giovedì 23 dicembre 2010

l’Unità 23.12.10
Grazie, figli
di Concita De Gregorio


Grazie, figli, di questa lezione memorabile che avete dato a noi che solo per voi lavoriamo e viviamo e che per voi avevamo paura, dicevamo va bene vai ma stai attento, come sempre avremmo voluto essere al posto vostro per aiutarvi e proteggervi e chissenefrega oggi di destra sinistra e centro, l'unica cosa che conta è il vostro futuro e il futuro è di tutti, anche – avete visto – di quei poliziotti e di quei finanzieri che vi applaudivano al passaggio, ce n'era un gruppo sotto al ministero Gelmini che si è messo a scherzare vi ha detto “non vi fate fregare che dipende solo da voi”, sono gli stessi agenti che manifestano davanti a Montecitorio e ad Arcore, gli stessi che vi hanno scritto, sono ragazzi anche loro, ce ne sono tanti come voi anche fra loro. Non tutti, ma tanti. Avevamo paura per voi e insieme speranza, come sempre, e come sempre non potevamo esserci perché il tempo è vostro, adesso, e da voi dipende il nostro. Grazie di aver sconfitto con l'unica arma possibile, l'intelligenza e l'ironia, la minaccia grande e reale di chi ha cercato e ancora cercherà di farvi passare per estremisti, ignoranti, provocatori, di aver sconfitto la torva arroganza del fascismo di ritorno spiazzandolo, come vi avevamo suggerito e certo sappiamo bene che non è successo perché ve l'abbiamo detto noi però lasciateci la gioia di vedere incarnato un pensiero, un testimone che passa di mano, un'idea che si muove e da qualche parte, del resto, verrà. Grazie di aver reso ridicoli semplicemente ignorandoli quelli che chiedevano il sangue sull'asfalto, quelli che vi volevano arrestare prima, che volevano trattarvi da ultras, che vi temono e vi odiano perché non vi ascoltano, non sanno quanto sia difficile stare nei vostri panni perché non ci stanno mai, stanno nei loro. Grazie per aver pensato l’idea di libertà che lascia le trincee a chi le ha costruite. Così, a Roma, vi abbiamo visti in periferia, lontano dalla zona rossa. Vestiti da Babbo Natale, coi pacchi regalo su cui avete scritto “Lotta all’evasione fiscale”, “Riconoscimento delle coppie di fatto”, “Acqua pubblica”. Diritto allo studio, avete detto al Presidente della Repubblica. Avete visto, Napolitano ha aperto la porta. I nonni e i nipoti, sono anni che lo andiamo dicendo: è questa l’alleanza che salverà l'Italia. La saggezza dei nonni, la forza dei nipoti. Scriveva Luigi Manconi, ieri, che siete un vero movimento politico. Jolanda Bufalini Claudia Fusani e Maria Grazia Gerina sono state con voi e raccontano per esempio di Alessandro, che aveva al collo una poesia di Franco Fortini. Istruitevi, abbiamo bisogno della vostra intelligenza. Non fermatevi, la battaglia è appena cominciata. L'Italia siete voi. Restituiteci la dignità che abbiamo cercato in questi tempi di fango di tenere in salvo come i libri ai tempi delle alluvioni, le mani in alto. Bianche, le mani, come le vostre. È un Paese bello e onesto e dignitoso, il nostro, avete ragione. È un Paese migliore di quella gentaglia. Prendetelo, figli. Restituitecelo. Vi guarderemo portarlo lontano, dove merita e dove meritate.
http://concita.blog.unita.it/grazie-figli-1.262248

Repubblica 23.12.10
La normalità e la patologia
di Giuseppe D’Avanzo


Questi ragazzi hanno intelligenza politica. La cattiva politica li attende lungo i confini delle «zone rosse» e militarizzate della Capitale nella irresponsabile attesa che ci siano tumulti per rilanciare uno «stato d´eccezione», dispositivo politico di un governo tanto autoritario quanto spaventato dalla sua fragilità. È un establishment che immagina la vita – e quindi la politica – soltanto nella polis, nei luoghi consolidati e riconoscibili del Potere o nei set della sua rappresentazione televisiva. Questi ragazzi hanno un´altra esperienza della vita e del mondo.
Per loro una stazione della metropolitana, un edificio degradato, una fabbrica in disuso, un viadotto, una tangenziale, un terrain vague, gli spazi nascosti della metropoli sono i luoghi dove la loro invisibilità sociale si integra e si allinea all´invisibilità della città e di chi, dimenticato, la abita. Sono questi territori metropolitani che modellano il loro vivere quotidiano. Molti di loro sono i figli dell´alchimia sociale che vi si produce e sono voluti tornare qui – a San Lorenzo, a Porta Maggiore, al Prenestino, sotto e lungo la Tangenziale Est fino all´autostrada A24 – per dare pubblicità e quindi trasformare in spazio pubblico luoghi "vuoti" e in discorso pubblico esistenze "invisibili". Vogliono dimostrare – credo – che il loro disagio di studenti e universitari è la sofferenza di interi segmenti sociali, abbandonati sulla soglia della catastrofe dall´ordine consolidato.
In quest´attraversamento della città ricevono applausi, grida di gioia, l´incoraggiamento a continuare, a non mollare. È allora una giornata che qualcosa ci mostra. Se la società è un organismo, come si dice, è sano e funziona quando i costituenti «normali» prevalgono su quelli «patologici». Dopo una giornata come questa ci sembra di averli, in bell´ordine e sotto gli occhi, gli elementi della normalità e quelli della patologia.
È patologico il ritorno di Silvio Berlusconi alla ribalta politica. Si tiene in piedi per il rotto della cuffia, con tre voti alla Camera. Gli appaiono sufficienti per rilanciare l´«agenda» politica. In quell´agenda ha scribacchiato un solo impegno, sempre quello: se stesso, Io. Attende la decisione di costituzionalità del «legittimo impedimento» che lo salva dai processi per l´anno prossimo. Ne teme la bocciatura e allora minaccia. Avverte la Corte Costituzionale. Sfida la magistratura che dovrà giudicarlo. Promette di affrontarla «nelle piazze e in televisione». Nella sua egopatia, Berlusconi vede riflesso nella vita pubblica soltanto il suo destino. Non c´è spazio per null´altro. È patologico che non sappia ascoltare le parole che vengono dal Paese. Da ogni angolo del Paese. Dalla scuola, dall´università, dalle imprese, dalle famiglie, dall´amministrazione dello Stato, addirittura dalle polizie.
È patologica l´ostinazione di voler approvare – presto, subito, come se fosse un atto di forza (ne è immagine parossistica la leghista Mauro quando presiede il Senato) – una riforma che il ministro che l´ha pensata giudica già da oggi necessaria di modifiche e restauri. Affrontiamone soltanto un aspetto, il meno controverso. La riforma ha un perno. È l´«Agenzia per la valutazione degli atenei»: per la prima volta si prevede che i fondi pubblici alle università siano assegnati in funzione dei risultati. La valutazione diventa l´unico modo per non sprecare risorse, per fornire agli studenti un´istruzione migliore, dicono. Bene. Purtroppo, ci vorranno anni prima che la nuova agenzia sia in grado di produrre i primi risultati. Ammettiamo però che sia in grado di produrne subito, il lavoro sarebbe inutile perché non ci sono fondi adeguati che possano premiare le università migliori. Una possibilità che delude anche un pragmatico sostenitore della riforma come Francesco Giavazzi. Scrive: «Se i fondi verranno lesinati, la riforma sarà stata un esercizio inutile». Non è patologico un «esercizio» così divisivo, per di più inservibile, soltanto per consentire a un governo incapace di modernizzare il Paese di poter dire: "Una riforma l´abbiamo fatta!"?
Ordiniamo ora gli elementi di «normalità» che affiorano in questa giornata. L´intelligenza politica del movimento degli studenti, innanzitutto. Mette in fuori gioco maggioranza, governo, l´informazione che lo sostiene, gli uomini venuti dal fascismo (La Russa, Gasparri, Alemanno) e i tecnocrati (Sacconi) che si augurano nuove violenze per poter invocare leggi d´emergenza, «arresti preventivi», «repressione». È un movimento che, al contrario di quanto ha mostrato il 14 gennaio, non è soltanto attraversato dal rancore e dal risentimento. Non si lascia attossicare dalla sua lunga impotenza (da due anni, il governo si rifiuta di riconoscerlo come interlocutore). Si riscopre con un´energia che consente di liberarsi della rassegnazione, di una condizione algida in cui non c´è posto per la speranza perché l´esperienza consiglia di stare un passo indietro e con i piedi per terra. È una generazione che non vuole essere «perdente». E´ un movimento che oggi sembra voler parlare non soltanto di se stesso ma – a partire dalla sua difficile condizione – del Paese intero, della democrazia che lo governa, dell´impoverimento che l´affligge, di un generale declino sociale, culturale, economico. C´è chi in piazzale Prenestino lo spiega con poche frasi lette da qualche parte: «In Italia più del 50 per cento della forza lavoro è poco qualificata e solo il 10 per cento ha ricevuto un´istruzione terziaria. Il Wall Street Journal si è chiesto: come può l´Italia appartenere al G8, il gruppo delle economie leader mondiali, quando l´India produce seicentomila laureati in ingegneria per anno e la Cina sta costruendo cento università di livello mondiale? Ecco noi poniamo questa domanda a tutti quelli che hanno voglia di lavorare con noi a una risposta». È un elemento di «normalità» (e di fiducia) che il capo dello Stato voglia ascoltare le loro proposte e abbia aperto le porte del Quirinale a chi se l´è trovate chiuse a Palazzo Chigi. È di una democrazia «normale» tener aperto un canale di dialogo tra la società – che alcuni vogliono «invisibile» – e la politica; tra cittadini – come destinati all´insignificanza – e lo Stato. È sana «normalità» se Giorgio Napolitano spinga in fuori gioco chi pensa che, della città, contino soltanto i luoghi del Potere e i suoi abitanti. È benefica «normalità» che il capo dello Stato contraddica un esecutivo convinto che governare sia soltanto comandare.

Repubblica 23.12.10
Le ragioni delle parole più forti delle pietre
di Roberto Saviano


È bellissimo vedere le ragioni di questo movimento che fanno molta più paura, al governo, delle pietre. È stato bellissimo vedere come questo movimento abbia dimostrato che la violenza non gli appartiene. Le manifestazioni pacifiche di ieri sono state la dimostrazione che tutto è diverso, che tutto è nuovo.
Interpretare questa manifestazione con le categorie del passato per cercare di spiegare cosa sta accadendo nelle piazze e nelle università è miope.
In concreto è stato bellissimo vedere quello che sta accadendo: è qualcosa di nuovo, qualcosa anche di migliore rispetto al passato. Sono felice di averci visto giusto quando ho scritto la lettera ai ragazzi del movimento (uscita su Repubblica il 16 dicembre, ndr) cercando di riflettere sulla strategia e sul fatto che io - quasi loro coetaneo, ho trent´anni - avevo guardato la violenza come un´enorme regalo da fare al governo. Questa volta infatti la strategia è stata diversa, le ragioni hanno vinto sui sassi e sui sampietrini.
Insomma il movimento è riuscito a trovare gli anticorpi al suo stesso interno: gli anticorpi alla violenza. E sta crescendo e sta diventando sempre più consapevole e il governo lo considera sempre più pericoloso: pericoloso perché pacifico, pericoloso perché coinvolgente, pericoloso perché è diventato un soggetto con cui non può più rifiutarsi di parlare e le cui richieste non possono rimanere senza risposta.
intervento audio su Repubblica tv

l’Unità 23.12.10
La Cgil fa sponda: «Camminiamo insieme»
Il segretario generale Susanna Camusso non esclude lo sciopero a sostegno «Ragioniamo su come costruire un percorso insieme: parliamo la stessa lingua»
di Mariagrazia Gerina


Loro, gli studenti, dicono: «Sciopero generale, come in Francia, blocchiamo il paese». Lei, Susanna Camusso, risponde: «Ragioniamo su come costruire un percorso insieme, lo sciopero nessuno lo esclude, ma è un sacrificio per i lavoratori e non si dichiara né per solidarietà nei confronti di un movimento né per paternalismo».
Prove di dialogo tra il movimento che vuole «spiazzare» tutti (soprattutto quelli che lo vorrebbero finito con gli scontri del 14 dicembre) e il primo sindacato dei lavoratori che mai come adesso sente tutto il peso del momento e del ruolo. «Ho ricordato agli studenti che abbiamo alle spalle tre scioperi generali, in questi due anni, che la Cgil ha proclamato sulle condizioni del futuro e sulle questione della crisi, e ho detto anche loro che nessuno esclude lo sciopero generale, ma anche che oggi, a nostro avviso, non ci sono le condizioni per proclamarlo», spiega il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, dopo aver ricevuto nella sede nazionale di Corso d’Italia la delegazione di studenti, venute a chiederle di accompagnare la loro protesta, appunto, con lo sciopero.
Le differenze tra i dialoganti, certo, sono persino linguistiche. Lo dice Daniele, studente universitario, appena esce dall’incontro. «Dobbiamo imparare a dialogare con la stessa lingua». Lo dice Susanna Camusso, che, nei giorni scorsi, oltre a condannare le «frange violente», ha corretto gli studenti persino su quel termine «assediare il parlamento», perché «le istituzioni non si assediano, si rispettano». E ci tiene anche ora che gli studenti usano «modalità» che approva «incontrare una serie di soggetti per rappresentare le loro istanze è una scelta molto positiva» a ribadirlo. Il presupposto del dialogo è il rispetto dei ruoli che ciascuno riveste. «Non siamo soliti aderire a manifestazioni di altri raggruppamenti premette Camusso e non vogliamo neppure mettere il nostro cappello sui movimenti, sostituendo in qualche modo la politica».
Ma il primo passo l’ha segnato la campagna della Cgil che recita: «Giovani non più disposti a tutto». E all’attivo la «lingua per dialogare» ha ormai già parecchie parole. E con quelle Susanna Camusso prova a interpretare anche le istanze e la rabbia che il movimento degli studenti esprime. «Le loro ragioni travalicano le critiche al disegno di legge Gelmini: il tema vero spiega il segretario della Cgil è quello di una generazione privata dal futuro». «Il grido che si leva delle piazze è quello di giovani che vorrebbero decidere del loro futuro», mentre dall’altra parte c’è un governo che sta creando «un debito» sempre più forte «sul loro futuro». Ecco, su questa cosa ripete Camusso gli studenti «hanno assolutamente ragione: il loro futuro e le sorti della loro generazione è il tema di questo paese». E non ci gira attorno: è «un grande tema sindacale». Come portarlo avanti si vedrà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. E «la Cgil troverà modi e forme per incontrare gli studenti e per ragionare su come costruire percorsi insieme».
Alla fine di quel percorso potrebbe esserci lo sciopero. Quella resta la parola su cui chiarirsi. «Non si tratta di uno strumento salvifico» e «per ora non è all’ordine del giorno», ribadisce il segretario della Cgil: «Nella storia d’Italia, fatta forse eccezione per il grande sciopero del 1945, non c’è mai stato uno sciopero generale risolutivo. E siccome è un sacrificio per i lavoratori, la Cgil lo farà solo quando saremo sicuri che potrà determinare cambiamenti effettivi: non si tratta di riempire le piazze ma di svuotare i posti di lavoro e bisogna evitare assolutamente quella condizione di indeterminatezza che si crea un minuto dopo lo sciopero». Ma il vero dialogo tra sordi resta quello con il governo: «Ci sarebbe bisogno di un esecutivo che vuole governare il paese dice Camusso -, contrastare la crisi e prospettare un futuro: quello che ha fatto finora è stato costruire un debito sulle spalle dei ragazzi».

l’Unità 23.12.10
Slitta la riunione di direzione per il voto al Senato, ma dentro il Pd si riapre la polemica sulle alleanze
La replica a Veltroni: «Questo Pd parla del Paese, progetta il dopo-Berlusconi e le idee non mancano»
Bersani: «Troppi tatticismi? Ma se io parlo dell’Italia...»
Bersani risponde alle accuse di tatticismo: «Questa storia che io sarei un tatticista non è vera. Io parlo dell’Italia». E la direzione fissata per oggi è slittata al 13 gennaio a causa del voto al Senato sulla riforma Gelmini.
di M. Ze.


