Un mese decisivo. Con i casi Bondi e Rai «l’esigua maggioranza andrà sotto», dice Ventura
I dati Ipsos vedono i democratici in crescita e la vasta coalizione da Sel a Fini sopra il 50%
«A gennaio governo sotto» Il Pd ci prova e cresce al 25,4%
A gennaio parte la battaglia del Pd in Parlamento dove la maggioranza rischia grosso con le mozioni Bondi e Rai. Intanto Bersani lavora alla direzione del 13 per indicare la rotta ma anche per “unire” il partito.
di Maria Zegarelli
Pier Luigi Bersani lavora alla direzione del 13 gennaio per mettere a punto «una cura all’altezza della diagnosi» effettuata sul «paziente» Paese che la pazienza la sta perdendo mentre a curarlo ancora oggi c’è un medico «inadeguato», arrivato al capolinea di una carriera fallimentare. Ma per far fuori il «primario» il Pd deve lavorare su più fronti. Il gennaio caldo dei democratici si giocherà in Parlamento, soprattutto alla Camera dove la maggioranza è talmente risicata da rischiare il tonfo praticamente ad ogni voto, e nel partito stesso, per mettere a punto una piattaforma programmatica in grado di guidare il Paese «oltre il berlusconismo» e di creare una larga convergenza con le altre forze di opposizione. Nel cassetto del segretario l’ultimo sondaggio riservato Ipsos registra un Pd in risalita al 25,4% e un oltre 50% la somma dei partiti di opposizione, da Sel al Terzo Polo. «È la dimostrazione che se riuscissimo a realizzare un’alleanza costituente
puntando su pochi ma qualificanti punti, dalle riforme istituzionali, a quelle economico-sociali, alla riforma del fisco alla legge elettorale, potremmo davvero aprire una nuova fase per il Paese e un nuovo decennio», raccontano nel quartier generale del Pd.
LA ROAD MAP DEL PD
Prima ancora della direzione ci sarà la sentenza della Consulta che dovrà pronunciarsi, l’11, sul legittimo impedimento da cui dipende il futuro del premier e il dibattito politico dei giorni successivi. Tema che sarà inevitabilmente al centro del dibattito nel parlamentino Pd, nel corso del quale Bersani cercherà di ricucire gli “strappi” interni. Tanti i malumori, dai rottamatori di Firenze, a Veltroni, Fioroni e ieri anche i prodiani e stavolta non è escluso che la direzione si concluda con un voto finale sulla linea. Poi, Bersani partirà per il «viaggio in Italia» prima tappa il nord-est tra gli studenti, le piccole e medie imprese, le categorie economiche e sociali dal Nord al Sud. Il 22 gennaio a Torino c’è il Lingotto 2 di Modem, da dove Veltroni lancerà le cinque proposte per rilanciare il Pd e la vocazione maggioritaria e dove non è esclusa la stessa presenza del segretario. La settimana successiva, il 28 e il 29 a Napoli si riunirà l’Assemblea nazionale nella quale mettere a punto un piano programmatico definitivo sulla base del quale aprire le consultazioni con le altre forze di opposizione. «Presenteremo il nostro programma per far ripartire il Paese con proposte concrete e che vorrà starci si unirà a noi», ha spiegato il segretario ai suoi.
LA BATTAGLIA IN PARLAMENTO
Altra battaglia quella in Parlamento. Silvio Berlusconi in questi giorni ha dato mandato di riaprire la campagna acquisti per i deputati, si dice sicuro di averne già in tasca dieci ma c’è anche chi è molto meno ottimista di lui nello stesso Pdl. E quindi il gruppo Pd si prepara alla guerra. Primo appuntamento la conferenza dei capigruppo per la calendarizzazione dei lavori, due i temi che scottano per la maggioranza: la mozione di sfiducia al ministro Sandro Bondi e quella di Fli sul Tg1. In queste ore sempre più insistenti le voci che danno Bondi dimissionario, furibondo con Tremonti per il mancato reintegro per il Fondo per lo Spettacolo, ma preoccupato per l’alto rischio sfiducia.
Delicatissimo il passaggio della mozione di Fli, se non ci saranno passi indietro da parte del partito del presidente della Camera che, dopo il 14 dicembre, non si è speso più di tanto per la calendarizzazione. Il vicepresidente dei deputati Pd, Michele Ventura, è discretamente ottimista: «La maggioranza ha un problema politico serio e stando così le cose mi sembra difficile che riescano a convincere tutti i deputati che gli servono a fare il salto della quaglia. Di fatto per la maggioranza e il governo sarà impossibile affrontare le riforme importanti per il Paese». Terza insidia: il decreto milleproroghe che dovrà passare le forche caudine della Commissione bicamerale e della Bilancio (dove c’è sostanziale parità tra maggioranza e opposizione) per poi approdare in Aula.
l’Unità 28.12.10
Ma la tenuta del Pd garantisce la democrazia al Paese
Alfredo D’Attorre, dirigente del Pd, risponde a Piccolo e Cacciari «e alle loro irridenti considerazioni su un partito che fra le ovvie difficoltà rappresenta un quarto dell’elettorato»
di Alfredo D’Attorre
Le irridenti considerazioni di Francesco Piccolo e di Massimo Cacciari sul ruolo del PD, pubblicate su l’Unità di ieri, sono interessanti non certo per l’originalità del contributo di analisi (in sostanza, la ripetizione della tesi per la quale l’opposizione non ha alcun merito delle difficoltà di Berlusconi e infatti non guadagna voti), né per l’indicazione di una qualche strategia politica alternativa (della quale naturalmente non c’è traccia in nessuno dei due articoli, a meno che non si voglia considerare sufficiente al riguardo l’accenno di Cacciari alla necessità di verificare la disponibilità di Montezemolo?).
L’interesse degli articoli risiede piuttosto nell’atteggiamento che essi rivelano di una certa parte del ceto intellettuale e giornalistico italiano di fronte all’attuale fase stori-
ca del nostro Paese. Il tratto fondamentale di questo atteggiamento è la radicale dissociazione e contraddittorietà tra l’analisi della natura del berlusconismo e della sua incidenza sul tessuto sociale e democratico e la valutazione del ruolo dell’opposizione.
Da un lato, si riconosce che siamo di fronte non a una ordinaria crisi di governo in un rodato regime bipolare di alternanza, ma a «una crisi senza precedenti della democrazia rappresentativa» (parole di Cacciari), dall’altro ci si stupisce perché in questo quadro i consensi non si spostano fisiologicamente dal governo all’opposizione.
Da un lato, si lamenta la torsione in senso populista e plebiscitario impressa dal berlusconismo al sistema politico e partitico italiano, dall’altro ci si scandalizza di fronte alla complessità del confronto interno del PD, l’unica forza politica italiana che non si identifica con il nome del suo leader e che mantiene in vita vere (e quindi inevitabilmente rischiose) procedure democratiche aperte agli iscritti e agli elettori.
Da un lato, si sottolinea l’assoluta anomalia rappresentata dalla concentrazione di risorse economiche e mediatiche nelle mani del capo del governo, dall’altro si trova inspiegabile che la voce dell’opposizione non emerga con sufficiente forza.
Da un lato, si sostiene che l’opposizione dovrebbe smettere di guardarsi l’ombelico e consentire all’Italia di liberarsi di Berlusconi, dall’altro si irride il tentativo del PD di mettere al centro le priorità del Paese e di chiamare su questo tutte le opposizioni a una comune assunzione di responsabilità.
In realtà, ciò che mantiene aperta una prospettiva democratica nel nostro Paese è proprio la tenuta del PD, che, pur con tutti i suoi difetti, continua a rappresentare più un quarto dell’elettorato, rimane il soggetto meno condizionabile da poteri esterni e più in grado di difendere un’idea di autonomia della politica, e resta l’unico perno su cui si può costruire un progetto di collaborazione tra le forze che intendono portare l’Italia oltre il berlusconismo.
* Responsabile coordinamento iniziativa politica PD
Repubblica 28.12.10
Bersani tentato dal Lingotto-bis di Veltroni
"Vado, mi piace la sfida dei programmi". E i prodiani accusano: Pd senza più bandolo
Sarà un test di unità con l´area dell´ex segretario. Nel nuovo anno tour in dieci città
di Goffredo De Marchis
ROMA Per costruire una piattaforma e un´identità chiara, per chiedere a un arco di forze molto ampio di unirsi al Pd e «andare insieme oltre Berlusconi», Pier Luigi Bersani deve soprattutto avere un partito unito alle spalle. Questa premessa sta spingendo il segretario a una mossa a sorpresa: andare al Lingotto il 22 gennaio per partecipare al primo appuntamento di Movimento democratico, l´area che fa capo a Walter Veltroni e che è la più critica rispetto alla linea di Bersani. Accusato dall´ex segretario, negli ultimi giorni, di «tatticismo», preso di mira da Paolo Gentiloni «per posizioni indifendibili», incalzato da Beppe Fioroni per la sua deriva troppo orientata a sinistra. Non sarà una passeggiata. Sarà semmai un banco di prova fondamentale perché molte parole d´ordine veltroniane sono diametralmente opposte a quelle di Bersani. Sarà anche un test per misurare la tenuta del Partito democratico su un tema fondamentale che proprio a Torino, città della Fiat, trova il suo luogo di elezione: le relazioni industriali e sindacali.
Bersani, il dirigente «non permaloso» come si definisce, accetta dunque la sfida dei programmi. Mentre il gruppo dirigente prepara il suo in vista dell´assemblea nazionale del 28-29 gennaio, il leader andrà ad ascoltare la piattaforma "parallela" di Modem che si propone di mostrare il vero lato innovativo di un nuovo centrosinistra e di un nuovo Pd. Veltroni pensa sia giusto invitare il segretario. Il segretario è decisamente orientato ad accettare l´ospitalità. Bersani ieri è tornato a puntare il dito contro Berlusconi, sottolineando la fragilità della sua vittoria. «Il premier può solo sopravvivere avvitato su se stesso. Se con un´ampia maggioranza ha chiesto 38 voti di fiducia, non so come potrà superare altri ostacoli con soli 3 voti più delle opposizioni». Ma adesso è concentrato sul profilo del suo partito. Dopo gennaio comincerà un tour di dieci città italiane non per galvanizzare le truppe democratiche ma per parlare a diverse categorie sociali. Prima tappa: una città del Nord est (Padova quasi sicuramente) per presentare la riforma fiscale del Pd.
Agli appuntamenti in giro per il Paese il segretario si presenterà con il programma del Pd preparato a gennaio. Durante il giro, nelle soste a Roma, incontrerà tutti i leader delle forze di opposizione, quelle in Parlamento e quelle fuori. Quindi, Vendola, Di Pietro, Casini, Rutelli, Fini. Dal Terzo polo alla sinistra più radicale, nell´impresa di mettere al centro di questo vasto schieramento il Pd e un´alleanza per affrontare le possibili elezioni anticipate oppure la traversata nel deserto di un governo che prosegue la legislatura.
Per portare il Pd unito al confronto, il segretario dovrà superare anche lo scoglio della direzione del 13 gennaio. E una mina l´hanno già piazzata i prodiani. Con una dura lettera al Corriere Arturo Parisi, Barbi, Santagata, La Forgia, Recchia, Soliani e Papini, dirigenti da sempre vicinissimi a Romano Prodi, parlano di un Pd «che ha smarrito il bandolo della matassa, che manca di rispetto a tutte le regole formali di un partito». I prodiani decidono allora di non protestare oltre. «Prendiamo atto, anche noi avremo mani libere e concorreremo alla vita del Pd decidendo caso per caso». È una forma di scissione strisciante, un atto di accusa che viene dal mondo prodiano un tempo simpatizzante della segreteria Bersani. È il segno di malessere che insieme a tanti altri non può essere trascurato.
