Quelle parole che la Sinistra deve riscoprire
Sogni e partecipazione ecco la vera politica
di Marc Lazar
La crisi della sinistra riformista europea oggi è oramai un´idea condivisa. Essa non ha motivo di vergognarsi del proprio passato. Ha contribuito a forgiare la democrazia e il welfare e, dunque, un´ampia parte dell´identità europea.
Ciò nonostante, il suo modello di cambiamento graduale delle società nel quadro degli Stati-nazione è in via di esaurimento. La sinistra, più della destra, soffre la globalizzazione, le trasformazioni del capitalismo mondiale, il processo di individualizzazione, la sensazione sempre più ossessiva del declino del vecchio continente, le tentazioni di ripiegamento identitario sfruttate dai movimenti populisti.
La Storia dimostra che ciò che ha fatto la forza della socialdemocrazia è stata la sua capacità di adattamento alle evoluzioni delle società, il più delle volte generate esse stesse dalle metamorfosi del capitalismo. Un aggiornamento spesso difficile, nutrito da vivaci dibattiti interni sulle proposte definite "revisioniste", da Eduard Berstein (fine del secolo XIX) a Anthony Giddens (fine del secolo XX), passando per tanti altri pensatori e responsabili politici. E, tuttavia, con una domanda ossessiva dei nostri giorni al socialismo: il suo avvenire si iscrive nella linea dell´ideologia e dei suoi punti di riferimento, oppure suppone di varcare le frontiere tradizionali della sinistra e di esplorare altri orizzonti?
Per pensare la sinistra oggi e domani bisogna, più che mai, tornare alla famosa affermazione di Norberto Bobbio, per il quale il valore dell´uguaglianza traccia la linea di separazione dalla destra. La crisi economica del 2008 ha ricordato la pertinenza di quest´idea, adattata al mondo di oggi, che non significa egualitarismo, ma un´uguaglianza delle opportunità, rispettosa dei percorsi e delle aspirazioni individuali. Un´uguaglianza che deve rendere possibili non tanto degli Stati-forti, divenuti impossibili, quanto degli Stati ammodernati, regolatori e animatori, coordinati a livello europeo. Uguaglianza nel mondo e in Europa. Uguaglianza sociale tra i diversi gruppi e individui. Uguaglianza tra i sessi, mentre le donne rimangono sempre discriminate. Uguaglianza tra le generazioni, in un´Europa che subisce il complesso di Cronos, il dio greco che divorava i propri figli. Uguaglianza tra i territori, mentre oggi si approfondisce la divaricazione tra le regioni ricche e le zone più in difficoltà. Uguaglianza tra i cittadini e gli immigrati in regola che fanno ormai parte integrante della nostra Europa. Uguaglianza, ancora, in rapporto all´ambiente.
Ma c´è l´altro Bobbio, quello che nel 1955 constatava come gli intellettuali italiani sapessero perfettamente che cosa avrebbe dovuto essere la società italiana, ma ignoravano che cosa fosse. Cinquantacinque anni dopo, la sua riflessione si può allargare all´insieme dei partiti della sinistra europea, troppo chiusi su se stessi, in mano a oligarchie che stanno invecchiando, più che mai preoccupate di difendere i loro piccoli interessi. Conoscere la società nella sua complessità attuale, segnata da tendenze contraddittorie e antagonistiche, per ritrovare il popolo e, così, non lasciare più questa parola e ciò che comporta alle forze populistiche. La sinistra deve unirsi a lui in questo grido di dolore e di rabbia di cui parlava il sociologo Durkheim per definire il socialismo, ma anche in un grido di speranza, non per creare sogni che si trasformano generalmente in incubi, ma per ridare un senso alla politica. Per esempio, nell´accettare la forza della leadership nelle nostre democrazie, ma combinandola con l´estensione della partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
(traduzione di Luis E. Moriones)
Repubblica 27.12.10
C’è vita a sinistra
Le parole per raccontare quel che resta di un´idea
di Carlo Galli
Fine delle ideologie, crisi del riformismo, globalizzazione: eppure c´è ancora chi scommette sul futuro di un concetto
Abbiamo chiesto a celebri pensatori e intellettuali europei di spiegare la loro visione e le prospettive possibili
La sconfitta della sinistra comunista, e le trasformazioni politiche ed economiche che sono seguite – la globalizzazione –, hanno reso il capitale più aggressivo (perché più esposto alla competizione), e hanno causato la crisi del compromesso socialdemocratico, cioè delle conquiste della sinistra riformista: i diritti sociali oggi sono visti come un costo e non come un valore. Ecco perché ha senso interrogarsi sulle prospettive di un´idea. Oggi il centro della società è il mercato, l´impresa e le sue esigenze di sviluppo, l´individualismo aggressivo; la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di welfare è già in atto, e la società si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; anche le forme giuridiche dell´uguaglianza – la legalità, i diritti civili – sono minacciate dall´insicurezza e dalla paura, i nuovi messaggi biopolitici che vengono dallo Stato; la democrazia è sostituita dal populismo.
La sinistra deve quindi trovare la capacità di criticare il presente, e ne deve nominare apertamente le contraddizioni; deve essere convinta che a un problema non c´è solo la soluzione proposta da chi detiene il potere, ma almeno un´altra, alternativa, che ha come finalità l´emancipazione di chi non ha potere, e la liberazione delle sue capacità di sviluppo autonomo, di vitale spontaneità (e pertanto deve essere antiautoritaria e laica). Deve essere riconoscibile, cioè deve essere coerentemente "parte" – nel momento in cui la società si frantuma in parti, anche se non coincidenti con le "classi" tradizionali –, e deve quindi entrare decisamente nei conflitti reali; ma deve anche farsi carico delle questioni generali di uguaglianza formale e sostanziale – pur mettendo in conto che i conflitti non potranno mai cessare. Deve produrre una nuova idea di società, una nuova "egemonia", da contrapporre all´egemonia della destra. Ciò significa combattere la paura e la disuguaglianza con la legalità, la giustizia e la speranza; e lottare per un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell´attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico.
Repubblica 27.12.10
Il sociologo
Perché la libertà è un valore sociale
di Anthony Giddens
Nella politica di oggi la divisione tra sinistra e destra è assai meno netta che in passato, perché al capitalismo non si contrappone più un´alternativa socialista ben definita. Per di più, alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare - ad esempio il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti contemporanei - trascendono la divisione classica tra sinistra e destra.
Eppure la distinzione ha ancora un senso. Essere di sinistra vuol dire avere a cuore alcuni valori essenziali; credere nell´importanza della solidarietà sociale, dell´uguaglianza, della tutela dei più vulnerabili, e nella «libertà sostanziale»: non solo quella economica, o la libertà davanti alla legge, ma una libertà reale per tutti i cittadini.
E significa anche attenersi a un certo quadro politico, in cui si conferisca grande importanza all´attivismo e alla capacità di intervento dei governi, necessaria a controbilanciare la tendenza dei mercati incontrollati di produrre instabilità economica e macroscopiche sperequazioni sociali, sostituendo ai valori sociali parametri puramente economici.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Repubblica 27.12.10
Il filosofo
Se la solidarietà non è mai fuori moda
di Jürgen Habermas
Chi crede tuttora nella forza rivoluzionaria di autoguarigione delle crisi economiche gravita in nebulose profondità attorno al concetto del «politico», o soffia sulla «sollevazione prossima ventura». Il resto è disfattismo.
La «sinistra» deve il suo nome all´ordine degli scanni parlamentari all´Assemblea nazionale francese del 1789. Quanto al termine «socialismo», il suo significato era e rimane nient´altro che la messa in atto delle parole d´ordine della Rivoluzione francese. La libertà non può essere ridotta alla mera possibilità, per i soggetti partecipi di un sistema di mercato, di esprimere individualmente il proprio voto. Solo l´inclusione egualitaria di tutti i cittadini come co-legislatori, in un contesto di formazione di opinioni e volontà politiche informate, può assicurare a ciascuno gli spazi e i mezzi per determinare e plasmare autonomamente la propria personale esistenza.
L´uguaglianza non può essere solo quella formale davanti alla legge, ma deve comportare l´equa ripartizione dei diritti, che devono avere eguale valore per ciascuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale. La solidarietà non deve degenerare in paternalistica assistenza agli emarginati; la partecipazione alla comunità politica con pari diritti non è conciliabile con la privatizzazione, che scarica i rischi e i costi originati a livello sociale complessivo su singoli gruppi o persone, senza indennità o risarcimenti di sorta.
E´ questo il modo in cui la sinistra intende i principi costituzionali, non certo spettacolari, che nelle nostre società democratiche informano il diritto vigente. La sinistra recluta i suoi aderenti tra i cittadini tuttora sensibili alle stridenti dissonanze tra questi principi di fondo e la realtà, da tempo accettata, di una società sempre meno solidale. Una società nella quale le élite si barricano, anche moralmente, nelle loro gated communities è fetida. I mali della sinistra rispecchiano il generale ottundimento di questo spirito normativo, e la crescente tendenza ad accettare come normale e ovvio un egoismo razionalista, che con gli imperativi del mercato è penetrato oramai fin dentro i pori di un ambiente di vita colonizzato.
Naturalmente il deficit della sinistra non è solo di tipo motivazionale, ma riguarda anche il piano cognitivo, ove si è mancato di affrontare tutta la complessità delle sfide reali - ad esempio, i rischi che corre oggi la moneta europea. Altrimenti la sinistra non si limiterebbe a lamentare la distruttività dei mercati finanziari incontrollati, ma ravviserebbe nella speculazione contro la moneta europea un´astuzia politica della ragione economica. Si attiverebbe contro l´asimmetria dell´UE, che a una completa unificazione economica affianca l´incompletezza di quella politica. E comprenderebbe infine che un´Europa democratica e solidale è un progetto di sinistra.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Repubblica 27.12.10
Il saggista
Pensare l’uguaglianza come diritto culturale
di Gianni Vattimo
La distinzione tra destra e sinistra è ancora ben viva e consiste, come sempre, nell´opposizione tra chi prende le differenze - di ricchezza, di salute, di forza, di capacità - come differenze "naturali", e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze "di natura". Di qui il darwinismo sociale che ha sempre caratterizzato la destra, fino al razzismo fascista; e quello che si può chiamare il "culturalismo" della sinistra, che va oltre il dato "naturale". Il problema della sinistra è sempre stato quello di riconoscersi francamente per quel che è, come "cultura vs. natura": quando ha creduto di essere più fedele alla natura (come difesa dei diritti "naturali" o come scienza economica "vera") è sempre diventata totalitarismo. La forza della sinistra sta nel difendere il diritto di chi non ha "diritti", di chi non è "legittimato" né dalla natura (quella che sempre anche il Papa invoca) né della scienza (per lo più al servizio del potere). Il proletariato di Marx non è l´uomo "vero", è solo la classe generale, la grande massa degli espropriati che merita di farsi valere anche solo in nome del (borghese) principio democratico.
