martedì 28 dicembre 2010

l’Unità 28.12.10
Un mese decisivo. Con i casi Bondi e Rai «l’esigua maggioranza andrà sotto», dice Ventura
I dati Ipsos vedono i democratici in crescita e la vasta coalizione da Sel a Fini sopra il 50%
«A gennaio governo sotto» Il Pd ci prova e cresce al 25,4%
A gennaio parte la battaglia del Pd in Parlamento dove la maggioranza rischia grosso con le mozioni Bondi e Rai. Intanto Bersani lavora alla direzione del 13 per indicare la rotta ma anche per “unire” il partito.
di Maria Zegarelli


Pier Luigi Bersani lavora alla direzione del 13 gennaio per mettere a punto «una cura all’altezza della diagnosi» effettuata sul «paziente» Paese che la pazienza la sta perdendo mentre a curarlo ancora oggi c’è un medico «inadeguato», arrivato al capolinea di una carriera fallimentare. Ma per far fuori il «primario» il Pd deve lavorare su più fronti. Il gennaio caldo dei democratici si giocherà in Parlamento, soprattutto alla Camera dove la maggioranza è talmente risicata da rischiare il tonfo praticamente ad ogni voto, e nel partito stesso, per mettere a punto una piattaforma programmatica in grado di guidare il Paese «oltre il berlusconismo» e di creare una larga convergenza con le altre forze di opposizione. Nel cassetto del segretario l’ultimo sondaggio riservato Ipsos registra un Pd in risalita al 25,4% e un oltre 50% la somma dei partiti di opposizione, da Sel al Terzo Polo. «È la dimostrazione che se riuscissimo a realizzare un’alleanza costituente
puntando su pochi ma qualificanti punti, dalle riforme istituzionali, a quelle economico-sociali, alla riforma del fisco alla legge elettorale, potremmo davvero aprire una nuova fase per il Paese e un nuovo decennio», raccontano nel quartier generale del Pd.
LA ROAD MAP DEL PD
Prima ancora della direzione ci sarà la sentenza della Consulta che dovrà pronunciarsi, l’11, sul legittimo impedimento da cui dipende il futuro del premier e il dibattito politico dei giorni successivi. Tema che sarà inevitabilmente al centro del dibattito nel parlamentino Pd, nel corso del quale Bersani cercherà di ricucire gli “strappi” interni. Tanti i malumori, dai rottamatori di Firenze, a Veltroni, Fioroni e ieri anche i prodiani e stavolta non è escluso che la direzione si concluda con un voto finale sulla linea. Poi, Bersani partirà per il «viaggio in Italia» prima tappa il nord-est tra gli studenti, le piccole e medie imprese, le categorie economiche e sociali dal Nord al Sud. Il 22 gennaio a Torino c’è il Lingotto 2 di Modem, da dove Veltroni lancerà le cinque proposte per rilanciare il Pd e la vocazione maggioritaria e dove non è esclusa la stessa presenza del segretario. La settimana successiva, il 28 e il 29 a Napoli si riunirà l’Assemblea nazionale nella quale mettere a punto un piano programmatico definitivo sulla base del quale aprire le consultazioni con le altre forze di opposizione. «Presenteremo il nostro programma per far ripartire il Paese con proposte concrete e che vorrà starci si unirà a noi», ha spiegato il segretario ai suoi.
LA BATTAGLIA IN PARLAMENTO
Altra battaglia quella in Parlamento. Silvio Berlusconi in questi giorni ha dato mandato di riaprire la campagna acquisti per i deputati, si dice sicuro di averne già in tasca dieci ma c’è anche chi è molto meno ottimista di lui nello stesso Pdl. E quindi il gruppo Pd si prepara alla guerra. Primo appuntamento la conferenza dei capigruppo per la calendarizzazione dei lavori, due i temi che scottano per la maggioranza: la mozione di sfiducia al ministro Sandro Bondi e quella di Fli sul Tg1. In queste ore sempre più insistenti le voci che danno Bondi dimissionario, furibondo con Tremonti per il mancato reintegro per il Fondo per lo Spettacolo, ma preoccupato per l’alto rischio sfiducia.
Delicatissimo il passaggio della mozione di Fli, se non ci saranno passi indietro da parte del partito del presidente della Camera che, dopo il 14 dicembre, non si è speso più di tanto per la calendarizzazione. Il vicepresidente dei deputati Pd, Michele Ventura, è discretamente ottimista: «La maggioranza ha un problema politico serio e stando così le cose mi sembra difficile che riescano a convincere tutti i deputati che gli servono a fare il salto della quaglia. Di fatto per la maggioranza e il governo sarà impossibile affrontare le riforme importanti per il Paese». Terza insidia: il decreto milleproroghe che dovrà passare le forche caudine della Commissione bicamerale e della Bilancio (dove c’è sostanziale parità tra maggioranza e opposizione) per poi approdare in Aula.

l’Unità 28.12.10
Ma la tenuta del Pd garantisce la democrazia al Paese
Alfredo D’Attorre, dirigente del Pd, risponde a Piccolo e Cacciari «e alle loro irridenti considerazioni su un partito che fra le ovvie difficoltà rappresenta un quarto dell’elettorato»
di Alfredo D’Attorre


Le irridenti considerazioni di Francesco Piccolo e di Massimo Cacciari sul ruolo del PD, pubblicate su l’Unità di ieri, sono interessanti non certo per l’originalità del contributo di analisi (in sostanza, la ripetizione della tesi per la quale l’opposizione non ha alcun merito delle difficoltà di Berlusconi e infatti non guadagna voti), né per l’indicazione di una qualche strategia politica alternativa (della quale naturalmente non c’è traccia in nessuno dei due articoli, a meno che non si voglia considerare sufficiente al riguardo l’accenno di Cacciari alla necessità di verificare la disponibilità di Montezemolo?).
L’interesse degli articoli risiede piuttosto nell’atteggiamento che essi rivelano di una certa parte del ceto intellettuale e giornalistico italiano di fronte all’attuale fase stori-
ca del nostro Paese. Il tratto fondamentale di questo atteggiamento è la radicale dissociazione e contraddittorietà tra l’analisi della natura del berlusconismo e della sua incidenza sul tessuto sociale e democratico e la valutazione del ruolo dell’opposizione.
Da un lato, si riconosce che siamo di fronte non a una ordinaria crisi di governo in un rodato regime bipolare di alternanza, ma a «una crisi senza precedenti della democrazia rappresentativa» (parole di Cacciari), dall’altro ci si stupisce perché in questo quadro i consensi non si spostano fisiologicamente dal governo all’opposizione.
Da un lato, si lamenta la torsione in senso populista e plebiscitario impressa dal berlusconismo al sistema politico e partitico italiano, dall’altro ci si scandalizza di fronte alla complessità del confronto interno del PD, l’unica forza politica italiana che non si identifica con il nome del suo leader e che mantiene in vita vere (e quindi inevitabilmente rischiose) procedure democratiche aperte agli iscritti e agli elettori.
Da un lato, si sottolinea l’assoluta anomalia rappresentata dalla concentrazione di risorse economiche e mediatiche nelle mani del capo del governo, dall’altro si trova inspiegabile che la voce dell’opposizione non emerga con sufficiente forza.
Da un lato, si sostiene che l’opposizione dovrebbe smettere di guardarsi l’ombelico e consentire all’Italia di liberarsi di Berlusconi, dall’altro si irride il tentativo del PD di mettere al centro le priorità del Paese e di chiamare su questo tutte le opposizioni a una comune assunzione di responsabilità.
In realtà, ciò che mantiene aperta una prospettiva democratica nel nostro Paese è proprio la tenuta del PD, che, pur con tutti i suoi difetti, continua a rappresentare più un quarto dell’elettorato, rimane il soggetto meno condizionabile da poteri esterni e più in grado di difendere un’idea di autonomia della politica, e resta l’unico perno su cui si può costruire un progetto di collaborazione tra le forze che intendono portare l’Italia oltre il berlusconismo.
* Responsabile coordinamento iniziativa politica PD

Repubblica 28.12.10
Bersani tentato dal Lingotto-bis di Veltroni
"Vado, mi piace la sfida dei programmi". E i prodiani accusano: Pd senza più bandolo
Sarà un test di unità con l´area dell´ex segretario. Nel nuovo anno tour in dieci città
di Goffredo De Marchis


ROMA Per costruire una piattaforma e un´identità chiara, per chiedere a un arco di forze molto ampio di unirsi al Pd e «andare insieme oltre Berlusconi», Pier Luigi Bersani deve soprattutto avere un partito unito alle spalle. Questa premessa sta spingendo il segretario a una mossa a sorpresa: andare al Lingotto il 22 gennaio per partecipare al primo appuntamento di Movimento democratico, l´area che fa capo a Walter Veltroni e che è la più critica rispetto alla linea di Bersani. Accusato dall´ex segretario, negli ultimi giorni, di «tatticismo», preso di mira da Paolo Gentiloni «per posizioni indifendibili», incalzato da Beppe Fioroni per la sua deriva troppo orientata a sinistra. Non sarà una passeggiata. Sarà semmai un banco di prova fondamentale perché molte parole d´ordine veltroniane sono diametralmente opposte a quelle di Bersani. Sarà anche un test per misurare la tenuta del Partito democratico su un tema fondamentale che proprio a Torino, città della Fiat, trova il suo luogo di elezione: le relazioni industriali e sindacali.
Bersani, il dirigente «non permaloso» come si definisce, accetta dunque la sfida dei programmi. Mentre il gruppo dirigente prepara il suo in vista dell´assemblea nazionale del 28-29 gennaio, il leader andrà ad ascoltare la piattaforma "parallela" di Modem che si propone di mostrare il vero lato innovativo di un nuovo centrosinistra e di un nuovo Pd. Veltroni pensa sia giusto invitare il segretario. Il segretario è decisamente orientato ad accettare l´ospitalità. Bersani ieri è tornato a puntare il dito contro Berlusconi, sottolineando la fragilità della sua vittoria. «Il premier può solo sopravvivere avvitato su se stesso. Se con un´ampia maggioranza ha chiesto 38 voti di fiducia, non so come potrà superare altri ostacoli con soli 3 voti più delle opposizioni». Ma adesso è concentrato sul profilo del suo partito. Dopo gennaio comincerà un tour di dieci città italiane non per galvanizzare le truppe democratiche ma per parlare a diverse categorie sociali. Prima tappa: una città del Nord est (Padova quasi sicuramente) per presentare la riforma fiscale del Pd.
Agli appuntamenti in giro per il Paese il segretario si presenterà con il programma del Pd preparato a gennaio. Durante il giro, nelle soste a Roma, incontrerà tutti i leader delle forze di opposizione, quelle in Parlamento e quelle fuori. Quindi, Vendola, Di Pietro, Casini, Rutelli, Fini. Dal Terzo polo alla sinistra più radicale, nell´impresa di mettere al centro di questo vasto schieramento il Pd e un´alleanza per affrontare le possibili elezioni anticipate oppure la traversata nel deserto di un governo che prosegue la legislatura.
Per portare il Pd unito al confronto, il segretario dovrà superare anche lo scoglio della direzione del 13 gennaio. E una mina l´hanno già piazzata i prodiani. Con una dura lettera al Corriere Arturo Parisi, Barbi, Santagata, La Forgia, Recchia, Soliani e Papini, dirigenti da sempre vicinissimi a Romano Prodi, parlano di un Pd «che ha smarrito il bandolo della matassa, che manca di rispetto a tutte le regole formali di un partito». I prodiani decidono allora di non protestare oltre. «Prendiamo atto, anche noi avremo mani libere e concorreremo alla vita del Pd decidendo caso per caso». È una forma di scissione strisciante, un atto di accusa che viene dal mondo prodiano un tempo simpatizzante della segreteria Bersani. È il segno di malessere che insieme a tanti altri non può essere trascurato.

Corriere della Sera 28.12.10
Nel Pd si è già rotta la tregua interna
Bersani spiazzato dal no del terzo polo. E Veltroni prepara il nuovo «correntone»
di  Maria Teresa Meli


ROMA — Mai pausa festiva è stata accolta con maggior piacere, nel Partito democratico, come quella di questi giorni. Il Pd infatti sta facendo una certa fatica a mettere a punto la sua strategia. Prova ne è la decisione di rinviare a gennaio la Direzione che si sarebbe dovuta tenere il 23 dicembre. Sono due i motivi che hanno indotto — e inducono — Pier Luigi Bersani a temporeggiare. Il segretario, anche ascoltando i consigli di D’Alema, aveva deciso di impostare una nuova politica delle alleanze guardando al terzo polo (altrimenti «con un’alleanza con Vendola e Di Pietro non andiamo da nessuna parte» , era stata nei giorni scorsi l’esortazione del presidente del Copasir). Ma adesso che sia Fini che Casini sembrano voltare le spalle al Pd e tentare la strada del confronto con la maggioranza, anche solo tatticamente, il segretario deve ricalibrare la linea. Questo è il primo motivo, non il più importante, però. La ragione da cui dipende l’apparente paralisi dell’azione del Partito democratico sta nella rottura della tregua interna. Prima del voto di sfiducia di metà dicembre Bersani era riuscito a convincere tutte le anime del partito a osservare una sorta di armistizio. E anche dopo, in un colloquio a tu per tu con Walter Veltroni, il leader aveva chiesto e ottenuto rassicurazioni in questo senso. Del resto, proprio a questo scopo, Bersani aveva anticipato all’ex segretario la sua svolta aperturista nei confronti del terzo polo. Ma con il volgere di qualche giorno la minoranza del Pd ha capito di non poter resta ingabbiata in questa tregua e Veltroni non ha più fatto mistero delle sue perplessità riguardo alla strategia impostata dal gruppo dirigente del partito. «Non si può inseguire Casini e non possiamo neanche rinunciare alle primarie» , è stata l’obiezione dell’ex segretario. Obiezione che ha fatto infuriare Bersani, convinto di essersi assicurato la pax interna. Una volta capito che così non è, il leader ha anche compreso che sarebbe pericoloso aprire ora un dibattito dentro il partito che rischierebbe di essere lacerante, tanto più che il terzo polo invece di fargli da sponda gioca una partita per conto suo. Le critiche alla linea del segretario troverebbero un terreno fertile in queste condizioni. Meglio, molto meglio rimandare il chiarimento interno. Anche perché alle obiezioni della minoranza veltroniana si sono ora aggiunte quelle di Arturo Parisi e degli altri parlamentari ulivisti della prima ora a lui vicini, che, come hanno scritto ieri sul Corriere della Sera, non considerano più scontato il loro appoggio alle decisioni prese da questo gruppo dirigente, né la loro partecipazione alle riunioni della Direzione. La situazione, dunque, è tutt’altro che facile, come dimostra il fatto che siano tornate a circolare voci di una possibile scissione. L’ala veltroniana più insofferente (quella, tanto per fare dei nomi, rappresentata da personaggi come Paolo Gentiloni e Roberto Giachetti) ormai non esclude più nulla, anche se ufficialmente nessuno pronuncia la parola scissione. Del disagio degli ex popolari si sa (anche se il loro leader Beppe Fioroni esclude che alcuni dei suoi parlamentari possano convolare a nozze con Casini e soci), e pure questo è un dato di cui Bersani non può non tenere conto: il segretario sa che non può più consentirsi nessun errore e che deve studiare bene quali carte giocarsi. Diventa quindi inevitabile attendere un certo lasso di tempo prima di affrontare di nuovo il problema di quale strategia debba avere il Pd. Il che non significa però che a gennaio sarà possibile sottoscrivere un’altra tregua interna. Anzi. A metà del mese prossimo è previsto il Lingotto due di Veltroni. E sarà quella l’occasione in cui l’ex segretario formalizzerà di fatto la sua decisione di assumere la leadership di un nuovo «Correntone» : una vasta area di minoranza che avanzerà le sue proposte senza fare nessuno sconto alla segreteria.

l’Unità 28.12.10
L’analisi
La nuova strategia della tensione
Esclusa una riedizione della politica stragista vissuta in Italia fra il 1969 ed il 1974, ecco una nuova stagione di conflitto che nasce dalla volontà di far tacere l’opposizione sociale
di Aldo Giannuli


Nel 1966, a seguito della decisione francese di uscire dalla Nato, la Cia mise a punto il Piano Chaos, per evitare che quell’esempio potesse essere imitato. Il Piano tendeva a «destabilizzare per stabilizzare» e cioè destabilizzare i singoli Paesi appartenenti all’Alleanza per rafforzare la loro dipendenza da essa. Insomma destabilizzare i Pae-
si europei per stabilizzare l’egemonia americana su essi.
Come è noto, l’attuazione di questo piano fu il motore primo della “strategia della tensione” promossa da una frazione dei gruppi dirigenti occidentali contro l’altra che perseguiva la “politica della distensione”. L’attuazione tattica del piano prevedeva attentati e delitti politici di vario tipo, per provocare una reazione d’ordine nell’opinione pubblica, che favorisse l’instaurazione di regimi autoritari fedeli alla Nato. Spesso (come nel caso del giornalista Leslie Finer che usò il termine per primo sull’Observer del 7 dicembre 1969) si è identificata questa espressione solo con la sua proiezione tattica, dimenticando che quella della tensione era, appunto, una strategia, un fine e non solo un modo di agire.
Spesso mi viene chiesto se ritengo possibile oggi una riedizione della strategia della tensione. Se si intende per essa la ripetizione della politica stragista che abbiamo vissuto in Italia fra il 1969 ed il 1974, non credo che questo sia particolarmente probabile. Viceversa è ragionevolissimo pensare che, mutatis mutandis, potremmo assistere a qualcosa di simile. Ma occorre tener conto del prevalere attuale delle dinamiche internazionali su quelle interne, insieme al carattere multipolare del mondo globalizzato che favorisce i fenomeni di guerra coperta e indiretta. E, inoltre, della forte interdipendenza fra livello economico, politico e sociale che trova il suo sbocco naturale nelle teorie della guerra asimmetrica, che insegna anche un uso calibrato e differenziato delle forme di lotta. In questo quadro, alcune di esse tendono a scaricarsi sul web che ormai è il “sistema nervoso” del mondo. Alla luce di queste considerazioni leggiamo quello che sta accadendo: c’è una crisi economica irrisolta che sta sfociando nel conflitto valutario più grave mai accaduto, nel quale si inseriscono tanto la speculazione finanziaria sul cambio quanto le manovre dei singoli stati per piegare gli altri alla propria volontà. In questo clima internazionale deteriorato come mai dal 1991, i governi si trovano fra il martello delle pressioni internazionali e l’incudine dell’incombente protesta sociale, ugualmente attivata dalla crisi. Una situazione nella quale alcuni possono essere tentati dalla carta dell’emergenza per colpire sul nascere l’opposizione sociale, criminalizzandola. In Italia, a differenza del 1969, la protesta non è ancora pienamente esplosa, ma già si manifesta il “fuoco di interdizione” preventivo.
Altri, però, possono pensare allo stesso sistema per destabilizzare e colpire concorrenti ed avversari.
Messa in questi termini, sì, forse stiamo assistendo ad una nuova edizione della strategia della tensione.

l’Unità 28.12.10
Quest’Italia sempre più Gomorra
Quattro libri indagano come oggi le mafie prosperino in «convergenza obiettiva» con la politica della destra
di Nicola Tranfaglia


La domanda centrale che si pongono oggi tanti italiani di fronte alla «convergenza» obiettiva, che si sta realizzando ormai tra mafia e politica di destra nell’Italia contemporanea, è sicuramente: perché la mafia cresce ancora? Questa è anche la mia preoccupazione da molto tempo. Qualcuno ricorderà che nel 1991, qualche mese prima delle stragi che uccisero tra maggio e luglio 1992 Falcone e Borsellino e le loro scorte, scrissi un libretto pubblicato da Vito Laterza e intitolato La mafia come metodo.
Ora, nell’Italia berlusconiana, mi piacerebbe scrivere un piccolo saggio intitolato più o meno: 150 anni di Italia unita ma la mafia c’è sempre, anzi cresce ancora. Sono sicuro che nessun editore (tra i grandi o i medi editori), vorrebbe pubblicare il mio libro. Questo è inevitabile, purtroppo, in un Paese in cui ormai, da quasi tre anni, si stanno uccidendo con appositi provvedimenti politici e legislativi la scuola, l’università e la ricerca scientifica.
Un esempio recentissimo di questa mia preoccupazione? Proprio oggi, in Calabria, sono state arrestate dodici persone per associazone mafiosa e corruzione elettorale aggravato. Sono stati fermati un consigliere regionale del Pdl e quattro candidati dello stesso partito a un’elezione comunale nella stessa regione. E potrei citare centinaia di altre notizie giornalistiche arrivate negli ultimi mesi. Ma il problema della lotta alle mafie, diceva Giovanni Falcone, non è soltanto quello della repressione di polizia e dei giudici (pur necessaria) ma ci vuole una forte educazione civile che spetta allo Stato democratico (che in questo periodo, mi pare, si occupi di altro).
Ora tra i tanti libri che si continuano a pubblicare sulle mafie vorrei segnalarne almeno quattro, che sono arrivati sul mio tavolo di lavoro nelle ultime settimane: anzitutto quello di Nando Dalla Chiesa che non a caso si intitola Convergenza Mafia e politica nella seconda repubblica ( Melampo), Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo ( Aliberti) e Nel labirinto degli dei di Antonio Ingroia Il Saggiatore, Potere criminale intervista di Salvatore Lupo (Laterza).
Che cosa emerge da questi libri che sono opera di magistrati e studiosi che da molto tempo si occupano, in maniera quasi esclusiva, del enomeno mafioso? Mi pare di poter dire che una serie di elementi offerti all’attenzione degli italiani sono confermati dal lavoro scientifico e culturale in corso come da testimonianze di particolare rilievo di magistrati e di politologi. Cercherò di mettere in fila gli elementi che mi sembrano di maggior interesse storico e attuale nello stesso tempo.
Il primo riguarda sicuramente i rapporti passati e presenti delle classi dirigenti e del ceto politico di governo con le associazioni mafiose. Salvatore Lupo, ad esempio, che da storico studia da alcuni decenni il fenomeno mafioso, afferma, nella sua intervista a Gaetano Savatteri, che in Italia «i poteri palesi lasciano ai poteri occulti uno spazio vergognosamente grande. Le mafie (e i servizi segreti, per intenderci) usano questo spazio per mettere in piedi un gioco di segnali, pressioni, intimidazioni e ricatti che essenzialmente appartiene al loro mondo». A sua volta, Nando Dalla Chiesa che è stato in passato parlamentare e membro della commissione Antimafia, sottolinea la convergenza oggettiva che si è creata di nuovo tra alcuni politici (o addirittura forze politiche?) e le associazioni mafiose. E a pagina 82 del suo bel libro sugli ultimi vent’anni in Italia scrive testualmente: «La strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) non conclude la Svolta, che termina quasi due anni dopo, con le elezioni vinte da Silvio Berlusconi nel marzo 1994. Però il 19 luglio 1992 appare sempre più essere, verosimilmente, il luogo di incrocio profondo tra la Svolta e la trattativa tra Stato e mafia, tra politica e mafia. Il punto a partire dal quale Svolta e trattativa si intrecciano, procedendo insieme, e influenzandosi a vicenda. Fino a pesare insieme come un nuovo peccato originale, dopo quello del ’43, sulla natura della Seconda Repubblica».
Ma la storia non finisce qui perché, a leggere il libro di Ingroia e quello di Bongiovanni e Baldo, si fanno inquietanti deduzioni. Antonio Ingroia, che pure non esce dal suo riserbo investigativo, sottolinea dati importanti oggi sottoposti ad indagini giudiziarie come la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, i dubbi sul luogo in cui venne premuto il telecomando della bomba che fece saltare in aria il giudice e la sua scorta, i retroscena della falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino, i numerosi e ormai accertati depistaggi istituzionali su quella terribile strage.