Corriere della Sera 28.12.10
Nel Pd si è già rotta la tregua interna
Bersani spiazzato dal no del terzo polo. E Veltroni prepara il nuovo «correntone»
di Maria Teresa Meli
ROMA — Mai pausa festiva è stata accolta con maggior piacere, nel Partito democratico, come quella di questi giorni. Il Pd infatti sta facendo una certa fatica a mettere a punto la sua strategia. Prova ne è la decisione di rinviare a gennaio la Direzione che si sarebbe dovuta tenere il 23 dicembre. Sono due i motivi che hanno indotto — e inducono — Pier Luigi Bersani a temporeggiare. Il segretario, anche ascoltando i consigli di D’Alema, aveva deciso di impostare una nuova politica delle alleanze guardando al terzo polo (altrimenti «con un’alleanza con Vendola e Di Pietro non andiamo da nessuna parte» , era stata nei giorni scorsi l’esortazione del presidente del Copasir). Ma adesso che sia Fini che Casini sembrano voltare le spalle al Pd e tentare la strada del confronto con la maggioranza, anche solo tatticamente, il segretario deve ricalibrare la linea. Questo è il primo motivo, non il più importante, però. La ragione da cui dipende l’apparente paralisi dell’azione del Partito democratico sta nella rottura della tregua interna. Prima del voto di sfiducia di metà dicembre Bersani era riuscito a convincere tutte le anime del partito a osservare una sorta di armistizio. E anche dopo, in un colloquio a tu per tu con Walter Veltroni, il leader aveva chiesto e ottenuto rassicurazioni in questo senso. Del resto, proprio a questo scopo, Bersani aveva anticipato all’ex segretario la sua svolta aperturista nei confronti del terzo polo. Ma con il volgere di qualche giorno la minoranza del Pd ha capito di non poter resta ingabbiata in questa tregua e Veltroni non ha più fatto mistero delle sue perplessità riguardo alla strategia impostata dal gruppo dirigente del partito. «Non si può inseguire Casini e non possiamo neanche rinunciare alle primarie» , è stata l’obiezione dell’ex segretario. Obiezione che ha fatto infuriare Bersani, convinto di essersi assicurato la pax interna. Una volta capito che così non è, il leader ha anche compreso che sarebbe pericoloso aprire ora un dibattito dentro il partito che rischierebbe di essere lacerante, tanto più che il terzo polo invece di fargli da sponda gioca una partita per conto suo. Le critiche alla linea del segretario troverebbero un terreno fertile in queste condizioni. Meglio, molto meglio rimandare il chiarimento interno. Anche perché alle obiezioni della minoranza veltroniana si sono ora aggiunte quelle di Arturo Parisi e degli altri parlamentari ulivisti della prima ora a lui vicini, che, come hanno scritto ieri sul Corriere della Sera, non considerano più scontato il loro appoggio alle decisioni prese da questo gruppo dirigente, né la loro partecipazione alle riunioni della Direzione. La situazione, dunque, è tutt’altro che facile, come dimostra il fatto che siano tornate a circolare voci di una possibile scissione. L’ala veltroniana più insofferente (quella, tanto per fare dei nomi, rappresentata da personaggi come Paolo Gentiloni e Roberto Giachetti) ormai non esclude più nulla, anche se ufficialmente nessuno pronuncia la parola scissione. Del disagio degli ex popolari si sa (anche se il loro leader Beppe Fioroni esclude che alcuni dei suoi parlamentari possano convolare a nozze con Casini e soci), e pure questo è un dato di cui Bersani non può non tenere conto: il segretario sa che non può più consentirsi nessun errore e che deve studiare bene quali carte giocarsi. Diventa quindi inevitabile attendere un certo lasso di tempo prima di affrontare di nuovo il problema di quale strategia debba avere il Pd. Il che non significa però che a gennaio sarà possibile sottoscrivere un’altra tregua interna. Anzi. A metà del mese prossimo è previsto il Lingotto due di Veltroni. E sarà quella l’occasione in cui l’ex segretario formalizzerà di fatto la sua decisione di assumere la leadership di un nuovo «Correntone» : una vasta area di minoranza che avanzerà le sue proposte senza fare nessuno sconto alla segreteria.
l’Unità 28.12.10
L’analisi
La nuova strategia della tensione
Esclusa una riedizione della politica stragista vissuta in Italia fra il 1969 ed il 1974, ecco una nuova stagione di conflitto che nasce dalla volontà di far tacere l’opposizione sociale
di Aldo Giannuli
Nel 1966, a seguito della decisione francese di uscire dalla Nato, la Cia mise a punto il Piano Chaos, per evitare che quell’esempio potesse essere imitato. Il Piano tendeva a «destabilizzare per stabilizzare» e cioè destabilizzare i singoli Paesi appartenenti all’Alleanza per rafforzare la loro dipendenza da essa. Insomma destabilizzare i Pae-
si europei per stabilizzare l’egemonia americana su essi.
Come è noto, l’attuazione di questo piano fu il motore primo della “strategia della tensione” promossa da una frazione dei gruppi dirigenti occidentali contro l’altra che perseguiva la “politica della distensione”. L’attuazione tattica del piano prevedeva attentati e delitti politici di vario tipo, per provocare una reazione d’ordine nell’opinione pubblica, che favorisse l’instaurazione di regimi autoritari fedeli alla Nato. Spesso (come nel caso del giornalista Leslie Finer che usò il termine per primo sull’Observer del 7 dicembre 1969) si è identificata questa espressione solo con la sua proiezione tattica, dimenticando che quella della tensione era, appunto, una strategia, un fine e non solo un modo di agire.
Spesso mi viene chiesto se ritengo possibile oggi una riedizione della strategia della tensione. Se si intende per essa la ripetizione della politica stragista che abbiamo vissuto in Italia fra il 1969 ed il 1974, non credo che questo sia particolarmente probabile. Viceversa è ragionevolissimo pensare che, mutatis mutandis, potremmo assistere a qualcosa di simile. Ma occorre tener conto del prevalere attuale delle dinamiche internazionali su quelle interne, insieme al carattere multipolare del mondo globalizzato che favorisce i fenomeni di guerra coperta e indiretta. E, inoltre, della forte interdipendenza fra livello economico, politico e sociale che trova il suo sbocco naturale nelle teorie della guerra asimmetrica, che insegna anche un uso calibrato e differenziato delle forme di lotta. In questo quadro, alcune di esse tendono a scaricarsi sul web che ormai è il “sistema nervoso” del mondo. Alla luce di queste considerazioni leggiamo quello che sta accadendo: c’è una crisi economica irrisolta che sta sfociando nel conflitto valutario più grave mai accaduto, nel quale si inseriscono tanto la speculazione finanziaria sul cambio quanto le manovre dei singoli stati per piegare gli altri alla propria volontà. In questo clima internazionale deteriorato come mai dal 1991, i governi si trovano fra il martello delle pressioni internazionali e l’incudine dell’incombente protesta sociale, ugualmente attivata dalla crisi. Una situazione nella quale alcuni possono essere tentati dalla carta dell’emergenza per colpire sul nascere l’opposizione sociale, criminalizzandola. In Italia, a differenza del 1969, la protesta non è ancora pienamente esplosa, ma già si manifesta il “fuoco di interdizione” preventivo.
Altri, però, possono pensare allo stesso sistema per destabilizzare e colpire concorrenti ed avversari.
Messa in questi termini, sì, forse stiamo assistendo ad una nuova edizione della strategia della tensione.
l’Unità 28.12.10
Quest’Italia sempre più Gomorra
Quattro libri indagano come oggi le mafie prosperino in «convergenza obiettiva» con la politica della destra
di Nicola Tranfaglia
La domanda centrale che si pongono oggi tanti italiani di fronte alla «convergenza» obiettiva, che si sta realizzando ormai tra mafia e politica di destra nell’Italia contemporanea, è sicuramente: perché la mafia cresce ancora? Questa è anche la mia preoccupazione da molto tempo. Qualcuno ricorderà che nel 1991, qualche mese prima delle stragi che uccisero tra maggio e luglio 1992 Falcone e Borsellino e le loro scorte, scrissi un libretto pubblicato da Vito Laterza e intitolato La mafia come metodo.
Ora, nell’Italia berlusconiana, mi piacerebbe scrivere un piccolo saggio intitolato più o meno: 150 anni di Italia unita ma la mafia c’è sempre, anzi cresce ancora. Sono sicuro che nessun editore (tra i grandi o i medi editori), vorrebbe pubblicare il mio libro. Questo è inevitabile, purtroppo, in un Paese in cui ormai, da quasi tre anni, si stanno uccidendo con appositi provvedimenti politici e legislativi la scuola, l’università e la ricerca scientifica.
Un esempio recentissimo di questa mia preoccupazione? Proprio oggi, in Calabria, sono state arrestate dodici persone per associazone mafiosa e corruzione elettorale aggravato. Sono stati fermati un consigliere regionale del Pdl e quattro candidati dello stesso partito a un’elezione comunale nella stessa regione. E potrei citare centinaia di altre notizie giornalistiche arrivate negli ultimi mesi. Ma il problema della lotta alle mafie, diceva Giovanni Falcone, non è soltanto quello della repressione di polizia e dei giudici (pur necessaria) ma ci vuole una forte educazione civile che spetta allo Stato democratico (che in questo periodo, mi pare, si occupi di altro).
Ora tra i tanti libri che si continuano a pubblicare sulle mafie vorrei segnalarne almeno quattro, che sono arrivati sul mio tavolo di lavoro nelle ultime settimane: anzitutto quello di Nando Dalla Chiesa che non a caso si intitola Convergenza Mafia e politica nella seconda repubblica ( Melampo), Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo ( Aliberti) e Nel labirinto degli dei di Antonio Ingroia Il Saggiatore, Potere criminale intervista di Salvatore Lupo (Laterza).
Che cosa emerge da questi libri che sono opera di magistrati e studiosi che da molto tempo si occupano, in maniera quasi esclusiva, del enomeno mafioso? Mi pare di poter dire che una serie di elementi offerti all’attenzione degli italiani sono confermati dal lavoro scientifico e culturale in corso come da testimonianze di particolare rilievo di magistrati e di politologi. Cercherò di mettere in fila gli elementi che mi sembrano di maggior interesse storico e attuale nello stesso tempo.
Il primo riguarda sicuramente i rapporti passati e presenti delle classi dirigenti e del ceto politico di governo con le associazioni mafiose. Salvatore Lupo, ad esempio, che da storico studia da alcuni decenni il fenomeno mafioso, afferma, nella sua intervista a Gaetano Savatteri, che in Italia «i poteri palesi lasciano ai poteri occulti uno spazio vergognosamente grande. Le mafie (e i servizi segreti, per intenderci) usano questo spazio per mettere in piedi un gioco di segnali, pressioni, intimidazioni e ricatti che essenzialmente appartiene al loro mondo». A sua volta, Nando Dalla Chiesa che è stato in passato parlamentare e membro della commissione Antimafia, sottolinea la convergenza oggettiva che si è creata di nuovo tra alcuni politici (o addirittura forze politiche?) e le associazioni mafiose. E a pagina 82 del suo bel libro sugli ultimi vent’anni in Italia scrive testualmente: «La strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) non conclude la Svolta, che termina quasi due anni dopo, con le elezioni vinte da Silvio Berlusconi nel marzo 1994. Però il 19 luglio 1992 appare sempre più essere, verosimilmente, il luogo di incrocio profondo tra la Svolta e la trattativa tra Stato e mafia, tra politica e mafia. Il punto a partire dal quale Svolta e trattativa si intrecciano, procedendo insieme, e influenzandosi a vicenda. Fino a pesare insieme come un nuovo peccato originale, dopo quello del ’43, sulla natura della Seconda Repubblica».