Repubblica 27.12.10
L´intellettuale
La sfida della scuola. Un’educazione per tutti
di Fernando Savater
Oggi, la sinistra non può essere altro che quella che difende il concetto di società. Vale a dire, qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione di individui atomizzati e di interessi contrapposti in lizza. I membri di una società vedono se stessi come soci degli altri, vale a dire come collaboratori e complici di un beneficio che in qualche misura deve raggiungere tutti. La sinistra deve ricordare che la democrazia, in qualsiasi luogo del mondo, ha due nemici fondamentali: la miseria e l´ignoranza. Dove la miseria è tollerata, dove l´ignoranza non è combattuta, la democrazia si trasforma in una caricatura di se stessa. Pertanto, la sinistra - che ha già imparato che non può essere che democratica in un modo deciso e scrupoloso - deve tentare di mettere fuori legge le condizioni di povertà estrema - come a suo tempo si mise fuori legge la schiavitù - e deve far sì che l´educazione per tutti, pubblica, laica e senza esclusioni maliziose diventi il suo compito prioritario. Un´altra questione molto attuale che la sinistra deve affrontare è la crescita della corruzione sia politica che finanziaria (che normalmente agiscono insieme) e che minaccia di pervertire la democrazia in "cleptocrazia", mettendo le istituzioni o la sfera pubblica al servizio dei depredatori.
(traduzione di Luis E. Moriones)
Repubblica 27.12.10
I tre voti che pesano sul futuro del paese
di Eugenio Scalfari
INIZIO questo articolo con un´ipotesi. So bene che l´ipotesi configura una realtà virtuale che spesso non coincide con quella reale ma ci aiuta spesso a capire meglio quello che è accaduto.
Facciamo dunque l´ipotesi che il 14 dicembre scorso il governo fosse stato battuto, sia pure per un solo voto, e che Berlusconi si fosse dimesso chiedendo al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere.
Il Presidente - l´ha detto pochi giorni dopo parlando alle Alte Cariche dello Stato - è in linea di principio contrario allo scioglimento anticipato di una legislatura; perciò, prima di addivenire alla richiesta del premier dimissionario, avrebbe verificato l´esistenza di una maggioranza alternativa.
Quella maggioranza - contraria allo scioglimento anticipato ma tuttavia incapace di esprimere un governo coeso e di indicarne il premier - c´era come tuttora presumibilmente c´è. Che cosa avrebbe fatto Giorgio Napolitano di fronte ad un Parlamento che non vuole essere mandato a casa ma non riesce a indicare un nuovo premier?
Forse avrebbe risolto il problema affidando l´incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale, in grado di portare avanti la legislatura rafforzando e restaurando le istituzioni e riconciliando con la politica quella moltitudine di cittadini che è profondamente delusa dall´imbarbarimento istituzionale in atto.
Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare dal governatore della Banca d´Italia, dal presidente del Consiglio di Stato, dal presidente della Corte Costituzionale, da qualche «emerito» di quella medesima istituzione. Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l´incarico ad un «eminente» della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti.
Un governo formato con questi criteri avrebbe probabilmente riscosso la fiducia del Parlamento anche perché, al di là delle appartenenze di partito, un´elevata percentuale di deputati e di senatori non ha nessuna voglia di ritornare ai propri lavori domestici e - in aggiunta - un´elevata percentuale di cittadini elettori non ha alcun desiderio di tornare anticipatamente al voto. Un´ultima considerazione: un voto fatto in questa fase e con la legge elettorale vigente darebbe probabilmente una maggioranza di un tipo alla Camera e una maggioranza di una diversa tipologia politica al Senato. Si avrebbe perciò una nuova legislatura con due Camere diversamente orientate tra di loro, e quindi con una situazione travagliata come e più di quella attuale.
Aggiungo dal canto mio che una campagna elettorale nella presente congiuntura economica non farebbe che esasperare lo scontro sociale già largamente in atto e rappresenterebbe una ghiotta occasione per incoraggiare la speculazione ad attaccare il nostro debito sovrano sui mercati finanziari. Questa del resto è anche l´opinione manifestata pubblicamente e più volte dal Capo dello Stato.
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Tutto il ragionamento fin qui svolto si basa su ipotesi logiche che non prevedono alcuna forzatura costituzionale. Infatti, per quanto riguarda le prerogative del Quirinale, la Corte è chiarissima in proposito: il Capo dello Stato, sentiti i presidenti delle Camere e i gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. La medesima procedura è prevista per lo scioglimento delle Camere.
È perciò probabile che le cose sarebbero andate così, con largo vantaggio per le istituzioni, per i cittadini e quindi per il paese. Ma le ipotesi non sempre si verificano. Nel nostro caso, il 14 dicembre il premier ha avuto un´ampia maggioranza al Senato e la fiducia della Camera per tre voti di scarto. Le modalità di acquisizione di quei tre voti sono note ma ufficialmente non contestabili, salvo improbabili esiti dell´inchiesta giudiziaria in corso.
Il governo è quindi in carica nella piena legalità costituzionale e può benissimo proporsi di andare avanti fino al termine naturale della legislatura, varando un programma di riforme sociali, economiche e istituzionali. Non l´ha fatto prima, quando disponeva di una vasta maggioranza in entrambe le Camere. Potrà farlo ora con tre voti o magari con dieci di sostegno?
Berlusconi e soprattutto Bossi si sono dati la metà di gennaio come termine ultimo. Se a quella data la maggioranza si sarà rafforzata quantitativamente e politicamente, con un accordo con Casini, andrà avanti. In caso contrario Berlusconi andrà al Quirinale a dimettersi chiedendo le elezioni anticipate.
Che cosa farà a quel punto il Capo dello Stato?
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I presupposti della sua azione non sono diversi da quelli precedenti al 14 dicembre scorso. Dovrà perciò verificare se in Parlamento emergerà una maggioranza contraria allo scioglimento oppure no.In quest´ultimo caso la continuità da lui auspicata sarà interrotta e i pericoli per la stabilità economica si riproporranno tali e quali. Avremo dunque perso inutilmente un mese e ci ritroveremo nella stessa situazione dopo aver offerto purtroppo ai cittadini e alla pubblica opinione internazionale lo spettacolo del peggior trasformismo che si sia mai verificato in un paese democraticamente maturo dell´Occidente.
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Avremo dunque la risposta tra tre settimane e ci sarà anche per quella data la sentenza della Corte sul «legittimo impedimento», che non è un elemento indifferente rispetto alle varie ipotesi sopra indicate.Mi domando, e molti si domandano con me, quale sarà l´atteggiamento del centrosinistra nell´ipotesi di elezioni anticipate, oppure in quella di un accordo Berlusconi-Casini-Fini. Vediamo.
Accordo di Casini-Fini con Berlusconi: la legislatura procede fino al 2013 e tenta di fare le riforme tante volte promesse e mai effettuate: nuova legge elettorale, Senato federale, diminuzione del numero dei parlamentari, federalismo fiscale, riforma della giustizia per rendere il processo civile e quello penali più rapidi e il ruolo del Pubblico ministero più simile a quello di un avvocato di accusa. Infine, riforma fiscale che diminuisca il peso delle imposte sul reddito e introduca un prelievo sul patrimonio al di sopra di una certa soglia.
Il gruppo Casini-Fini cercherà di modellare quelle riforme nella prospettiva d´una nuova destra, «repubblicana», che si troverà di volta in volta in contrasto con il populismo berlusconiano o con la Lega o con tutti e due. Se Casini-Fini si appiattissero sui desideri del premier, non si capirebbe per quale motivo sia stata montata questa cagnara da quattro mesi a questa parte.
Sarà dunque un processo molto travagliato, quello sulle riforme, nel corso del quale il Partito democratico potrà essere determinante per far pendere la bilancia dall´uno o dall´altro lato. Ma proprio per questo travaglio è molto probabile che Berlusconi e Bossi manderanno al più presto tutto all´aria.
Se invece il percorso delle riforme proseguisse e con esso la legislatura, verrà anche il momento della scadenza del mandato di Bersani da segretario del Pd e ci sarà un nuovo congresso e nuove primarie di partito. Bersani presumibilmente si ricandiderà ed avrà quasi certamente Veltroni come concorrente. Di Pietro e Vendola saranno fuori da questa tenzone che riguarda soltanto il Pd. Se invece a gennaio Berlusconi e Bossi, non riuscendo a rafforzare la maggioranza, decideranno per la crisi e se Napolitano dovesse accettare lo scioglimento delle Camere, si verificherebbe l´ipotesi peggiore per il Pd, che si troverebbe alle prese con il Terzo Polo sulla sua destra e con Vendola e Di Pietro sulla sua sinistra.
Andare alle elezioni da solo significherà per il Pd esporsi dunque a perder voti sull´uno e sull´altro versante. Puntare su un´alleanza con Casini significherà un salasso a sinistra; puntare sull´alleanza con Vendola significherà affrontare le primarie di coalizione che vedranno molteplici candidati ai nastri di partenza. Non è immaginario pensare che oltre a Bersani e Vendola ci saranno anche Veltroni, probabilmente Bindi e D´Alema, per non parlare di Di Pietro. Una situazione che rischia di polverizzare l´intera sinistra.
Questo è il panorama che occorre evitare a tutti i costi, sperando nella saggezza e nell´umiltà dei vari interlocutori e in un accordo di tutte le opposizioni.
Se debbo dire la mia, questa dell´accordo generale mi sembra un´ipotesi cosiddetta di terzo grado, teoricamente la sola valida, praticamente impossibile da realizzare.
Come si vede, quei tre voti del 14 dicembre rischiano di avere come risultato la scomparsa della sinistra italiana e di consegnare il paese per altri dieci anni al berlusconismo populista, autoritario e leghista. Con la speculazione che spennerà il nostro debito sovrano a suo piacimento.
Chi volesse trovare un solo colpevole non riuscirebbe, lo sono tutti, nessuno escluso.
l’Unità 27.12.10
«Il presidente resta in piedi nel disastro. Ci riconosciamo in lui»
Per il Nobel «Napolitano rappresenta il potere senza portafoglio. È il conforto di un Paese sbrecciato che sotto il cielo scuro può solo credere ai miracoli»
di Toni Jop
Perfino Morgan: dice che la moglie gli ha portato via la figlia. Anche lui scrive a Napolitano, bussa. E Laura Puppato, Pd veneto, scrive al presidente che l'altro giorno i leghisti hanno abbandonato l'aula del consiglio regionale quando il resto dell'assemblea ha intonato l'Inno di Mameli. Chi può aiutarla? Dalla famiglia, alla fabbrica, alla patria: Dario che cosa è successo a questo paese? Cos'ha convinto milioni di italiani che Napolitano è una specie di San Gennaro?