Causa voto al Senato per la riforma dell’Università la direzione del Pd prevista per oggi slitta al 13 gennaio, come ha chiesto ieri mattina la capogruppo in Senato Anna Finocchiaro, perché altrimenti i senatori impegnati «nella difficile battaglia in aula» non avrebbero potuto partecipare. E al Nazareno più di qualcuno deve aver tirato un sospiro di sollievo per lo slittamento della direzione. La tregua interna come era prevedibile, come è nelle corde dei democratici, è durata infatti solo qualche giorno, poi proprio in vista del parlamentino convocato per oggi, sono ripartite le polemiche sulle alleanze.
A CHI PARLA IL PD
Pier Luigi Bersani oggi parlerà ai giornalisti nel corso di una conferenza stampa con la presidente Rosy Bindi e il vice segretario Enrico Letta, ma già ieri non ha mancato di rispondere a chi come Walter Veltroni e Paolo Gentiloni lo ha
accusato di tatticismi. «Io parlo dell’Italia ha risposto il numero uno del Nazareno -, questa storia che io sarei un tatticista non è per niente vera. Qui nessuno dice una parola sul Paese. Ieri (l’altro ieri per chi legge, ndr)) a Matrix il presidente del Consiglio ha parlato per due ore senza dire niente dell’Italia, mi chiedo quale altro capo di governo può fare una cosa del genere. E in ogni caso io farò il contrario: il problema è l’agenda e noi dobbiamo invertirla». Concetto che ribadirà anche oggi: il Pd non propone tatticismi ma una piattaforma di contenuti «che mette a disposizione di chi, più o meno timidamente, ritiene che il berlusconismo sia al tramonto». Ma a Bersani non piacciono le
continue «minacce» di uscite a mezzo stampa che ogni giorno i vari esponenti del partito lanciano verso il Nazareno, da Follini a Gentiloni. Altro discorso per Veltroni che ha annunciato le cinque proposte del Lingotto. «Le proposte sono sempre ben accette dicono i suoi e sicuramente sono più costruttive delle polemiche, ma non sono le proposte a mancare al Pd, molte sono state elaborate nelle Assemblee insieme ai componenti di Modem».
Di sicuro la direzione non sarebbe stata affatto «natalizia». Franco Marini è pronto a dare battaglia a chi vuole mettere in discussione la leadership, Beppe Fioroni a ribadire che «il Pd deve rilanciare un forte progetto riformista tale da risultare molto attraente per Casini e il suo Polo». Poi, c’è chi come Nicola Latorre, dalemiano della prima ora, punta a rifondare il Pd con Nichi Vendola, che invece aspira alla premiership. Ieri Fioroni, che vede come fumo negli occhi un’alleanza Sel-Idv, ha parlato a lungo con Casini: «Se vuoi concorrere a realizzare un Polo per arrivare primo, ti devi alleare con noi del Pd, altrimenti finirai terzo». Casini non si sbilancia. Per ora. Nel frattempo i rumors di palazzo raccontano di un documento scritto in occasione della direzione dall’ex popolare nel quale si ribadisce la preferenza dei democrat per un’alleanza con i centristi. «Minchiate...» la risposta di Fioroni.

Corriere della Sera 23.12.10
Pd, rinviata la direzione. Veltroni: correggere la rotta
di  M. Gu.


ROMA — «Questa storia che sarei un tatticista è la meno vera, domani in direzione parlo di Italia...» . Il Pier Luigi Bersani delle tre del pomeriggio di ieri è già datato, oggi la direzione del Pd non si terrà, rinviata al 13 gennaio. La spiegazione ufficiale è che oggi a Palazzo Madama è in agenda l’ultimo sì alla riforma universitaria e i senatori democratici non potranno lasciare i loro scranni. Ma dietro al rinvio ci sarebbe anche la tensione con la minoranza, che aveva spinto per far slittare la riunione del parlamentino a dopo la sentenza della Corte costituzionale sul legittimo impedimento. Walter Veltroni, su L’Unità, ha marcato la distanza con la linea della segreteria. Ha chiesto una «correzione di rotta» e calcato gli accenti su vocazione maggioritaria, idee riformiste e primarie come «regola» del Pd. «Per ora vedo prevalere un’oscillazione di posizione che mi sembra nascere da un vizio originario, la prevalenza della tattica sulla strategia — attacca l’ex segretario —. Un giorno guardiamo a Vendola, un altro a Casini e così rischiamo di sbattere contro un muro. Non possiamo perdere la nostra ambizione e cercare affannosamente alleanze con forze che non ci vogliono...» . Veltroni frena, ma non è un mistero che nella minoranza l’idea di una rottura insanabile non sia più un tabù. Lo fa capire Paolo Gentiloni quando dice, al Sole 24 Ore, che «rifondare il Pd» è il terreno di scontro di chi si oppone a Bersani: «Prima di rinunciare a 15 anni di lavoro dedicati a fondare un grande partito democratico abbiamo il dovere di una battaglia. Certo, il tempo non è infinito» . Il Pdl è in pressing sui cattolici di Beppe Fioroni, ma il responsabile Welfare mette a tacere sospetti e insinuazioni: «Voglio costruire un’alleanza tra il Pd e Casini, che senso ha che vada io da lui?» . Eppure non è sfuggito ai bersaniani il lungo colloquio alla Camera tra il leader dell’Udc e Fioroni. Il quale non lancia «ultimatum» , ma spinge Bersani a «cercare un profilo tranquillizzante e innovatore se davvero vuole costruire un’alternativa credibile e allearsi con il centro» . E anche Marco Follini esorta Pd e terzo polo a non «arroccarsi nei loro particolarismi» per non prolungare la vita politica di Berlusconi. La strada sembra tracciata. L’ex premier Giuliano Amato ha detto al Corriere che il centrosinistra «è ancora alla ricerca di un’anima» , però concorda con quanti pensano che l’alleanza tra Pd e terzo polo «può avere un futuro» . Oggi parla il premier e Bersani ha convocato una contro-conferenza stampa, con Rosy Bindi ed Enrico Letta. Il vicesegretario non commenta Veltroni ma chiede «di lavorare tutti per l’unità» e anche la presidente Bindi risponde indirettamente all’ex segretario: «Con l’approvazione della mozione Bersani sul fisco alla Camera, il Pd conferma il suo profilo riformatore» . Quale sia lo stato d’animo di Bersani nei confronti di Veltroni e della minoranza il leader lo lascia intendere durante il brindisi di Natale al partito, quando invita i dirigenti a occuparsi del Paese e a «tenersi fuori dalle chiacchiere» . Ma i «rottamatori» attaccano. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, polemizza con Anna Finocchiaro. E Pippo Civati lancia un referendum tra iscritti ed elettori contro la cancellazione delle primarie. Adesioni? Roberto Della Seta, Francesco Ferrante, Ermete Realacci. E anche Ignazio Marino critica Bersani: «È andato a pranzo con Vendola e ha detto "facciamo le primarie", quindici giorni dopo "non le facciamo, ci alleiamo col centrodestra..."» .

l’Unità 23.12.10
Intervista a Vasco Errani
«Sbaglia chi vuole logorare la leadership del partito»
Il presidente della Conferenza Stato-Regioni: «Con la grande manifestazione di Roma il Pd ha lanciato un segnale chiaro, bisogna partire dalle grandi riforme e dalla questione lavoro»
Cambio di rotta «Non capisco cosa voglia dire “cambio di rotta”. Bersani è stato molto chiaro: bisogna indicare al Paese una nuova prospettiva»
di Maria Zegarelli


Siamo in una fase straordinaria di crisi della Repubblica e di sistema, se qualcuno lavora per logorare la leadership del Pd vuol dire che non ha capito nulla di quello che sta accadendo. Non possiamo permetterci il lusso di sprecare le nostre energie in queste dinamiche». Vasco Errani, governatore Pd dell’Emilia Romagna, nonché presidente della Conferenza Stato Regioni confessa che non ne può più di assistere a questa «rappresentazione di un partito fragile, strattonato, perché anche se qualcuno strumentalmente favorisce il gioco, resta un dato: il Pd è stato l’unico partito in questi mesi a mantenere la rotta, facendo un’opposizione ferma e decisa e indicando un percorso». A proposito di rotta, Veltroni dice che è arrivato il momento di cambiarla. «Io parto da quanto ha detto il segretario Bersani. La sua proposta, che condivido pienamente, è lontanissima dal politicismo e dall’inseguimento di Sel o dell’Udc. Il segretario parla al Paese, partendo da un dato di fatto: l’Italia si trova in una situazione di criticità molto seria, c’è un problema che attiene alla crisi economica e alle istituzioni e c’è un governo che non è in grado di garantire una prospettiva a questo Paese. La funzione nazionale del Pd si misura proprio nel darne una nuova e il segretario l’ha indicata. Non capisco cosa si intenda per cambiamento di rotta». Una delle critiche mosse al Pd è stata quella di non essere riuscito a far cadere il governo per mancanza di un’alternativa credibile. Critica ingenerosa o c’è un fondo di verità? «Il nostro obiettivo, condiviso da tutto il partito, è stato quello di far consumare in Parlamento la crisi e di costruire un governo di responsabilità nazionale per ripristinare le condizioni istituzionali, sociali e politiche per tornare ad una nuova dialettica. Questo non è avvenuto, perché Berlusconi ha fatto la campagna acquisti, è un fatto grave, ma possiamo costruire i presupposti per fare la nostra battaglia nel Paese e chiudere con il berlusconismo. Soltanto il Pd può rappresentare il punto di svolta su alcune questioni di fondo, con scelte fondamentali per la crisi sociale ed economica e il cambio della legge elettorale». Veltroni propone cinque punti forti per riallacciare la sintonia con il Paese, quindi lei è d’accordo?
«Scusi, ma Bersani cosa ha detto se non questo? Con la grande manifestazione di Roma ha lanciato un messaggio chiaro: il Pd parte dalle grandi riforme, istituzionali e sociali, e dalla grande questione che oggi rappresenta il lavoro. Poi, su queste basi costruisce il suo programma rivolgendosi alle forze politiche che le condividono».
Lei sta invitando a chiudere il dibattito su chi sta con chi? «No, io dico: parliamo con tutti quelli che mettono avanti gli interessi del Paese e vogliono costruire una prospettiva nuova per questa Italia».
Se la rotta è chiara, come se li spiega i crescenti malumori nel suo partito? «Non mi convince il modo di ragionare di certi esponenti del Pd, penso che avremo modo di riflettere tutti insieme per trovare una sintesi partendo dall’analisi della situazione dell’Italia».
Errani, ma le elezioni anticipate non sono scongiurate. In tal caso il Pd dovrà pur allearsi con qualcuno. Terzo Polo o Vendola e Di Pietro? «Anche la vicenda del ministro Prestigiacomo, che ha lasciato il Pdl, conferma ancora una volta che la maggioranza è in una crisi di progetto senza ritorno. Se ci fossero le elezioni il Pd dovrebbe illustrare i punti cardine del proprio programma e, ripeto, sulla base di questi costruire le alleanze. Sono convinto che questo ragionamento sia compreso non solo dagli elettori di centrosinistra ma anche dai tanti delusi del centrodestra perché la crisi che stiamo vivendo non nasce dalla rottura tra Fini e Berlusconi ma dal fatto che il progetto di questa destra non regge più e che non risponde alla crisi economica e sociale in atto».

l’Unità 23.12.10
La sfida plurale del Pd
I partiti del capo e la scelta di Bersani
di Angelo Argento, direzione nazionale del Pd