il Riformista 28.12.10
C’è di peggio alle spalle di Tonino
Antonio Di Pietro ha infine incontrato la prima vera opposizione nel suo partito personale, l’Italia dei valori. Un’organizzazione cesarista al cospetto della quale persino il Pdl appare una formidabile macchina di pluralismo...
di Stefano Cappellini

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/320024/

l’Unità 28.12.10
Il segretario Pd : la politica si pronunci sul modello di relazioni sindacali che si delinea
Le tute blu Cgil domani decidono iniziative di lotta. Oggi l’incontro per il contratto di Pomigliano
Fiat, Bersani chiama il Parlamento La Fiom vuole lo sciopero generale
Sulla Fiat Bersani chiede l’intervento di governo e Camere: «Non è possibile che una palla di neve diventi una valanga per il sistema senza che nessuno ne parli». Oggi incontro per Pomigliano.
di Laura Matteucci


L’accelerazione di fine anno sulla Fiat che verrà, su cui Marchionne ha voluto spingere con l’accordo di giovedì scorso per Mirafiori, è ai massimi. Azienda e sindacati (eccetto la Fiom Cgil, che non ha firmato l’intesa del 15 giugno) si riuniscono oggi a Roma per mettere a punto il contratto della newco di Pomigliano, che interessa 4600 lavoratori: si discuterà di salario, orari, scatti di anzianità e diritti sindacali, con i firmatari che annunciano un contratto migliore di quello nazionale dei metalmeccanici e che «non rappresenterà alcuno sfregio» ai diritti. «Un contratto dice Bruno Vitali della Fim che dovrà poi rientrare dentro Confindustria e rappresentare un salario più alto per tutti i lavoratori». Il testo sarà chiuso in settimana, anche perchè da gennaio dovrebbero partire le assunzioni. E domani, invece, si riunisce in via straordinaria il comitato centrale del sindacato escluso, la Fiom, proprio per discutere le iniziative da assumere dopo l’intesa per Mirafiori. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani, intanto, chiama in causa governo e Parlamento, perchè si pronuncino sul modello di relazioni sindacali che si vanno delineando. «Gli investimenti e l’utilizzazione piena degli impianti sono prioritari dice Bersani Però qui c’è una terza cosa, che riguarda un effetto di sistema, cioè il sistema delle relazioni sindacali e della partecipazione dei lavoratori. Non è possibile che una palla di neve divenga una valanga per tutto il nostro sistema senza che nessuno ne parli». L’iniziativa della Fiat «se porterà a sollecitare continua Bersani una riforma dei meccanismi di partecipazione e rappresentanza del lavoro, avrà un esito buono. Se invece porterà ad una disarticolazione dei rapporti sociali sarà molto negativa».
FORZA E RASSEGNAZIONE
Susanna Camusso, segretaria della Cgil, è uscita con parole molto nette contro tutti: Marchionne è definito «antidemocratico e autoritario», Cisl e Uil sindacati aziendalisti, soprattutto per aver firmato un’intesa che esclude il terzo sindacato confederale, la Fiom «non può non aver commesso degli errori», e Confindustria non può restare immobile se vuole evitare la disarticolazione del sistema di relazioni industriali e rischiare l’esplosione del conflitto sociale. Domani, si diceva, il comitato della Fiom: la decisione di mobilitare l’intero gruppo Fiat viene data per scontata, mentre Giorgio Cremaschi è tornato ieri a chiedere alla Cgil quello che tutto il sindacato dei metalmeccanici ha già chiesto da tempo, lo sciopero generale. Un’iniziativa che, però, può venire decisa solo in sede di direttivo, e il prossimo non è stato ancora convocato. Il 10 gennaio, intanto, si riunisce la segreteria, mentre l’11 e il 12 si terrà l’assemblea nazionale delle Camere del Lavoro: saranno anche le sedi per delineare un percorso di mobilitazione (non solo su Fiat, ma per l’intero mondo del lavoro), a partire dalle marce per il lavoro che Camusso ha già lanciato.
Il 2011 per i lavoratori della Fiat si annuncia durissimo, «ma noi continueremo a mobilitarci in tutte le sedi opportune», avverte Giorgio Airaudo, responsabile auto per la Fiom. «L’accordo per Mirafiori (dove ripartirà la cassa integrazione per un anno da febbraio, ndr) è costruito perchè non si possa più contrattare sul lavoro spiega E questo muta radicalmente le relazioni esistenti. È permeato di antisindacalità e, tra turni massacranti e pause ridotte, non tutela la salute dei lavoratori. Fim e Uilm hanno sbagliato: i sindacati nascono per dare forza a chi è debole, non per dirgli “rassegnati, non c’è altro da fare”».

l’Unità 28.12.10
Le nuove regole: non si eleggono rappresentanti e non si sciopera
Ecco alcuni dei punti più controversi dell’accordo per Mirafiori che la Fiom Cgil non ha firmato


ORARIO DI LAVORO Possibili 4 orari a partire dal 2012, quando nascerà la joint-venture tra Fiat e Chrysler: oltre all’attuale, 8 ore al giorno per 5 giorni (5 per 2), verrà introdotto il turno di notte sia su 5 giorni (5 per 3)siasu6giorni(6per3,doveil sesto giorno è il sabato). Verrà valutata anche «la sperimentazione» per almeno 1 anno di turni di 10 ore per 6 giorni la settimana. Si lavora 10 ore per 4 giorni, poi si riposa per i successivi 3. L’azienda potrà ordinare fino a 120 ore l’anno di straordinari (oggi il massimo è 40), e contrattare altre 80 ore per ognuno.
MENSA E PAUSE La pausa mensa di mezz’ora è rimasta a metà turno (e non a fine turno, come richiesto dall’azienda), ma solo fino alla nascita della società con Chrysler. Dal 4 aprile la durata complessiva delle tre pause verrà ridotta di 10 minuti, da 40 a 30. I 10 minuti verranno monetizzati in 45 euro lordi al mese.
MALATTIA L’intesa mette in collegamento malattia e assenteismo. Quando il tasso supera una certa soglia (il 6% a luglio 2011, il 4% a gennaio 2012 e così via) il primo giorno di malattia, se capita immediatamente prima del giorno di riposo o di un periodo di ferie, non verrà pagato. Escluse le patologie più gravi.
SCIOPERI Il contratto non prevede l’elezione dei delegati. I sindacati firmatari possono nominare i loro rappresentanti, la Fiom no. I sindacati che sciopereranno contro l’accordo verranno puniti (in relazione a permessi e contributi), i lavoratori che lo faranno potranno essere licenziati. Ognuno dovrà sottoscrivere il contratto quando nascerà la joint-venture.

Corriere della Sera 28.12.10
Fiom incalza Cgil: ora sciopero generale
Cremaschi: a Mirafiori accordo da fascismo. E a Pomigliano si prepara il nuovo contratto
di Enr. Ma.


ROMA — Fiat e sindacati (tranne la Fiom-Cgil) vanno avanti spediti per far decollare Fabbrica Italia, il progetto di Sergio Marchionne per raddoppiare la produzione di automobili negli stabilimenti italiani nell’ambito del progetto di rilancio del gruppo Fiat-Chrysler. Oggi l’azienda e i sindacati Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic e Ugl si incontrano per mettere a punto il contratto di lavoro col quale verranno riassunti, a cominciare da gennaio, i lavoratori di Pomigliano (circa 4.600 al momento). Tra oggi e domani, quando l’intesa potrebbe essere raggiunta, si tratta di dar corso al primo accordo del piano Fabbrica Italia, firmato qualche mese fa, riguardante appunto lo stabilimento Giambattista Vico. Anche qui, come per Mirafiori, dove Fiat e sindacati (tranne la Fiom) hanno raggiunto l’intesa il 23 dicembre, i lavoratori saranno riassunti da una newco che per il momento non aderirà a Confindustria e non applicherà il contratto nazionale dei metalmeccanici, ma quello aziendale che verrà definito. Che conterrà anche regole sulla rappresentanza che impediranno alla Fiom, non firmataria del contratto, di avere rappresentanti in fabbrica. A questa mossa la Fiom risponderà domani con una riunione straordinaria del comitato centrale. Che dovrà decidere che posizione prendere rispetto al referendum tra i lavoratori sull’accordo di Mirafiori che si terrà a metà gennaio e se proclamare nuovi scioperi. Giorgio Cremaschi che guida l’ala dura, ieri ha fatto riferimento al «2 ottobre 1925» «quando Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi fascisti firmavano a Palazzo Vidoni un accordo che cancellava le elezioni delle commissioni interne. L’accordo di Mirafiori che cancella le elezioni delle rappresentanze aziendali è, da allora, il più grave atto antidemocratico verso il mondo del lavoro» . Il presidente del comitato centrale della Fiom ha poi chiesto di nuovo al leader della Cgil, Susanna Camusso, di proclamare lo sciopero generale. Ma il segretario generale ha già detto di no. La Camusso punta invece a far abbandonare alla Fiom la strada seguita finora, che l’ha portata all’isolamento rispetto agli altri interlocutori senza essere riuscita a offrire ai lavoratori una prospettiva che non sia la protesta. Allo stesso tempo il leader Cgil ha lanciato la proposta alla Confindustria e alle altre confederazioni sindacali di aprire un tavolo su nuove regole di rappresentanza. Finora però un’apertura è venuta solo dal segretario generale Fim, Giuseppe Farina. Per il resto, imperversa la polemica politica. Mentre Camusso ha definito Marchionne «antidemocratico, illiberale e autoritario» il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, lo difende, aggiungendo che l’accordo di Mirafiori «può fare scuola» per rilanciare l’azienda e far crescere i salari (250 euro in più al mese, dicono i sindacati) attraverso l’aumento della produttività. Il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, teme invece «che una palla di neve divenga una valanga per il nostro sistema» portando a «una disarticolazione dei rapporti sociali» . Bersani vuole un dibattito in Parlamento mentre l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, chiede a Cisl e Uil come possano aver firmato un accordo che cancella quello che avevano sottoscritto nel ’ 93 sulla rappresentanza e torna alle regole del 1970. Ma per il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, «è finito il tempo in cui la Cgil dettava legge» .

l’Unità 28.12.10
Unità sindacale. La lezione che viene dal 1960
Vertenze di ieri e di oggi
di Carlo Ghezzi, presidente della Fondazione Di Vittorio


Nel luglio sessanta imponenti agitazioni scuotono il Paese, i morti di Reggio Emilia e della Sicilia, lo sciopero generale della Cgil pongono fine all’avventura del governo Tambroni appoggiato dal Movimento sociale italiano e determinano la fine dell’agonia del centrismo che impediva l’apertura di una fase politica nuova che porta al centro-sinistra ma anche all’avvio della «riscossa operaia».
È a Milano che si compiono in quell’anno scelte sindacali che segnano un cambiamento epocale. La Fiom milanese (la rappresentanza sindacale dei metalmeccanici nella Cgil, ndr), diretta da Giuseppe Sacchi, e la Fim, ove opera Pierre Carniti, danno il via ad una stupefacente stagione di mobilitazioni caratterizzata da convergenze unitarie e da forme di lotta che anticipano quanto accadrà nell’autunno caldo mentre si vedono per la prima volta degli studenti sfilare con i lavoratori.
Il dieci dicembre 1960 Intersind sottoscrive un accordo che recepisce le richieste degli elettromeccanici ma Assolombarda non accetta.
Il suo fronte si sgretola e alcuni industriali cominciano a firmare accordi a livello aziendale.
Il 1960 si conclude con l’immensa manifestazione indetta dalla sola Fiom di centomila elettromeccanici che a Natale si radunano in Piazza Duomo con i propri familiari.
La scelta solleva l’avversione della Cisl e molte critiche sui giornali mentre i lavoratori raccolgono diffuse simpatie culminate con il saluto che il cardinale Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, durante la Messa solenne rivolge a coloro che si battono per il rinnovo contrattuale e per una maggior giustizia sociale.
Da allora si comincia a porre fine alla vecchia parola d’ordine «marciare divisi per colpire uniti» che viene sostituite da «uniti si vince» che favorisce l’unità tra lavoratori di diverse culture e storie e avvia la lunga preparazione dell’autunno caldo con le sue grandi conquiste sindacali, l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, le battaglie per un welfare universale e solidale.
E oggi? In una situazione di una profonda divisione sindacale sulle politiche contrattuali, sul sistema di relazioni industriali, sulla natura e sul ruolo del sindacato, il riproporre quei fatti che contribuirono a riportare il lavoro e la sua dignità nella parte alta dell’agenda politica può stimolarci a riflettere su quali siano i grimaldelli che possono scardinare il preoccupante muro di incomunicabilità eretto tra le organizzazioni sindacali, la pratica degli accordi separati, la mortificazione della democrazia sindacale e della partecipazione dei lavoratori.

l’Unità 28.12.10
«Migranti etiopi ed eritrei torturati nelle gabbie. Ecco l’inferno del Sinai»
Rapporto shock dei medici israeliani che accolgono i sopravvissuti alla traversata nel deserto: le donne stuprate ci chiedono di abortire
di Umberto De Giovannangeli


Un inferno svelato. Da chi è riuscito a fuggirne. Un inferno che lascia segni indelebili nel fisico e nella mente. Un universo di sofferenza analizzato dal gruppo Physicians for Human Rights-Israel (Phr) in un recente rapporto di cui l'Unità ha preso visione nella sua versione più aggiornata. I rifugiati africani che attraversano il deserto del Sinai per cercare di raggiungere Israele rimarca il rapporto sono vittime di torture, abusi e stupri da parte dei trafficanti beduini.
Il rapporto dell'associazione dei medici israeliani si basa su questionari distribuiti fra i pazienti dell’ospedale del Phr-Israel a Tel Aviv.
I profughi, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di due-trecento persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture contusioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o le mani.
Le donne vengono separate dagli uomini e stuprate. Dei 165 aborti richiesti all’ospedale fra gennaio e novembre 2010, la metà erano per gravidanze frutto di stupri.
Nello stesso periodo, 1.303 donne sono state sottoposte a trattamenti ginecologici, la maggior parte dei quali resisi necessari a causa delle violenze subite, durante il lungo viaggio attraverso il deserto africano.
Le difficoltà affrontate nel Sinai hanno anche provocato un aumento del numero di pazienti assistiti presso i servizi riabilitativi della Open Clinic.
Nei primi undici mesi del 2010, 367 persone sono state sottoposte a trattamento ortopedico e 225 a fisioterapia.
Per raccogliere informazioni più precise sul crescente numero di casi di violenza, sequestro, stupro, abusi fisici e sessuali, Phr ha deciso di documentare in modo sistematico le testimonianze dei pazienti che arrivano in Israele attraverso il deserto del Sinai. Intervistando ad oggi 167 persone provenienti da Eritrea ed Etiopia, Sudan, Costa d’Avorio Leone, Somalia, Nigeria, Ghana, Congo e Sierra, tra cui 108 uomini e 59 donne.
I primi risultati come riporta con accuratezza e profondità Nenia news che ringraziamo per il prezioso contributo mostrano che i rifugiati eritrei ed etiopi subiscono le maggiori violenze e quindi ai fini del rapporto redatto, le loro risposte sono state analizzate separatamente. Delle 13 donne che hanno accettato di rispondere alle domande relative a episodi di violenza sessuale (22% del totale), il 38% ha risposto affermativamente. Se si eccettua la parte relativa alle violenze sessuali, la partecipazione alle interviste è stata elevata. I seguenti dati sono stati raccolti attraverso 144 interviste. Il 77% dei rifugiati eritrei ed etiopi hanno raccontato di essere stati vittime di aggressioni fisiche, quali pugni, schiaffi, calci e frustate (rispetto al 63% di pazienti provenienti da altri paesi africani). Il 23% dei pazienti eritrei ed etiopi hanno riferito di aver subito bruciature, marchiature a fuoco, scosse elettriche, e di essere stati appesi per le mani o i piedi. Nessun paziente proveniente dagli altri paesi ha raccontato di aver subito questo genere di torture. Il 94% degli eritrei ed etiopi ha riferito di essere stato privato di cibo e il 74%, privato di acqua. Un fenomeno che si verifica anche tra gli altri rifugiati africani.
Due settimane fa, Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, ha realizzato un approfondito reportage intitolato Desert Hell (Inferno Deserto) in cui Phr, denuncia le torture e gli abusi, ormai istituzionalizzati, subiti dai rifugiati (specialmente da quelli provenienti da Etiopia ed Eritrea), nel Sinai, durante l’estenuante viaggio verso Israele . Secondo numerosi resoconti, gruppi di circa 200-300 eritrei sono portati nel Sinai, dove sono detenuti in container o aree recintate. I prigionieri sono sottoposti a tortura mediante percosse o bruciature, mentre i contrabbandieri chiamano i loro parenti chiedendo l’immediato trasferimento di denaro in cambio della garanzia per il rilascio e per il transito fino al confine con Israele. A causa delle ingenti somme richieste come riscatto, spesso sono necessarie settimane o addirittura mesi affinché i rifugiati possano raggiungere la frontiera. E’ durante questo periodo che le donne sono separate dal gruppo, detenute in ambienti appartati e sottoposte a ripetuti atti sessuali, abusi e stupri per mano dei loro rapitori.
Nei giorni scorsi, a ridosso di Natale, Phr ha raccolto nuove testimonianze che inducono a ritenere che la situazione nel Sinai stia diventando sempre più precaria. Mentre in precedenza alle vittime veniva richiesto di pagare tra i 2.500-3.000 dollari, attualmente la somma chiesta come riscatto è di 9.870 dollari. Secondo quanto è stato riferito a PHR da fonti vicine agli ostaggi attualmente sequestrati nel deserto, circa 220 persone sono attualmente detenute dai contrabbandieri in un ‘campo di tortura’ del Sinai. Al gruppo di 80 individui che sono arrivati un mese fa si sono aggiunti la scorsa settimana 140 profughi diretti verso Israele.
Oltre ai rischi e ai soprusi già menzionati, i profughi diretti in Israele devono anche affrontare le guardie di frontiera egiziane che spesso «sparano per uccidere». Nell’ultimo anno, gruppi di rifugiati hanno affermato che le guardie di frontiera egiziane sono diventati più spietate, ferendo e uccidendo più rifugiati rispetto agli anni passati. A peggiorare ulteriormente le cose vi è la politica definita hot return (ritorno caldo) adottata a volte dall’esercito israeliano e contraria al diritto internazionale; i rifugiati vengono cioè respinti in Egitto per un lasso di tempo che varia da un’ora a cinque giorni dal loro ingresso in Israele. Nonostante i rapporti sulle percosse, le morti, gli stupri e i respingimenti immediati siano ben noti alle autorità israeliane, queste politiche continuano ad essere routine. Ogni rifugiato che entra in Israele è trattenuto in uno dei due centri di detenzione israeliani: ad oggi si tratta di circa 2.000 rifugiati e richiedenti asilo, tra cui donne, bambini piccoli, e minori non accompagnati. Devono aspettare diverse settimane o anche mesi prima di vedere un medico penitenziario e problemi come la riabilitazione e la salute mentale sono del tutto trascurati. Dopo settimane di attesa, mesi e talvolta anni, i richiedenti asilo sono rilasciati con nient’altro che un biglietto dell’autobus per una delle più importanti città di Israele. I profughi respinti da Israele in Egitto vengono poi rimpatriati nella maggior parte dei casi. I profughi catturati dalla polizia egiziana sia nel deserto sia al confine subiscono abusi fisici e sessuali, la detenzione e la deportazione verso i loro Paesi d’origine. Sebbene l’Unhcr e le Ong egiziane siano talvolta in grado di intervenire in favore dei profughi di fronte al rischio del rimpatrio (compresi i casi in cui questo significa la morte certa o la detenzione in Paesi quali Sudan, Eritrea e Somalia), nel corso degli ultimi 3 anni centinaia di rifugiati sono stati rimpatriati dall’Egitto verso i loro Paesi d’origine. Nel giugno 2008, varie fonti hanno riportato una deportazione di massa di centinaia di profughi eritrei ed etiopi verso i loro Paesi d’origine. Molti sono stati uccisi al loro arrivo, altri sono stati imprigionati o sottoposti alla coscrizione militare. «Non tutti sanno rileva Roberto Malini dell’Ong EveryOne che i migranti che non pagano il riscatto finiscono proprio sul mercato degli organi, mentre le giovani donne finiscono in quello della prostituzione. Fonti locali ci riferiscono che oltre ai 250 migranti, ve ne sono attualmente altri 2000 circa, prigionieri in edifici o container sotterranei di città del Sinai, in Egitto e nei Territori. Dietro questo traffico che frutta milioni di euro ogni mese, vi sono le grandi organizzazioni mafiose e terroristiche: la Muslim Brotherhood (legata ad Hamas) e Al Qaeda».

l’Unità 28.12.10
Antisemitismo, il socialismo degli imbecilli
È la definizione di Bebel. Un saggio ricostruisce il clima in cui dalla fine dell’Ottocento maturarono i falsi «protocolli», l’affare Dreyfus e, a seguire, il razzismo fascista e nazista
di Nunzio Dell’Erba


