mercoledì 29 dicembre 2010

l’Unità 29.12.10
Intervista a Laura Boldrini
«La tragedia degli eritrei colpa dell’Europa diventata una fortezza
La portavoce Onu: «Per chi chiede asilo non esistono più vie legali di accesso nei Paesi Ue. È stata chiusa anche la direttrice Libia-Italia Questo è il risultato del patto sui respingimenti tra Berlusconi e Gheddafi»
di Umberto De Giovannangeli


La tragedia degli eritrei da mesi in ostaggio dei predoni nel Sinai chiama in causa l’Europa e, in essa, l’Italia. E non solo per ragioni etiche, morali. Ma per scelte politiche. «L’aumento del numero degli arrivi in Israele di eritrei, sudanesi, somali, etiopi...potrebbe essere collegato alla chiusura della direttrice tra la Libia e l’Italia, poiché oggi di fatto per i richiedenti asilo non esistono vie legali di accesso in Europa». A sostenerlo è Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L’intervista concessa a l’Unità è anche l’occasione per tracciare un bilancio dell’anno che si sta per chiudere: il 2010 nel mondo e in Italia visto da chi è impegnato quotidianamente dalla parte dei più indifesi. L’Unità ha dato conto del rapporto shock dei medici israeliani di Physicians for Human Rights Israel (Phr) che hanno in cura i sopravvissuti alla traversata del Sinai. Qual è in merito la sua valutazione? «L’organizzazione Phr è un’organizzazione seria, con cui l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati lavora in Israele. Il loro rapporto è assolutamente attendibile e dà conto del dramma di queste persone. Il nostro ufficio in Israele ha notato come ci sia stato nell’ultimo anno un aumento delle persone che attraversano il confine dall’Egitto. Si è passati da circa 600-700 persone al mese lo scorso anno a oltre 1.000 persone al mese nel 2010. Eritrei e sudanesi ottengono una forma di protezione temporanea attraverso il rilascio di un visto di 3 mesi rinnovabile. Molti di loro vivono nelle periferie delle città israeliane, non hanno un permesso di lavoro e quando possono lavorano al nero».
Eritrei, sudanesi, etiopi, somali...Una umanità sofferente prova ad attraversare il deserto, finendo in balia di trafficanti senza scrupoli, perché, sostengono in molti, la «fortezza Europa» ha chiuso loro la porta in faccia. A cominciare dall’Italia.
«L’aumento del numero degli arrivi in Israele registrato nell’ultimo anno potrebbe essere collegato alla chiusura della direttrice tra la Libia e l’Italia, poiché oggi di fatto per un richiedente asilo non esistono vie legali di accesso in Europa. Questo offre ai trafficanti la possibilità di fare dei fiorenti affari sulla pelle delle persone più vulnerabili».
Per restare alla Libia. A che punto è la trattativa per la riapertura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli? «La situazione non è sbloccata, ci sono ancora negoziati in corso. Questo fa sì che l’ufficio non possa più acquisire nuove domande di asilo, mentre può continuare a occuparsi di casi già registrati».
La richiesta sul tavolo non è solo la riapertura formale dell’ufficio di Tripoli ma anche la possibilità di svolgere appieno funzioni di monitoraggio proprie dell’Unhcr. C’è chi sostiene che nonostante quanto promesso da Gheddafi a Berlusconi, in Libia continuano ad operare a pieno regime i lager in cui vengono transitati i migranti africani... «Noi non abbiamo modo di verificare questo tipo di informazioni. Non sappiamo quale sia il numero di centri di permanenza, né quante persone vi siano trattenute. Alcuni immigrati sono trasferiti da una prigione all’altra senza che si possa sapere che fine facciano. In passato abbiamo raccolto le testimonianze di persone che avrebbero subito violenze e aggressioni, e che hanno vissuto in condizioni orribili».
Il che la dice lunga sulle promesse del Colonnello...Siamo alla fine del 2010. È tempo di bilanci. Cosa è stato il 2010 visto dall’Unhcr?
«Intanto bisogna distinguere tra la situazione globale e quella italiana. A livello globale il 2010 è stato segnato da alcuni eventi molto drammatici che hanno causato ingenti spostamenti di popolazioni, come è avvenuto a gennaio con il terremoto di Haiti che ha anche determinato 1.500.000 di senza tetto. Nel corso dell’anno si è verificato un deterioramento della già grave situazione in Somalia che ha portato alla fuga di centinaia di migliaia di persone. A giugno va ricordata la crisi in Kirghizistan che ha costretto 75mila rifugiati a riparare in Uzbekistan. In agosto le alluvioni in Pakistan con altre 2 milioni di persone colpite. A novembre ci sono stati gli scontri in Birmania esplosi subito dopo le elezioni, costringendo 15mila rifugiati a riparare in Thailandia. A dicembre la drammatica vicenda degli eritrei ostaggi nel Sinai e l’instabilità post elettorale in Costa D’Avorio con 14mila rifugiati in Liberia. Un quadro molto complesso che dimostra come nel pianeta la gente sia ancora costretta a fuggire sia a causa di conflitti che di eventi naturali».
E sul versante italiano?
«In Italia l’anno si è aperto al negativo con la vicenda di Rosarno, in cui abbiamo assistito all’esplosione della violenza ai danni dei lavoratori stagionali, in particolare quelli africani: tra questi c’erano anche rifugiati e persone con protezione internazionale. Nel 2010 c’è stata una ulteriore diminuzione delle domande di asilo rispetto al 2009, anno in cui erano già dimezzate rispetto al 2008...». Anche in altri Paesi europei nel 2009 si è avvertita una diminuzione delle domande di asilo?
«Non ovunque. In Francia e Germania, ad esempio, nel 2009 le domande d’asilo sono aumentate nonostante una politica severa nei confronti dell’immigrazione irregolare».
Per tornare all’Italia. Qual è la situazione nel 2010? «Nel 2010 le domande di asilo saranno meno di 10mila, nonostante nei Paesi di origine dei rifugiati si continui a fuggire da guerre e violenze. Questa progressiva riduzione è sicuramente collegata alla politica dei respingimenti indiscriminati in alto mare; una politica che mette seriamente in discussione la fruibilità del diritto di asilo in Italia. Inoltre c’è un altro aspetto da evidenziare: un incremento dei problemi legati all’integrazione di coloro che hanno protezione internazionale. Molti di loro vivono in condizioni di degrado, senza la possibilità reale di rifarsi una vita in pace e in sicurezza. In questo modo si svuota il senso stesso della protezione internazionale».

l’Unità 29.12.10
Appello di 11 Ong egiziane: «Basta silenzio sui migranti. Il governo deve salvarli»
Il muro dell’indifferenza comincia a incrinarsi. Undici Ong egiziane hanno chiesto al governo di rompere ogni indugio e intervenire per liberare gli oltre 250 eritrei in ostaggio dei predoni. Anche in Israele cresce l’attenzione.
di U.D.G.


Il Muro dell’indifferenza comincia a incrinarsi. Undici organizzazioni egiziane per i diritti umani hanno espresso ieri la loro indignazione per il silenzio del governo in merito alla vicenda degli ostaggi africani detenuti nel Sinai da trafficanti che li sottopongono a torture e violenze per ottenere un riscatto di migliaia di dollari, e hanno lanciato un appello affinché intervenga immediatamente per salvarli. In un comunicato, le Ong fanno sapere di aver contattato uno degli ostaggi eritrei che ha affermato di essere, insieme ad altri 15, detenuto da un gruppo di beduini in container di metallo per non aver pagato la somma pretesa (tra i 3000 e gli 8000 dollari a testa). «L'ostaggio ha aggiunto che i rapitori gli forniscono due pezzi di pane e acqua salata e che cambiano continuamente il luogo di detenzione in diversi luoghi del Sinai, dove centinaia di migranti africani (eritrei, etiopi, sudanesi e somali) vengono torturati da oltre sei mesi», aggiunge il comunicato. «Mentre si moltiplicano i resoconti delle atrocità subite dagli ostaggi, il governo egiziano rifiuta ancora di riconoscere queste informazioni e di prendere le misure necessarie per arrivare a queste persone e salvarle», affermano le Ong.
ODISSEA CONTINUA
Sono ancora 300 gli eritrei, partiti dal loro Paese per un viaggio pagato a caro prezzo e pericoloso verso Israele meta privilegiata dopo che le rotte dell'immigrazione dalle coste libiche sono state interrotte -, ma che da oltre due mesi si ritrovano nelle mani di predoni senza scrupoli che pretendono, a suon di violenze, stupri e torture, il pagamento di migliaia di dollari per lasciarli andare. Fonti della polizia egiziana hanno riferito all’Ansa di aver ricevuto l'ordine di non sparare e di arrestare i migranti che vengono rilasciati dopo pagamento del riscatto che l'Egitto accusa di immigrazione clandestina
per poi interrogarli nel tentativo di carpire maggiori informazioni. Così è stato per i 27 africani (eritrei, etiopi e sudanesi) rilasciati nei giorni scorsi dai beduini: arrestati dalla polizia egiziana, gli immigrati sono poi stati consegnati alle loro rispettive ambasciate al Cairo. «È imminente la loro deportazione nei Paesi d’origine, dai quali questi profughi sono fuggiti per crisi umanitarie, persecuzioni e genocidi», denunciano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell’organizzazione umanitaria EveryOne, che segue sin dall’inizio l’intera vicenda degli oltre 250 profughi ostaggio dei trafficanti di esseri umani nel Sinai. «Questi innocenti, per fuggire da Etiopia ed Eritrea, hanno affrontato un estenuante viaggio nel deserto, toccando anche i confini libici, venendo ripetutamente respinti. Alla fine sono approdati in territorio egiziano e sono stati consegnati ai trafficanti beduini Rashaida collusi con Hamas e con la Muslim Brotherhood, che li hanno sottoposti a spietate estorsioni e tremendi abusi, tra cui stupri e torture. Deportarli nei rispettivi Paesi di origine denuncia EveryOne vorrebbe dire ammazzarli, istituzionalizzando una persecuzione e rendendo vano ogni loro sforzo di sopravvivenza in tutto questo tempo».

l’Unità 29.12.10
Cofferati e Bertinotti ex nemici oggi uniti a sostegno della Fiom
Nasce l’associazione «Lavoro e Libertà», contro la deriva autoritaria e la restrizione dei diritti dei cittadini Primo slogan: «Siamo indignati dall’assenza della politica»


Sono il partito degli «indignati», e si sono schierati in modo netto (senza se e senza ma) a sostegno della Fiom. Le ragioni di que sta loro indignazione sono spiegate nel minimo dettaglio in due cartelle: una specie di atto costitutivo di una nuova associazione a difesa dei diritti dei lavoratori/cittadini. A fare notizia è anche la lunga lista di firme che accompagna l’annuncio. A partire da due (ex) nemici storici, Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati. Poi Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti e Stefano Rodotà.
«La prima ragione della nostra indignazione nasce dall'assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici» scrivono i firmatari del «manifesto». I quali contestano innanzitutto l'impossibilità per i lavoratori di poter dire la loro su «accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro» soprattutto in presenza di intese che mettono in discussione «diritti indisponibili». Il lavoratore non può scegliere, così come il cittadino in politica è stato privato del diritto di scegliere chi eleggere. Parallelismo perfetto.
«La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, scrivono ancora gli “indignati” è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l'essenza stessa del loro carattere democratico». Il documento parla di «incubo autoritario» che si concretizza attraverso l’idea (cara a governo, Confindustria e naturalmente a Fiat) «di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l'attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l'egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale». Il lavoro ridotto a «condizione che nega a possibilità di espressione e di realizzazione di sé» è inaccettabile. Così come è inaccettabile il silenzio con cui tutte queste operazioni vengono avallate.

l’Unità 29.12.10
Vendola attacca l’intesa diTorino. Ma Fassino e Chiamparino difendono chi ha firmato
Prosegue il confronto sull’accordo di Pomigliano. Attesa per oggi la conclusione
Mirafiori agita Pd e Cgil, ma la sinistra si ricompatta
Le varie «anime» del Pd si posizionano sulla vertenza Fiat. L’ala estrema della sinistra si unisce a difesa della Fiom. La minoranza Cgil chiede un direttivo su Mirafiori. Marchionne in Brasile inaugura un impianto.
di Bianca Di Giovanni


Non è bastato. Quell’intervento del segretario Pier Luigi Bersani sull’intesa di Mirafiori davanti alle telecamere, quell’appello al Parlamento per un pronunciamento sulle relazioni industriali e la rappresentanza sindacale, non ha placato gli animi a sinistra. Troppo debole in uno scenario che, sotto i colpi di Sergio Marchionne, tende a radicalizzarsi. A dar fuoco alle polveri stavolta è Nichi Vendola, che spara ad alzo zero contro l’intesa di Mirafiori. «È l’idea di un restringimento secco degli spazi di democrazia in questo Paese. Si vuole mettere il bavaglio a tutti coloro che non si allineano», commenta il leader di Sel. Il quale pre così il varco all’ennesima corsa al posizionamento all’interno del Pd, ancora dilaniato sulla scelta delle alleanze. Intervengono ex Margherita, ex Ds, Lettiani, Veltroniani, riformisti (da Beppe Fioroni, a Tonini, da D’Antoni a Alessia Mosca, da Ichino a Chiamparino): ciascuno a piantare una bandierina, più o meno vicina alle posizioni Fiom o di contro di Marchionne.
Più di tutti pesa l’esternazione dell’ex segretario Ds, oggi candidato a sindaco di Torino Piero Fassino. «Nessuno si può permettere di rinunciare a un investimento come quello della Fiat» dichiara segnalando comunque «perplessità» sulla clausola che inibisce il diritto di rappresentanza. E la polemica continua, con toni da battaglia. «La tesi di Vendola è insensata», attacca D’Antoni. Franco Marini si schiera per l’accordo, ma contro l’esclusione della Fiom. Chiamparino arriva ad auspicare il sì al referendum, Ichino accusa la Fiom di essere un «Supercobas fuori dal sistema», mentre Cesare Damiano invita a «ripartire dal documento unitario Cgil, Cisl e Uil del 2008 sulla rappresentanza». L’effetto è la Babele a sinistra.
«Peccato, proprio alla vigilia del mese in cui si capirà che forse Berlusconi non ha più neanche i tre voti di maggioranza che lo hanno salvato, proprio ora che il governo potrebbe uscire sconfitto nel voto su Bondi», dice qualche osservatore. L’esecutivo è a rischio, e la sinistra si frantuma. A destra lo sanno bene, tanto che Paolo Romani rilancia sull’intesa brandendo quell’accordo come un machete. «In questo momento, il Partito Democratico sta discutendo dei problemi concreti degli italiani e, in particolare, di diritti dei lavoratori e di democrazia, e non di calcio mercato in Parlamento», obietta dal Nazareno Maurizio Migliavacca. Come dire: la discussione c’è, ma il tema è di quelli alti. Fuori dai confini del Pd, il sisma Marchionne in realtà ha l’effetto ricompattatore. Vendola, grazie al vessillo della Fiom, e si ripropone come leader della «sinistra-sinistra», Paolo Ferrero chiede una risposta unitaria immediata, Oliviero Diliberto invoca lo sciopero e l’Idv di Di Pietro fa da sponda.
In casa sindacale il «sisma Marchionne» continua a provocare onde d’urto. Anche Susanna Camusso dovrà fronteggiare la sua minoranza, che oggi chiede un formalmente la convocazione urgente e straordinaria del direttivo nazionale con all'ordine del giorno la vicenda fiat. Anche in questo caso la risposta del leader, che ha chiamato in causa la Confindustria, non ha avuto l’effetto sperato. Lo strappo di Marchionne rischia di interrompere il percorso verso un nuovo dialogo che Camusso aveva iniziato. In gennaio è convocato il tavolo sulla competitività, il più importante dei confronti aperti dopo il Patto di Genova. Ma già qualcuno all’interno della Confederazione chiede di non sedersi, se non si scioglierà il nodo Mirafiori.
Intanto oggi la Fiom si prepara al comitato centrale. Sull’altro fronte, mentre Marchionne è in Brasile a inaugurare un nuovo impianto con il presidente Lula, procede il confronto della Fiat con i sindacati firmatari dell’intesa su Pomigliano. L’incontro (senza la Fiom) è stato sospeso ieri sera dopo circa otto ore e mezza di confronto. Riprenderà, secondo quanto si apprende da fonti sindacali, stasera alle 9.30 presso la sede romana del Lingotto. L'obiettivo è raggiungere una intesa entro oggi sul nuovo contratto di lavoro previsto per la riassunzione da parte di una «newco», nel 2011, dei 4.600 dipendenti dello stabilimento campano. «Abbiamo affrontato tutti gli argomenti relativi al contratto ha dichiarato al termine dell'incontro il segretario regionale campania della uilm, Giovanni Sgambati il contratto conterrà una forte innovazione soprattutto nell'inquadramento professionale e recepisce una nuova classificazione a partire dalle categorie più basse».

Repubblica 29.12.10
Fiat, l´accordo Mirafiori spacca il Pd
Vendola: no allo schiavismo. Bersani: serve un accordo di sistema. Fassino: io voterei sì
Bertinotti, Cofferati e Rossanda: "Sì al conflitto sociale, battere l´incubo autoritario"
di Goffredo De Marchis


ROMA - Nichi Vendola sfida di nuovo i democratici e lo fa sul terreno delicatissimo dell´accordo di Mirafiori. Se la domanda di fondo per il Pd è quella sulla sua identità, su dove vuole andare, il contratto della Fiat è un «punto dirimente», dice il governatore pugliese ben felice di infilarsi nelle laceranti contraddizioni del Partito democratico. Dove il candidato sindaco di Torino Piero Fassino dice: «In fabbrica voterei sì all´accordo, nell´interesse dei lavoratori». Mentre l´eurodeputato del Pd Sergio Cofferati firma il manifesto della nuova associazione a sostegno della Fiom "Lavoro e libertà" in cui si esalta «il conflitto sociale contro l´incubo autoritario del sistema governo-Confindustria-Fiat». Incalza Vendola: «Abbiamo un´occasione storica e straordinaria per confrontarci sul programma che è quella del caso Marchionne». Ma il confronto lui lo ha già risolto a modo suo, con una risposta senza appello: «In nome della globalizzazione l´amministratore delegato della Fiat mette gli uni contro gli altri gli operai dei mondi emergenti e quelli del cosiddetto mondo civilizzato. Si chiama schiavismo».
Marchionne schiavista? Le parole di Vendola non trovano sponde nel Pd. Tutti uniti contro l´estremismo verbale. Sul resto, però, sono divisi. Lo scontro è a viso aperto, le distanze notevoli, il compromesso lontano. Tanto da far dichiarare, preventivamente, al coordinatore Maurizio Migliavacca: «Almeno noi discutiamo di problemi che coinvolgono la gente anziché pensare alla campagna acquisti di deputati e al legittimo impedimento». Pier Luigi Bersani cerca di sottrarsi al match interno. «Non personalizzo. Non è una questione che riguarda solo Marchionne e la Fiom. L´intesa di Mirafiori conferma la necessità di un accordo di sistema, di regole sulla rappresentanza e sulla democrazia sindacale». Come dire che lo strappo torinese non gli piace. Stefano Fassina, braccio destro del segretario per i temi economici, è stato spedito ieri a Torino alla riunione delle segreterie locali del Pd. Con l´ex Cisl Emilio Gabaglio ha scritto il programma sulle relazioni industriali elogiato da Bersani e condiviso da Treu, D´Antoni, dall´ex Cgil veltroniano Achille Passoni. «Quella di Marchionne - accusa Fassina - è la risposta sbagliata a un problema vero». Rispunta quindi il Pd conservatore, legato a doppio filo alla Cgil e alla Fiom, incapace di guardare avanti? «Macchè - ribatte Fassina - . Ci chiedono più coraggio e noi lo abbiamo. Ma il coraggio Marchionne lo chiede agli operai, quand´è che ce lo mettono anche lui e la Fiat?». Fassina illustra la sua posizione: «Il contratto dev´essere vincolante per tutti anche dopo un´approvazione a maggioranza. Su questo ha ragione la Fiat. Ma se il vincolo esiste non c´è più ragione di tenere fuori un sindacato. La rappresentanza va rispettata. Infine l´accordo di Mirafiori non ha nulla sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione. Su questo attendo la prova di coraggio di Marchionne».
Voterebbe sì nella fabbrica torinese anche Franco Marini, chiede più forza riformatrice Beppe Fioroni che appoggia la scelta della Cisl, il veltroniano Giorgio Tonini accetta «la sfida di Marchionne» nel nome della modernità. Sergio D´Antoni dice che «Vendola non ha rispetto per la maggioranza dei lavoratori», la lettiana Alessia Mosca definisce il leader di Sel «teologo della conservazione». Nello scontro a sinistra piomba il manifesto della neonata "Lavoro e libertà" firmato, oltre che da Cofferati, dal senatore Pd Nerozzi, da Bertinotti, da Rossana Rossanda, da Stefano Rodotà, da Luciano Gallino, da Mario Tronti e da altri. L´intera opposizione è tormentata dal caso Fiat. Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd, denuncia «l´afasia del partito sull´intera vicenda. In dieci mesi non ha mai assunto una posizione convincente». Non lo è il documento Fassina-Gabaglio «che non risponde minimamente al problema posto da Marchionne». Il problema, dice Ichino, è che deve finire «la stagione in cui ci sono poteri di veto sui contratti da parte della minoranza dei lavoratori». E una parte della sinistra deve smetterla di sostenere che «Pomigliano e Mirafiori violano i diritti fondamentali dei lavoratori».