Plurale non è una regola. Non una questione di numero. Ma sovvertendo la grammatica, plurale è una questione di genere. Un genere diverso che incarna, oggi, solo il Partito Democratico. Solo il Pd è un partito plurale con anime pensanti e parlanti. Con parole che acquistano potere dall’espressione individuale, dall’ascolto corale, dalla sintesi condivisa. Al contrario dei movimenti e delle organizzazioni, espressione unica della voce solitaria del padrone. Berlusconi è l’anticipatore di un fenomeno che un re del pensiero libero, come Giorgio Gaber, aveva sintetizzato agli albori della discesa in campo del cavaliere: «Non ho paura di Berlusconi in sé, ho paura di Berlusconi in me». L’incarnazione di una realtà inesistente che si è introdotta come un virus in tutte le formazioni che parlano con un solo tono: Di Pietro per l’Idv, Vendola per Sinistra ecologia e libertà, Pannella per i radicali, Storace con La Destra, Casini con l’Udc e Fini che non ha saputo resistere alla tentazione del simbolo con tatuato il nome del condottiero. Plurale è un valore, quindi. Intrinseco ripeterlo è utile solo al Pd, dove le minoranze che hanno ragione di essere rispettate, acquistano spessore politico in un rispetto altrettanto doveroso: quello delle maggioranze che si sono espresse, democraticamente, e hanno indicato il leader in Pierluigi Bersani.
E Bersani che è un segretario che vive la pluralità e la interpreta, è l’espressione più eloquente di questa linea: indicato a dirigere il partito per quattro anni, ha offerto una proposta di riflessione interna sulla scelta del candidato premier forte e chiara. Nonostante lo statuto lo indichi naturalmente, quale vincitore delle primarie.
La prossima direzione nazionale del Pd è il luogo in cui affronteremo questi temi senza preclusioni verso le richieste che provengono dall’esterno ma che non possono rappresentare un diktat né un obbligo morale. Non saranno le spinte centrifughe di Vendola che invoca il nostro elettorato di sinistra e nemmeno quelle di Casini che richiama all’appartenenza cattolica i democratici moderati, a imporre la linea al Pd. Che su questo tema, sulla riconoscibilità di un percorso ragionato, scelto e condiviso, marca la propria differenza. A partire dall’uso delle primarie quale strumento per la selezione dei candidati al Parlamento, scardinando nei fatti una legge, prima dell’appuntamento con le urne, che blinda le liste elettorali. Non nominati, quindi, nel nostro partito, ma candidati liberamente scelti nelle circoscrizioni. Un primato di democrazia.
Il Pd vince se difende a destra e a sinistra le ragioni fondative della propria nascita e contemporaneamente costruisce le basi per raggiungere un obiettivo più alto e ambizioso. Sconfiggere, definitivamente, Berlusconi e il berlusconismo ovunque esso si annidi, senza replicarne lo stile e le modalità.

l’Unità 23.12.10
I Rottamatori: «Il vertice del Pd mai così lontano dagli elettori»
di Adriana Comaschi


Giurano che alla prossima tappa, il 16 gennaio a Bologna, da «rottamatori» si trasformeranno in «carrozzieri» per dare nuovo slancio e contributi alle primarie bolognesi. «Siamo per le primarie sempre e comunque, anche per la scelta dei parlamentari», detta infatti il portavoce Filippo Taddei. Intanto Pippo Civati, promotore con il sindaco di Firenze Matteo Renzi del movimento nato alla stazione Leopolda, dà un’altra scossa al partito. Con la proposta di un referendum tra iscritti ed elettori per “testare” la linea su primarie ed alleanze. In poche ore tocca le 500 adesioni. E il rinvio della Direzione nazionale prevista per oggi non stempera la questione «di principio», sollevata da Civati sulla pagina Fb. «La distanza tra elettori e vertici Pd non è mai stata così grande scrive -pensiamo si debba dare voce agli elettori anche sulla direzione politica da seguire». E più chiaramente: «Il dibattito tra i dirigenti appare scontato, sono quasi tutti d’accordo con la linea terzopolista e senza primarie di Bersani. Come dice Veltroni, se si è davanti a una scelta radicale è giusto consultare gli elettori». Dunque «vedremo se indire un referendum ai sensi dell’articolo 27 dello Statuto». Ovvero quello che disciplina «forme di partecipazione alle decisioni del partito». Poco importa che ancora non ci siano i regolamenti per attuarlo, anzi per Civati questa è l’occasione «per mettere finalmente a punto gli strumenti» attraverso cui ridare voce alla base. Iniziativa «da prendere in seria considerazione» per il responsabile Green Economy Pd, Ermete Realacci («le primarie sono indispensabili, meglio scommettere sul rapporto con i cittadini che sulle alleanze»); una «gianduiata» per il vicepresidente democratico della Commissione vigilanza Rai Giorgio Merlo. Civati ribatte che il referendum è fattibile: servono le firme del 5% degli iscritti, «dunque circa 20 mila».

l’Unità 23.12.10
Lo scandalo Milleproroghe C’è il 5xmille con truffa
Tolti 50 milioni all’editoria
Dimezzamento dei contributi per l’editoria, da 100 a 50 milioni, e azzeramento dei 45 milioni per tv e radio locali. Il milleproroghe recupera così i fondi per il 5 per mille. Niente soldi allo Fus, il fondo per lo spettacolo.


il presidente della Fieg (Federazione degli editori di giornali), Carlo Malinconico, sottolinea «il totale disinteresse per chi amministra aziende in gravi situazioni finanziarie, che nel giro di pochi giorni vede mutare il quadro di riferimento». Durissima la Fnsi, che parla di «governo schizofrenico che indossa le vesti di un Babbo Natale che elargisce doni rubati». Un gruppo di senatori del Pd, peraltro, ricorda in una nota che «il cinque per mille è una misura di civiltà che allo Stato non costa nulla».

Fus e cinema Stralciato il reintegro per il Fondo Unico dello Spettacolo, già annunciato da mezzo governo, che resta dunque inchiodato alla cifra di 258 milioni di euro. Gli incentivi al cinema sono stati prorogati, ma solo fino al giugno 2011, per 45 milioni. Il Pd parla apertamente di «brodino» dato ad un ammalato. La copertura dei finanziamenti resta peraltro un mistero. Per il momento almeno, infatti, è stato smentito il rincaro di un euro dei biglietti del cinema.

l’Unità 23.12.10
I«ribelli» Al Teatro Valle slitta di 20 minuti lo spettacolo di Emma Dante e volano i volantini
Non solo precari Le associazioni: il «milleproroghe» decreta la morte dello spettacolo in Italia
Cultura: rivolta nei teatri Scatta la protesta a Roma
Al Valle di Roma sono entrati con le orchestrine e hanno fatto slittare la «Cenerentola» di Emma Dante. Ma la rivolta dei lavoratori della cultura è generalizzata: «La precarietà provocata da come viene gestita la crisi».
di Luca Del Frà


«Donne! Sono arrivati i precari della cultura» scandiscono sulla falsariga del grido dei moderni arrotini, mentre martedì sera irrompono a sorpresa nel Teatro Valle poco prima dell’inizio del debutto capitolino di Cenerentola di Emma Dante: sono festosi, caciaroni, colorati e anche piuttosto arrabbiati. Il pubblico, inizialmente sorpreso, li accoglie subito dopo molto calorosamente con vere ovazioni: ma chi sono esattamente questi «disturbatori», che protestano contro i tagli della finanziaria 2011? È un movimento che salda assieme divere facce del mondo della cultura. Loro si dicono i lavoratori dell’immateriale, definizione assai vaga, ma nei giorni in cui sindacati e associazioni di categoria incassano il pugno di mosche che il governo ha riservato loro nel «decreto milleproroghe», sono loro ad apparire la novità della crisi endemica che affligge la cultura italiana da oramai oltre 15 anni.
Sono diverse settimane che associazioni come 0.3 e il Maud (i precari e le donne nello spettacolo dal vivo), Tutti a casa (i lavoratori dell’audiovisivo), la Rete 29 aprile (docenti e ricercatori) e gli studenti manifestano assieme. Al Valle arrivano con due orchestrine e sono circa una cinquantina, mentre di solito questi appelli li leggono in due o tre con aria seriosa. Loro invece mettono in scena una specie di spettacolo, dove una giovane attrice come Melania Giglio, tante volte nei lavori teatrali di Luca Ronconi, scandisce: «La precarietà non è provocata dalla crisi, ma dalle politiche che gestiscono la crisi». Applausi. Tocca a un ricercatore dell’università: «Siamo qui a dirvi che la cultura è sotto assedio». E giù dai loggioni del Valle volantini come nella sequenza iniziale di Senso di Luchino Visconti, per poi irridere dicendo: «Il teatro non morirà mai, caso mai a morire saranno loro». Vanno via al grido di «Viva l’Italia», un omaggio forse immeritato a una nazione che in fondo per i lavoratori della cultura ha dato poco e adesso dà molto poco.
Emma Dante, che ha visto la sua prima slittare di circa 20 minuti, li guarda dal fondo della platea senza battere ciglio; la sua compagnia non esce a solidarizzare con la protesta, di cui peraltro era stata informata. Un segno a suo modo emblematico di una divisione più generale che attraversa in questo momento il mondo della cultura: da una parte i precari, i veri intermittenti, dall’altra chi, per quanto contrario ai tagli e alle politiche dell’attuale governo, si sente in qualche modo ancora garantito.
Ma l’illusione di questi ultimi dura poco, l’ennesima doccia fredda arriva ieri. Con un sistema spettacolo ridotto al lumicino: Agis, Federculture, Sindacati e 100 Autori venti giorni fa avevano chiesto al governo 7 interventi immediati: il consiglio dei ministri ne accoglie appena un paio e solo molto parzialmente nel «milleproroghe». Mentre il movimento, attori studenti e ricercatori, era in strada a Roma a bloccare la tangenziale, eufemisticamente il
presidente di Federculture Roberto Grossi vedeva nelle decisioni del governo il rischio di un arretramento e «non solo culturale». Più articolata e nervosa la reazione dell’Agis: il presidente Paolo Protti e il viceprediente Maurizio Roi accanto alla pacatissima soddisfazione per il parziale prolungamento del tax shelter –appena sei mesi, quando erano stati chiesti tre anni–, incalzavano dicendo che il “milleproroghe” «decreta semplicemente la morte dello spettacolo: fondazioni liriche, teatri pubblici e privati, compagnie. Dunque a Palazzo Chigi si è celebrato un funerale». In questi giorni sindacati e associazioni di categoria si riuniranno nuovamente per capire il da farsi, dovendosi confrontare con un ministro come Bondi, che per l’ennesima volta aveva promesso un reintegro che per l’ennesima volta non è arrivato.

Repubblica 23.12.10
Le mamme sole. La rivincita delle ragazze madri
Sempre più numerose le donne che decidono di allevare i figli senza il padre. Ragazze madri per scelta e non perché abbandonate. Ecco le loro storie
di Vera Schiavazzi


Donne decise a far da sé anche con svantaggi nel reddito e nessun aiuto dal Welfare Marzia P., direttore di banca: "Con una legge sulle unioni di fatto sono pronta a ripensarci" "Una decisione coraggiosa che richiede grande dedizione sia al lavoro che a casa" Orgoglio e nessun pregiudizio: aumentano le mamme sole per scelta. Spesso sono professioniste del Nord che non hanno legami stabili: il padre biologico non è riconosciuto ma capita che abbia ugualmente rapporti col figlio. Anche se è scomparsa la "condanna sociale" le difficoltà restano