«Ecco la parola: miracolo. Non abbiamo mai smesso di credere ai miracoli e più il cielo si fa scuro più sogniamo la luce, poveri noi. E per fortuna che Napolitano c'è, esiste come parola, esiste come linguaggio di relazione non drogata, come riferimento si impone mentre gli altri soggetti del potere si eclissano, smentiscono, si negano, trascurano, ignorano, zittiscono. Il presidente è “potere senza portafogli”, non ha mezzi, ma incarna l'equilibrio e lo fa parlando. In questi frangenti è il conforto di un paese sbrecciato...»
Sì, come il Papa?
«Sbagliato: il Papa...come si fa a dar retta a un signore che ribadisce: siate buoni, il denaro non è tutto, mentre se ne sta agghindato come un albero di Natale, indossando uniformi lussuose, capricciosi remake di modelli del passato, seduto su poltrone d'oro e con crocifissi d'oro che gli pendono dal collo? Con rispetto parlando, parla con poco rispetto: è il tempo delle ceneri sul capo...».
E Napolitano, invece?
«È nature, non si trucca e ascolta, oltre a dire cose sensate. Ci sono mini-
stri che accusano i ragazzi del movimento di essere degli assassini, ed ecco che il presidente accoglie i testimoni di quegli “assassini” e di colpo il paese delle persone di buona volontà intuisce che da quell'incontro non può che discendere un messaggio di pace, vera, intelligente, sincera che spiazza le parole d'ordine violente di chi ha, come i ministri della repubblica, il potere sulle piazze e sull'ordine pubblico. Napolitano parla a mezza via tra il cinismo del governo e le flebili voci dell'opposizione».
Non ti facevo così tifoso...
«Invece sì. Benché a volte mi capiti di mordermi le labbra per quel che dice – ma poco – e più spesso per quello che avrei voluto avesse detto e non ha detto. Ma sta lì, in piedi in mezzo al disastro e ai venti della barbarie e tiene la posizione, sempre sensata, sempre umana, ti credo che tutti in Italia vorrebbero una parola anche per loro. Chi ci resta?»
Ma non è che siamo tutti figli di uno slittamento della cultura che tende a santificare i collettori delle domande? Guarda Berlusconi: se è non è trattato come un santo lui...
«Accettando il paradosso: la qualità di un santo la riconosci dal modo in cui gli si avvicinano i postulanti. Quelli di Berlusconi sono automi, sembrano – guarda Bondi, che pare verrà sacrificato come il vitello grasso per evitare la conta dei voti – quei cagnetti ciondolanti che la gente impicca ai cruscotti delle auto».
La cosa straordinaria è che Napolitano non soddisfa bisogni, non premia. «Esatto, risponde a una esigenza profonda che è quella di essere ascoltati, riconosciuti. E, facci caso, non smentisce le sue parole, credo sia l'unico soggetto del panorama politico-istituzionale che non ha mai smentito di aver detto quello che ha detto. Parola di presidente. Meno male che c'è».
Corriere della Sera 27.12.10
«Democratici, così non va Sceglieremo caso per caso»
di Arturo Parisi Mario Barbi Antonio La Forgia Fausto Recchia Andrea Papini Albertina Soliani Giulio Santagata
Caro Bersani, quasi tutte le parole che negli ultimi diciotto anni hanno accompagnato, e guidato, il nostro cammino comune hanno perso il loro senso. Progetto, democrazia governante, scelta maggioritaria, alternativa, bipolarismo, vecchio ulivo, nuovo ulivo, primarie, democrazia di partito, categoria di partito e, soprattutto, partito nuovo: queste sono le più importanti ma non le uniche. Dire che abbiamo perso il bandolo della matassa è il minimo ma, assieme a questa asserzione, ci pare fondamentale riconoscere la necessità di aprire una fase di ricerca, di una ricerca che non possa essere più contenuta nei rituali e nelle procedure di partito ma debba svolgersi, invece, in un clima di assoluta libertà tra i cittadini. Nel corso del tempo si è affermato, per di più per iniziativa dei principali dirigenti del partito, un modo di «essere» partito e di «stare» nel partito che non corrisponde più alle forme evocate in passato dal termine «partito» e, allo stesso tempo, promesse in nome di un partito nuovo per il futuro. Sono talmente tanti gli episodi di questa mutazione che non ci si fa più caso. La costituzione di associazioni con propria autonoma e formale membership, il rifiuto di riconoscere le sedi ufficiali come primo e fondamentale luogo di analisi e valutazione dei principali passaggi politici ed elettorali, la remissione del mandato di segretario nazionale fuori dagli organi ufficiali, i coordinamenti extrastatutari sono solo alcuni episodi di questo lungo commiato. Non meno rilevanti sono poi gli episodi che hanno segnato la vita parlamentare. Valga per tutte la clamorosa dissociazione dall’indicazione del gruppo di un’intiera filiera della dirigenza, a cominciare da te, in occasione dell’emendamento sul finanziamento pubblico dei partiti. Senza la forza assicurata alla struttura di comando dal controllo delle risorse messe a disposizione dal finanziamento pubblico e senza il potere che viene ai vertici dirigenti dal conferimento di incarichi e posizioni, del partito resterebbe ben poco. In questo contesto non sorprende, per fare un esempio, leggere di patti decisivi per la vita del partito stretti durante un pranzo, e poi di una loro messa in causa in una successiva intervista, né dell’illustrazione sui media della linea di partito da parte di dirigenti pur autorevoli che non rivestono, tuttavia, nel presente responsabilità formali. Piuttosto che attardarci, come è capitato in passato, a recriminare sul mancato rispetto di forme ormai superate e di cambiamenti promessi, tanto vale prenderne atto. Siamo perciò arrivati alla conclusione di concorrere, d’ora innanzi, alla vita del partito valutando occasione per occasione, cominciando dalla prossima riunione della Direzione Nazionale, in relazione alla possibilità di prendere decisioni fondate su un trasparente confronto sufficientemente approfondito e assunte in contradditorio su documenti riconoscibili. Non riteniamo infatti produttivo continuare con la pratica di riunioni che precipitano in frettolosi voti unanimistici chiamati a confermare decisioni già assunte. Con amicizia Arturo Parisi Mario Barbi Antonio La Forgia Fausto Recchia Andrea Papini Albertina Soliani Giulio Santagata.
Corriere della Sera 27.12.10
D’Alema e i giudici «L’ambasciatore Usa mi ha frainteso»
Ma il Pdl lo attacca: è la solita doppia morale
di Andrea Garibaldi
ROMA — Massimo D’Alema dice che no, lui non ha mai pronunciato quella frase, non ha mai detto che «la magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano» . La frase sarebbe stata ascoltata nel 2007 dall’ambasciatore Usa a Roma, Ronald Spogli, in un colloquio con D’Alema, allora ministro degli Esteri, e riportata in un cable a Washington il 3 luglio 2008. Il cable è fra quelli diffusi da Wikileaks. Dice D’Alema: «Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni, viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di un fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me» . D’Alema non precisa circostanze del fraintendimento. Ma negli ambienti a lui vicini si fa notare come Spogli abbia riferito la frase di D’Alema un anno dopo averla raccolta. Fosse stata una dichiarazione così importante, l’ambasciatore avrebbe atteso tanto per comunicarla? E la memoria è così precisa 12 mesi dopo? Il Pdl però vuole prendersi qualche «rivincita» . Il vicepresidente dei senatori, Francesco Casoli, chiede che D’Alema, presidente del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza, riferisca urgentemente al Copasir stesso sulle «conseguenze per la sicurezza nazionale» derivanti dalla minaccia portata (in base al dispaccio Spogli) dalla magistratura. All’inizio di novembre il presidente D’Alema ha chiesto l’audizione di Berlusconi, sul tema della sua sicurezza personale, dopo la storia della marocchina Ruby. Casoli, tuttavia, non fa parte del Copasir. Ne fa parte, invece, Gaetano Quagliariello, vicepresidente vicario del gruppo Pdl al Senato, che corregge: «Certo, un presidente del Copasir che riferisce al Copasir sarebbe divertente. Ma quella di Casoli è una provocazione. Non insisteremo» . A Quagliariello preme di sottolineare «la doppia morale del centrosinistra: noi fin dall’inizio del caso Wikileaks abbiamo sostenuto che i report diplomatici sono uno strumento nel quale vengono messe in chiaro notizie non accertate o pettegolezzi. Quando questo materiale toccò Berlusconi si arrivò quasi a chiedere l’impeachment. Ora, che riguarda D’Alema, viene considerato pour-parler o errore dell’ambasciatore Spogli» . D’Alema non ha mai nascosto la sua posizione dialettica nei confronti della magistratura, spesso in contrasto con altri settori del suo partito. Nel 1993 definì «soviet di Milano» il pool di «mani pulite» . Nel 1997, segretario pds, in una direzione dichiarò: «Non sono del partito dei giudici ma del partito dello stato di diritto» . Nel giugno 2007, investito dal caso Unipol-Bnl per un colloquio con il presidente della compagnia, Consorte, parlò del «suk arabo delle intercettazioni, sotto lo sguardo trascurato della magistratura» .
l’Unità 27.12.10
Difformità di opinioni nel Pd sull’intesa raggiunta a Torino senza la firma della Fiom-Cgil
Una «regressione» per Fassina, ma c’è chi plaude: dai piemontesi agli ex Margherita
Fiat, la linea Marchionne divide anche i Democratici
Pareri diversi nel Partito democratico sull’accordo Mirafiori. Per il responsabile Lavoro apre la strada allo smantellamento del contratto nazionale. Il segretario piemontese, invece, lo ritiene un risultato importante.
di Maria Zegarelli
L’accordo raggiunto su Mirafiori non divide soltanto il sindacato. Fiat e Marchionne impongono nuove regole industriali destinate a lasciare un segno profondo nelle relazioni sindacato-impresa ma anche nella riorganizzazione del lavoro. E se dal governo Silvio Berlusconi lo definisce addirittura un «accordo storico» e il ministro Maurizio Sacconi «una scommessa vinta», nel Partito democratico anche in questo caso i pareri sono difformi.
Per Stefano Fassina, responsabile Lavoro del Nazareno, «non può essere giudicato un successo da nessuno, è un accordo regressivo, frutto di una asimmetrica nei rapporti di forza tra capitale finanziario libero nella dimensione globale e lavoro prigioniero della dimensione locale. Ma è anche frutto di regole della rappresentanza inadeguate e di inadeguate regole della democrazia nei luoghi di lavoro». Secondo Fassina l’accordo separato apre «allo smantellamento del contratto nazionale, alla negazione della democrazia sindacale alla concorrenza al ribasso sulle condizioni del lavoro».