L’antisemitismo, come movimento ostile al popolo ebraico, si perde nelle ombre dei secoli, ma si afferma in un’accezione moderna nel complesso ambiente intellettuale dell’Europa postilluminista. Lungo il XIX secolo la Francia produsse una cospicua letteratura antisemita, ma il termine fu coniato nel 1879 dal giornalista tedesco Wilhelm Marr, che lo introdusse per criticare l’eccessiva presenza della borghesia ebraica nel mondo finanziario dell’Impero guglielmino. Ad esso seguì alcuni anni dopo l’espressione «socialismo degli imbecilli», utilizzata per la prima volta al congresso socialdemocratico di Colonia (1893) da August Bebel, che la usò per confutare l’equazione ebraismo uguale a capitalismo.
Un terreno fertile La critica del socialista tedesco ha fornito lo spunto a Michele Battini per pubblicare un documentato volume – Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. XXX-293) – dove riesamina la letteratura antiebraica quale si ritrova nel pensiero cattolico conservatore e si sviluppa in alcuni spezzoni del socialismo francese.
Negli ultimi lustri del XIX secolo queste voci fecero presa nei settori antidemocratici del movimento socialista, alimentate dai pamphlet di Benoit Malon, Gustave Tridon e Auguste Chirac, il cui antisemitismo s’incrociò con quello del cattolico Edouard Drumont. In una Francia sconvolta dalla crisi economica e dalla critica alla rappresentanza politica, la propaganda antisemita trovò un terreno fertile nell’affare Dreyfus e nella confezione delle false prove contro il capitano ebreo nell’accusa di alto tradimento. Ma si sovrappose alla preistoria francese della fabbricazione dei Protocolli dei savi di Sion, che rappresentano nella storia delle contraffazioni «uno dei falsi più longevi», utilizzati dalla polizia russa per giustificare i pogrom del 1903 con l’esistenza di un presunto complotto ebraico per il dominio del mondo.
Nel 1903 I Protocolli apparvero per la prima volta in forma ridotta sul giornale «Znamja» di Pietroburgo tra il 26 agosto e il 7 settembre 1903 e due anni dopo come testo integrale per iniziativa di Sergej Nilus, una figura a mezza strada tra l’intrigante e il mistico. Ma la pista francese, certamente la più attendibile per ricostruire il famigerato testo, presuppone la definizione dell’antisemitismo come «socialismo degli imbecilli», che per l’autore «va molto più in là» della semplice «contraffazione poliziesca», ponendosi come reazione europea al libero mercato, all’emancipazione giuridica degli ebrei e alla loro acquisizione della moderna cittadinanza.
Tuttavia rimane il fatto che i Protocolli siano un plagio del testo Dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu edito nel 1864 e scritto da Maurice Joly. In questo testo egli deplorò il dispotismo di Napoleone III e la sua mancanza di «senso morale e religioso» per il suo ossessivo ricorso ad «ogni sorta di astuzie, di dissimulazioni e di inganni» per detenere il potere. Il pamphlet dello scrittore francese si caratterizza anche come fonte d’ispirazione per gli autori dei Protocolli, che ripresero il contenuto per mettere in rilievo la dicotomia tra anelito alla libertà e libertinaggio, diseguaglianza sociale e moto di ribellione, promozione del consumismo e blocco dei salari.
«La lupa» Alla loro pubblicazione i Protocolli non suscitarono alcun interesse in Italia, anche se idee antisemite circolavano nei primi lustri del Novecento sulle riviste cattoliche, sindacaliste rivoluzionarie e nazionaliste. Emblematico il caso della rivista «La Lupa» fondata nel 1910 da Paolo Orano, a cui l’autore dedica un interessante profilo, attribuendogli l’ingrato merito di avere inaugurato la campagna antiebraica in Italia e di avere preparato il varo delle leggi razziali.
Interlandi e preziosi Più che ad Orano esso deve essere attribuito a Telesio Interlandi e a Giovanni Preziosi, entrambi fascisti della prima ora e promotori di fogli antisemiti come «Il Tevere» e «La Vita Italiana». Dalla prima (1921) alla seconda edizione (1937) dei Protocolli fu Preziosi ad alimentare l’antisemitismo come uno dei veicoli della progressiva «nazificazione dell’ideologia fascista» e d’una situazione in cui la babele dell’odio portò alla legislazione razziale e alla caduta del regime fascista. Un capitolo che, per l’autore, non si è concluso con la catastrofe degli ebrei e la dimostrazione della falsità dei Protocolli, ma si è protratto fino ai nostri giorni per la loro diffusione in alcune zone calde del pianeta.

Un documentato excursus dell’antigiudaismo
Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Michele Battini pagine 293, euro 12,99 Bollati Boringhieri
Le prime espressioni dell’antisemitismo si avvertono già all’inizio del XIX secolo e devono essere lette nel contesto della rivolta contro l’Illuminismo politico e i diritti di cittadinanza. In questo erudito e documentatissimo libro, Michele Battini ripercorre e, anzi, ricostruisce tutta la tradizione antigiudaica fino all’antisemitismo moderno.

l’Unità 28.12.10
«Mission to Marx»
La sinistra sa ridere (anche) di se stessa?
È nelle librerie il “Dizionario satirico della sinistra” realizzato da Luca Bottura, ex l’Unità e Cuore. Ritratti brillanti e amari di personaggi, fatti partiti e movimenti progressisti e non
di Massimo Filipponi


A Woody Allen una volta chiesero se il sesso fosse una cosa “sporca”. La risposta fu immediata: «Sì, se fatto bene». Per la satira, mutatis mutandis, vale lo stesso discorso. Se fatta bene, la satira non può non essere corrosiva, graffiante e soprattutto per quei personaggi che la subiscono indigesta. Luca Bottura, penna acuta («ah, ah» direbbe lui), ex giornalista de l’Unità e di Cuore, conduttore di Lateral su Radio Capital, titolare della rubrica “Makaroni” sul Corriere della Sera, nonché autore per molti comici (Crozza, Bertolino, Cornacchione) e trasmissioni televisive (Victor Victoria, Cabello su La7), nel suo libro Mission to Marx (Aliberti editore, 398 pagine) non fa sconti a nessuno (euro 19 per tutti. «Ah ah» ridirebbe lui).
Pensare, scrivere e dire battute però non basta quando il progetto è ambizioso. E un dizionario satirico della sinistra (questo il sottotitolo) è compito ai limiti delle possibilità umana. Nel realizzare Mission to Marx Bottura ha coniugato la vivacità del lessico con il puntiglio dell’archivista. Ne è venuto fuori un mix esaltante: il recupero di voci dimenticate (Kgb, Pdup, Psiup, La Rete, Bolscevismo), l’approfondimento originale di quelle abusate (D’Alema, Pd, Prodi, Veltroni) e autentici scoop su alcune impensabili in un dizionario della sinistra (Turigliatto, Lario Veronica e Fare Futuro). Il tutto illustrato da didascalie parte integrante del progetto satirico.
Per evitare l’autoreferenzialità di ciò che Bottura scrive de l’Unità (dopo aver scritto su l’Unità) non trattiamo. Vogliamo anticipare, però, alcune chicche di cui il dizionario è ricco, brillanti definizioni che faranno parlare (forse anche in Tribunale). Una curiosità alla voce Matteo Renzi: «Nel 1993 ha partecipato e vinto a “La ruota della fortuna”. Per dire qualcosa di sinistra gli toccava comperare una vocale». Su Mario Chiesa (non viene riportata la data di nascita in quanto «non ama declinare le generalità»), celebre apripista della saga di Tangentopoli, Bottura rivela «gli fu fatale l’avidità: Chiesa voleva il 10 per cento, mentre la Chiesa si accontenta dell’8 per mille». Si ricorda che Daniele Capezzone (impressionante la somiglianza con Carl Switzer, l’Alfalfa delle Simpatiche canaglie) «è stato deputato della Rosa nel Pugno, dal 2004 al 2007 ha fatto “Markette” con Piero Chiambretti su La7 e dal 2009 è portavoce del Pdl e fa marchette per Berlusconi al Tg1». L’aggiornamento-lampo recita: «Nell’ottobre 2010 è stato raggiunto da un pugno senza rosa». Geniale e urticante. Così come deve essere la satira. Quella fatta bene.

Corriere della Sera 28.12.10
Cultura Il bambino del ghetto. Un’icona sequestrata
L’uso ossessivo ha stravolto il significato della foto
di Paolo Mieli


La foto del bambino ebreo con le braccia alzate, da anni simbolo dell’oppressione nazista sulla Polonia e sull’intera Europa, non fu scattata incidentalmente. Fa parte di un rapporto del generale Jürgen Stroop, capo delle SS e della polizia del distretto di Varsavia, redatto per documentare la repressione dell’insurrezione ebraica nel ghetto della capitale polacca che, tra il 19 aprile e il 16 maggio del 1943, aveva tenuto in scacco i nazisti. Questo rapporto, dal titolo «Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia» , era destinato ai comandanti delle SS Heinrich Himmler e Walter Krüger per dar conto del successo dell’operazione contro i «banditi ebrei» che avevano osato ribellarsi ed era corredato da un album di 53 immagini, tra cui quella del bambino. Era stato lo stesso Krüger a raccomandarsi con Stroop di fotografare ogni cosa: «Si tratta di un materiale prezioso per la storia, per il Führer, per Himmler e per i futuri studiosi del Terzo Reich, come pure per i poeti e gli scrittori, per la formazione delle SS e, soprattutto, per documentare gli sforzi e i pesanti e sanguinosi sacrifici sopportati dalla razza nordica e dalla Germania per disebreizzare l’Europa e l’intero globo terrestre» , gli aveva scritto. Già alla fine del 1945 lo scatto finì nella documentazione d’accusa per il processo di Norimberga contro i criminali nazisti. Ma in quella sede passò inosservato. Di più. Dovette trascorrere molto tempo prima che quella foto balzasse all’attenzione del mondo intero. Per un lungo periodo, oltre un decennio, fu, anzi, assai trascurata. Perché? Prova a rispondere a questa domanda un interessantissimo libro di Frédéric Rousseau, Il bimbo di Varsavia. Storia di una fotografia, che la Laterza si accinge a pubblicare all’inizio del prossimo anno (l’accurata traduzione è di Fabrizio Grillenzoni). Rousseau nota, per cominciare, la didascalia che «in eleganti lettere gotiche» ne dava la lettura di Stroop: «Estratti a forza dai bunker» . Una didascalia ingannevole, osserva l’autore, «perché dà l’idea che i civili rastrellati hanno resistito con la forza, in un modo o nell’altro, alla loro evacuazione» . L’immagine invece «dimostra il contrario: non solo l’uso unilaterale della violenza da parte di soldati contro famiglie disarmate e inoffensive, ma anche il completo controllo della situazione da parte dei militari» . È fin troppo evidente, aggiunge, «che quel piccolo gruppo in cui ci sono almeno quattro bambini non poteva rappresentare una minaccia per i "guerrieri"del generale Stroop» . Quegli abitanti strappati alle loro case «escono dall’edificio con le mani alzate e in fila per due: la loro sottomissione è totale; queste persone non appartengono in nessun modo a un’unità di resistenza armata del ghetto» . Per i nazisti, però, quell’immagine aveva un grande valore. «Attraverso un ribaltamento radicale dei valori occidentali giudaico cristiani» , spiega Rousseau, «questa fotografia sottolinea e intende dimostrare l’eroismo che nasce dalla capacità di agire senza lasciarsi ostacolare dalla propria umanità né dai propri sentimenti contro gli uomini, le donne e i bambini ebrei designati dal regime e dal suo capo come i nemici più temibili del popolo tedesco» . Ma, dicevamo, al processo di Norimberga l’attenzione degli accusatori si ferma su altre istantanee tratte dall’album di Stroop, quelle che illustrano l’estrema violenza della caccia agli ebrei da parte dei nazisti. Rispetto ad altre violenze commesse nel corso della liquidazione del ghetto di Varsavia, ricostruisce l’autore, «questa immagine non costituisce un documento su cui fondare un’accusa di crimine davanti al tribunale... Fa parte di una serie di fotografie che accusano, ma non è ancora la fotografia che accusa» . E così sarà per un lungo tempo. Una serie di «chiavistelli mentali» impedisce alla fotografia del bambino di Varsavia «l’accesso allo statuto di icona» che oggi le viene riconosciuto in tutto il mondo. Dieci anni dopo la fine della guerra quel fotogramma comincia a venir fuori. Compare per quattro secondi nel film di Alain Resnais Notte e nebbia, presentato al festival di Cannes nel 1956. Ma la voce dell’attore Michel Bouquet dice solo che si tratta di persone «rastrellate a Varsavia» . Nessun cenno agli ebrei e al ghetto. Il film, osserva Rousseau, «si colloca perfettamente, da diversi punti di vista, in un’epoca che ancora fatica a misurare le dimensioni e la specificità dello sterminio degli ebrei e che è anche e soprattutto dominata dall’attivismo delle associazioni dei deportati resistenti — a cui aderiscono anche numerosi sopravvissuti ebrei dei campi — che tentano, puntando l’indice sull’universalità del crimine, di contestare la distinzione operata dai criminali sui deportati» . All’indomani della guerra, per anni e anni «lo spazio della memoria è occupato da una lettura universalizzante dell’esperienza concentrazionaria» . Nel novembre del 1961 la foto compare per la seconda volta in un film: Vincitori alla sbarra (Le temps du ghetto) di Frédéric Rossif. Serve per illustrare (parole testuali) «l’ultimo gregge che viene deportato a Treblinka» ; il regista contrappone, anche se con accenti di pietà, gli eroici insorti del ghetto alle vittime passive che si fecero portare inermi al macello. Resistenti da una parte e gregge dall’altra: un tema presente nella pubblicistica israeliana dell’epoca. Con una nota aggiuntiva: i combattenti del ghetto di Varsavia avevano «salvato l’onore» del popolo ebraico. «Senza il loro meraviglioso sacrificio noi moriremmo nella vergogna» , scriveva il poeta Jacob Glastein. Nel libro La distruzione degli ebrei d’Europa (Einaudi) lo storico americano Raul Hilberg metteva il dito sulla piaga: «Il comportamento degli ebrei ai tempi del nazismo è caratterizzato dall’assenza quasi totale di resistenza» . Il giovane scrittore ebreo Jean-François Steiner in Treblinka: la rivolta in un campo di sterminio (Mondadori) descrive la sua gente come «un gregge di bestie che belavano alle porte delle camere a gas mentre andavano al macello» e, per questo, lo storico Léon Poliakov lo accusa di aver resuscitato il vecchio tema antisemita della «codardia ebraica» . Ma Treblinka ottiene il Grand Prix de la Résistance. Così come aveva ottenuto il premio Goncourt L’ultimo dei giusti (Garzanti) di André Schwartz-Bart, dove era già stata proposta l’immagine del «bestiame ebraico portato al macello» . Nel 1959, in Germania (Ovest), viene pubblicato il libro di Bernard Mark L’insurrezione del ghetto di Varsavia. Nascita e sviluppo: ci sono otto foto dell’album Stroop, ma non quella del bambino. E così sarà in svariati libri dell’epoca. Quell’immagine favorisce l’associazione con il concetto di passività ebraica che in quel momento storico «deve» cedere il passo a quella dei resistenti armati del ghetto. Con il beneplacito delle più importanti comunità ebraiche e dello Stato di Israele. «Questa scelta dolorosa, dettata in parte dalla volontà di integrarsi nell’unanimismo resistenziale nazionale e da una sete di normalizzazione dopo un lungo periodo di differenziazione» , sottolinea Rousseau, «è d’altra parte largamente dipendente, per diversi decenni, dal contesto israeliano» . È la costruzione del «mito» che assimila gli insorti di Varsavia ai combattenti sionisti di Palestina. E che porta con sé un tacito rimprovero a quegli ebrei d’Europa che negli anni Venti e Trenta non abbracciarono la causa sionista decidendo di restare in aree che in un breve volgere di tempo si sarebbero trasformate per loro in un inferno. La prima volta che la fotografia del bambino si affaccia in un libro è ne La stella gialla di Gerhard Schoenberner, pubblicato in Germania nel 1960. Schoenberner sceglie quella foto come manifesto per la mostra, sempre in Germania, sempre nel 1960, dal titolo «Il passato ci ammonisce» . Nel ’ 62 la mostra va in Israele. Sempre nel 1960 la rivista «Life» pubblica estratti delle memorie di Adolf Eichmann, che è stato appena rapito in Argentina e portato in Israele dove sarà processato e giustiziato: a illustrare il testo compare la foto del bambino ed è l’unica tratta dall’album di Stroop. L’ipotesi, convincente, di Rousseau è che sia stata proprio la vicenda Eichmann a resuscitare quella immagine: «Sicuramente il processo Eichmann ha fatto saltare una serratura, dando voce a una memoria fino ad allora largamente messa da parte» . Negli anni Sessanta la fotografia fa il suo ingresso nei manuali scolastici; nel 1966 è sulla copertina di un libro sull’insurrezione nel ghetto di Varsavia. In quello stesso 1966 la foto compie un clamoroso salto: Ingmar Bergman chiude il film Persona (sul malessere di due donne, sulla solitudine, su un bimbo non desiderato che la madre non sa amare né proteggere) con l’immagine del bambino del ghetto. Da quel momento il fotogramma assume valenze che vanno molto al di là di quelle riconducibili al momento in cui fu scattato. Negli anni Settanta compare sulla copertina di un volume su storie di bambini israeliti ai tempi della Seconda guerra mondiale; in una serie televisiva inglese, il protagonista la tiene costantemente in tasca come testimonianza del suo senso di colpa per le atrocità commesse dalla generazione che lo ha preceduto. Nel 1972 si verifica un nuovo salto: la foto del bimbo di Varsavia viene associata a quella della bambina nuda, Kim Phuc, che urla di terrore mentre corre in una strada del Sud Vietnam per sfuggire al napalm lanciato dai bombardieri (sudvietnamiti). È ormai un’immagine icona che viene usata per denunciare gli orrori della guerra. Negli anni Ottanta, Yala Korwin scrive una poesia interamente dedicata al bambino del ghetto: «The Little Boy with his Hands Up» . Il cineasta jugoslavo Mirko Panov gira il cortometraggio Con le mani in alto, che trae spunto da quell’immagine. Negli anni Novanta il quotidiano francese «Libération» la pubblica, scontornata, per annunciare una serie televisiva sui crimini nazisti. Il filosofo Alain Finkielkraut, nel commentare positivamente questa iniziativa, denuncia la contrapposizione «tra i resistenti armati e gli altri» e la cancellazione dei secondi a vantaggio dei primi: «Noi commemoriamo questo abbandono» , scrive. È un tema già sollevato nel 1976 dal saggio Surviving, pubblicato dal «New Yorker» , in cui Bruno Bettelheim aveva scritto: «Dire che le vittime delle camere a gas andarono incontro alla loro morte come pecore significa usare in modo scandaloso un cliché che è non solo crudele ma anche completamente falso» . Il lungo viaggio di quell’immagine è ormai inarrestabile. Il pittore americano di origine ebraico lituana Samuel Bak ne fa il centro dei suoi quadri: «Per me» , afferma, «quel bambino rappresenta la crocefissione ebraica» . La foto del bambino, ormai celeberrima, prende il volo allontanandosi sempre più dai fatti luttuosi del maggio ’ 43. All’indomani della strage di Srebrenica (luglio 1995) compare sui manifesti di denuncia dei «campi della morte» serbi. Nel 2000 il fotogramma del bimbo di Varsavia viene associato a quello del piccolo cubano Elián González, tratto in salvo dalla guardia costiera americana da una barca che stava affondando, mentre tentava di fuggire dall’isola di Fidel Castro per raggiungere una parte della sua famiglia in esilio a Miami. Ma nel settembre di quello stesso anno l’uso politico di quella foto comincia a ritorcersi contro il contenuto dell’immagine. Televisioni e giornali di tutto il mondo mostrano il bambino palestinese della striscia di Gaza Mohammed al-Durah che si stringe al padre il quale cerca disperatamente di proteggerlo dal fuoco che in quel momento si pensa provenga da un’arma israeliana (versione che successivamente verrà messa in dubbio anche da osservatori neutrali). La giornalista francese Catherine Nay dice a radio «Europe 1» : «La morte del piccolo Mohammed cancella simbolicamente il bambino del ghetto di Varsavia» . Lo scandalo per questa affermazione (di cui la giornalista si dirà pentita) non impedisce che nei Paesi arabi e su Internet prenda il via una campagna di accostamento tra le due immagini tesa a dimostrare che i soldati israeliani di oggi sono in tutto e per tutto simili agli oppressori nazisti di ieri. Campagna che va a parare in una serie di trasfigurazioni visive ad opera del disegnatore brasiliano Carlos Latuff per una serie di disegni intitolata «Siamo tutti palestinesi» . Con il ritratto di un bimbo molto somigliante a quello polacco che, senza avere alle spalle la figura minacciosa dell’SS, ha anch’egli come didascalia «I am Palestinian!» . Con il che, osserva Rousseau, Latuff «tende a banalizzare l’icona stessa sostituendole un’altra vittima referente» . Nel frattempo a quell’immagine è capitato addirittura di essere usata da Robert Faurisson e dai negazionisti. In che modo? Nel luglio del 1978 il «Jewish Chronicle» di Londra annuncia che l’identità del bambino del ghetto di Varsavia «è stata rivelata da una polacca che vive in Israele» . Si tratterebbe di Arthur Shimyontek Domb. Successivamente lo stesso giornale afferma che un uomo d’affari londinese, che intende mantenere l’anonimato, si è fatto vivo sostenendo di essere lui quel bambino e che la foto era stata scattata nel 1941 anziché nel 1943. Faurisson scrive che «da quel momento» , visto che la persona ritratta è viva, se quella foto dovesse rimanere un simbolo «non potrebbe più essere che il simbolo dell’impostura del genocidio» . Inizia un esame molto attento del fotogramma, che porta alla conclusione che, non fosse altro per il fatto che è finita nell’album di Stroop, non può che essere stata scattata nel 1943. Poi un altro sopravvissuto dei campi nazisti afferma di esser lui quel bambino senza però, per onestà, poterlo giurare. Tsvi Nussbaum, così si chiama l’uomo, sostiene di essere stato fotografato al momento del suo arresto davanti all’hotel Polski di Varsavia, situato fuori dal ghetto, prima della sua deportazione a Bergen Belsen nel luglio del 1943. Ma, a parte il fatto che le persone fotografate portano pesanti vestiti invernali ed è improbabile che questo potesse darsi in piena estate, come è possibile che quel fotogramma fosse finito in un album predisposto due mesi prima per documentare la sconfitta dei resistenti israeliti? D’altra parte, osserva Rousseau, un certo numero di persone visibili nella fotografia hanno al braccio destro il bracciale con la stella di Davide, obbligatorio per tutti gli ebrei del ghetto. È poco probabile che gli ebrei rifugiati e nascosti nella parte ariana della città dopo essere sfuggiti due mesi prima, in maggio, alla distruzione del ghetto stesso, continuassero a portare questo segno che li metteva in pericolo di vita. Ma il punto centrale della questione non è quello relativo all’identità del bimbo. L’attenzione del libro s’incentra sul fatto che quella fotografia poco a poco si è trasformata «in un’icona universale utilizzabile per tutte le buone cause dal momento» , che «esercita un potere sociale di coesione e di comunione» . È un bene? No, risponde Rousseau. Anzi. Tenuto conto di alcune osservazioni di Susan Sontag Sulla fotografia (Einaudi), Rousseau chiede: non si è andati troppo oltre? Con la sua sovraesposizione, quella immagine non ha snaturato in modo eccessivo la nostra memoria? Con i suoi successivi scivolamenti e spostamenti, questa traccia fotografica è ancora una testimonianza? E di cosa? Per essere significanti, le immagini richiedono una contestualizzazione precisa e rigorosa, e soltanto a questa condizione possono rimanere documenti storici. Se la fotografia del bambino di Varsavia ha effettivamente contribuito a spezzare il monopolio della Resistenza, troppo schiacciante e deformante, e se ha contribuito alla «riacquisizione delle vittime della Shoah nella coscienza occidentale» , ha anche partecipato, in una certa misura, alla «cancellazione dello spirito di resistenza nelle memorie» . Ormai è solo il cuore ad essere toccato. Alcuni usi e abusi di quell’immagine forse devono metterci in guardia. La decontestualizzazione in certi casi si è spinta così oltre che la fotografia non racconta più la storia del ghetto di Varsavia. Talvolta non racconta più nemmeno la storia della Shoah. L’avvenimento— una delle più grandi tragedie del nostro tempo— «è stato completamente inghiottito dalla carica emotiva della fotografia» . «Distruggere e moltiplicare sono i due modi di rendere un’immagine invisibile: con il niente e con il troppo» , osserva il teorico dell’immagine Georges Didi-Huberman. Una notazione che fa al caso nostro: l’immagine del bambino di Varsavia è oggi talmente imperiosa che impone a chiunque un arresto del pensiero; «a ogni sua esposizione è d’obbligo e autorizzata soltanto la compassione, una compassione troppo loquace e tuttavia muta, diventata un riflesso privo di riflessione, senza cultura, senza memoria, una sorta di rinuncia a decifrare il mondo in termini politici» . In casi come questo la foto è vittima della sua grande efficacia. Non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico; «sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia; non informa più, è erosa dagli usi distorti; l’immagine si è modificata, consumata: portatrice all’inizio di una verità fondamentale, è diventata supporto di menzogne, al servizio dei peggiori deliri» . Dopo «essere stata verità, l’immagine si è trasformata in menzogna» . Triste conclusione per il lungo viaggio compiuto da una delle più famose fotografie del Novecento.