Ma la storia non finisce qui perché, a leggere il libro di Ingroia e quello di Bongiovanni e Baldo, si fanno inquietanti deduzioni. Antonio Ingroia, che pure non esce dal suo riserbo investigativo, sottolinea dati importanti oggi sottoposti ad indagini giudiziarie come la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, i dubbi sul luogo in cui venne premuto il telecomando della bomba che fece saltare in aria il giudice e la sua scorta, i retroscena della falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino, i numerosi e ormai accertati depistaggi istituzionali su quella terribile strage.
il Riformista 28.12.10
C’è di peggio alle spalle di Tonino
Antonio Di Pietro ha infine incontrato la prima vera opposizione nel suo partito personale, l’Italia dei valori. Un’organizzazione cesarista al cospetto della quale persino il Pdl appare una formidabile macchina di pluralismo...
di Stefano Cappellini
qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/320024/
l’Unità 28.12.10
Il segretario Pd : la politica si pronunci sul modello di relazioni sindacali che si delinea
Le tute blu Cgil domani decidono iniziative di lotta. Oggi l’incontro per il contratto di Pomigliano
Fiat, Bersani chiama il Parlamento La Fiom vuole lo sciopero generale
Sulla Fiat Bersani chiede l’intervento di governo e Camere: «Non è possibile che una palla di neve diventi una valanga per il sistema senza che nessuno ne parli». Oggi incontro per Pomigliano.
di Laura Matteucci
L’accelerazione di fine anno sulla Fiat che verrà, su cui Marchionne ha voluto spingere con l’accordo di giovedì scorso per Mirafiori, è ai massimi. Azienda e sindacati (eccetto la Fiom Cgil, che non ha firmato l’intesa del 15 giugno) si riuniscono oggi a Roma per mettere a punto il contratto della newco di Pomigliano, che interessa 4600 lavoratori: si discuterà di salario, orari, scatti di anzianità e diritti sindacali, con i firmatari che annunciano un contratto migliore di quello nazionale dei metalmeccanici e che «non rappresenterà alcuno sfregio» ai diritti. «Un contratto dice Bruno Vitali della Fim che dovrà poi rientrare dentro Confindustria e rappresentare un salario più alto per tutti i lavoratori». Il testo sarà chiuso in settimana, anche perchè da gennaio dovrebbero partire le assunzioni. E domani, invece, si riunisce in via straordinaria il comitato centrale del sindacato escluso, la Fiom, proprio per discutere le iniziative da assumere dopo l’intesa per Mirafiori. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani, intanto, chiama in causa governo e Parlamento, perchè si pronuncino sul modello di relazioni sindacali che si vanno delineando. «Gli investimenti e l’utilizzazione piena degli impianti sono prioritari dice Bersani Però qui c’è una terza cosa, che riguarda un effetto di sistema, cioè il sistema delle relazioni sindacali e della partecipazione dei lavoratori. Non è possibile che una palla di neve divenga una valanga per tutto il nostro sistema senza che nessuno ne parli». L’iniziativa della Fiat «se porterà a sollecitare continua Bersani una riforma dei meccanismi di partecipazione e rappresentanza del lavoro, avrà un esito buono. Se invece porterà ad una disarticolazione dei rapporti sociali sarà molto negativa».
FORZA E RASSEGNAZIONE
Susanna Camusso, segretaria della Cgil, è uscita con parole molto nette contro tutti: Marchionne è definito «antidemocratico e autoritario», Cisl e Uil sindacati aziendalisti, soprattutto per aver firmato un’intesa che esclude il terzo sindacato confederale, la Fiom «non può non aver commesso degli errori», e Confindustria non può restare immobile se vuole evitare la disarticolazione del sistema di relazioni industriali e rischiare l’esplosione del conflitto sociale. Domani, si diceva, il comitato della Fiom: la decisione di mobilitare l’intero gruppo Fiat viene data per scontata, mentre Giorgio Cremaschi è tornato ieri a chiedere alla Cgil quello che tutto il sindacato dei metalmeccanici ha già chiesto da tempo, lo sciopero generale. Un’iniziativa che, però, può venire decisa solo in sede di direttivo, e il prossimo non è stato ancora convocato. Il 10 gennaio, intanto, si riunisce la segreteria, mentre l’11 e il 12 si terrà l’assemblea nazionale delle Camere del Lavoro: saranno anche le sedi per delineare un percorso di mobilitazione (non solo su Fiat, ma per l’intero mondo del lavoro), a partire dalle marce per il lavoro che Camusso ha già lanciato.
Il 2011 per i lavoratori della Fiat si annuncia durissimo, «ma noi continueremo a mobilitarci in tutte le sedi opportune», avverte Giorgio Airaudo, responsabile auto per la Fiom. «L’accordo per Mirafiori (dove ripartirà la cassa integrazione per un anno da febbraio, ndr) è costruito perchè non si possa più contrattare sul lavoro spiega E questo muta radicalmente le relazioni esistenti. È permeato di antisindacalità e, tra turni massacranti e pause ridotte, non tutela la salute dei lavoratori. Fim e Uilm hanno sbagliato: i sindacati nascono per dare forza a chi è debole, non per dirgli “rassegnati, non c’è altro da fare”».
l’Unità 28.12.10
Le nuove regole: non si eleggono rappresentanti e non si sciopera
Ecco alcuni dei punti più controversi dell’accordo per Mirafiori che la Fiom Cgil non ha firmato
ORARIO DI LAVORO Possibili 4 orari a partire dal 2012, quando nascerà la joint-venture tra Fiat e Chrysler: oltre all’attuale, 8 ore al giorno per 5 giorni (5 per 2), verrà introdotto il turno di notte sia su 5 giorni (5 per 3)siasu6giorni(6per3,doveil sesto giorno è il sabato). Verrà valutata anche «la sperimentazione» per almeno 1 anno di turni di 10 ore per 6 giorni la settimana. Si lavora 10 ore per 4 giorni, poi si riposa per i successivi 3. L’azienda potrà ordinare fino a 120 ore l’anno di straordinari (oggi il massimo è 40), e contrattare altre 80 ore per ognuno.
MENSA E PAUSE La pausa mensa di mezz’ora è rimasta a metà turno (e non a fine turno, come richiesto dall’azienda), ma solo fino alla nascita della società con Chrysler. Dal 4 aprile la durata complessiva delle tre pause verrà ridotta di 10 minuti, da 40 a 30. I 10 minuti verranno monetizzati in 45 euro lordi al mese.
MALATTIA L’intesa mette in collegamento malattia e assenteismo. Quando il tasso supera una certa soglia (il 6% a luglio 2011, il 4% a gennaio 2012 e così via) il primo giorno di malattia, se capita immediatamente prima del giorno di riposo o di un periodo di ferie, non verrà pagato. Escluse le patologie più gravi.
SCIOPERI Il contratto non prevede l’elezione dei delegati. I sindacati firmatari possono nominare i loro rappresentanti, la Fiom no. I sindacati che sciopereranno contro l’accordo verranno puniti (in relazione a permessi e contributi), i lavoratori che lo faranno potranno essere licenziati. Ognuno dovrà sottoscrivere il contratto quando nascerà la joint-venture.
Corriere della Sera 28.12.10
Fiom incalza Cgil: ora sciopero generale
Cremaschi: a Mirafiori accordo da fascismo. E a Pomigliano si prepara il nuovo contratto
di Enr. Ma.
ROMA — Fiat e sindacati (tranne la Fiom-Cgil) vanno avanti spediti per far decollare Fabbrica Italia, il progetto di Sergio Marchionne per raddoppiare la produzione di automobili negli stabilimenti italiani nell’ambito del progetto di rilancio del gruppo Fiat-Chrysler. Oggi l’azienda e i sindacati Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic e Ugl si incontrano per mettere a punto il contratto di lavoro col quale verranno riassunti, a cominciare da gennaio, i lavoratori di Pomigliano (circa 4.600 al momento). Tra oggi e domani, quando l’intesa potrebbe essere raggiunta, si tratta di dar corso al primo accordo del piano Fabbrica Italia, firmato qualche mese fa, riguardante appunto lo stabilimento Giambattista Vico. Anche qui, come per Mirafiori, dove Fiat e sindacati (tranne la Fiom) hanno raggiunto l’intesa il 23 dicembre, i lavoratori saranno riassunti da una newco che per il momento non aderirà a Confindustria e non applicherà il contratto nazionale dei metalmeccanici, ma quello aziendale che verrà definito. Che conterrà anche regole sulla rappresentanza che impediranno alla Fiom, non firmataria del contratto, di avere rappresentanti in fabbrica. A questa mossa la Fiom risponderà domani con una riunione straordinaria del comitato centrale. Che dovrà decidere che posizione prendere rispetto al referendum tra i lavoratori sull’accordo di Mirafiori che si terrà a metà gennaio e se proclamare nuovi scioperi. Giorgio Cremaschi che guida l’ala dura, ieri ha fatto riferimento al «2 ottobre 1925» «quando Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi fascisti firmavano a Palazzo Vidoni un accordo che cancellava le elezioni delle commissioni interne. L’accordo di Mirafiori che cancella le elezioni delle rappresentanze aziendali è, da allora, il più grave atto antidemocratico verso il mondo del lavoro» . Il presidente del comitato centrale della Fiom ha poi chiesto di nuovo al leader della Cgil, Susanna Camusso, di proclamare lo sciopero generale. Ma il segretario generale ha già detto di no. La Camusso punta invece a far abbandonare alla Fiom la strada seguita finora, che l’ha portata all’isolamento rispetto agli altri interlocutori senza essere riuscita a offrire ai lavoratori una prospettiva che non sia la protesta. Allo stesso tempo il leader Cgil ha lanciato la proposta alla Confindustria e alle altre confederazioni sindacali di aprire un tavolo su nuove regole di rappresentanza. Finora però un’apertura è venuta solo dal segretario generale Fim, Giuseppe Farina. Per il resto, imperversa la polemica politica. Mentre Camusso ha definito Marchionne «antidemocratico, illiberale e autoritario» il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, lo difende, aggiungendo che l’accordo di Mirafiori «può fare scuola» per rilanciare l’azienda e far crescere i salari (250 euro in più al mese, dicono i sindacati) attraverso l’aumento della produttività. Il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, teme invece «che una palla di neve divenga una valanga per il nostro sistema» portando a «una disarticolazione dei rapporti sociali» . Bersani vuole un dibattito in Parlamento mentre l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, chiede a Cisl e Uil come possano aver firmato un accordo che cancella quello che avevano sottoscritto nel ’ 93 sulla rappresentanza e torna alle regole del 1970. Ma per il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, «è finito il tempo in cui la Cgil dettava legge» .
l’Unità 28.12.10
Unità sindacale. La lezione che viene dal 1960
Vertenze di ieri e di oggi
di Carlo Ghezzi, presidente della Fondazione Di Vittorio
Nel luglio sessanta imponenti agitazioni scuotono il Paese, i morti di Reggio Emilia e della Sicilia, lo sciopero generale della Cgil pongono fine all’avventura del governo Tambroni appoggiato dal Movimento sociale italiano e determinano la fine dell’agonia del centrismo che impediva l’apertura di una fase politica nuova che porta al centro-sinistra ma anche all’avvio della «riscossa operaia».
È a Milano che si compiono in quell’anno scelte sindacali che segnano un cambiamento epocale. La Fiom milanese (la rappresentanza sindacale dei metalmeccanici nella Cgil, ndr), diretta da Giuseppe Sacchi, e la Fim, ove opera Pierre Carniti, danno il via ad una stupefacente stagione di mobilitazioni caratterizzata da convergenze unitarie e da forme di lotta che anticipano quanto accadrà nell’autunno caldo mentre si vedono per la prima volta degli studenti sfilare con i lavoratori.
Il dieci dicembre 1960 Intersind sottoscrive un accordo che recepisce le richieste degli elettromeccanici ma Assolombarda non accetta.
Il suo fronte si sgretola e alcuni industriali cominciano a firmare accordi a livello aziendale.
Il 1960 si conclude con l’immensa manifestazione indetta dalla sola Fiom di centomila elettromeccanici che a Natale si radunano in Piazza Duomo con i propri familiari.
La scelta solleva l’avversione della Cisl e molte critiche sui giornali mentre i lavoratori raccolgono diffuse simpatie culminate con il saluto che il cardinale Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, durante la Messa solenne rivolge a coloro che si battono per il rinnovo contrattuale e per una maggior giustizia sociale.
Da allora si comincia a porre fine alla vecchia parola d’ordine «marciare divisi per colpire uniti» che viene sostituite da «uniti si vince» che favorisce l’unità tra lavoratori di diverse culture e storie e avvia la lunga preparazione dell’autunno caldo con le sue grandi conquiste sindacali, l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, le battaglie per un welfare universale e solidale.
E oggi? In una situazione di una profonda divisione sindacale sulle politiche contrattuali, sul sistema di relazioni industriali, sulla natura e sul ruolo del sindacato, il riproporre quei fatti che contribuirono a riportare il lavoro e la sua dignità nella parte alta dell’agenda politica può stimolarci a riflettere su quali siano i grimaldelli che possono scardinare il preoccupante muro di incomunicabilità eretto tra le organizzazioni sindacali, la pratica degli accordi separati, la mortificazione della democrazia sindacale e della partecipazione dei lavoratori.
l’Unità 28.12.10
«Migranti etiopi ed eritrei torturati nelle gabbie. Ecco l’inferno del Sinai»
Rapporto shock dei medici israeliani che accolgono i sopravvissuti alla traversata nel deserto: le donne stuprate ci chiedono di abortire
di Umberto De Giovannangeli
Un inferno svelato. Da chi è riuscito a fuggirne. Un inferno che lascia segni indelebili nel fisico e nella mente. Un universo di sofferenza analizzato dal gruppo Physicians for Human Rights-Israel (Phr) in un recente rapporto di cui l'Unità ha preso visione nella sua versione più aggiornata. I rifugiati africani che attraversano il deserto del Sinai per cercare di raggiungere Israele rimarca il rapporto sono vittime di torture, abusi e stupri da parte dei trafficanti beduini.