PERCHÉ LA ROTTURA?
Il senatore Achille Passoni, con un passato da sindacalista mai dimenticato, è molto critico. «Non si capisce dice da dove arrivi tutto questo entusiasmo del governo che durante tutta questa vicenda non ha mai speso una parola. Se gli investimenti sono veri, cose sulla quale è bene tenersi ancora un margine di verifica, questo è un fatto importante. Ma continuo a pensare che investimenti e nuovi rapporti sindacali impronati su consenso e partecipazione non siano in contraddizione. Dove sta scritto che per una nuova organizzazione del lavoro si debba arrivare ad una rottura?». Grande preoccupazione anche per Michele Ventura, deputato, secondo cui «la nuova dimensione del lavoro in un’epoca di globalizzazione avrebbe imposto una riflessione sulle conseguenze e invece le risposte rimangono nazionali in un contesto internazionalizzato». Grave, secondo Ventura, che in Italia il più grande gruppo industriale si sia mosso in una logica isolata dal resto del mondo produttivo, «questo non è un avanzamento per il mondo del lavoro». Piero Fassino, candidato sindaco del capoluogo piemontese, definisce «importante l’accordo perché consente di un perdere l’investimento», ma aggiunge il fatto che non sia stato sottoscritto da tutte le parti sindacali è un punto delicato che va affrontato con responsabilità: chi non ha firmato non deve essere oggetto di discriminazione». Anche il segretario regionale del Pd piemontese, Gianfranco Morgando, ritiene la firma dell’accordo, «un fatto molto importante per Torino. Era prioritario salvaguardare l’investimento per le conseguenze che questo comporterà per il futuro produttivo ed occupazionale della nostra città e del Piemonte». Quanto alla rottura nel sindacato per il futuro, si augura, che «si possa recuperare una strategia comune». Francesco Merlo, vicepresidente della Commissione Vigilanza Rai, si stupisce, al contrario, «che qualche sindacato abbia rifiutato la firma dell’accordo essenziale per il futuro di migliaia di lavoratori, un atteggiamento al di là del rispetto di tutte le opinioni, che dimostra scarsa cultura di governo e fortemente condizionato da posizioni pregiudiziali ed ideologiche». Distanza siderale da Roberto Della Seta: «Il modello sociale e industriale disegnato dall’accordo imposto da Marchionne a una parte del sindacato tutto è meno che moderno, propone piuttosto un ritorno indietro di cinquant’anni, con l’idea non proprio futurista di estromettere dalla fabbrica i sindacati e i lavoratori dissenzienti».
Repubblica 27.12.10
Il segretario generale parla di ritorno agli anni Cinquanta con l´esclusione della Fiom dalla fabbrica
Camusso all’attacco di Marchionne "Antidemocratico e autoritario"
La leader Cgil: Cisl e Uil sono ormai sindacati aziendalisti
di Roberto Mania
Noi non avremmo mai firmato un accordo concordando l´esclusione di un sindacato dall´azienda
O fa sentire la sua autorevolezza nel sistema delle imprese o prevarranno le regole della giungla
Un sindacato non può limitarsi all´opposizione, altrimenti rinuncia alla tutela concreta dei lavoratori
ROMA - «Sergio Marchionne? Un antidemocratico, illiberale e autoritario», risponde Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che per la prima volta parla dell´accordo separato alla Fiat-Chrysler raggiunto alla vigilia di Natale. Un´intesa - dice - che la Cgil non avrebbe mai firmato perché «non si può concordare l´esclusione di un sindacato». Camusso attacca Cisl e Uil: «Si sono trasformate in sindacati aziendalisti che propagano la posizione della Fiat». Poi la Confindustria: «O fa sentire la sua autorevolezza nel sistema delle imprese oppure prevarranno le regole della giungla. Non può limitarsi a guardare perché è in atto un´offensiva pure nei suoi confronti». Ma ci sono anche errori della Fiom, sostiene il leader della Cgil: «Dovremo discuterne al nostro interno». Nessuno sciopero in vista (a parte quello della Fiom) ma una grande campagna sul tema della libertà sindacale. E il Pd? «Bene Bersani - risponde Camusso -, ma troppo spesso a sinistra si sviluppa uno stucchevole dibattito sull´innovazione senza accorgersi che può rappresentare anche un profondo arretramento».
Cosa significa l´esclusione della Fiom da Mirafiori, fabbrica simbolo nella storia industriale italiana?
«Significa il ritorno agli anni Cinquanta. Allora c´erano i reparti confino, oggi c´è l´esclusione della rappresentanza sindacale. L´idea, tuttavia, è esattamente la stessa. E cioè quella di costruire un sindacato non aziendale bensì aziendalista il cui unico scopo è quello di propagare le posizioni dell´impresa».
Non le pare un po´ offensivo nei confronti della Cisl e della Uil?
«Guardi, nel suo libro "Il tempo della semina", Bonanni racconta con orgoglio come, proprio negli anni Cinquanta, la Cisl rifiutò la richiesta della Fiat di inserire nelle liste cisline per l´elezione delle Commissioni interne alcuni nomi graditi all´azienda. È Bonanni che illustra bene come il sindacato aziendale sia la negazione di quello confederale. Ora dovrebbe spiegarci lui come considera un accordo che contiene al suo interno le regole per escludere un altro sindacato confederale».
Si sta prefigurando un sistema di relazioni industriali senza la Cgil?
«Secondo me la Fiat ha deliberatamente costruito una successione di eventi per negare la libertà sindacale».
Marchionne ha sempre detto che tesi di questo genere non stanno né in cielo né in terra.
«E allora, perché non applica l´accordo interconfederale del ´93 sulla libertà sindacale? Vorrei poi ricordare a Confindustria che non può restare immobile se vuole evitare che salti, come ha riconosciuto, il sistema della rappresentanza sindacale. Se non si vuole rischiare che il conflitto sociale diventi ingovernabile bisogna al più presto trovare un accordo sulla rappresentanza e la democrazia sindacali che completi il protocollo del ‘93».
Spetta alla Confindustria aprire il negoziato?
«È irrilevante chi lo fa. Io credo che Cisl e Uil abbiano sottovalutato l´effetto dell´intesa per Mirafiori. Perché quando si permette a una grande impresa di escludere un sindacato, si sa con chi si comincia ma non si sa con chi si finisce».
Considera Marchionne un innovatore o, come si diceva un tempo, un reazionario?
«Penso che il tratto distintivo di quell´accordo sia il suo essere anti-democratico. Direi che Marchionne è un anti-democratico e illiberale. Il tema vero è questo. Aggiungo che non può esserci un modello partecipativo che si fondi sull´impedimento della libertà sindacale».
Ma la Fiom non poteva firmare "turandosi il naso", rimanendo però all´interno della fabbrica?
«È difficile applicare il principio del voto con il naso turato nelle trattative sindacali. La Fiom, possibilmente con la Cgil, dovrà aprire una discussione su questa sconfitta. Perché, l´ho già detto, un sindacato non può limitarsi all´opposizione altrimenti rinuncia alla tutela concreta dei lavoratori».
Sta criticando la Fiom. Le colpe, allora, sono anche a casa sua?
«Quando c´è una sconfitta non possono non essere stati commessi degli errori. Nessuna grande sconfitta è solo figlia della controparte. Ce l´ha insegnato Di Vittorio: se anche ci fosse una responsabilità in percentuale minima, su quella ci si deve interrogare».
Perché condivide il no all´accordo per Mirafiori?
«Perché quella proposta è poco rispettosa della fatica del lavoro. Non si può applicare ai lavoratori la cosiddetta "clausola di responsabilità", secondo la quale non è possibile opporsi all´intesa e scioperare anche se le condizioni di lavoro diventano insopportabili. Una clausola di quel tipo possono sceglierla sindacati e imprese ma non possono subirla i lavoratori».
Dunque, questo è il motivo del no?
«Questo è il motivo . Comunque la Cgil non firmerebbe mai un accordo che escludesse un altro sindacato».
Ammetterà almeno che Cisl e Uil hanno reso possibile l´investimento della Fiat e così il futuro produttivo di Mirafiori?
«Capisco questo ragionamento e lo considero un tema importante. Tuttavia mi piacerebbe sapere qual è il progetto "Fabbrica Italia" e come la Fiat pensi di colmare il ritardo che ha accumulato rispetto ai suoi concorrenti sul versante dei modelli. Ma anche per questo continuo a non comprendere quale necessità ci fosse di ricorrere a un modello autoritario che ci riporta agli anni Cinquanta».
Corriere della Sera 27.12.10
Camusso, messaggio a Confindustria per «allearsi» contro Marchionne
L’idea del segretario Cgil: è interesse comune circoscrivere l’anomalia Fiat
di Enrico Marro
ROMA — Qualche giorno di riposo nella sua Milano e poi dal 3 gennaio di nuovo a Roma per lavorare a quella che per il segretario della Cgil, Susanna Camusso, è la priorità del 2011: «Aprire in tempi rapidi un tavolo per un accordo sulle regole della rappresentanza sindacale» . Una proposta che la Camusso lancia innanzitutto a Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, perché è convinta che gli accordi Fiat di Pomigliano e di Mirafiori pongano un problema alla Fiom-Cgil che non li ha firmati, ma anche all’associazione degli imprenditori. Alla Cgil perché, come ha detto più volte il nuovo leader ai suoi collaboratori, la Fiom non può continuare a collezionare sconfitte senza cambiare linea. E alla Confindustria, perché sarebbe la prima a fare le spese di un allargamento del sistema Marchionne. Insomma, Susanna Camusso vede un interesse convergente della Cgil e della Confindustria a circoscrivere quella che sarebbe l’anomalia Fiat e a rilanciare il sistema delle relazioni industriali. L’obiettivo è un’intesa interconfederale tra sindacati e Confindustria, sul modello del pubblico impiego (quindi poi da tradurre in legge), per verificare anche nel privato chi rappresenta chi ed è titolato a firmare accordi validi per tutti. Un sistema per garantire il pluralismo e il ruolo degli iscritti, sul quale insiste in particolare la Cisl, ma anche i diritti sindacali di chi prende i voti dei lavoratori, rendendo impossibili gli accordi «per ammazzare un sindacato» , come la Cgil e la Fiom giudicano quelli voluti da Marchionne con il via libera di Bonanni (Cisl) e Angeletti (Uil). Se le risposte della Confindustria alla sua proposta saranno positive, anche la pressione della Cgil per ammorbidire la Fiom diventerebbe più forte. Camusso ha convocato per il 10 gennaio l’assemblea nazionale delle Camere del Lavoro. Circa 500 fra i massimi dirigenti della Cgil arriveranno da tutti i territori a Chianciano per fare il punto e impostare il 2011. Che il segretario della Cgil vorrebbe all’insegna della ripresa di un dialogo costruttivo, al quale necessariamente dovrebbe piegarsi anche la Fiom. Se invece né Marcegaglia né Bonanni e Angeletti volessero aprire la discussione sulla rappresentanza, questo verrebbe interpretato dalla Cgil come un’ulteriore dimostrazione di un disegno volto a escluderla dal gioco. E ciò renderebbe inevitabile una reazione, rafforzando i falchi. Secondo la Camusso, si fa ancora in tempo ad evitare lo scenario peggiore. In ogni caso lei accelera. Sa che la Fiom ha convocato per mercoledì il comitato centrale che potrebbe proclamare lo sciopero generale dei metalmeccanici. Ma vorrebbe arrivare a produrre un cambiamento di clima prima della riapertura dei cancelli di Mirafiori e prima del referendum previsto per metà gennaio. Due, tre settimane al massimo per dare una prospettiva nuova al 2011. E uscire da una situazione pesante. In questi primi due mesi da leader, Susanna Camusso ha toccato con mano l’isolamento istituzionale nel quale è finita la Cgil. Rapporti con Berlusconi: inesistenti. Con i vari ministri: sporadici. Con Marcegaglia: occasionali. Con Bonanni e Angeletti: formali. Con Marchionne: zero assoluto, non si sono mai parlati, nemmeno per gli auguri. Restano i lavoratori: i 5,7 milioni di iscritti (di cui 2,9 pensionati), le migliaia di delegati nelle aziende e negli uffici e il rapporto rilanciato con i giovani proprio in questi primi due mesi di gestione Camusso. Ma tutto questo non basta, se oltre alla protesta non si porta a casa qualcosa.