La "ragazza madre"? Un (triste) ricordo del passato. Oggi le madri sole sono un esercito, piuttosto fiero di esserlo almeno nelle sue avanguardie. Per scelta deliberata o per avventura, fin dall´origine, come quelle 1.298 signore che hanno sbarrato la voce "padre" sui moduli per chi partorisce alla milanese Mangiagalli. Organizzate, come quelle dei blog specializzati (singleandkids promuove appuntamenti e vacanze con lo sconto, genitorisoli dà notizie legali e pratiche) o individualiste e disposte a lavorare per due. «Il fenomeno - conferma Alessandro Rosina, demografo e attento osservatore dei cambiamenti della famiglia italiana - procede con la stessa velocità di quello dei padri soli, anche se le percentuali sono molto diverse. E, certamente, la condanna sociale che accompagnava una donna con figli nati fuori dal matrimonio è pressoché scomparsa». Paradossalmente, gli svantaggi (quando ci sono) collegati alla vita di madre senza né mariti né compagni colpiscono soprattutto la donna, meno il bambino. Come spiega Tilde Giani Gallino, psicologa dell´età evolutiva: «Che cosa c´è di così tanto diverso tra crescere soltanto con la mamma o farlo in una casa dove i genitori sono due, ma il padre è sostanzialmente assente e si occupa al massimo di guadagnare lo stipendio, ma non certo dell´educazione? Fino a venti o trent´anni fa, in Italia non esistevano i papà attivi e premurosi che piacciono tanto alla sociologia attuale, ma soltanto dei signori piuttosto burberi che rincasavano a tarda sera, si gettavano sfiniti sul divano e intimavano a tutti di non disturbarli».
C´è poi mamma e mamma: «Tra tutte le donne che decidono di non far riconoscere il figlio al padre biologico esistono modelli anche lontanissimi tra loro. C´è quella che è veramente sola, più o meno felice di esserlo; c´è la coppia di donne che intende allevare insieme il bambino; ci sono i molti legami "destrutturati" tipici della nostra società, quelli delle coppie che preferiscono evitare il matrimonio», sottolinea Giani Gallino. Che conclude: «Per anni, sedicenti esperti ci hanno spiegato che i "figli del divorzio" avrebbero subito traumi terribili al momento di andare a scuola. Non è accaduto, e ora in molte classi delle città del Nord la minoranza sono i bambini che convivono con entrambi i genitori. Piuttosto, la scelta della mamme sole è coraggiosa soprattutto per loro e richiede una dedizione notevole, sul lavoro e a casa».
L´Istat ha pubblicato cinque anni fa l´ultimo lavoro sul tema, ma alcune tendenze restano le stesse. Essere mamme sole spinge al lavoro, il più possibile intenso e retribuito, assai più che la condizione di donna sposata, e ciò è tanto più vero a mano a mano che i figli crescono (non essendo gli eredi delle single meno "bamboccioni" degli altri). E se, quando c´è un marito e un figlio adulto in casa, soltanto il 49 per cento delle italiane continua a lavorare, quando il partner è assente la percentuale sale al 63 per cento. Le single con figli, però, hanno almeno un vantaggio: niente camicie da stirare, cene da preparare per adulti esigenti o cappotti maschili da ritirare in tintoria, almeno secondo i dati sull´uso del tempo registrati da Istat. Alle donne in coppia serve un´ora e mezzo al giorno in più da dedicare alla famiglia (6 ore e 44 minuti contro le 5 ore e 12 di chi non ha un compagno). Restano più a lungo in ufficio (6 ore e 52 contro le 6 e 14 delle sposate che hanno un´occupazione) e godono di una rete di aiuti "informali" senza la quale la vita sarebbe impossibile. «Il fenomeno riguarda sempre di più anche donne istruite e professioniste - dice l´economista Daniela Del Boca - Sono loro a stabilire con più difficoltà relazioni stabili e al tempo stesso ad avvertire l´ultimatum dell´orologio biologico».
«La crescita delle "sole per scelta" è evidente in Italia, ma pur sempre in misura minore rispetto al resto d´Europa, perché da noi le donne sanno di non poter contare su un Welfare capace di aiutarle davvero», osserva un´altra demografa, Letizia Mencarini. «La condanna sociale è quasi scomparsa, non però lo svantaggio collegato al reddito o a certe situazioni particolari in alcune comunità immigrate, dove precarietà sociale e disgregazione della famiglia sembrano coincidere». A rischio di povertà (proprio come accade ai genitori separati e divorziati), le mamme single godono però di libertà speciali, come quella di dividere il loro tempo con persone (i figli) nate in un´epoca di rivoluzione dei ruoli. Per apprezzarlo, basta leggere le testimonianze online: «Pietro ha 8 anni, ed è in assoluto il maschio più gentile col quale ho avuto a che fare. Ci piace andare al cinema, e scelgo sempre io senza mai una protesta, mangiare una pizza sul tavolo di cucina, sparecchiare la tavola e cantare in macchina. Da quest´anno ha le chiavi di casa e appena rientra da scuola mi chiama in ufficio. Suo padre? Lo conosce e lo frequenta, ma non tornerei indietro: sapevo che non saremo mai stati una coppia, e ho preferito non farglielo riconoscere».
Più complessa, invece, è la situazione sul fronte della legge. Da tre anni, alle donne che cambiano idea e decidono di chiedere il riconoscimento del bambino ad un padre biologico che è fuggito (o è stato allontanato) al momento della nascita non servono prove preliminari: il ricorso finisce direttamente sul tavolo del giudice per i minori. «Il tempo non conta, possono essere passati anche dieci o vent´anni, anche il figlio diventato adulto può chiedere che sia identificato il suo padre biologico», spiega l´avvocato Gian Ettore Gassani, presidente dell´Unione dei matrimonialisti italiani. «Nell´esperienza italiana, oggi, le ragioni vengono per lo più riconosciute a chi le ha, mentre per un maschio che voglia avanzare diritti contro la volontà della donna la strada è giustamente assai più difficile: tocca a lui provare che c´è stata una relazione e - solo dopo averlo fatto - chiedere la prova del Dna, che ormai è rapida, sicura e non invasiva». Ma i casi di azione legale "al contrario" si contano in poche centinaia, e sono pochi anche i ragazzi cresciuti che chiedono che sia la legge a dare loro il padre che non hanno avuto: «Accade soltanto quando il genitore biologico è ricco, e, in misura minore, nei piccoli centri del Sud, dove vivere col cognome materno può essere ancora un peso», dice Gassani. Nel resto del mondo, sono nate le prime associazioni "militanti": Single Mothers by Choice è stata la prima, negli Stati Uniti, mentre in Spagna Madres solteras por eleccion ne ricalca il modello. La ricetta? Orgoglio e nessun pregiudizio. Le prime ad aderire sono state le donne che avevano fatto ricorso a un donatore anonimo per diventare madri, e si battevano (e si battono) contro le mille azioni legali per rivendicare a posteriori diritti ceduti in cambio di denaro. Ma lungo la strada hanno cominciato a unirsi a loro anche donne decise a far da sé nonostante l´esistenza di un padre ben noto, e quelle che avevano cambiato idea durante la gravidanza o al momento del parto. «Perché dovrei dare a un altro la possibilità di decidere su mio figlio quanto me, anche se la legge non lo obbliga nemmeno a un versamento preciso di denaro, dato che non siamo sposati? - si chiede Marzia P., direttore di banca, sul blog di "alfemminile" - Quando le unioni di fatto saranno riconosciute, sono disposta a ripensarci. Ma per adesso, se devo far da sola preferisco farlo fino in fondo».

Repubblica 23.12.10
Ma dietro il fenomeno c'è il boom delle coppie di fatto

Ora sanno di farcela anche se sono single
di Chiara Saraceno

L´aumento delle donne che, al momento del parto, non indicano il padre segnala certamente un forte mutamento nei modi di fare famiglia, ma non necessariamente nel senso di un aumento vistoso della voglia da parte delle donne di fare e crescere un figlio da sole. È probabile che, in quel 22% di madri che ha partorito quest´anno all´ospedale Mangiagalli di Milano e non ha dichiarato chi era il padre al momento della nascita del figlio, ce ne sia qualcuna che ha deciso di avere un figlio anche senza avere a fianco un partner affidabile e con voglia di impegnarsi in un progetto genitoriale comune.
La sicurezza circa la legittimità delle proprie scelte, la consapevolezza che anche la presenza stabile di un compagno non sempre garantisce la condivisione non solo delle spese, ma delle responsabilità educative e relazionali della crescita di un figlio, rende possibile oggi ad una donna, specie se istruita, con un buon lavoro, che abita in una città metropolitana del Centro nord, di "farcela da sola". Magari con un po´ di aiuto dei genitori, della propria mamma, come avviene anche per chi un compagno ce l´ha, ma ciò non l´aiuta molto nel barcamenarsi tra maternità e lavoro remunerato. Tuttavia ho la fondata impressione che la maggior parte di queste madri abbia in realtà un compagno, con cui probabilmente convive stabilmente. Ma se non si è sposati, per la legge italiana il padre non può riconoscere il figlio al momento della nascita, così come avviene in automatico per i padri sposati alla donna che ha partorito. Deve aspettare che la madre sia in grado di alzarsi e andare con lui all´ufficio anagrafico dell´ospedale, o più tardi all´anagrafe comunale, per dichiarare che, effettivamente, lui è il padre. Questa attesa può essere evitata, e il padre può denunciare la nascita anche a proprio nome, solo se la coppia ha avuto l´accortezza di recarsi preventivamente all´anagrafe, a partire dal settimo mese di gravidanza, per dichiarare che il nascituro è anche figlio di lui. Ma anche in questo caso, al momento della nascita, prima che il padre abbia potuto fare la denuncia, il bambino sarà indicato (ad esempio sul braccialetto che viene apposto a mo´ di identificazione) con il cognome della madre.
Il forte aumento di cosiddette "mamme sole" al momento del parto, in altri termini, è in larga misura un prodotto delle norme di stato civile a fronte dell´aumento delle coppie che convivono senza, o prima di, sposarsi e che in misura crescente hanno anche un figlio senza, o prima di, sposarsi. Ricordo che in Italia ormai una coppia su quattro tra quelle che si sposano oggi ha convissuto, e una parte di queste ha anche avuto uno o più figli, prima di sposarsi. Il fenomeno è più accentuato nel Centro nord e nelle grandi città, come, appunto, Milano. Esso smentisce chi sostiene che chi convive è tendenzialmente irresponsabile e non ha progetti per il futuro. Piuttosto, il complesso iter burocratico che devono espletare le coppie conviventi per consentire il riconoscimento di paternità esplicita, direi in modo esemplare, quanto oggi la paternità dipenda dal consenso della madre. Non solo per procreare occorre ottenere il consenso della donna a mettere in gioco il proprio desiderio e il proprio corpo. Anche per diventare socialmente padri occorre che le madri consentano. È la madre, nel caso di procreazione fuori dal matrimonio, che dichiara che il padre è tale. Questa consapevolezza dovrebbe sollecitare qualche interrogativo sull´automatismo per cui, per diritto di status (matrimonio) o concessione materna, sia il suo cognome a prevalere e quello della madre a sparire. Ma questa è un´altra storia.


il Fatto 23.12.10
Nordisti. Un borgomastro per i razzisti
di Gianni Barbacetto


“Noi siamo eletti e dobbiamo rendere conto ai milanesi delle nostre decisioni. Purtroppo i giudici non sono eletti e questo a volte può creare a noi amministratori qualche difficoltà”. Mai frase di Letizia Moratti fu più sintomatica della sua inadeguatezza istituzionale. La dichiarazione è stata pronunciata dopo la sentenza del Tribunale civile di Milano che riconosce il diritto di avere una casa popolare a dieci famiglie di rom romeni. Una sentenza obbligata: a maggio, il Comune di Milano aveva firmato, assieme al prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi e ad alcune onlus che sostengono i nomadi, una convenzione che impegnava il Comune ad assegnare alcuni alloggi alle famiglie rom. Anche perché nel luglio 2009 il ministero dell’Interno (occupato dal leghista Roberto Maroni) aveva stanziato 13 milioni di euro proprio per affrontare “l’emergenza rom”. Dunque, non c’è storia: il ministro mette i soldi, il prefetto vigila, il sindaco di Milano accetta e s’impegna. Ma c’è un ma: le elezioni. Tra qualche mese si vota, anche a Milano, per eleggere il sindaco. Ecco allora un clamoroso voltafaccia: la Lega vuol farsi vedere dagli elettori inflessibile contro i nomadi; Moratti rincorre la Lega, puntando sugli istinti razzisti che circolano a Milano e quindi, smentendo se stessa, blocca le promesse assegnazioni delle case popolari. Segue ricorso delle famiglie rom e il processo più facile del mondo: chi ha firmato un documento deve mantenere l’impegno, non può cambiare idea solo perché è entrato in campagna elettorale (e i rom non votano). A questo punto le reazioni. Quella della Lega, nella sua rozzezza razzista, è perfino comprensibile: non dobbiamo togliere le case ai “nostri”, i rom vadano a farsi fottere, chissenefrega delle convenzioni firmate. E “se i giudici vogliono fare politica, si facciano eleggere, poi giudicheranno i cittadini”, come ha detto tre giorni fa il capogruppo del Carroccio Matteo Salvini. Che cosa vuoi rispondere, davanti alla geometrica idiozia di un tale ragionamento? Bisognerà ripetergli la stessa frase, chissà, quando Salvini magari si rivolgerà a un magistrato dopo aver deciso di vendere l’auto a un compratore che ha cambiato idea e non gliela vuole pagare. E Letizia Moratti? Lei no, lei tenta una diversa argomentazione. E finisce per fare peggio, povera donna. Il suo è stato un clamoroso voltafaccia: prima s’impegna e poi tradisce l’impegno preso. Ma in più ci aggiunge un abbozzo di ragionamento politico, col risultato di peggiorare le cose. Dice: i giudici decidono così perché non sono eletti, io ho deciso il contrario perché devo essere rieletta. Attenti: è diverso da quello che dice Salvini. Ma non migliore. Proviamo a sviluppare il suo piccolo ma inquietante pensiero: i magistrati possono permettersi il lusso di fare una scelta di giustizia, sulla base delle leggi che dicono che gli impegni firmati vanno mantenuti; ma io non posso, poverina, non posso proprio permettermi di fare una cosa solo perché è giusta, poiché se voglio essere rieletta devo compiacere la pancia dei milanesi peggiori (gli altri purtroppo votano Giuliano Pisapia). Così rinuncia a essere sindaco della città per diventare il borgomastro dei razzisti, tradisce le istituzioni per schiacciarsi su una parte (e la più retriva). Bene ha fatto il procuratore aggiunto Armando Spataro ad aprire un’inchiesta penale per discriminazione razziale. La legge è ancora uguale per tutti e i magistrati, per fortuna, non sono ancora eletti dal popolo.

Corriere della Sera 23.12.10
Case negate ai rom, indagine per razzismo
di Andrea Galli


MILANO — Un’altra indagine, un altro ricorso, una nuova minaccia. Telefonata in studio, in mattinata, voce maschile, ha risposto l’avvocato Alberto Guariso: «Chi difende gli zingari è un uomo morto» ha sibilato il tizio. Lunedì Guariso ha vinto il ricorso di dieci rom che s’erano visti togliere dal Comune delle case per le quali avevano firmato un regolare contratto. Nel pomeriggio, la decisione del sindaco, nell’aria da subito: la Moratti farà ricorso. Poco prima, il procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati aveva aperto un fascicolo, affidato al procuratore aggiunto Armando Spataro. Per ora nessun indagato e nessuna ipotesi di reato nel fascicolo, un provvedimento che «trae origini dall’ordinanza del giudice civile nella quale si fa riferimento a possibili attività determinate da motivi di discriminazione razziale» . L’ordinanza del giudice Roberto Bichi (il quale, secondo Spataro, «ha ritenuto si debba dare esecuzione a una delibera adottata proprio dal Comune» ) è di lunedì. Dà ragione ai nomadi che si erano impegnati a lasciare il campo di via Triboniano, area che sarà sgomberata perché in zona Expo, in cambio per appunto di abitazioni. Il Comune aveva chiesto alla Regione di individuare alloggi, la Regione aveva eseguito, i rom avevano sottoscritto. Gli appartamenti, popolari, erano stati pescati nell’elenco di quelli tolti dalle graduatorie di assegnazione. Del resto erano in condizioni disastrose e bisognosi di ristrutturazioni. Eravamo in agosto. Poi a settembre, quando il progetto abitativo aveva spaccato la maggioranza, con gran parte del Pdl e soprattutto la Lega contro l’assessore Mariolina Moioli — lei per quel progetto di reinserimento sociale si era battuta e spesa —, a settembre, si diceva, lo stop. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva detto niente case. Così, ricorso dei rom. E adesso? Nell’ordinanza, il giudice ha stabilito un limite temporale massimo per aprire la porta di casa: entro il 12 gennaio. I nomadi hanno già fatto sapere che lunedì inizieranno il trasloco. Dopo aver attaccato la magistratura, ieri la Moratti ha detto: «Stiamo lavorando con il prefetto, l’autorità responsabile a Milano per l’emergenza rom. Tutte le decisioni sono state prese al tavolo della Prefettura» . Sempre lunedì, alla richiesta d’un commento dopo l’ordinanza, il prefetto Gian Valerio Lombardi aveva invitato alla massima collaborazione. Invito, o piuttosto appello, che in queste ore va ripetendo don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, cioè l’Onlus in prima fila nel sostegno ai nomadi e, attenzione, nell’ascoltare i residenti della zona di via Triboniano. «Loro come noi vogliono il superamento del campo» . Ci vivono 102 famiglie, nel campo. Quelle alle quali spetta un appartamento sono le 10 che avevano fatto ricorso più altre 15 che hanno siglato lo stesso progetto. Alcune famiglie torneranno in Romania. Per le altre è in corso la ricerca di altri alloggi, da rintracciare sul mercato privato. Nient’altro? No, anzi. Stamane, alle 11, in via Triboniano arriverà in visita l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi.