Il rapporto dell'associazione dei medici israeliani si basa su questionari distribuiti fra i pazienti dell’ospedale del Phr-Israel a Tel Aviv.
I profughi, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di due-trecento persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture contusioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o le mani.
Le donne vengono separate dagli uomini e stuprate. Dei 165 aborti richiesti all’ospedale fra gennaio e novembre 2010, la metà erano per gravidanze frutto di stupri.
Nello stesso periodo, 1.303 donne sono state sottoposte a trattamenti ginecologici, la maggior parte dei quali resisi necessari a causa delle violenze subite, durante il lungo viaggio attraverso il deserto africano.
Le difficoltà affrontate nel Sinai hanno anche provocato un aumento del numero di pazienti assistiti presso i servizi riabilitativi della Open Clinic.
Nei primi undici mesi del 2010, 367 persone sono state sottoposte a trattamento ortopedico e 225 a fisioterapia.
Per raccogliere informazioni più precise sul crescente numero di casi di violenza, sequestro, stupro, abusi fisici e sessuali, Phr ha deciso di documentare in modo sistematico le testimonianze dei pazienti che arrivano in Israele attraverso il deserto del Sinai. Intervistando ad oggi 167 persone provenienti da Eritrea ed Etiopia, Sudan, Costa d’Avorio Leone, Somalia, Nigeria, Ghana, Congo e Sierra, tra cui 108 uomini e 59 donne.
I primi risultati come riporta con accuratezza e profondità Nenia news che ringraziamo per il prezioso contributo mostrano che i rifugiati eritrei ed etiopi subiscono le maggiori violenze e quindi ai fini del rapporto redatto, le loro risposte sono state analizzate separatamente. Delle 13 donne che hanno accettato di rispondere alle domande relative a episodi di violenza sessuale (22% del totale), il 38% ha risposto affermativamente. Se si eccettua la parte relativa alle violenze sessuali, la partecipazione alle interviste è stata elevata. I seguenti dati sono stati raccolti attraverso 144 interviste. Il 77% dei rifugiati eritrei ed etiopi hanno raccontato di essere stati vittime di aggressioni fisiche, quali pugni, schiaffi, calci e frustate (rispetto al 63% di pazienti provenienti da altri paesi africani). Il 23% dei pazienti eritrei ed etiopi hanno riferito di aver subito bruciature, marchiature a fuoco, scosse elettriche, e di essere stati appesi per le mani o i piedi. Nessun paziente proveniente dagli altri paesi ha raccontato di aver subito questo genere di torture. Il 94% degli eritrei ed etiopi ha riferito di essere stato privato di cibo e il 74%, privato di acqua. Un fenomeno che si verifica anche tra gli altri rifugiati africani.
Due settimane fa, Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, ha realizzato un approfondito reportage intitolato Desert Hell (Inferno Deserto) in cui Phr, denuncia le torture e gli abusi, ormai istituzionalizzati, subiti dai rifugiati (specialmente da quelli provenienti da Etiopia ed Eritrea), nel Sinai, durante l’estenuante viaggio verso Israele . Secondo numerosi resoconti, gruppi di circa 200-300 eritrei sono portati nel Sinai, dove sono detenuti in container o aree recintate. I prigionieri sono sottoposti a tortura mediante percosse o bruciature, mentre i contrabbandieri chiamano i loro parenti chiedendo l’immediato trasferimento di denaro in cambio della garanzia per il rilascio e per il transito fino al confine con Israele. A causa delle ingenti somme richieste come riscatto, spesso sono necessarie settimane o addirittura mesi affinché i rifugiati possano raggiungere la frontiera. E’ durante questo periodo che le donne sono separate dal gruppo, detenute in ambienti appartati e sottoposte a ripetuti atti sessuali, abusi e stupri per mano dei loro rapitori.
Nei giorni scorsi, a ridosso di Natale, Phr ha raccolto nuove testimonianze che inducono a ritenere che la situazione nel Sinai stia diventando sempre più precaria. Mentre in precedenza alle vittime veniva richiesto di pagare tra i 2.500-3.000 dollari, attualmente la somma chiesta come riscatto è di 9.870 dollari. Secondo quanto è stato riferito a PHR da fonti vicine agli ostaggi attualmente sequestrati nel deserto, circa 220 persone sono attualmente detenute dai contrabbandieri in un ‘campo di tortura’ del Sinai. Al gruppo di 80 individui che sono arrivati un mese fa si sono aggiunti la scorsa settimana 140 profughi diretti verso Israele.
Oltre ai rischi e ai soprusi già menzionati, i profughi diretti in Israele devono anche affrontare le guardie di frontiera egiziane che spesso «sparano per uccidere». Nell’ultimo anno, gruppi di rifugiati hanno affermato che le guardie di frontiera egiziane sono diventati più spietate, ferendo e uccidendo più rifugiati rispetto agli anni passati. A peggiorare ulteriormente le cose vi è la politica definita hot return (ritorno caldo) adottata a volte dall’esercito israeliano e contraria al diritto internazionale; i rifugiati vengono cioè respinti in Egitto per un lasso di tempo che varia da un’ora a cinque giorni dal loro ingresso in Israele. Nonostante i rapporti sulle percosse, le morti, gli stupri e i respingimenti immediati siano ben noti alle autorità israeliane, queste politiche continuano ad essere routine. Ogni rifugiato che entra in Israele è trattenuto in uno dei due centri di detenzione israeliani: ad oggi si tratta di circa 2.000 rifugiati e richiedenti asilo, tra cui donne, bambini piccoli, e minori non accompagnati. Devono aspettare diverse settimane o anche mesi prima di vedere un medico penitenziario e problemi come la riabilitazione e la salute mentale sono del tutto trascurati. Dopo settimane di attesa, mesi e talvolta anni, i richiedenti asilo sono rilasciati con nient’altro che un biglietto dell’autobus per una delle più importanti città di Israele. I profughi respinti da Israele in Egitto vengono poi rimpatriati nella maggior parte dei casi. I profughi catturati dalla polizia egiziana sia nel deserto sia al confine subiscono abusi fisici e sessuali, la detenzione e la deportazione verso i loro Paesi d’origine. Sebbene l’Unhcr e le Ong egiziane siano talvolta in grado di intervenire in favore dei profughi di fronte al rischio del rimpatrio (compresi i casi in cui questo significa la morte certa o la detenzione in Paesi quali Sudan, Eritrea e Somalia), nel corso degli ultimi 3 anni centinaia di rifugiati sono stati rimpatriati dall’Egitto verso i loro Paesi d’origine. Nel giugno 2008, varie fonti hanno riportato una deportazione di massa di centinaia di profughi eritrei ed etiopi verso i loro Paesi d’origine. Molti sono stati uccisi al loro arrivo, altri sono stati imprigionati o sottoposti alla coscrizione militare. «Non tutti sanno rileva Roberto Malini dell’Ong EveryOne che i migranti che non pagano il riscatto finiscono proprio sul mercato degli organi, mentre le giovani donne finiscono in quello della prostituzione. Fonti locali ci riferiscono che oltre ai 250 migranti, ve ne sono attualmente altri 2000 circa, prigionieri in edifici o container sotterranei di città del Sinai, in Egitto e nei Territori. Dietro questo traffico che frutta milioni di euro ogni mese, vi sono le grandi organizzazioni mafiose e terroristiche: la Muslim Brotherhood (legata ad Hamas) e Al Qaeda».
l’Unità 28.12.10
Antisemitismo, il socialismo degli imbecilli
È la definizione di Bebel. Un saggio ricostruisce il clima in cui dalla fine dell’Ottocento maturarono i falsi «protocolli», l’affare Dreyfus e, a seguire, il razzismo fascista e nazista
di Nunzio Dell’Erba
L’antisemitismo, come movimento ostile al popolo ebraico, si perde nelle ombre dei secoli, ma si afferma in un’accezione moderna nel complesso ambiente intellettuale dell’Europa postilluminista. Lungo il XIX secolo la Francia produsse una cospicua letteratura antisemita, ma il termine fu coniato nel 1879 dal giornalista tedesco Wilhelm Marr, che lo introdusse per criticare l’eccessiva presenza della borghesia ebraica nel mondo finanziario dell’Impero guglielmino. Ad esso seguì alcuni anni dopo l’espressione «socialismo degli imbecilli», utilizzata per la prima volta al congresso socialdemocratico di Colonia (1893) da August Bebel, che la usò per confutare l’equazione ebraismo uguale a capitalismo.
Un terreno fertile La critica del socialista tedesco ha fornito lo spunto a Michele Battini per pubblicare un documentato volume – Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. XXX-293) – dove riesamina la letteratura antiebraica quale si ritrova nel pensiero cattolico conservatore e si sviluppa in alcuni spezzoni del socialismo francese.
Negli ultimi lustri del XIX secolo queste voci fecero presa nei settori antidemocratici del movimento socialista, alimentate dai pamphlet di Benoit Malon, Gustave Tridon e Auguste Chirac, il cui antisemitismo s’incrociò con quello del cattolico Edouard Drumont. In una Francia sconvolta dalla crisi economica e dalla critica alla rappresentanza politica, la propaganda antisemita trovò un terreno fertile nell’affare Dreyfus e nella confezione delle false prove contro il capitano ebreo nell’accusa di alto tradimento. Ma si sovrappose alla preistoria francese della fabbricazione dei Protocolli dei savi di Sion, che rappresentano nella storia delle contraffazioni «uno dei falsi più longevi», utilizzati dalla polizia russa per giustificare i pogrom del 1903 con l’esistenza di un presunto complotto ebraico per il dominio del mondo.
Nel 1903 I Protocolli apparvero per la prima volta in forma ridotta sul giornale «Znamja» di Pietroburgo tra il 26 agosto e il 7 settembre 1903 e due anni dopo come testo integrale per iniziativa di Sergej Nilus, una figura a mezza strada tra l’intrigante e il mistico. Ma la pista francese, certamente la più attendibile per ricostruire il famigerato testo, presuppone la definizione dell’antisemitismo come «socialismo degli imbecilli», che per l’autore «va molto più in là» della semplice «contraffazione poliziesca», ponendosi come reazione europea al libero mercato, all’emancipazione giuridica degli ebrei e alla loro acquisizione della moderna cittadinanza.
Tuttavia rimane il fatto che i Protocolli siano un plagio del testo Dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu edito nel 1864 e scritto da Maurice Joly. In questo testo egli deplorò il dispotismo di Napoleone III e la sua mancanza di «senso morale e religioso» per il suo ossessivo ricorso ad «ogni sorta di astuzie, di dissimulazioni e di inganni» per detenere il potere. Il pamphlet dello scrittore francese si caratterizza anche come fonte d’ispirazione per gli autori dei Protocolli, che ripresero il contenuto per mettere in rilievo la dicotomia tra anelito alla libertà e libertinaggio, diseguaglianza sociale e moto di ribellione, promozione del consumismo e blocco dei salari.
«La lupa» Alla loro pubblicazione i Protocolli non suscitarono alcun interesse in Italia, anche se idee antisemite circolavano nei primi lustri del Novecento sulle riviste cattoliche, sindacaliste rivoluzionarie e nazionaliste. Emblematico il caso della rivista «La Lupa» fondata nel 1910 da Paolo Orano, a cui l’autore dedica un interessante profilo, attribuendogli l’ingrato merito di avere inaugurato la campagna antiebraica in Italia e di avere preparato il varo delle leggi razziali.
Interlandi e preziosi Più che ad Orano esso deve essere attribuito a Telesio Interlandi e a Giovanni Preziosi, entrambi fascisti della prima ora e promotori di fogli antisemiti come «Il Tevere» e «La Vita Italiana». Dalla prima (1921) alla seconda edizione (1937) dei Protocolli fu Preziosi ad alimentare l’antisemitismo come uno dei veicoli della progressiva «nazificazione dell’ideologia fascista» e d’una situazione in cui la babele dell’odio portò alla legislazione razziale e alla caduta del regime fascista. Un capitolo che, per l’autore, non si è concluso con la catastrofe degli ebrei e la dimostrazione della falsità dei Protocolli, ma si è protratto fino ai nostri giorni per la loro diffusione in alcune zone calde del pianeta.