l’Unità 27.12.10
Esplosioni a catena a Jos dove da tempo si combattono gruppi estremisti di fede diversa
Attaccate due chiese a Maiduguri, nel nordest del Paese: uccise almeno sei persone
Scontri fra islamici e cristiani Decine di morti in Nigeria
Oltre 30 morti e una settantina di feriti la notte di Natale in Nigeria, nella città di Jos. Devastata anche una chiesa, morti il sacerdote che officiava la messa e sei fedeli. Frattini convoca l’ambasciatore nigeriano.
di Rachele Gonnelli
Case date alle fiamme, corpi coperti di sangue portati via a braccia dalle strade. Sono le testimonianze che arrivano dalla città di Jos nella regione centrale del Pla-
teau in Nigeria, il più popoloso degli stati Africani e uno dei più inquieti. Le violenze si sono protratte fino a ieri ma sono scoppiate la sera della Vigilia quando anche una chiesa cattolica a Maiduguri è stata devastata proprio mentre vi si celebrava la messa. Morti il sacerdote officiante e sei fedeli.
Complessivamente la notte di Natale si sono contate 32 vittime e almeno 74 feriti negli ospedali. È stata raccontano i media locali una notte si saccheggi, barricate, auto incendiate, devastazioni. E per la prima volta è comparsa in città la
dinamite. Le autorità parlano di «molteplici esplosioni» in «attacchi simultanei» almeno sette, a quanto pare uno dei quali ha colpito un mercato affollato di persone intente a fare gli acquisti dell’ultimo minuto prima della festa.
Il presidente nigeriano Jonathan Goodluck Ebele ha espresso il suo «sgomento» per l’alto numero di vittime «sia cristiane che musulmane» e ha promesso l’arresto dei responsabili di questi atti che lo stesso capo di Stato Maggiore dell’esercito, Azubika Ihejirika, ha definito «terroristici». Ciò che è certo è che la situazione è del tutto sfuggita di mano alle forze dell’ordine che soltanto ieri, con l’arrivo a Jolo del vicepresidente Namadi Sambo, hanno ripreso il controllo delle strade. Cosa e chi abbia scatenato tanto orrore, non è chiaro. Pare che tutto sia iniziato da un’esplosione sul ponte verso Gada Biyu e che da lì, in mezzo ad altre esplosioni di Ied, ordigni artigianali, sia partita una cieca rappresaglia. I principali sospettati al momento sono i membri della setta fondamentalista islamica di Boko Haram. Il governatore del Plateau Jonah Jang ha messo in correlazione gli attentati con la campagna elettorale le primarie presidenziali sono il 13 gennaio -, puntando il dito contro «persone altolocate» che potrebbero avere interesse a strumentalizzare scontri etnici e religiosi a fini politici. Per il posto di candidato presidente del partito al governo il Pdp si sfidano l’attuale presidente Goodluck, che viene dal Sud cristiano e animista, e il suo antico rivale Atiku Abubakar, del Nord, a prevalenza musulmano.
Di fronte a questo quadro tanto complesso quanto opaco il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, anticipando persino il Segretario di Stato vaticano, ha convocato l’ambasciatore nigeriano per chiedergli conto dell’ondata di «intolleranza».
Ancora più arduo etichettare la bomba esplosa a Sulu nell’isola di Jolo dell’arcipelago delle Filippine la mattina di Natale. Anche qui è stata colpita una chiesa, nella missione Asturias, e tra i 9 feriti c’è anche qui un religioso, don Romeo Villanueva. L’ordigno secondo la polizia locale che proprio a pochi metri dalla chiesa colpita ha il suo quartier generale non mirava a fare una strage e infatti le vittime presentano solo ferite alle gambe. Il governatore Ansarudin Adiong, della minoranza musulmana, ha definito l’attacco «satanico e anti islamico, perchè l’Islam insegna il rispetto dei luoghi di culto e dei religiosi anche di altre confessioni». Principale sospettato è il guerrigliero Galib Andang, ex ufficiale maoista del Fronte di liberazione Moro poi passato ai radicali islamici di Abu Sayyaf collegati con la Rete di Al Qaeda. Galib ha fin dal ‘93 preso di mira chiese cattoliche e preti e potrebbe ora muoversi autonomamente con un suo gruppo di fedelissimi. Il fronte Moro invece proprio sabato scorso ha fatto un notevole passo in avanti per siglare la pace con le truppe governative grazie alla mediazione malese. Mentre il gruppo di Abu Sayyaf quello stesso giorno stava negoziando il riscatto di un commerciante rapito nella vicina isola di Basilan.
Corriere della Sera 27.12.10
Lo scontro tra Oriente e Occidente si giocherà in terra d’Africa
di Benny Morris
Dimentichiamo Osama bin Laden, dimentichiamo il muro di sicurezza tra Gaza e Israele, e dimentichiamo — per un istante— gli attentatori pazzi all’opera in Iran. Teniamo d’occhio piuttosto il Sudan, perché rischia di trasformarsi nel prossimo teatro di guerra nell’attuale e perdurante scontro di civiltà. Da decenni le popolazioni cristiane e animiste della regione meridionale del più grande Stato africano (due milioni e mezzo di chilometri quadrati) combattono per liberarsi dai dittatori arabi musulmani che li governano da Khartoum. Nei ripetuti episodi di guerra civile, che si susseguono da cinquant’anni a questa parte, hanno trovato la morte da uno a due milioni di persone, soprattutto nelle regioni meridionali, ogni qualvolta i mezzi corazzati e i caccia bombardieri piombano dal nord a devastare e annientare i loro villaggi. Oggi queste popolazioni vogliono la secessione e il 9 gennaio 2011, in base agli accordi firmati nel 2005, si terrà un referendum sull’integrità territoriale del Sudan. Tutti gli osservatori concordano che le operazioni di voto, se correttamente eseguite e conteggiate, saranno in misura preponderante a favore della spartizione del Paese. Come reagirà il nord? A giudicare dal comportamento della classe dirigente nell’ultimo mezzo secolo e, più di recente, dalle dichiarazioni del presidente Omar al-Bashir verso i suoi concittadini musulmani — ma neri — del Darfur, nel Sudan occidentale, la reazione del nord sarà la peggiore immaginabile. Il sud possiede i giacimenti petroliferi, la più preziosa risorsa naturale del Sudan, e il nord non è disposto a rinunciarvi alla leggera, proprio come con grande difficoltà è stato costretto a fare a meno della sua tradizionale riserva di schiavi provenienti dalle regioni meridionali. (È da decenni che l’America bianca recita il mea culpa per i crimini commessi dai suoi antenati nei confronti degli schiavi neri, importati dall’Africa, sfruttati e oppressi. Il mondo arabo, che per secoli ha saccheggiato le riserve umane dell’Africa nera, e si calcola abbia ridotto in schiavitù molti milioni di esseri umani, se ne infischia largamente di questo orribile crimine che macchia la sua storia) Nei mesi successivi al referendum, le popolazioni meridionali, sotto la guida del Movimento per la liberazione del popolo sudanese, fondato da Salva Kiir, cercheranno di mettere in piedi il loro Stato. Si spera che arriveranno aiuti dall’America e dall’Europa, e forse anche da Israele. Ma il nuovo Stato avrà una nascita assai travagliata. Innanzitutto gli occorrerà un nome (Azanya?), forse una lingua nazionale per sostituire l’arabo (il Moru?). Quasi subito, moltitudini di rifugiati (quanti milioni?)— tutti quei cittadini meridionali emigrati nel ricco nord nel corso degli anni, dove sono stati sfruttati come sottospecie umana — affluiranno nel sud liberato. La realizzazione di infrastrutture— il nord ha costruito pochissime strade al sud — richiederà miliardi, e molti anni di lavoro. La ricostruzione delle zone devastate dalla guerra civile sarà anch’essa un’impresa immane. Resta tuttavia la preoccupante incognita se il nord, governato da un uomo accusato di genocidio e di crimini contro l’umanità (nel Darfur) dal Tribunale internazionale dell’Aia, sia davvero disposto a consentire, nel sud del Paese, la pacifica e ordinata transizione da provincia arretrata a nuova nazione. A giudicare dal passato, scorreranno fiumi di sangue prima che il Sudan meridionale possa diventare un libero Stato, se mai lo sarà. Certo, il mondo arabo e musulmano, come da copione, a prescindere da qualunque considerazione di ordine morale, appoggerà sempre e comunque le decisioni di Bashir. Nei Paesi che fanno da ponte tra l’Occidente (di retaggio greco-giudeo-cristiano) e l’Oriente (musulmano) — nelle Filippine, in Thailandia, Kashmir, Iraq (dove proprio in questi giorni la minoranza cristiana viene emarginata ed esiliata), Nigeria, Israele/Palestina, e fin nelle strade e periferie delle città occidentali (tra le quali, di recente, anche Stoccolma) — si accendono i focolai dello scontro globale tra le civiltà. E le zone di confine tra il nord e il sud del Sudan, purtroppo, non tarderanno a unirsi alla lotta. (traduzione di Rita Baldassarre)
l’Unità 27.12.10
Intervista a Tony Gatlif
«Lo sterminio dei rom che la Francia non vuole ricordare»
di Flore Murard-Yovanovitch
Il regista di origini gitane parla di «Korkoro» il suo nuovo film premiato al MedFilm Festival di Roma. Storia dell’internamento del suo popolo nei lager francesi del regime di Vichy. E in Italia non trova una distribuzione...