il Fatto 28.12.10
Le bambine interrotte el Burkina Faso
Ragazzine costrette a prostituirsi per un euro e “consigliate” ai turisti
di Mimmo Lombezzi


Ouagadougou (Burkina Faso). “Le Grotto” non è un bordello per bianchi. Per raggiungerlo bisogna viaggiare più di 40 minuti sugli sterrati di Silmande, uno dei quartieri in espansione di Ouagadougou, che nelle prime ombre del tramonto appare come una terra di nessuno occupata da cantieri, discariche e baracche che vendono birra. “Qui – dice Suleyman, l'uomo che mi accompagna – una minorenne vale 1.000 franchi locali (un euro e mezzo) e ce ne sono di giovanissime addirittura di 12 o 13 anni”.
"Le Grotto", è un maquis , uno dei bar-discoteca che in Burkina Faso funzionano come anticamera delle chambres de passe, le camere dove le ragazze si prostituiscono.
ENTRIAMO in un quadrilatero di muri appena intonacati. Circondano una pista da ballo di mattonelle colorate coperta da un tetto di tolla appoggiato su pali sbilenchi. Sulle pareti una serie di "affreschi" rudimentali, rappresentano delle sirene. C'è uno specchio e una ragazza, che contempla una bellezza, mi saluta in francese. Tutto quello che vedo, dalle pareti alla pista alle sedie di ferro, è contaminato dalla polvere rossa delle strade africane.
Un cameriere-buttafuori mima colpi di karate contro un pilastro. Altri, seduti a un bar, mi osservano ascoltando la radio che annuncia il colpo di Stato in Costa d'Avorio. Ci vivono 4 milioni di burkinabè e quel che accade ad Abidjan qui viene vissuto come una tragedia domestica.
A un tratto la voce dello speaker viene coperta dal rumore delle sedie di ferro che un ragazzo raccoglie intorno a un tavolo. Le prostitute arrivano con l'aria annoiata di chi deve vedere quel posto tutti i giorni. Emergono lentamente dal buio delle baracche che circondano il maquis. Una è incinta, due arrivano allattando quelli che qui chiamano “i figli del lavoro”. Il tavolo si riempie di bottiglie di birra.
Una ragazza in minigonna si siede sulle mie ginocchia, poi afferra una bottiglia e la stappa con i denti. Quasi tutte parlano francese tranne due che sono nigeriane e parlano inglese. “Quanto quadagnano?”, chiedo. “Possono arrivare a 5.000 franchi in un giorno”, dice Suleyman 5.000 franchi locali corrispondono a poco più di 7 euro, ma una ragazza lo corregge immediatamente: “Non è proprio così; possiamo guadagnare 5.000 franchi, ma questo accade solo nel weekend e, comunque, tu guadagni 5.000 franchi ma devi anche pagare la stanza. Se ne vanno 3.000 franchi, te ne restano 2.000, ma spesso arrivano dei clienti che ti usano e poi non ti pagano o addirittura ti rapinano. Così, per lavorare tranquille, dobbiamo pagarci un guardien, un protettore e se ne vanno altri 1.000 franchi. Restano 3.000 franchi che bastano appena per pagarsi da mangiare gli altri giorni della settimana”.
Sei magnaccia ci osservano per un po’ a pochi passi di distanza poi si disinteressano di noi. Probabilmente sono il primo bianco che vedono entrare a “Le Grotto”. Alle due ragazze che allattano chiedo: “Come fate con i bambini?”. Rispondono: "Paghiamo una vecchia che si occupa di loro mentre lavoriamo".
QUANDO un paese è povero come il Burkina Faso facilmente i corpi dei suoi abitanti diventano merce: braccia di uomini da sfiancare nelle miniere d'oro dello Yayenga o fianchi di donne da offrire ai clienti occasionali nei maquis come “Le Grotto”, un fenomeno talmente diffuso da essere menzionato anche nelle guide turistiche. Le prostitute sono tutte molto giovani. Alcune hanno iniziato questo mestiere perché, arrivate in città dalla campagna, non ne trovavano altri. Ma la maggior parte è finita sulla strada dopo aver lasciato famiglie in cui venivano maltrattate. “Io vengo dal Togo” racconta una di loro ”sono venuta qui per guadagnar qualcosa ma se non ho un lavoro come faccio? E se non hai i genitori accanto a te per aiutarti a mangiare, cosa fai? Se non hai un buon lavoro e nessuno ti dà nulla sei obbligata a venire qui a prostituirti”. Quando chiedo chi vorrebbe smettere, alzano tutte la mano. “Anche tra 10 minuti”, risponde una. Suleyman Nana, l'uomo che mi accompagna, conosce bene le chambres de passe di Ouagadougou perché ha strappato al marciapiede dozzine di ragazze. Gli chiedo: “Ma come mai i protettori ti lasciano lavorare?”. Risponde: “Non sempre. Un protettore una sera mi ha detto ‘se non te ne vai ti sbudello e quel che ti accadrà l’hai voluto tu’”. Sono uscito ma non me ne sono andato. Sono rimasto lì davanti alla porta e gli ho detto: ‘Ascolta, son venuto per farti capire che questa ragazzina non può dormire qui e se tu non accetti un accordo con le buone ripasserò in un altro modo’. Lui ha avuto paura e alla fine ha ceduto”.
Chiedo: “Se il protettore non cedeva cosa avresti fatto?”.
Suleyman: “Avrei chiamato la polizia, non avrei mai lasciato una ragazzina senza assisterla nel pericolo. Era una ragazzina di 15 anni, sequestrata da mesi. Se me ne fossi andato zitto zitto, perché avevo paura, sarebbe stata una specie di omissione di soccorso verso una persona in pericolo”.
A Ouagadougou, Suleyman ha creato una struttura protetta dove le ragazze di strada hanno la possibilità di imparare un mestiere e tentare di ricostruirsi una vita normale. Si chiama “Anpo Mia” e lavora in rete con le volontarie italiane di Aidos. È una di loro, Clara Caldera, che ci fa incontrare Samira (17 anni) Clara: ”Quando uscivi cosa facevi ?”.
Samira: “Uscivo con dei ragazzi e dormivo là...”.
Clara: “Dormivi con i ragazzi?”. Samira: “Sì...”.
Clara: “Per i soldi?”.
Samira: “No, no...”.
Samira si difende dalle domande e risponde a monosillabi ed è Pauline Ilbondo, una delle attiviste di “Ampo Mia” a ricostruire la sua storia: “Quando Samira usciva, rientrava a casa dopo 3 o 4 giorni e quando i suoi le dicevano di non uscire più, il giorno dopo lei era di nuovo fuori, così sua madre passava la giornata a cercarla da un cortile all’altro, con i vicini che le dicevano ‘hei, ho visto tua figlia Samira con dei ragazzi e quella sua amica’, e ogni volta sua madre si metteva a piangere”.
Clara: “La tua amica ti diceva di dormire con i ragazzi?”. Samira: “Sì”. Clara: “E anche lei lo faceva?”. Samira: “Sì”. Clara: “E lei si faceva pagare? Le davi dei soldi?”. Samira: “Sì”. “Più spesso spiega Pauline degli amici maschi, e quando la notte uscivano con questi ragazzi le facevano entrare nelle chambres de passe, nei postriboli, ed erano questi ragazzi che incassavano”. A poco a poco, incalzato dalle domande di Clara, il racconto di Samira diventa un incubo: “Un giorno, le amiche del mio gruppo mi hanno lasciata da sola con i ragazzi e quelli volevano possedermi e siccome io rifiutavo uno di loro ha estratto un coltello e mi ha detto ‘se resisti ti uccidiamo’”. Clara: “Prendevi delle precauzioni?”. Samira: “Sì, usavo dei condom”. Clara: “E non sei mai rimasta incinta?”. Samira: “Sì, ma l'ho perso”. Clara: “Volontariamente o si trattava di un aborto? Sei tu che l’hai provocato o il ragazzo ti ha spinto a farlo?”. Samira: “Avevo un ragazzo e sono rimasta incinta. Mia madre non lo sapeva e quando l’ha saputo mi ha detto ‘non voglio più vederti, in questa casa non c’è piu niente per te, perciò ho abortito’”. Oggi Samira, grazie a un progetto di Aidos sostenuto da Mediafriends, sta imparando a fare la sarta ed è sicura di ottenere il perdono dei suoi genitori, ma reinserirla nel suo quartiere e farla accettare non sarà cosa facile. Sarà il compito di Clara e delle altre volontarie del “Centro per la salute delle donne” di Ouagadougou, che ha arruolato anche uno psicologo e un'avvocatessa. “Servono ad aiutare le donne che hanno problemi con il loro ambiente”, spiega Paola Cirillo.
Davanti all'avvocatessa siede una donna con la schiena tagliata da una vistosa cicatrice “L'ultima volta che il marito l'ha bastonata è svenuta spiega Paola poi, grazie a noi l'ha denunciato e adesso c'è un'inchiesta ma sino a poco tempo fa questa sarebbe rimasta una storia privata”.
*articolo tratto da “Storie di confine” (Rete4)

l’Unità 28.12.10
Dalle prime carte dell’Unità d’Italia ai «resti» di Matteotti ai documenti del ’68 rimasti fuori
Nella struttura a Portonaccio non c’è più posto per conservare il materiale della nostra storia
Quando la memoria «scoppia» Nell’Archivio di Stato di Roma
L’Archivio di Stato di Roma occupa degli ex magazzini che costano 750mila euro di affitto. 23 chilometri di scaffalature che non bastano più a contenere la nostra storia. Tutto il ‘68, per esempio, è rimasto fuori
di Jolanda Bufalini


Portonaccio, via Galla Placidia 93 a Roma, proprio dove è la rampa per la A24. La sede distaccata dell’Archivio di Stato di Roma occupa degli ex magazzini che costano 750.000 euro di affitto. 23 chilometri di scaffalature che non bastano più a contenere la nostra storia. Il 1968, per esempio, i quaranta anni sono trascorsi e le carte dell’epoca dovrebbero essere già negli archivi ma non c’è posto. Con le caserme vuote, il patrimonio del Demanio e quello del comune, si chiedono gli archivisti, ha senso pagare quello sproposito di affitto per una sede che non basta più?
Stiamo per entrare nell’anno delle celebrazione del 150 dell’unità d’Italia ma l’archivio di Roma capitale rischia di chiudere. Non c’è solo il problema della sede c’è anche quello dei tagli al funzionamento ordinario che «ci costringerà – spiega il direttore degli archivi romani Eugenio Lo Sardo – alla chiusura delle sale di consultazione». Eppure la gran parte dei fascicoli riposti nei 23 chilometri raccontano proprio Roma capitale. Le prime carte risalgono al 1870, quando prefettura e questura furono incaricate del passaggio dallo Stato pontificio allo stato unitario. Ci sono gli archivi del distretto militare e le visure catastali. L’ultimo lascito è stato fatto dalla Digos una decina di anni fa. I romani vengono qui per scoprire la propria storia, per finalità pratiche, nel caso delle visure, o per memoria: i mille nomi scolpiti a San Lorenzo che oggi ricordano i bombardamenti del 1943 sono stati trovati qui.
«Soprattutto donne, anziani e bambini – racconta Augusto Pompeo, archivista in pensione e docente di archivistica contemporanea – perché gli uomini erano al lavoro. I parenti venivano qui a vedere quelle terribili fotografie per cercare di riconoscere i loro cari». Fra le chicche del patrimonio fotografico c’è uno scatto che ritrae il celebre gobbo del Quarticciolo , Giuseppe Albano, a 17 anni, vestito da gangster impugna una pistola e punta contro un suo amico, Bruno Taverna, accanto a lui un poliziotto, pure amico suo. La fotografa Simona Granati si emoziona nel vedere una foto di gruppo davanti alla sede del Pnf, sempre al Quarticciolo. In quello stesso posto, sopra quel portone, dopo la targa del partito fascista c’è stata quella del Pci e, ora, c’è un centro sociale.
Pompeo ci fa da guida: «Abbiamo mostra il foglio matricolare di Enrico Toti». Nel settore C8, invece, c’è la storia dei sorvegliati politici, ormai quasi completamente informatizzata e consultabile via computer. Fu Francesco Crispi a creare il casellario politico centrale poi rafforzato durante il Ventennio. Durante il fascismo gli schedati erano 3500, venivano prelevati in occasione delle adunate o delle visite di capi di Stato stranieri, perché non gli saltasse in mente di dare fastidio. «Il casellario chiosa Pompeo è durato, chissà perché, fino al 1950». La dirigente Marina Pieretti, Manola Venzo e Elvira Grantaliano, che è la «risorgimentale» del gruppo, quella che di solito sta china sulle carte della Repubblica romana, portano religiosamente una sconnessa cassettina di laboratorio: contiene i vetrini con il sangue di Giacomo Matteotti. Il cadavere del martire antifascista fu trovato in condizioni tali da non poter essere identificato. Gli atti del processo sono qui, «fu l’odontoiatra, in realtà, a portare alla identificazione certa». Ci sono le foto della macchina del rapimento e i disegni della giacca su cui i periti riportarono la traiettoria della coltellata fatale.
I processi celebri sono la ricchezza dell’archivio di Stato di Roma ma nascosta in queste carte c’è anche quella che Eric Hobsbown chiamerebbe storia di gente comune. Una ce la racconta Luca Salvetti, 39 anni, archivista disoccupato ma occupatissimo. L’archivistica è un virus che, una volta contratto, non ti lascia più, e Luca viene ogni giorno, anche se da tempo non ci sono i soldi per i co.co.pro.
«Maggio 1898, commercianti e artigiani si ribellano per l’aumento delle tasse. Il concentramento è al Campidoglio, si uniscono anarchici e socialisti. Viene bruciato il tricolore. Il corteo parte verso piazza Navona, dove era allora il ministero dell’Interno, a Palazzo Braschi, blindata». Sembra di sentire cronache recenti sulla zona rossa. «La folla preme per entrare. I primi a caricare sono i carabinieri, poi entra la fanteria. C’è un tentativo da parte dei dimostranti di disarmare i soldati». La carica con sciabole e baionette farà una carneficina, moltissimi i feriti, alcuni, come l’ambulante Sabato Moscato, molto gravi. Sul selciato rimane Lamberto Ghezzi (che negliatti processuali diventa Ghezel), 17 anni, garzone di bottega. In un rapporto della Questura si racconta di una piccola processione dei familiari che portarono una croce sul luogo della morte, in vicolo della Pace. Croce dice la Questura prontamente rimossa. Ma in vicolo della Pace, sotto un tabernacolo votivo, c’è ancora, incastonata nel muro, una piccola inusuale croce.
2/continua


Corriere della Sera 28.12.10
Fermi e la bomba, il giallo dei brevetti top secret
Armi nucleari: silenzio Usa per ragioni di Stato. E il premio Nobel non fu mai pagato
di Lanfranco Belloni


Undici brevetti di ingegneria nucleare. Brevetti «top secret» . Brevetti firmati da Enrico Fermi e tenuti a lungo «nascosti» dalle autorità americane, intenzionate a mantenere un controllo totale nelle tecnologie per la costruzione della bomba atomica. L’elenco è contenuto nel volume «Neutron Physics for Nuclear Reactors -Unpublished Writings by Enrico Fermi» , edito di recente da World Scientific di Singapore a cura di Salvatore Esposito e Ofelia Pisanti, dell’Università Federico II e della sezione di Napoli dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. Il primo brevetto risale al 1934, all’origine dei lavori sulla fisica dei neutroni in via Panisperna, ed è intitolato «Metodo per accrescere il rendimento dei procedimenti per la produzione di radioattività artificiale mediante il bombardamento con neutroni» . C’è la descrizione dettagliata dei risultati ottenuti studiando la radioattività indotta in un numero di elementi chimici, in seguito a irradiamento con i neutroni lenti. Il testo originale non è mai stato pubblicato in italiano, e nel volume i curatori presentano la versione inglese, quella destinata all’ufficio brevetti Usa nel 1935, e lì rilasciata nel 1940. Gli altri brevetti riguardano tutti gli aspetti operativi del funzionamento dei reattori, basati sulle reazioni a catena. E costituiscono altrettante trattazioni dettagliate, ma distinguibili dalla descrizione dei medesimi argomenti apparsa invece nei lavori pubblicati e già conosciuti. Il secondo brevetto, «Metodo per il funzionamento di un reattore a neutroni» , desecretato nel 1955, fu definito dal New York Times «brevetto storico, che copre il primo reattore nucleare» . Vi sono presentati la teoria, i dati sperimentali, e i principi di costruzione e funzionamento di ogni tipo di reattore nucleare conosciuto all’epoca. A partire dalle diverse forme di uranio impiegato ai differenti sistemi di raffreddamento e alle diverse disposizioni geometriche dei vari componenti. Insomma, la madre di tutti i brevetti successivi. Nel regime militare vigente a Los Alamos, nel New Mexico, sede dei laboratori per la ricerca e la produzione di armi nucleari, le «invenzioni» di Fermi e colleghi erano subito coperte da brevetto segreto, di proprietà dell’Autorità dell’energia atomica, che rappresentava il governo statunitense. Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la Casa Bianca si rifiutò sempre di riconoscere un compenso per quelle invenzioni segrete: Enrico Fermi e i suoi collaboratori non percepirono mai un dollaro. La questione dei brevetti sulle tecnologie nucleari si dipanò attraverso vicende intricatissime, fra le esigenze del segreto militare, legate alla sicurezza nazionale, e le aperture verso l’utilizzazione dell’energia atomica per scopi civili. Quei brevetti del fisico italiano, ormai diventato cittadino americano, erano «declassificati» , cioè desecretati, all’epoca della pubblicazione delle opere complete di Enrico Fermi, sotto la direzione dell’allievo e premio Nobel Emilio Segrè, avvenuta nel 1962-65. Avrebbero potuto essere inclusi già allora nell’opera omnia del gran maestro, ma furono tralasciati. Ci si può chiedere la ragione di una simile «dimenticanza» . La spiegazione più plausibile è che si sia sentita l’esigenza di non divulgare eccessivamente tecnologie sensibili sotto il profilo strategico. Fra gli inediti inclusi nel volume, anche gli appunti presi alle lezioni di fisica dei neutroni tenute da Fermi alla cosiddetta «Università di Los Alamos» . L’autore degli appunti, rimasti per lungo tempo inediti, era un membro della delegazione britannica, il fisico inglese Anthony French. Anche attraverso il filtro di questo uditore, si ha l’ennesima conferma delle singolari capacità didattiche di Fermi, dalle quali trasse vantaggio tutta la singolare comunità, radunata a Los Alamos.