Corriere della Sera
Clandestini, più difficili le espulsioni
La nuova direttiva europea: un mese per l’ «allontanamento volontario»
di Michele Focarete Gianni Santucci


MILANO— La nuova direttiva europea sull’immigrazione, che entrerà in vigore domani, rischia di stravolgere l’intero meccanismo delle espulsioni dall’Italia. E di «azzerare» un decennio di leggi nazionali sulla «clandestinità» , riportando l’intera materia alla fase precedente al 2002, quindi prima che venisse promulgata la «Bossi-Fini» . I punti chiave di incompatibilità tra la direttiva europea e l’attuale legge italiana: invece dell’ «immediato accompagnamento alla frontiera» o, in alternativa, di una «detenzione» in un centro per l’espulsione (Cie), secondo la Ue allo straniero «clandestino» dovrà essere assicurato un periodo da 7 a 30 giorni per «l’allontanamento volontario» dall’Italia; il divieto di reingresso nel nostro Paese per uno straniero già espulso non potrà superare i 5 anni (la legge italiana oggi ne prevede 10); in caso di ricorso giudiziario, l’espulsione dovrebbe essere sospesa (blocco oggi non previsto). La direttiva europea 115 risale al 2008 e avrebbe dovuto essere recepita dall’Italia entro domani. Ciò non è avvenuto. Conseguenza: in base al principio del primato delle norme comunitarie, le regole nazionali dovrebbero essere sostituite e quelle incompatibili non dovrebbero essere più applicate. Qualcuno lo ha definito «un regalo di Natale» per gli immigrati. Di fatto i tribunali e i giudici di pace italiani sono da giorni impegnati ad approfondire la materia per capire come dovranno comportarsi. Ai giudici di pace di Milano è arrivata qualche giorno fa una comunicazione per ricordare che «l’attuazione della direttiva comunitaria... stravolgerà l’attuale sistema di espulsione» . È probabile che il tema esploderà dopo la metà di gennaio, quando i magistrati si troveranno ad esaminare procedimenti di espulsione scattati da domani in poi, e che quindi non siano già partiti sotto il «vecchio» sistema di regole. Di certo i 18 giudici di pace milanesi hanno avuto disposizione dal coordinatore dell’ufficio, Vito Dattolico, di applicare la nuova direttiva europea. «Viene introdotta una considerazione verso la persona — spiega Dattolico— che in passato spesso non c’è stata, in molti casi lo straniero era considerato niente più che un numero. Va ricordato che anche noi siamo stati un popolo di migranti» . È probabile che nelle prossime settimane il conflitto tra le legge italiana e quella comunitaria possa essere sollevato davanti alla Corte Costituzionale. — spiega l’avvocato Tommaso Cataldi, referente della sezione penale e immigrazione dei Giudici di pace milanesi: «In sostanza si torna all’antico, a prima della legge Bossi-Fini. Lo straniero sarà più tutelato, perché non potrà essere imbarcato su un aereo tanto facilmente e non potrà essere trattenuto nei Cie senza che ci sia pericolo di fuga o un rischio accertato per l’ordine pubblico. La direttiva europea considera solo come extrema ratio la limitazione della libertà personale e favorisce l’allontanamento volontario» . Un elemento centrale per capire come sarà applicata la direttiva ruota intorno al reato di clandestinità, introdotto dal «pacchetto sicurezza» del 2009. Le norme europee non si applicano infatti a espulsioni che siano conseguenza di una sanzione penale e quindi, alla lettera, non dovrebbero toccare l’Italia. Alcuni giuristi ritengono però che il reato di clandestinità sia stato introdotto proprio con l’obiettivo di «aggirare» la direttiva e che quindi non ne potrà limitare l’applicazione.

Corriere della Sera  23.12.10
Il veto di Francia e Germania che rimarca l’emergenza Rom
di  Luigi Offeddu


Lo aveva detto tre anni fa Florin Cioaba, re degli zingari, dal suo accampamento di Bucarest: «L’Europa non è pronta. Migliaia di rom dalla Romania e dalla Bulgaria lasceranno i loro Paesi nei prossimi due anni, e se la Ue non riuscirà a includerli nella società allora perderà il suo significato di istituzione» . Quest’ultima profezia era forse troppo radicale. Ma quanto all’Europa «non pronta» , la previsione si è rivelata azzeccata. Perché è proprio per questo che Francia e Germania hanno scritto alla Commissione europea, definendo «prematuro» l’allargamento dello spazio doganale di Schengen alla Romania e alla Bulgaria, un allargamento già previsto per il prossimo marzo; è a causa della parola che nella lettera non compare mai e tuttavia domina le preoccupazioni di tanti governanti, la parola «rom» : la prima minoranza etnica del continente, considerata a torto o ragione quella di più difficile integrazione, 12 milioni di anime che in maggioranza vivono nei Balcani. La lettera di Parigi e Berlino terrà chiuse quelle frontiere. «L’Europa non è pronta» , aveva detto re Florin. E quest’estate, ha confermato le sue parole Nicolas Sarkozy: spedite le ruspe nei campi abusivi di tutta la Francia, e avviato i rimpatri verso Bucarest, ha ingaggiato un duello di parole e principi con la Commissione europea. Qualche mese prima, era stata la volta della Gran Bretagna: grande preoccupazione per gli attacchi razzisti contro i nomadi dell’Ulster, e l’autorevole Times a spiegare «perché non dovremmo avere paura dei rom» . Per questi motivi ora Francia e Germania hanno pigiato sui freni di Schengen. Ma una frenata è come un cerotto, buona per l’emergenza. Resta che quello dei rom è un problema comune che va bene al di là dell’emergenza. L’Europa indecisa a tutto ha altre e grandi responsabilità, e la prima è quella dell’integrazione fra le sue genti: che non può essere lasciata solo a questo o quel governante, e neppure al re dei rom, ma deve essere condivisa e realizzata, finché c’è il tempo per farlo.

l’Unità 23.12.10
Il sondaggio. Il 55% favorevole al divieto di vendita o affitto a non ebrei
Gerusalemme. Giovani aggrediscono palestinesi: non toccate le nostre donne
Il fronte del no. la condanna di Burg, Sternhell, Michael, Yael Dayan e Shulamit Aloni
Un vento xenofobo soffia su Israele
Allarme degli intellettuali
Cinquanta rabbini contro la vendita di case ad arabi e stranieri, cortei anti-immigrati A Tel Aviv. Yehoshua: un crimine contro la convivenza
di Umberto De Giovannangeli


Abraham Bet Yehoshua pesa le parole, perché, da grande scrittore qual è, sa che le parole spesso fanno più male delle pietre, producono ferite nell' anima difficili da cicatrizzare. Ma di fronte all'uscita dei 50 rabbini ultraortodossi non frena la sua indignazione: «Si tratta dice a l'Unità di un fatto disgustoso. Affermare certe cose è un crimine contro la convivenza».
Un fatto disgustoso. Questo: nelle scorse settimane, una cinquantina di rabbini capo municipali di città e villaggi di tutto Israele hanno firmato una pubblica presa di posizione contro la vendita o l'affitto di immobili a arabi e lavoratori stranieri. I firmatari, che sono tutti stipendiati dallo Stato, citano versetti religiosi per sostenere che le leggi religiose ebraiche includono precisi divieti contro l'affitto di immobili a gentili e avvertono che chi dovesse violare questo divieto, anche dopo ripetuti ammonimenti, rischia di essere ostracizzato dalla sua comunità. Tra le ragioni del divieto i rabbini citano i matrimoni con non ebrei che «sono un peccato e offendono il nome di Dio». Lo stile di vita dei gentili, si afferma ancora, «è differente da quello degli ebrei e tra i gentili ci sono anche quelli che ci hanno perseguitato e ci hanno resto la vita impossibile». Questi rabbini hanno anche aggiunto una ragione economica: «E' noto sostengono che l'affitto di una casa a un gentile ha causato la perdita di valore delle case dei vicini». «L'errore più grave che si potrebbe fare è considerare queste uscite vergognose come espressione di una sparuta minoranza di fondamentalisti. Purtroppo non è così», ci dice al telefono Zeev Sternhell, tra i più autorevoli storici israeliani.
La riprova viene da un sondaggio pubblicato da Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano d'Israele: il 55% degli intervistati si sono detti favorevoli all'appello dei 50 rabbini. Il 58% degli intervistati si è detto contrario a chiedere le dimissioni dei rabbini che hanno aderito all' appello. Alla domanda: che cosa farebbe se una famiglia araba comprasse una casa, o la prendessero in affitto nelle vicinanze, il 57% ha risposto che la cosa sarebbe fastidiosa; il 24,5% ha detto che agirebbero, o prenderebbero in considerazione l'idea di agire per impedire il trasloco della famiglia araba nelle mentre il 7% ha affermato che avrebbe traslocato dalla zona. La percentuale degli oltranzisti aumenta a Gerusalemme: fra gli “haredim”, i religiosi più tradizionalisti, la quota dei favorevoli sale fino all'84%.
Un dato che non meraviglia Avraham Burg, già presidente della Knesset, il più giovane nella storia dello Stato d'Israele: “Gerusalemme rimarca è una città che divide, che emargina, che espelle. Guardo con angoscia e sgomento a ciò che Gerusalemme è diventata: la capitale del fanatismo, di un oltranzismo zelota che ha cambiato i connotati della città. La capitale degli israeliani – ebrei e arabi – si stata trasformando sempre più nella capitale di pericolosi fanatici”. Quella dell'intolleranza, dai tratti razzisti, è una metastasi che da Gerusalemme si sta propagando anche nella «laica» Tel Aviv. «Quella che i sta imponendo annota Menachem Klein, docente di Scienze Politiche all'Università Bar-Ilan di Tel Aviv è una “democrazia etnica” che si manifesta anche in una simbiosi fra Stato e coloni”. «Si inizia con gli arabi, si prosegue con gli immigrati di qualsiasi provenienza. Il razzismo che si fa scudo della religione è un tarlo che sta corrodendo il tessuto democratico e la stessa convivenza civile in Israele», sottolinea il romanziere Sami Michael.
La cronaca supporta questo grido d’allarme. «Non vogliamo aver paura a casa nostra, che gli infiltrati tornino a casa» centinaia di abitanti dei rioni proletari di Tel Aviv hanno dato oggi vita ad una manifestazione contro la crescente presenza nelle loro strade di immigrati africani entrati in Israele nella speranza di trovarvi lavoro. Lunedì nella città di Bat Yam, a sud di Tel Aviv, altri dimostranti erano scesi in piazza per invocare l'espulsione dalle loro strade di arabi originari di Jaffa accusati di «sedurre e corrompere» le donne ebree. In Israele, avverte la stampa, spirano venti xenofobi, fomentati anche da gruppi radicali di destra e da rabbini nazionalisti. La situazione è esplosiva», sostiene un tabloid nell' evidenziare che ormai alle parole seguono anche fatti. Ad Ashdod (a sud di Tel Aviv) ignoti hanno cercato di dare alle fiamme un appartamento abitato da cinque sudanesi. A Tel Aviv ragazze di colore sono state malmenate ed insultate da un gruppo di energumeni. E a Gerusalemme la polizia ha arrestato dieci giovani ebrei (fra cui diversi minorenni e alcune ragazze) sospettati di aver sistematicamente aggredito nel centro della città arabi «sorpresi a corteggiare ragazze ebree».
La situazione rischia di precipitare. Al punto da spingere ieri il premier Benyamin Netanyahu a lanciare un appello ai suoi connazionali a rispettare le leggi, a non attaccare lavoratori stranieri e a non infiammare gli animi contro le minoranze nel paese. L' appello è stato fatto in seguito a ripetute manifestazioni di xenofobia e di ostilità nei confronti di arabi e lavoratori clandestini africani nelle scorse settimane. Nel messaggio del premier, diffuso anche su YouTube e Facebook, Netanyahu afferma: «Io chiedo agli israeliani e su ciò insisto di non farsi giustizia da soli e di non ricorrere a violenze o a incitamenti .... Noi siamo uno Stato che rispetta le persone in quanto tali. Dal canto nostro agiremo per risolvere il problema nel rispetto delle leggi. È ciò che facciamo ed è ciò che chiedo agli israeliani di fare». Netanyahu ha assicurato che il suo governo è attivamente impegnato a risolvere il problema della presenza di migliaia di clandestini africani sia con la costruzione di una barriera fisica lungo il confine con l' Egitto, sia rinviandoli nei loro Paesi e in altri non meglio precisati modi. «Netanyahu è un ipocrita commenta sempre con l’Unità Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista -: questo odio verso i “diversi” è alimentato dalla destra oltranzista che controlla il governo tenendo in ostaggio il futuro d’Israele...». Una tesi rilanciata da Shulamit Aloni, fondatrice di «Peace Now», già ministra nei governi guidati da Yitzhak Rabin e Shimon Peres: «È straziante dice ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia: l’ordinamento di una comunità etnica religiosa che stabilisce rigidamente l’origine etnica dei suoi cittadini secondo una discendenza matrilineare . E il degno rappresentante di questa deriva razzista oscurantista aggiunge è Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri e leader di Yisrael Beitenu, destra nazionalista, terza forza politica d’Israele, ndr)».
L’Israele che rivendica la superiorità di Eretz Israel (la Terra biblica) su Medinat Israel (lo Stato), l’Israele che plaude alle parole del ministro della Giustizia, Yaakov Neeman: « Passo dopo passo, noi daremo ai cittadini d'Israele le leggi della Torah e faremo della Halakha la legge fondamentale dello Stato», non contempla nel suo vocabolario politico-ideologico la parola «compromesso». Una parola estranea a ogni fondamentalismo. Scrive Amos Oz: «Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte».