Corriere della Sera 29.12.10
Conservatori di sinistra
di Angelo Panebianco


C’ è qualcosa che accomuna l’opposizione della Fiom all’accordo Fiat-sindacati su Mirafiori e quella del Partito democratico alla riforma Gelmini dell’Università, appena varata dalla maggioranza di governo. Sono le due più recenti manifestazioni di quella strenua difesa dello statu quo in qualunque ambito della vita sociale, politica, istituzionale, che è ormai da tempo la più evidente caratteristica della sinistra italiana, nella sua espressione sindacale come in quella politico-parlamentare. Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di magistratura, di revisioni costituzionali o quant’altro, non c’è un settore importante della vita associata in cui il conservatorismo della sinistra non si manifesti con forza. Forse ciò aiuta a spiegare una circostanza che sarebbe altrimenti incomprensibile: il fatto che l’opposizione di sinistra non si sia minimamente avvantaggiata in questi anni, stando ai sondaggi, delle gravi difficoltà di un governo che ha dovuto fronteggiare le conseguenze della crisi mondiale e che è stato inoltre investito da scandali e furibonde divisioni. Tanto è vero che tutti continuano a prevedere, in caso di elezioni, una vittoria (quanto meno alla Camera) del centrodestra. La domanda che la sinistra italiana dovrebbe porsi è la seguente: perché nemmeno la forte disillusione di tanti italiani nei confronti di Berlusconi, il fatto che ormai più nessuno creda nella «rivoluzione liberale» sempre promessa e mai attuata spostano a sinistra l’asse politico del Paese? Può essere che la risposta giusta sia la seguente: dovendo scegliere fra ciò che ritiene un male (Berlusconi) e ciò che ritiene un male ancora maggiore (la sinistra), il grosso degli italiani continua a optare per la minimizzazione del danno, per il male minore. Una delle ragioni, forse, è che, tolta una cospicua ma minoritaria area di conservatori a oltranza, la maggioranza relativa degli italiani pensa che stare fermi condannerebbe il Paese alla decadenza economica e sociale e che risposte magari insufficienti, o anche sbagliate, ai problemi collettivi, siano comunque preferibili alle non risposte. Ci sono due modi per fare opposizione a un governo. Il primo consiste nel contrapporre ai progetti governativi di modifica più o meno profonda dell’esistente, proposte diverse, che ovviamente si giudicano migliori, di modifica altrettanto o anche più profonda. Il secondo consiste nel difendere l’esistente. Quest’ultima è stata la scelta della sinistra in quasi tutti i campi di interesse collettivo. Ne è derivata una paurosa mancanza di idee nuove sul che fare, una mancanza di idee che ha fatto subito appassire la rosa appena sbocciata del Partito democratico.
Non è facile ricostruire le cause del conservatorismo della sinistra. Forse, una delle più importanti, è l’evidente nostalgia per la cosiddetta Prima Repubblica, che poi altro non è se non nostalgia per i tempi in cui la sinistra era rappresentata da un grande partito (il Pci), rispettato e temuto da tutti, capace, pur dalla opposizione, di influenzare potentemente la vita pubblica e i costumi collettivi. Non avendo mai fatto davvero i conti con la storia comunista, la sinistra italiana, o ciò che ne resta, non ha saputo nemmeno fare i conti con tutto ciò che non andava nella Prima Repubblica. Ha finito per idealizzarla. Solo così si spiega il fatto che la sua opposizione alla destra sia sempre stata improntata al seguente ritornello: sono arrivati i barbari, i quali stanno distruggendo tutto ciò che di buono avevamo. Ma davvero era così buono ciò che avevamo? No, non lo era. Quasi tutti i problemi che ci attanagliano oggi (ne cito tre: debito pubblico, cattiva qualità dell’istruzione, cattivo funzionamento della giustizia) sono il frutto di pessime scelte della troppo mitizzata classe politica della Prima Repubblica, almeno dagli anni Settanta in poi. Il punto è che quella mal riposta nostalgia ha finito per alimentare una ideologia conservatrice, che si traduce nella pura e semplice difesa (dalle minacce portate dai barbari) di ciò che la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità. C’è poi, certamente, a spiegazione del conservatorismo, una ragione più generale. Fronteggiare i nuovi problemi, dall’invecchiamento della popolazione alla immigrazione, alla accresciuta competizione internazionale, significa dare risposte creative che rimettano in discussione molte soluzioni del XX secolo che si ritenevano (a torto) definitivamente acquisite. Non essendo in grado di trovare risposte creative, la sinistra si è ridotta a giocare solo sulla difensiva. C’è chi pensa che il conservatorismo della sinistra venga da lontano, sia una eredità di quella incapacità di fare i conti con la modernità che caratterizzava il vecchio Partito comunista: fu proprio in polemica col Pci, oltre che con la Dc, che i socialisti craxiani si appellarono allora a una idea di modernità che avrebbe dovuto far circolare in Italia aria nuova. Ma è vero che ci sono stati anche momenti (diverse importanti decisioni del primo governo Prodi ne sono un esempio) in cui la sinistra ha saputo, sia pure con fatica, uscire dal recinto della conservazione sociale. E, comunque, non ha mai potuto perseguire la vocazione conservatrice, sua o del suo elettorato, senza pagare il prezzo di aspri conflitti interni. Ciò forse spiega anche la sua nota schizofrenia: finché si tratta di gestire, assieme alla maggioranza, nel chiuso delle commissioni parlamentari, certi provvedimenti, la sinistra può anche esibire fervore riformista. È costretta però a metterlo da parte (il caso della riforma Gelmini è esemplare) non appena deve fare i conti con le sollecitazioni della parte più chiusa e conservatrice del suo elettorato. Forse il discorso di Walter Veltroni al Lingotto, con il quale si inaugurò la segreteria del neonato Partito democratico, è stato l’ultimo tentativo, poi fallito (come a suo tempo fallì il tentativo craxiano), di disegnare i contorni di una sinistra non conservatrice. Dopo di che, il nulla. In altri Paesi, sinistre messe alle corde sono state capaci di reagire e di rinnovarsi, di inventarsi idee nuove e proposte. La sinistra italiana ne sembra incapace. Continua a denunciare i barbari per evitare di parlare a se stessa e al Paese di progetti per il futuro. Angelo Panebianco

Corriere della Sera 29.12.10
Se il decisionismo dell’avversario è sempre fascista
di Pierluigi Battista


AMirafiori rinasce «il complesso del tiranno» . La paura della democrazia post-fascista, fin dai primordi, di consegnarsi impotente nelle mani di chi decide troppo e che, decidendo troppo, avrebbe finito per assomigliare troppo a un nuovo duce.
Il terrore del nuovo «fascismo» , del nuovo «autoritarismo» . Che in questi giorni prende le sembianze di Sergio Marchionne. Il nuovo volto di una vecchia proiezione psico-politica. Il nuovo bersaglio di un antico tic della sinistra, che vedeva e vede nuovi «fascismi» sempre e dappertutto. Il più esplicito nell’accostamento è stato Giorgio Cremaschi, che ha letto nell’accordo di Mirafiori sottoscritto da Cisl e Uil (ma per lui soltanto un odioso e antidemocratico diktat) i germi del «fascismo» , appunto. Susanna Camusso è stata più tenue, ma sostanzialmente nella cornice di un’analoga denuncia: «autoritario e illiberale» . Di Pietro, come al solito ignaro di ogni prudenza lessicale, ha prodotto la sintesi: Marchionne come esempio di «autoritarismo fascista» . Il pericolo di una «deriva autoritaria» alla Marchionne unisce figure della sinistra che non sempre hanno condiviso negli ultimi anni scelte e parole d’ordine, da Sergio Cofferati a Mario Tronti, da Fausto Bertinotti a Rossana Rossanda. Sempre il fascismo alle porte, sia pur in nuove forme. La fobia del comando. Il decisionismo come vizio autoritario. Il pericolo di una «sterzata» , di una «deriva» , di una «svolta» come cemento emotivo per la costruzione demonizzante del nemico, vissuto ogni volta come minaccia, come rottura traumatica di una consuetudine democratica. O di un rito consociativo. O di un tavolo concertativo dove non prevale mai nessuno, e la decisione è per sua natura «condivisa» . Ma è vero? Oppure è il retaggio di una sindrome molto diffusa nella cultura della sinistra che nel richiamo all’ «unità antifascista» contro i nuovi tiranni ha fondato una parte decisiva del suo modo d’essere e di ragionare, anche a costo di un conservatorismo mentale e culturale duro a morire? Fu accusato di essere responsabile di una nuova stagione «fascista» addirittura Alcide De Gasperi, quando, di ritorno dal famoso viaggio negli Stati Uniti, all’alba della guerra fredda scaricò dal governo comunisti e socialisti rompendo per sempre la coesione delle forze che avevano fatto insieme la Resistenza. Ed era abitudine per i paladini della «nuova Resistenza» fischiare nelle cerimonie del 25 aprile gli esponenti della Dc accusata di non arginare lo scivolamento verso un nuovo «fascismo» . «Fanfascista» era bollato sarcasticamente Amintore Fanfani, espressione di una vocazione «autoritaria» che avrebbe voluto (vanamente, come è noto) scalare il Quirinale per trovare formale compimento. Divenne «autoritario» , agli occhi della sinistra che si riconosceva nel Pci, il Bettino Craxi artefice e motore di una «Grande Riforma» istituzionale che avesse il presidenzialismo come suo cardine. Perché questo era considerato ogni modello di Repubblica presidenziale: golpismo allo stato puro, modello autoritario, eccesso decisionista e dunque para-dittatoriale. Del resto, era diffusa nella cultura di sinistra che la matrice primaria di un nuovo fascismo nell’Europa post-bellica fosse il presidenzialista De Gaulle. Un paradosso: un nuovo fascista l’unico francese di rilievo che nel giugno del ’ 40, nei giorni della Francia umiliata e sbaragliata dai nazisti, chiamò alla lotta anti hitleriana nel nome della dignità nazionale dal suo esilio londinese. Ma il paradosso è l’anima della sindrome del «pericolo fascista» alle porte. Una coazione a ripetere che offre innumerevoli repliche alla stessa trama politica e mentale, pur nel cambiare delle circostanze e dei protagonisti. Gli stivali mussoliniani che la satira politica aveva fatto indossare a Craxi si trasformarono nel fez che la più agguerrita stampa di sinistra aveva fatto calcare a Silvio Berlusconi nell’autunno del ’ 93, prima ancora della formale «discesa in campo» dell’uomo che, bizzarria della storia, si trovava già in odore di fascismo per il suo sostegno al «fascista» Gianfranco Fini nella corsa a sindaco di Roma. Poi il decisionista Berlusconi divenne nella mentalità corrente della sinistra un «fascista» , «autoritario» e «cesarista» per suoi esclusivi demeriti e non più per interposta persona. Ma anche Cossiga, nell’epoca della sua massima foga esternatoria, venne accusato di usare il piccone per demolire il sistema ereditato dalla Resistenza e spianare la strada a un nuovo «modello autoritario» . Una sindrome, appunto. Un’attitudine a leggere ogni rottura del quadro consolidato con gli stessi occhiali deformanti del passato. L’ossessione anti-decisionista che liquida come tendenzialmente «fascista» o comunque «autoritaria» ogni scelta che non si sottoponga alla liturgia paralizzante della co-decisione. Ecco perché l’ «americano» Sergio Marchionne, viene indicato con il più europeo ed italiano degli epiteti, indipendentemente dal merito, ovviamente discutibile, delle sue proposte. Decide, e dunque cova in sé una malattia «autoritaria» . La sinistra ha perduto spesso, per colpa di questa sindrome paralizzante. Ma gli insegnamenti della storia quasi mai vengono ascoltati. Pierluigi Battista

Corriere della Sera 29.12.10
La strategia del Pdl: conquistare l’Udc su temi etici e fine vita
Legge anti eutanasia, asse Binetti-Sacconi
di  Lorenzo Fuccaro


ROMA — Si fa stringente il pressing sull’Udc affinché prenda atto che l’operazione terzo polo non ha futuro. Lo dice Fabrizio Cicchitto (Pdl) che delinea due prospettive: una immediata e l’altra di più lungo respiro. «La scelta principale— argomenta — è la governabilità. Se da un lato è giusto recuperare il numero più ampio di singoli parlamentari disponibili a condividere un percorso di riforme, dall’altro non va esclusa pregiudizialmente un’operazione politica più ambiziosa: l’unità dei moderati e dei riformisti ponendo il problema anche all’Udc, il cui terzoforzismo è di corto respiro» . L’idea è che una convergenza su singoli provvedimenti consenta poi di avviare i passi necessari alla costruzione della casa comune dei moderati sotto il segno del popolarismo europeo. Un progetto che, come ha più volte ricordato il ministro Sacconi, è «una naturale evoluzione dell’intuizione berlusconiana del Pdl» . Ed è proprio Sacconi ad avere individuato nella legge sulla fine della vita il possibile terreno di confronto. «Convergenze come quella auspicata dal ministro Sacconi sono un fatto molto importante, perché vorremmo che la legge giungesse a compimento prima del termine della legislatura» , afferma Paola Binetti (Udc). «Il clima non solo interno ma anche esterno— rimarca — spinge verso soluzioni in favore dell’eutanasia, ecco perché tutte le persone dello stesso orientamento culturale, ma collocate in campi politici disparati, si augurano si possano approvare quanto prima le norme in difesa della vita» . Intanto i cattolici finiani, tra i quali l’ex ministro Andrea Ronchi, con una lettera pubblicata ieri sul Corriere (molto apprezzata da un udc come Enzo Carra che parla di «considerazioni condivisibili» ) rivendicano la natura laica e non laicista di Fli. E a costoro si rivolgono Eugenia Roccella e Maurizio Gasparri, entrambi del Pdl, invitandoli a dare prova in aula della loro identità ancorata ai valori cattolici. «Le lettere sono interessanti, ma contano i fatti» , sintetizza Gasparri. Insomma, la discussione sul fine vita che avverrà nelle prossime settimane, è un’occasione, sostiene Osvaldo Napoli (Pdl), «per fare emergere l’orizzonte puramente tattico dell’operazione terzo polo e l’assenza di ogni respiro strategico» . È del tutto evidente, ragiona Napoli, che «partiti come quello di Casini e quello di Rutelli ben difficilmente potranno condividere le scelte laiciste di gran parte dei futuristi, loro compagni di avventura. È quindi prevedibile una dissoluzione del terzo polo. Ecco: può chiudersi una fase senza l’Udc, ma se ne potrebbe aprire un’altra anche grazie all’Udc» . «Non ci interessano poltrone e accordi di potere. Noi dell’Udc facciamo opposizione responsabile in Parlamento, votando le leggi che interessano gli italiani. Il resto sono chiacchiere» , assicura il portavoce del partito De Poli, lasciando intendere che a certe condizioni si può dialogare. Ed è appunto di fronte a questa puntualizzazione che il ministro Gianfranco Rotondi auspica: «Pdl e Udc sono nella grande famiglia del Ppe, nella politica nazionale la separazione è artificiale. Occorre superarla, meglio con un passaggio elettorale e vedrete che la stessa Lega non sarà contraria» .

il Fatto 29.12.10
Antonio Di Pietro
“Per colpa loro sono cornuto e mazziato”
Il leader Idv risponde all’attacco di Flores, De Magistris e Alfano
di Marco Travaglio


Mentre risponde alle nostre domande sul cellulare, dal telefono fisso sta commissariando l’Idv in Piemonte. “Non si può mai stare tranquilli. Da una parte mi accusano, a me!, di questione morale, e intanto io commissario il nuovo coordinatore piemontese che ha appena imbarcato un tizio che vuole stare con noi ma intanto dichiara che resta fedele al sindaco di San Mauro Torinese del centrodestra. Dopo i Razzi e gli Scilipoti, ci mancava solo questo!”.
Com’è questa storia del Piemonte? C’entra qualcosa col precedente coordinatore che s’è rivolto ai giudici per contestare la regolarità dell’ultimo congresso?
C’entra e non c’entra. Il congresso in Piemonte, l’ha stabilito il giudice in via d’urgenza, era regolare. Andrea Buquicchio, che ha fatto per 10 anni il coordinatore regionale e per 5 il consigliere regionale, ha perso il congresso e voleva farlo invalidare perché un altro l’ha battuto. L’altro, Luigi Cursio, un medico, uno della mitica ‘società civile’, in buona fede per carità, diciamo per inesperienza, era   così contento di avere strappato uno al Pdl che non gli ha chiesto nemmeno di scaricare la giunta Pdl di San Mauro. La società civile è una bella cosa, lo dico a Flores d’Arcais: ma a volte combina certi casini… Flores non ha idea di cosa vuol dire creare dal nulla e poi organizzare un partito, basato tutto sul volontariato.
Per un riciclato che respingete, altre centinaia ne avete imbarcati. Soprattutto mastelliani.
Ma non è che chiunque abbia fatto politica in altri partiti ha la peste addosso. Abbiamo delle regole: niente inquisiti, men che meno condannati. Ai congressi votano gl’iscritti, e mai per delega: bisogna essere presenti fisicamente. Se poi uno ha consensi e prende più voti di un altro, che ci posso fare io? E’ questione morale o è democrazia? Sapesse quanti trombati perdono il posto e si mettono a strillare alla questione morale. 
Lei ha fatto intendere che De Magistris vuole il suo, di posto.
Ma quando mai. Mi riferivo alle lamentele che arrivano da tanti trombati sul territorio. Luigi mica l’abbiamo trattato come un corpo estraneo: è parlamentare europeo, presiede un’importante commissione sull’erogazione dei fondi europei, è capo del dipartimento Giustizia dell’Idv. Non ha bisogno di posti, li ha già e mi aspetto che si responsabilizzi di più, che mi aiuti a risolvere i problemi. Come l’altra sera, quando ha presenziato   al vertice in Campania che ha eletto coordinatore una figura specchiata, Lorenzo Diana. Con lui comunque ci sentiamo due o tre volte al giorno, pure in questi giorni, nessun problema di posti.
E qual è il problema allora?
Che lui, la Alfano e Cavalli hanno sbagliato i tempi e le parole. Dire “questione morale” significa che il partito è marcio, il che è falso e offensivo. Mortifica e avvilisce non solo me, ma i nostri 1500 iscritti e i nostri dirigenti che da anni si fanno un mazzo così, spesso senza gratificazioni. Dirlo a freddo, poi, all’indomani della compravendita di Razzi e Scilipoti, è una coltellata. Per carità, mi prendo le mie responsabilità per averli scelti, ma come potevo prevedere che dopo 10 anni di dipietrismo e antiberlusconismo, quei due, dalla sera alla mattina, passavano con Berlusconi? 
Beh, a volte bastano i curricula, le facce…
Senta, lo sa qual è la verità? Che, se volevo tenermeli, Razzi, Scilipoti e pure Porfidia me li tenevo. Ma a un prezzo: rinunciare alle nostre regole, cioè proprio alla questione morale tanto sbandierata da De Magistris, Alfano, Cavalli e Flores.
Si spieghi meglio.
All’ultimo esecutivo Idv abbiamo deciso che ci si può candidare solo nella propria regione. Scilipoti sapeva che nel suo territorio, Barcellona Pozzo di Gotto, gli avremmo preferito Sonia Alfano: al confronto con Sonia s’è sentito come il due di coppe quando a briscola comanda bastoni. Oltretutto, nel frattempo, è venuto fuori che è sotto processo. E noi chi è sotto processo non lo candidiamo. 
E Razzi?
Idem: non sarebbe stato ricandidato, sia perchè strada facendo è saltato fuori un processo anche su di lui, sia perché comunque a Lucerna non poteva più chiedere voti, né avrebbe potuto ricandidarsi in un’altra zona d’Italia. Quindi si son messi sul mercato prima ancora che Berlusconi facesse l’offerta. Certo, se gli dicevo “tranquilli, vi ricandido lo stesso anche se indagati o imputati”, quelli restavano. E’ per la questione morale che li abbiamo persi. E ora, dopo averli persi, mi si imputa la questione morale?! Cornuto e mazziato.
E Porfidia? Eletto in Campania, indagato per violenza privata con aggravante mafiosa, passato da Idv a Noi Sud.
Le rivelo una cosa. Quando l’abbiamo candidato, aveva il certificato penale intonso. Poi viene indagato: lo stesso giorno lo mettiamo fuori dal gruppo   e dal partito. Qualche mese fa viene da me: “Tonino, se resto indagato o mi rinviano a giudizio, tu mi ricandidi?”. Se rispondevo sì, restava. Invece ho risposto: “No, non posso”. Così se n’è andato. E ora Luigi, Sonia e Cavalli mi incolpano di “questione morale” pure per Porfidia. Ma dovrebbero dirmi bravo! Era questione morale se lo tenevo!
Flores, e non solo lui, insiste da anni sulla selezione delle classi dirigenti a livello locale.
Ecco, appunto, grazie. Ma, se scelgo io i candidati come mi impone di fare questa   legge elettorale di merda, non va bene perché sono un dittatore. Se gli organi dirigenti li scelgono i congressi, non va bene lo stesso perché passa qualche riciclato. Si invoca continuamente la “base”, ma che cos’è la base? Io non conosco altra base se non gli iscritti. Poi lo so benissimo che il De Gregorio di turno si crea “più base” e porta più gente a votare per lui ai congressi e alla fine vince, e non è detto che sia il migliore. Ma qual è l’alternativa? Facile mettersi a tavolino, accendere il computer e, anzichè aiutare con critiche costruttive, criticare o lanciare pseudosondaggi natalizi. Facile cercare il capello nell’uovo e mai la trave che si ficca nell’occhio…
Il detto non è proprio quello, ma rende l’idea. 
Sono anni che tutti ci passano ai raggi X, poi quando si scopre che siamo sani, nessuno lo scrive. Ricorda il casino che han fatto due anni fa su mio figlio Cristiano indagato a Napoli per lo scandalo Romeo-Mautone? Ho appena scoperto che Cristiano non è mai stato indagato. Nulla di nulla. Ricorda le accuse sull’”associazione familiare” di Di Pietro che succhiava i finanziamenti al partito? Due anni di linciaggio e umiliazioni, poi il giudice ha archiviato: partito e associazione erano la stessa cosa, tutto regolare, anzi chi mi ha denunciato non poteva neppure farlo perché non era parte lesa. Ma non l’ha scritto nessuno (vedi articolo in cima alla pagina, ndr).
 “Micromega”, per aiutarla a fare pulizia, ha pubblicato mesi fa una lista di impresentabili dell’Idv. 
Bene, chi non era degno di restare l’abbiamo messo alla porta. Altri avevano l’unico peccato di venire da altri partiti. Ma che ragionamento è? Siccome Flores fa politica da trent’anni, allora non ci parlo più? In quella lista c’erano poche decine di persone, su un partito che in dieci anni ne ha candidate decine di migliaia, tra elezioni politiche, europee, regionali, provinciali, comunali.
Da chi ha messo i “valori” nel logo del partito ci si aspetta più rigore che dagli altri.
Se mi dicono dove si vende il Pentotal per il siero della verità, lo compro di corsa. Ma il solo modo per non sbagliare è non far nulla e criticare gli altri. Già abbiamo regole e filtri che non ha nessun altro partito. Noi non paracadutiamo i candidati dalla Sicilia al Trentino: sei calabrese   , lombardo, abruzzese? Ti candidi a casa tua, così la gente ti conosce e, se sei   un pezzo di merda, prima o poi viene fuori. Certo, su migliaia di candidati, qualcuno sfugge sempre. Ma, quando lo becchiamo, lo cacciamo.
Visti i risultati, si può fare di più.
E infatti lo faremo. Ogni giorno – vedi commissariamento del Piemonte – facciamo pulizie cammin facendo perché l’attenzione non è mai abbastanza. Il 14-15 gennaio ci ritiriamo in convento in Umbria per l’esecutivo nazionale. Lì proporrò una norma anti-riciclati: chi viene da altri partiti deve fare un anno di noviziato prima di prendere i voti, cioè prima di candidarsi alle elezioni o ricoprire incarichi nel partito, così intanto lo studiamo bene. Un anno di dieta vegetariana: niente carne, così non ingrassa… De Magistris e gli altri hanno altre proposte? Benvenuti, quella è la sede.   Se Flores vuole venire a spiegarci il suo sistema, siamo felici. Per me ha sbagliato, ma in buona fede: ora, fatta la frittata, chiudiamo la polemica e passiamo alla pars construens. Staniamo il Pd per fare subito la grande coalizione - meglio con un leader scelto con le primarie - con noi e Sel per battere Berlusconi.
Ma Flores l’accusa di aver taroccato il suo sondaggio. 
Ma io a Natale ero tutto preso da messa, presepe e capretto in famiglia. Figuriamoci se pensavo al suo pseudo-sondaggio. Poi è ovvio che in Rete i fans dell’uno e dell’altro organizzano le catene di Sant’Antonio: non c’erano solo gli sms “vota Di Pietro”, ma anche quelli “affossa Di Pietro”. E’ normale. E comunque non avevo bisogno di quello pseudo-sondaggio per sapere che dobbiamo sempre fare di più.
De Magistris invoca una cabina di regia per scegliere meglio i candidati.
Ma c’è già. E’ l’esecutivo nazionale, che riunisce i parlamentari italiani ed europei, i consiglieri e i coordinatori regionali e i responsabili dei dipartimenti tematici. Ne fanno parte non solo Luigi, ma anche la Alfano, responsabile del dipartimento Antimafia, e Cavalli, consigliere regionale con importanti incarichi politici in Lombardia. A proposito: mi dicono che non so scegliere i candidati, ma loro tre chi li ha scelti? Io. E non le dico le resistenze che ho incontrato nella pancia del partito, sempre diffidente   sugli innesti di esterni e indipendenti.
Pentito?
No. Tornando indietro, anche dopo queste critiche che reputo ingiuste, li sceglierei di nuovo tutti e tre. Perché lavorano benissimo. Però chiedo più rispetto per quei poveri stronzi di militanti e dirigenti anonimi che, nel silenzio di stampa e tv, han raccolto un milione e mezzo di firme per i referendum su nucleare, acqua pubblica e legittimo impedimento: è grazie a loro se nemmeno in caso di pronuncia favorevole della Consulta sul legittimo impedimento Berlusconi otterrà l’impunità: a giugno decideranno i cittadini.