Corriere della Sera 28.12.10
Tre secoli di diari, prima dei blog
Hawthorne, Einstein, Burroughs: gli sfoghi segreti dei grandi
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Nathaniel Hawthorne usava il suo diario per celebrare l’amore profondo per la moglie Sophia. Nel suo journal, Tennessee Williams confessava con quotidiano puntiglio la solitudine e l’insicurezza che l’attanagliarono fino alla morte, mentre le annotazioni giornaliere aiutarono John Steinbeck a liberare con catartica onestà il tormento artistico che accompagnò la stesura di Furore, il suo capolavoro. Questi e altri settanta diari, scritti nell’arco di tre secoli, fanno parte di «The Diary: Three Centuries of Private Lives» . La mostra, allestita alla Morgan Library &Museum di New York dal prossimo 21 gennaio e curata da Christine Nelson, illustra come la diaristica non sia affatto un’invenzione dei blog, di Twitter o dei social network. Da secoli poeti e scrittori utilizzano il diario, la più privata e onesta delle forme letterarie, per documentare le proprie esperienze di viaggio, liberare l’animo da tribolazioni e affanni, attenuare la solitudine o semplicemente tramandare ai posteri l’affresco della propria era. Si tratta, insomma, di uno dei generi di scrittura più eterogenei, che va dai celebri diari osé di Anaïs Nin e quelli castigati della Regina Vittoria — pubblicati e apprezzati da milioni di lettori in tutto il mondo — ai manoscritti privati e inediti di Albert Einstein (che saranno pubblicati nel 2011 dall’Einstein Papers Project), di John Newton, l’autore dell’inno cristiano Amazing Grace, scritto intorno al 1772 e di Baron Larrey, il chirurgo dell’esercito Napoleonico. Che cosa ha mosso questi ultimi a tenere segreti i loro scritti? Forse lo stesso pudore che negli anni 30, durante la stesura di Furore, spinse il premio Nobel Steinbeck a confessare, nel suo privatissimo quaderno: «Ho già tentato prima d’ora di scrivere un diario, ma non ci sono riuscito a causa della necessità di essere onesto con me stesso» . Una preoccupazione, questa, estranea al filosofo e scrittore statunitense Henry David Thoreau, al centro della mostra. Tra i suoi 39 diari e dozzine di blocchi per appunti nella collezione permanente della Morgan Library spiccano titoli come «verità» , «alba» e il lirico «i ruscelli immobili sono i più profondi» che il padre dell’ambientalismo moderno decorò con disegni di paesaggi e animali, tra cui il dettaglio di una piuma di falco. Nel diario di nozze compilato a quattro mani da Nathaniel e Sophia Hawthorne, qualcuno individuerà il primo documento interattivo dell’era moderna, 150 anni prima della nascita di Internet. «Credo profondamente che non vi sia il sole in questo mondo — scriveva Hawthorne nel 1842 — eccetto quello che irradia dagli occhi di mia moglie» . «Mi sento nuova— ribatte lei— come la terra appena rinata» . Più tardi i loro tre figli inserirono schizzi e disegni tra le pagine, trasformandole in un vero e proprio quadro di famiglia. La lettera scarlatta, rivela la mostra, ebbe origine proprio da uno di questi diari. «Vorrei scrivere un libro sulla vita di una donna condannata dalla vecchia legge delle colonie a indossare sempre la lettera A trapuntata sul petto, come punizione per aver commesso un adulterio» , scrive Hawthorne, dando per la prima volta forma a quello che era destinato a diventare uno dei romanzi più celebrati della letteratura americana. Lo scrittore della beat generation William Burroughs, un diarista tra i più prolifici, pubblica uno dei suoi «giornali» — «The Retreat Diaries» — nel 1976: la cronaca dettagliata del suo soggiorno di due settimane in una comunità buddista del Vermont. Vent’anni prima, durante un viaggio a Barcellona, Tennessee Williams aveva immortalato l’incontro con un giovane amante: «Un figlio dell’amore» , spiega. «Abbiamo cenato sulla terrazza con le guglie della cattedrale illuminate e il coro della messa che cantava motivi catalani nella piazza sottostante» . All’apice del suo successo letterario, quando La gatta sul tetto che scotta trionfava sulle scene e una nuova produzione di Un tram chiamato desiderio stava per debuttare a Broadway, Williams, sempre più dipendente da droghe e alcool, scrisse freneticamente il suo diario tra New York, Roma, Atene e Istanbul, registrando con maniacale onestà il suo dolore fisico ed emotivo, i suoi frequenti incontri sessuali con uomini e la sua disperazione con frasi quali: «Nulla da dire oggi, tranne che sono ancora vivo» . Lo stesso desiderio di sfogo emerge dai diari dell’allora ventenne Charlotte Brontë che nel 1836, ai tempi in cui insegnava alla Roe Head School, scribacchiava annotazioni autobiografiche su sottili fogli di carta per esprimere il suo bisogno di fuga da una quotidianità fatta di solitudine e tristezza. Alcuni anni dopo, quando insegnava a Bruxelles, l’autrice di Jane Eyre utilizzò un testo di geografia per confidare il proprio stato d’animo: «È una vita abominevole, specialmente perché c’è solo una persona in questo luogo che meriti di essere apprezzata» . Una delle pagine più struggenti appartiene a John Newton, autore dell’inno cristiano Amazing Grace, consumato dal timore di Dio e dall’ansia di rettitudine morale, che nei suoi scritti non menziona mai il suo passato di ex schiavista, nonostante il tacito senso di colpa che li permea. Nel diario scritto nel 1974 durante la tournée con The Band, Bob Dylan combina immagini e poesia. «Galassie che esplodono nel rosso-bianco-blu pulsante nella notte del grande occhio» , annota accanto al disegno della sua stanza d’albergo a Memphis. Meno ermetico Charles Seliger, il pittore scomparso nel 2009 che ci ha lasciato oltre 150 diari dove ha registrato quotidianamente opinioni, pensieri e attività. Il suo mentore è il leggendario Samuel Pepys, il politico scrittore inglese, autore del diario-bestseller in mostra alla Morgan: un’avvincente commistione di idee personali e testimonianze di grandi avvenimenti londinesi, dalla Grande Peste al tragico incendio del 1666.

Corriere della Sera 28.12.10
I senzatetto girano un film sulla Marsiglia che li rifiuta
Clochard trasformati in registi, attori e sceneggiatori
di  Lorenzo Cremonesi


Fare un film per imparare a sopportare il quotidiano. È tra le motivazioni più forti che ha spinto la trentina di senza tetto tra le migliaia nelle strade di Marsiglia a trasformarsi in registi, attori, sceneggiatori. Gli hanno dato un titolo inglese Hope City, città della speranza, a sottolineare il carattere multietnico della povertà nella zona urbana più violenta e disperata della Francia. Meno di un’ora di pellicola: cruda, acida, mai moralista, promettono i neo-artisti. L’idea è maturata negli ultimi cinque anni nella Boutique Solidarité legata alla Fondazione Abbé Pierre, il centro di sostegno ai senza tetto nel cuore di Marsiglia. Ci si arriva per fare una doccia calda, lavare i panni, leggere un giornale in santa pace, o semplicemente per trovare compagnia. Qui vengono periodicamente anche una regista, Léa Jamet, assieme ad un attore, Théo Trifard, per animare su base volontaria un gruppo di incontro. È attorno a loro che nel settembre 2009 si decide di appendere un piccolo annuncio sulla bacheca all’ingresso: «E se facessimo un film assieme?» . «La trama è stata redatta durante un corso di scrittura alla Boutique» , notava ieri il corrispondente da Marsiglia per Le Monde. Non è stato facile. Gli aspiranti artisti nei mesi sono cambiati, molti hanno lasciato, altri si sono aggiunti. Ma un nucleo ha tenuto duro sino alla fine. «Facevo lo squatter, scrivere la trama mi ha aiutato a sopportare il quotidiano» , racconta Mickael Rabia, 38 anni di Rennes, nella strada dal 2007. Lui è tra coloro che rivendicano per i clochard il desiderio di «poter parlare ad alta voce di qualsiasi argomento, di arte, libertà, amore» . Da vero appassionato, ogni settimana attendeva con ansia gli incontri del mercoledì per condividere la verve artistica. Aveva preso l’abitudine di tenere block notes e penna sempre in tasca, pronto ad annotare i suoi suggerimenti per una scena, una modifica, nuovi dialoghi, tutti rigorosamente ricavati dalla caducità delle sue giornate ritmate dalle necessità della sopravvivenza. Ci trovi il freddo dell’inverno, le ore seduto nella biblioteca comunale giusto perché è riparata, i passaparola tra poveracci quando si scopre che c’è un palazzo comodo da occupare. Hope City è un luogo dominato da una gerarchia onnipotente dove si fronteggiano due classi sociali: i «nantis» , i ricchi in gergo francese, e i «lambdas» , letteralmente gli uomini qualunque. Pascal Ludman, uno dei quattro senza tetto che hanno lavorato come apprendisti scenografi, è stato l’autore del discorso radicale tenuto da Fox (Volpe, sempre un nome inglese), sindaco xenofobo della città che promette ai suoi concittadini «nantis» di espellere i «lambdas» una volta per tutte. «I pidocchiosi dovranno andarsene, sono loro che spargono l’immondizia attorno ai cassonetti, che si aggirano presso le scuole dei nostri figli» , tuona minaccioso. I costi della produzione sono stati circa un decimo di quanto speravano di raccogliere. L’opera sarà dedicata a Jehemi Boumediene, morto da pochi mesi, mentre stava collaborando alla sceneggiatura. Sembra sia stato vittima di un’embolia polmonare dopo circa 15 anni trascorsi in strada.

lunedì 27 dicembre 2010

Repubblica 27.12.10
Quelle parole che la Sinistra deve riscoprire
Sogni e partecipazione ecco la vera politica
di Marc Lazar


La crisi della sinistra riformista europea oggi è oramai un´idea condivisa. Essa non ha motivo di vergognarsi del proprio passato. Ha contribuito a forgiare la democrazia e il welfare e, dunque, un´ampia parte dell´identità europea.
Ciò nonostante, il suo modello di cambiamento graduale delle società nel quadro degli Stati-nazione è in via di esaurimento. La sinistra, più della destra, soffre la globalizzazione, le trasformazioni del capitalismo mondiale, il processo di individualizzazione, la sensazione sempre più ossessiva del declino del vecchio continente, le tentazioni di ripiegamento identitario sfruttate dai movimenti populisti.
La Storia dimostra che ciò che ha fatto la forza della socialdemocrazia è stata la sua capacità di adattamento alle evoluzioni delle società, il più delle volte generate esse stesse dalle metamorfosi del capitalismo. Un aggiornamento spesso difficile, nutrito da vivaci dibattiti interni sulle proposte definite "revisioniste", da Eduard Berstein (fine del secolo XIX) a Anthony Giddens (fine del secolo XX), passando per tanti altri pensatori e responsabili politici. E, tuttavia, con una domanda ossessiva dei nostri giorni al socialismo: il suo avvenire si iscrive nella linea dell´ideologia e dei suoi punti di riferimento, oppure suppone di varcare le frontiere tradizionali della sinistra e di esplorare altri orizzonti?
Per pensare la sinistra oggi e domani bisogna, più che mai, tornare alla famosa affermazione di Norberto Bobbio, per il quale il valore dell´uguaglianza traccia la linea di separazione dalla destra. La crisi economica del 2008 ha ricordato la pertinenza di quest´idea, adattata al mondo di oggi, che non significa egualitarismo, ma un´uguaglianza delle opportunità, rispettosa dei percorsi e delle aspirazioni individuali. Un´uguaglianza che deve rendere possibili non tanto degli Stati-forti, divenuti impossibili, quanto degli Stati ammodernati, regolatori e animatori, coordinati a livello europeo. Uguaglianza nel mondo e in Europa. Uguaglianza sociale tra i diversi gruppi e individui. Uguaglianza tra i sessi, mentre le donne rimangono sempre discriminate. Uguaglianza tra le generazioni, in un´Europa che subisce il complesso di Cronos, il dio greco che divorava i propri figli. Uguaglianza tra i territori, mentre oggi si approfondisce la divaricazione tra le regioni ricche e le zone più in difficoltà. Uguaglianza tra i cittadini e gli immigrati in regola che fanno ormai parte integrante della nostra Europa. Uguaglianza, ancora, in rapporto all´ambiente.
Ma c´è l´altro Bobbio, quello che nel 1955 constatava come gli intellettuali italiani sapessero perfettamente che cosa avrebbe dovuto essere la società italiana, ma ignoravano che cosa fosse. Cinquantacinque anni dopo, la sua riflessione si può allargare all´insieme dei partiti della sinistra europea, troppo chiusi su se stessi, in mano a oligarchie che stanno invecchiando, più che mai preoccupate di difendere i loro piccoli interessi. Conoscere la società nella sua complessità attuale, segnata da tendenze contraddittorie e antagonistiche, per ritrovare il popolo e, così, non lasciare più questa parola e ciò che comporta alle forze populistiche. La sinistra deve unirsi a lui in questo grido di dolore e di rabbia di cui parlava il sociologo Durkheim per definire il socialismo, ma anche in un grido di speranza, non per creare sogni che si trasformano generalmente in incubi, ma per ridare un senso alla politica. Per esempio, nell´accettare la forza della leadership nelle nostre democrazie, ma combinandola con l´estensione della partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
(traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 27.12.10
C’è vita a sinistra
Le parole per raccontare quel che resta di un´idea
di Carlo Galli


Fine delle ideologie, crisi del riformismo, globalizzazione: eppure c´è ancora chi scommette sul futuro di un concetto
Abbiamo chiesto a celebri pensatori e intellettuali europei di spiegare la loro visione e le prospettive possibili

La sconfitta della sinistra comunista, e le trasformazioni politiche ed economiche che sono seguite – la globalizzazione –, hanno reso il capitale più aggressivo (perché più esposto alla competizione), e hanno causato la crisi del compromesso socialdemocratico, cioè delle conquiste della sinistra riformista: i diritti sociali oggi sono visti come un costo e non come un valore. Ecco perché ha senso interrogarsi sulle prospettive di un´idea. Oggi il centro della società è il mercato, l´impresa e le sue esigenze di sviluppo, l´individualismo aggressivo; la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di welfare è già in atto, e la società si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; anche le forme giuridiche dell´uguaglianza – la legalità, i diritti civili – sono minacciate dall´insicurezza e dalla paura, i nuovi messaggi biopolitici che vengono dallo Stato; la democrazia è sostituita dal populismo.
La sinistra deve quindi trovare la capacità di criticare il presente, e ne deve nominare apertamente le contraddizioni; deve essere convinta che a un problema non c´è solo la soluzione proposta da chi detiene il potere, ma almeno un´altra, alternativa, che ha come finalità l´emancipazione di chi non ha potere, e la liberazione delle sue capacità di sviluppo autonomo, di vitale spontaneità (e pertanto deve essere antiautoritaria e laica). Deve essere riconoscibile, cioè deve essere coerentemente "parte" – nel momento in cui la società si frantuma in parti, anche se non coincidenti con le "classi" tradizionali –, e deve quindi entrare decisamente nei conflitti reali; ma deve anche farsi carico delle questioni generali di uguaglianza formale e sostanziale – pur mettendo in conto che i conflitti non potranno mai cessare. Deve produrre una nuova idea di società, una nuova "egemonia", da contrapporre all´egemonia della destra. Ciò significa combattere la paura e la disuguaglianza con la legalità, la giustizia e la speranza; e lottare per un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell´attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico.

Repubblica 27.12.10
Il sociologo
Perché la libertà è un valore sociale
di Anthony Giddens


Nella politica di oggi la divisione tra sinistra e destra è assai meno netta che in passato, perché al capitalismo non si contrappone più un´alternativa socialista ben definita. Per di più, alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare - ad esempio il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti contemporanei - trascendono la divisione classica tra sinistra e destra.
Eppure la distinzione ha ancora un senso. Essere di sinistra vuol dire avere a cuore alcuni valori essenziali; credere nell´importanza della solidarietà sociale, dell´uguaglianza, della tutela dei più vulnerabili, e nella «libertà sostanziale»: non solo quella economica, o la libertà davanti alla legge, ma una libertà reale per tutti i cittadini.
E significa anche attenersi a un certo quadro politico, in cui si conferisca grande importanza all´attivismo e alla capacità di intervento dei governi, necessaria a controbilanciare la tendenza dei mercati incontrollati di produrre instabilità economica e macroscopiche sperequazioni sociali, sostituendo ai valori sociali parametri puramente economici.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 27.12.10
Il filosofo
Se la solidarietà non è mai fuori moda
di Jürgen Habermas


Chi crede tuttora nella forza rivoluzionaria di autoguarigione delle crisi economiche gravita in nebulose profondità attorno al concetto del «politico», o soffia sulla «sollevazione prossima ventura». Il resto è disfattismo.
La «sinistra» deve il suo nome all´ordine degli scanni parlamentari all´Assemblea nazionale francese del 1789. Quanto al termine «socialismo», il suo significato era e rimane nient´altro che la messa in atto delle parole d´ordine della Rivoluzione francese. La libertà non può essere ridotta alla mera possibilità, per i soggetti partecipi di un sistema di mercato, di esprimere individualmente il proprio voto. Solo l´inclusione egualitaria di tutti i cittadini come co-legislatori, in un contesto di formazione di opinioni e volontà politiche informate, può assicurare a ciascuno gli spazi e i mezzi per determinare e plasmare autonomamente la propria personale esistenza.
L´uguaglianza non può essere solo quella formale davanti alla legge, ma deve comportare l´equa ripartizione dei diritti, che devono avere eguale valore per ciascuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale. La solidarietà non deve degenerare in paternalistica assistenza agli emarginati; la partecipazione alla comunità politica con pari diritti non è conciliabile con la privatizzazione, che scarica i rischi e i costi originati a livello sociale complessivo su singoli gruppi o persone, senza indennità o risarcimenti di sorta.
E´ questo il modo in cui la sinistra intende i principi costituzionali, non certo spettacolari, che nelle nostre società democratiche informano il diritto vigente. La sinistra recluta i suoi aderenti tra i cittadini tuttora sensibili alle stridenti dissonanze tra questi principi di fondo e la realtà, da tempo accettata, di una società sempre meno solidale. Una società nella quale le élite si barricano, anche moralmente, nelle loro gated communities è fetida. I mali della sinistra rispecchiano il generale ottundimento di questo spirito normativo, e la crescente tendenza ad accettare come normale e ovvio un egoismo razionalista, che con gli imperativi del mercato è penetrato oramai fin dentro i pori di un ambiente di vita colonizzato.
Naturalmente il deficit della sinistra non è solo di tipo motivazionale, ma riguarda anche il piano cognitivo, ove si è mancato di affrontare tutta la complessità delle sfide reali - ad esempio, i rischi che corre oggi la moneta europea. Altrimenti la sinistra non si limiterebbe a lamentare la distruttività dei mercati finanziari incontrollati, ma ravviserebbe nella speculazione contro la moneta europea un´astuzia politica della ragione economica. Si attiverebbe contro l´asimmetria dell´UE, che a una completa unificazione economica affianca l´incompletezza di quella politica. E comprenderebbe infine che un´Europa democratica e solidale è un progetto di sinistra.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 27.12.10
Il saggista
Pensare l’uguaglianza come diritto culturale
di Gianni Vattimo


La distinzione tra destra e sinistra è ancora ben viva e consiste, come sempre, nell´opposizione tra chi prende le differenze - di ricchezza, di salute, di forza, di capacità - come differenze "naturali", e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze "di natura". Di qui il darwinismo sociale che ha sempre caratterizzato la destra, fino al razzismo fascista; e quello che si può chiamare il "culturalismo" della sinistra, che va oltre il dato "naturale". Il problema della sinistra è sempre stato quello di riconoscersi francamente per quel che è, come "cultura vs. natura": quando ha creduto di essere più fedele alla natura (come difesa dei diritti "naturali" o come scienza economica "vera") è sempre diventata totalitarismo. La forza della sinistra sta nel difendere il diritto di chi non ha "diritti", di chi non è "legittimato" né dalla natura (quella che sempre anche il Papa invoca) né della scienza (per lo più al servizio del potere). Il proletariato di Marx non è l´uomo "vero", è solo la classe generale, la grande massa degli espropriati che merita di farsi valere anche solo in nome del (borghese) principio democratico.

Repubblica 27.12.10
L´intellettuale
La sfida della scuola. Un’educazione per tutti
di Fernando Savater


Oggi, la sinistra non può essere altro che quella che difende il concetto di società. Vale a dire, qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione di individui atomizzati e di interessi contrapposti in lizza. I membri di una società vedono se stessi come soci degli altri, vale a dire come collaboratori e complici di un beneficio che in qualche misura deve raggiungere tutti. La sinistra deve ricordare che la democrazia, in qualsiasi luogo del mondo, ha due nemici fondamentali: la miseria e l´ignoranza. Dove la miseria è tollerata, dove l´ignoranza non è combattuta, la democrazia si trasforma in una caricatura di se stessa. Pertanto, la sinistra - che ha già imparato che non può essere che democratica in un modo deciso e scrupoloso - deve tentare di mettere fuori legge le condizioni di povertà estrema - come a suo tempo si mise fuori legge la schiavitù - e deve far sì che l´educazione per tutti, pubblica, laica e senza esclusioni maliziose diventi il suo compito prioritario. Un´altra questione molto attuale che la sinistra deve affrontare è la crescita della corruzione sia politica che finanziaria (che normalmente agiscono insieme) e che minaccia di pervertire la democrazia in "cleptocrazia", mettendo le istituzioni o la sfera pubblica al servizio dei depredatori.
(traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 27.12.10
I tre voti che pesano sul futuro del paese
di Eugenio Scalfari