Memoria cancellata. «Il genocidio dei rom che ha fatto 500mila morti in tutta Europa è negato, nello stesso modo in cui è negato lo stesso popolo»
La denuncia. «Ancora oggi è una storia troppo poco conosciuta. Ma la discriminazione degli zingari è ancora viva ovunque»
Al MedFilmFestival diRoma l’ultimo film di Tony Gatlif, Korkoro (Freedom), proiettato in esclusiva, si è aggiudicato la Menzione Speciale della Giuria. Kabyle e rom, Gatlif è il vitale cineasta che più di ogni altro ha raccontato e descritto, inventandosi una sorta di «cinema nomade», la vita e la cultura itinerante degli zingari. Il suo occhio ha seguito il continuo viaggio dei rom dall’India alla Spagna, con poesia e musiche senza fiato.
In Korkoro, che rischia di non essere nemmeno distribuito in Italia, racconta la tragedia di cui è stata vittima la popolazione rom durante le persecuzioni del regime di Vichy, collaborazionista del regime nazista; ma il film esce dai confini storici per mettere in luce la difficile sorte che i rom subiscono ancora oggi. Per restituire bellezza e dignità al popolo gitano.
Il film racconta, in particolare, la storia di persecuzioni e internamento degli zingari in campi di detenzione, durante il regime francese di Vichy che si era alleato con gli occupanti nazisti tedeschi. Perché ha scelto quelle pagine nere per raccontare oggi la vita degli zingari?
«Ho scelto il contesto delle leggi discriminatorie di Vichy contro i rom, perché è ancora oggi una storia troppo poco conosciuta; fa ancora parte, a malapena, dei libri di scuola. Si conosce un po’ meglio la deportazione degli zingari “francesi” verso i campi di sterminio nella Germania nazista, ma si sa meno che furono 20.000 quelli rinchiusi in campi francesi, da poliziotti francesi, e questo fino al 1946, malgrado la guerra fosse finita nel 1945. Il genocidio (Pojamos) dei rom, che ha fatto 500.000 morti in tutta Europa, è ancora negato, nello stesso modo in cui viene negato lo stesso popolo». Senza corroborare l’idea di un ritorno a tali persecuzioni collettive, l’odierno atteggiamento discriminatorio di governi europei non rischia di legittimare un senso di intolleranza, quando non di vera e propria xenofobia, nei confronti degli zingari? Secondo lei sono di nuovo a rischio di violenza? «Certo, ci sono stati vari attacchi violenti contro i rom, dall’Ungheria all’Italia, passando per la Francia. Le frontiere europee sono scomparse per tutti tranne che per i rom... È la ragione per cui non bisogna lasciare politici ignoranti parlare senza misura, senza consapevolezza del peso delle loro dichiarazioni. Sparlare dei rom è come lanciare i cani su di loro. Chi, come noi o come i media, deve opporre resistenza, come è avvenuto quest’estate in Francia per ostacolare le espulsioni. Il mio ruolo di cineasta è stato quello di allertare su cosa sarebbe successo appena alcuni mesi dopo aver girato il film: mi sentivo che la nostra epoca avrebbe riprodotto una “eco” degli anni 30. Certe “soluzioni” politiche hanno avuto e hanno ancora come scopo di “rendere invisibili” gli zingari». Perché il nomadismo, la libertà e la diversità fanno così paura all’Europa. Forse perché la sua è una geografia stanziale, sedentaria, fissa?
«Da sempre l’Europa ha nutrito una forma di “repulsione” nei confronti degli zingari, ma oggi come mai il suo mondo è stretto, gretto, meschino, pieno di moralismo e di consumismo. Le popolazioni europee mostrano una drammatica “chiusura” mentale. In questo mondo ottuso, i diversi sono visti male. E il popolo rom spicca in “visibilità” ancor di più, perché vive la sua libertà in modo totale, senza freni. Non a caso ho intitolato il mio film Libertà (ma Korkoro nel film risuona anche in un’altra parola Chorchoro che in romanè significa solo, povero, nda)». Riconoscendo l’importante contributo del popolo rom alla cultura di ogni Paese che ha attraversato, con le sue vaste contaminazioni artigianali e musicali, un’Europa che lo “annulli” non sarebbe più impoverta, meno Europa?
«Il popolo rom ha contribuito immensamente alle varie culture, nel trasmettere arrivando dalla profonda India, una carovana di storie orali, di parole nuove, musiche e danze, “savoir-faire” e tecniche (come i lavori in ferro battuto o in altri metalli). Gli zingari sono come api. Senza di loro non ci sarebbero più fiori né alberi. Senza di loro il flamenco sarebbe solo un vago rumore di tamburi e violini: non sarebbe il flamenco!»
Corriere della Sera 27.12.10
Riforma sanitaria Obama rilancia il «piano fine vita»
I repubblicani accusano: «Burocrati della morte»
di Maria Serena Natale
I democratici l’hanno tenuta in sordina il più possibile, finché la notizia è comparsa sul New York Times il giorno di Natale, rilanciando il dibattito sulle prerogative della politica nei territori della coscienza. Stralciata dalla riforma sanitaria faticosamente approvata lo scorso marzo, dal primo gennaio 2011 sarà di fatto ripristinata la possibilità per i pazienti americani di rinunciare a terapie invasive ed esprimere preferenze sui trattamenti di fine vita. Tutto grazie a un regolamento contenuto nel Medicare, il programma federale di assicurazione che copre gli over 65: il governo pagherà il servizio di informazione prestato dai medici sulle diverse opzioni per interrompere cure aggressive e sulle procedure per predisporre «direttive anticipate» con le quali i cittadini potranno mettere nero su bianco fino a che punto desiderino essere assistiti in caso di malattie che limitino la loro capacità di comunicazione. Il riferimento a qualsiasi tipo di indicazione anticipata era stato eliminato dalla versione definitiva della legge di riforma della sanità perché considerato dai critici, come il prossimo Speaker della Camera John Boehner, un pericoloso varco che apriva la strada all’eutanasia. L’Amministrazione Obama ha recuperato il concetto nella stesura dei regolamenti attuativi che entreranno in vigore con il nuovo anno e che includono la «pianificazione volontaria» anche sul fine vita tra i temi da affrontare nelle visite di controllo annuali previste e coperte dal Medicare. «La programmazione — si legge nel preambolo dei regolamenti che cita studi dell’Università del Colorado e ricerche pubblicate dal British Medical Journal — migliora il livello di soddisfazione del paziente e riduce lo stress, l’ansia, la depressione nei familiari che sopravvivono» . «I malati non saranno più in grado di controllare i trattamenti nella fase finale» , denuncia il movimento pro-vita Life-Tree. E contro «un governo orwelliano che inganna e agisce nel segreto» , i siti Web vicini ai repubblicani riprendono la formula dei «panel della morte» coniata nel 2009 dall’ex candidata alla vice presidenza Sarah Palin in riferimento a presunti «comitati di tecnici e burocrati» delineati dalla riforma «per decidere quali pazienti curare e quali abbandonare» . Proprio del pericolo di ravvivare la «leggenda» paliniana parlavano alcune email diffuse tra attivisti democratici ai primi di novembre e intercettate dal Times. «Invitiamo a festeggiare la vittoria con moderazione — si legge in un messaggio dell’ufficio del deputato dell’Oregon Earl Blumenauer, tra i principali sostenitori dell’escamotage della Casa Bianca— poiché i regolamenti possono essere ancora modificati, soprattutto se i leader repubblicani tenteranno di utilizzare questo piccolo provvedimento per perpetuare il mito dei panel» , che non compaiono nelle normative ma hanno toccato un nervo scoperto nella società americana: secondo un recente sondaggio della Kaiser Family Foundation per il 30 per cento degli over 65 la riforma li prevede davvero. Politicamente, la strada dei regolamenti attuativi potrebbe dimostrarsi uno strumento strategico importante a disposizione dei democratici per aggirare l’ostruzionismo nel nuovo Congresso uscito dalle elezioni di midterm, con i repubblicani tornati in maggioranza alla Camera, e pronti ad accogliere Obama al rientro dalle vacanze.
In Italia «direttive anticipate» sul fine vita sono previste da un testo del Comitato Nazionale di Bioetica (2003). Nel 2009 il caso Englaro riaprì il dibattito sull’urgenza di una legge
In Olanda i pazienti possono mettere per iscritto una «direttiva sull’eutanasia» . Per porre fine alle cure occorre poi che due medici concordino sull’impossibilità di guarigione
Da vent’anni in Svizzera un malato allo stadio terminale può rivolgersi a una delle sei associazioni che offrono il servizio e fare richiesta per un suicidio assistito
In Germania la legge sul testamento biologico è stata approvata nel 2009: prevede una dichiarazione scritta del paziente, assistenza di fiduciario e medico curante
Repubblica 27.12.10
Sulle cure ai malati terminali i repubblicani contro Obama
Usa, direttiva anti-accanimento terapeutico. "Eutanasia di Stato"
di Angelo Aquaro
NEW YORK - «Se hai un altro infarto e il tuo cuore smette di battere vuoi che proviamo a farlo ripartire o no?». «Se stai morendo di enfisema vuoi restare attaccato alla macchina respiratoria per il resto della tua vita?». «Se sei un malato terminale di cancro vuoi che utilizziamo tutta la tecnologia disponibile per ritardare il più possibile la morte?». I medici che formuleranno queste domande ai malati che lo vorranno potranno presentare il proprio conto alla nuova assistenza sanitaria obbligatoria con cui Barack Obama sta ridisegnando l´America. E le assicurazioni, che per la verità i cittadini continuano a pagare profumatamente, saranno costrette al rimborso.
Per i repubblicani, Sarah Palin in testa, che aveva definito la commissione che studiava questa norma «il panel della morte di Obama», il provvedimento che il presidente aveva previsto nella sua riforma avrebbe spianato la strada all´eutanasia di Stato. E proprio per evitare altre polemiche i democratici avevano stralciato la norma. Che però rientra adesso dalla finestra di uno di quei regolamenti attuativi con cui - gli esperti concordano - il presidente che ha perso la maggioranza a novembre tenterà ora di portare avanti il suo programma di riforme, malgrado un Congresso avverso.