Repubblica 29.12.10
Quando il fango cancella la politica
di Stefano Rodotà


In una bene ordinata repubblica si dovrebbe riflettere in primo luogo su una crisi che sta distruggendo l´intero tessuto istituzionale, senza farsi ogni giorno depistare da questa o quella microfibrillazione.
In uno Stato non immemore di quelli che ancora sono suoi compiti, si dovrebbe riflettere sulla crescente rifeudalizzazione dei poteri, che quotidianamente lo svuota e ne cambia la natura. In un sistema politico non perduto nell´autoreferenzialità si dovrebbe riflettere su quanto sopravviva della rappresentanza e reagire coralmente alla sostituzione dell´intera politica con una macchina del fango sempre in funzione che contribuisce alla decomposizione sociale. Mai, nella storia della Repubblica, gli scontri istituzionali erano stati così violenti, ripetuti, quotidiani, emblematicamente riassunti dagli attacchi continui del Presidente del consiglio a tutte le istituzioni di garanzia. Mai s´era avuta una legge elettorale che, come quella attuale, consegna la selezione dei parlamentari ad oligarchie ristrettissime e manipola la rappresentanza. Mai s´era vissuto un periodo di sostanziale instabilità come quello cominciato nel 2006, che sembra aver fissato in due anni la durata possibile d´una legislatura. Mai la vita pubblica era stata attraversata da tanti "mostruosi connubi", dalla riduzione d´ogni cosa all´interesse privato, con irrisione palese di moralità e legalità.
Si potrebbe continuare. Ma quel che più deve far meditare è l´apparire congiunto di tutti questi fattori. La novità della situazione, il reale mutamento qualitativo, derivano dal loro irrompere tutti insieme sulla scena pubblica, da una saldatura che ha cambiato faccia alle istituzioni e alla società, diventando così il vero connotato della cosiddetta Seconda Repubblica, il cui fallimento è certificato dal fatto che già se ne invoca una Terza.
Com´è potuto accadere tutto questo? La riflessione politica s´arresta. E le spiegazioni centrate sull´antiberlusconismo si rivelano inadeguate. E non perché non siano grandissime le responsabilità di chi ha dato nome a questa fase. Ma perché lo stesso fenomeno Berlusconi ha potuto espandersi in un contesto rivelatosi propizio. Di questo si dovrebbe parlare, e non lo si fa. Con danno grandissimo per la stessa progettazione politica. L´ostacolo a una riflessione adeguata, il tabù da rimuovere, si chiama bipolarismo. Il dommatismo fa sempre male, soprattutto in politica, dove una delle regole da osservare è proprio la valutazione di ogni iniziativa secondo le conseguenze che produce. Ed è indubitabile che la via scelta per il bipolarismo all´italiana si sia rivelata disastrosa, anche perché, in un impeto fideistico, non si volle tener delle cautele a suo tempo suggerite. V´erano molti modi di arrivare al bipolarismo nel contesto storico e istituzionale italiano, e invece si è scelto quello che apriva la strada al populismo e alla concentrazione dei poteri.
La riflessione politica deve partite dalla diagnosi critica della drammatica situazione attuale. Solo un´analisi impietosa può ricreare le condizioni per una politica di rinnovamento, che significa in primo luogo liberarsi del populismo e ripristinare le condizioni minime della stessa democrazia formale. E segnalo altre tre questioni che mi sembrano ineludibili.
La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato "neomedievalismo istituzionale". Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l´indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all´appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni ´50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell´uomo. A molti tutto questo appare come innovazione, così come lo stesso Berlusconi viene presentato come l´incarnazione di un tempo di novità. Ma davvero non hanno nulla da dire le modernizzazioni autoritarie del secolo passato, e le diverse strade che seppero trovare le democrazie?
La Seconda Repubblica ci consegna gli attacchi allo stesso Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale, descritta come un manipolo di reduci della sinistra che viola le prerogative del popolo sovrano; ad una magistratura all´interno della quale si troverebbe una vera "associazione per delinquere"; al Parlamento in sé, volta a volta considerato come un intralcio o come luogo di spregiudicati reclutamenti. Ora siamo all´assalto finale. Questo hanno colto gli studenti, e il Presidente della Repubblica che, ascoltandoli, ha visto l´elemento che differenzia il movimento di oggi da quelli del passato, la volontà di essere protagonisti e, insieme, interlocutori delle istituzioni, nelle quali si riconoscono attraverso la Costituzione. Questo ha colto Daniel Baremboin quando ha aperto la stagione della Scala leggendo l´articolo 9 della Costituzione. Questo dovrebbero cogliere le forze politiche: la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo, com´era avvenuto nel 2006, quando 16 milioni di persone dissero no alla riforma costituzionale berlusconiana. Le forze di opposizione non hanno saputo, o voluto, amministrare quel patrimonio. Anche da una riflessione su questo punto può partire un rinnovamento della politica.

Repubblica 29.12.10
La legge di Bertoldo
di Franco Cordero


Conta due secoli la storia delle costituzioni scritte. Riassumiamola: monarchie assolute sradicano gli antagonisti interni sviluppando apparati e tecnologie moderni; culture del diritto naturale e illuministi riformatori postulano una razionalità immanente; metamorfosi traumatiche impongono un codice genetico. Supernorme fissano le procedure del lavoro legislativo, altre regolano i contenuti. Leggi formalmente perfette nascono morte quando divergano dai parametri. L´art. 3 Cost. ne detta uno capitale presupponendo cittadini giuridicamente eguali: «davanti alla legge» il vagabondo irsuto è pari al plutocrate talmente ricco da comprarsi castelli, palazzi, ville, corpi umani, maschere, lanterne magiche. La regola non ammette revisioni (art. 138): ad esempio, Camere servili ritoccano l´art. 3, stabilendo che Dominus e famigli stiano fuori del comune spazio normativo, intoccabili; mossa invalida nell´attuale sistema; i «revisori», infatti, vogliono affossarlo e vi riescono quando i sudditi pieghino la testa, eventualità nient´affatto improbabile nelle società diseducate al pensiero; chi comanda i piccoli schermi trascina masse stupefatte.
In formula ipocrita i due articoli della l. 7 aprile 2010 n. 51 creano exceptae personae, più forti della legge. Vediamole. L´art. 420-ter c. p. p. prevede il rinvio dell´udienza quando l´imputato non possa assistervi: deve trattarsi d´«assoluta impossibilità», da «caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento»; se ricorra tale ipotesi, lo stabilisce una decisione sindacabile; l´offesa al contraddittorio invalida i processi. Qualora l´imputato fosse presidente del consiglio (o ministro), era ovvio che entro dati limiti l´impegno governativo costituisse legittimo impedimento; basta intendersi sui tempi; indichi i giorni disponibili e tra persone serie tutto avviene de plano. Siccome gli uomini non sono angeli, c´era il rischio della soperchieria: guadagna settimane e mesi; finalmente viene, salvo interrompere l´azione scenica, chiamato altrove, né consente al sèguito, dove sarebbe rappresentato dai difensori; vuol occuparsene personalmente; il premier ha meno diritti del cittadino qualunque?; e sbandiera gli articoli de quibus. Il nuovo testo taglia corto a profitto dei perditempo, configurando un ostacolo permanente e insindacabile. Monsieur N, in fuga dal processo, risulta padrone del gioco, tanti sono gli asseribili impedimenti: ne evoca quanti vuole, dalla «politica generale» agli affari dei singoli dicasteri (art. 95 Cost.), né teme smentite; l´elenco nell´art. 1, comma 1, è fumo negli occhi, non essendo enumerabili in forma tassativa gl´incombenti; l´ultima frase allarga ancora le maglie mettendo nel conto prius e posterius, nonché «ogni attività» in qualunque modo «coessenziale» (aggettivo fumoso). Rinvio automatico, visto che il giudice non ha alternative: contestando i motivi addotti s´ingolfa avventurosamente; se procede, semina nullità.
Il comma 3 gli sottrae la cognizione dei fatti: ogniqualvolta il signore dell´esecutivo dica «non posso», l´evento processuale sfuma; può anche permettersi lo scherno raccontando che lui spende ogni ora libera, diurna o notturna, nel pensatoio elucubrante salutari riforme; è «attività preparatoria», no? Nel comma 4 siamo al clou: se afferma che l´impedimento duri fino alla data x (impregiudicati gli eventuali futuri), l´udienza va fissata oltre tale termine, col limite d´un semestre; e così, ripetuto due volte, il trucco porta via 18 mesi; entro i quali l´art. 2 pronostica l´immunità stabilita con legge costituzionale, altrimenti lo scudo temporaneo sarebbe prorogato; Camere docili votano sul tamburo una lexiuncula.
Insomma, finché presieda il Consiglio, durasse anche trenta o quarant´anni in sella, Monsieur N, affetto da fobia giudiziaria, schiva i tribunali opponendo l´impedimento ogni sei mesi. Il precedente fiabesco è Bertoldo condannato a morte mediante impiccagione, con una clausola: scelga l´albero a cui sarà appeso; pronto a servirli, appena trovi l´idoneo; non ne vede. L´ostacolo al processo diventa impunità. La stasi sine die equivale a riscrivere l´art. 3 Cost., come nell´orwelliana Fattoria degli animali: espulso mister Jones, i maiali vittoriosi elaborano una Carta (art. 7, «all animal are equal»); passando gli anni, s´evolvono; ormai camminano su due gambe.
Voltaire corrodeva gl´idoli con battute esilaranti. L´art. 2, comma 1, spiega dove miri questo capolavoro: garantisce al beneficiario un «sereno svolgimento» delle funzioni governative; dunque, non manca il tempo da spendere in curia; ne troverebbe anche Napoleone. I motivi della fuga stanno nell´interno d´anima: maledetta Dike, gli sta alle calcagna; la possibile condanna è un incubo. Cattivo segno, obietta lo spettatore ancora sofferente d´antiquati moralismi. No, replicano: innocente o colpevole, ha bisogno d´uno scudo e tutti vi siamo interessati; la sua quiete psichica è risorsa inestimabile. Era una fantasia primitiva che gli equilibri naturali influenti sulla tribù abbiano l´epicentro nel corpo del re: lui «sereno», il regno fiorisce; ogni disturbo scatena effetti calamitosi. Ergo, l´interesse tutelato dalla l. 7 aprile 2010 prevale sulla miserabile routine giudiziaria. Gli ascoltatori seri ridono, d´una ilarità malinconica perché corrono tempi tristi quando masnade parlamentari legiferano così.

Repubblica 29.12.10
Un saggio sull´integrazione islamica e i luoghi di culto
Quando le moschee aiutano il dialogo
Non è un problema religioso, ma culturale. Viene messa in questione l´identità cristiana
di Roberto Toscano


La "questione islamica" e´ diventata in pochi anni una dei nodi fondamentali del nostro tempo, non solo nell´ottica huntingtoniana di un presunto scontro di civiltà ma, in Europa, anche come sfida alla convivenza plurale e in definitiva alla stessa democrazia.
Il saggio di Stefano Allievi (La guerra delle moschee, Marsilio, pagg. 186, euro 12) prende le mosse dalla controversia evocata nel titolo, ma va ben oltre, mirando alla sostanza di un problema complesso rispetto al quale la questione dei luoghi del culto islamico (da ultimo con il referendum svizzero che ha approvato la proibizione della costruzione di minareti) va vista nella sua valenza simbolica e come sintomo di malessere e di rifiuto.
Allievi opera una sorta di decostruzione di questo malessere e di questo rifiuto, contestando l´ignoranza, il pregiudizio e la malafede che di regola ad essi si associano, ma non si ferma qui, convinto che comunque il problema vada affrontato seriamente: «Questi conflitti - scrive - non possono essere interpretati solo con l´esistenza di imprenditori politici della paura».
Prima cosa da dire è che non siamo di fronte ad un problema religioso bensì culturale. Da un lato, infatti, non esiste un problema di libertà della religione islamica, ma piuttosto quello che Allievi definisce il rigetto della "occupazione simbolica del territorio" da parte di chi viene percepito come radicalmente (e minacciosamente) "altro". La moschea è "una modalità di uscita dell´islam dalla sfera privata". Come tale, aggiungerei, non sfida certo il cristianesimo (religione), quanto la cristianità come cultura dominante e identità.
Respingendo l´alternativa fra un´assimilazione indesiderata ed indesiderabile e un multiculturalismo in fin dei conti tribale Allievi, che non si limita all´analisi, identifica in positivo l´obiettivo, come definito in un testo programmatico del municipio di Amsterdam, di una "integration with the retention of cultural identity". Un obiettivo da perseguire focalizzandosi su esigenze reali in termini di lavoro, alloggio, sicurezza, spazi collettivi. Un passaggio dall´astratto al concreto. In fondo, questo potrebbe succedere, da noi, persino nella zone più difficili, se pensiamo alla contraddizione fra il becero razzismo ideologico leghista e il comportamento di certi sindaci della Lega, che, si può dire, razzolano meglio nella pratica di quanto non predichino in teoria. Sono tendenze che andrebbero incoraggiate e apprezzate, come del resto ha fatto il Presidente Napolitano.
Allievi, comunque (ed è questo un altro dei meriti del suo saggio) non è mai unilaterale, ma anzi – pur attribuendo ovviamente più responsabilità a chi ha più potere (le autorità e I cittadini culturalmente "maggioritari") sottolinea anche la necessità di "comportamenti positivi" da parte dei musulmani, dal rispetto delle leggi alla disponibilità al dialogo, fino alla condanna inequivocabile e incondizionata della violenza anche quando perpetrata in difesa della religione o delle tradizioni familiari. Solo così – conclude Allievi – si potrà superare quella "islamofobia" che sta intossicando il continente e dando spazio a tendenze politiche sempre meno compatibili con la democrazia e con il liberalismo.

