione e più margini di profitto, con meno addetti. Ovvero: sciopero del Capitale. È dentro tutto questo che va letta la protesta studentesca. Loro hanno capito che saranno la massa bruta combustibile delle imprese del futuro: tra sfruttamento e sottoconsumo. Si devono gestire meglio politicamente. Ma il loro ribellarsi è giusto.

il Fatto 22.12.10
Preservativi e abusi: così il Papa fa notizia (all’estero)
Parla il Vaticano


C’ERA UNA VOLTA UN PAPA che, ovunque parlasse, e qualsiasi cosa dicesse, la stampa internazionale gli dedicava titoli e gli prestava attenzione. Altri tempi; adesso c’è Benedetto XVI e, perché la stampa internazionale noti quello che dice, deve parlare o di preservativi o di abusi. Oppure, creare imbarazzi con gli ebrei (cosa che gli viene piuttosto naturale). Lasciamo stare la stampa italiana, che quello che dice il Papa è vangelo ad ogni Angelus e ad ogni visita a Piazza di Spagna nel giorno dell’Immacolata. La stampa internazionale si mostra avara col Pontefice tedesco, forse anche perchè la Chiesa, di questi tempi, non ha più muri da abbattere all’Est, ma piuttosto lastre di marmo da sollevare su silenzi e reticenze del suo passato recente. Così, il discorso di   lunedì di Papa Ratzinger sugli abusi di religiosi su minori attira l’interesse della stampa britannica (il Telegraph) e soprattutto americana (Wall Street Journal, New York Times): “La Chiesa deve riflettere su cosa c'è di sbagliato nel suo messaggio, che ha permesso lo scandalo degli abusi”, dalle “dimensioni inimmaginabili”. Ma, nel giorno in cui i giornali americani ne testimoniano l’ansia di riforma, Benedetto XVI incassa una correzione dal Sant’Uffizio, che ci spiega che il Papa non ha mai detto sì al preservativo. I giornalisti hanno capito male il suo libro: la dottrina pastorale non muta, Papa Ratzinger parlava di prostituzione, è tutta un’altra cosa. È la solita storia: un passo avanti e due indietro.
G. G.

Repubblica 22.12.10
Profilattico, la marcia indietro di Ratzinger
"Corretta" l´interpretazione del libro-intervista. Un cinese segretario di Propaganda Fide
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO In Vaticano lo spiegano come «un chiarimento necessario». È certo comunque che la posizione del Papa sul profilattico, contenuta nel suo recente libro-intervista «Luce del mondo», e subito interpretata come una cauta apertura, aveva suscitato una serie di polemiche accompagnate da qualche malumore anche dentro la Chiesa.
Ecco così che ieri pomeriggio l´Osservatore Romano ha pubblicato una Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, cioè l´ex Sant´Uffizio retto dal cardinale Joseph Ratzinger per 24 anni in cui si leggeva che le considerazioni di Benedetto XVI sull´uso del preservativo per la prevenzione dell´Aids «non sono una modifica della dottrina morale né della prassi pastorale della Chiesa». Insomma, non cambiano la posizione dottrinale del Vaticano.
Il Pontefice, sottolinea il Sant´Uffizio nell´intervento intitolato «sulla banalizzazione della sessualità» e diffuso in ben sei lingue, si riferiva nel libro non alla «morale coniugale» e nemmeno alla «norma morale sulla contraccezione». Ma «ad un comportamento gravemente disordinato quale è la prostituzione». Con un rilievo: il Papa «non di rado è stato strumentalizzato per scopi e interessi estranei al senso delle sue parole».
Dall´uscita del libro, un mese fa, perplessità erano affiorate nel mondo «pro life» statunitense e fra alcuni accademici intransigenti. E sulla frase incriminata «vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta (nell´originale tedesco "un prostituto", ndr) utilizza un profilattico» rilevava alcuni giorni fa sul suo sito on-line il vaticanista Sandro Magister, una serie di rinomati studiosi, da Gormally a Rhonheimer, hanno incrociato le spade. Soprattutto George Weigel, biografo di Giovanni Paolo II, ha chiesto alla Santa Sede di pubblicare una «sostanziale chiarificazione». Nei giorni scorsi, ecco che anche tutte le imprecisioni rilevate nel libro-conversazione con il giornalista Peter Seewald, sono apparse modificate nella seconda edizione.