Corriere della Sera 23.12.10
Ue, no alla legge sul «negazionismo rosso»
«Impossibile mettere sullo stesso piano il nazismo e i regimi comunisti»
di  Luigi Offeddu


Niente legge sul «doppio genocidio» , o sul «negazionismo rosso» : l’Europa non punirà nei suoi tribunali, come invece avevano chiesto l’Ungheria e altri cinque Paesi dell’Est, chi nega o sminuisce i crimini storici del comunismo. Lo ha deciso la Commissione europea, prendendo atto delle troppe differenze esistenti fra le varie legislazioni nazionali, e dell’immenso divario di opinioni su una materia così delicata: si continuerà a tenere sotto osservazione il problema, ma almeno per ora niente direttive comunitarie. Le norme già previste in varie nazioni per la tutela della memoria dell’Olocausto, delle vittime di Hitler, non si applicheranno dunque anche alla memoria delle vittime di Stalin e dei regimi «fratelli» . Ungheria, Romania, Lituania, Lettonia, Bulgaria, Repubblica Ceca: questi sei Paesi, già appartenenti all’orbita sovietica, poco tempo fa avevano chiesto che i crimini del comunismo venissero «trattati secondo gli stessi standard» applicati a quelli del nazismo. E che venissero considerati un reato penale «il diniego, la volgare trivializzazione, l’indulgenza pubblica» verso l’operato sanguinoso della autorità staliniste nel Novecento. La decisione della Commissione europea non è puramente amministrativa, né si basa soltanto sulla diversità di pareri in Europa, ma chiama in causa anche orientamenti politici, ideologici, storiografici: come ha spiegato ieri un portavoce della commissaria Ue alla Giustizia Viviane Reding, «è ovvio che quei regimi hanno commesso atti orrendi, ma non hanno preso di mira minoranze etniche» . Come, invece, hanno fatto i leader del Terzo Reich germanico. E c’è molto di più: sulla posizione assunta ieri da Bruxelles avrebbe influito anche il «pressing» operato nelle ultime settimane dalla Gran Bretagna, dalla Francia e da altri Paesi, sempre più preoccupati per la deriva negazionista che sarebbe in corso in Lituania, Ungheria, e in genere nell’Est. È stato ad esempio per le pressioni di Londra, Parigi, Amsterdam, L’Aja, Stoccolma e altri Paesi, che ha dovuto presentare le sue dimissioni Petras Stankeras, storico lituano e fino a due settimane fa dirigente del ministero degli Interni nel suo Paese: aveva detto e scritto che il processo di Norimberga «ha fornito una base legale alla leggenda dei sei milioni di ebrei presunti morti ammazzati» , provocando così le proteste di vari ambasciatori. Quasi negli stessi giorni la rappresentanza diplomatica lituana presso la Ue, a Bruxelles, sosteneva che i lituani massacrati o perseguitati da Stalin sono molti di più dei loro concittadini ebrei che hanno perso la vita e la libertà per mano di Hitler. E un tribunale di Vilnius spiegava come non sia reato esporre la svastica, «simbolo tradizionale lituano» . Corsi e ricorsi della storia: settant’anni fa Ernst Schäfer, l’esploratore e zoologo tedesco arruolato nelle SS, e fra l’altro frequentatore entusiasta delle foreste baltiche, andava a caccia di svastiche nei templi del Tibet per dimostrare che quel simbolo accomunava le più antiche culture dell’Asia all’arianesimo in versione nazista.

Repubblica 23.12.10
"I crimini staliniani non sono genocidio"
Sei Paesi est europei chiedono l´equiparazione alla Shoah. La Ue dice no
Il gruppo, guidato dalla Lituania, chiedeva una legge per punire chi nega i massacri sovietici
di Nicola Lombardozzi


Mosca - Auschwitz e Katyn sono due tragiche tappe della Storia, ma non possono essere paragonabili per legge. La ferocia della repressione staliniana, la deportazione e lo sterminio di centinaia di migliaia di persone nella fase finale della Seconda guerra mondiale, non saranno equiparate giuridicamente dall´Europa al terrore dell´Olocausto perpetrato con metodica pianificazione dalla macchina del terrore nazista.
Al Cremlino, che pure è particolarmente impegnato in questi ultimi tempi nel riconoscere le gravi responsabilità del passato regime come il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, si è tirato un sospiro di sollievo quando la Commissione europea ha deciso di respingere una richiesta avanzata da sei governi. Chiedevano di proibire e perseguire in tutto il territorio della Ue la negazione dei crimini staliniani esattamente come avviene da tempo per chi neghi il genocidio degli ebrei. Una richiesta formulata dal governo lituano che da anni brilla per una politica anti-russa e minimizzatrice nei confronti dei crimini nazisti. E firmata anche da Lettonia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Repubblica ceca. Tutti Paesi segnati da un orrore senza fine provocato dalle truppe occupanti sovietiche.
Ne è venuto fuori un acceso dibattito a Bruxelles, che ha coinvolto storici e politici e che si è concluso con un nulla di fatto. «Opinioni troppo diverse per prendere una decisione», è stato il verdetto finale. Ostacolo fondamentale per una legge antinegazionista è la definizione stessa di genocidio, che si attribuisce alla persecuzione di un´etnia o di un gruppo politico in particolare. E nel caso dei crimini staliniani in Europa, queste condizioni giuridiche non ci sono. Ci sarebbero semmai in altre terribili imprese compiute all´interno dell´Urss, con spostamento di intere popolazioni - come i calmucchi - in sperdute destinazioni siberiane e in lager che ne decimarono un numero ancora non calcolato di persone. Per questo, per evitare rivendicazioni interne, a Mosca si contava in un "no" europeo che fermasse sul nascere altre possibili iniziative.
Un´altra debolezza della proposta lituana era la troppo scoperta posizione del governo di Vilnius, che da tempo tende a considerare le truppe naziste come "liberatrici". Proprio un mese fa un articolo del ministro degli Interni lituano, lo storico Petras Stankeras, fece indignare gli ambasciatori di sette paesi europei. Sosteneva infatti che «la svastica è un simbolo importante per la Lituania», e definiva l´Olocausto «una leggenda».
Interpellato dal Guardian, il cacciatore di nazisti Efraim Zuroff, del centro Wiesenthal, non ha dubbi: «Qualcuno cerca una falsa simmetria. Non si può paragonare la gente che immaginò e costrui Auschwitz a chi, pur con troppi crimini orrendi, liberò l´Europa dal nazismo».

l’Unità 23.12.10
Cresce il fronte anti-forca all’Onu. Sì alla moratoria


Il fronte dei Paesi contrari alla pena di morte continua a rafforzarsi all' Onu. Per la terza volta l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato ieri una risoluzione per una moratoria universale della pena di morte. Hanno votato a favore in 109 Paesi contro 41 mentre 35 si sono astenuti. Nel 2007 i voti a favore erano stati 104, i contrari 54 e le astensioni 29; l'anno scorso i voti a favore sono stati 106, i contrari 46 e si sono astenuti in 34. Hanno fatto un passo avanti, votando positivamente Maldive e Mongolia (che aveva approvato una moratoria di fatto all'inizio dell'anno). Il Guatemala, di cui si temeva l'astensione o un no, ha invece votato sì.

Repubblica 23.12.10
I bambini rubati di Franco Madrid avvia un´inchiesta
Aperti gli archivi per far luce sulle adozioni di regime
300 denunce per gli anni dal ´61 al ´71 ma secondo le stime i neonati rapiti furono 30mila
di Omero Ciai


La Spagna franchista sequestrò i neonati degli oppositori politici come, alla fine degli anni Settanta, l´Argentina dei generali golpisti. Su richiesta della magistratura il governo regionale di Madrid ha deciso in questi giorni di aprire una inchiesta nei suoi archivi sanitari per verificare l´attendibilità di una serie di denunce presentate alla Audiencia Nacional (il Tribunale speciale) e al Ministero della Giustizia. Il periodo temporale sotto esame in questo caso va dal 1961 al 1971 e riguarda bambini dati per morti ma in realtà assegnati in affidamento ad altre famiglie. È solo una parte, la meno "politica", di una inchiesta aperta dal "supergiudice" Baltazar Garzón - oggi inabilitato e sotto processo per abuso di potere - che aveva raccolto decine di testimonianze sul sequestro di bambini durante il franchismo.
Nei primi anni della dittatura divenne consueto che i figli delle donne incarcerate o giustiziate per ragioni politiche fossero affidati a famiglie vicine al nuovo regime. Ma, secondo Garzón, e anche secondo due storici che hanno scritto sull´argomento, fra il 1937 (durante la Guerra Civile) e fino al 1950, ci fu un programma sistematico per il sequestro di bambini molto simile a quello che anni dopo, a partire dal ‘76, misero in pratica in Argentina i generali golpisti con le famiglie dei desaparecidos. Una strategia per la quale Garzón considera, a differenza di altri magistrati dell´Audiencia Nacional, che si tratta di un crimine contro l´umanità e che, come tale, ha carattere permanente e non può essere prescritto e archiviato.
Sulla vicenda lo storico catalano Ricard Vinyes, autore del libro Los niños perdidos del franquismo, ha dichiarato: «Ci sono uomini e donne ancora vivi che non conoscono la loro vera identità, che non sanno di chi sono veramente figli; alcuni sono riusciti a recuperare il vero nome dei loro genitori, altri hanno preferito conservare l´identità dei loro genitori adottivi». Il sequestro dei figli di donne comuniste e socialiste che avevano militato a favore della Repubblica abbattuta con le armi dal dittatore Franco andò avanti per anni. E nel 1940 una legge del nuovo regime stabilì che la patria podestà dei figli dei "repubblicani", degli antifranchisti morti o incarcerati, passava automaticamente allo Stato che li consegnava a famiglie "politicamente affidabili". Le testimonianze non mancano e, secondo le stime, il numero dei bambini che ricevettero una nuova identità non fu inferiore ai 30mila.
L´operazione ebbe anche il suo ideologo: Antonio Vallejo Naiera, uno psichiatra militare che teorizzava la superiorità della "razza ispanica" e il diritto a sottomettere quelle "inferiori", come erano "los rojos" (i rossi) che si opponevano al franchismo. L´inchiesta aperta a Madrid riguarda l´ultima parte della vicenda, quando medici e suore di ospedali legati ad istituzioni religiose - si dice nelle denunce delle vittime - firmavano falsi certificati di morte per consegnare i bambini ad altre famiglie. In qualche caso a cambio di denaro, sempre perché le madri naturali erano molto povere o ideologicamente "poco affidabili".

il Fatto 23.12.10
L’ultimo affronto di Videla: “Giusta la nostra crudeltà”
Verso l’ergastolo per l’ex dittatore argentino, che attacca il governo
di Alessandro Oppes


Imperturbabile come sempre, forse cosciente che il suo destino giudiziario era comunque segnato, e in sorprendente forma fisica nonostante i suoi 85 anni, Jorge Rafael Videla ha trasfornato ancora una volta l’aula di un tribunale in un palcoscenico della vergogna per giustificare i crimini della “guerra sporca” argentina.
POCHE ORE PRIMA che i giudici di Cordoba si riunissero in camera di consiglio per infliggergli con ogni probabilità una condanna all’ergastolo la seconda da quando, nel 1983, il paese è tornato alla democrazia “l’Hitler della Pampa” è riuscito a gelare un intero paese con la sua strenua difesa della “necessaria crudeltà” con la quale i militari, dopo aver rovesciato nel ‘76 il governo costituzionale di Isabelita Peron, sterminarono oltre trentamila oppositori.
Elegante nel suo abito blu, camicia bianca e cravatta rossa, Videla ha letto in piedi con voce ferma, per oltre tre quarti d’ora, un lungo discorso seguito con sdegno crescente in diretta tv da milioni di argentini, tanto coloro che soffrirono sulla propria pelle l’incubo della guerra sucia, quanto le generazioni più giovani, formate ai valori della democrazia e del rispetto dei diritti umani.
A tutti, Videla ha fornito una sconvolgente rilettura della storia, rivendicando un asserito sostegno della società argentina al colpo di Stato militare e provocando grande sorpresa con il racconto di una presunta riunione, avvenuta all’inizio del 1976, con il leader del partito radicale Ricardo Balbin, che a suo dire avrebbe incoraggiato i generali a rovesciare il governo guidato dalla vedova Peron. “Fatelo quanto prima, evitate al paese una lunga agonia”, sarebbero state le parole del vecchio dirigente politico. Una ricostruzione subito contestata dagli attuali dirigenti del partito al quale appartenne il primo presidente del dopo-dittatura, Raul Alfonsin, che si impegnò per fare luce sul dramma dei desaparecidoscon la convocazione di una commissione d’inchiesta presieduta dallo scrittore Ernesto Sabato e che portò alla pubblicazione del durissimo rapporto Nunca Mas.
MA VIDELA È ANDATO anche più in là nella sua difesa del “processo di riorganizzazione nazionale”, come è conosciuto in Argentina il periodo della dittatura. Con un chiaro attacco al governo della presidente Cristina Fernandez, e a quello del suo predecessore, il marito Nestor Kirchner scomparso poche settimane fa, ha affermato che “i nemici sconfitti ieri hanno realizzato il loro proposito e oggi governano il paese”. Secondo la sua interpretazione, quella che tutto il mondo condanna con orrore come la “guerra sporca”, fu in realtà “una guerra giusta che non è ancora terminata”.
Videla ha anche ricordato che, prima del golpe del 1976, esisteva un piano delle forze armate per “combattere la sovversione” : il riferimento è al decreto del governo di Isabelita Peron che aveva come obiettivo lo “sterminio totale del nemico”.
Prima della condanna inflittagli ieri sera dal tribunale di Cordoba per “crimini contro l’umanità” commessi nella Unidad Penitenciaria San Martin, dove vennero fucilati 31 oppositori, già nel 1985 Videla era stato dichiarato colpevole per l’assassinio e la scomparsa di migliaia di cittadini. Condannato anche allora all’ergastolo, scontò solo 5 anni, prima di essere rimesso in libertà grazie all’indulto decretato da Carlos Menem con l’asserito intento di “superare i conflitti passati”. Nel ‘98 tornò brevemente in carcere per il “furto di bambini” avvenuto durante la guerra sucia, prima di ottenere gli arresti domiciliari.
Ma due anni fa, nonostante l’età avanzata, un giudice di Buenos Aires ha stabilito che la gravità dei crimini commessi costituisce “uno scoglio insuperabile” per la concessione di qualsiasi beneficio di legge. Il boia d’Argentina, a meno di clamorosi ripensamenti dei magistrati, finirà i suoi giorni in carcere.