Repubblica 29.12.10
Abbado”: Da Mahler a Pergolesi, ecco le mie musiche preferite"
di Leonetta Bentivoglio


Da domani in edicola con "Repubblica" e "L´espresso" una collana di 12 dischi che raccoglie le incisioni del grande direttore con le migliori orchestre del mondo. La selezione è dello stesso maestro
Dopo la forzata rinuncia per motivi di salute tornerò alla Scala fra non molto con un progetto che non posso ancora annunciare
Ho in cantiere anche una collaborazione con Michael Haneke, regista del film "Il nastro bianco" che ammiro moltissimo
Fra i musicisti italiani ho scelto Verdi e Pergolesi: il primo vede centrale il ruolo del coro; il secondo è un genio morto a 26 anni

SILS MARIA (ENGADINA) Claudio Abbado non è "solo" un direttore d´orchestra tra i più emozionanti e completi del nostro tempo, ma un uomo immerso nella sua vocazione musicale, fino alle più intime radici di se stesso. Sembra esistere in musica. Per lui, al di là di ogni retorica, la musica è motore d´essere, chiave di lettura dei rapporti tra le genti, nesso tra i campi della cultura, gesto d´impegno sociale, politico e civile. Lo ha dimostrato, e continua a farlo, tramite un percorso interpretativo ricchissimo e con una carriera straordinaria, che lo ha portato a guidare teatri come la Scala e l´Opera di Vienna e compagini come la London Symphony, la Chicago Symphony e i Berliner Philharmoniker.
Giunge a riflettere quest´itinerario una nuova collana discografica (proposta in esclusiva da Repubblica e L´espresso) che riunisce, in un´ampia selezione realizzata dallo stesso Abbado, musiche dirette in periodi diversi e con differenti orchestre, alcune delle quali da lui plasmate coinvolgendo affermati solisti e giovani talenti. La prima puntata esce domani con un doppio cd dedicato a Mahler (Seconda e Quarta Sinfonia); le successive usciranno dal 7 gennaio, per un totale di dodici dischi. Ne parliamo nel suo rifugio tra le montagne dell´Engadina, in Val di Fex: luogo d´intoccabile bellezza, dov´è interdetta ogni nuova costruzione e dal quale sono bandite le automobili. Vi si circola solo in carrozze trainate da cavalli: «E´ un posto di natura incantata e generosa», osserva il sempre più riservato Claudio, che qui sui monti trascorre il tempo nello studio e nella lettura. «Non a caso Nietzsche amava moltissimo questa valle. Io ci vengo da trent´anni, e mi pare di percepirne sempre la magia».
La serie discografica che prende l´avvio domani rappresenta una sintesi delle sue predilezioni musicali?
«Raccoglie brani di compositori amati ed eseguiti in molti anni di lavoro e con varie orchestre: dal Mozart delle sinfonie "Jupiter" e "Praga", opere meravigliose di un creatore capace di prodigi inauditi, al Brahms registrato con i Wiener Philharmoniker e con i Berliner; da Beethoven inciso sia coi Berliner che con l´orchestra giovanile Simon Bolivar (frutto dello straordinario sistema pedagogico e sociale fondato e diffuso in Venezuela da José Antonio Abreu), a Mahler interpretato con la Filarmonica di Vienna e con l´Orchestra del Festival di Lucerna; da Ravel e Debussy fino ad Alban Berg, suonato con la London Symphony. Berg ha scritto poche cose, ma tutte fulminanti e spesso preveggenti, come la "Marsch" del dodicesimo disco: pezzo che sembra quasi prefigurare ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, con la seconda guerra mondiale e l´ascesa del nazismo. E insieme a Ciaikovskij, presente con la Sesta Sinfonia, detta "Patetica", grandioso requiem del compositore per se stesso, nella serie sono inclusi altri russi come Mussorgskij, Stravinskij, Prokofiev…».
Tra gli italiani ha scelto Pergolesi e Verdi.
«Di Verdi ci sono i cori delle opere incisi alla Scala, teatro che rappresenta un periodo di lavoro pieno di soddisfazioni e durato diciotto anni, dal 1968 all´86. Certamente l´orchestra e il coro della Scala hanno una sensibilità particolare per questo repertorio, ed è centrale in Verdi l´uso del coro, che nel teatro verdiano assume il peso e lo spazio di un personaggio. Quanto a Pergolesi, registrato con l´Orchestra Mozart, con cui abbiamo inciso tutta la musica pergolesiana, è un autore fondamentale, che ha influenzato Bach e Mozart. Morto a soli 26 anni, in un quinquennio appena questo geniale visionario è riuscito a scrivere lavori proiettati un secolo avanti. Certi compositori morti troppo giovani hanno profetizzato più degli altri, come spinti dall´urgenza di scrivere tutto subito, intuendo l´arrivo della fine».
Ha citato la sua intensa fase di lavoro alla Scala. Nel giugno scorso era attesissimo il suo ritorno sul podio del teatro milanese a cui ha rinunciato "per motivi di salute"…
«Motivi autentici, anche se qualcuno non ha compreso. Dopo una serie di concerti diretti a Berlino ero in una situazione a rischio, di esaurimento ed estrema fragilità. Il medico mi ha avvertito che sarei stato un pazzo ad andare a dirigere a Milano, per questo ho cancellato. Vorrei tornare a dirigere alla Scala, e non escludo di farlo tra non molto con un progetto che è ancora prematuro annunciare».
Nel suo futuro si parla di una "Lulu" di Berg in collaborazione con Michael Haneke.
«Ammiro moltissimo il regista del film "Il nastro bianco", e stiamo pensando di realizzare un progetto insieme entro i prossimi due anni».
E la "sua" Orchestra Mozart? In aprile, per alcuni concerti, si unirà con la Mahler Chamber Orchestra, un´altra delle orchestre da lei fondate.
«Si riuniranno per la prima volta per eseguire programmi dedicati a compositori russi e francesi d´inizio Novecento. Inoltre la Mozart, in autunno, sarà ospitata dal Musikverein di Vienna, che dal 2012 in poi l´accoglierà ogni anno in residenza per un ciclo di prove e concerti».
Abbado è uno dei massimi italiani nel mondo, celebrato ovunque. Come giudica, da tale osservatorio internazionale, la considerazione che merita oggi la cultura in Italia?
«Chi ci governa sostiene che la cultura non rende, e basta quest´affermazione per comprendere lo stato delle cose. E´ criminale affermare che la cultura non serve in un paese come il nostro, che proprio dalla ricchezza culturale attinge la sua profonda identità».


l’Unità 29.12.10
L’infinita violenza alle donne
Un caso una metafora
di Gian Valerio Sanna


Daniela da sette interminabili mesi è in carcere, strappata dai suoi figli e dalla sua famiglia. E’ stata accusata di cose orrende ed assurde secondo un teorema che la Corte suprema di Cassazione ha censurato per ben due volte in un mese. Nonostante siano state annullate per due volte le ragioni del suo arresto lei è ancora in cella a raccogliere ogni giorno le lacrime che tengono in vita l’amore infinito verso i figli, minori, anche loro condannati da sette mesi a non avere il diritto alla genitorialità, all’affetto insostituibile della madre nell’età più delicata e critica della loro crescita.Lei è forte come forte è la certezza, sostenuta da tanti che la conoscono, che la verità sarà dimostrata e verrà rapidamente a galla, quando la macchina della giustizia ne darà la possibilità, come lei desidera sopra ogni cosa e come la cultura garantista di questo Paese dovrebbe assicurarle senza titubanze.
Si è celebrata di recente la giornata contro la violenza verso le donne e non si può fare a meno di riflettere su quanta violenza si può generare anche senza le botte, i pugni e gli abusi. E’ necessario forse pensare più in profondità alla specialità delle donne, alla loro unicità di generatrici di vita, di affetti, di progetti educativi insostituibili e avere nella mente le tante “Daniela” che subiscono altre violenze, non si sa se peggiori o migliori di quelle che l’immaginario collettivo è abituato a considerare tali, violenze che si generano ogni giorno nella lentezza del riconoscimento dei diritti fondamentali, nella scarsa coscienza dello Stato di quello che si mette in gioco quando si incide intorno alla libertà individuale di una donna, di una madre, di una educatrice.
Vi è tanta violenza, anche quella che deriva dalle insipienze dei legislatori, dei vari operatori dello Stato, dalla supponenza della burocrazia sopra le ragioni del buon senso, dalla arroganza degli egoismi di chi ha poteri da esercitare, contro la debolezza di chi ha solo diritti da farsi riconoscere.
Bisogna combattere contro tutte le violenze alle donne, combattere contro il desiderio di rimuovere dentro ciascuno di noi l’istinto ad insonorizzare la nostra coscienza dalle urla di chi invoca il diritto di essere innocente e di essere riconosciuta tale dalla società civile. Le parole che definiscono questi come valori intangibili della nostra Costituzione, prima o poi si riapproprieranno della loro natura e del loro significato ma nel frattempo chiunque ne abbia la facoltà regali un pezzo del proprio tempo e del proprio lavoro pensando a che dono sarebbe restituire il sorriso a tanti bambini, rimuovere le violenze e le inutili vessazioni alle tante “Daniela” che senza giusta ragione e spesso senza motivo sono costrette, sotto la stella di Betlemme, a non essere riconosciute madri, spose e generatrici di vita e di futuro.

l’Unità 29.12.10
La seconda volta di Polito: addio al Riformista il quotidiano che inventò
La mossa servirebbe a favorire la vendita del quotidiano edito dagli Angelucci al gruppo di Macaluso. L’ex dirigente del Pci da anni garantisce il finanziamento pubblico al giornale di via delle Botteghe Oscure.
di Pino Stoppon


Antonio Polito lascia per la seconda volta la guida del Riformista, il quotidiano da lui fondato nel 2002. Se n’era già andato nel 2006, per lanciarsi nell’avventura parlamentare con la Margherita. Poi nel 2008 il ritorno all’antico amore, con un progetto ambizioso: la trasformazione del foglio arancione in un giornale più generalista, con una foliazione molto più ampia e l’obiettivo di allargare la platea dei lettori. Dopo quasi tre anni però quel progetto è fallito: le copie in edicola sono circa 3mila, i giornalisti che erano stati assunti con contratti a termine per il rilancio sono rimasti a casa, le pagine si sono nuovamente ridotte e soprattutto si è rotto il rapporto di fiducia con l’editore Angelucci, che molto aveva investito e rischiato nel progetto.
La notizia delle dimissioni non è arrivata come un fulmine a ciel sereno nella redazione che da tempo si è trasferita al piano terra di Botteghe Oscure, nei locali di proprietà degli Angelucci. La mossa servirebbe a favorire la vendita del quotidiano a un gruppo guidato da Emanuele Macaluso. L’ottantenne ex dirigente del Pci, che con il suo «Le nuove ragioni del Socialismo» garantisce da anni il finanziamento pubblico al quotidiano, sarebbe pronto a rilevare la testata, insieme a dei soci per ora “coperti”. Ma una delle condizioni poste da Macaluso, raccontano, oltre al ripianamento dei debiti, è anche il cambio alla direzione. Di qui la scelta di Polito, di cui è ignota per ora la destinazione futura. C’è chi parla di un «periodo sabbatico», chi di un nuovo ruolo nell’area politico-culturale del nascente Terzo polo. Il direttore per ora non parla, domani in un editoriale spiegherà ai lettori i motivi della sua scelta.
Certo è che la trattativa tra Macaluso e Angelucci per ora è congelata, in attesa della pronuncia dell’Agcom di metà febbraio, che dovrà chiarire se i contributi pubblici (circa 2,5 milioni l’anno) per il 2008 e il 2009 saranno o meno erogati. L’Agcom infatti (sollecitata dal dipartimento per l’Informazione e l’editoria della presidenza del Consiglio) contesta un collegamento societario di fatto tra le due case editrici di Libero e del Riformista, che fanno capo entrambe alla famiglia Angelucci, che sarebbe lesivo della concorrenza. Ma al Riformista confidano che, visti i target differenziati dei due giornali, l’Agcom possa alla fine assegnare le due annualità dei finanziamenti al quotidiano. In caso negativo, sarebbe la Tosinvest a caricarsi i debiti, per poi vendere la testata. Mistero su chi firmerà il giornale da gennaio. Ma in redazione si tira un sospiro di sollievo: «La sospensione delle pubblicazioni è stata esclusa».

l’Unità 29.12.10
Chi dissente paga: sull’editoria la vendetta del milleproroghe
I tagli alle risorse per le attività lontane dai grandi gruppi, quelle di quotidiani politici ed emittenti locali La manovra grottesca: la finanziaria aggiungeva 100 milioni al fondo, il decreto ne amputa la meta
di Vincenzo Vita


In un solo colpo un mediocre ma virulento governo sta per chiudere quasi cento testate dell’era analogica, tuttavia presenti anche online. Il rischio è che il sistema dei media, che assomiglia a un corpo umano, venga privato di parti essenziali. Il riferimento è al taglio chirurgico, che parrebbe contenuto nel testo del decreto "milleproroghe", del fondo per l’editoria. Gravissimo e grottesco insieme: il 21 dicembre la Gazzetta Ufficiale pubblicava il testo approvato dal Parlamento della manovra finanziaria che aggiungeva 100 milioni di euro al residuo di 86 ml del fondo medesimo; il giorno dopo il decreto ne amputava la metà. Nella stagione che inneggia al mercato, quest’ultimo non vale più per le attività editoriali distanti dai grandi gruppi (cooperative, testate non profit, giornali politici, fogli locali). Come si fa a chiudere un bilancio alla fine dell’anno con decisive risorse che come uno Yedi balzano da una parte all’altra? Quale pur sagace amministratore può presentarsi in simile condizioni a chiedere un prestito a una banca? Come è triste il capitalismo, parafrasando Aznavour.
In verità, dietro il bisturi c’è una regia politica. Non sarà un caso se dall’inizio della legislatura, che ha segnato la fase più acre del berlusconismo, l’intero universo della conoscenza è stato trattato come una macelleria messicana. Scuola, università, ricerca, cultura e spettacolo, beni culturali messi sotto la ghigliottina. La logica è tristemente chiara: ridurre al silenzio territori considerati infedeli, non omologati alla deriva pantelevisiva. Così come è accaduto alla libertà di informazione, sotto il bavaglio di regime. Si vuole ridurre nella sua forza sostanziale la stessa possibilità di opposizione, che si basa sul diritto al sapere e alla comunicazione. La Costituzione della Repubblica viene ancora una volta stracciata.
E non si dica che c’è la crisi economica.
Certo che c’è, ma in tutti gli altri paesi proprio l’investimento nei beni immateriali è stato giustamente valorizzato per la sua funzione anticiclica. Ma in Italia la crisi Mirafiori docet è l’occasione per un regolamento dei conti sociali, per togliere di mezzo le soggettività meno inclini alla resa o al compromesso. È esagerato pensarla così? Magari fosse. Nel caso in questione, materialmente e simbolicamente rilevantissimo, la lieta notizia potrebbe scaturire dalla lettura del testo definitivo del decreto. Con la correzione del testo fin qui conosciuto. Tra l’altro, con buona pace della Federazione degli editori, perché il taglio è avvenuto sul fondo di finanziamento diretto e non sul credito di imposta per la carta utile soprattutto ai gruppi più grandi e per di più virtuale, mancando persino l’apposito regolamento attuativo? E per trovare la copertura doverosa del 5 per mille, sciaguratamente rimosso dall’attuale maggioranza, non ci sono forse altre strade nell’immenso universo del bilancio pubblico? Mi faccia il piacere, avrebbe detto Totò.
L’allarme è rosso. Le 100 testate in gioco portano con sé il lavoro o il non lavoro di 4000 persone. Per non dire dei tagli dei contributi postali, già in atto. E per dire, invece, dell’altro capitolo, quello che riguarda le emittenti locali, tartassate da un paranoico passaggio alla tecnica digitale e da una diminuzione del loro fondo di ben 45 milioni di euro. Certo, pure radio e televisioni locali non sono del tutto controllabili e quindi possono tale è la demenza dell’attacco ossessivo in atto essere buttate fuori pista. In ogni caso, l’opposizione parlamentare si mobiliterà duramente e conforta l’immediata reazione del Comitato per la libertà di informazione, di Articolo 21, di Mediacoop e di tante testate. Insieme all’impegno dei comitati di redazione e della Federazione della stampa. Un pensiero malizioso accompagna la riflessione: oltre alle storiche espressioni del mondo progressista e di sinistra, nel mirino ci sono anche l’Avvenire e il Secolo d’Italia. Un brivido nella schiena: chi si oppone la paga.❖

l’Unità 29.12.10
L’analisi. Lo scollamento della politica dalla società civile ha radici negli anni Novanta
E oggi la sostituiscono le grandi aziende, che hanno bisogno dei governi e li «usano»
Mr. Berlusconi e il «caso Italia»: se le imprese divorano i partiti
L’intervento appassionato di uno dei più acuti indagatori della «post-politica» nell’epoca segnata dall’egemonia dell’economia privata sulla società e sui partiti di massa. Divorati dalle aziende e dagli affari.
di Colin Crouch Warwick


Per lo straniero che osserva l’Italia dall’esterno, il crollo finale delle pretese di rispettabilità della democrazia parlamentare italiana, cui abbiamo assistito nel corso del voto sulla fiducia/sfiducia
al governo, suscita due tipi di riflessioni: considerazioni particolari, specifiche del caso italiano; e considerazioni più generali, che valgono per tutti.
IL CASO ITALIANO
Particolare o almeno così sembra è il modo in cui la classe politica e anche gli elettori italiani hanno accettato i ripetuti oltraggi inferti alle norme costituzionali durante il lungo periodo berlusconiano: le immunità privilegiate – anzi il fatto stesso che un presidente del consiglio debba ricorrere a così tante immunità; la concentrazione dei poteri politici, mediatici ed economici in un singolo uomo. In situazioni del genere, la democrazia e il costituzionalismo hanno bisogno di una sospensione delle lealtà di partito e di ideologia per proteggere l’integrità del sistema e la reputazione stessa del paese. Non mancano, certo, esempi importanti di un simile comportamento per citarne uno quello del presidente della Camera Fini – di parlamentari che hanno accettato di assumersi una responsabilità di questa portata. Ma i loro numeri non bastano; e il fatto che queste persone abbiano dimostrato che un tale comportamento è possibile, rende ancora più vergognoso quello degli altri.
Quanto agli elettori, chissà cosa pensano realmente. In tanti, sono tuttora convinti che Berlusconi sia il solo in grado di proteggere gli italiani dal bolscevismo di The Economist e delle «toghe rosse»; altri, forse, ritengono che è giusto che un Parlamento di furbi sia governato dal più furbo; altri ancora alzano le spalle, sostenendo che l’Italia vera non ha bisogno di una classe politica nazionale autoreferenziale e delle sue istituzioni, ma può tirare avanti con il civismo forte della vita locale di tante parti del paese; altri ancora alzano le spalle e basta.
Dietro tutti gli sviluppi bizzarri e imprevisti degli anni berlusconiani destinati a continuare rimane l’incongruità iniziale del 1994, da cui discende tutto il resto. Dalle rovine della cosiddetta «prima Repubblica» emerse un uomo, Berlusconi, che stava al centro di quella Repubblica con i suoi misteriosi legami finanziari, e che «scese in campo» proponendosi come colui che avrebbe dato vita a una nuova, pulita, vita politica italiana. E gran parte degli italiani gli credette. In realtà, ciò che era crollato erano esclusivamente le organizzazioni politiche della prima Repubblica, non le sue pratiche di Tangentopoli. Berlusconi era sicuramente in grado di creare nuove organizzazioni, con al centro il suo partito-azienda. Ma un partito-azienda non poteva cambiare le dubbie pratiche della prima Repubblica. Queste continuarono, continuano, e continueranno. C’è qui un paradosso profondo: in un certo senso, gli aspri contrasti tra i partiti della prima Repubblica erano una delle cause dei suoi vizi; ma in un altro senso rappresentavano una protezione contro di essi. Il conflitto tra la Chiesa e il comunismo, e le relative identità, era infatti talmente profondo, che gli elettori non guardavano criticamente il comportamento dei loro rappresentanti. Ma la robustezza delle organizzazioni di partito con la lealtà alla Chiesa, a un’ideologia, agli eroi del passato, ma anche con il bisogno di dare soddisfazione ai militanti dei partiti, motivati principalmente dalla condivisione di ideali riusciva pure a imporre delle restrizioni al comportamento degli individui e a proteggere la democrazia italiana dagli aspetti più devastanti delle cattive pratiche.
Con la crisi di Tangentopoli e dei partiti, anche questi controlli si dissolsero, almeno per i partiti principali del vecchio centro, Dc e Psi. Allo stesso tempo il Pci entrò a sua volta in difficoltà a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, sebbene i comunisti italiani avessero già preso largamente le distanze dal comunismo sovietico. Gli altri outsiders, come Alleanza Nazionale, non poterono resistere all’abbraccio berlusconiano.
In assenza di una disciplina di partito come collante tra i politici e la società, fiorirono senza alcun tipo di restrizione tutti i vizi della prima Repubblica: una classe politica «a sé stante», con deboli legami col popolo, che cerca di accaparrarsi posti, posizioni, vantaggi e occasioni di ogni tipo. Col suo partito-azienda, Silvio Berlusconi fu ed è il «leader» perfetto per un simile sistema.
LEZIONE PER GLI ALTRI?
Una stravaganza italiana, dunque, diranno gli stranieri, che magari ci fa ridere, ma che non deve preoccuparci. Ma non è così. Viste le particolari condizioni del crollo dei partiti italiani negli anni 90, il paese è andato incontro in tempi rapidissimi a un’esperienza più generale, che riguarda anche altri paesi. Le ideologie, di ispirazione sia religiosa sia di classe, che formarono le identità e le organizzazioni politiche del secolo scorso, stanno perdendo dappertutto la loro forza, la loro realtà. Dovunque i partiti si presentano come contenitori vuoti, che usano simboli e retorica del passato nell’illusione che producano legami anche più artificiali con il popolo, ma che assumono come loro compito principale la distribuzione di posti, di favoritismi, e di ogni altro privilegio a personaggi politici staccati dal legame con la società.
Ma se le classi politiche stando perdendo il contatto con il popolo, non lo perdono con le grandi aziende, le quali non hanno smarrito la propria capacità organizzativa, hanno bisogno dei governi e possono usarli. Per queste ragioni la crisi generale dei rapporti tra il mondo politico e l’elettorato è una crisi che tocca soprattutto il centro-sinistra. Una politica dominata dalle grandi imprese dà più fastidio alla sinistra che alla destra.
Alcune particolarità del caso italiano rimangono: la velocità del crollo degli anni 90 ha svelato la nudità, il vuoto dei partiti in modo particolarmente brutto; nel resto del mondo democratico i partiti conoscono invece un declino graduale e dignitoso. Certo, anche altrove alle spalle dei primi ministri c’è la grande impresa; ma in Italia la grande impresa si annida nel corpo stesso del primo ministro.
Le idiosincrasie del «leader» italiano sono qualcosa di personale, e non è detto debbano verificarsi in altri paesi. Epperò molti elementi del caso italiano mostrano ad altri paesi democratici il proprio futuro.