Una notizia dalle Segrete stanze è invece la prossima nomina da parte di Benedetto del nuovo segretario di Propaganda Fide. A ricoprire il delicato incarico di uno dei dicasteri chiave della Santa Sede sarà un cinese di Hong Kong, appartenente all´ordine dei salesiani, don Savio Hon. Dopo i recenti dissapori emersi fra il Vaticano e Pechino per la nomina di vescovi non riconosciuti da Roma, quello del Papa appare come il chiaro intento di voler promuovere un uomo del dialogo, descritto come «umile e aperto», ma anche solido nella conoscenza del dossier cinese. E la Cina, con l´Asia, è uno dei settori più importanti per l´evangelizzazione dei popoli.
Don Savio Hon è membro della Commissione teologica internazionale, un accademico noto per l´atteggiamento fermo nei confronti di Pechino, così come il cardinale Joseph Zen, e tuttavia capace di mostrarsi indipendente da Zen. Una conferma della linea del dialogo, e della fermezza, che la Segreteria di Stato vaticana ha intrapreso nella complessa partita cinese. In primavera cambierà il prefetto di Propaganda Fide, quando scadrà il mandato dell´indiano Ivan Dias.


il Fatto 22.12.10
“La Russia sprofonda nell’abisso”
Parola di Vera Politkovskaja, figlia della reporter uccisa nel 2006
di Giancarlo Castelli


“Le aperture di Medvedev? Non ne vedo. Promette molto a parole ma nei fatti non è cambiato nulla”. È indignata, Vera Politkovskaja, quando le si chiede se si intravede una luce in fondo al tunnel, dopo oltre un decennio di dominio dello zar Putin. Neppure i timidi e controversi segnali del presidente Medvedev fanno sperare in un cambiamento. “Magari quelle promesse si trasformassero in fatti reali – aggiunge – saremmo molti a volerlo”.
LA FIGLIA DI ANNA coraggiosa giornalista della Novaja Gazeta, ammazzata nel 2006 nell’androne del suo palazzo da killer e mandanti ancora sconosciuti, nei giorni scorsi era a Carmagnola, in Piemonte, per partecipare ad un’assemblea organizzata dall’associazione “Mondo in   cammino”, dove si è parlato di verità e diritti ancora assenti in Russia, di guerra in Cecenia, di libertà di stampa e, ovviamente, di sua madre Anna Politkovskaja. Un omicidio, ha detto Vera “su cui il potere russo non vuole indagare”. Al Fatto Quotidiano, la figlia della giornalista russa ha parlato di libertà di stampa per dire che “l’informazione in Russia è peggiorata dopo la morte di mia madre. Il giro di vite contro i giornalisti è stato rafforzato. Sono aumentate le morti e le aggressioni selvagge nei loro confronti. L’impunità di cui godono questi delitti ha reso ancora più difficile questo lavoro”. Anche Vera fa la giornalista (“faccio il mio lavoro, scrivo quello che vedo. Ma purtroppo alla gente non piace vedere la realtà in faccia”, dice) oltre a dedicarsi all’amata figlia di quattro anni, nata lo stesso anno in cui sua madre veniva ammazzata per   quello che scriveva. Una morte che, però, non sembra aver scosso le coscienze della maggioranza dei russi. E neppure la stampa ha preso l’occasione per un sussulto di dignità. Negli ultimi anni, qualcuno ha preso timidamente coraggio e un discreto numero di piccole testate giornalistiche web, tv o di carta, ha cominciato, pur nella difficoltà, a dar voce all’opposizione. Troppo poco, però, secondo Vera. “In Russia, a rappresentare una certa eccellenza dal punto di vista professionale e una certa libertà, ci sono Novaja Gazeta e Echo Moskvy. Ma non basta. Nonostante il numero dei giornalisti morti o aggrediti negli ultimi anni non mi sembra di aver notato grande agitazione o indignazione nella grande stampa. Può darsi che questo inizierà a breve ma, al momento, è ancora insufficiente. Per i giovani giornalisti è ancora più difficile lavorare   – ha aggiunto – per le testate d’opposizione: oltre a essere un ostacolo per la carriera, è diventato addirittura un comportamento fuori moda ”. Sul futuro della Russia, Vera vede nero. “Chi si trova al potere, alla mangiatoia, sta portando il paese verso l’abisso. Soltanto quando il popolo avrà la forza di cacciare via questa gente, allora tutto potrà cambiare per il meglio”.