Un documentato excursus dell’antigiudaismo
Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Michele Battini pagine 293, euro 12,99 Bollati Boringhieri
Le prime espressioni dell’antisemitismo si avvertono già all’inizio del XIX secolo e devono essere lette nel contesto della rivolta contro l’Illuminismo politico e i diritti di cittadinanza. In questo erudito e documentatissimo libro, Michele Battini ripercorre e, anzi, ricostruisce tutta la tradizione antigiudaica fino all’antisemitismo moderno.
l’Unità 28.12.10
«Mission to Marx»
La sinistra sa ridere (anche) di se stessa?
È nelle librerie il “Dizionario satirico della sinistra” realizzato da Luca Bottura, ex l’Unità e Cuore. Ritratti brillanti e amari di personaggi, fatti partiti e movimenti progressisti e non
di Massimo Filipponi
A Woody Allen una volta chiesero se il sesso fosse una cosa “sporca”. La risposta fu immediata: «Sì, se fatto bene». Per la satira, mutatis mutandis, vale lo stesso discorso. Se fatta bene, la satira non può non essere corrosiva, graffiante e soprattutto per quei personaggi che la subiscono indigesta. Luca Bottura, penna acuta («ah, ah» direbbe lui), ex giornalista de l’Unità e di Cuore, conduttore di Lateral su Radio Capital, titolare della rubrica “Makaroni” sul Corriere della Sera, nonché autore per molti comici (Crozza, Bertolino, Cornacchione) e trasmissioni televisive (Victor Victoria, Cabello su La7), nel suo libro Mission to Marx (Aliberti editore, 398 pagine) non fa sconti a nessuno (euro 19 per tutti. «Ah ah» ridirebbe lui).
Pensare, scrivere e dire battute però non basta quando il progetto è ambizioso. E un dizionario satirico della sinistra (questo il sottotitolo) è compito ai limiti delle possibilità umana. Nel realizzare Mission to Marx Bottura ha coniugato la vivacità del lessico con il puntiglio dell’archivista. Ne è venuto fuori un mix esaltante: il recupero di voci dimenticate (Kgb, Pdup, Psiup, La Rete, Bolscevismo), l’approfondimento originale di quelle abusate (D’Alema, Pd, Prodi, Veltroni) e autentici scoop su alcune impensabili in un dizionario della sinistra (Turigliatto, Lario Veronica e Fare Futuro). Il tutto illustrato da didascalie parte integrante del progetto satirico.
Per evitare l’autoreferenzialità di ciò che Bottura scrive de l’Unità (dopo aver scritto su l’Unità) non trattiamo. Vogliamo anticipare, però, alcune chicche di cui il dizionario è ricco, brillanti definizioni che faranno parlare (forse anche in Tribunale). Una curiosità alla voce Matteo Renzi: «Nel 1993 ha partecipato e vinto a “La ruota della fortuna”. Per dire qualcosa di sinistra gli toccava comperare una vocale». Su Mario Chiesa (non viene riportata la data di nascita in quanto «non ama declinare le generalità»), celebre apripista della saga di Tangentopoli, Bottura rivela «gli fu fatale l’avidità: Chiesa voleva il 10 per cento, mentre la Chiesa si accontenta dell’8 per mille». Si ricorda che Daniele Capezzone (impressionante la somiglianza con Carl Switzer, l’Alfalfa delle Simpatiche canaglie) «è stato deputato della Rosa nel Pugno, dal 2004 al 2007 ha fatto “Markette” con Piero Chiambretti su La7 e dal 2009 è portavoce del Pdl e fa marchette per Berlusconi al Tg1». L’aggiornamento-lampo recita: «Nell’ottobre 2010 è stato raggiunto da un pugno senza rosa». Geniale e urticante. Così come deve essere la satira. Quella fatta bene.
Corriere della Sera 28.12.10
Cultura Il bambino del ghetto. Un’icona sequestrata
L’uso ossessivo ha stravolto il significato della foto
di Paolo Mieli
La foto del bambino ebreo con le braccia alzate, da anni simbolo dell’oppressione nazista sulla Polonia e sull’intera Europa, non fu scattata incidentalmente. Fa parte di un rapporto del generale Jürgen Stroop, capo delle SS e della polizia del distretto di Varsavia, redatto per documentare la repressione dell’insurrezione ebraica nel ghetto della capitale polacca che, tra il 19 aprile e il 16 maggio del 1943, aveva tenuto in scacco i nazisti. Questo rapporto, dal titolo «Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia» , era destinato ai comandanti delle SS Heinrich Himmler e Walter Krüger per dar conto del successo dell’operazione contro i «banditi ebrei» che avevano osato ribellarsi ed era corredato da un album di 53 immagini, tra cui quella del bambino. Era stato lo stesso Krüger a raccomandarsi con Stroop di fotografare ogni cosa: «Si tratta di un materiale prezioso per la storia, per il Führer, per Himmler e per i futuri studiosi del Terzo Reich, come pure per i poeti e gli scrittori, per la formazione delle SS e, soprattutto, per documentare gli sforzi e i pesanti e sanguinosi sacrifici sopportati dalla razza nordica e dalla Germania per disebreizzare l’Europa e l’intero globo terrestre» , gli aveva scritto. Già alla fine del 1945 lo scatto finì nella documentazione d’accusa per il processo di Norimberga contro i criminali nazisti. Ma in quella sede passò inosservato. Di più. Dovette trascorrere molto tempo prima che quella foto balzasse all’attenzione del mondo intero. Per un lungo periodo, oltre un decennio, fu, anzi, assai trascurata. Perché? Prova a rispondere a questa domanda un interessantissimo libro di Frédéric Rousseau, Il bimbo di Varsavia. Storia di una fotografia, che la Laterza si accinge a pubblicare all’inizio del prossimo anno (l’accurata traduzione è di Fabrizio Grillenzoni). Rousseau nota, per cominciare, la didascalia che «in eleganti lettere gotiche» ne dava la lettura di Stroop: «Estratti a forza dai bunker» . Una didascalia ingannevole, osserva l’autore, «perché dà l’idea che i civili rastrellati hanno resistito con la forza, in un modo o nell’altro, alla loro evacuazione» . L’immagine invece «dimostra il contrario: non solo l’uso unilaterale della violenza da parte di soldati contro famiglie disarmate e inoffensive, ma anche il completo controllo della situazione da parte dei militari» . È fin troppo evidente, aggiunge, «che quel piccolo gruppo in cui ci sono almeno quattro bambini non poteva rappresentare una minaccia per i "guerrieri"del generale Stroop» . Quegli abitanti strappati alle loro case «escono dall’edificio con le mani alzate e in fila per due: la loro sottomissione è totale; queste persone non appartengono in nessun modo a un’unità di resistenza armata del ghetto» . Per i nazisti, però, quell’immagine aveva un grande valore. «Attraverso un ribaltamento radicale dei valori occidentali giudaico cristiani» , spiega Rousseau, «questa fotografia sottolinea e intende dimostrare l’eroismo che nasce dalla capacità di agire senza lasciarsi ostacolare dalla propria umanità né dai propri sentimenti contro gli uomini, le donne e i bambini ebrei designati dal regime e dal suo capo come i nemici più temibili del popolo tedesco» . Ma, dicevamo, al processo di Norimberga l’attenzione degli accusatori si ferma su altre istantanee tratte dall’album di Stroop, quelle che illustrano l’estrema violenza della caccia agli ebrei da parte dei nazisti. Rispetto ad altre violenze commesse nel corso della liquidazione del ghetto di Varsavia, ricostruisce l’autore, «questa immagine non costituisce un documento su cui fondare un’accusa di crimine davanti al tribunale... Fa parte di una serie di fotografie che accusano, ma non è ancora la fotografia che accusa» . E così sarà per un lungo tempo. Una serie di «chiavistelli mentali» impedisce alla fotografia del bambino di Varsavia «l’accesso allo statuto di icona» che oggi le viene riconosciuto in tutto il mondo. Dieci anni dopo la fine della guerra quel fotogramma comincia a venir fuori. Compare per quattro secondi nel film di Alain Resnais Notte e nebbia, presentato al festival di Cannes nel 1956. Ma la voce dell’attore Michel Bouquet dice solo che si tratta di persone «rastrellate a Varsavia» . Nessun cenno agli ebrei e al ghetto. Il film, osserva Rousseau, «si colloca perfettamente, da diversi punti di vista, in un’epoca che ancora fatica a misurare le dimensioni e la specificità dello sterminio degli ebrei e che è anche e soprattutto dominata dall’attivismo delle associazioni dei deportati resistenti — a cui aderiscono anche numerosi sopravvissuti ebrei dei campi — che tentano, puntando l’indice sull’universalità del crimine, di contestare la distinzione operata dai criminali sui deportati» . All’indomani della guerra, per anni e anni «lo spazio della memoria è occupato da una lettura universalizzante dell’esperienza concentrazionaria» . Nel novembre del 1961 la foto compare per la seconda volta in un film: Vincitori alla sbarra (Le temps du ghetto) di Frédéric Rossif. Serve per illustrare (parole testuali) «l’ultimo gregge che viene deportato a Treblinka» ; il regista contrappone, anche se con accenti di pietà, gli eroici insorti del ghetto alle vittime passive che si fecero portare inermi al macello. Resistenti da una parte e gregge dall’altra: un tema presente nella pubblicistica israeliana dell’epoca. Con una nota aggiuntiva: i combattenti del ghetto di Varsavia avevano «salvato l’onore» del popolo ebraico. «Senza il loro meraviglioso sacrificio noi moriremmo nella vergogna» , scriveva il poeta Jacob Glastein. Nel libro La distruzione degli ebrei d’Europa (Einaudi) lo storico americano Raul Hilberg metteva il dito sulla piaga: «Il comportamento degli ebrei ai tempi del nazismo è caratterizzato dall’assenza quasi totale di resistenza» . Il giovane scrittore ebreo Jean-François Steiner in Treblinka: la rivolta in un campo di sterminio (Mondadori) descrive la sua gente come «un gregge di bestie che belavano alle porte delle camere a gas mentre andavano al macello» e, per questo, lo storico Léon Poliakov lo accusa di aver resuscitato il vecchio tema antisemita della «codardia ebraica» . Ma Treblinka ottiene il Grand Prix de la Résistance. Così come aveva ottenuto il premio Goncourt L’ultimo dei giusti (Garzanti) di André Schwartz-Bart, dove era già stata proposta l’immagine del «bestiame ebraico portato al macello» . Nel 1959, in Germania (Ovest), viene pubblicato il libro di Bernard Mark L’insurrezione del ghetto di Varsavia. Nascita e sviluppo: ci sono otto foto dell’album Stroop, ma non quella del bambino. E così sarà in svariati libri dell’epoca. Quell’immagine favorisce l’associazione con il concetto di passività ebraica che in quel momento storico «deve» cedere il passo a quella dei resistenti armati del ghetto. Con il beneplacito delle più importanti comunità ebraiche e dello Stato di Israele. «Questa scelta dolorosa, dettata in parte dalla volontà di integrarsi nell’unanimismo resistenziale nazionale e da una sete di normalizzazione dopo un lungo periodo di differenziazione» , sottolinea Rousseau, «è d’altra parte largamente dipendente, per diversi decenni, dal contesto israeliano» . È la costruzione del «mito» che assimila gli insorti di Varsavia ai combattenti sionisti di Palestina. E che porta con sé un tacito rimprovero a quegli ebrei d’Europa che negli anni Venti e Trenta non abbracciarono la causa sionista decidendo di restare in aree che in un breve volgere di tempo si sarebbero trasformate per loro in un inferno. La prima volta che la fotografia del bambino si affaccia in un libro è ne La stella gialla di Gerhard Schoenberner, pubblicato in Germania nel 1960. Schoenberner sceglie quella foto come manifesto per la mostra, sempre in Germania, sempre nel 1960, dal titolo «Il passato ci ammonisce» . Nel ’ 62 la mostra va in Israele. Sempre nel 1960 la rivista «Life» pubblica estratti delle memorie di Adolf Eichmann, che è stato appena rapito in Argentina e portato in Israele dove sarà processato e giustiziato: a illustrare il testo compare la foto del bambino ed è l’unica tratta dall’album di Stroop. L’ipotesi, convincente, di Rousseau è che sia stata proprio la vicenda Eichmann a resuscitare quella immagine: «Sicuramente il processo Eichmann ha fatto saltare una serratura, dando voce a una memoria fino ad allora largamente messa da parte» . Negli anni Sessanta la fotografia fa il suo ingresso nei manuali scolastici; nel 1966 è sulla copertina di un libro sull’insurrezione nel ghetto di