INIZIO questo articolo con un´ipotesi. So bene che l´ipotesi configura una realtà virtuale che spesso non coincide con quella reale ma ci aiuta spesso a capire meglio quello che è accaduto.
Facciamo dunque l´ipotesi che il 14 dicembre scorso il governo fosse stato battuto, sia pure per un solo voto, e che Berlusconi si fosse dimesso chiedendo al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere.
Il Presidente - l´ha detto pochi giorni dopo parlando alle Alte Cariche dello Stato - è in linea di principio contrario allo scioglimento anticipato di una legislatura; perciò, prima di addivenire alla richiesta del premier dimissionario, avrebbe verificato l´esistenza di una maggioranza alternativa.
Quella maggioranza - contraria allo scioglimento anticipato ma tuttavia incapace di esprimere un governo coeso e di indicarne il premier - c´era come tuttora presumibilmente c´è. Che cosa avrebbe fatto Giorgio Napolitano di fronte ad un Parlamento che non vuole essere mandato a casa ma non riesce a indicare un nuovo premier?
Forse avrebbe risolto il problema affidando l´incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale, in grado di portare avanti la legislatura rafforzando e restaurando le istituzioni e riconciliando con la politica quella moltitudine di cittadini che è profondamente delusa dall´imbarbarimento istituzionale in atto.
Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare dal governatore della Banca d´Italia, dal presidente del Consiglio di Stato, dal presidente della Corte Costituzionale, da qualche «emerito» di quella medesima istituzione. Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l´incarico ad un «eminente» della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti.
Un governo formato con questi criteri avrebbe probabilmente riscosso la fiducia del Parlamento anche perché, al di là delle appartenenze di partito, un´elevata percentuale di deputati e di senatori non ha nessuna voglia di ritornare ai propri lavori domestici e - in aggiunta - un´elevata percentuale di cittadini elettori non ha alcun desiderio di tornare anticipatamente al voto. Un´ultima considerazione: un voto fatto in questa fase e con la legge elettorale vigente darebbe probabilmente una maggioranza di un tipo alla Camera e una maggioranza di una diversa tipologia politica al Senato. Si avrebbe perciò una nuova legislatura con due Camere diversamente orientate tra di loro, e quindi con una situazione travagliata come e più di quella attuale.
Aggiungo dal canto mio che una campagna elettorale nella presente congiuntura economica non farebbe che esasperare lo scontro sociale già largamente in atto e rappresenterebbe una ghiotta occasione per incoraggiare la speculazione ad attaccare il nostro debito sovrano sui mercati finanziari. Questa del resto è anche l´opinione manifestata pubblicamente e più volte dal Capo dello Stato.
* * *
Tutto il ragionamento fin qui svolto si basa su ipotesi logiche che non prevedono alcuna forzatura costituzionale. Infatti, per quanto riguarda le prerogative del Quirinale, la Corte è chiarissima in proposito: il Capo dello Stato, sentiti i presidenti delle Camere e i gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. La medesima procedura è prevista per lo scioglimento delle Camere.
È perciò probabile che le cose sarebbero andate così, con largo vantaggio per le istituzioni, per i cittadini e quindi per il paese. Ma le ipotesi non sempre si verificano. Nel nostro caso, il 14 dicembre il premier ha avuto un´ampia maggioranza al Senato e la fiducia della Camera per tre voti di scarto. Le modalità di acquisizione di quei tre voti sono note ma ufficialmente non contestabili, salvo improbabili esiti dell´inchiesta giudiziaria in corso.
Il governo è quindi in carica nella piena legalità costituzionale e può benissimo proporsi di andare avanti fino al termine naturale della legislatura, varando un programma di riforme sociali, economiche e istituzionali. Non l´ha fatto prima, quando disponeva di una vasta maggioranza in entrambe le Camere. Potrà farlo ora con tre voti o magari con dieci di sostegno?
Berlusconi e soprattutto Bossi si sono dati la metà di gennaio come termine ultimo. Se a quella data la maggioranza si sarà rafforzata quantitativamente e politicamente, con un accordo con Casini, andrà avanti. In caso contrario Berlusconi andrà al Quirinale a dimettersi chiedendo le elezioni anticipate.
Che cosa farà a quel punto il Capo dello Stato?
* * *
I presupposti della sua azione non sono diversi da quelli precedenti al 14 dicembre scorso. Dovrà perciò verificare se in Parlamento emergerà una maggioranza contraria allo scioglimento oppure no.
In quest´ultimo caso la continuità da lui auspicata sarà interrotta e i pericoli per la stabilità economica si riproporranno tali e quali. Avremo dunque perso inutilmente un mese e ci ritroveremo nella stessa situazione dopo aver offerto purtroppo ai cittadini e alla pubblica opinione internazionale lo spettacolo del peggior trasformismo che si sia mai verificato in un paese democraticamente maturo dell´Occidente.
* * *
Avremo dunque la risposta tra tre settimane e ci sarà anche per quella data la sentenza della Corte sul «legittimo impedimento», che non è un elemento indifferente rispetto alle varie ipotesi sopra indicate.
Mi domando, e molti si domandano con me, quale sarà l´atteggiamento del centrosinistra nell´ipotesi di elezioni anticipate, oppure in quella di un accordo Berlusconi-Casini-Fini. Vediamo.
Accordo di Casini-Fini con Berlusconi: la legislatura procede fino al 2013 e tenta di fare le riforme tante volte promesse e mai effettuate: nuova legge elettorale, Senato federale, diminuzione del numero dei parlamentari, federalismo fiscale, riforma della giustizia per rendere il processo civile e quello penali più rapidi e il ruolo del Pubblico ministero più simile a quello di un avvocato di accusa. Infine, riforma fiscale che diminuisca il peso delle imposte sul reddito e introduca un prelievo sul patrimonio al di sopra di una certa soglia.
Il gruppo Casini-Fini cercherà di modellare quelle riforme nella prospettiva d´una nuova destra, «repubblicana», che si troverà di volta in volta in contrasto con il populismo berlusconiano o con la Lega o con tutti e due. Se Casini-Fini si appiattissero sui desideri del premier, non si capirebbe per quale motivo sia stata montata questa cagnara da quattro mesi a questa parte.
Sarà dunque un processo molto travagliato, quello sulle riforme, nel corso del quale il Partito democratico potrà essere determinante per far pendere la bilancia dall´uno o dall´altro lato. Ma proprio per questo travaglio è molto probabile che Berlusconi e Bossi manderanno al più presto tutto all´aria.
Se invece il percorso delle riforme proseguisse e con esso la legislatura, verrà anche il momento della scadenza del mandato di Bersani da segretario del Pd e ci sarà un nuovo congresso e nuove primarie di partito. Bersani presumibilmente si ricandiderà ed avrà quasi certamente Veltroni come concorrente. Di Pietro e Vendola saranno fuori da questa tenzone che riguarda soltanto il Pd. Se invece a gennaio Berlusconi e Bossi, non riuscendo a rafforzare la maggioranza, decideranno per la crisi e se Napolitano dovesse accettare lo scioglimento delle Camere, si verificherebbe l´ipotesi peggiore per il Pd, che si troverebbe alle prese con il Terzo Polo sulla sua destra e con Vendola e Di Pietro sulla sua sinistra.
Andare alle elezioni da solo significherà per il Pd esporsi dunque a perder voti sull´uno e sull´altro versante. Puntare su un´alleanza con Casini significherà un salasso a sinistra; puntare sull´alleanza con Vendola significherà affrontare le primarie di coalizione che vedranno molteplici candidati ai nastri di partenza. Non è immaginario pensare che oltre a Bersani e Vendola ci saranno anche Veltroni, probabilmente Bindi e D´Alema, per non parlare di Di Pietro. Una situazione che rischia di polverizzare l´intera sinistra.
Questo è il panorama che occorre evitare a tutti i costi, sperando nella saggezza e nell´umiltà dei vari interlocutori e in un accordo di tutte le opposizioni.
Se debbo dire la mia, questa dell´accordo generale mi sembra un´ipotesi cosiddetta di terzo grado, teoricamente la sola valida, praticamente impossibile da realizzare.
Come si vede, quei tre voti del 14 dicembre rischiano di avere come risultato la scomparsa della sinistra italiana e di consegnare il paese per altri dieci anni al berlusconismo populista, autoritario e leghista. Con la speculazione che spennerà il nostro debito sovrano a suo piacimento.
Chi volesse trovare un solo colpevole non riuscirebbe, lo sono tutti, nessuno escluso.

l’Unità 27.12.10
«Il presidente resta in piedi nel disastro. Ci riconosciamo in lui»
Per il Nobel «Napolitano rappresenta il potere senza portafoglio. È il conforto di un Paese sbrecciato che sotto il cielo scuro può solo credere ai miracoli»
di Toni Jop


Perfino Morgan: dice che la moglie gli ha portato via la figlia. Anche lui scrive a Napolitano, bussa. E Laura Puppato, Pd veneto, scrive al presidente che l'altro giorno i leghisti hanno abbandonato l'aula del consiglio regionale quando il resto dell'assemblea ha intonato l'Inno di Mameli. Chi può aiutarla? Dalla famiglia, alla fabbrica, alla patria: Dario che cosa è successo a questo paese? Cos'ha convinto milioni di italiani che Napolitano è una specie di San Gennaro?
«Ecco la parola: miracolo. Non abbiamo mai smesso di credere ai miracoli e più il cielo si fa scuro più sogniamo la luce, poveri noi. E per fortuna che Napolitano c'è, esiste come parola, esiste come linguaggio di relazione non drogata, come riferimento si impone mentre gli altri soggetti del potere si eclissano, smentiscono, si negano, trascurano, ignorano, zittiscono. Il presidente è “potere senza portafogli”, non ha mezzi, ma incarna l'equilibrio e lo fa parlando. In questi frangenti è il conforto di un paese sbrecciato...»
Sì, come il Papa?
«Sbagliato: il Papa...come si fa a dar retta a un signore che ribadisce: siate buoni, il denaro non è tutto, mentre se ne sta agghindato come un albero di Natale, indossando uniformi lussuose, capricciosi remake di modelli del passato, seduto su poltrone d'oro e con crocifissi d'oro che gli pendono dal collo? Con rispetto parlando, parla con poco rispetto: è il tempo delle ceneri sul capo...».
E Napolitano, invece?
«È nature, non si trucca e ascolta, oltre a dire cose sensate. Ci sono mini-
stri che accusano i ragazzi del movimento di essere degli assassini, ed ecco che il presidente accoglie i testimoni di quegli “assassini” e di colpo il paese delle persone di buona volontà intuisce che da quell'incontro non può che discendere un messaggio di pace, vera, intelligente, sincera che spiazza le parole d'ordine violente di chi ha, come i ministri della repubblica, il potere sulle piazze e sull'ordine pubblico. Napolitano parla a mezza via tra il cinismo del governo e le flebili voci dell'opposizione».
Non ti facevo così tifoso...
«Invece sì. Benché a volte mi capiti di mordermi le labbra per quel che dice – ma poco – e più spesso per quello che avrei voluto avesse detto e non ha detto. Ma sta lì, in piedi in mezzo al disastro e ai venti della barbarie e tiene la posizione, sempre sensata, sempre umana, ti credo che tutti in Italia vorrebbero una parola anche per loro. Chi ci resta?»
Ma non è che siamo tutti figli di uno slittamento della cultura che tende a santificare i collettori delle domande? Guarda Berlusconi: se è non è trattato come un santo lui...
«Accettando il paradosso: la qualità di un santo la riconosci dal modo in cui gli si avvicinano i postulanti. Quelli di Berlusconi sono automi, sembrano – guarda Bondi, che pare verrà sacrificato come il vitello grasso per evitare la conta dei voti – quei cagnetti ciondolanti che la gente impicca ai cruscotti delle auto».
La cosa straordinaria è che Napolitano non soddisfa bisogni, non premia. «Esatto, risponde a una esigenza profonda che è quella di essere ascoltati, riconosciuti. E, facci caso, non smentisce le sue parole, credo sia l'unico soggetto del panorama politico-istituzionale che non ha mai smentito di aver detto quello che ha detto. Parola di presidente. Meno male che c'è».

Corriere della Sera 27.12.10
«Democratici, così non va Sceglieremo caso per caso»
di Arturo Parisi Mario Barbi Antonio La Forgia Fausto Recchia Andrea Papini Albertina Soliani Giulio Santagata


Caro Bersani, quasi tutte le parole che negli ultimi diciotto anni hanno accompagnato, e guidato, il nostro cammino comune hanno perso il loro senso. Progetto, democrazia governante, scelta maggioritaria, alternativa, bipolarismo, vecchio ulivo, nuovo ulivo, primarie, democrazia di partito, categoria di partito e, soprattutto, partito nuovo: queste sono le più importanti ma non le uniche. Dire che abbiamo perso il bandolo della matassa è il minimo ma, assieme a questa asserzione, ci pare fondamentale riconoscere la necessità di aprire una fase di ricerca, di una ricerca che non possa essere più contenuta nei rituali e nelle procedure di partito ma debba svolgersi, invece, in un clima di assoluta libertà tra i cittadini. Nel corso del tempo si è affermato, per di più per iniziativa dei principali dirigenti del partito, un modo di «essere» partito e di «stare» nel partito che non corrisponde più alle forme evocate in passato dal termine «partito» e, allo stesso tempo, promesse in nome di un partito nuovo per il futuro. Sono talmente tanti gli episodi di questa mutazione che non ci si fa più caso. La costituzione di associazioni con propria autonoma e formale membership, il rifiuto di riconoscere le sedi ufficiali come primo e fondamentale luogo di analisi e valutazione dei principali passaggi politici ed elettorali, la remissione del mandato di segretario nazionale fuori dagli organi ufficiali, i coordinamenti extrastatutari sono solo alcuni episodi di questo lungo commiato. Non meno rilevanti sono poi gli episodi che hanno segnato la vita parlamentare. Valga per tutte la clamorosa dissociazione dall’indicazione del gruppo di un’intiera filiera della dirigenza, a cominciare da te, in occasione dell’emendamento sul finanziamento pubblico dei partiti. Senza la forza assicurata alla struttura di comando dal controllo delle risorse messe a disposizione dal finanziamento pubblico e senza il potere che viene ai vertici dirigenti dal conferimento di incarichi e posizioni, del partito resterebbe ben poco. In questo contesto non sorprende, per fare un esempio, leggere di patti decisivi per la vita del partito stretti durante un pranzo, e poi di una loro messa in causa in una successiva intervista, né dell’illustrazione sui media della linea di partito da parte di dirigenti pur autorevoli che non rivestono, tuttavia, nel presente responsabilità formali. Piuttosto che attardarci, come è capitato in passato, a recriminare sul mancato rispetto di forme ormai superate e di cambiamenti promessi, tanto vale prenderne atto. Siamo perciò arrivati alla conclusione di concorrere, d’ora innanzi, alla vita del partito valutando occasione per occasione, cominciando dalla prossima riunione della Direzione Nazionale, in relazione alla possibilità di prendere decisioni fondate su un trasparente confronto sufficientemente approfondito e assunte in contradditorio su documenti riconoscibili. Non riteniamo infatti produttivo continuare con la pratica di riunioni che precipitano in frettolosi voti unanimistici chiamati a confermare decisioni già assunte. Con amicizia Arturo Parisi Mario Barbi Antonio La Forgia Fausto Recchia Andrea Papini Albertina Soliani Giulio Santagata.

Corriere della Sera 27.12.10
D’Alema e i giudici «L’ambasciatore Usa mi ha frainteso»
Ma il Pdl lo attacca: è la solita doppia morale
di Andrea Garibaldi


ROMA — Massimo D’Alema dice che no, lui non ha mai pronunciato quella frase, non ha mai detto che «la magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano» . La frase sarebbe stata ascoltata nel 2007 dall’ambasciatore Usa a Roma, Ronald Spogli, in un colloquio con D’Alema, allora ministro degli Esteri, e riportata in un cable a Washington il 3 luglio 2008. Il cable è fra quelli diffusi da Wikileaks. Dice D’Alema: «Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni, viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di un fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me» . D’Alema non precisa circostanze del fraintendimento. Ma negli ambienti a lui vicini si fa notare come Spogli abbia riferito la frase di D’Alema un anno dopo averla raccolta. Fosse stata una dichiarazione così importante, l’ambasciatore avrebbe atteso tanto per comunicarla? E la memoria è così precisa 12 mesi dopo? Il Pdl però vuole prendersi qualche «rivincita» . Il vicepresidente dei senatori, Francesco Casoli, chiede che D’Alema, presidente del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza, riferisca urgentemente al Copasir stesso sulle «conseguenze per la sicurezza nazionale» derivanti dalla minaccia portata (in base al dispaccio Spogli) dalla magistratura. All’inizio di novembre il presidente D’Alema ha chiesto l’audizione di Berlusconi, sul tema della sua sicurezza personale, dopo la storia della marocchina Ruby. Casoli, tuttavia, non fa parte del Copasir. Ne fa parte, invece, Gaetano Quagliariello, vicepresidente vicario del gruppo Pdl al Senato, che corregge: «Certo, un presidente del Copasir che riferisce al Copasir sarebbe divertente. Ma quella di Casoli è una provocazione. Non insisteremo» . A Quagliariello preme di sottolineare «la doppia morale del centrosinistra: noi fin dall’inizio del caso Wikileaks abbiamo sostenuto che i report diplomatici sono uno strumento nel quale vengono messe in chiaro notizie non accertate o pettegolezzi. Quando questo materiale toccò Berlusconi si arrivò quasi a chiedere l’impeachment. Ora, che riguarda D’Alema, viene considerato pour-parler o errore dell’ambasciatore Spogli» . D’Alema non ha mai nascosto la sua posizione dialettica nei confronti della magistratura, spesso in contrasto con altri settori del suo partito. Nel 1993 definì «soviet di Milano» il pool di «mani pulite» . Nel 1997, segretario pds, in una direzione dichiarò: «Non sono del partito dei giudici ma del partito dello stato di diritto» . Nel giugno 2007, investito dal caso Unipol-Bnl per un colloquio con il presidente della compagnia, Consorte, parlò del «suk arabo delle intercettazioni, sotto lo sguardo trascurato della magistratura» .

l’Unità 27.12.10
Difformità di opinioni nel Pd sull’intesa raggiunta a Torino senza la firma della Fiom-Cgil
Una «regressione» per Fassina, ma c’è chi plaude: dai piemontesi agli ex Margherita
Fiat, la linea Marchionne divide anche i Democratici
Pareri diversi nel Partito democratico sull’accordo Mirafiori. Per il responsabile Lavoro apre la strada allo smantellamento del contratto nazionale. Il segretario piemontese, invece, lo ritiene un risultato importante.
di Maria Zegarelli


L’accordo raggiunto su Mirafiori non divide soltanto il sindacato. Fiat e Marchionne impongono nuove regole industriali destinate a lasciare un segno profondo nelle relazioni sindacato-impresa ma anche nella riorganizzazione del lavoro. E se dal governo Silvio Berlusconi lo definisce addirittura un «accordo storico» e il ministro Maurizio Sacconi «una scommessa vinta», nel Partito democratico anche in questo caso i pareri sono difformi.
Per Stefano Fassina, responsabile Lavoro del Nazareno, «non può essere giudicato un successo da nessuno, è un accordo regressivo, frutto di una asimmetrica nei rapporti di forza tra capitale finanziario libero nella dimensione globale e lavoro prigioniero della dimensione locale. Ma è anche frutto di regole della rappresentanza inadeguate e di inadeguate regole della democrazia nei luoghi di lavoro». Secondo Fassina l’accordo separato apre «allo smantellamento del contratto nazionale, alla negazione della democrazia sindacale alla concorrenza al ribasso sulle condizioni del lavoro».
PERCHÉ LA ROTTURA?
Il senatore Achille Passoni, con un passato da sindacalista mai dimenticato, è molto critico. «Non si capisce dice da dove arrivi tutto questo entusiasmo del governo che durante tutta questa vicenda non ha mai speso una parola. Se gli investimenti sono veri, cose sulla quale è bene tenersi ancora un margine di verifica, questo è un fatto importante. Ma continuo a pensare che investimenti e nuovi rapporti sindacali impronati su consenso e partecipazione non siano in contraddizione. Dove sta scritto che per una nuova organizzazione del lavoro si debba arrivare ad una rottura?». Grande preoccupazione anche per Michele Ventura, deputato, secondo cui «la nuova dimensione del lavoro in un’epoca di globalizzazione avrebbe imposto una riflessione sulle conseguenze e invece le risposte rimangono nazionali in un contesto internazionalizzato». Grave, secondo Ventura, che in Italia il più grande gruppo industriale si sia mosso in una logica isolata dal resto del mondo produttivo, «questo non è un avanzamento per il mondo del lavoro». Piero Fassino, candidato sindaco del capoluogo piemontese, definisce «importante l’accordo perché consente di un perdere l’investimento», ma aggiunge il fatto che non sia stato sottoscritto da tutte le parti sindacali è un punto delicato che va affrontato con responsabilità: chi non ha firmato non deve essere oggetto di discriminazione». Anche il segretario regionale del Pd piemontese, Gianfranco Morgando, ritiene la firma dell’accordo, «un fatto molto importante per Torino. Era prioritario salvaguardare l’investimento per le conseguenze che questo comporterà per il futuro produttivo ed occupazionale della nostra città e del Piemonte». Quanto alla rottura nel sindacato per il futuro, si augura, che «si possa recuperare una strategia comune». Francesco Merlo, vicepresidente della Commissione Vigilanza Rai, si stupisce, al contrario, «che qualche sindacato abbia rifiutato la firma dell’accordo essenziale per il futuro di migliaia di lavoratori, un atteggiamento al di là del rispetto di tutte le opinioni, che dimostra scarsa cultura di governo e fortemente condizionato da posizioni pregiudiziali ed ideologiche». Distanza siderale da Roberto Della Seta: «Il modello sociale e industriale disegnato dall’accordo imposto da Marchionne a una parte del sindacato tutto è meno che moderno, propone piuttosto un ritorno indietro di cinquant’anni, con l’idea non proprio futurista di estromettere dalla fabbrica i sindacati e i lavoratori dissenzienti».

Repubblica 27.12.10
Il segretario generale parla di ritorno agli anni Cinquanta con l´esclusione della Fiom dalla fabbrica
Camusso all’attacco di Marchionne "Antidemocratico e autoritario"
La leader Cgil: Cisl e Uil sono ormai sindacati aziendalisti
di Roberto Mania


Noi non avremmo mai firmato un accordo concordando l´esclusione di un sindacato dall´azienda
O fa sentire la sua autorevolezza nel sistema delle imprese o prevarranno le regole della giungla
Un sindacato non può limitarsi all´opposizione, altrimenti rinuncia alla tutela concreta dei lavoratori

ROMA - «Sergio Marchionne? Un antidemocratico, illiberale e autoritario», risponde Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che per la prima volta parla dell´accordo separato alla Fiat-Chrysler raggiunto alla vigilia di Natale. Un´intesa - dice - che la Cgil non avrebbe mai firmato perché «non si può concordare l´esclusione di un sindacato». Camusso attacca Cisl e Uil: «Si sono trasformate in sindacati aziendalisti che propagano la posizione della Fiat». Poi la Confindustria: «O fa sentire la sua autorevolezza nel sistema delle imprese oppure prevarranno le regole della giungla. Non può limitarsi a guardare perché è in atto un´offensiva pure nei suoi confronti». Ma ci sono anche errori della Fiom, sostiene il leader della Cgil: «Dovremo discuterne al nostro interno». Nessuno sciopero in vista (a parte quello della Fiom) ma una grande campagna sul tema della libertà sindacale. E il Pd? «Bene Bersani - risponde Camusso -, ma troppo spesso a sinistra si sviluppa uno stucchevole dibattito sull´innovazione senza accorgersi che può rappresentare anche un profondo arretramento».
Cosa significa l´esclusione della Fiom da Mirafiori, fabbrica simbolo nella storia industriale italiana?
«Significa il ritorno agli anni Cinquanta. Allora c´erano i reparti confino, oggi c´è l´esclusione della rappresentanza sindacale. L´idea, tuttavia, è esattamente la stessa. E cioè quella di costruire un sindacato non aziendale bensì aziendalista il cui unico scopo è quello di propagare le posizioni dell´impresa».
Non le pare un po´ offensivo nei confronti della Cisl e della Uil?
«Guardi, nel suo libro "Il tempo della semina", Bonanni racconta con orgoglio come, proprio negli anni Cinquanta, la Cisl rifiutò la richiesta della Fiat di inserire nelle liste cisline per l´elezione delle Commissioni interne alcuni nomi graditi all´azienda. È Bonanni che illustra bene come il sindacato aziendale sia la negazione di quello confederale. Ora dovrebbe spiegarci lui come considera un accordo che contiene al suo interno le regole per escludere un altro sindacato confederale».
Si sta prefigurando un sistema di relazioni industriali senza la Cgil?
«Secondo me la Fiat ha deliberatamente costruito una successione di eventi per negare la libertà sindacale».
Marchionne ha sempre detto che tesi di questo genere non stanno né in cielo né in terra.
«E allora, perché non applica l´accordo interconfederale del ´93 sulla libertà sindacale? Vorrei poi ricordare a Confindustria che non può restare immobile se vuole evitare che salti, come ha riconosciuto, il sistema della rappresentanza sindacale. Se non si vuole rischiare che il conflitto sociale diventi ingovernabile bisogna al più presto trovare un accordo sulla rappresentanza e la democrazia sindacali che completi il protocollo del ‘93».
Spetta alla Confindustria aprire il negoziato?
«È irrilevante chi lo fa. Io credo che Cisl e Uil abbiano sottovalutato l´effetto dell´intesa per Mirafiori. Perché quando si permette a una grande impresa di escludere un sindacato, si sa con chi si comincia ma non si sa con chi si finisce».
Considera Marchionne un innovatore o, come si diceva un tempo, un reazionario?
«Penso che il tratto distintivo di quell´accordo sia il suo essere anti-democratico. Direi che Marchionne è un anti-democratico e illiberale. Il tema vero è questo. Aggiungo che non può esserci un modello partecipativo che si fondi sull´impedimento della libertà sindacale».
Ma la Fiom non poteva firmare "turandosi il naso", rimanendo però all´interno della fabbrica?
«È difficile applicare il principio del voto con il naso turato nelle trattative sindacali. La Fiom, possibilmente con la Cgil, dovrà aprire una discussione su questa sconfitta. Perché, l´ho già detto, un sindacato non può limitarsi all´opposizione altrimenti rinuncia alla tutela concreta dei lavoratori».
Sta criticando la Fiom. Le colpe, allora, sono anche a casa sua?
«Quando c´è una sconfitta non possono non essere stati commessi degli errori. Nessuna grande sconfitta è solo figlia della controparte. Ce l´ha insegnato Di Vittorio: se anche ci fosse una responsabilità in percentuale minima, su quella ci si deve interrogare».
Perché condivide il no all´accordo per Mirafiori?
«Perché quella proposta è poco rispettosa della fatica del lavoro. Non si può applicare ai lavoratori la cosiddetta "clausola di responsabilità", secondo la quale non è possibile opporsi all´intesa e scioperare anche se le condizioni di lavoro diventano insopportabili. Una clausola di quel tipo possono sceglierla sindacati e imprese ma non possono subirla i lavoratori».
Dunque, questo è il motivo del no?
«Questo è il motivo . Comunque la Cgil non firmerebbe mai un accordo che escludesse un altro sindacato».
Ammetterà almeno che Cisl e Uil hanno reso possibile l´investimento della Fiat e così il futuro produttivo di Mirafiori?
«Capisco questo ragionamento e lo considero un tema importante. Tuttavia mi piacerebbe sapere qual è il progetto "Fabbrica Italia" e come la Fiat pensi di colmare il ritardo che ha accumulato rispetto ai suoi concorrenti sul versante dei modelli. Ma anche per questo continuo a non comprendere quale necessità ci fosse di ricorrere a un modello autoritario che ci riporta agli anni Cinquanta».