Corriere della Sera 29.12.10
«Non hanno soldi per espatriare». Scarcerati i clandestini
di Giuseppe Guastella


MILANO — Non hanno i soldi con cui pagarsi il viaggio per lasciare il territorio dello Stato, come gli è stato intimato dalla questura, e di conseguenza, pur essendo clandestini e pur essendo stati già fermati una prima volta per questo motivo, vanno scarcerati perché indigenti. La Procura della Repubblica di Milano tra le prime in Italia, applica a favore di due giovani egiziani la sentenza con la quale la Corte costituzionale a metà dicembre ha bocciato parte della norma del pacchetto sicurezza del 2009 che prevede il reato di clandestinità. I due nordafricani — uno di 18, l’altro di 21 anni — sono stati fermati lunedì durante un normale controllo per strada a Milano. Dalle verifiche è emerso che, dopo essere stati arrestati una prima volta come clandestini, avevano ricevuto dal questore l’ordine di lasciare immediatamente l’Italia. Cosa che, ovviamente, non hanno fatto e, per questo, sono stati subito arrestati in base all’articolo 1 del pacchetto sicurezza dell’anno scorso che ha introdotto il reato di clandestinità nella legge Bossi-Fini. Una norma che, però, il 13 dicembre è stata dichiarata in parte incostituzionale dalla Consulta, che ha stabilito che il clandestino che rimane illegalmente in Italia senza adempiere reiteratamente all’ordine di espulsione non è punibile se si trova in «estremo stato di indigenza» ed in ogni caso se può dimostrare di avere un «giustificato motivo» per non lasciare il territorio dello Stato. La Corte, infatti, con la sentenza numero 359 ha dichiarato illegittimo il comma 5-quater del testo unico sull’immigrazione, così come modificato nel luglio 2009 dal pacchetto sicurezza. Il caso dei due giovani nordafricani è finito ieri sul tavolo del sostituto procuratore Claudio Gittardi, insieme alle decine di altri casi simili che ogni giorno finiscono sul tavolo dei pm di turno in tutta Italia. Il magistrato, vista la decisione della Corte costituzionale, ha emesso un ordine di scarcerazione nel quale si afferma che i due egiziani avevano il «giustificato motivo» della povertà estrema per non essere in grado di lasciare l’Italia. Secondo Gittardi, inoltre, l’arresto eseguito dalle forze dell’ordine deve essere considerato valido, ma non ci sono le esigenze cautelari per tenere i due egiziani in carcere.

Corriere della Sera 29.12.10
Le spie che seguirono Wojtyla (e lo aiutarono a diventare Papa)
Quando la polizia segreta tentò invano di incastrarlo
di Alberto Melloni


L’identità, insegna Zygmunt Bauman, diventa importante quando crolla la comunità; e per analogia si potrebbe dire che il passato prossimo diventa importante quando crolla la storia. Quando si perde il senso che perfino le più impulsive individualità sentono il peso gravitazionale del lungo periodo, arriva il tempo dei Wikileaks: l’idea cioè che in qualche segreto spesso banaluccio di ieri l’altro ci sia qualcosa che può davvero costituire un «sapere» e dunque una minaccia rivolta contro i poteri costituiti. In realtà, come ormai si vede, quelli rubati da Assange sono modesti pettegolezzi, tracce di ovvietà e la riprova di quanto la Bibbia diceva nel suo principio, e cioè che l’uomo è fatto di fango, e spesso se lo ricorda. Eppure il tornado mediatico dei milioni di documenti due effetti li ha avuti. Ha fatto dimenticare che la diplomazia americana, dopo lo scandalo Watergate, vive, pensa e scrive all’ombra del Freedom of Information Act. Quella legge infatti apre tutte le carte dell’amministrazione Usa — salvo i dati sugli informatori o sulla sicurezza nazionale — a chi ne faccia richiesta: e dunque dagli anni Settanta in poi ogni diplomatico statunitense sa che ciò che ha scritto sarà consultabile presumibilmente prima della fine della sua vita e dunque si limita volentieri a sintetizzare i «si dice» e i «mi dicono» in vista di una politica fatta di linee di condotta esplicite e note. In secondo luogo ha messo oggettivamente in sordina cose infinitamente più importanti e retropensieri politici meno recenti, ma per questo dalla portata infinitamente superiore a quelli del presente. Un caso abbastanza clamoroso è dato dal libro Ku prawdzie i wolnosci. Komunistyczna bezpieka wobec kard. Karola Wojtyly, apparso a Cracovia nel 2009: il titolo in italiano suona Verso la verità e la libertà. Gli organi di sicurezza comunisti e il cardinale Karol Wojtyla. In questo terzo volume della collana dedicata agli «indomiti» che hanno resistito al regime comunista, vengono pubblicati, a cura di Marek Lasota, i rapporti degli apparati di sicurezza dedicati al futuro Giovanni Paolo II. Un materiale di raro pregio che, come altri, fornisce uno spaccato senza precedenti della vita di un uomo che sarà il Papa di Roma e che se partecipa non a uno, ma a due conclavi nel 1978, è perché le sue potenzialità individuali ed «elettorali» sono sfuggite a un sistema repressivo che si voleva perfetto nella sua durezza. Il volume non è stato tradotto in italiano: ed è normale in un Paese nel quale il Papa è rimasto italiano anche dopo il 1978, almeno come oggetto di conversazione. Si parla del Papa, si comprende il Papa, si esalta il Papa sempre e solo quando questo non costa la fatica di superare barriere a volte consistenti come quelle della lingua e di ciò che essa implica. È perciò un bel servizio quello reso da Angelo Bonaguro nell’ultimo numero della «Nuova Europa» , la rivista di cultura edita dalla Casa di Matriona, che traduce una piccola parte di questi dispacci, sui quali sono venuti alcuni giornali. — a caccia delle talpe e dei segreti: che sono meno importanti dell’insieme del processo storico che Lasota descrive. Infatti Wojtyla era entrato nell’orizzonte dei servizi di polizia già nel 1946, per aver preso parte alle celebrazioni studentesche della Costituzione polacca del 1791. La polizia comunista lo attenziona fin dai suoi primi passi pastorali, quelli che segnano più di ogni altra cosa la vita di un prete: il servizio pastorale nel paesino di Niegowic, la parrocchia di san Florian a Cracovia, l’incontro con Turowicz e il suo settimanale. Da qui inizia l’attento monitoraggio degli informatori dei servizi: «Bialy» , un attore; «Staniszwieski» , forse don Kulczycki; il benedettino che si nasconde dietro i nomi di «Franek» o «Marek» ; don Krzywanek, detto «Parys» ; lo stupidissimo don Satora, detto «Marecki» , che gli vive accanto. Figuri che egli con ogni probabilità conosce per ciò che sono, che vengono spesso irretiti dalla promessa che le informazioni «aiuteranno» la Chiesa, con il gioco del poliziotto buono/ poliziotto cattivo, e che lo aiutano, in fondo, a tenere quella linearità che sarà la sua forza. Le spie lo descrivono come un uomo «facilmente infiammabile» , che porta una «talare dimessa e logora» , che conquista la fiducia dei giovani in confessionale. Registrano il modo in cui descrive le «tendenze» conservatrici e «più rispondenti alla mentalità contemporanea» in Concilio. Cercano di trovare senza successo resistenze dentro la diocesi di cui diventa amministratore prima e vescovo poi. E fanno i primi errori: come quello di suggerire di trasmettere la sua messa in tv per ridurre la presenza dei fedeli; o quello di cercare di usare i suoi rapporti col mondo accademico e scientifico per metterlo in cattiva luce presso i preti in cura d’anime; o quello più tragico di tutti, per il regime: cercare nella sua vita un’ombra, che non c’è. Propprio questa condizione di irricattabilità, certificata dal Partito comunista polacco e dalla fitta rete di spionaggio malevolo o imbecille che circonda Wojtyla, costituirà una imprevista garanzia al conclave dell’ottobre 1978 e fornirà allo stesso Wojtyla la certezza di potersi muovere sapendo che ciò che di segreto si sarebbe potuto dire su di lui ne avrebbe solo rafforzato il prestigio umano e cristiano: fosse esso venuto da un confidente pentito o da un ladruncolo di file, era lo stesso.

Corriere della Sera 29.12.10
Il Consiglio d’Europa in guerra con la pedofilia
risponde Sergio Romano


Scrivo in risposta alla lettera del sottosegretario Giovanardi relativa ai dati forniti dal Consiglio d’Europa nella campagna di sensibilizzazione per frenare la violenza sessuale sui bambini. Concordo anch’io che il dato è raccapricciante e vorrei che fosse esagerato. La cifra «1 su 5» risulta dalla combinazione di una serie di studi e rilevazioni in vari Paesi europei. La cifra, per altro, coincide con le statistiche di diverse istituzioni quali Unicef, l’Organizzazione internazionale del Lavoro e quella della Sanità. «1 su 5» è una valutazione europea media: in certi Paesi i livelli sono più bassi, in altri più elevati. Quando parliamo di violenza sessuale sui bambini ci riferiamo a tutte le forme di abuso: dalla pornografia alle molestie, dalle sollecitazioni su Internet alle proposte sconce, dalla prostituzione alla corruzione. Poiché la maggior parte delle ricerche disponibili si riferisce solo ad abusi sessuali con contatto fisico, la cifra di «1 su 5» può essere una sottovalutazione. Per la campagna abbiamo commissionato un’analisi dei dati disponibili in Europa (eccola sul nostro sito web www. coe. int/oneinfive ) su ricerche effettuate tra il 2003 e il 2010. Ottenere un quadro esatto della situazione odierna è quasi impossibile: la violenza sessuale è raramente denunciata e i vari studi differiscono sia nella metodologia che nella definizione. Per di più i governi non si preoccupano di collegare i dati. Siccome molta gente sottovaluta la vastità del problema, la campagna «1 su 5» usa questa stima come strumento per motivare i governi, i parlamenti, i professionisti dell’infanzia e i genitori a prendere le iniziative per prevenire la violenza sessuale, proteggere i bambini e perseguire i colpevoli. Sfortunatamente ogni mattina ci svegliamo con una nuova notizia sconvolgente. Quindi non si tratta di creare un allarme collettivo che rasenti l’isterismo. Dobbiamo passare dalla negazione del fenomeno a una reazione cosciente. Uno dei modi è fornire ai genitori le notizie e gli strumenti per prevenire gli abusi sui loro figli. La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei bambini dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali chiede ai Paesi di istituire un organismo per la raccolta e l’analisi dei dati, col proposito di osservare e valutare il fenomeno col dovuto rispetto per la protezione dei dati personali. Attraverso questa campagna il Consiglio d’Europa vuole indurre i Paesi a finanziare la ricerca e adattare le proprie politiche di protezione dei bambini. Spero che l’Italia ratifichi presto la Convenzione e che il governo italiano dedichi impegno alla raccolta dei dati necessari. Maud de Boer Buquicchio Vice Segretaria Generale Consiglio d’Europa

Cara Signora, La sua lettera conferma che la vostra campagna si propone anzitutto di creare una maggiore consapevolezza su un problema spesso sottovalutato o, peggio, sepolto nella complicità silenziosa delle famiglie. Gli scopi, del resto, sono quelli che emergono dalla conferenza di Roma dello scorso novembre «per fermare la violenza sessuale contro i bambini» e dal rapporto conclusivo del relatore Ursula Kilkelly. Nulla da obiettare, quindi. Quando si propone di radicare nelle società del mondo la protezione dei deboli e degli oppressi, il Consiglio d’Europa fa un eccellente lavoro. Eppure vi è un problema a cui una istituzione inter-governativa dovrebbe essere sensibile. Nella storia delle grandi battaglie civili arriva sempre il momento in cui la passione diventa ideologia e trasforma l’impegno in una sorta di militanza politica. Il problema viene semplificato, il pericolo ingrossato, il nemico dipinto come una presenza incombente da individuare e distruggere. Accade in tutti fenomeni che accendono l’immaginazione delle masse e soprattutto quando l’ideologia produce una nomemklatura dirigente, vale a dire un gruppo di persone che sono interessate, per conservare il potere, alla drammatizzazione del problema. «1 su 5» è una formula efficace, perfettamente adatta a una campagna pubblicitaria, ma meno compatibile con la prudenza di cui una grande istituzione internazionale dovrebbe dare prova in questa materia.

martedì 28 dicembre 2010

l’Unità 28.12.10
Un mese decisivo. Con i casi Bondi e Rai «l’esigua maggioranza andrà sotto», dice Ventura
I dati Ipsos vedono i democratici in crescita e la vasta coalizione da Sel a Fini sopra il 50%
«A gennaio governo sotto» Il Pd ci prova e cresce al 25,4%
A gennaio parte la battaglia del Pd in Parlamento dove la maggioranza rischia grosso con le mozioni Bondi e Rai. Intanto Bersani lavora alla direzione del 13 per indicare la rotta ma anche per “unire” il partito.
di Maria Zegarelli


Pier Luigi Bersani lavora alla direzione del 13 gennaio per mettere a punto «una cura all’altezza della diagnosi» effettuata sul «paziente» Paese che la pazienza la sta perdendo mentre a curarlo ancora oggi c’è un medico «inadeguato», arrivato al capolinea di una carriera fallimentare. Ma per far fuori il «primario» il Pd deve lavorare su più fronti. Il gennaio caldo dei democratici si giocherà in Parlamento, soprattutto alla Camera dove la maggioranza è talmente risicata da rischiare il tonfo praticamente ad ogni voto, e nel partito stesso, per mettere a punto una piattaforma programmatica in grado di guidare il Paese «oltre il berlusconismo» e di creare una larga convergenza con le altre forze di opposizione. Nel cassetto del segretario l’ultimo sondaggio riservato Ipsos registra un Pd in risalita al 25,4% e un oltre 50% la somma dei partiti di opposizione, da Sel al Terzo Polo. «È la dimostrazione che se riuscissimo a realizzare un’alleanza costituente
puntando su pochi ma qualificanti punti, dalle riforme istituzionali, a quelle economico-sociali, alla riforma del fisco alla legge elettorale, potremmo davvero aprire una nuova fase per il Paese e un nuovo decennio», raccontano nel quartier generale del Pd.
LA ROAD MAP DEL PD
Prima ancora della direzione ci sarà la sentenza della Consulta che dovrà pronunciarsi, l’11, sul legittimo impedimento da cui dipende il futuro del premier e il dibattito politico dei giorni successivi. Tema che sarà inevitabilmente al centro del dibattito nel parlamentino Pd, nel corso del quale Bersani cercherà di ricucire gli “strappi” interni. Tanti i malumori, dai rottamatori di Firenze, a Veltroni, Fioroni e ieri anche i prodiani e stavolta non è escluso che la direzione si concluda con un voto finale sulla linea. Poi, Bersani partirà per il «viaggio in Italia» prima tappa il nord-est tra gli studenti, le piccole e medie imprese, le categorie economiche e sociali dal Nord al Sud. Il 22 gennaio a Torino c’è il Lingotto 2 di Modem, da dove Veltroni lancerà le cinque proposte per rilanciare il Pd e la vocazione maggioritaria e dove non è esclusa la stessa presenza del segretario. La settimana successiva, il 28 e il 29 a Napoli si riunirà l’Assemblea nazionale nella quale mettere a punto un piano programmatico definitivo sulla base del quale aprire le consultazioni con le altre forze di opposizione. «Presenteremo il nostro programma per far ripartire il Paese con proposte concrete e che vorrà starci si unirà a noi», ha spiegato il segretario ai suoi.
LA BATTAGLIA IN PARLAMENTO
Altra battaglia quella in Parlamento. Silvio Berlusconi in questi giorni ha dato mandato di riaprire la campagna acquisti per i deputati, si dice sicuro di averne già in tasca dieci ma c’è anche chi è molto meno ottimista di lui nello stesso Pdl. E quindi il gruppo Pd si prepara alla guerra. Primo appuntamento la conferenza dei capigruppo per la calendarizzazione dei lavori, due i temi che scottano per la maggioranza: la mozione di sfiducia al ministro Sandro Bondi e quella di Fli sul Tg1. In queste ore sempre più insistenti le voci che danno Bondi dimissionario, furibondo con Tremonti per il mancato reintegro per il Fondo per lo Spettacolo, ma preoccupato per l’alto rischio sfiducia.
Delicatissimo il passaggio della mozione di Fli, se non ci saranno passi indietro da parte del partito del presidente della Camera che, dopo il 14 dicembre, non si è speso più di tanto per la calendarizzazione. Il vicepresidente dei deputati Pd, Michele Ventura, è discretamente ottimista: «La maggioranza ha un problema politico serio e stando così le cose mi sembra difficile che riescano a convincere tutti i deputati che gli servono a fare il salto della quaglia. Di fatto per la maggioranza e il governo sarà impossibile affrontare le riforme importanti per il Paese». Terza insidia: il decreto milleproroghe che dovrà passare le forche caudine della Commissione bicamerale e della Bilancio (dove c’è sostanziale parità tra maggioranza e opposizione) per poi approdare in Aula.

l’Unità 28.12.10
Ma la tenuta del Pd garantisce la democrazia al Paese
Alfredo D’Attorre, dirigente del Pd, risponde a Piccolo e Cacciari «e alle loro irridenti considerazioni su un partito che fra le ovvie difficoltà rappresenta un quarto dell’elettorato»
di Alfredo D’Attorre


Le irridenti considerazioni di Francesco Piccolo e di Massimo Cacciari sul ruolo del PD, pubblicate su l’Unità di ieri, sono interessanti non certo per l’originalità del contributo di analisi (in sostanza, la ripetizione della tesi per la quale l’opposizione non ha alcun merito delle difficoltà di Berlusconi e infatti non guadagna voti), né per l’indicazione di una qualche strategia politica alternativa (della quale naturalmente non c’è traccia in nessuno dei due articoli, a meno che non si voglia considerare sufficiente al riguardo l’accenno di Cacciari alla necessità di verificare la disponibilità di Montezemolo?).
L’interesse degli articoli risiede piuttosto nell’atteggiamento che essi rivelano di una certa parte del ceto intellettuale e giornalistico italiano di fronte all’attuale fase stori-
ca del nostro Paese. Il tratto fondamentale di questo atteggiamento è la radicale dissociazione e contraddittorietà tra l’analisi della natura del berlusconismo e della sua incidenza sul tessuto sociale e democratico e la valutazione del ruolo dell’opposizione.
Da un lato, si riconosce che siamo di fronte non a una ordinaria crisi di governo in un rodato regime bipolare di alternanza, ma a «una crisi senza precedenti della democrazia rappresentativa» (parole di Cacciari), dall’altro ci si stupisce perché in questo quadro i consensi non si spostano fisiologicamente dal governo all’opposizione.
Da un lato, si lamenta la torsione in senso populista e plebiscitario impressa dal berlusconismo al sistema politico e partitico italiano, dall’altro ci si scandalizza di fronte alla complessità del confronto interno del PD, l’unica forza politica italiana che non si identifica con il nome del suo leader e che mantiene in vita vere (e quindi inevitabilmente rischiose) procedure democratiche aperte agli iscritti e agli elettori.
Da un lato, si sottolinea l’assoluta anomalia rappresentata dalla concentrazione di risorse economiche e mediatiche nelle mani del capo del governo, dall’altro si trova inspiegabile che la voce dell’opposizione non emerga con sufficiente forza.
Da un lato, si sostiene che l’opposizione dovrebbe smettere di guardarsi l’ombelico e consentire all’Italia di liberarsi di Berlusconi, dall’altro si irride il tentativo del PD di mettere al centro le priorità del Paese e di chiamare su questo tutte le opposizioni a una comune assunzione di responsabilità.
In realtà, ciò che mantiene aperta una prospettiva democratica nel nostro Paese è proprio la tenuta del PD, che, pur con tutti i suoi difetti, continua a rappresentare più un quarto dell’elettorato, rimane il soggetto meno condizionabile da poteri esterni e più in grado di difendere un’idea di autonomia della politica, e resta l’unico perno su cui si può costruire un progetto di collaborazione tra le forze che intendono portare l’Italia oltre il berlusconismo.
* Responsabile coordinamento iniziativa politica PD

Repubblica 28.12.10
Bersani tentato dal Lingotto-bis di Veltroni
"Vado, mi piace la sfida dei programmi". E i prodiani accusano: Pd senza più bandolo
Sarà un test di unità con l´area dell´ex segretario. Nel nuovo anno tour in dieci città
di Goffredo De Marchis


ROMA Per costruire una piattaforma e un´identità chiara, per chiedere a un arco di forze molto ampio di unirsi al Pd e «andare insieme oltre Berlusconi», Pier Luigi Bersani deve soprattutto avere un partito unito alle spalle. Questa premessa sta spingendo il segretario a una mossa a sorpresa: andare al Lingotto il 22 gennaio per partecipare al primo appuntamento di Movimento democratico, l´area che fa capo a Walter Veltroni e che è la più critica rispetto alla linea di Bersani. Accusato dall´ex segretario, negli ultimi giorni, di «tatticismo», preso di mira da Paolo Gentiloni «per posizioni indifendibili», incalzato da Beppe Fioroni per la sua deriva troppo orientata a sinistra. Non sarà una passeggiata. Sarà semmai un banco di prova fondamentale perché molte parole d´ordine veltroniane sono diametralmente opposte a quelle di Bersani. Sarà anche un test per misurare la tenuta del Partito democratico su un tema fondamentale che proprio a Torino, città della Fiat, trova il suo luogo di elezione: le relazioni industriali e sindacali.
Bersani, il dirigente «non permaloso» come si definisce, accetta dunque la sfida dei programmi. Mentre il gruppo dirigente prepara il suo in vista dell´assemblea nazionale del 28-29 gennaio, il leader andrà ad ascoltare la piattaforma "parallela" di Modem che si propone di mostrare il vero lato innovativo di un nuovo centrosinistra e di un nuovo Pd. Veltroni pensa sia giusto invitare il segretario. Il segretario è decisamente orientato ad accettare l´ospitalità. Bersani ieri è tornato a puntare il dito contro Berlusconi, sottolineando la fragilità della sua vittoria. «Il premier può solo sopravvivere avvitato su se stesso. Se con un´ampia maggioranza ha chiesto 38 voti di fiducia, non so come potrà superare altri ostacoli con soli 3 voti più delle opposizioni». Ma adesso è concentrato sul profilo del suo partito. Dopo gennaio comincerà un tour di dieci città italiane non per galvanizzare le truppe democratiche ma per parlare a diverse categorie sociali. Prima tappa: una città del Nord est (Padova quasi sicuramente) per presentare la riforma fiscale del Pd.
Agli appuntamenti in giro per il Paese il segretario si presenterà con il programma del Pd preparato a gennaio. Durante il giro, nelle soste a Roma, incontrerà tutti i leader delle forze di opposizione, quelle in Parlamento e quelle fuori. Quindi, Vendola, Di Pietro, Casini, Rutelli, Fini. Dal Terzo polo alla sinistra più radicale, nell´impresa di mettere al centro di questo vasto schieramento il Pd e un´alleanza per affrontare le possibili elezioni anticipate oppure la traversata nel deserto di un governo che prosegue la legislatura.
Per portare il Pd unito al confronto, il segretario dovrà superare anche lo scoglio della direzione del 13 gennaio. E una mina l´hanno già piazzata i prodiani. Con una dura lettera al Corriere Arturo Parisi, Barbi, Santagata, La Forgia, Recchia, Soliani e Papini, dirigenti da sempre vicinissimi a Romano Prodi, parlano di un Pd «che ha smarrito il bandolo della matassa, che manca di rispetto a tutte le regole formali di un partito». I prodiani decidono allora di non protestare oltre. «Prendiamo atto, anche noi avremo mani libere e concorreremo alla vita del Pd decidendo caso per caso». È una forma di scissione strisciante, un atto di accusa che viene dal mondo prodiano un tempo simpatizzante della segreteria Bersani. È il segno di malessere che insieme a tanti altri non può essere trascurato.