Varsavia. In quello stesso 1966 la foto compie un clamoroso salto: Ingmar Bergman chiude il film Persona (sul malessere di due donne, sulla solitudine, su un bimbo non desiderato che la madre non sa amare né proteggere) con l’immagine del bambino del ghetto. Da quel momento il fotogramma assume valenze che vanno molto al di là di quelle riconducibili al momento in cui fu scattato. Negli anni Settanta compare sulla copertina di un volume su storie di bambini israeliti ai tempi della Seconda guerra mondiale; in una serie televisiva inglese, il protagonista la tiene costantemente in tasca come testimonianza del suo senso di colpa per le atrocità commesse dalla generazione che lo ha preceduto. Nel 1972 si verifica un nuovo salto: la foto del bimbo di Varsavia viene associata a quella della bambina nuda, Kim Phuc, che urla di terrore mentre corre in una strada del Sud Vietnam per sfuggire al napalm lanciato dai bombardieri (sudvietnamiti). È ormai un’immagine icona che viene usata per denunciare gli orrori della guerra. Negli anni Ottanta, Yala Korwin scrive una poesia interamente dedicata al bambino del ghetto: «The Little Boy with his Hands Up» . Il cineasta jugoslavo Mirko Panov gira il cortometraggio Con le mani in alto, che trae spunto da quell’immagine. Negli anni Novanta il quotidiano francese «Libération» la pubblica, scontornata, per annunciare una serie televisiva sui crimini nazisti. Il filosofo Alain Finkielkraut, nel commentare positivamente questa iniziativa, denuncia la contrapposizione «tra i resistenti armati e gli altri» e la cancellazione dei secondi a vantaggio dei primi: «Noi commemoriamo questo abbandono» , scrive. È un tema già sollevato nel 1976 dal saggio Surviving, pubblicato dal «New Yorker» , in cui Bruno Bettelheim aveva scritto: «Dire che le vittime delle camere a gas andarono incontro alla loro morte come pecore significa usare in modo scandaloso un cliché che è non solo crudele ma anche completamente falso» . Il lungo viaggio di quell’immagine è ormai inarrestabile. Il pittore americano di origine ebraico lituana Samuel Bak ne fa il centro dei suoi quadri: «Per me» , afferma, «quel bambino rappresenta la crocefissione ebraica» . La foto del bambino, ormai celeberrima, prende il volo allontanandosi sempre più dai fatti luttuosi del maggio ’ 43. All’indomani della strage di Srebrenica (luglio 1995) compare sui manifesti di denuncia dei «campi della morte» serbi. Nel 2000 il fotogramma del bimbo di Varsavia viene associato a quello del piccolo cubano Elián González, tratto in salvo dalla guardia costiera americana da una barca che stava affondando, mentre tentava di fuggire dall’isola di Fidel Castro per raggiungere una parte della sua famiglia in esilio a Miami. Ma nel settembre di quello stesso anno l’uso politico di quella foto comincia a ritorcersi contro il contenuto dell’immagine. Televisioni e giornali di tutto il mondo mostrano il bambino palestinese della striscia di Gaza Mohammed al-Durah che si stringe al padre il quale cerca disperatamente di proteggerlo dal fuoco che in quel momento si pensa provenga da un’arma israeliana (versione che successivamente verrà messa in dubbio anche da osservatori neutrali). La giornalista francese Catherine Nay dice a radio «Europe 1» : «La morte del piccolo Mohammed cancella simbolicamente il bambino del ghetto di Varsavia» . Lo scandalo per questa affermazione (di cui la giornalista si dirà pentita) non impedisce che nei Paesi arabi e su Internet prenda il via una campagna di accostamento tra le due immagini tesa a dimostrare che i soldati israeliani di oggi sono in tutto e per tutto simili agli oppressori nazisti di ieri. Campagna che va a parare in una serie di trasfigurazioni visive ad opera del disegnatore brasiliano Carlos Latuff per una serie di disegni intitolata «Siamo tutti palestinesi» . Con il ritratto di un bimbo molto somigliante a quello polacco che, senza avere alle spalle la figura minacciosa dell’SS, ha anch’egli come didascalia «I am Palestinian!» . Con il che, osserva Rousseau, Latuff «tende a banalizzare l’icona stessa sostituendole un’altra vittima referente» . Nel frattempo a quell’immagine è capitato addirittura di essere usata da Robert Faurisson e dai negazionisti. In che modo? Nel luglio del 1978 il «Jewish Chronicle» di Londra annuncia che l’identità del bambino del ghetto di Varsavia «è stata rivelata da una polacca che vive in Israele» . Si tratterebbe di Arthur Shimyontek Domb. Successivamente lo stesso giornale afferma che un uomo d’affari londinese, che intende mantenere l’anonimato, si è fatto vivo sostenendo di essere lui quel bambino e che la foto era stata scattata nel 1941 anziché nel 1943. Faurisson scrive che «da quel momento» , visto che la persona ritratta è viva, se quella foto dovesse rimanere un simbolo «non potrebbe più essere che il simbolo dell’impostura del genocidio» . Inizia un esame molto attento del fotogramma, che porta alla conclusione che, non fosse altro per il fatto che è finita nell’album di Stroop, non può che essere stata scattata nel 1943. Poi un altro sopravvissuto dei campi nazisti afferma di esser lui quel bambino senza però, per onestà, poterlo giurare. Tsvi Nussbaum, così si chiama l’uomo, sostiene di essere stato fotografato al momento del suo arresto davanti all’hotel Polski di Varsavia, situato fuori dal ghetto, prima della sua deportazione a Bergen Belsen nel luglio del 1943. Ma, a parte il fatto che le persone fotografate portano pesanti vestiti invernali ed è improbabile che questo potesse darsi in piena estate, come è possibile che quel fotogramma fosse finito in un album predisposto due mesi prima per documentare la sconfitta dei resistenti israeliti? D’altra parte, osserva Rousseau, un certo numero di persone visibili nella fotografia hanno al braccio destro il bracciale con la stella di Davide, obbligatorio per tutti gli ebrei del ghetto. È poco probabile che gli ebrei rifugiati e nascosti nella parte ariana della città dopo essere sfuggiti due mesi prima, in maggio, alla distruzione del ghetto stesso, continuassero a portare questo segno che li metteva in pericolo di vita. Ma il punto centrale della questione non è quello relativo all’identità del bimbo. L’attenzione del libro s’incentra sul fatto che quella fotografia poco a poco si è trasformata «in un’icona universale utilizzabile per tutte le buone cause dal momento» , che «esercita un potere sociale di coesione e di comunione» . È un bene? No, risponde Rousseau. Anzi. Tenuto conto di alcune osservazioni di Susan Sontag Sulla fotografia (Einaudi), Rousseau chiede: non si è andati troppo oltre? Con la sua sovraesposizione, quella immagine non ha snaturato in modo eccessivo la nostra memoria? Con i suoi successivi scivolamenti e spostamenti, questa traccia fotografica è ancora una testimonianza? E di cosa? Per essere significanti, le immagini richiedono una contestualizzazione precisa e rigorosa, e soltanto a questa condizione possono rimanere documenti storici. Se la fotografia del bambino di Varsavia ha effettivamente contribuito a spezzare il monopolio della Resistenza, troppo schiacciante e deformante, e se ha contribuito alla «riacquisizione delle vittime della Shoah nella coscienza occidentale» , ha anche partecipato, in una certa misura, alla «cancellazione dello spirito di resistenza nelle memorie» . Ormai è solo il cuore ad essere toccato. Alcuni usi e abusi di quell’immagine forse devono metterci in guardia. La decontestualizzazione in certi casi si è spinta così oltre che la fotografia non racconta più la storia del ghetto di Varsavia. Talvolta non racconta più nemmeno la storia della Shoah. L’avvenimento— una delle più grandi tragedie del nostro tempo— «è stato completamente inghiottito dalla carica emotiva della fotografia» . «Distruggere e moltiplicare sono i due modi di rendere un’immagine invisibile: con il niente e con il troppo» , osserva il teorico dell’immagine Georges Didi-Huberman. Una notazione che fa al caso nostro: l’immagine del bambino di Varsavia è oggi talmente imperiosa che impone a chiunque un arresto del pensiero; «a ogni sua esposizione è d’obbligo e autorizzata soltanto la compassione, una compassione troppo loquace e tuttavia muta, diventata un riflesso privo di riflessione, senza cultura, senza memoria, una sorta di rinuncia a decifrare il mondo in termini politici» . In casi come questo la foto è vittima della sua grande efficacia. Non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico; «sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia; non informa più, è erosa dagli usi distorti; l’immagine si è modificata, consumata: portatrice all’inizio di una verità fondamentale, è diventata supporto di menzogne, al servizio dei peggiori deliri» . Dopo «essere stata verità, l’immagine si è trasformata in menzogna» . Triste conclusione per il lungo viaggio compiuto da una delle più famose fotografie del Novecento.
il Fatto 28.12.10
Le bambine interrotte el Burkina Faso
Ragazzine costrette a prostituirsi per un euro e “consigliate” ai turisti
di Mimmo Lombezzi
Ouagadougou (Burkina Faso). “Le Grotto” non è un bordello per bianchi. Per raggiungerlo bisogna viaggiare più di 40 minuti sugli sterrati di Silmande, uno dei quartieri in espansione di Ouagadougou, che nelle prime ombre del tramonto appare come una terra di nessuno occupata da cantieri, discariche e baracche che vendono birra. “Qui – dice Suleyman, l'uomo che mi accompagna – una minorenne vale 1.000 franchi locali (un euro e mezzo) e ce ne sono di giovanissime addirittura di 12 o 13 anni”.
"Le Grotto", è un maquis , uno dei bar-discoteca che in Burkina Faso funzionano come anticamera delle chambres de passe, le camere dove le ragazze si prostituiscono.
ENTRIAMO in un quadrilatero di muri appena intonacati. Circondano una pista da ballo di mattonelle colorate coperta da un tetto di tolla appoggiato su pali sbilenchi. Sulle pareti una serie di "affreschi" rudimentali, rappresentano delle sirene. C'è uno specchio e una ragazza, che contempla una bellezza, mi saluta in francese. Tutto quello che vedo, dalle pareti alla pista alle sedie di ferro, è contaminato dalla polvere rossa delle strade africane.
Un cameriere-buttafuori mima colpi di karate contro un pilastro. Altri, seduti a un bar, mi osservano ascoltando la radio che annuncia il colpo di Stato in Costa d'Avorio. Ci vivono 4 milioni di burkinabè e quel che accade ad Abidjan qui viene vissuto come una tragedia domestica.
A un tratto la voce dello speaker viene coperta dal rumore delle sedie di ferro che un ragazzo raccoglie intorno a un tavolo. Le prostitute arrivano con l'aria annoiata di chi deve vedere quel posto tutti i giorni. Emergono lentamente dal buio delle baracche che circondano il maquis. Una è incinta, due arrivano allattando quelli che qui chiamano “i figli del lavoro”. Il tavolo si riempie di bottiglie di birra.
Una ragazza in minigonna si siede sulle mie ginocchia, poi afferra una bottiglia e la stappa con i denti. Quasi tutte parlano francese tranne due che sono nigeriane e parlano inglese. “Quanto quadagnano?”, chiedo. “Possono arrivare a 5.000 franchi in un giorno”, dice Suleyman 5.000 franchi locali corrispondono a poco più di 7 euro, ma una ragazza lo corregge immediatamente: “Non è proprio così; possiamo guadagnare 5.000 franchi, ma questo accade solo nel weekend e, comunque, tu guadagni 5.000 franchi ma devi anche pagare la stanza. Se ne vanno 3.000 franchi, te ne restano 2.000, ma spesso arrivano dei clienti che ti usano e poi non ti pagano o addirittura ti rapinano. Così, per lavorare tranquille, dobbiamo pagarci un guardien, un protettore e se ne vanno altri 1.000 franchi. Restano 3.000 franchi che bastano appena per pagarsi da mangiare gli altri giorni della settimana”.
Sei magnaccia ci osservano per un po’ a pochi passi di distanza poi si disinteressano di noi. Probabilmente sono il primo bianco che vedono entrare a “Le Grotto”. Alle due ragazze che allattano chiedo: “Come fate con i bambini?”. Rispondono: "Paghiamo una vecchia che si occupa di loro mentre lavoriamo".