il Fatto 22.12.10
Panahi e i registi senza diritto di parola
Fratello, dove sei?
di Federico Pontiggia


“Quando un regista non fa film è come se fosse imprigionato. Anche quando viene liberato da uno piccolo, si ritrova recluso in un carcere più grande. La questione principale è questa: perché dovrebbe essere un crimine fare un film? Una volta terminato, un film può essere messo al bando, non il regista”. Sono le sue ultime dichiarazioni, rilasciate a France-Press in agosto, ma hanno trovato orecchie da mercante, quelle di Ahmadinejad: il regista iraniano Jafar Panahi è stato condannato dalla 26esima sezione del Tribunale islamico di Teheran a sei anni di prigione e interdetto a realizzare film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste e abbandonare l’Iran per almeno 20 anni, come rivelato dal suo avvocato Gheyrat, che ricorrerà in appello. Un macigno, che il regime islamico ha scaraventato sulle spalle di chi nemmeno di fronte alla persecuzione aveva rinnegato il proprio Paese: “Nonostante tutte le ingiustizie che mi sono state fatte, io, Jafar Panahi, dichiaro ancora una volta – questa la sua vibrante difesa in tribunale a inizio novembre – che sono un iraniano, vivo nel mio paese e voglio lavorare nel mio paese. Amo la mia patria, e per questo amore ho pagato anche un prezzo, e sono disposto a pagare ancora se necessario. (…) Io non odio nessuno, nemmeno chi mi ha interrogato”. Parole al vento, che da tempo in Iran soffia censura e repressione. Panahi viene arrestato in febbraio, con l’accusa di lavorare a un film “anti-regime”, ancor prima, nel luglio 2009, il 50enne filmaker era finito dentro per aver partecipato a una cerimonia di cordoglio per Neda e gli altri mani-festanti uccisi durante le dimostrazioni post elezioni presidenziali: non si era piegato e in agosto , da presidente di giuria, aveva aperto il Montreal Film Festival con al collo la sciarpa verde del Green Movement e dei sostenitori di Hossein Mussavi. Scelta che paga cara, e con lui il collega Mahmoud Rasoulof, reo di lavorare allo stesso film e condannato a eguale pena: che fare? Protestare, dentro e fuori l’Iran.