Corriere della Sera 28.12.10
Nel Pd si è già rotta la tregua interna
Bersani spiazzato dal no del terzo polo. E Veltroni prepara il nuovo «correntone»
di  Maria Teresa Meli


ROMA — Mai pausa festiva è stata accolta con maggior piacere, nel Partito democratico, come quella di questi giorni. Il Pd infatti sta facendo una certa fatica a mettere a punto la sua strategia. Prova ne è la decisione di rinviare a gennaio la Direzione che si sarebbe dovuta tenere il 23 dicembre. Sono due i motivi che hanno indotto — e inducono — Pier Luigi Bersani a temporeggiare. Il segretario, anche ascoltando i consigli di D’Alema, aveva deciso di impostare una nuova politica delle alleanze guardando al terzo polo (altrimenti «con un’alleanza con Vendola e Di Pietro non andiamo da nessuna parte» , era stata nei giorni scorsi l’esortazione del presidente del Copasir). Ma adesso che sia Fini che Casini sembrano voltare le spalle al Pd e tentare la strada del confronto con la maggioranza, anche solo tatticamente, il segretario deve ricalibrare la linea. Questo è il primo motivo, non il più importante, però. La ragione da cui dipende l’apparente paralisi dell’azione del Partito democratico sta nella rottura della tregua interna. Prima del voto di sfiducia di metà dicembre Bersani era riuscito a convincere tutte le anime del partito a osservare una sorta di armistizio. E anche dopo, in un colloquio a tu per tu con Walter Veltroni, il leader aveva chiesto e ottenuto rassicurazioni in questo senso. Del resto, proprio a questo scopo, Bersani aveva anticipato all’ex segretario la sua svolta aperturista nei confronti del terzo polo. Ma con il volgere di qualche giorno la minoranza del Pd ha capito di non poter resta ingabbiata in questa tregua e Veltroni non ha più fatto mistero delle sue perplessità riguardo alla strategia impostata dal gruppo dirigente del partito. «Non si può inseguire Casini e non possiamo neanche rinunciare alle primarie» , è stata l’obiezione dell’ex segretario. Obiezione che ha fatto infuriare Bersani, convinto di essersi assicurato la pax interna. Una volta capito che così non è, il leader ha anche compreso che sarebbe pericoloso aprire ora un dibattito dentro il partito che rischierebbe di essere lacerante, tanto più che il terzo polo invece di fargli da sponda gioca una partita per conto suo. Le critiche alla linea del segretario troverebbero un terreno fertile in queste condizioni. Meglio, molto meglio rimandare il chiarimento interno. Anche perché alle obiezioni della minoranza veltroniana si sono ora aggiunte quelle di Arturo Parisi e degli altri parlamentari ulivisti della prima ora a lui vicini, che, come hanno scritto ieri sul Corriere della Sera, non considerano più scontato il loro appoggio alle decisioni prese da questo gruppo dirigente, né la loro partecipazione alle riunioni della Direzione. La situazione, dunque, è tutt’altro che facile, come dimostra il fatto che siano tornate a circolare voci di una possibile scissione. L’ala veltroniana più insofferente (quella, tanto per fare dei nomi, rappresentata da personaggi come Paolo Gentiloni e Roberto Giachetti) ormai non esclude più nulla, anche se ufficialmente nessuno pronuncia la parola scissione. Del disagio degli ex popolari si sa (anche se il loro leader Beppe Fioroni esclude che alcuni dei suoi parlamentari possano convolare a nozze con Casini e soci), e pure questo è un dato di cui Bersani non può non tenere conto: il segretario sa che non può più consentirsi nessun errore e che deve studiare bene quali carte giocarsi. Diventa quindi inevitabile attendere un certo lasso di tempo prima di affrontare di nuovo il problema di quale strategia debba avere il Pd. Il che non significa però che a gennaio sarà possibile sottoscrivere un’altra tregua interna. Anzi. A metà del mese prossimo è previsto il Lingotto due di Veltroni. E sarà quella l’occasione in cui l’ex segretario formalizzerà di fatto la sua decisione di assumere la leadership di un nuovo «Correntone» : una vasta area di minoranza che avanzerà le sue proposte senza fare nessuno sconto alla segreteria.

l’Unità 28.12.10
L’analisi
La nuova strategia della tensione
Esclusa una riedizione della politica stragista vissuta in Italia fra il 1969 ed il 1974, ecco una nuova stagione di conflitto che nasce dalla volontà di far tacere l’opposizione sociale
di Aldo Giannuli


Nel 1966, a seguito della decisione francese di uscire dalla Nato, la Cia mise a punto il Piano Chaos, per evitare che quell’esempio potesse essere imitato. Il Piano tendeva a «destabilizzare per stabilizzare» e cioè destabilizzare i singoli Paesi appartenenti all’Alleanza per rafforzare la loro dipendenza da essa. Insomma destabilizzare i Pae-
si europei per stabilizzare l’egemonia americana su essi.
Come è noto, l’attuazione di questo piano fu il motore primo della “strategia della tensione” promossa da una frazione dei gruppi dirigenti occidentali contro l’altra che perseguiva la “politica della distensione”. L’attuazione tattica del piano prevedeva attentati e delitti politici di vario tipo, per provocare una reazione d’ordine nell’opinione pubblica, che favorisse l’instaurazione di regimi autoritari fedeli alla Nato. Spesso (come nel caso del giornalista Leslie Finer che usò il termine per primo sull’Observer del 7 dicembre 1969) si è identificata questa espressione solo con la sua proiezione tattica, dimenticando che quella della tensione era, appunto, una strategia, un fine e non solo un modo di agire.
Spesso mi viene chiesto se ritengo possibile oggi una riedizione della strategia della tensione. Se si intende per essa la ripetizione della politica stragista che abbiamo vissuto in Italia fra il 1969 ed il 1974, non credo che questo sia particolarmente probabile. Viceversa è ragionevolissimo pensare che, mutatis mutandis, potremmo assistere a qualcosa di simile. Ma occorre tener conto del prevalere attuale delle dinamiche internazionali su quelle interne, insieme al carattere multipolare del mondo globalizzato che favorisce i fenomeni di guerra coperta e indiretta. E, inoltre, della forte interdipendenza fra livello economico, politico e sociale che trova il suo sbocco naturale nelle teorie della guerra asimmetrica, che insegna anche un uso calibrato e differenziato delle forme di lotta. In questo quadro, alcune di esse tendono a scaricarsi sul web che ormai è il “sistema nervoso” del mondo. Alla luce di queste considerazioni leggiamo quello che sta accadendo: c’è una crisi economica irrisolta che sta sfociando nel conflitto valutario più grave mai accaduto, nel quale si inseriscono tanto la speculazione finanziaria sul cambio quanto le manovre dei singoli stati per piegare gli altri alla propria volontà. In questo clima internazionale deteriorato come mai dal 1991, i governi si trovano fra il martello delle pressioni internazionali e l’incudine dell’incombente protesta sociale, ugualmente attivata dalla crisi. Una situazione nella quale alcuni possono essere tentati dalla carta dell’emergenza per colpire sul nascere l’opposizione sociale, criminalizzandola. In Italia, a differenza del 1969, la protesta non è ancora pienamente esplosa, ma già si manifesta il “fuoco di interdizione” preventivo.
Altri, però, possono pensare allo stesso sistema per destabilizzare e colpire concorrenti ed avversari.
Messa in questi termini, sì, forse stiamo assistendo ad una nuova edizione della strategia della tensione.

l’Unità 28.12.10
Quest’Italia sempre più Gomorra
Quattro libri indagano come oggi le mafie prosperino in «convergenza obiettiva» con la politica della destra
di Nicola Tranfaglia


La domanda centrale che si pongono oggi tanti italiani di fronte alla «convergenza» obiettiva, che si sta realizzando ormai tra mafia e politica di destra nell’Italia contemporanea, è sicuramente: perché la mafia cresce ancora? Questa è anche la mia preoccupazione da molto tempo. Qualcuno ricorderà che nel 1991, qualche mese prima delle stragi che uccisero tra maggio e luglio 1992 Falcone e Borsellino e le loro scorte, scrissi un libretto pubblicato da Vito Laterza e intitolato La mafia come metodo.
Ora, nell’Italia berlusconiana, mi piacerebbe scrivere un piccolo saggio intitolato più o meno: 150 anni di Italia unita ma la mafia c’è sempre, anzi cresce ancora. Sono sicuro che nessun editore (tra i grandi o i medi editori), vorrebbe pubblicare il mio libro. Questo è inevitabile, purtroppo, in un Paese in cui ormai, da quasi tre anni, si stanno uccidendo con appositi provvedimenti politici e legislativi la scuola, l’università e la ricerca scientifica.
Un esempio recentissimo di questa mia preoccupazione? Proprio oggi, in Calabria, sono state arrestate dodici persone per associazone mafiosa e corruzione elettorale aggravato. Sono stati fermati un consigliere regionale del Pdl e quattro candidati dello stesso partito a un’elezione comunale nella stessa regione. E potrei citare centinaia di altre notizie giornalistiche arrivate negli ultimi mesi. Ma il problema della lotta alle mafie, diceva Giovanni Falcone, non è soltanto quello della repressione di polizia e dei giudici (pur necessaria) ma ci vuole una forte educazione civile che spetta allo Stato democratico (che in questo periodo, mi pare, si occupi di altro).
Ora tra i tanti libri che si continuano a pubblicare sulle mafie vorrei segnalarne almeno quattro, che sono arrivati sul mio tavolo di lavoro nelle ultime settimane: anzitutto quello di Nando Dalla Chiesa che non a caso si intitola Convergenza Mafia e politica nella seconda repubblica ( Melampo), Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo ( Aliberti) e Nel labirinto degli dei di Antonio Ingroia Il Saggiatore, Potere criminale intervista di Salvatore Lupo (Laterza).
Che cosa emerge da questi libri che sono opera di magistrati e studiosi che da molto tempo si occupano, in maniera quasi esclusiva, del enomeno mafioso? Mi pare di poter dire che una serie di elementi offerti all’attenzione degli italiani sono confermati dal lavoro scientifico e culturale in corso come da testimonianze di particolare rilievo di magistrati e di politologi. Cercherò di mettere in fila gli elementi che mi sembrano di maggior interesse storico e attuale nello stesso tempo.
Il primo riguarda sicuramente i rapporti passati e presenti delle classi dirigenti e del ceto politico di governo con le associazioni mafiose. Salvatore Lupo, ad esempio, che da storico studia da alcuni decenni il fenomeno mafioso, afferma, nella sua intervista a Gaetano Savatteri, che in Italia «i poteri palesi lasciano ai poteri occulti uno spazio vergognosamente grande. Le mafie (e i servizi segreti, per intenderci) usano questo spazio per mettere in piedi un gioco di segnali, pressioni, intimidazioni e ricatti che essenzialmente appartiene al loro mondo». A sua volta, Nando Dalla Chiesa che è stato in passato parlamentare e membro della commissione Antimafia, sottolinea la convergenza oggettiva che si è creata di nuovo tra alcuni politici (o addirittura forze politiche?) e le associazioni mafiose. E a pagina 82 del suo bel libro sugli ultimi vent’anni in Italia scrive testualmente: «La strage di via d’Amelio (19 luglio 1992) non conclude la Svolta, che termina quasi due anni dopo, con le elezioni vinte da Silvio Berlusconi nel marzo 1994. Però il 19 luglio 1992 appare sempre più essere, verosimilmente, il luogo di incrocio profondo tra la Svolta e la trattativa tra Stato e mafia, tra politica e mafia. Il punto a partire dal quale Svolta e trattativa si intrecciano, procedendo insieme, e influenzandosi a vicenda. Fino a pesare insieme come un nuovo peccato originale, dopo quello del ’43, sulla natura della Seconda Repubblica».
Ma la storia non finisce qui perché, a leggere il libro di Ingroia e quello di Bongiovanni e Baldo, si fanno inquietanti deduzioni. Antonio Ingroia, che pure non esce dal suo riserbo investigativo, sottolinea dati importanti oggi sottoposti ad indagini giudiziarie come la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, i dubbi sul luogo in cui venne premuto il telecomando della bomba che fece saltare in aria il giudice e la sua scorta, i retroscena della falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino, i numerosi e ormai accertati depistaggi istituzionali su quella terribile strage.

il Riformista 28.12.10
C’è di peggio alle spalle di Tonino
Antonio Di Pietro ha infine incontrato la prima vera opposizione nel suo partito personale, l’Italia dei valori. Un’organizzazione cesarista al cospetto della quale persino il Pdl appare una formidabile macchina di pluralismo...
di Stefano Cappellini

qui
http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/320024/

l’Unità 28.12.10
Il segretario Pd : la politica si pronunci sul modello di relazioni sindacali che si delinea
Le tute blu Cgil domani decidono iniziative di lotta. Oggi l’incontro per il contratto di Pomigliano
Fiat, Bersani chiama il Parlamento La Fiom vuole lo sciopero generale
Sulla Fiat Bersani chiede l’intervento di governo e Camere: «Non è possibile che una palla di neve diventi una valanga per il sistema senza che nessuno ne parli». Oggi incontro per Pomigliano.
di Laura Matteucci


L’accelerazione di fine anno sulla Fiat che verrà, su cui Marchionne ha voluto spingere con l’accordo di giovedì scorso per Mirafiori, è ai massimi. Azienda e sindacati (eccetto la Fiom Cgil, che non ha firmato l’intesa del 15 giugno) si riuniscono oggi a Roma per mettere a punto il contratto della newco di Pomigliano, che interessa 4600 lavoratori: si discuterà di salario, orari, scatti di anzianità e diritti sindacali, con i firmatari che annunciano un contratto migliore di quello nazionale dei metalmeccanici e che «non rappresenterà alcuno sfregio» ai diritti. «Un contratto dice Bruno Vitali della Fim che dovrà poi rientrare dentro Confindustria e rappresentare un salario più alto per tutti i lavoratori». Il testo sarà chiuso in settimana, anche perchè da gennaio dovrebbero partire le assunzioni. E domani, invece, si riunisce in via straordinaria il comitato centrale del sindacato escluso, la Fiom, proprio per discutere le iniziative da assumere dopo l’intesa per Mirafiori. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani, intanto, chiama in causa governo e Parlamento, perchè si pronuncino sul modello di relazioni sindacali che si vanno delineando. «Gli investimenti e l’utilizzazione piena degli impianti sono prioritari dice Bersani Però qui c’è una terza cosa, che riguarda un effetto di sistema, cioè il sistema delle relazioni sindacali e della partecipazione dei lavoratori. Non è possibile che una palla di neve divenga una valanga per tutto il nostro sistema senza che nessuno ne parli». L’iniziativa della Fiat «se porterà a sollecitare continua Bersani una riforma dei meccanismi di partecipazione e rappresentanza del lavoro, avrà un esito buono. Se invece porterà ad una disarticolazione dei rapporti sociali sarà molto negativa».
FORZA E RASSEGNAZIONE
Susanna Camusso, segretaria della Cgil, è uscita con parole molto nette contro tutti: Marchionne è definito «antidemocratico e autoritario», Cisl e Uil sindacati aziendalisti, soprattutto per aver firmato un’intesa che esclude il terzo sindacato confederale, la Fiom «non può non aver commesso degli errori», e Confindustria non può restare immobile se vuole evitare la disarticolazione del sistema di relazioni industriali e rischiare l’esplosione del conflitto sociale. Domani, si diceva, il comitato della Fiom: la decisione di mobilitare l’intero gruppo Fiat viene data per scontata, mentre Giorgio Cremaschi è tornato ieri a chiedere alla Cgil quello che tutto il sindacato dei metalmeccanici ha già chiesto da tempo, lo sciopero generale. Un’iniziativa che, però, può venire decisa solo in sede di direttivo, e il prossimo non è stato ancora convocato. Il 10 gennaio, intanto, si riunisce la segreteria, mentre l’11 e il 12 si terrà l’assemblea nazionale delle Camere del Lavoro: saranno anche le sedi per delineare un percorso di mobilitazione (non solo su Fiat, ma per l’intero mondo del lavoro), a partire dalle marce per il lavoro che Camusso ha già lanciato.
Il 2011 per i lavoratori della Fiat si annuncia durissimo, «ma noi continueremo a mobilitarci in tutte le sedi opportune», avverte Giorgio Airaudo, responsabile auto per la Fiom. «L’accordo per Mirafiori (dove ripartirà la cassa integrazione per un anno da febbraio, ndr) è costruito perchè non si possa più contrattare sul lavoro spiega E questo muta radicalmente le relazioni esistenti. È permeato di antisindacalità e, tra turni massacranti e pause ridotte, non tutela la salute dei lavoratori. Fim e Uilm hanno sbagliato: i sindacati nascono per dare forza a chi è debole, non per dirgli “rassegnati, non c’è altro da fare”».

l’Unità 28.12.10
Le nuove regole: non si eleggono rappresentanti e non si sciopera
Ecco alcuni dei punti più controversi dell’accordo per Mirafiori che la Fiom Cgil non ha firmato


ORARIO DI LAVORO Possibili 4 orari a partire dal 2012, quando nascerà la joint-venture tra Fiat e Chrysler: oltre all’attuale, 8 ore al giorno per 5 giorni (5 per 2), verrà introdotto il turno di notte sia su 5 giorni (5 per 3)siasu6giorni(6per3,doveil sesto giorno è il sabato). Verrà valutata anche «la sperimentazione» per almeno 1 anno di turni di 10 ore per 6 giorni la settimana. Si lavora 10 ore per 4 giorni, poi si riposa per i successivi 3. L’azienda potrà ordinare fino a 120 ore l’anno di straordinari (oggi il massimo è 40), e contrattare altre 80 ore per ognuno.
MENSA E PAUSE La pausa mensa di mezz’ora è rimasta a metà turno (e non a fine turno, come richiesto dall’azienda), ma solo fino alla nascita della società con Chrysler. Dal 4 aprile la durata complessiva delle tre pause verrà ridotta di 10 minuti, da 40 a 30. I 10 minuti verranno monetizzati in 45 euro lordi al mese.
MALATTIA L’intesa mette in collegamento malattia e assenteismo. Quando il tasso supera una certa soglia (il 6% a luglio 2011, il 4% a gennaio 2012 e così via) il primo giorno di malattia, se capita immediatamente prima del giorno di riposo o di un periodo di ferie, non verrà pagato. Escluse le patologie più gravi.
SCIOPERI Il contratto non prevede l’elezione dei delegati. I sindacati firmatari possono nominare i loro rappresentanti, la Fiom no. I sindacati che sciopereranno contro l’accordo verranno puniti (in relazione a permessi e contributi), i lavoratori che lo faranno potranno essere licenziati. Ognuno dovrà sottoscrivere il contratto quando nascerà la joint-venture.

Corriere della Sera 28.12.10
Fiom incalza Cgil: ora sciopero generale
Cremaschi: a Mirafiori accordo da fascismo. E a Pomigliano si prepara il nuovo contratto
di Enr. Ma.