QUANDO un paese è povero come il Burkina Faso facilmente i corpi dei suoi abitanti diventano merce: braccia di uomini da sfiancare nelle miniere d'oro dello Yayenga o fianchi di donne da offrire ai clienti occasionali nei maquis come “Le Grotto”, un fenomeno talmente diffuso da essere menzionato anche nelle guide turistiche. Le prostitute sono tutte molto giovani. Alcune hanno iniziato questo mestiere perché, arrivate in città dalla campagna, non ne trovavano altri. Ma la maggior parte è finita sulla strada dopo aver lasciato famiglie in cui venivano maltrattate. “Io vengo dal Togo” racconta una di loro ”sono venuta qui per guadagnar qualcosa ma se non ho un lavoro come faccio? E se non hai i genitori accanto a te per aiutarti a mangiare, cosa fai? Se non hai un buon lavoro e nessuno ti dà nulla sei obbligata a venire qui a prostituirti”. Quando chiedo chi vorrebbe smettere, alzano tutte la mano. “Anche tra 10 minuti”, risponde una. Suleyman Nana, l'uomo che mi accompagna, conosce bene le chambres de passe di Ouagadougou perché ha strappato al marciapiede dozzine di ragazze. Gli chiedo: “Ma come mai i protettori ti lasciano lavorare?”. Risponde: “Non sempre. Un protettore una sera mi ha detto ‘se non te ne vai ti sbudello e quel che ti accadrà l’hai voluto tu’”. Sono uscito ma non me ne sono andato. Sono rimasto lì davanti alla porta e gli ho detto: ‘Ascolta, son venuto per farti capire che questa ragazzina non può dormire qui e se tu non accetti un accordo con le buone ripasserò in un altro modo’. Lui ha avuto paura e alla fine ha ceduto”.
Chiedo: “Se il protettore non cedeva cosa avresti fatto?”.
Suleyman: “Avrei chiamato la polizia, non avrei mai lasciato una ragazzina senza assisterla nel pericolo. Era una ragazzina di 15 anni, sequestrata da mesi. Se me ne fossi andato zitto zitto, perché avevo paura, sarebbe stata una specie di omissione di soccorso verso una persona in pericolo”.
A Ouagadougou, Suleyman ha creato una struttura protetta dove le ragazze di strada hanno la possibilità di imparare un mestiere e tentare di ricostruirsi una vita normale. Si chiama “Anpo Mia” e lavora in rete con le volontarie italiane di Aidos. È una di loro, Clara Caldera, che ci fa incontrare Samira (17 anni) Clara: ”Quando uscivi cosa facevi ?”.
Samira: “Uscivo con dei ragazzi e dormivo là...”.
Clara: “Dormivi con i ragazzi?”. Samira: “Sì...”.
Clara: “Per i soldi?”.
Samira: “No, no...”.
Samira si difende dalle domande e risponde a monosillabi ed è Pauline Ilbondo, una delle attiviste di “Ampo Mia” a ricostruire la sua storia: “Quando Samira usciva, rientrava a casa dopo 3 o 4 giorni e quando i suoi le dicevano di non uscire più, il giorno dopo lei era di nuovo fuori, così sua madre passava la giornata a cercarla da un cortile all’altro, con i vicini che le dicevano ‘hei, ho visto tua figlia Samira con dei ragazzi e quella sua amica’, e ogni volta sua madre si metteva a piangere”.
Clara: “La tua amica ti diceva di dormire con i ragazzi?”. Samira: “Sì”. Clara: “E anche lei lo faceva?”. Samira: “Sì”. Clara: “E lei si faceva pagare? Le davi dei soldi?”. Samira: “Sì”. “Più spesso spiega Pauline degli amici maschi, e quando la notte uscivano con questi ragazzi le facevano entrare nelle chambres de passe, nei postriboli, ed erano questi ragazzi che incassavano”. A poco a poco, incalzato dalle domande di Clara, il racconto di Samira diventa un incubo: “Un giorno, le amiche del mio gruppo mi hanno lasciata da sola con i ragazzi e quelli volevano possedermi e siccome io rifiutavo uno di loro ha estratto un coltello e mi ha detto ‘se resisti ti uccidiamo’”. Clara: “Prendevi delle precauzioni?”. Samira: “Sì, usavo dei condom”. Clara: “E non sei mai rimasta incinta?”. Samira: “Sì, ma l'ho perso”. Clara: “Volontariamente o si trattava di un aborto? Sei tu che l’hai provocato o il ragazzo ti ha spinto a farlo?”. Samira: “Avevo un ragazzo e sono rimasta incinta. Mia madre non lo sapeva e quando l’ha saputo mi ha detto ‘non voglio più vederti, in questa casa non c’è piu niente per te, perciò ho abortito’”. Oggi Samira, grazie a un progetto di Aidos sostenuto da Mediafriends, sta imparando a fare la sarta ed è sicura di ottenere il perdono dei suoi genitori, ma reinserirla nel suo quartiere e farla accettare non sarà cosa facile. Sarà il compito di Clara e delle altre volontarie del “Centro per la salute delle donne” di Ouagadougou, che ha arruolato anche uno psicologo e un'avvocatessa. “Servono ad aiutare le donne che hanno problemi con il loro ambiente”, spiega Paola Cirillo.
Davanti all'avvocatessa siede una donna con la schiena tagliata da una vistosa cicatrice “L'ultima volta che il marito l'ha bastonata è svenuta spiega Paola poi, grazie a noi l'ha denunciato e adesso c'è un'inchiesta ma sino a poco tempo fa questa sarebbe rimasta una storia privata”.
*articolo tratto da “Storie di confine” (Rete4)
l’Unità 28.12.10
Dalle prime carte dell’Unità d’Italia ai «resti» di Matteotti ai documenti del ’68 rimasti fuori
Nella struttura a Portonaccio non c’è più posto per conservare il materiale della nostra storia
Quando la memoria «scoppia» Nell’Archivio di Stato di Roma
L’Archivio di Stato di Roma occupa degli ex magazzini che costano 750mila euro di affitto. 23 chilometri di scaffalature che non bastano più a contenere la nostra storia. Tutto il ‘68, per esempio, è rimasto fuori
di Jolanda Bufalini
Portonaccio, via Galla Placidia 93 a Roma, proprio dove è la rampa per la A24. La sede distaccata dell’Archivio di Stato di Roma occupa degli ex magazzini che costano 750.000 euro di affitto. 23 chilometri di scaffalature che non bastano più a contenere la nostra storia. Il 1968, per esempio, i quaranta anni sono trascorsi e le carte dell’epoca dovrebbero essere già negli archivi ma non c’è posto. Con le caserme vuote, il patrimonio del Demanio e quello del comune, si chiedono gli archivisti, ha senso pagare quello sproposito di affitto per una sede che non basta più?
Stiamo per entrare nell’anno delle celebrazione del 150 dell’unità d’Italia ma l’archivio di Roma capitale rischia di chiudere. Non c’è solo il problema della sede c’è anche quello dei tagli al funzionamento ordinario che «ci costringerà – spiega il direttore degli archivi romani Eugenio Lo Sardo – alla chiusura delle sale di consultazione». Eppure la gran parte dei fascicoli riposti nei 23 chilometri raccontano proprio Roma capitale. Le prime carte risalgono al 1870, quando prefettura e questura furono incaricate del passaggio dallo Stato pontificio allo stato unitario. Ci sono gli archivi del distretto militare e le visure catastali. L’ultimo lascito è stato fatto dalla Digos una decina di anni fa. I romani vengono qui per scoprire la propria storia, per finalità pratiche, nel caso delle visure, o per memoria: i mille nomi scolpiti a San Lorenzo che oggi ricordano i bombardamenti del 1943 sono stati trovati qui.
«Soprattutto donne, anziani e bambini – racconta Augusto Pompeo, archivista in pensione e docente di archivistica contemporanea – perché gli uomini erano al lavoro. I parenti venivano qui a vedere quelle terribili fotografie per cercare di riconoscere i loro cari». Fra le chicche del patrimonio fotografico c’è uno scatto che ritrae il celebre gobbo del Quarticciolo , Giuseppe Albano, a 17 anni, vestito da gangster impugna una pistola e punta contro un suo amico, Bruno Taverna, accanto a lui un poliziotto, pure amico suo. La fotografa Simona Granati si emoziona nel vedere una foto di gruppo davanti alla sede del Pnf, sempre al Quarticciolo. In quello stesso posto, sopra quel portone, dopo la targa del partito fascista c’è stata quella del Pci e, ora, c’è un centro sociale.
Pompeo ci fa da guida: «Abbiamo mostra il foglio matricolare di Enrico Toti». Nel settore C8, invece, c’è la storia dei sorvegliati politici, ormai quasi completamente informatizzata e consultabile via computer. Fu Francesco Crispi a creare il casellario politico centrale poi rafforzato durante il Ventennio. Durante il fascismo gli schedati erano 3500, venivano prelevati in occasione delle adunate o delle visite di capi di Stato stranieri, perché non gli saltasse in mente di dare fastidio. «Il casellario chiosa Pompeo è durato, chissà perché, fino al 1950». La dirigente Marina Pieretti, Manola Venzo e Elvira Grantaliano, che è la «risorgimentale» del gruppo, quella che di solito sta china sulle carte della Repubblica romana, portano religiosamente una sconnessa cassettina di laboratorio: contiene i vetrini con il sangue di Giacomo Matteotti. Il cadavere del martire antifascista fu trovato in condizioni tali da non poter essere identificato. Gli atti del processo sono qui, «fu l’odontoiatra, in realtà, a portare alla identificazione certa». Ci sono le foto della macchina del rapimento e i disegni della giacca su cui i periti riportarono la traiettoria della coltellata fatale.
I processi celebri sono la ricchezza dell’archivio di Stato di Roma ma nascosta in queste carte c’è anche quella che Eric Hobsbown chiamerebbe storia di gente comune. Una ce la racconta Luca Salvetti, 39 anni, archivista disoccupato ma occupatissimo. L’archivistica è un virus che, una volta contratto, non ti lascia più, e Luca viene ogni giorno, anche se da tempo non ci sono i soldi per i co.co.pro.
«Maggio 1898, commercianti e artigiani si ribellano per l’aumento delle tasse. Il concentramento è al Campidoglio, si uniscono anarchici e socialisti. Viene bruciato il tricolore. Il corteo parte verso piazza Navona, dove era allora il ministero dell’Interno, a Palazzo Braschi, blindata». Sembra di sentire cronache recenti sulla zona rossa. «La folla preme per entrare. I primi a caricare sono i carabinieri, poi entra la fanteria. C’è un tentativo da parte dei dimostranti di disarmare i soldati». La carica con sciabole e baionette farà una carneficina, moltissimi i feriti, alcuni, come l’ambulante Sabato Moscato, molto gravi. Sul selciato rimane Lamberto Ghezzi (che negliatti processuali diventa Ghezel), 17 anni, garzone di bottega. In un rapporto della Questura si racconta di una piccola processione dei familiari che portarono una croce sul luogo della morte, in vicolo della Pace. Croce dice la Questura prontamente rimossa. Ma in vicolo della Pace, sotto un tabernacolo votivo, c’è ancora, incastonata nel muro, una piccola inusuale croce.