Repubblica 23.12.10
Condanna per crimini contro l’umanità. "Ora al potere i nemici di ieri"
Ergastolo al dittatore Videla "Salvai l´Argentina dai marxisti"


CORDOVA - È l´ergastolo la condanna emessa ieri sera da un Tribunale di Cordova in Argentina per l´ex dittatore Jorge Rafael Videla considerato il principale responsabile dei crimini contro l´umanità commessi dalla giunta militare al potere dal 1976 al 1983. L´ex generale Videla, 85 anni, era tornato sul banco degli imputati dopo la dichiarazione di incostituzionalità, nel 2007 da parte del Parlamento, dell´indulto che gli aveva concesso nel 1990 il presidente Carlos Menem.
Promosso dall´ex presidente Nestor Kirchner (morto qualche settimana fa) e dalle organizzazioni delle vittime della dittatura il voto del Parlamento contro i militari ha riaperto numerosi processi che negli anni erano stati sospesi. Prima il presidente Alfonsin e poi Menem, fra il 1985 e il ´90, avevano infatti graziato i militari della dittatura già condannati o ancora in attesa di sentenza. Videla, condannato nel 1985, venne liberato da Menem insieme al leader dei Montoneros (una formazione armata della sinistra peronista) Mario Eduardo Firmenich. Nel corso del processo Videla ha rivendicato la durissima repressione della dittatura, i campi di concentramento e le migliaia di oppositori desaparecidos, sostenendo di aver "salvato il paese dal marxismo" e di aver combattuto una "guerra giusta" contro gruppi guerriglieri che, "sostenuti da Cuba", volevano trasformare l´Argentina in un "paese comunista".

il Fatto 23.12.10
Panahi e la “morte civile” di un Paese
di Hamid Ziarati


Può sembrare assurdo insistere a parlare di un solo uomo, quando nel medesimo giorno in cui si gioca il destino di quell’uomo un terremoto di magnitudo 6,5 ha colpito di nuovo la stessa regione dove circa 7 anni fa aveva causato la morte di circa 31mila persone e la distruzione di una delle più belle città del mondo, Bam, un prezioso patrimonio dell’umanità andato perso. E può sembrare ancora più fuori luogo insistere sulla condanna a 6 anni di reclusione data da un tribunale della Repubblica Islamica a un paio di registi a pochissime ore dall’impiccagione di 11 detenuti politici portati alla forca come rappresaglia per l’attentato di qualche giorno prima, una risposta riprovevole a un atto vile firmato dal gruppo Jundullah, I soldati di Dio, sunniti però. L’attentato che mercoledì scorso ha causato la morte di 39 innocenti e i ferimenti di oltre 100 persone mentre dall’altra sponda gli 11 militanti di Dio giustiziati si trovavano in carcere già da troppo tempo per poter essere accusati proprio di quell’attentato. È vero : è pazzesco concentrarsi su una condanna data a un solo uomo quando c’è un’intera nazione che vive quella stessa condanna da decenni (basta vedere la risoluzione delle Nazioni Unite di pochi giorni sulla violazione dei diritti umani in Iran), ma il caso Panahi rappresenta qualcosa che va al di là di una condanna esemplare.
È un verdetto che implica “la morte civile” di Jafar Panahi e dell’intero mondo culturale iraniano, è una condanna a morte del pensiero; perché Panahi non è solo una delle voci più significative di quella nazione, è ormai un’icona dell’intellettuale al servizio della società e del mondo. Per comprenderlo basterebbe guardare la teca che racchiude i premi internazionali che ha vinto e donato al museo di cinema di Teheran, una teca ben più grande della cella in cui ha passato circa tre mesi prima di essere rilasciato su cauzione in attesa di questo processo farsa. La condanna a 6 anni di reclusione – data anche al regista Rasoulof arrestato a casa di Panahi – con l’aggravante per Panahi di vent’anni d’interdizione dai set cinematografici per uno che per tutta la vita ha fatto il regista, il divieto di scrivere alcunché, di rilasciare interviste, di viaggiare all’estero (a eccezione del viaggio alla Mecca che, se vorrà redimersi, potrà compiere dietro una lauta cauzione) è una condanna a morte civile e intellettuale di un intero popolo. Se poi si prendono in considerazione le accuse e il reato per cui è stato condannato, diventa ancora più grottesca tutta la faccenda visto che, come Panahi stesso mi conferma al telefono, la sentenza emessa si basa su un film in via di realizzazione, su un girato che non supera il 30% delle sue intenzioni, e su un materiale sequestrato non ancora montato. Il sistema giudiziario della Repubblica Islamica prevede un solo appello dopo la condanna.
Spesso però chi ricorre all’appello vede la propria condanna inasprita (vedi il caso di Sakineh e altre condanne di prigionieri politici tramutate in pena di morte): di questo sono consapevoli tutti i colleghi di Panahi in Iran, i quali mi confermano ad uno ad uno il loro sbigottimento per quanto la Repubblica islamica si sia spinta oltre a ogni logica di diritto, e aggiungono di essere incapaci, per ora, di organizzarsi e decidere un’azione incisiva che porti a qualcosa di concreto, consapevoli di subire la stessa condanna anche loro. Al riguardo scrive una lettera aperta il regista Makhmalbaf, rifugiato da poco a Parigi, indirizzata alla Guida Suprema Khamenei, accusandolo d’essere l’artefice di questa sentenza: appellandosi a lui come poeta e amante di poesie, gli chiede di restituire a Panahi la sua poesia.
Parlando con Panahi al telefono mi ritrovo a parlare a un amico angosciato per il suo futuro, incredulo per il suo presente e fiero del proprio passato. Mi dice che se il mondo vuole fare qualcosa per tutti i cineasti iraniani deve agire ora o mai più, perché hanno condannato non solo lui ma tutta la cinematografia iraniana, e se il verdetto verrà confermato fra un mese per lui – incapace di chiedere clemenza, visto che non ha commesso nessun reato, e la Repubblica Islamica incapace di concedere clemenza visto che non ne ha mai avuta per nessuno – sarà la fine.
Se il popolo italiano e il mondo intellettuale si sono indignati e vogliono fare qualcosa per Panahi è questa l’ora di agire. Dopo il processo d’appello qualsiasi sforzo sarà vano, sia per lui sia per la libertà d’espressione.

Corriere della Sera 23.12.10
Ipazia senza miti: né Galileo in gonnella, né proto-femminista
di Marco Ventura


Nel marzo del 415 dopo Cristo, ad Alessandria d’Egitto, Ipazia fu aggredita mentre tornava a casa. I cristiani la trascinarono fuori della sua carrozza e la condussero in una chiesa dove fu denudata e fatta a pezzi a colpi di cocci aguzzi. I resti furono bruciati. Cirillo, vescovo di Alessandria e tutore delle bande di monaci autrici del massacro, alluse all’evento in un sermone: «È stata fatta tacere l’Egizia» . Chi era in realtà la «filosofa» Ipazia? Perché fu uccisa e in quale contesto? Nel suo Ipazia. La vera storia (Rizzoli, pagine 319, € 19), Silvia Ronchey risponde secondo il metodo della stessa protagonista: «metodica diffidenza su quanto è stato detto» dell’egiziana e «sistematico smantellamento del suo mito letterario e della sua reinvenzione politico ecclesiastica e storiografica» . Cento pagine di documentazione, un terzo del libro, spiegano il percorso e ancorano il testo alle fonti. Silvia Ronchey svela anzitutto i travestimenti imposti ad Ipazia nei secoli. Galileo in gonnella, eroe anti cattolico del Settecento illuminista e dell’Ottocento liberale; cripto cristiana, proto-femminista. Martire del papismo per i protestanti, strega per i cattolici, libera pensatrice per i massoni. La vera Ipazia non fu niente di tutto ciò. Figlia di un maestro del Museo di Alessandria, bella della sua «altera avvenenza» , Ipazia incarnava, scrive l’autrice, «la superiorità di casta, l’ascetica compostezza e la dote di aristocratico riserbo che unita al naturale senso del dovere sociale e dell’impegno politico contraddistingueva le classi alte nell’antichità» . «Tu hai sempre avuto potere» , scrisse ad Ipazia il vescovo Sinesio, suo allievo. A quale potere si riferiva? Ipazia traduceva il neoplatonismo in matematica ed astronomia. Ma le sue formule non si limitavano a rendere il cosmo intelligibile; secondo l’uso esoterico, esse iniziavano ai misteri dell’antica élite pagana la nuova classe dirigente cristiana. Bastava questo perché il vescovo Cirillo, futuro santo e dottore della Chiesa, volesse la morte di Ipazia? A pagina 175 l’autrice ci sorprende. Schiacciate le pratiche pagane, distrutto il Museo, uccisi o banditi gli ebrei, sarebbe stato normale per il tempo che Cirillo tollerasse residui di filosofia pagana inoffensivi per il suo potere. Dell’uccisione di Ipazia, insomma, non vi era necessità. E allora perché? Si evince dalle fonti, secondo l’autrice, che Cirillo cedette a un «madornale e irrazionale accesso di frustrazione» , a quel sentimento che gli antichi chiamavano ftonos, all’invidia per il carisma e il prestigio della pagana. Esperta di civiltà bizantina, Silvia Ronchey ha restaurato l’icona di Ipazia. Molte delle incrostazioni accumulatesi nei secoli sono state tolte. Soprattutto, l’Ipazia di Silvia Ronchey è collocata nel suo contesto: nella «millenaria integrazione» di paganesimo e cristianesimo; in una Bisanzio che rifiutò il potere temporale di Cirillo e dei papi e preservò la libertà di Ipazia fino all’Umanesimo e al Rinascimento. Fino a noi.

Corriere della Sera 23.12.10
Il fallimento dei socialisti a causa del «pigro pacifismo» durante la Grande Guerra
di Arturo Labriola


La questione dei rapporti fra istituzioni monarchiche e vita di una democrazia nel nostro Paese mi sembra essere definita dalla stessa storia di questi rapporti. Vittorio Emanuele II dette una forte impronta personale al suo ufficio, e considerò sempre essere di suo particolare dominio la condotta della politica estera e le cose dell’esercito. (...) Umberto mantenne il predominio della Corona sulle questioni di politica estera e militari. Il Chiala, con l’incoscienza del cortigiano, mostra nel suo volume: La Triplice e la Duplice alleanza (Torino, 1898), che l’adesione dell’Italia all’alleanza austro-germanica fu data alle spalle dei ministri, repugnante ed avverso il Depretis, ostile il Robilant, ambasciatore a Vienna, guadagnata l’adesione del Mancini con mezzi moralmente censurabili. Bisognerebbe rifare tutta la storia del regno di Umberto per vedere quante volte le crisi ministeriali vennero decise, all’infuori della fiducia del Parlamento, su questioni di assetto dell’esercito. Bensì le cose mutarono con l’avvento di Vittorio Emanuele III, il quale parve sempre decidere in senso liberale e democratico i casi dubbi delle vicende parlamentari. L’istessa entrata in guerra, in quanto, con la rottura della Triplice, si rinnegava tutta una tradizione di politica estera conservatrice e dinastica, fu un atto di audace democrazia. Probabilmente il corso della storia d’Italia sarebbe stato diverso, qualora il Partito socialista, in una giusta visione del valore politico dell’atto, fosse stato capace di superare la sua pigrizia pacifista, e avesse tenuto di fronte alla guerra un atteggiamento analogo a quello dei socialisti belgi e francesi e della minoranza russa (Pleckhanoff), esso che non aveva né temperamento né volontà per diventare leninista. Ma la verità è che, quando l’Italia rifiutò di riconoscere nell’atto della Germania il casus foederis, la vittoria era della democrazia e del socialismo che avevano sempre combattuto la Triplice Alleanza come un fatto di politica dinastica e conservatrice. Purtroppo il Partito socialista ha scontato amarissimamente quell’errore, senza il quale nel 1918 era esso l’erede di tutta la situazione politica, che avrebbe potuto spingere sino ad un esperimento repubblicano. Mancata l’adesione del Partito socialista, la guerra fu ipotecata dai nazionalisti, e le basi politiche di essa vennero cercate a Destra. La plutocrazia industriale, sorta o largamente accresciuta dalla guerra, realizzò la sua confluenza con i partiti nazionalistici e conservatori. (...) Quando si verificò l’offensiva fascista, si ebbero anche i fenomeni di simpatia e di appoggio che tutti ricordano. È certo che il successo dell’ottobre 1922 fu possibile soltanto perché non potette essere mantenuto lo stato d’assedio disposto dal governo responsabile. (...) Si presenta perciò il seguente quesito: un presidente di Repubblica avrebbe agito o avrebbe potuto agire nella stessa maniera? Porre il quesito, significa risolverlo, e, quindi, comprendere anche sino a che punto sia possibile, in Italia, l’accordo fra le istituzioni esistenti e le tendenze democratiche. Badando al precedente dell’ottobre 1922, mi pare che i partiti antifascisti siano in una posizione oggettivamente repubblicana, in quanto negano un fatto che ebbe l’adesione degli alti poteri dello Stato, e senza questa adesione non avrebbe potuto accadere. Non mi pare però che essi tutti ne abbiano la chiara intelligenza; da cui, credo, la vera debolezza delle opposizioni secessioniste.