L´Amministrazione ha cercato di tenere la direttiva segreta fino all´ultimo. «Meno se ne parla e con più successo riusciremo a farla passare» diceva la mail di uno dei firmatari. «Per fortuna nessuno dei media se ne è ancora accorto». Se ne è accorto adesso il New York Ties che ha sbandierato il provvedimento in prima pagina. Per i proponenti si tratta di dare ai malati «più controllo delle cure che ricevono». Per i movimenti pro-life invece «la tristemente famosa Norma 1233 è viva e vegeta: e i pazienti perderanno così l´abilità di controllare i trattamenti di fine vita».
Il provvedimento cita uno studio pubblicato dal British Medical Journal e un altro dell´università del Colorado secondo cui le discussioni medico-paziente sul fine vita e la pianificazione delle cure «diminuiscono anche stress, ansia e depressione post mortem nei parenti». Forse anche perché, andrebbe aggiunto, questa timida apertura al rifiuto dell´accanimento terapeutico eviterebbe alle disgraziate famiglie l´accanimento, questo sì, delle assicurazioni. Che non si fanno scrupolo, qui, di presentare ai parenti del deceduto il conto di cure costosamente inutili.
l’Unità 27.12.10
Tante le pubblicazioni sul tema dei ragazzi affetti da autismo e le loro relazioni familiari
Cronache attente sulla loro crescita e soprattutto sui rapporti con i loro fratelli e sorelle
Mio fratello che si torce le dita
Da «Abbracciar nessuno» ad «È non è», si moltiplicano i libri che analizzano la vita in famiglia con i ragazzi autistici e i loro rapporti con i fratelli considerati i loro «guardiani»
di Manuela Trinci
È vero, loro sono bambini speciali, pesci fuor d’acqua, poeti silenziosi, abitanti della luna. Mangiano pane e stelle e fanno volare la sabbia. Sono bambini autistici che la letteratura ha reso indimenticabili icone di un mondo arcano che sfugge alla comprensione dei più.
C’è Silenzia, grassa ... o solo morbida, a volte pettinata con trecce piccine di fili colorati. Silenzia non parla, si sbrodola mentre mangia, corre a gambe larghe, lenta. E ride sempre e di tutto. A scuola la prendono in giro, salvo Damiano, che viene da una terra lontana, che conosce la solitudine, e salvo la maestra che pare una chioccia. (Ad abbracciar nessuno di A. Papini, Fatatrac).
E poi c’è Tobias, Tobias Leon per meglio dire. Non ascolta Tobias? Non guarda? Forse, ma le parole, gli sguardi, l’amore incondizionato di una mamma coraggiosa e salda da qualche parte forse ritorneranno, forse si faranno vivi in uno spazio infinito, dove non abita nessuno e non si sa che cosa potrà essere trovato (Il mondo è anche di Tobias di E. Spagnoli Fritze – illustrazioni di M. Ferri, Lapis).
E ancora c’è Matthieu con gli occhi pieni di cose invisibili. Un bambino irraggiungibile che parla ma solo a se stesso, scoraggiante, scoordinato, che butta tutto all’aria abbarbicato al suo cucchiaio. (Il bambino che mangiava le stelle di Kochka, Salani).
Ma ci sono anche altri bambini, per lo più lasciati in penombra nella costellazione familiare. Di loro si parla poco. Sono una miriade di fratellini e sorelline di bambini autistici che non di rado avvertono una sorta di sproporzione nelle attenzioni dei genitori, che sono gelosi ma si guardano bene dal dirlo per non rompere equilibri da funamboli e per non apparire ingrati alla Dea bendata che li ha preservati dal peggio. E magari rischiano di accontentarsi solo della stanchezza e della fatica di babbo e di mamma e delle loro emozioni scariche.
«Accettare Pulce è stato più facile per me che per i miei genitori», racconta la sorella, la tredicenne Giovanna (Pulce non c’è di G. Rayneri, Einaudi). Perché i genitori convivono con un’inevitabile sensazione di fallimento e con l’ansia del futuro, mentre per Giovanna Pulce non è affetta da autismo. È solo sua sorella. Una tipa allegra che ama nascondere i grissini sotto il divano, che fa sculture con il pecorino, adora la focaccia al sesamo beve solo tamarindo e ascolta Bach. Certo, Pulce non parla, ma «questo non significa che non abbia niente da dire», tanto che Giovanna se la immagina come un fumetto con una nuvoletta vuota: le parole si troveranno.
Tuttavia non sempre è così, talvolta ad avere la meglio è l’imbarazzo nei confronti dei coetanei, la rabbia per un destino avverso, la paura del tempo che verrà. Benedict, ad esempio, è per Anna, un piccolo fratellino da nascondere, perché la sua nascita di diseguale la prende alla sprovvista, la rende insicura, la sconvolge e soprattutto la pone di fronte allo strazio di amare anche ciò che apparentemente non è conforme a come lo si era immaginato (Un fratello da nascondere di E. Laird, E/L).
Momenti di crescita, cronache attente di evoluzioni, di processi insiti nella maturità, che probabilmente danno ragione alle molte ricerche universitarie che vogliono questi fratelli e sorelle i «soldatini», i «guardiani», dell’autismo più maturi, più empatici, più competenti socialmente dei loro coetanei.
Ogni giorno loro combattono, magari scrivono storie «fatte in casa» e le condividono, inviandole a info@ autismando.it, oppure navigano su Sibnet e si ritrovano, fratelli fra tanti fratelli: una comunità di voci senza pregiudizi.
Ogni giorno per loro si ripetono domande: chi sia quell’ombra che scivola lungo i muri, o quel rumore che riempie la stanza, chi sia quel bambino o quella bambina che non partecipa ai giochi, che viaggia e vaga coi suoi pensieri, che si graffia e si torce le dita, che è imprevedibile come il tempo e sensibile come una foglia.
Un rebus, un enigma, un labirinto, che a volte fa paura, a volte stritola l’anima dalla pena e dall’affetto, e che si esemplifica in È non è, il nuovo, straordinario, librino – un’approssimazione poetica che racconta il viaggio sentimentale di un bambino alla scoperta di Sara, che vive solamente, da sola, e che è sua sorella (di M. Berrettoni Carrara, ill. C. Carrer, Kalandraka, Euro 14).
l’Unità 27.12.10
L’antropologia molecolare consente oggi di leggere il Dna antico
Su «Nature» una ricerca: un terzo gruppo oltre Sapiens e Neandertal
Né soli né speciali Noi Sapiens e i nostri compagni
di Pietro Greco
Dal Max Planck di Leipzig uno studio accerta la varietà di cespiti e di intrecci da cui nasciamo. Non eravamo né soli né isolati né speciali. Lo dice una nuova scienza, che analizza il Dna antico.
Non eravamo soli nel Paleolitico: la nostra specie, Homo sapiens, era una delle tante che popolavano la Terra alcune decine di migliaia di anni fa. E non eravamo neppure isolati: ci siamo mescolati con queste altre specie, accoppiandoci e talvolta riproducendoci. È lo scenario parzialmente nuovo apertosi nella ricostruzione della nostra storia realizzata con gli studi di «antropologia molecolare» che consentono di analizzare il Dna antico. Uno scenario ampliato con i risultati di una nuova ricerca effettuata da Svante Pääbo (Max Planck Institute, Leipzig, Germania) e i suoi collaboratori e pubblicata su Nature.
Nel Dna dei Melanesiani, le popolazioni che vivono oggi in alcune zone della Nuova Guinea e in molte isole del Pacifico, ci sono tratti appartenenti a una specie diversa sia da Homo sapiens, sia dagli uomini di Neandertal. Frutto dell’incontro – e del successo riproduttivo – tra la nostra e un’altra specie che viveva in Asia e che Svante Pääbo chiama dei Denisoviani. Tutto nasce dal ritrovamento in una grotta di Denisova di Siberia dei resti di un ominino risalenti a un periodo compreso tra 50.000 e 30.000 anni fa. Si tratta di una femmina, i cui tratti morfologici dicono che appartiene certamente al genere Homo, ma a una specie diversa dai sapiens e a un gruppo diverso dai Neandertal. Lo scorso mese di marzo, il gruppo di Svante Pääbo aveva pubblicato i risultati dell’analisi del Dna mitocondriale di quella antica donna e aveva confermato che si trattava, appunto, di una specie diversa la cui origine è tutta da verificare.
Giovedì scorso il gruppo di Pääbo ha pubblicato i risultati delle analisi sull’intero Dna del fossile di Denisova. Confermando, ancora una volta, che si tratta di un gruppo diverso dai sapiens e dai Neandertal . Non è chiaro se la femmina di Denisova e la sua tribù appartengano a specie finora sconosciuta del genere Homo o a un sottogruppo di una specie già nota, per questo Svante Pääbo non li ha classificati in termini linneani, ma solo battezzati Denisoviani.
Tuttavia ora è chiaro che intorno a 30.000 o 40.000 anni fa l’Asia era popolata da almeno quattro gruppi diversi: i Denisoviani, i Neandertal, gli uomini floresiensis (che fino a 18.000 anni fa abitavano l’isola indonesiana di Flores) e noi sapiens. Non eravamo soli, dunque.E non eravamo neppure isolati. Almeno noi sapiens avevamo rapporti con gli altri gruppi umani. Anche rapporti sessuali. Che, ha scoperto di recente proprio Svante Pääbo, hanno avuto successo riproduttivo. Una piccola parte del nostro Dna – dall’1 al 4% non proviene dai sapiens originari dell’Africa, ma ci è stata trasmessa dai Neandertal. Ma alcuni gruppi di sapiens hanno avuto rapporti interfertili anche con i Denisoviani. Comparando il Dna della femmina di Denisova con quello di popolazioni umane moderne, Pääbo e il suo gruppo hanno infatti scoperto che i Melanesiani – e solo loro – hanno ereditato dal 4 al 6% del loro Dna dai Denisoviani.
No, noi sapiens non eravamo soli. E neppure così speciali. Eravamo un ramo di un cespuglio ancora denso fino a poche decine di millenni fa. Un ramo poi rimasto solo, ma con svariati innesti.