LA CAMPAGNA per il suo rilascio è di alto profilo, e nello scorso aprile coinvolge, tra gli altri, i meglio registi hollywoodiani, Spielberg, Coppola e Scorse-se, firmatari di una lettera aperta con una parola d’ordine: libertà immediata. Dopo Cannes e le lacrime in mondovisione di Juliette Binoche alla notizia fallace della sua liberazione, il regista Leone d’Oro per Il cerchio alla Mostra di Venezia del 2000 viene effettivamente rilasciato su cauzione. Ma non era l’happy ending. Se, da Shirin Neshat a Marjane Satrapi e Bahman Ghobadi, l’indignazione e la protesta dei colleghi non era venuta meno, a marcare visita era stato il più celebre, nonché intimo amico di Panahi, Abbas Kiarostami. Un clamoroso silenzio, interrotto in marzo da una lettera su un quotidiano di Teheran, dai toni (troppo) concilianti: “Molti giovani in Iran protestano contro il suo silenzio: perché non parla? Rimango stupito, non posso dirgli io che fare. Ma la società ha dato tanto a noi cineasti, e almeno personalmente mi sento obbligato verso i miei cittadini”, ci aveva detto Ghobadi, sottolineando come Kiarostami parlasse del “chiasso fatto da Panahi” e prendesse di mira “la censura, piuttosto che il vero responsabile della sua incarcerazione, il Ministero della Cultura e della Guida Islamica”. Nelle parole di Ghobadi si sentiva rimpianto e amarezza – “Abbas potrebbe essere il nostro leader, ha 72 anni e poco da perdere, e gli darebbero pure il Nobel per la pace” – e scetticismo sul megafono internazionale di Cannes che Kiarostami avrebbe potuto impegnare ad hoc, portando in anteprima il suo Copia conforme con la Binoche: “Sarebbe un’ottima occasione, ma rimango scettico”, concludeva l’autore dei Gatti persiani, e non aveva torto, perché – ci ha detto Rafi Pitts, il regista di The Hunter – “Kiarostami è saggio, poetico e lo rispetto, ma appartiene a un’altra generazione, e a un altro mondo”. Mentre Panahi continuava lo sciopero della fame nel penitenziario di Evin, sulla Croisette il suo (ex) amico si limitava a definire “intollerabile ” l’incarcerazione, traslocando la questione dall’Iran all’Iperuranio: “Quando un regista, un artista, viene imprigionato, è l’arte nel suo insieme a essere attaccata, e contro questo dovremmo reagire”. Dopo aver affermato in settembre che “va benissimo se le autorità non vogliono il cinema, ma io ho le mie risorse e continuerò a farlo”, oggi Kiarostami tace.
A muoversi per primi sono i francesi (da noi la Cineteca di Bologna, che proietta il corto di Panahi The Accordion): Cinémathèque, Forum des Images, Positif e Cahiers du Cinéma, mentre il ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie dichiara come “privando queste due personalità culturali (Panahi e Rasoulof) della loro libertà e rifiutando il diritto fondamentale alla libertà di espressione e di creazione, le autorità iraniane si screditano e degradano l’immagine del loro Paese”. Insomma, Liberté, Égalité, Fraternité, perché la posta in gioco è alta: se in Italia spesso e volentieri ci dimentichiamo – molti film aiutano – che il cinema ha un significato, l’affaire Panahi lo ripropone con drammatica evidenza, sulla scia di quanto accaduto 15 anni fa a Mohsen Makhmalbaf, che avrebbe voluto insegnare a un centinaio di studenti : “Il ministero della Cultura mi bloccò, dichiarando – ricorda il regista de Il silenzio – che un filmaker pericoloso come me era già abbastanza per un paese e che altri cento non erano necessari”.
SE IL RECENTE siluramento del ministro degli Esteri Mottaki rimpiazzato ad interim dal Dr. Stranamore, il fedelissimo capo dell'Organizzazione per l'energia nucleare Salehi, lascia intuire un sistematico giro di vite di Ahmadinejad, la ghigliottina della censura ha sovente ragioni che la ragione non conosce: da un altro Paese sensibile, la Cina, ce lo ricorda Jia Zhang-ke, che nel Leone d’Oro Still Life si era visto tagliare una scena di una riunione in fabbrica “dove si vedono i ritratti di Lenin, Stalin e Marx: nella copia internazionale è rimasta, non in quella cinese, strano non si possano mostrare i nostri eroi…”. Raziocinante o meno, il bavaglio colpisce ovunque: tra i tanti, sempre in Iran, Asghar Farhadi, il regista di About Elly che avrebbe voluto girare nella capitale “Nader divorzia da Shirin”, in Thailandia censurano il vincitore della Palma d’Oro per Apichatpong Weerasethakul e in Italia sfumano Elio Germano sul palco di Cannes dal Tg1. Ci sarebbe anche Roman Polanski, fresco trionfatore degli European Film Awards con The Ghost Writer: sei premi ricevuti via Skype da Gstaad, dove è agli arresti domiciliari in seguito al mandato di cattura spiccato dalla Procura di L.A. per "rapporti sessuali illeciti con una minorenne" negli anni ‘70. Mutatis mutandis, con il suo cinema Panahi ha inconfutabilmente violentato un regime maggiorenne: vale comunque per l’Oscar europeo?