Corriere della Sera 27.12.10
Camusso, messaggio a Confindustria per «allearsi» contro Marchionne
L’idea del segretario Cgil: è interesse comune circoscrivere l’anomalia Fiat
di  Enrico Marro


ROMA — Qualche giorno di riposo nella sua Milano e poi dal 3 gennaio di nuovo a Roma per lavorare a quella che per il segretario della Cgil, Susanna Camusso, è la priorità del 2011: «Aprire in tempi rapidi un tavolo per un accordo sulle regole della rappresentanza sindacale» . Una proposta che la Camusso lancia innanzitutto a Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, perché è convinta che gli accordi Fiat di Pomigliano e di Mirafiori pongano un problema alla Fiom-Cgil che non li ha firmati, ma anche all’associazione degli imprenditori. Alla Cgil perché, come ha detto più volte il nuovo leader ai suoi collaboratori, la Fiom non può continuare a collezionare sconfitte senza cambiare linea. E alla Confindustria, perché sarebbe la prima a fare le spese di un allargamento del sistema Marchionne. Insomma, Susanna Camusso vede un interesse convergente della Cgil e della Confindustria a circoscrivere quella che sarebbe l’anomalia Fiat e a rilanciare il sistema delle relazioni industriali. L’obiettivo è un’intesa interconfederale tra sindacati e Confindustria, sul modello del pubblico impiego (quindi poi da tradurre in legge), per verificare anche nel privato chi rappresenta chi ed è titolato a firmare accordi validi per tutti. Un sistema per garantire il pluralismo e il ruolo degli iscritti, sul quale insiste in particolare la Cisl, ma anche i diritti sindacali di chi prende i voti dei lavoratori, rendendo impossibili gli accordi «per ammazzare un sindacato» , come la Cgil e la Fiom giudicano quelli voluti da Marchionne con il via libera di Bonanni (Cisl) e Angeletti (Uil). Se le risposte della Confindustria alla sua proposta saranno positive, anche la pressione della Cgil per ammorbidire la Fiom diventerebbe più forte. Camusso ha convocato per il 10 gennaio l’assemblea nazionale delle Camere del Lavoro. Circa 500 fra i massimi dirigenti della Cgil arriveranno da tutti i territori a Chianciano per fare il punto e impostare il 2011. Che il segretario della Cgil vorrebbe all’insegna della ripresa di un dialogo costruttivo, al quale necessariamente dovrebbe piegarsi anche la Fiom. Se invece né Marcegaglia né Bonanni e Angeletti volessero aprire la discussione sulla rappresentanza, questo verrebbe interpretato dalla Cgil come un’ulteriore dimostrazione di un disegno volto a escluderla dal gioco. E ciò renderebbe inevitabile una reazione, rafforzando i falchi. Secondo la Camusso, si fa ancora in tempo ad evitare lo scenario peggiore. In ogni caso lei accelera. Sa che la Fiom ha convocato per mercoledì il comitato centrale che potrebbe proclamare lo sciopero generale dei metalmeccanici. Ma vorrebbe arrivare a produrre un cambiamento di clima prima della riapertura dei cancelli di Mirafiori e prima del referendum previsto per metà gennaio. Due, tre settimane al massimo per dare una prospettiva nuova al 2011. E uscire da una situazione pesante. In questi primi due mesi da leader, Susanna Camusso ha toccato con mano l’isolamento istituzionale nel quale è finita la Cgil. Rapporti con Berlusconi: inesistenti. Con i vari ministri: sporadici. Con Marcegaglia: occasionali. Con Bonanni e Angeletti: formali. Con Marchionne: zero assoluto, non si sono mai parlati, nemmeno per gli auguri. Restano i lavoratori: i 5,7 milioni di iscritti (di cui 2,9 pensionati), le migliaia di delegati nelle aziende e negli uffici e il rapporto rilanciato con i giovani proprio in questi primi due mesi di gestione Camusso. Ma tutto questo non basta, se oltre alla protesta non si porta a casa qualcosa.

l’Unità 27.12.10
Esplosioni a catena a Jos dove da tempo si combattono gruppi estremisti di fede diversa
Attaccate due chiese a Maiduguri, nel nordest del Paese: uccise almeno sei persone
Scontri fra islamici e cristiani Decine di morti in Nigeria
Oltre 30 morti e una settantina di feriti la notte di Natale in Nigeria, nella città di Jos. Devastata anche una chiesa, morti il sacerdote che officiava la messa e sei fedeli. Frattini convoca l’ambasciatore nigeriano.
di Rachele Gonnelli


Case date alle fiamme, corpi coperti di sangue portati via a braccia dalle strade. Sono le testimonianze che arrivano dalla città di Jos nella regione centrale del Pla-
teau in Nigeria, il più popoloso degli stati Africani e uno dei più inquieti. Le violenze si sono protratte fino a ieri ma sono scoppiate la sera della Vigilia quando anche una chiesa cattolica a Maiduguri è stata devastata proprio mentre vi si celebrava la messa. Morti il sacerdote officiante e sei fedeli.
Complessivamente la notte di Natale si sono contate 32 vittime e almeno 74 feriti negli ospedali. È stata raccontano i media locali una notte si saccheggi, barricate, auto incendiate, devastazioni. E per la prima volta è comparsa in città la
dinamite. Le autorità parlano di «molteplici esplosioni» in «attacchi simultanei» almeno sette, a quanto pare uno dei quali ha colpito un mercato affollato di persone intente a fare gli acquisti dell’ultimo minuto prima della festa.
Il presidente nigeriano Jonathan Goodluck Ebele ha espresso il suo «sgomento» per l’alto numero di vittime «sia cristiane che musulmane» e ha promesso l’arresto dei responsabili di questi atti che lo stesso capo di Stato Maggiore dell’esercito, Azubika Ihejirika, ha definito «terroristici». Ciò che è certo è che la situazione è del tutto sfuggita di mano alle forze dell’ordine che soltanto ieri, con l’arrivo a Jolo del vicepresidente Namadi Sambo, hanno ripreso il controllo delle strade. Cosa e chi abbia scatenato tanto orrore, non è chiaro. Pare che tutto sia iniziato da un’esplosione sul ponte verso Gada Biyu e che da lì, in mezzo ad altre esplosioni di Ied, ordigni artigianali, sia partita una cieca rappresaglia. I principali sospettati al momento sono i membri della setta fondamentalista islamica di Boko Haram. Il governatore del Plateau Jonah Jang ha messo in correlazione gli attentati con la campagna elettorale le primarie presidenziali sono il 13 gennaio -, puntando il dito contro «persone altolocate» che potrebbero avere interesse a strumentalizzare scontri etnici e religiosi a fini politici. Per il posto di candidato presidente del partito al governo il Pdp si sfidano l’attuale presidente Goodluck, che viene dal Sud cristiano e animista, e il suo antico rivale Atiku Abubakar, del Nord, a prevalenza musulmano.
Di fronte a questo quadro tanto complesso quanto opaco il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, anticipando persino il Segretario di Stato vaticano, ha convocato l’ambasciatore nigeriano per chiedergli conto dell’ondata di «intolleranza».
Ancora più arduo etichettare la bomba esplosa a Sulu nell’isola di Jolo dell’arcipelago delle Filippine la mattina di Natale. Anche qui è stata colpita una chiesa, nella missione Asturias, e tra i 9 feriti c’è anche qui un religioso, don Romeo Villanueva. L’ordigno secondo la polizia locale che proprio a pochi metri dalla chiesa colpita ha il suo quartier generale non mirava a fare una strage e infatti le vittime presentano solo ferite alle gambe. Il governatore Ansarudin Adiong, della minoranza musulmana, ha definito l’attacco «satanico e anti islamico, perchè l’Islam insegna il rispetto dei luoghi di culto e dei religiosi anche di altre confessioni». Principale sospettato è il guerrigliero Galib Andang, ex ufficiale maoista del Fronte di liberazione Moro poi passato ai radicali islamici di Abu Sayyaf collegati con la Rete di Al Qaeda. Galib ha fin dal ‘93 preso di mira chiese cattoliche e preti e potrebbe ora muoversi autonomamente con un suo gruppo di fedelissimi. Il fronte Moro invece proprio sabato scorso ha fatto un notevole passo in avanti per siglare la pace con le truppe governative grazie alla mediazione malese. Mentre il gruppo di Abu Sayyaf quello stesso giorno stava negoziando il riscatto di un commerciante rapito nella vicina isola di Basilan.

Corriere della Sera 27.12.10
Lo scontro tra Oriente e Occidente si giocherà in terra d’Africa
di Benny Morris


Dimentichiamo Osama bin Laden, dimentichiamo il muro di sicurezza tra Gaza e Israele, e dimentichiamo — per un istante— gli attentatori pazzi all’opera in Iran. Teniamo d’occhio piuttosto il Sudan, perché rischia di trasformarsi nel prossimo teatro di guerra nell’attuale e perdurante scontro di civiltà. Da decenni le popolazioni cristiane e animiste della regione meridionale del più grande Stato africano (due milioni e mezzo di chilometri quadrati) combattono per liberarsi dai dittatori arabi musulmani che li governano da Khartoum. Nei ripetuti episodi di guerra civile, che si susseguono da cinquant’anni a questa parte, hanno trovato la morte da uno a due milioni di persone, soprattutto nelle regioni meridionali, ogni qualvolta i mezzi corazzati e i caccia bombardieri piombano dal nord a devastare e annientare i loro villaggi. Oggi queste popolazioni vogliono la secessione e il 9 gennaio 2011, in base agli accordi firmati nel 2005, si terrà un referendum sull’integrità territoriale del Sudan. Tutti gli osservatori concordano che le operazioni di voto, se correttamente eseguite e conteggiate, saranno in misura preponderante a favore della spartizione del Paese. Come reagirà il nord? A giudicare dal comportamento della classe dirigente nell’ultimo mezzo secolo e, più di recente, dalle dichiarazioni del presidente Omar al-Bashir verso i suoi concittadini musulmani — ma neri — del Darfur, nel Sudan occidentale, la reazione del nord sarà la peggiore immaginabile. Il sud possiede i giacimenti petroliferi, la più preziosa risorsa naturale del Sudan, e il nord non è disposto a rinunciarvi alla leggera, proprio come con grande difficoltà è stato costretto a fare a meno della sua tradizionale riserva di schiavi provenienti dalle regioni meridionali. (È da decenni che l’America bianca recita il mea culpa per i crimini commessi dai suoi antenati nei confronti degli schiavi neri, importati dall’Africa, sfruttati e oppressi. Il mondo arabo, che per secoli ha saccheggiato le riserve umane dell’Africa nera, e si calcola abbia ridotto in schiavitù molti milioni di esseri umani, se ne infischia largamente di questo orribile crimine che macchia la sua storia) Nei mesi successivi al referendum, le popolazioni meridionali, sotto la guida del Movimento per la liberazione del popolo sudanese, fondato da Salva Kiir, cercheranno di mettere in piedi il loro Stato. Si spera che arriveranno aiuti dall’America e dall’Europa, e forse anche da Israele. Ma il nuovo Stato avrà una nascita assai travagliata. Innanzitutto gli occorrerà un nome (Azanya?), forse una lingua nazionale per sostituire l’arabo (il Moru?). Quasi subito, moltitudini di rifugiati (quanti milioni?)— tutti quei cittadini meridionali emigrati nel ricco nord nel corso degli anni, dove sono stati sfruttati come sottospecie umana — affluiranno nel sud liberato. La realizzazione di infrastrutture— il nord ha costruito pochissime strade al sud — richiederà miliardi, e molti anni di lavoro. La ricostruzione delle zone devastate dalla guerra civile sarà anch’essa un’impresa immane. Resta tuttavia la preoccupante incognita se il nord, governato da un uomo accusato di genocidio e di crimini contro l’umanità (nel Darfur) dal Tribunale internazionale dell’Aia, sia davvero disposto a consentire, nel sud del Paese, la pacifica e ordinata transizione da provincia arretrata a nuova nazione. A giudicare dal passato, scorreranno fiumi di sangue prima che il Sudan meridionale possa diventare un libero Stato, se mai lo sarà. Certo, il mondo arabo e musulmano, come da copione, a prescindere da qualunque considerazione di ordine morale, appoggerà sempre e comunque le decisioni di Bashir. Nei Paesi che fanno da ponte tra l’Occidente (di retaggio greco-giudeo-cristiano) e l’Oriente (musulmano) — nelle Filippine, in Thailandia, Kashmir, Iraq (dove proprio in questi giorni la minoranza cristiana viene emarginata ed esiliata), Nigeria, Israele/Palestina, e fin nelle strade e periferie delle città occidentali (tra le quali, di recente, anche Stoccolma) — si accendono i focolai dello scontro globale tra le civiltà. E le zone di confine tra il nord e il sud del Sudan, purtroppo, non tarderanno a unirsi alla lotta. (traduzione di Rita Baldassarre)

l’Unità 27.12.10
Intervista a Tony Gatlif
«Lo sterminio dei rom che la Francia non vuole ricordare»
di Flore Murard-Yovanovitch


Il regista di origini gitane parla di «Korkoro» il suo nuovo film premiato al MedFilm Festival di Roma. Storia dell’internamento del suo popolo nei lager francesi del regime di Vichy. E in Italia non trova una distribuzione...

Memoria cancellata. «Il genocidio dei rom che ha fatto 500mila morti in tutta Europa è negato, nello stesso modo in cui è negato lo stesso popolo»
La denuncia. «Ancora oggi è una storia troppo poco conosciuta. Ma la discriminazione degli zingari è ancora viva ovunque»

Al MedFilmFestival diRoma l’ultimo film di Tony Gatlif, Korkoro (Freedom), proiettato in esclusiva, si è aggiudicato la Menzione Speciale della Giuria. Kabyle e rom, Gatlif è il vitale cineasta che più di ogni altro ha raccontato e descritto, inventandosi una sorta di «cinema nomade», la vita e la cultura itinerante degli zingari. Il suo occhio ha seguito il continuo viaggio dei rom dall’India alla Spagna, con poesia e musiche senza fiato.
In Korkoro, che rischia di non essere nemmeno distribuito in Italia, racconta la tragedia di cui è stata vittima la popolazione rom durante le persecuzioni del regime di Vichy, collaborazionista del regime nazista; ma il film esce dai confini storici per mettere in luce la difficile sorte che i rom subiscono ancora oggi. Per restituire bellezza e dignità al popolo gitano.
Il film racconta, in particolare, la storia di persecuzioni e internamento degli zingari in campi di detenzione, durante il regime francese di Vichy che si era alleato con gli occupanti nazisti tedeschi. Perché ha scelto quelle pagine nere per raccontare oggi la vita degli zingari?
«Ho scelto il contesto delle leggi discriminatorie di Vichy contro i rom, perché è ancora oggi una storia troppo poco conosciuta; fa ancora parte, a malapena, dei libri di scuola. Si conosce un po’ meglio la deportazione degli zingari “francesi” verso i campi di sterminio nella Germania nazista, ma si sa meno che furono 20.000 quelli rinchiusi in campi francesi, da poliziotti francesi, e questo fino al 1946, malgrado la guerra fosse finita nel 1945. Il genocidio (Pojamos) dei rom, che ha fatto 500.000 morti in tutta Europa, è ancora negato, nello stesso modo in cui viene negato lo stesso popolo». Senza corroborare l’idea di un ritorno a tali persecuzioni collettive, l’odierno atteggiamento discriminatorio di governi europei non rischia di legittimare un senso di intolleranza, quando non di vera e propria xenofobia, nei confronti degli zingari? Secondo lei sono di nuovo a rischio di violenza? «Certo, ci sono stati vari attacchi violenti contro i rom, dall’Ungheria all’Italia, passando per la Francia. Le frontiere europee sono scomparse per tutti tranne che per i rom... È la ragione per cui non bisogna lasciare politici ignoranti parlare senza misura, senza consapevolezza del peso delle loro dichiarazioni. Sparlare dei rom è come lanciare i cani su di loro. Chi, come noi o come i media, deve opporre resistenza, come è avvenuto quest’estate in Francia per ostacolare le espulsioni. Il mio ruolo di cineasta è stato quello di allertare su cosa sarebbe successo appena alcuni mesi dopo aver girato il film: mi sentivo che la nostra epoca avrebbe riprodotto una “eco” degli anni 30. Certe “soluzioni” politiche hanno avuto e hanno ancora come scopo di “rendere invisibili” gli zingari». Perché il nomadismo, la libertà e la diversità fanno così paura all’Europa. Forse perché la sua è una geografia stanziale, sedentaria, fissa?
«Da sempre l’Europa ha nutrito una forma di “repulsione” nei confronti degli zingari, ma oggi come mai il suo mondo è stretto, gretto, meschino, pieno di moralismo e di consumismo. Le popolazioni europee mostrano una drammatica “chiusura” mentale. In questo mondo ottuso, i diversi sono visti male. E il popolo rom spicca in “visibilità” ancor di più, perché vive la sua libertà in modo totale, senza freni. Non a caso ho intitolato il mio film Libertà (ma Korkoro nel film risuona anche in un’altra parola Chorchoro che in romanè significa solo, povero, nda)». Riconoscendo l’importante contributo del popolo rom alla cultura di ogni Paese che ha attraversato, con le sue vaste contaminazioni artigianali e musicali, un’Europa che lo “annulli” non sarebbe più impoverta, meno Europa?
«Il popolo rom ha contribuito immensamente alle varie culture, nel trasmettere arrivando dalla profonda India, una carovana di storie orali, di parole nuove, musiche e danze, “savoir-faire” e tecniche (come i lavori in ferro battuto o in altri metalli). Gli zingari sono come api. Senza di loro non ci sarebbero più fiori né alberi. Senza di loro il flamenco sarebbe solo un vago rumore di tamburi e violini: non sarebbe il flamenco!»

Corriere della Sera 27.12.10
Riforma sanitaria Obama rilancia il «piano fine vita»
I repubblicani accusano: «Burocrati della morte»
di  Maria Serena Natale


I democratici l’hanno tenuta in sordina il più possibile, finché la notizia è comparsa sul New York Times il giorno di Natale, rilanciando il dibattito sulle prerogative della politica nei territori della coscienza. Stralciata dalla riforma sanitaria faticosamente approvata lo scorso marzo, dal primo gennaio 2011 sarà di fatto ripristinata la possibilità per i pazienti americani di rinunciare a terapie invasive ed esprimere preferenze sui trattamenti di fine vita. Tutto grazie a un regolamento contenuto nel Medicare, il programma federale di assicurazione che copre gli over 65: il governo pagherà il servizio di informazione prestato dai medici sulle diverse opzioni per interrompere cure aggressive e sulle procedure per predisporre «direttive anticipate» con le quali i cittadini potranno mettere nero su bianco fino a che punto desiderino essere assistiti in caso di malattie che limitino la loro capacità di comunicazione. Il riferimento a qualsiasi tipo di indicazione anticipata era stato eliminato dalla versione definitiva della legge di riforma della sanità perché considerato dai critici, come il prossimo Speaker della Camera John Boehner, un pericoloso varco che apriva la strada all’eutanasia. L’Amministrazione Obama ha recuperato il concetto nella stesura dei regolamenti attuativi che entreranno in vigore con il nuovo anno e che includono la «pianificazione volontaria» anche sul fine vita tra i temi da affrontare nelle visite di controllo annuali previste e coperte dal Medicare. «La programmazione — si legge nel preambolo dei regolamenti che cita studi dell’Università del Colorado e ricerche pubblicate dal British Medical Journal — migliora il livello di soddisfazione del paziente e riduce lo stress, l’ansia, la depressione nei familiari che sopravvivono» . «I malati non saranno più in grado di controllare i trattamenti nella fase finale» , denuncia il movimento pro-vita Life-Tree. E contro «un governo orwelliano che inganna e agisce nel segreto» , i siti Web vicini ai repubblicani riprendono la formula dei «panel della morte» coniata nel 2009 dall’ex candidata alla vice presidenza Sarah Palin in riferimento a presunti «comitati di tecnici e burocrati» delineati dalla riforma «per decidere quali pazienti curare e quali abbandonare» . Proprio del pericolo di ravvivare la «leggenda» paliniana parlavano alcune email diffuse tra attivisti democratici ai primi di novembre e intercettate dal Times. «Invitiamo a festeggiare la vittoria con moderazione — si legge in un messaggio dell’ufficio del deputato dell’Oregon Earl Blumenauer, tra i principali sostenitori dell’escamotage della Casa Bianca— poiché i regolamenti possono essere ancora modificati, soprattutto se i leader repubblicani tenteranno di utilizzare questo piccolo provvedimento per perpetuare il mito dei panel» , che non compaiono nelle normative ma hanno toccato un nervo scoperto nella società americana: secondo un recente sondaggio della Kaiser Family Foundation per il 30 per cento degli over 65 la riforma li prevede davvero. Politicamente, la strada dei regolamenti attuativi potrebbe dimostrarsi uno strumento strategico importante a disposizione dei democratici per aggirare l’ostruzionismo nel nuovo Congresso uscito dalle elezioni di midterm, con i repubblicani tornati in maggioranza alla Camera, e pronti ad accogliere Obama al rientro dalle vacanze.