Corriere della Sera 27.12.10
La coscienza prima di tutto E Severino lasciò la Cattolica
Pubblicate le ultime lezioni tenute dal filosofo nel 1968-69
di Armando Torno
Milano, Università Cattolica, anno accademico 1968-69. Emanuele Severino è ordinario di Filosofia morale, corso che frequentano gli studenti del terzo anno. Tiene anche le lezioni di Istituzioni di filosofia, dedicate alle matricole. È un momento di grande dibattito sul suo pensiero e i giornali riportano notizie sul nuovo «caso» . Severino, allievo di Gustavo Bontadini, era diventato noto ai più per il saggio Ritornare a Parmenide (che Sofia Vanni Rovighi pubblicò sulla «Rivista di filosofia neoscolastica» nel 1964 con una sua premessa); nel 1967 vide la luce Il sentiero del Giorno e nel 1968 — anno simbolo della contestazione — La terra e l’essenza dell’uomo, oltre alla Risposta ai critici, estremamente significativa già nel titolo. In quei giorni vivaci discussioni all’interno dell’Università Cattolica e alla Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio) si chiedono se l’opposizione tra il pensiero di Severino e il cristianesimo sia insanabile. E in effetti è riconosciuto tale dalla Chiesa, perché per il filosofo il cristianesimo appartiene alla follia estrema in cui consiste il mortale e l’esser uomo dell’Occidente. Intanto, però, continua a tenere i corsi. Le sue lezioni sono molto frequentate, gli studenti — tra essi non mancò Mario Capanna, che poi passerà alla Statale diventando uno dei leader del Movimento studentesco— non esitano a considerarlo un maestro. anche se non ha ancora quarant’anni. Sovente non riesce a rispondere alle numerose domande che i frequentatori delle lezioni vorrebbero sottoporgli e allora li prega di scriverle su foglietti: replicherà la prossima volta. I corsi di quegli anni non saranno tutti raccolti da Severino. I titoli ricordati formeranno nel 1972, insieme ad altri, il volume Essenza del nichilismo (Paideia, poi Adelphi), ma le pagine delle Istituzioni si perderanno. Ora Morcelliana le ripropone, utilizzando la dispensa del 1968. Nella brevissima prefazione si ricorda un giudizio di Salvatore Natoli, allora assistente di Severino: «Mi ha costretto a dare consistenza alle mie argomentazioni filosofiche, a fornire giustificazioni adeguate alle mie tesi e direi che mi ha definitivamente vaccinato dai vizi delle mode» . Quelle lezioni escono proprio con il titolo Istituzioni di filosofia (Morcelliana, pp. 232, e 18). Sono tra le ultime che tenne alla Cattolica. Cosa sosteneva in esse Severino? Il filosofo ha così riassunto il suo percorso: oggi la scienza considera la mente (o coscienza) come «una cosa tra le cose» , senza avvedersi che «le cose tutte sono contenuto della forma originaria e superiore della coscienza» , ossia di quella forma che la filosofia moderna chiama «coscienza trascendentale» , di cui la scienza non può fare a meno; inoltre: la coscienza che interessa al sapere scientifico non è la forma originaria, trascendentale della coscienza. Anche se le Istituzioni di filosofia si presentavano come un testo più semplice rispetto alle altre lezioni di Severino, riflettono in talune pagine (come quella qui riportata su Pascal) le tensioni del momento e i chiarimenti che il loro autore presentava. I condizionamenti della coscienza — per Marx è determinata da come si lavora, per Nietzsche dagli impulsi, per altri dalla storia o dalla società, dal linguaggio o dal cervello o dalla religione e altro ancora — si crede che rappresentino una punta autonoma della coscienza stessa, vista come una specie di iceberg, rispetto alla sua parte immersa. Ma in tal caso il pensiero filosofico s’inganna: per questo è necessario mostrare quali siano le ragioni della coscienza stessa nella sua interezza. Oggi se ne critica l’autonomia, ma senza conoscere cosa sia, ovvero per quali motivi la filosofia ritiene indipendente la coscienza (soprattutto come coscienza filosofica). Un ulteriore elemento affrontato nelle lezioni: si usa con eccessiva disinvoltura il concetto di condizionamento, dimenticandosi tutta la critica che nella filosofia moderna è stata fatta al principio di causalità. Sovente «sia la filosofia analitica sia quella del linguaggio, nonché molti capitoli della filosofia della mente scoprono l’acqua calda» , confida Severino. Inoltre, le Istituzioni di quel lontano corso gettano luce sullo sviluppo che porta la filosofia da una fase iniziale in cui si crede che il pensiero colga la realtà a una intermedia — che comincia con Cartesio— nella quale si dubita proprio della capacità della coscienza di cogliere la realtà, a un terzo momento in cui si elimina quella realtà esterna alla coscienza che viene presupposta dogmaticamente da tutta la filosofia e dalla cultura in genere fino all’idealismo. Era un esercizio critico che avviava un dibattito vero e che in quel tempo, ma anche oggi, ha trovato e trova difficoltà. Le lezioni di Severino vengono ora raccolte, come prova il volume appena edito da Rosenberg &Sellier Volontà, destino, linguaggio, nel quale si leggono quelle tenute a Torino nel marzo di quest’anno al sesto ciclo seminariale della Scuola di alta formazione filosofica diretta da Ugo Perone (tra l’altro, è stato il primo italiano invitato). La dispensa delle Istituzioni della Cattolica, invece, è una riscoperta e restituisce pagine dense e affascinanti di un maestro. Il merito va alla Morcelliana: a Ilario Bertoletti, già direttore editoriale ora a La Scuola, e a Sara Bignotti, l’attuale responsabile, poco più che trentenne. Dimostrano, con questo e con altri libri ben selezionati, come sia possibile fare gli editori senza rinunciare alla dignità.
Corriere della Sera 27.12.10
Perché Pascal viene rimosso dalla morale benpensante
di Emanuele Severino
Dal volume «Istituzioni di filosofia» (Morcelliana), che ripropone il corso tenuto da Severino alla Cattolica di Milano nel 1968-69, riportiamo uno stralcio dal capitolo IV. Ormai, già lo osservava Nietzsche, il cristianesimo come drammaticità, quale veniva pensato da Pascal, nella nostra società borghese è diventato un tranquillante che deve avere l’effetto di placare la coscienza. Per Pascal il discorso era un altro: se questa cosa terribile che è il cristianesimo fosse vera? Che cosa devo fare, in vista di questa possibilità? L’atteggiamento di Pascal non era accomodante, ma corrispondeva a questa cosa terribile; a questa cosa che, se presa sul serio, porterebbe a un modo di vivere sostanzialmente diverso da quello che realizziamo, e che realizziamo proprio perché siamo noi i primi a non prendere sul serio il cristianesimo. Noi oggi abbiamo rovesciato completamente la posizione pascaliana, non ci preoccupiamo più di vivere come se questa cosa terribile fosse vera, ma diciamo che, se fosse falsa, è comodo, dà tranquillità vivere cristianamente. Non comprendiamo niente di ciò che è l’essenza del cristianesimo. Pascal dice: proviamo a vivere come se questa cosa terribile fosse vera; oggi si dice: viviamo cristianamente anche se il cristianesimo è una cosa falsa. Infatti è utile vivere cristianamente. Si dà prova di buon senso, credendo nel cristianesimo. Invece il cristianesimo non è mai stato una faccenda di buon senso, a cominciare da quella cosa così talmente priva di buon senso che è stata la morte di Cristo, una cosa che il benpensante contemporaneo di Cristo certamente considerava una pazzia. Infatti i Greci, che erano i benpensanti del tempo, quando sentivano parlare di un uomo che diceva di essere Dio e che si era fatto uccidere da uomini che non gli credevano, gli davano del pazzo. Questa era la reazione del benpensante rispetto a quella vicenda drammatica che è il cristianesimo.
Repubblica 27.12.10
Via le rughe ma anche i sentimenti così il lifting cancella le emozioni
di Anais Ginori
Scoperti i nuovi segreti del botulino: ecco gli effetti inibitori
Marc Mehu, esperto di mimica facciale: di certo questi visi impassibili perdono autenticità
Dopo la Columbia University, nuovo studio del Polo di ricerca in scienze affettive di Ginevra
PARIGI - Il lifting dei sentimenti. Più giovani fuori, meno sensibili dentro. I ricercatori della Columbia University avevano già lanciato l´allarme, ora alcuni scienziati svizzeri lo confermano. Il botulino non cancella soltanto le rughe ma anche le emozioni. Togliere un solco sulla nostra fronte corrucciata attutisce la percezione della rabbia. Senza le piccole pieghe intorno ai nostri occhi quando sorridiamo, la gioia di un momento diventa meno autentica. «Il modo di esprimere le sensazioni sul nostro viso condiziona direttamente l´intensità di ogni emozione» spiega Marcello Mortillaro, specialista del Polo di ricerca nazionale in scienze affettive di Ginevra che ha approfondito con un nuovo studio la ricerca americana pubblicata qualche mese fa, dal titolo "The effects of Botox injections on emotional experience".
La ruga scompare insieme al turbamento, l´apprensione, il piacere che esprime. E´ quello che gli esperti chiamano il "feedback facial". Il cervello trasmette ai muscoli facciali un´emozione, ma è poi l´espressione sul nostro viso di un momento positivo o negativo che ne rendono più intensa la percezione. La teoria è nata all´inizio del Novecento con i lavori dello psicologo americano William James. «Tremo perché ho paura, oppure ho paura perché tremo?» si domandava nel 1939 Jean-Paul Sartre nel suo "Abbozzo di una teoria delle emozioni". Il filosofo esistenzialista riprendeva l´affermazione «Ho paura perché tremo" utilizzata da James che anteponeva così il corpo allo spirito, rovesciando l´antico dogma occidentale. Le discussioni intorno a questa teoria e al rapporto di causa ed effetto sono andate avanti per decenni, arrivano fino ai giorni nostri.
Quasi un secolo dopo, la rivoluzione degli interventi di chirurgia estetica e poi quelli apparentemente più superficiali come il botulino, capace di creare una micro-paralisi dei muscoli facciali mimici, hanno aperto una nuova frontiera nello studio dei sentimenti. E alla fine gli studiosi della Columbia University hanno in qualche modo dato ragione a James: il Botox può, in alcuni casi, inibire un´emozione. Se non sorrido, non mi diverto. Se non tremo, non ho paura. Per fortuna, gli studi americani e svizzeri non sono categorici. Ci sono infatti casi di persone con paralisi facciali provocate da un incidente in grado di provare gli stessi sentimenti degli altri. Non è insomma il caso di inquietarsi troppo, neanche per chi usa i ritocchi estetici.
«Di certo questi visi impassibili perdono la loro autenticità e sono meno comunicativi degli altri» racconta Marc Mehu, specialista della mimica facciale nel centro ginevrino e anche lui autore della nuova ricerca con Mortillaro. Per gli scienziati svizzeri, ci sono alcuni indicatori sul nostro viso che mandano, attraverso la comunicazione non verbale, il segnale ai nostri interlocutori di un´emozione sincera. Per esempio, sono le piccole rughe intorno ai nostri occhi, assolutamente naturali e istintive, che fanno credere a un sorriso autentico, mentre quelle intorno alla bocca sono meno convincenti. Forse non ce ne rendiamo conto, ma qualcuna delle nostre rughe è davvero preziosa.