ROMA — Fiat e sindacati (tranne la Fiom-Cgil) vanno avanti spediti per far decollare Fabbrica Italia, il progetto di Sergio Marchionne per raddoppiare la produzione di automobili negli stabilimenti italiani nell’ambito del progetto di rilancio del gruppo Fiat-Chrysler. Oggi l’azienda e i sindacati Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic e Ugl si incontrano per mettere a punto il contratto di lavoro col quale verranno riassunti, a cominciare da gennaio, i lavoratori di Pomigliano (circa 4.600 al momento). Tra oggi e domani, quando l’intesa potrebbe essere raggiunta, si tratta di dar corso al primo accordo del piano Fabbrica Italia, firmato qualche mese fa, riguardante appunto lo stabilimento Giambattista Vico. Anche qui, come per Mirafiori, dove Fiat e sindacati (tranne la Fiom) hanno raggiunto l’intesa il 23 dicembre, i lavoratori saranno riassunti da una newco che per il momento non aderirà a Confindustria e non applicherà il contratto nazionale dei metalmeccanici, ma quello aziendale che verrà definito. Che conterrà anche regole sulla rappresentanza che impediranno alla Fiom, non firmataria del contratto, di avere rappresentanti in fabbrica. A questa mossa la Fiom risponderà domani con una riunione straordinaria del comitato centrale. Che dovrà decidere che posizione prendere rispetto al referendum tra i lavoratori sull’accordo di Mirafiori che si terrà a metà gennaio e se proclamare nuovi scioperi. Giorgio Cremaschi che guida l’ala dura, ieri ha fatto riferimento al «2 ottobre 1925» «quando Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi fascisti firmavano a Palazzo Vidoni un accordo che cancellava le elezioni delle commissioni interne. L’accordo di Mirafiori che cancella le elezioni delle rappresentanze aziendali è, da allora, il più grave atto antidemocratico verso il mondo del lavoro» . Il presidente del comitato centrale della Fiom ha poi chiesto di nuovo al leader della Cgil, Susanna Camusso, di proclamare lo sciopero generale. Ma il segretario generale ha già detto di no. La Camusso punta invece a far abbandonare alla Fiom la strada seguita finora, che l’ha portata all’isolamento rispetto agli altri interlocutori senza essere riuscita a offrire ai lavoratori una prospettiva che non sia la protesta. Allo stesso tempo il leader Cgil ha lanciato la proposta alla Confindustria e alle altre confederazioni sindacali di aprire un tavolo su nuove regole di rappresentanza. Finora però un’apertura è venuta solo dal segretario generale Fim, Giuseppe Farina. Per il resto, imperversa la polemica politica. Mentre Camusso ha definito Marchionne «antidemocratico, illiberale e autoritario» il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, lo difende, aggiungendo che l’accordo di Mirafiori «può fare scuola» per rilanciare l’azienda e far crescere i salari (250 euro in più al mese, dicono i sindacati) attraverso l’aumento della produttività. Il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, teme invece «che una palla di neve divenga una valanga per il nostro sistema» portando a «una disarticolazione dei rapporti sociali» . Bersani vuole un dibattito in Parlamento mentre l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, chiede a Cisl e Uil come possano aver firmato un accordo che cancella quello che avevano sottoscritto nel ’ 93 sulla rappresentanza e torna alle regole del 1970. Ma per il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, «è finito il tempo in cui la Cgil dettava legge» .

l’Unità 28.12.10
Unità sindacale. La lezione che viene dal 1960
Vertenze di ieri e di oggi
di Carlo Ghezzi, presidente della Fondazione Di Vittorio


Nel luglio sessanta imponenti agitazioni scuotono il Paese, i morti di Reggio Emilia e della Sicilia, lo sciopero generale della Cgil pongono fine all’avventura del governo Tambroni appoggiato dal Movimento sociale italiano e determinano la fine dell’agonia del centrismo che impediva l’apertura di una fase politica nuova che porta al centro-sinistra ma anche all’avvio della «riscossa operaia».
È a Milano che si compiono in quell’anno scelte sindacali che segnano un cambiamento epocale. La Fiom milanese (la rappresentanza sindacale dei metalmeccanici nella Cgil, ndr), diretta da Giuseppe Sacchi, e la Fim, ove opera Pierre Carniti, danno il via ad una stupefacente stagione di mobilitazioni caratterizzata da convergenze unitarie e da forme di lotta che anticipano quanto accadrà nell’autunno caldo mentre si vedono per la prima volta degli studenti sfilare con i lavoratori.
Il dieci dicembre 1960 Intersind sottoscrive un accordo che recepisce le richieste degli elettromeccanici ma Assolombarda non accetta.
Il suo fronte si sgretola e alcuni industriali cominciano a firmare accordi a livello aziendale.
Il 1960 si conclude con l’immensa manifestazione indetta dalla sola Fiom di centomila elettromeccanici che a Natale si radunano in Piazza Duomo con i propri familiari.
La scelta solleva l’avversione della Cisl e molte critiche sui giornali mentre i lavoratori raccolgono diffuse simpatie culminate con il saluto che il cardinale Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, durante la Messa solenne rivolge a coloro che si battono per il rinnovo contrattuale e per una maggior giustizia sociale.
Da allora si comincia a porre fine alla vecchia parola d’ordine «marciare divisi per colpire uniti» che viene sostituite da «uniti si vince» che favorisce l’unità tra lavoratori di diverse culture e storie e avvia la lunga preparazione dell’autunno caldo con le sue grandi conquiste sindacali, l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, le battaglie per un welfare universale e solidale.
E oggi? In una situazione di una profonda divisione sindacale sulle politiche contrattuali, sul sistema di relazioni industriali, sulla natura e sul ruolo del sindacato, il riproporre quei fatti che contribuirono a riportare il lavoro e la sua dignità nella parte alta dell’agenda politica può stimolarci a riflettere su quali siano i grimaldelli che possono scardinare il preoccupante muro di incomunicabilità eretto tra le organizzazioni sindacali, la pratica degli accordi separati, la mortificazione della democrazia sindacale e della partecipazione dei lavoratori.

l’Unità 28.12.10
«Migranti etiopi ed eritrei torturati nelle gabbie. Ecco l’inferno del Sinai»
Rapporto shock dei medici israeliani che accolgono i sopravvissuti alla traversata nel deserto: le donne stuprate ci chiedono di abortire
di Umberto De Giovannangeli


Un inferno svelato. Da chi è riuscito a fuggirne. Un inferno che lascia segni indelebili nel fisico e nella mente. Un universo di sofferenza analizzato dal gruppo Physicians for Human Rights-Israel (Phr) in un recente rapporto di cui l'Unità ha preso visione nella sua versione più aggiornata. I rifugiati africani che attraversano il deserto del Sinai per cercare di raggiungere Israele rimarca il rapporto sono vittime di torture, abusi e stupri da parte dei trafficanti beduini.
Il rapporto dell'associazione dei medici israeliani si basa su questionari distribuiti fra i pazienti dell’ospedale del Phr-Israel a Tel Aviv.
I profughi, etiopi ed eritrei, raccontano che i trafficanti beduini prendono in consegna gruppi di due-trecento persone per condurli in Israele, ma poi li rinchiudono in container e gabbie metalliche dove vengono picchiati, privati di cibo e acqua, sottoposti a torture contusioni e scariche elettriche, appesi per i piedi o le mani.
Le donne vengono separate dagli uomini e stuprate. Dei 165 aborti richiesti all’ospedale fra gennaio e novembre 2010, la metà erano per gravidanze frutto di stupri.
Nello stesso periodo, 1.303 donne sono state sottoposte a trattamenti ginecologici, la maggior parte dei quali resisi necessari a causa delle violenze subite, durante il lungo viaggio attraverso il deserto africano.
Le difficoltà affrontate nel Sinai hanno anche provocato un aumento del numero di pazienti assistiti presso i servizi riabilitativi della Open Clinic.
Nei primi undici mesi del 2010, 367 persone sono state sottoposte a trattamento ortopedico e 225 a fisioterapia.
Per raccogliere informazioni più precise sul crescente numero di casi di violenza, sequestro, stupro, abusi fisici e sessuali, Phr ha deciso di documentare in modo sistematico le testimonianze dei pazienti che arrivano in Israele attraverso il deserto del Sinai. Intervistando ad oggi 167 persone provenienti da Eritrea ed Etiopia, Sudan, Costa d’Avorio Leone, Somalia, Nigeria, Ghana, Congo e Sierra, tra cui 108 uomini e 59 donne.
I primi risultati come riporta con accuratezza e profondità Nenia news che ringraziamo per il prezioso contributo mostrano che i rifugiati eritrei ed etiopi subiscono le maggiori violenze e quindi ai fini del rapporto redatto, le loro risposte sono state analizzate separatamente. Delle 13 donne che hanno accettato di rispondere alle domande relative a episodi di violenza sessuale (22% del totale), il 38% ha risposto affermativamente. Se si eccettua la parte relativa alle violenze sessuali, la partecipazione alle interviste è stata elevata. I seguenti dati sono stati raccolti attraverso 144 interviste. Il 77% dei rifugiati eritrei ed etiopi hanno raccontato di essere stati vittime di aggressioni fisiche, quali pugni, schiaffi, calci e frustate (rispetto al 63% di pazienti provenienti da altri paesi africani). Il 23% dei pazienti eritrei ed etiopi hanno riferito di aver subito bruciature, marchiature a fuoco, scosse elettriche, e di essere stati appesi per le mani o i piedi. Nessun paziente proveniente dagli altri paesi ha raccontato di aver subito questo genere di torture. Il 94% degli eritrei ed etiopi ha riferito di essere stato privato di cibo e il 74%, privato di acqua. Un fenomeno che si verifica anche tra gli altri rifugiati africani.
Due settimane fa, Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, ha realizzato un approfondito reportage intitolato Desert Hell (Inferno Deserto) in cui Phr, denuncia le torture e gli abusi, ormai istituzionalizzati, subiti dai rifugiati (specialmente da quelli provenienti da Etiopia ed Eritrea), nel Sinai, durante l’estenuante viaggio verso Israele . Secondo numerosi resoconti, gruppi di circa 200-300 eritrei sono portati nel Sinai, dove sono detenuti in container o aree recintate. I prigionieri sono sottoposti a tortura mediante percosse o bruciature, mentre i contrabbandieri chiamano i loro parenti chiedendo l’immediato trasferimento di denaro in cambio della garanzia per il rilascio e per il transito fino al confine con Israele. A causa delle ingenti somme richieste come riscatto, spesso sono necessarie settimane o addirittura mesi affinché i rifugiati possano raggiungere la frontiera. E’ durante questo periodo che le donne sono separate dal gruppo, detenute in ambienti appartati e sottoposte a ripetuti atti sessuali, abusi e stupri per mano dei loro rapitori.
Nei giorni scorsi, a ridosso di Natale, Phr ha raccolto nuove testimonianze che inducono a ritenere che la situazione nel Sinai stia diventando sempre più precaria. Mentre in precedenza alle vittime veniva richiesto di pagare tra i 2.500-3.000 dollari, attualmente la somma chiesta come riscatto è di 9.870 dollari. Secondo quanto è stato riferito a PHR da fonti vicine agli ostaggi attualmente sequestrati nel deserto, circa 220 persone sono attualmente detenute dai contrabbandieri in un ‘campo di tortura’ del Sinai. Al gruppo di 80 individui che sono arrivati un mese fa si sono aggiunti la scorsa settimana 140 profughi diretti verso Israele.
Oltre ai rischi e ai soprusi già menzionati, i profughi diretti in Israele devono anche affrontare le guardie di frontiera egiziane che spesso «sparano per uccidere». Nell’ultimo anno, gruppi di rifugiati hanno affermato che le guardie di frontiera egiziane sono diventati più spietate, ferendo e uccidendo più rifugiati rispetto agli anni passati. A peggiorare ulteriormente le cose vi è la politica definita hot return (ritorno caldo) adottata a volte dall’esercito israeliano e contraria al diritto internazionale; i rifugiati vengono cioè respinti in Egitto per un lasso di tempo che varia da un’ora a cinque giorni dal loro ingresso in Israele. Nonostante i rapporti sulle percosse, le morti, gli stupri e i respingimenti immediati siano ben noti alle autorità israeliane, queste politiche continuano ad essere routine. Ogni rifugiato che entra in Israele è trattenuto in uno dei due centri di detenzione israeliani: ad oggi si tratta di circa 2.000 rifugiati e richiedenti asilo, tra cui donne, bambini piccoli, e minori non accompagnati. Devono aspettare diverse settimane o anche mesi prima di vedere un medico penitenziario e problemi come la riabilitazione e la salute mentale sono del tutto trascurati. Dopo settimane di attesa, mesi e talvolta anni, i richiedenti asilo sono rilasciati con nient’altro che un biglietto dell’autobus per una delle più importanti città di Israele. I profughi respinti da Israele in Egitto vengono poi rimpatriati nella maggior parte dei casi. I profughi catturati dalla polizia egiziana sia nel deserto sia al confine subiscono abusi fisici e sessuali, la detenzione e la deportazione verso i loro Paesi d’origine. Sebbene l’Unhcr e le Ong egiziane siano talvolta in grado di intervenire in favore dei profughi di fronte al rischio del rimpatrio (compresi i casi in cui questo significa la morte certa o la detenzione in Paesi quali Sudan, Eritrea e Somalia), nel corso degli ultimi 3 anni centinaia di rifugiati sono stati rimpatriati dall’Egitto verso i loro Paesi d’origine. Nel giugno 2008, varie fonti hanno riportato una deportazione di massa di centinaia di profughi eritrei ed etiopi verso i loro Paesi d’origine. Molti sono stati uccisi al loro arrivo, altri sono stati imprigionati o sottoposti alla coscrizione militare. «Non tutti sanno rileva Roberto Malini dell’Ong EveryOne che i migranti che non pagano il riscatto finiscono proprio sul mercato degli organi, mentre le giovani donne finiscono in quello della prostituzione. Fonti locali ci riferiscono che oltre ai 250 migranti, ve ne sono attualmente altri 2000 circa, prigionieri in edifici o container sotterranei di città del Sinai, in Egitto e nei Territori. Dietro questo traffico che frutta milioni di euro ogni mese, vi sono le grandi organizzazioni mafiose e terroristiche: la Muslim Brotherhood (legata ad Hamas) e Al Qaeda».

l’Unità 28.12.10
Antisemitismo, il socialismo degli imbecilli
È la definizione di Bebel. Un saggio ricostruisce il clima in cui dalla fine dell’Ottocento maturarono i falsi «protocolli», l’affare Dreyfus e, a seguire, il razzismo fascista e nazista
di Nunzio Dell’Erba


L’antisemitismo, come movimento ostile al popolo ebraico, si perde nelle ombre dei secoli, ma si afferma in un’accezione moderna nel complesso ambiente intellettuale dell’Europa postilluminista. Lungo il XIX secolo la Francia produsse una cospicua letteratura antisemita, ma il termine fu coniato nel 1879 dal giornalista tedesco Wilhelm Marr, che lo introdusse per criticare l’eccessiva presenza della borghesia ebraica nel mondo finanziario dell’Impero guglielmino. Ad esso seguì alcuni anni dopo l’espressione «socialismo degli imbecilli», utilizzata per la prima volta al congresso socialdemocratico di Colonia (1893) da August Bebel, che la usò per confutare l’equazione ebraismo uguale a capitalismo.
Un terreno fertile La critica del socialista tedesco ha fornito lo spunto a Michele Battini per pubblicare un documentato volume – Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. XXX-293) – dove riesamina la letteratura antiebraica quale si ritrova nel pensiero cattolico conservatore e si sviluppa in alcuni spezzoni del socialismo francese.
Negli ultimi lustri del XIX secolo queste voci fecero presa nei settori antidemocratici del movimento socialista, alimentate dai pamphlet di Benoit Malon, Gustave Tridon e Auguste Chirac, il cui antisemitismo s’incrociò con quello del cattolico Edouard Drumont. In una Francia sconvolta dalla crisi economica e dalla critica alla rappresentanza politica, la propaganda antisemita trovò un terreno fertile nell’affare Dreyfus e nella confezione delle false prove contro il capitano ebreo nell’accusa di alto tradimento. Ma si sovrappose alla preistoria francese della fabbricazione dei Protocolli dei savi di Sion, che rappresentano nella storia delle contraffazioni «uno dei falsi più longevi», utilizzati dalla polizia russa per giustificare i pogrom del 1903 con l’esistenza di un presunto complotto ebraico per il dominio del mondo.
Nel 1903 I Protocolli apparvero per la prima volta in forma ridotta sul giornale «Znamja» di Pietroburgo tra il 26 agosto e il 7 settembre 1903 e due anni dopo come testo integrale per iniziativa di Sergej Nilus, una figura a mezza strada tra l’intrigante e il mistico. Ma la pista francese, certamente la più attendibile per ricostruire il famigerato testo, presuppone la definizione dell’antisemitismo come «socialismo degli imbecilli», che per l’autore «va molto più in là» della semplice «contraffazione poliziesca», ponendosi come reazione europea al libero mercato, all’emancipazione giuridica degli ebrei e alla loro acquisizione della moderna cittadinanza.
Tuttavia rimane il fatto che i Protocolli siano un plagio del testo Dialogo agli Inferi tra Machiavelli e Montesquieu edito nel 1864 e scritto da Maurice Joly. In questo testo egli deplorò il dispotismo di Napoleone III e la sua mancanza di «senso morale e religioso» per il suo ossessivo ricorso ad «ogni sorta di astuzie, di dissimulazioni e di inganni» per detenere il potere. Il pamphlet dello scrittore francese si caratterizza anche come fonte d’ispirazione per gli autori dei Protocolli, che ripresero il contenuto per mettere in rilievo la dicotomia tra anelito alla libertà e libertinaggio, diseguaglianza sociale e moto di ribellione, promozione del consumismo e blocco dei salari.
«La lupa» Alla loro pubblicazione i Protocolli non suscitarono alcun interesse in Italia, anche se idee antisemite circolavano nei primi lustri del Novecento sulle riviste cattoliche, sindacaliste rivoluzionarie e nazionaliste. Emblematico il caso della rivista «La Lupa» fondata nel 1910 da Paolo Orano, a cui l’autore dedica un interessante profilo, attribuendogli l’ingrato merito di avere inaugurato la campagna antiebraica in Italia e di avere preparato il varo delle leggi razziali.
Interlandi e preziosi Più che ad Orano esso deve essere attribuito a Telesio Interlandi e a Giovanni Preziosi, entrambi fascisti della prima ora e promotori di fogli antisemiti come «Il Tevere» e «La Vita Italiana». Dalla prima (1921) alla seconda edizione (1937) dei Protocolli fu Preziosi ad alimentare l’antisemitismo come uno dei veicoli della progressiva «nazificazione dell’ideologia fascista» e d’una situazione in cui la babele dell’odio portò alla legislazione razziale e alla caduta del regime fascista. Un capitolo che, per l’autore, non si è concluso con la catastrofe degli ebrei e la dimostrazione della falsità dei Protocolli, ma si è protratto fino ai nostri giorni per la loro diffusione in alcune zone calde del pianeta.

Un documentato excursus dell’antigiudaismo
Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Michele Battini pagine 293, euro 12,99 Bollati Boringhieri
Le prime espressioni dell’antisemitismo si avvertono già all’inizio del XIX secolo e devono essere lette nel contesto della rivolta contro l’Illuminismo politico e i diritti di cittadinanza. In questo erudito e documentatissimo libro, Michele Battini ripercorre e, anzi, ricostruisce tutta la tradizione antigiudaica fino all’antisemitismo moderno.

l’Unità 28.12.10
«Mission to Marx»
La sinistra sa ridere (anche) di se stessa?
È nelle librerie il “Dizionario satirico della sinistra” realizzato da Luca Bottura, ex l’Unità e Cuore. Ritratti brillanti e amari di personaggi, fatti partiti e movimenti progressisti e non
di Massimo Filipponi


A Woody Allen una volta chiesero se il sesso fosse una cosa “sporca”. La risposta fu immediata: «Sì, se fatto bene». Per la satira, mutatis mutandis, vale lo stesso discorso. Se fatta bene, la satira non può non essere corrosiva, graffiante e soprattutto per quei personaggi che la subiscono indigesta. Luca Bottura, penna acuta («ah, ah» direbbe lui), ex giornalista de l’Unità e di Cuore, conduttore di Lateral su Radio Capital, titolare della rubrica “Makaroni” sul Corriere della Sera, nonché autore per molti comici (Crozza, Bertolino, Cornacchione) e trasmissioni televisive (Victor Victoria, Cabello su La7), nel suo libro Mission to Marx (Aliberti editore, 398 pagine) non fa sconti a nessuno (euro 19 per tutti. «Ah ah» ridirebbe lui).
Pensare, scrivere e dire battute però non basta quando il progetto è ambizioso. E un dizionario satirico della sinistra (questo il sottotitolo) è compito ai limiti delle possibilità umana. Nel realizzare Mission to Marx Bottura ha coniugato la vivacità del lessico con il puntiglio dell’archivista. Ne è venuto fuori un mix esaltante: il recupero di voci dimenticate (Kgb, Pdup, Psiup, La Rete, Bolscevismo), l’approfondimento originale di quelle abusate (D’Alema, Pd, Prodi, Veltroni) e autentici scoop su alcune impensabili in un dizionario della sinistra (Turigliatto, Lario Veronica e Fare Futuro). Il tutto illustrato da didascalie parte integrante del progetto satirico.
Per evitare l’autoreferenzialità di ciò che Bottura scrive de l’Unità (dopo aver scritto su l’Unità) non trattiamo. Vogliamo anticipare, però, alcune chicche di cui il dizionario è ricco, brillanti definizioni che faranno parlare (forse anche in Tribunale). Una curiosità alla voce Matteo Renzi: «Nel 1993 ha partecipato e vinto a “La ruota della fortuna”. Per dire qualcosa di sinistra gli toccava comperare una vocale». Su Mario Chiesa (non viene riportata la data di nascita in quanto «non ama declinare le generalità»), celebre apripista della saga di Tangentopoli, Bottura rivela «gli fu fatale l’avidità: Chiesa voleva il 10 per cento, mentre la Chiesa si accontenta dell’8 per mille». Si ricorda che Daniele Capezzone (impressionante la somiglianza con Carl Switzer, l’Alfalfa delle Simpatiche canaglie) «è stato deputato della Rosa nel Pugno, dal 2004 al 2007 ha fatto “Markette” con Piero Chiambretti su La7 e dal 2009 è portavoce del Pdl e fa marchette per Berlusconi al Tg1». L’aggiornamento-lampo recita: «Nell’ottobre 2010 è stato raggiunto da un pugno senza rosa». Geniale e urticante. Così come deve essere la satira. Quella fatta bene.