Corriere della Sera 22.12.10
Una mamma su cinque non indica il padre
In media hanno 35 anni, alto livello di studio e sono in carriera
di Simona Ravizza


Cresce la generazione di mamme sole. Una su cinque non dà il nome del padre al figlio. Dalla Lombardia arriva il segnale di una rivoluzione: intorno ai 35 anni il desiderio di maternità può essere talmente forte da spingere a fare un figlio anche senza un uomo al fianco. È quanto emerge dalle statistiche della «Mangiagalli» di Milano.

MILANO — Sono passati 35 anni da quando Oriana Fallaci — rivolgendosi a un bambino mai nato — scriveva: «Sono una donna che lavora: ho tanti altri impegni, curiosità. Non ho bisogno di te» . Oggi dalla Lombardia, che ha il tasso di occupazione femminile più alto d’Europa (57,1%), arriva il segnale di una rivoluzione epocale: intorno ai 35 anni il desiderio di maternità può essere talmente forte da spingere a fare un figlio anche senza avere un uomo al fianco. È quanto emerge dalle statistiche della clinica Mangiagalli di Milano, conosciuta come la «fabbrica dei bambini» del Nord Italia: nel 2010 una neomamma su cinque non ha dichiarato il partner al momento del parto. Sono 1.298, per oltre il 70%italiane, spesso con in tasca la laurea e una carriera ben avviata. Spiega Giancarlo Cesana, presidente della Fondazione Policlinico Mangiagalli: «È un fenomeno sociologico nuovo che, se confermato, deve fare riflettere. Da un lato c’è la voglia di fare figli, dall’altro la difficoltà di creare una famiglia» . Il dato affiora in una Milano ormai abituata a stravolgere l’immagine tradizionale della società italiana, anticipandone spesso i cambiamenti. Qui nel 2006 è avvenuto per la prima volta il sorpasso storico dei single sulle famiglie (220 mila contro 159 mila). Qui nel giro di vent’anni sono triplicati i figli nati fuori dal matrimonio: le coppie non sposate con almeno un bambino a carico sono passate dalle 5.020 del 1991 alle 13.588 attuali. Qui adesso c’è il boom di madri che si dichiarano sole. Avvisaglie della tendenza si erano già avute nel 2008, con 474 neomamme che avevano barrato la casella «padre» alla nascita del figlio (7%). La percentuale è salita al 15,9%nel 2009 (1.037), per arrivare all’attuale 22%. «I numeri si riferiscono alla dichiarazione che la madre fa al momento della nascita — sottolinea Basilio Tiso, direttore medico della Mangiagalli —. Poi ci sono, comunque, dieci giorni di tempo per indicare il papà del bambino nelle registrazioni del Comune» . Dai certificati dell’Anagrafe di Milano risulta che i bambini senza padre sono il 3%: «Ma la metà delle donne che partoriscono in Mangiagalli abita fuori Milano — chiarisce Tiso —. Tra le 1.298 donne che non dichiarano il partner ci può essere chi ci ripensa: il fenomeno delle madri sole, però, è un dato di fatto» . Per la sociologa Chiara Saraceno i motivi possono essere due: «Gli uomini sono sempre più spaventati davanti alla paternità oppure le donne sono diventate indipendenti a tal punto da fare un figlio in completa autonomia» . Dietro la decisione di non indicare l’identità paterna ci può essere anche la voglia di dare il doppio cognome al nascituro: in Italia, infatti, i figli assumono di norma il cognome dell’uomo, a meno che il bambino non sia riconosciuto prima dalla mamma e solo dopo anche dal padre. Anche questo, del resto, può essere il sintomo di un nuovo trend. In un contesto simile Milano può apparire la città italiana dove meglio viene declinata la Womenomics che vede uno stretto collegamento tra donne, lavoro, economia e fecondità. Persino se non c’è un uomo con cui condividere il progetto di un bambino. Ma Sabina Guancia, consigliere di parità supplente in Regione Lombardia, azzarda una provocazione: «Molte donne si dichiarano madri sole anche se hanno un partner, perché da single è più facile, per esempio, fare ammettere il figlio all’asilo nido» . E qui riemerge la solita Italia: quella in cui conciliare lavoro e famiglia è difficile e, per essere facilitate nell’ammissione del bimbo al nido, ci si può dichiarare single.