Corriere della Sera 23.12.10
Gobetti e i Savoia, l’inchiesta sparita
Denunciava la complicità del re con il fascismo. Fu bloccata
di Dino Messina


I l primo giugno 1924 Benito Mussolini telegrafò al prefetto di Torino, chiedendogli di rendere nuovamente difficile la vita a un «insulso oppositore» . Piero Gobetti, classe 1901, 23 anni da compiere il 19 giugno, tanto «insulso» non era, se meritava queste attenzioni, proprio alla vigilia dell’assassinio di Giacomo Matteotti che provocò un moto di indignazione in tutto il Paese e rappresentò l’ultima occasione per rovesciare quello che si stava profilando come un regime. L’uccisione del leader socialista e la crisi dell’Aventino che ne seguì spinsero Gobetti a intensificare l’impegno sulla sua rivista, «La Rivoluzione Liberale» . Tra le nuove iniziative, un’inchiesta sulla monarchia con interventi chiesti a esponenti di primo piano del mondo politico e culturale, che furono pubblicati soltanto in parte: la rivista fu sospesa e molti materiali rimasero inediti. I primi due interventi, di Enrico Presutti e Marcello Soleri, comparvero sul numero dell’ 11 gennaio 1925, le risposte di Rodolfo Mondolfo, Giuseppe Prezzolini e Giuseppe Rensi furono stampate sul numero del 18 gennaio, ma non videro mai la luce perché il periodico fu sequestrato. Così rimase nel cassetto una serie di altri interventi, a firma, tra gli altri, di Mario Missiroli e di Arturo Labriola. Materiale rimasto sinora inspiegabilmente inedito, nonostante dagli anni Sessanta a oggi gli studi sulla figura e l’opera di Piero Gobetti, che morì a Parigi il 15 febbraio 1926 in seguito alle conseguenze di un’aggressione subita in Italia, abbiano conosciuto una vera e propria esplosione, con circa tremila articoli e almeno centocinquanta opere di carattere storiografico. Queste lacune saranno d’ora in poi finalmente colmabili grazie alla pubblicazione dell’inventario dell’archivio Gobetti, L’archivio di Piero Gobetti. Tracce di una prodigiosa giovinezza (pagine 342, € 40), edito da Franco Angeli a cura di Silvana Barbalato con i contributi di Carla Gobetti, nuora di Piero, Ersilia Alessandrone Perona e Marco Scavino, grazie al quale possiamo anticipare la lettera di Arturo Labriola. Maggiore esponente del sindacalismo rivoluzionario italiano, quindi passato su posizioni più moderate, sempre presente nel dibattito culturale, Labriola fu favorevole all’intervento in Libia e nella Grande Guerra e da socialista riformista nel 1921 entrò come ministro del Lavoro nell’ultimo governo Giolitti. Questa sua lettera è particolarmente interessante non soltanto perché richiama l’attitudine dei Savoia nell’Ottocento a esautorare il Parlamento su questioni importanti come difesa e politica estera, oltre a ricordare le responsabilità di Vittorio Emanuele III nella mancata proclamazione dello stato d’assedio che, nell’ottobre 1922, avrebbe potuto impedire l’avvento del fascismo. La parte più interessante dell’intervento è dedicata ai socialisti e alla loro «pigrizia pacifista» . Secondo Labriola, infatti, se il Psi fosse stato favorevole all’intervento, sull’esempio di quanto avevano fatto i compagni francesi e belgi, non avrebbe lasciato il monopolio della guerra e della vittoria ai nazionalisti e alle destre. Un tema sul quale si è continuato a discutere per quasi un secolo.

Repubblica 23.12.10
Un saggio di Helen Castor sui modi di governare in Inghilterra prima di ElisabettaRegine e donne-lupo ecco il potere femminile

di Nadia Fusini

Da Matilda a Margherita d´Angiò i loro ritratti mostrano come si comportarono quando ebbero l´occasione di regnare: mostrando anche un lato "forte"
Il documentario racconta la storia dell´autore con molte testimonianze

In molte, tra le studiose di letteratura, abbiamo negli anni con devozione prestato l´orecchio a cogliere le voci di donna che il monologo maschile aveva nei secoli tacitato. È accaduto lo stesso con la storia. Ricordo un bel libro di qualche anno fa, uscito dal Mulino per mano di Maria Giuseppina Muzzarelli, in cui si ricostruivano le vicende di Un´italiana alla corte di Francia. E cioè, di Christine de Pizan, che altri non era che una certa Cristina giunta da Pizzano a Parigi, dove si fa un nome – francese, perché in quella lingua scrive le sue opere. La cita Simone de Beauvoir nel Secondo sesso, e le riconosce una personalità forte, per essere una donna vissuta nel Medioevo. Epoca in cui, pur nelle tenebre, accadono fatti luminosi. Come, ad esempio, che una femme italienne varchi confini non solo geografici, ma di genere, e si guadagni da vivere con la sua penna. Testimoniando che nella loro dimensione più profonda, la conoscenza, l´educazione, l´istruzione sono beni primari e non finiremo mai di batterci affinché a tutti siano dati. Perché il sapere è potere.
Del rapporto tra le donne e il potere tratta l´eccellente studio di una giovane storica inglese, Helen Castor, dal titolo shakespeariano She-Wolves. The women who ruled England before Elizabeth (Faber and Faber, pagg. 474, £ 20). Così Shakespeare chiama Margherita di Angiò, moglie di Henry VI: la "lupa di Francia". Titolo che Castor estende a quattro donne che dal 1100 al 1500 ebbero in mano il regno d´Inghilterra: Matilda, Eleonora di Aquitania, Margherita di Angiò, e Isabella di Francia.
A queste donne la studiosa dedica quattro ritratti, tanto più mirabili perché non troppe sono le fonti a cui può attingere. Pure, nel rigore del piglio storico, la scrittura sfolgora grazie alla capacità di fermare nell´immagine il pensiero, di illustrare nel dettaglio il concetto. Che la storia fosse anche scrittura, che nella ricostruzione storica l´immaginazione valga in quanto capacità viva, facoltà attiva che tra il presente e il passato trama una relazione intelligente, qui si riconferma. Leggiamo le vite di queste donne con passione, siamo come loro e loro come noi. Come noi vogliono vivere e contare, contare per chi amano e per quel che fanno. E vogliono il potere. Sì, il potere, esattamente come noi. Perché nessuno può vivere da schiavo. Anzi, nessuno deve essere schiavo.
Ecco perché affascina il nodo concettuale che il libro tratta, e cioè la legittimità del governo femminile. Queste donne sono cavie, vittime, eroine di una libertà fondamentale, di un diritto che si conquista anche grazie a loro. Al libro fa da cornice la morte di Edoardo VI, l´unico erede maschio di Enrico VIII, il quale sappiamo quanto si dette da fare, fino a diventare una specie di Barbablù di troppe mogli, per poter avere un maschio. E lo ebbe, e quello salì sul trono. Ma si ammala, e giovanissimo muore e dopo di lui non ci sono che le sorellastre Maria e Elisabetta. Le quali seppure così diverse dimostreranno che una donna può regnare. Con loro si apre tutta un´altra storia, moderna. Prima di loro, per tradizione, in Inghilterra è il maschio primogenito a ereditare il regno del padre. Con notevoli assonanze tra regno mondano e ultraterreno tutta una teoria impone alla monarchia una facciata maschia, anche perché la potenza del regno la si deve misurare sul campo di battaglia. Era in effetti un´epoca violenta, e il re si trovava spesso a dover capeggiare bande di soldati.
Toccherà a Matilda, nipote di Guglielmo il Conquistatore, sfatare la leggenda. E sarà proprio il padre suo Enrico a imporre tale trasgressione, perché il figlio preferito, l´erede maschio annega nel 1120. E allora il re, impotente a produrre altri figli maschi, decide di dare la corona a Matilda. A Matilda, si badi bene, non solo perché nelle sue vene scorre lo stesso sangue, ma perché nel grembo suo continui il regno. Senonché, quando Enrico morì nel 1135, Matilda era in Francia e incinta, e fu suo cugino Stefano a impadronirsi della corona, e gli fu facile contrabbandare quel gesto che, fosse stata Matilda un uomo, sarebbe stato definito di usurpazione. In una cosa però Matilda riuscì: sarà suo figlio l´erede della corona.
Lo stesso vale per Eleonora di Aquitania, nuora di Matilda, regina prima di Francia, poi di Inghilterra. Anche lei in nome del figlio combatterà indomita nel difendere un diritto che non può rivendicare per sé. Isabella di Francia, la "lady di ferro", addirittura deporrà il marito Edoardo II ossessionato dal sesso, esausto dai festini nei quali consumava la sua energia: nel suo caso, bei ragazzi, non ragazze. Per conto del figlio eserciterà il potere, fino a quando il figlio stesso, novello Oreste, eliminerà il suo amante, un tipo come Egisto, insieme con il quale lei, novella Clitennestra, comandava. Più di un secolo dopo, Margherita di Angiò dovrà supplire nel governo un marito demente, e combatterà per il figlio, fino a essere definita non solo da Shakespeare la "lupa". Una cosa è certa: non c´è da aspettarsi che queste donne-re siano la clemenza in persona. Non fanno la parte della vergine Maria presso Dio Padre. Nel clima di brutalità che caratterizza la lotta per il potere, al Monarca si richiede che sia lupo, più che volpe. E non v´è animale più feroce di una lupa che difenda il suo cucciolo.

Repubblica 23.12.10
Quel che è rimasto dei riti dell´Occidente
di Marino Niola


Lo scambio di doni insieme agli eccessi alimentari è la chiave di volta: lo spirito del festeggiamento che si fa materia
I re magi sono la personificazione del dono, così come gli altri due grandi vecchi: Babbo Natale e la Befana
I giorni che vanno da Natale all´Epifania sono il retaggio di antiche consuetudini che il cristianesimo ha rinnovato dotandole di un significato diverso

Le feste di Natale sono l´ultimo grande ciclo rituale dell´Occidente. Un lungo, estenuante serial cerimoniale cui è d´obbligo partecipare. Anche controvoglia.
I dodici giorni che vanno dal 24 dicembre al sei gennaio, dalla vigilia di Natale alla notte dell´Epifania sono quel che resta dei riti di fine anno del modo antico ai quali il Cristianesimo ha dato un nuovo, decisivo, significato. Trasformando le cerimonie solstiziali precristiane – quelle che accompagnavano il trionfo del sole sull´oscurità invernale – nella celebrazione del dio che viene alla luce per redimere il mondo dalle tenebre del peccato.
Le feste natalizie sono, dunque, il risultato di una millenaria stratificazione di simboli. Che hanno attraversato i tempi e sono giunti fino a noi. Come una staffetta della storia che ci consegna uno straordinario patrimonio di tradizioni, di abitudini, di ritualità. Che rappresentano l´estrema sporgenza del festivo in questo tempo di deritualizzazione della vita. Fare il presepe, addobbare l´albero, scambiarsi i regali, mangiare di magro la vigilia, aspettare l´arrivo di Gesù Bambino, andare alla messa di mezzanotte, l´abbuffata natalizia, il surplus suntuario di santo Stefano, i botti di capodanno e last but not least l´attesa della Befana. È una autentica maratona cerimoniale cui partecipano credenti e non credenti. Per devozione o per tradizione, per consuetudine o per abitudine, per gioco o per forza. Per molti giocoforza. Le motivazioni sono diverse, ma il risultato è comunque una effervescente recita collettiva, un sussulto calendariale, un fremito prolungato del tempo. Che si preannuncia addirittura in anticipo, ai primi di dicembre quando in tante case italiane si inizia a fare il presepe, in tante altre l´albero. Spesso l´uno e l´altro insieme. Per conciliare vecchio e nuovo. Anche se in realtà l´albero è ancor più antico del presepe. Perché la grotta col bue e l´asinello nasce nel Duecento, dall´invenzione francescana che miniaturizza in una scena fissa le sacre rappresentazioni medievali della Natività. Mentre l´abete decorato deriva dall´uso greco e latino, e poi celtico, di appendere regali ai rami di piante sempreverdi. Per simboleggiare, da un lato la continuità della vita che resiste al giro di ruota del calendario. E dall´altro il bilancio di fine d´anno che si traccia alla conclusione di un ciclo stagionale. Dispensando premi o castighi a seconda dei meriti.
Non a caso lo scambio dei doni, insieme all´eccesso alimentare, è la chiave di volta del Natale. Lo spirito della festa che si fa materia, l´esultanza che diventa pienezza. I re Magi che seguono la cometa sono molto più che semplici portatori di offerte. Sono la personificazione stessa del dono. E così pure i due grandi vecchi che tradizionalmente portano regali. Il rubicondo Babbo Natale, alias santa Claus, di cui la società dei consumi ha fatto un supernonno buonista. E la decrepita befana, antica personificazione di madre natura alla fine del suo ciclo. Nonché erede cristiana della dea Strenia, da cui deriva la parola strenna. Che in origine era il presente a base di fave, frutta secca e dolci a forma di bamboline e animaletti che i Romani regalavano ai bambini nei primi giorni dell´anno durante la festa delle statuette, la cosiddetta Sigillaria. Sta di fatto che questa strega brutta ma buona mette il suo sigillo incantato al ciclo delle dodici notti. Che nelle tradizioni italiane ed europee sono considerate da sempre la cerniera magica dell´anno. Non a caso Shakespeare dedica all´Epifania La dodicesima notte, un capolavoro pieno di attesa e di mistero. Il sogno di una notte di mezzo inverno. Ideale pendant calendariale di quello di mezza estate.
Giusto a metà, fra Natale e la befana, c´è il giro di boa dell´anno. La sfolgorante veglia di san Silvestro, scossa da quello che Walter Benjamin chiamava il frastuono pagano dei botti. Retaggio, anche questi, di antiche tradizioni che celebravano il passaggio stagionale accendendo fuochi per rischiarare il cammino dell´anno entrante e facendo rumore per tenere lontani gli spiriti maligni. È il momento dei presagi, dell´interrogazione del futuro, delle profezie, delle scaramanzie e di tutte le ruote della fortuna. Si deve avere addosso qualcosa di rosso perché porta bene. Si mangiano lenticchie, simbolo di abbondanza sin dal tempo dei Romani. Che regalavano scarselle di cuoio – i portafogli di allora – piene zeppe di lenticchie nell´auspicio che diventassero altrettante monete. Si bacia la persona amata sotto il vischio, pianta sacra ai riti solstiziali, mentre scorrono fiumi di champagne. Che trasformano spesso il veglione in una notte dionisiaca, consacrata ai numi del divertimento a tutti i costi. Una vera e propria frenesia rituale. Che fa dei nostri eccessi festaioli il succedaneo consumista delle sacre orge d´antan. Talvolta decisamente fuori misura e fuori luogo, come l´albero da undici milioni di dollari allestito nei giorni scorsi nella hall di un albergo di Abu Dhabi. Ma in ogni caso, perfino nella girandola suntuaria dei regali che fa ripartire come una trottola l´economia in letargo, brilla una scintilla dell´antica fiamma rituale. Facendo così della nostra kermesse natalizia un intreccio particolarissimo tra celebrazione religiosa e santificazione dello shopping, tra fede e economia, tra affetti e desideri. Perché in realtà le ragioni del corpo non cancellano quelle dello spirito. Ma traducono nei termini di oggi quel consumo del sacro che è l´essenza di ogni festa.