In Italia «direttive anticipate» sul fine vita sono previste da un testo del Comitato Nazionale di Bioetica (2003). Nel 2009 il caso Englaro riaprì il dibattito sull’urgenza di una legge
In Olanda i pazienti possono mettere per iscritto una «direttiva sull’eutanasia» . Per porre fine alle cure occorre poi che due medici concordino sull’impossibilità di guarigione
Da vent’anni in Svizzera un malato allo stadio terminale può rivolgersi a una delle sei associazioni che offrono il servizio e fare richiesta per un suicidio assistito
In Germania la legge sul testamento biologico è stata approvata nel 2009: prevede una dichiarazione scritta del paziente, assistenza di fiduciario e medico curante

Repubblica 27.12.10
Sulle cure ai malati terminali i repubblicani contro Obama
Usa, direttiva anti-accanimento terapeutico. "Eutanasia di Stato"
di Angelo Aquaro


NEW YORK - «Se hai un altro infarto e il tuo cuore smette di battere vuoi che proviamo a farlo ripartire o no?». «Se stai morendo di enfisema vuoi restare attaccato alla macchina respiratoria per il resto della tua vita?». «Se sei un malato terminale di cancro vuoi che utilizziamo tutta la tecnologia disponibile per ritardare il più possibile la morte?». I medici che formuleranno queste domande ai malati che lo vorranno potranno presentare il proprio conto alla nuova assistenza sanitaria obbligatoria con cui Barack Obama sta ridisegnando l´America. E le assicurazioni, che per la verità i cittadini continuano a pagare profumatamente, saranno costrette al rimborso.
Per i repubblicani, Sarah Palin in testa, che aveva definito la commissione che studiava questa norma «il panel della morte di Obama», il provvedimento che il presidente aveva previsto nella sua riforma avrebbe spianato la strada all´eutanasia di Stato. E proprio per evitare altre polemiche i democratici avevano stralciato la norma. Che però rientra adesso dalla finestra di uno di quei regolamenti attuativi con cui - gli esperti concordano - il presidente che ha perso la maggioranza a novembre tenterà ora di portare avanti il suo programma di riforme, malgrado un Congresso avverso.
L´Amministrazione ha cercato di tenere la direttiva segreta fino all´ultimo. «Meno se ne parla e con più successo riusciremo a farla passare» diceva la mail di uno dei firmatari. «Per fortuna nessuno dei media se ne è ancora accorto». Se ne è accorto adesso il New York Ties che ha sbandierato il provvedimento in prima pagina. Per i proponenti si tratta di dare ai malati «più controllo delle cure che ricevono». Per i movimenti pro-life invece «la tristemente famosa Norma 1233 è viva e vegeta: e i pazienti perderanno così l´abilità di controllare i trattamenti di fine vita».
Il provvedimento cita uno studio pubblicato dal British Medical Journal e un altro dell´università del Colorado secondo cui le discussioni medico-paziente sul fine vita e la pianificazione delle cure «diminuiscono anche stress, ansia e depressione post mortem nei parenti». Forse anche perché, andrebbe aggiunto, questa timida apertura al rifiuto dell´accanimento terapeutico eviterebbe alle disgraziate famiglie l´accanimento, questo sì, delle assicurazioni. Che non si fanno scrupolo, qui, di presentare ai parenti del deceduto il conto di cure costosamente inutili.

l’Unità 27.12.10
Tante le pubblicazioni sul tema dei ragazzi affetti da autismo e le loro relazioni familiari
Cronache attente sulla loro crescita e soprattutto sui rapporti con i loro fratelli e sorelle
Mio fratello che si torce le dita
Da «Abbracciar nessuno» ad «È non è», si moltiplicano i libri che analizzano la vita in famiglia con i ragazzi autistici e i loro rapporti con i fratelli considerati i loro «guardiani»
di Manuela Trinci


È vero, loro sono bambini speciali, pesci fuor d’acqua, poeti silenziosi, abitanti della luna. Mangiano pane e stelle e fanno volare la sabbia. Sono bambini autistici che la letteratura ha reso indimenticabili icone di un mondo arcano che sfugge alla comprensione dei più.
C’è Silenzia, grassa ... o solo morbida, a volte pettinata con trecce piccine di fili colorati. Silenzia non parla, si sbrodola mentre mangia, corre a gambe larghe, lenta. E ride sempre e di tutto. A scuola la prendono in giro, salvo Damiano, che viene da una terra lontana, che conosce la solitudine, e salvo la maestra che pare una chioccia. (Ad abbracciar nessuno di A. Papini, Fatatrac).
E poi c’è Tobias, Tobias Leon per meglio dire. Non ascolta Tobias? Non guarda? Forse, ma le parole, gli sguardi, l’amore incondizionato di una mamma coraggiosa e salda da qualche parte forse ritorneranno, forse si faranno vivi in uno spazio infinito, dove non abita nessuno e non si sa che cosa potrà essere trovato (Il mondo è anche di Tobias di E. Spagnoli Fritze – illustrazioni di M. Ferri, Lapis).
E ancora c’è Matthieu con gli occhi pieni di cose invisibili. Un bambino irraggiungibile che parla ma solo a se stesso, scoraggiante, scoordinato, che butta tutto all’aria abbarbicato al suo cucchiaio. (Il bambino che mangiava le stelle di Kochka, Salani).
Ma ci sono anche altri bambini, per lo più lasciati in penombra nella costellazione familiare. Di loro si parla poco. Sono una miriade di fratellini e sorelline di bambini autistici che non di rado avvertono una sorta di sproporzione nelle attenzioni dei genitori, che sono gelosi ma si guardano bene dal dirlo per non rompere equilibri da funamboli e per non apparire ingrati alla Dea bendata che li ha preservati dal peggio. E magari rischiano di accontentarsi solo della stanchezza e della fatica di babbo e di mamma e delle loro emozioni scariche.
«Accettare Pulce è stato più facile per me che per i miei genitori», racconta la sorella, la tredicenne Giovanna (Pulce non c’è di G. Rayneri, Einaudi). Perché i genitori convivono con un’inevitabile sensazione di fallimento e con l’ansia del futuro, mentre per Giovanna Pulce non è affetta da autismo. È solo sua sorella. Una tipa allegra che ama nascondere i grissini sotto il divano, che fa sculture con il pecorino, adora la focaccia al sesamo beve solo tamarindo e ascolta Bach. Certo, Pulce non parla, ma «questo non significa che non abbia niente da dire», tanto che Giovanna se la immagina come un fumetto con una nuvoletta vuota: le parole si troveranno.
Tuttavia non sempre è così, talvolta ad avere la meglio è l’imbarazzo nei confronti dei coetanei, la rabbia per un destino avverso, la paura del tempo che verrà. Benedict, ad esempio, è per Anna, un piccolo fratellino da nascondere, perché la sua nascita di diseguale la prende alla sprovvista, la rende insicura, la sconvolge e soprattutto la pone di fronte allo strazio di amare anche ciò che apparentemente non è conforme a come lo si era immaginato (Un fratello da nascondere di E. Laird, E/L).
Momenti di crescita, cronache attente di evoluzioni, di processi insiti nella maturità, che probabilmente danno ragione alle molte ricerche universitarie che vogliono questi fratelli e sorelle i «soldatini», i «guardiani», dell’autismo più maturi, più empatici, più competenti socialmente dei loro coetanei.
Ogni giorno loro combattono, magari scrivono storie «fatte in casa» e le condividono, inviandole a info@ autismando.it, oppure navigano su Sibnet e si ritrovano, fratelli fra tanti fratelli: una comunità di voci senza pregiudizi.
Ogni giorno per loro si ripetono domande: chi sia quell’ombra che scivola lungo i muri, o quel rumore che riempie la stanza, chi sia quel bambino o quella bambina che non partecipa ai giochi, che viaggia e vaga coi suoi pensieri, che si graffia e si torce le dita, che è imprevedibile come il tempo e sensibile come una foglia.
Un rebus, un enigma, un labirinto, che a volte fa paura, a volte stritola l’anima dalla pena e dall’affetto, e che si esemplifica in È non è, il nuovo, straordinario, librino – un’approssimazione poetica che racconta il viaggio sentimentale di un bambino alla scoperta di Sara, che vive solamente, da sola, e che è sua sorella (di M. Berrettoni Carrara, ill. C. Carrer, Kalandraka, Euro 14).

l’Unità 27.12.10
L’antropologia molecolare consente oggi di leggere il Dna antico
Su «Nature» una ricerca: un terzo gruppo oltre Sapiens e Neandertal
Né soli né speciali Noi Sapiens e i nostri compagni
di Pietro Greco


Dal Max Planck di Leipzig uno studio accerta la varietà di cespiti e di intrecci da cui nasciamo. Non eravamo né soli né isolati né speciali. Lo dice una nuova scienza, che analizza il Dna antico.

Non eravamo soli nel Paleolitico: la nostra specie, Homo sapiens, era una delle tante che popolavano la Terra alcune decine di migliaia di anni fa. E non eravamo neppure isolati: ci siamo mescolati con queste altre specie, accoppiandoci e talvolta riproducendoci. È lo scenario parzialmente nuovo apertosi nella ricostruzione della nostra storia realizzata con gli studi di «antropologia molecolare» che consentono di analizzare il Dna antico. Uno scenario ampliato con i risultati di una nuova ricerca effettuata da Svante Pääbo (Max Planck Institute, Leipzig, Germania) e i suoi collaboratori e pubblicata su Nature.
Nel Dna dei Melanesiani, le popolazioni che vivono oggi in alcune zone della Nuova Guinea e in molte isole del Pacifico, ci sono tratti appartenenti a una specie diversa sia da Homo sapiens, sia dagli uomini di Neandertal. Frutto dell’incontro – e del successo riproduttivo – tra la nostra e un’altra specie che viveva in Asia e che Svante Pääbo chiama dei Denisoviani. Tutto nasce dal ritrovamento in una grotta di Denisova di Siberia dei resti di un ominino risalenti a un periodo compreso tra 50.000 e 30.000 anni fa. Si tratta di una femmina, i cui tratti morfologici dicono che appartiene certamente al genere Homo, ma a una specie diversa dai sapiens e a un gruppo diverso dai Neandertal. Lo scorso mese di marzo, il gruppo di Svante Pääbo aveva pubblicato i risultati dell’analisi del Dna mitocondriale di quella antica donna e aveva confermato che si trattava, appunto, di una specie diversa la cui origine è tutta da verificare.
Giovedì scorso il gruppo di Pääbo ha pubblicato i risultati delle analisi sull’intero Dna del fossile di Denisova. Confermando, ancora una volta, che si tratta di un gruppo diverso dai sapiens e dai Neandertal . Non è chiaro se la femmina di Denisova e la sua tribù appartengano a specie finora sconosciuta del genere Homo o a un sottogruppo di una specie già nota, per questo Svante Pääbo non li ha classificati in termini linneani, ma solo battezzati Denisoviani.
Tuttavia ora è chiaro che intorno a 30.000 o 40.000 anni fa l’Asia era popolata da almeno quattro gruppi diversi: i Denisoviani, i Neandertal, gli uomini floresiensis (che fino a 18.000 anni fa abitavano l’isola indonesiana di Flores) e noi sapiens. Non eravamo soli, dunque.E non eravamo neppure isolati. Almeno noi sapiens avevamo rapporti con gli altri gruppi umani. Anche rapporti sessuali. Che, ha scoperto di recente proprio Svante Pääbo, hanno avuto successo riproduttivo. Una piccola parte del nostro Dna – dall’1 al 4% non proviene dai sapiens originari dell’Africa, ma ci è stata trasmessa dai Neandertal. Ma alcuni gruppi di sapiens hanno avuto rapporti interfertili anche con i Denisoviani. Comparando il Dna della femmina di Denisova con quello di popolazioni umane moderne, Pääbo e il suo gruppo hanno infatti scoperto che i Melanesiani – e solo loro – hanno ereditato dal 4 al 6% del loro Dna dai Denisoviani.
No, noi sapiens non eravamo soli. E neppure così speciali. Eravamo un ramo di un cespuglio ancora denso fino a poche decine di millenni fa. Un ramo poi rimasto solo, ma con svariati innesti.

Corriere della Sera 27.12.10
La coscienza prima di tutto E Severino lasciò la Cattolica
Pubblicate le ultime lezioni tenute dal filosofo nel 1968-69
di Armando Torno


Milano, Università Cattolica, anno accademico 1968-69. Emanuele Severino è ordinario di Filosofia morale, corso che frequentano gli studenti del terzo anno. Tiene anche le lezioni di Istituzioni di filosofia, dedicate alle matricole. È un momento di grande dibattito sul suo pensiero e i giornali riportano notizie sul nuovo «caso» . Severino, allievo di Gustavo Bontadini, era diventato noto ai più per il saggio Ritornare a Parmenide (che Sofia Vanni Rovighi pubblicò sulla «Rivista di filosofia neoscolastica» nel 1964 con una sua premessa); nel 1967 vide la luce Il sentiero del Giorno e nel 1968 — anno simbolo della contestazione — La terra e l’essenza dell’uomo, oltre alla Risposta ai critici, estremamente significativa già nel titolo. In quei giorni vivaci discussioni all’interno dell’Università Cattolica e alla Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio) si chiedono se l’opposizione tra il pensiero di Severino e il cristianesimo sia insanabile. E in effetti è riconosciuto tale dalla Chiesa, perché per il filosofo il cristianesimo appartiene alla follia estrema in cui consiste il mortale e l’esser uomo dell’Occidente. Intanto, però, continua a tenere i corsi. Le sue lezioni sono molto frequentate, gli studenti — tra essi non mancò Mario Capanna, che poi passerà alla Statale diventando uno dei leader del Movimento studentesco— non esitano a considerarlo un maestro. anche se non ha ancora quarant’anni. Sovente non riesce a rispondere alle numerose domande che i frequentatori delle lezioni vorrebbero sottoporgli e allora li prega di scriverle su foglietti: replicherà la prossima volta. I corsi di quegli anni non saranno tutti raccolti da Severino. I titoli ricordati formeranno nel 1972, insieme ad altri, il volume Essenza del nichilismo (Paideia, poi Adelphi), ma le pagine delle Istituzioni si perderanno. Ora Morcelliana le ripropone, utilizzando la dispensa del 1968. Nella brevissima prefazione si ricorda un giudizio di Salvatore Natoli, allora assistente di Severino: «Mi ha costretto a dare consistenza alle mie argomentazioni filosofiche, a fornire giustificazioni adeguate alle mie tesi e direi che mi ha definitivamente vaccinato dai vizi delle mode» . Quelle lezioni escono proprio con il titolo Istituzioni di filosofia (Morcelliana, pp. 232, e 18). Sono tra le ultime che tenne alla Cattolica. Cosa sosteneva in esse Severino? Il filosofo ha così riassunto il suo percorso: oggi la scienza considera la mente (o coscienza) come «una cosa tra le cose» , senza avvedersi che «le cose tutte sono contenuto della forma originaria e superiore della coscienza» , ossia di quella forma che la filosofia moderna chiama «coscienza trascendentale» , di cui la scienza non può fare a meno; inoltre: la coscienza che interessa al sapere scientifico non è la forma originaria, trascendentale della coscienza. Anche se le Istituzioni di filosofia si presentavano come un testo più semplice rispetto alle altre lezioni di Severino, riflettono in talune pagine (come quella qui riportata su Pascal) le tensioni del momento e i chiarimenti che il loro autore presentava. I condizionamenti della coscienza — per Marx è determinata da come si lavora, per Nietzsche dagli impulsi, per altri dalla storia o dalla società, dal linguaggio o dal cervello o dalla religione e altro ancora — si crede che rappresentino una punta autonoma della coscienza stessa, vista come una specie di iceberg, rispetto alla sua parte immersa. Ma in tal caso il pensiero filosofico s’inganna: per questo è necessario mostrare quali siano le ragioni della coscienza stessa nella sua interezza. Oggi se ne critica l’autonomia, ma senza conoscere cosa sia, ovvero per quali motivi la filosofia ritiene indipendente la coscienza (soprattutto come coscienza filosofica). Un ulteriore elemento affrontato nelle lezioni: si usa con eccessiva disinvoltura il concetto di condizionamento, dimenticandosi tutta la critica che nella filosofia moderna è stata fatta al principio di causalità. Sovente «sia la filosofia analitica sia quella del linguaggio, nonché molti capitoli della filosofia della mente scoprono l’acqua calda» , confida Severino. Inoltre, le Istituzioni di quel lontano corso gettano luce sullo sviluppo che porta la filosofia da una fase iniziale in cui si crede che il pensiero colga la realtà a una intermedia — che comincia con Cartesio— nella quale si dubita proprio della capacità della coscienza di cogliere la realtà, a un terzo momento in cui si elimina quella realtà esterna alla coscienza che viene presupposta dogmaticamente da tutta la filosofia e dalla cultura in genere fino all’idealismo. Era un esercizio critico che avviava un dibattito vero e che in quel tempo, ma anche oggi, ha trovato e trova difficoltà. Le lezioni di Severino vengono ora raccolte, come prova il volume appena edito da Rosenberg &Sellier Volontà, destino, linguaggio, nel quale si leggono quelle tenute a Torino nel marzo di quest’anno al sesto ciclo seminariale della Scuola di alta formazione filosofica diretta da Ugo Perone (tra l’altro, è stato il primo italiano invitato). La dispensa delle Istituzioni della Cattolica, invece, è una riscoperta e restituisce pagine dense e affascinanti di un maestro. Il merito va alla Morcelliana: a Ilario Bertoletti, già direttore editoriale ora a La Scuola, e a Sara Bignotti, l’attuale responsabile, poco più che trentenne. Dimostrano, con questo e con altri libri ben selezionati, come sia possibile fare gli editori senza rinunciare alla dignità.

Corriere della Sera 27.12.10
Perché Pascal viene rimosso dalla morale benpensante
di Emanuele Severino


Dal volume «Istituzioni di filosofia» (Morcelliana), che ripropone il corso tenuto da Severino alla Cattolica di Milano nel 1968-69, riportiamo uno stralcio dal capitolo IV. Ormai, già lo osservava Nietzsche, il cristianesimo come drammaticità, quale veniva pensato da Pascal, nella nostra società borghese è diventato un tranquillante che deve avere l’effetto di placare la coscienza. Per Pascal il discorso era un altro: se questa cosa terribile che è il cristianesimo fosse vera? Che cosa devo fare, in vista di questa possibilità? L’atteggiamento di Pascal non era accomodante, ma corrispondeva a questa cosa terribile; a questa cosa che, se presa sul serio, porterebbe a un modo di vivere sostanzialmente diverso da quello che realizziamo, e che realizziamo proprio perché siamo noi i primi a non prendere sul serio il cristianesimo. Noi oggi abbiamo rovesciato completamente la posizione pascaliana, non ci preoccupiamo più di vivere come se questa cosa terribile fosse vera, ma diciamo che, se fosse falsa, è comodo, dà tranquillità vivere cristianamente. Non comprendiamo niente di ciò che è l’essenza del cristianesimo. Pascal dice: proviamo a vivere come se questa cosa terribile fosse vera; oggi si dice: viviamo cristianamente anche se il cristianesimo è una cosa falsa. Infatti è utile vivere cristianamente. Si dà prova di buon senso, credendo nel cristianesimo. Invece il cristianesimo non è mai stato una faccenda di buon senso, a cominciare da quella cosa così talmente priva di buon senso che è stata la morte di Cristo, una cosa che il benpensante contemporaneo di Cristo certamente considerava una pazzia. Infatti i Greci, che erano i benpensanti del tempo, quando sentivano parlare di un uomo che diceva di essere Dio e che si era fatto uccidere da uomini che non gli credevano, gli davano del pazzo. Questa era la reazione del benpensante rispetto a quella vicenda drammatica che è il cristianesimo.

Repubblica 27.12.10
Via le rughe ma anche i sentimenti così il lifting cancella le emozioni

di Anais Ginori

Scoperti i nuovi segreti del botulino: ecco gli effetti inibitori
Marc Mehu, esperto di mimica facciale: di certo questi visi impassibili perdono autenticità
Dopo la Columbia University, nuovo studio del Polo di ricerca in scienze affettive di Ginevra


PARIGI - Il lifting dei sentimenti. Più giovani fuori, meno sensibili dentro. I ricercatori della Columbia University avevano già lanciato l´allarme, ora alcuni scienziati svizzeri lo confermano. Il botulino non cancella soltanto le rughe ma anche le emozioni. Togliere un solco sulla nostra fronte corrucciata attutisce la percezione della rabbia. Senza le piccole pieghe intorno ai nostri occhi quando sorridiamo, la gioia di un momento diventa meno autentica. «Il modo di esprimere le sensazioni sul nostro viso condiziona direttamente l´intensità di ogni emozione» spiega Marcello Mortillaro, specialista del Polo di ricerca nazionale in scienze affettive di Ginevra che ha approfondito con un nuovo studio la ricerca americana pubblicata qualche mese fa, dal titolo "The effects of Botox injections on emotional experience".
La ruga scompare insieme al turbamento, l´apprensione, il piacere che esprime. E´ quello che gli esperti chiamano il "feedback facial". Il cervello trasmette ai muscoli facciali un´emozione, ma è poi l´espressione sul nostro viso di un momento positivo o negativo che ne rendono più intensa la percezione. La teoria è nata all´inizio del Novecento con i lavori dello psicologo americano William James. «Tremo perché ho paura, oppure ho paura perché tremo?» si domandava nel 1939 Jean-Paul Sartre nel suo "Abbozzo di una teoria delle emozioni". Il filosofo esistenzialista riprendeva l´affermazione «Ho paura perché tremo" utilizzata da James che anteponeva così il corpo allo spirito, rovesciando l´antico dogma occidentale. Le discussioni intorno a questa teoria e al rapporto di causa ed effetto sono andate avanti per decenni, arrivano fino ai giorni nostri.
Quasi un secolo dopo, la rivoluzione degli interventi di chirurgia estetica e poi quelli apparentemente più superficiali come il botulino, capace di creare una micro-paralisi dei muscoli facciali mimici, hanno aperto una nuova frontiera nello studio dei sentimenti. E alla fine gli studiosi della Columbia University hanno in qualche modo dato ragione a James: il Botox può, in alcuni casi, inibire un´emozione. Se non sorrido, non mi diverto. Se non tremo, non ho paura. Per fortuna, gli studi americani e svizzeri non sono categorici. Ci sono infatti casi di persone con paralisi facciali provocate da un incidente in grado di provare gli stessi sentimenti degli altri. Non è insomma il caso di inquietarsi troppo, neanche per chi usa i ritocchi estetici.
«Di certo questi visi impassibili perdono la loro autenticità e sono meno comunicativi degli altri» racconta Marc Mehu, specialista della mimica facciale nel centro ginevrino e anche lui autore della nuova ricerca con Mortillaro. Per gli scienziati svizzeri, ci sono alcuni indicatori sul nostro viso che mandano, attraverso la comunicazione non verbale, il segnale ai nostri interlocutori di un´emozione sincera. Per esempio, sono le piccole rughe intorno ai nostri occhi, assolutamente naturali e istintive, che fanno credere a un sorriso autentico, mentre quelle intorno alla bocca sono meno convincenti. Forse non ce ne rendiamo conto, ma qualcuna delle nostre rughe è davvero preziosa.