Corriere della Sera 22.12.10
I sogni che hanno rivoluzionato il ’ 900
Martin Luther King, Mandela, Kennedy: le parole degli uomini hanno rimodellato il mondo
di Michele Farina


«Ma io, essendo povero, ho soltanto i miei sogni. Ho steso i miei sogni sotto i tuoi piedi. Cammina piano perché stai calpestando i miei sogni» . Non c’è pericolo, caro Yeats. Qui c’è poco da calpestare. Fosse vivo oggi, il grande poeta irlandese (1865-1939) si troverebbe in una parte di mondo che fatica a sognare. La sua Dublino, ex tigre celtica, si ritrova attapirata, con gli occhi sbarrati. Il resto dell’Europa è impaurito. Più povero e senza sogni: è questo il ritratto dell’Occidente (America compresa) secondo il numero dell’ «Economist» di fine 2010, quello che tradizionalmente cerca di cogliere lo spirito del tempo. La macchina si è inceppata, e non soltanto quella dei posti di lavoro o del welfare: «Il cambiamento va più in profondità, fino a toccare i sogni che hanno fatto andare avanti l’Occidente» . Dreams: non si tratta di illusioni a breve termine, le sbornie del ciclo economico con il loro immancabile day after di bolle immobiliari e bollicine evaporate in Borsa: ad andare in crisi sarebbe «quell’ottimismo che per 400 anni ha dato all’Occidente un vantaggio costante nei confronti del resto del mondo» . E che oggi si è livellato. Fino a portare al sorpasso degli ex disperati sui sognatori incalliti. La pompa dei «dreams that have propelled the West» ha esaurito il carburante. Change e hope sono parole vuote, benzina senza ottani. Vivesse oggi, forse il reverendo Martin Luther King avrebbe un pulpito nelle campagne (o più verosimilmente marcirebbe nelle galere) cinesi o marcerebbe nelle savane africane, e non certo perché in America il suo ideale di uguaglianza si sia punto realizzato. Questione di motivazioni e di vision. Di sogni, appunto. «I have a dream» è una delle frasi più celebri del Novecento, sigillo e refrain del discorso pronunciato al Lincoln Memorial di Washington il 28 agosto 1963 al termine della famosa marcia per i diritti civili. È quasi naturale che abbia dato il titolo a questa antologia di discorsi che hanno incarnato il «sogno politico» nel Novecento: «Parole che hanno cambiato il destino dell’umanità» prima di realizzarsi o di svuotarsi in slogan. C’è il Kennedy che nel ’ 63 dà il primo colpo all’impalcatura della guerra fredda proclamando: «Ich bin ein Berliner» . C’è l’arringa dell’imputato Nelson Mandela che, prima di essere sepolto per 30 anni nella prigione di Robben Island, lancia la sfida all’apartheid nel nome di un ideale a lungo «accarezzato» : «Una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia e con pari opportunità» . Un ideale «per il quale spero di vivere… ma per il quale sono pronto a morire» . Mandela, coetaneo di Jfk (classe 1918 il primo, 1917 il secondo), è ancora vivo: i loro sogni realizzati sfilano nell’antologia del «Corriere» accanto a quelli più grandiosamente irrealistici, come «il progresso luminoso e prossimo» auspicato da Ernesto Che Guevara «se due, tre, molti Vietnam fiorissero sulla superficie terrestre» . Ci sono le puntigliose parole d’ordine della rivolta non violenta del Mahatma Gandhi e la rivoluzione bonaria e tranquilla di Papa Giovanni XXIII che in San Pietro, sotto la luna di una sera di ottobre del 1962, all’apertura del Concilio Vaticano II, svecchia la Chiesa di secoli pronunciando poche parole affettuose: «Tornando a casa troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: questa è la carezza del Papa» . La storia (almeno novecentesca) si può ripercorrere anche così, come una scelta di passi: declamati (Churchill che chiama il