2/continua
Corriere della Sera 28.12.10
Fermi e la bomba, il giallo dei brevetti top secret
Armi nucleari: silenzio Usa per ragioni di Stato. E il premio Nobel non fu mai pagato
di Lanfranco Belloni
Undici brevetti di ingegneria nucleare. Brevetti «top secret» . Brevetti firmati da Enrico Fermi e tenuti a lungo «nascosti» dalle autorità americane, intenzionate a mantenere un controllo totale nelle tecnologie per la costruzione della bomba atomica. L’elenco è contenuto nel volume «Neutron Physics for Nuclear Reactors -Unpublished Writings by Enrico Fermi» , edito di recente da World Scientific di Singapore a cura di Salvatore Esposito e Ofelia Pisanti, dell’Università Federico II e della sezione di Napoli dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. Il primo brevetto risale al 1934, all’origine dei lavori sulla fisica dei neutroni in via Panisperna, ed è intitolato «Metodo per accrescere il rendimento dei procedimenti per la produzione di radioattività artificiale mediante il bombardamento con neutroni» . C’è la descrizione dettagliata dei risultati ottenuti studiando la radioattività indotta in un numero di elementi chimici, in seguito a irradiamento con i neutroni lenti. Il testo originale non è mai stato pubblicato in italiano, e nel volume i curatori presentano la versione inglese, quella destinata all’ufficio brevetti Usa nel 1935, e lì rilasciata nel 1940. Gli altri brevetti riguardano tutti gli aspetti operativi del funzionamento dei reattori, basati sulle reazioni a catena. E costituiscono altrettante trattazioni dettagliate, ma distinguibili dalla descrizione dei medesimi argomenti apparsa invece nei lavori pubblicati e già conosciuti. Il secondo brevetto, «Metodo per il funzionamento di un reattore a neutroni» , desecretato nel 1955, fu definito dal New York Times «brevetto storico, che copre il primo reattore nucleare» . Vi sono presentati la teoria, i dati sperimentali, e i principi di costruzione e funzionamento di ogni tipo di reattore nucleare conosciuto all’epoca. A partire dalle diverse forme di uranio impiegato ai differenti sistemi di raffreddamento e alle diverse disposizioni geometriche dei vari componenti. Insomma, la madre di tutti i brevetti successivi. Nel regime militare vigente a Los Alamos, nel New Mexico, sede dei laboratori per la ricerca e la produzione di armi nucleari, le «invenzioni» di Fermi e colleghi erano subito coperte da brevetto segreto, di proprietà dell’Autorità dell’energia atomica, che rappresentava il governo statunitense. Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la Casa Bianca si rifiutò sempre di riconoscere un compenso per quelle invenzioni segrete: Enrico Fermi e i suoi collaboratori non percepirono mai un dollaro. La questione dei brevetti sulle tecnologie nucleari si dipanò attraverso vicende intricatissime, fra le esigenze del segreto militare, legate alla sicurezza nazionale, e le aperture verso l’utilizzazione dell’energia atomica per scopi civili. Quei brevetti del fisico italiano, ormai diventato cittadino americano, erano «declassificati» , cioè desecretati, all’epoca della pubblicazione delle opere complete di Enrico Fermi, sotto la direzione dell’allievo e premio Nobel Emilio Segrè, avvenuta nel 1962-65. Avrebbero potuto essere inclusi già allora nell’opera omnia del gran maestro, ma furono tralasciati. Ci si può chiedere la ragione di una simile «dimenticanza» . La spiegazione più plausibile è che si sia sentita l’esigenza di non divulgare eccessivamente tecnologie sensibili sotto il profilo strategico. Fra gli inediti inclusi nel volume, anche gli appunti presi alle lezioni di fisica dei neutroni tenute da Fermi alla cosiddetta «Università di Los Alamos» . L’autore degli appunti, rimasti per lungo tempo inediti, era un membro della delegazione britannica, il fisico inglese Anthony French. Anche attraverso il filtro di questo uditore, si ha l’ennesima conferma delle singolari capacità didattiche di Fermi, dalle quali trasse vantaggio tutta la singolare comunità, radunata a Los Alamos.
Corriere della Sera 28.12.10
Tre secoli di diari, prima dei blog
Hawthorne, Einstein, Burroughs: gli sfoghi segreti dei grandi
di Alessandra Farkas
NEW YORK — Nathaniel Hawthorne usava il suo diario per celebrare l’amore profondo per la moglie Sophia. Nel suo journal, Tennessee Williams confessava con quotidiano puntiglio la solitudine e l’insicurezza che l’attanagliarono fino alla morte, mentre le annotazioni giornaliere aiutarono John Steinbeck a liberare con catartica onestà il tormento artistico che accompagnò la stesura di Furore, il suo capolavoro. Questi e altri settanta diari, scritti nell’arco di tre secoli, fanno parte di «The Diary: Three Centuries of Private Lives» . La mostra, allestita alla Morgan Library &Museum di New York dal prossimo 21 gennaio e curata da Christine Nelson, illustra come la diaristica non sia affatto un’invenzione dei blog, di Twitter o dei social network. Da secoli poeti e scrittori utilizzano il diario, la più privata e onesta delle forme letterarie, per documentare le proprie esperienze di viaggio, liberare l’animo da tribolazioni e affanni, attenuare la solitudine o semplicemente tramandare ai posteri l’affresco della propria era. Si tratta, insomma, di uno dei generi di scrittura più eterogenei, che va dai celebri diari osé di Anaïs Nin e quelli castigati della Regina Vittoria — pubblicati e apprezzati da milioni di lettori in tutto il mondo — ai manoscritti privati e inediti di Albert Einstein (che saranno pubblicati nel 2011 dall’Einstein Papers Project), di John Newton, l’autore dell’inno cristiano Amazing Grace, scritto intorno al 1772 e di Baron Larrey, il chirurgo dell’esercito Napoleonico. Che cosa ha mosso questi ultimi a tenere segreti i loro scritti? Forse lo stesso pudore che negli anni 30, durante la stesura di Furore, spinse il premio Nobel Steinbeck a confessare, nel suo privatissimo quaderno: «Ho già tentato prima d’ora di scrivere un diario, ma non ci sono riuscito a causa della necessità di essere onesto con me stesso» . Una preoccupazione, questa, estranea al filosofo e scrittore statunitense Henry David Thoreau, al centro della mostra. Tra i suoi 39 diari e dozzine di blocchi per appunti nella collezione permanente della Morgan Library spiccano titoli come «verità» , «alba» e il lirico «i ruscelli immobili sono i più profondi» che il padre dell’ambientalismo moderno decorò con disegni di paesaggi e animali, tra cui il dettaglio di una piuma di falco. Nel diario di nozze compilato a quattro mani da Nathaniel e Sophia Hawthorne, qualcuno individuerà il primo documento interattivo dell’era moderna, 150 anni prima della nascita di Internet. «Credo profondamente che non vi sia il sole in questo mondo — scriveva Hawthorne nel 1842 — eccetto quello che irradia dagli occhi di mia moglie» . «Mi sento nuova— ribatte lei— come la terra appena rinata» . Più tardi i loro tre figli inserirono schizzi e disegni tra le pagine, trasformandole in un vero e proprio quadro di famiglia. La lettera scarlatta, rivela la mostra, ebbe origine proprio da uno di questi diari. «Vorrei scrivere un libro sulla vita di una donna condannata dalla vecchia legge delle colonie a indossare sempre la lettera A trapuntata sul petto, come punizione per aver commesso un adulterio» , scrive Hawthorne, dando per la prima volta forma a quello che era destinato a diventare uno dei romanzi più celebrati della letteratura americana. Lo scrittore della beat generation William Burroughs, un diarista tra i più prolifici, pubblica uno dei suoi «giornali» — «The Retreat Diaries» — nel 1976: la cronaca dettagliata del suo soggiorno di due settimane in una comunità buddista del Vermont. Vent’anni prima, durante un viaggio a Barcellona, Tennessee Williams aveva immortalato l’incontro con un giovane amante: «Un figlio dell’amore» , spiega. «Abbiamo cenato sulla terrazza con le guglie della cattedrale illuminate e il coro della messa che cantava motivi catalani nella piazza sottostante» . All’apice del suo successo letterario, quando La gatta sul tetto che scotta trionfava sulle scene e una nuova produzione di Un tram chiamato desiderio stava per debuttare a Broadway, Williams, sempre più dipendente da droghe e alcool, scrisse freneticamente il suo diario tra New York, Roma, Atene e Istanbul, registrando con maniacale onestà il suo dolore fisico ed emotivo, i suoi frequenti incontri sessuali con uomini e la sua disperazione con frasi quali: «Nulla da dire oggi, tranne che sono ancora vivo» . Lo stesso desiderio di sfogo emerge dai diari dell’allora ventenne Charlotte Brontë che nel 1836, ai tempi in cui insegnava alla Roe Head School, scribacchiava annotazioni autobiografiche su sottili fogli di carta per esprimere il suo bisogno di fuga da una quotidianità fatta di solitudine e tristezza. Alcuni anni dopo, quando insegnava a Bruxelles, l’autrice di Jane Eyre utilizzò un testo di geografia per confidare il proprio stato d’animo: «È una vita abominevole, specialmente perché c’è solo una persona in questo luogo che meriti di essere apprezzata» . Una delle pagine più struggenti appartiene a John Newton, autore dell’inno cristiano Amazing Grace, consumato dal timore di Dio e dall’ansia di rettitudine morale, che nei suoi scritti non menziona mai il suo passato di ex schiavista, nonostante il tacito senso di colpa che li permea. Nel diario scritto nel 1974 durante la tournée con The Band, Bob Dylan combina immagini e poesia. «Galassie che esplodono nel rosso-bianco-blu pulsante nella notte del grande occhio» , annota accanto al disegno della sua stanza d’albergo a Memphis. Meno ermetico Charles Seliger, il pittore scomparso nel 2009 che ci ha lasciato oltre 150 diari dove ha registrato quotidianamente opinioni, pensieri e attività. Il suo mentore è il leggendario Samuel Pepys, il politico scrittore inglese, autore del diario-bestseller in mostra alla Morgan: un’avvincente commistione di idee personali e testimonianze di grandi avvenimenti londinesi, dalla Grande Peste al tragico incendio del 1666.
Corriere della Sera 28.12.10
I senzatetto girano un film sulla Marsiglia che li rifiuta
Clochard trasformati in registi, attori e sceneggiatori
di Lorenzo Cremonesi
Fare un film per imparare a sopportare il quotidiano. È tra le motivazioni più forti che ha spinto la trentina di senza tetto tra le migliaia nelle strade di Marsiglia a trasformarsi in registi, attori, sceneggiatori. Gli hanno dato un titolo inglese Hope City, città della speranza, a sottolineare il carattere multietnico della povertà nella zona urbana più violenta e disperata della Francia. Meno di un’ora di pellicola: cruda, acida, mai moralista, promettono i neo-artisti. L’idea è maturata negli ultimi cinque anni nella Boutique Solidarité legata alla Fondazione Abbé Pierre, il centro di sostegno ai senza tetto nel cuore di Marsiglia. Ci si arriva per fare una doccia calda, lavare i panni, leggere un giornale in santa pace, o semplicemente per trovare compagnia. Qui vengono periodicamente anche una regista, Léa Jamet, assieme ad un attore, Théo Trifard, per animare su base volontaria un gruppo di incontro. È attorno a loro che nel settembre 2009 si decide di appendere un piccolo annuncio sulla bacheca all’ingresso: «E se facessimo un film assieme?» . «La trama è stata redatta durante un corso di scrittura alla Boutique» , notava ieri il corrispondente da Marsiglia per Le Monde. Non è stato facile. Gli aspiranti artisti nei mesi sono cambiati, molti hanno lasciato, altri si sono aggiunti. Ma un nucleo ha tenuto duro sino alla fine. «Facevo lo squatter, scrivere la trama mi ha aiutato a sopportare il quotidiano» , racconta Mickael Rabia, 38 anni di Rennes, nella strada dal 2007. Lui è tra coloro che rivendicano per i clochard il desiderio di «poter parlare ad alta voce di qualsiasi argomento, di arte, libertà, amore» . Da vero appassionato, ogni settimana attendeva con ansia gli incontri del mercoledì per condividere la verve artistica. Aveva preso l’abitudine di tenere block notes e penna sempre in tasca, pronto ad annotare i suoi suggerimenti per una scena, una modifica, nuovi dialoghi, tutti rigorosamente ricavati dalla caducità delle sue giornate ritmate dalle necessità della sopravvivenza. Ci trovi il freddo dell’inverno, le ore seduto nella biblioteca comunale giusto perché è riparata, i passaparola tra poveracci quando si scopre che c’è un palazzo comodo da occupare. Hope City è un luogo dominato da una gerarchia onnipotente dove si fronteggiano due classi sociali: i «nantis» , i ricchi in gergo francese, e i «lambdas» , letteralmente gli uomini qualunque. Pascal Ludman, uno dei quattro senza tetto che hanno lavorato come apprendisti scenografi, è stato l’autore del discorso radicale tenuto da Fox (Volpe, sempre un nome inglese), sindaco xenofobo della città che promette ai suoi concittadini «nantis» di espellere i «lambdas» una volta per tutte. «I pidocchiosi dovranno andarsene, sono loro che spargono l’immondizia attorno ai cassonetti, che si aggirano presso le scuole dei nostri figli» , tuona minaccioso. I costi della produzione sono stati circa un decimo di quanto speravano di raccogliere. L’opera sarà dedicata a Jehemi Boumediene, morto da pochi mesi, mentre stava collaborando alla sceneggiatura. Sembra sia stato vittima di un’embolia polmonare dopo circa 15 anni trascorsi in strada.