suo popolo alla resistenza contro il nazismo: «Innalziamoci all’altezza dei nostri doveri» ) oppure materialmente compiuti (Arafat e Rabin che vanno a Washington per stringersi la mano). C’è la lotta radicale quanto inane verso l’unità afro-americana immaginata da Malcolm X e c’è la follia metodica e visionaria di un Sakharov o di un Vaclav Havel che, ricevendo il premio Erasmo nell’ 86, preconizza un’Europa unita senza muri né cortine: «Proviamo a essere pazzi e a pretendere in tutta serietà di mutare quel che si definisce immutabile» . Tra l’accettazione dello status quo e i voli pindarici dell’Utopia, il «sogno politico» è quel verbo di seria follia che «chiama» il cambiamento al cospetto di una collettività. Lo evoca, lo pretende. Può essere un grido imposto, impopolare: lo scarto dalla realtà «immutabile» che porta Anwar Sadat a parlare di pace davanti al Parlamento del «nemico» israeliano nel 1977 è reso possibile dall’autocrazia egiziana e da quella che il reverendo King chiamava «the fierce urgency of now» . La feroce urgenza del presente. Perché, ruggiva King, «questo è un inizio e non una fine» . Quasi mezzo secolo dopo, sappiamo che la storia non è finita, come preconizzava qualcuno 20 anni fa. Sarà così anche per l’annunciata fine dei sogni? L’inno Imagine di John Lennon è del 1971. «You may say I’m a dreamer but I’m not the only one» . Ma chi? Dove? Gli studenti che protestano in Europa hanno un sogno o soltanto recriminazioni? Mentre a noi oggi danno un brivido i cablo di Wikileaks, altrove si inseguono sogni concreti. La «speranza» si è spostata, scrivono i guru, che parlano positivamente di «redistribution of hope» . I dati raccolti dal Pew Research Centre sono chiari: l’ 87 per cento dei cinesi (e il 50 dei brasiliani, il 45 degli indiani) credono che il loro Paese si muova nella direzione giusta. Viceversa gli americani che «pensano positivo» sono il 30 per cento, gli inglesi il 31, i francesi il 26. Perché sono appagati o perché non ci credono più? È la crisi, bellezza. No, non solo: se anche una bibbia del pragmatismo come l’ «Economist» si mette a interpretare i sogni oltre al pil e ai bilanci, vuol dire che «la crisi» è più profonda e allo stesso tempo più impalpabile: come si misurano (si stimolano) i sogni collettivi? A calci o a carezze? L’ultimo rapporto del Censis riassume così lo stato degli italiani: «Un po’ delusi e apatici, senza voglia di sognare» . L’identikit di «un Paese senza desideri» corrisponde a un’immagine più generale, forse epocale, di una metà del mondo troppo sazia o troppo smarrita per sentire ancora l’urgenza, il bisogno dei sogni. Smarrimento che lascia il segno ai piani alti del potere come nella ricerca del consenso: «Il crescente pessimismo dell’Occidente sta riplasmando la vita politica» nota l’ «Economist» . «L’audacia della speranza» che ha proiettato Obama alla presidenza degli Stati Uniti ha messo la coda tra le gambe, adattandosi alla ricerca di un necessario compromesso bipartisan. Meglio così? Risveglio salutare dopo la sbornia di «Yes we can» ? Sbaglia Chomsky quando sostiene che il sognatore Obama in realtà «era lui stesso un sogno» ? «Il sogno» che con lui l’America si ritrovasse all’inizio di una rinascita liberal «stile anni Sessanta» si è dissolto nel giro di due anni. E anche chi vince segue lo stesso percorso «in negativo» : i nuovi repubblicani dei Tea-Party alzano i forconi di una protesta crepuscolare e nostalgica, più che la bandiera solare dell’ottimismo reaganiano. «Un sogno che non si realizza è una bugia o qualcosa di peggio» , cantava Bruce Springsteen in The River, 1979. Forse c’è «qualcosa di peggio» : non sognare più...