Corriere della Sera 28.12.10
Cultura Il bambino del ghetto. Un’icona sequestrata
L’uso ossessivo ha stravolto il significato della foto
di Paolo Mieli


La foto del bambino ebreo con le braccia alzate, da anni simbolo dell’oppressione nazista sulla Polonia e sull’intera Europa, non fu scattata incidentalmente. Fa parte di un rapporto del generale Jürgen Stroop, capo delle SS e della polizia del distretto di Varsavia, redatto per documentare la repressione dell’insurrezione ebraica nel ghetto della capitale polacca che, tra il 19 aprile e il 16 maggio del 1943, aveva tenuto in scacco i nazisti. Questo rapporto, dal titolo «Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia» , era destinato ai comandanti delle SS Heinrich Himmler e Walter Krüger per dar conto del successo dell’operazione contro i «banditi ebrei» che avevano osato ribellarsi ed era corredato da un album di 53 immagini, tra cui quella del bambino. Era stato lo stesso Krüger a raccomandarsi con Stroop di fotografare ogni cosa: «Si tratta di un materiale prezioso per la storia, per il Führer, per Himmler e per i futuri studiosi del Terzo Reich, come pure per i poeti e gli scrittori, per la formazione delle SS e, soprattutto, per documentare gli sforzi e i pesanti e sanguinosi sacrifici sopportati dalla razza nordica e dalla Germania per disebreizzare l’Europa e l’intero globo terrestre» , gli aveva scritto. Già alla fine del 1945 lo scatto finì nella documentazione d’accusa per il processo di Norimberga contro i criminali nazisti. Ma in quella sede passò inosservato. Di più. Dovette trascorrere molto tempo prima che quella foto balzasse all’attenzione del mondo intero. Per un lungo periodo, oltre un decennio, fu, anzi, assai trascurata. Perché? Prova a rispondere a questa domanda un interessantissimo libro di Frédéric Rousseau, Il bimbo di Varsavia. Storia di una fotografia, che la Laterza si accinge a pubblicare all’inizio del prossimo anno (l’accurata traduzione è di Fabrizio Grillenzoni). Rousseau nota, per cominciare, la didascalia che «in eleganti lettere gotiche» ne dava la lettura di Stroop: «Estratti a forza dai bunker» . Una didascalia ingannevole, osserva l’autore, «perché dà l’idea che i civili rastrellati hanno resistito con la forza, in un modo o nell’altro, alla loro evacuazione» . L’immagine invece «dimostra il contrario: non solo l’uso unilaterale della violenza da parte di soldati contro famiglie disarmate e inoffensive, ma anche il completo controllo della situazione da parte dei militari» . È fin troppo evidente, aggiunge, «che quel piccolo gruppo in cui ci sono almeno quattro bambini non poteva rappresentare una minaccia per i "guerrieri"del generale Stroop» . Quegli abitanti strappati alle loro case «escono dall’edificio con le mani alzate e in fila per due: la loro sottomissione è totale; queste persone non appartengono in nessun modo a un’unità di resistenza armata del ghetto» . Per i nazisti, però, quell’immagine aveva un grande valore. «Attraverso un ribaltamento radicale dei valori occidentali giudaico cristiani» , spiega Rousseau, «questa fotografia sottolinea e intende dimostrare l’eroismo che nasce dalla capacità di agire senza lasciarsi ostacolare dalla propria umanità né dai propri sentimenti contro gli uomini, le donne e i bambini ebrei designati dal regime e dal suo capo come i nemici più temibili del popolo tedesco» . Ma, dicevamo, al processo di Norimberga l’attenzione degli accusatori si ferma su altre istantanee tratte dall’album di Stroop, quelle che illustrano l’estrema violenza della caccia agli ebrei da parte dei nazisti. Rispetto ad altre violenze commesse nel corso della liquidazione del ghetto di Varsavia, ricostruisce l’autore, «questa immagine non costituisce un documento su cui fondare un’accusa di crimine davanti al tribunale... Fa parte di una serie di fotografie che accusano, ma non è ancora la fotografia che accusa» . E così sarà per un lungo tempo. Una serie di «chiavistelli mentali» impedisce alla fotografia del bambino di Varsavia «l’accesso allo statuto di icona» che oggi le viene riconosciuto in tutto il mondo. Dieci anni dopo la fine della guerra quel fotogramma comincia a venir fuori. Compare per quattro secondi nel film di Alain Resnais Notte e nebbia, presentato al festival di Cannes nel 1956. Ma la voce dell’attore Michel Bouquet dice solo che si tratta di persone «rastrellate a Varsavia» . Nessun cenno agli ebrei e al ghetto. Il film, osserva Rousseau, «si colloca perfettamente, da diversi punti di vista, in un’epoca che ancora fatica a misurare le dimensioni e la specificità dello sterminio degli ebrei e che è anche e soprattutto dominata dall’attivismo delle associazioni dei deportati resistenti — a cui aderiscono anche numerosi sopravvissuti ebrei dei campi — che tentano, puntando l’indice sull’universalità del crimine, di contestare la distinzione operata dai criminali sui deportati» . All’indomani della guerra, per anni e anni «lo spazio della memoria è occupato da una lettura universalizzante dell’esperienza concentrazionaria» . Nel novembre del 1961 la foto compare per la seconda volta in un film: Vincitori alla sbarra (Le temps du ghetto) di Frédéric Rossif. Serve per illustrare (parole testuali) «l’ultimo gregge che viene deportato a Treblinka» ; il regista contrappone, anche se con accenti di pietà, gli eroici insorti del ghetto alle vittime passive che si fecero portare inermi al macello. Resistenti da una parte e gregge dall’altra: un tema presente nella pubblicistica israeliana dell’epoca. Con una nota aggiuntiva: i combattenti del ghetto di Varsavia avevano «salvato l’onore» del popolo ebraico. «Senza il loro meraviglioso sacrificio noi moriremmo nella vergogna» , scriveva il poeta Jacob Glastein. Nel libro La distruzione degli ebrei d’Europa (Einaudi) lo storico americano Raul Hilberg metteva il dito sulla piaga: «Il comportamento degli ebrei ai tempi del nazismo è caratterizzato dall’assenza quasi totale di resistenza» . Il giovane scrittore ebreo Jean-François Steiner in Treblinka: la rivolta in un campo di sterminio (Mondadori) descrive la sua gente come «un gregge di bestie che belavano alle porte delle camere a gas mentre andavano al macello» e, per questo, lo storico Léon Poliakov lo accusa di aver resuscitato il vecchio tema antisemita della «codardia ebraica» . Ma Treblinka ottiene il Grand Prix de la Résistance. Così come aveva ottenuto il premio Goncourt L’ultimo dei giusti (Garzanti) di André Schwartz-Bart, dove era già stata proposta l’immagine del «bestiame ebraico portato al macello» . Nel 1959, in Germania (Ovest), viene pubblicato il libro di Bernard Mark L’insurrezione del ghetto di Varsavia. Nascita e sviluppo: ci sono otto foto dell’album Stroop, ma non quella del bambino. E così sarà in svariati libri dell’epoca. Quell’immagine favorisce l’associazione con il concetto di passività ebraica che in quel momento storico «deve» cedere il passo a quella dei resistenti armati del ghetto. Con il beneplacito delle più importanti comunità ebraiche e dello Stato di Israele. «Questa scelta dolorosa, dettata in parte dalla volontà di integrarsi nell’unanimismo resistenziale nazionale e da una sete di normalizzazione dopo un lungo periodo di differenziazione» , sottolinea Rousseau, «è d’altra parte largamente dipendente, per diversi decenni, dal contesto israeliano» . È la costruzione del «mito» che assimila gli insorti di Varsavia ai combattenti sionisti di Palestina. E che porta con sé un tacito rimprovero a quegli ebrei d’Europa che negli anni Venti e Trenta non abbracciarono la causa sionista decidendo di restare in aree che in un breve volgere di tempo si sarebbero trasformate per loro in un inferno. La prima volta che la fotografia del bambino si affaccia in un libro è ne La stella gialla di Gerhard Schoenberner, pubblicato in Germania nel 1960. Schoenberner sceglie quella foto come manifesto per la mostra, sempre in Germania, sempre nel 1960, dal titolo «Il passato ci ammonisce» . Nel ’ 62 la mostra va in Israele. Sempre nel 1960 la rivista «Life» pubblica estratti delle memorie di Adolf Eichmann, che è stato appena rapito in Argentina e portato in Israele dove sarà processato e giustiziato: a illustrare il testo compare la foto del bambino ed è l’unica tratta dall’album di Stroop. L’ipotesi, convincente, di Rousseau è che sia stata proprio la vicenda Eichmann a resuscitare quella immagine: «Sicuramente il processo Eichmann ha fatto saltare una serratura, dando voce a una memoria fino ad allora largamente messa da parte» . Negli anni Sessanta la fotografia fa il suo ingresso nei manuali scolastici; nel 1966 è sulla copertina di un libro sull’insurrezione nel ghetto di Varsavia. In quello stesso 1966 la foto compie un clamoroso salto: Ingmar Bergman chiude il film Persona (sul malessere di due donne, sulla solitudine, su un bimbo non desiderato che la madre non sa amare né proteggere) con l’immagine del bambino del ghetto. Da quel momento il fotogramma assume valenze che vanno molto al di là di quelle riconducibili al momento in cui fu scattato. Negli anni Settanta compare sulla copertina di un volume su storie di bambini israeliti ai tempi della Seconda guerra mondiale; in una serie televisiva inglese, il protagonista la tiene costantemente in tasca come testimonianza del suo senso di colpa per le atrocità commesse dalla generazione che lo ha preceduto. Nel 1972 si verifica un nuovo salto: la foto del bimbo di Varsavia viene associata a quella della bambina nuda, Kim Phuc, che urla di terrore mentre corre in una strada del Sud Vietnam per sfuggire al napalm lanciato dai bombardieri (sudvietnamiti). È ormai un’immagine icona che viene usata per denunciare gli orrori della guerra. Negli anni Ottanta, Yala Korwin scrive una poesia interamente dedicata al bambino del ghetto: «The Little Boy with his Hands Up» . Il cineasta jugoslavo Mirko Panov gira il cortometraggio Con le mani in alto, che trae spunto da quell’immagine. Negli anni Novanta il quotidiano francese «Libération» la pubblica, scontornata, per annunciare una serie televisiva sui crimini nazisti. Il filosofo Alain Finkielkraut, nel commentare positivamente questa iniziativa, denuncia la contrapposizione «tra i resistenti armati e gli altri» e la cancellazione dei secondi a vantaggio dei primi: «Noi commemoriamo questo abbandono» , scrive. È un tema già sollevato nel 1976 dal saggio Surviving, pubblicato dal «New Yorker» , in cui Bruno Bettelheim aveva scritto: «Dire che le vittime delle camere a gas andarono incontro alla loro morte come pecore significa usare in modo scandaloso un cliché che è non solo crudele ma anche completamente falso» . Il lungo viaggio di quell’immagine è ormai inarrestabile. Il pittore americano di origine ebraico lituana Samuel Bak ne fa il centro dei suoi quadri: «Per me» , afferma, «quel bambino rappresenta la crocefissione ebraica» . La foto del bambino, ormai celeberrima, prende il volo allontanandosi sempre più dai fatti luttuosi del maggio ’ 43. All’indomani della strage di Srebrenica (luglio 1995) compare sui manifesti di denuncia dei «campi della morte» serbi. Nel 2000 il fotogramma del bimbo di Varsavia viene associato a quello del piccolo cubano Elián González, tratto in salvo dalla guardia costiera americana da una barca che stava affondando, mentre tentava di fuggire dall’isola di Fidel Castro per raggiungere una parte della sua famiglia in esilio a Miami. Ma nel settembre di quello stesso anno l’uso politico di quella foto comincia a ritorcersi contro il contenuto dell’immagine. Televisioni e giornali di tutto il mondo mostrano il bambino palestinese della striscia di Gaza Mohammed al-Durah che si stringe al padre il quale cerca disperatamente di proteggerlo dal fuoco che in quel momento si pensa provenga da un’arma israeliana (versione che successivamente verrà messa in dubbio anche da osservatori neutrali). La giornalista francese Catherine Nay dice a radio «Europe 1» : «La morte del piccolo Mohammed cancella simbolicamente il bambino del ghetto di Varsavia» . Lo scandalo per questa affermazione (di cui la giornalista si dirà pentita) non impedisce che nei Paesi arabi e su Internet prenda il via una campagna di accostamento tra le due immagini tesa a dimostrare che i soldati israeliani di oggi sono in tutto e per tutto simili agli oppressori nazisti di ieri. Campagna che va a parare in una serie di trasfigurazioni visive ad opera del disegnatore brasiliano Carlos Latuff per una serie di disegni intitolata «Siamo tutti palestinesi» . Con il ritratto di un bimbo molto somigliante a quello polacco che, senza avere alle spalle la figura minacciosa dell’SS, ha anch’egli come didascalia «I am Palestinian!» . Con il che, osserva Rousseau, Latuff «tende a banalizzare l’icona stessa sostituendole un’altra vittima referente» . Nel frattempo a quell’immagine è capitato addirittura di essere usata da Robert Faurisson e dai negazionisti. In che modo? Nel luglio del 1978 il «Jewish Chronicle» di Londra annuncia che l’identità del bambino del ghetto di Varsavia «è stata rivelata da una polacca che vive in Israele» . Si tratterebbe di Arthur Shimyontek Domb. Successivamente lo stesso giornale afferma che un uomo d’affari londinese, che intende mantenere l’anonimato, si è fatto vivo sostenendo di essere lui quel bambino e che la foto era stata scattata nel 1941 anziché nel 1943. Faurisson scrive che «da quel momento» , visto che la persona ritratta è viva, se quella foto dovesse rimanere un simbolo «non potrebbe più essere che il simbolo dell’impostura del genocidio» . Inizia un esame molto attento del fotogramma, che porta alla conclusione che, non fosse altro per il fatto che è finita nell’album di Stroop, non può che essere stata scattata nel 1943. Poi un altro sopravvissuto dei campi nazisti afferma di esser lui quel bambino senza però, per onestà, poterlo giurare. Tsvi Nussbaum, così si chiama l’uomo, sostiene di essere stato fotografato al momento del suo arresto davanti all’hotel Polski di Varsavia, situato fuori dal ghetto, prima della sua deportazione a Bergen Belsen nel luglio del 1943. Ma, a parte il fatto che le persone fotografate portano pesanti vestiti invernali ed è improbabile che questo potesse darsi in piena estate, come è possibile che quel fotogramma fosse finito in un album predisposto due mesi prima per documentare la sconfitta dei resistenti israeliti? D’altra parte, osserva Rousseau, un certo numero di persone visibili nella fotografia hanno al braccio destro il bracciale con la stella di Davide, obbligatorio per tutti gli ebrei del ghetto. È poco probabile che gli ebrei rifugiati e nascosti nella parte ariana della città dopo essere sfuggiti due mesi prima, in maggio, alla distruzione del ghetto stesso, continuassero a portare questo segno che li metteva in pericolo di vita. Ma il punto centrale della questione non è quello relativo all’identità del bimbo. L’attenzione del libro s’incentra sul fatto che quella fotografia poco a poco si è trasformata «in un’icona universale utilizzabile per tutte le buone cause dal momento» , che «esercita un potere sociale di coesione e di comunione» . È un bene? No, risponde Rousseau. Anzi. Tenuto conto di alcune osservazioni di Susan Sontag Sulla fotografia (Einaudi), Rousseau chiede: non si è andati troppo oltre? Con la sua sovraesposizione, quella immagine non ha snaturato in modo eccessivo la nostra memoria? Con i suoi successivi scivolamenti e spostamenti, questa traccia fotografica è ancora una testimonianza? E di cosa? Per essere significanti, le immagini richiedono una contestualizzazione precisa e rigorosa, e soltanto a questa condizione possono rimanere documenti storici. Se la fotografia del bambino di Varsavia ha effettivamente contribuito a spezzare il monopolio della Resistenza, troppo schiacciante e deformante, e se ha contribuito alla «riacquisizione delle vittime della Shoah nella coscienza occidentale» , ha anche partecipato, in una certa misura, alla «cancellazione dello spirito di resistenza nelle memorie» . Ormai è solo il cuore ad essere toccato. Alcuni usi e abusi di quell’immagine forse devono metterci in guardia. La decontestualizzazione in certi casi si è spinta così oltre che la fotografia non racconta più la storia del ghetto di Varsavia. Talvolta non racconta più nemmeno la storia della Shoah. L’avvenimento— una delle più grandi tragedie del nostro tempo— «è stato completamente inghiottito dalla carica emotiva della fotografia» . «Distruggere e moltiplicare sono i due modi di rendere un’immagine invisibile: con il niente e con il troppo» , osserva il teorico dell’immagine Georges Didi-Huberman. Una notazione che fa al caso nostro: l’immagine del bambino di Varsavia è oggi talmente imperiosa che impone a chiunque un arresto del pensiero; «a ogni sua esposizione è d’obbligo e autorizzata soltanto la compassione, una compassione troppo loquace e tuttavia muta, diventata un riflesso privo di riflessione, senza cultura, senza memoria, una sorta di rinuncia a decifrare il mondo in termini politici» . In casi come questo la foto è vittima della sua grande efficacia. Non è più un documento: ha smesso di essere uno strumento pedagogico; «sfocata, travestita, abusata, stravolta, sequestrata, ha perduto la sua capacità di messa in guardia; non informa più, è erosa dagli usi distorti; l’immagine si è modificata, consumata: portatrice all’inizio di una verità fondamentale, è diventata supporto di menzogne, al servizio dei peggiori deliri» . Dopo «essere stata verità, l’immagine si è trasformata in menzogna» . Triste conclusione per il lungo viaggio compiuto da una delle più famose fotografie del Novecento.

il Fatto 28.12.10
Le bambine interrotte el Burkina Faso
Ragazzine costrette a prostituirsi per un euro e “consigliate” ai turisti
di Mimmo Lombezzi


Ouagadougou (Burkina Faso). “Le Grotto” non è un bordello per bianchi. Per raggiungerlo bisogna viaggiare più di 40 minuti sugli sterrati di Silmande, uno dei quartieri in espansione di Ouagadougou, che nelle prime ombre del tramonto appare come una terra di nessuno occupata da cantieri, discariche e baracche che vendono birra. “Qui – dice Suleyman, l'uomo che mi accompagna – una minorenne vale 1.000 franchi locali (un euro e mezzo) e ce ne sono di giovanissime addirittura di 12 o 13 anni”.
"Le Grotto", è un maquis , uno dei bar-discoteca che in Burkina Faso funzionano come anticamera delle chambres de passe, le camere dove le ragazze si prostituiscono.
ENTRIAMO in un quadrilatero di muri appena intonacati. Circondano una pista da ballo di mattonelle colorate coperta da un tetto di tolla appoggiato su pali sbilenchi. Sulle pareti una serie di "affreschi" rudimentali, rappresentano delle sirene. C'è uno specchio e una ragazza, che contempla una bellezza, mi saluta in francese. Tutto quello che vedo, dalle pareti alla pista alle sedie di ferro, è contaminato dalla polvere rossa delle strade africane.
Un cameriere-buttafuori mima colpi di karate contro un pilastro. Altri, seduti a un bar, mi osservano ascoltando la radio che annuncia il colpo di Stato in Costa d'Avorio. Ci vivono 4 milioni di burkinabè e quel che accade ad Abidjan qui viene vissuto come una tragedia domestica.
A un tratto la voce dello speaker viene coperta dal rumore delle sedie di ferro che un ragazzo raccoglie intorno a un tavolo. Le prostitute arrivano con l'aria annoiata di chi deve vedere quel posto tutti i giorni. Emergono lentamente dal buio delle baracche che circondano il maquis. Una è incinta, due arrivano allattando quelli che qui chiamano “i figli del lavoro”. Il tavolo si riempie di bottiglie di birra.
Una ragazza in minigonna si siede sulle mie ginocchia, poi afferra una bottiglia e la stappa con i denti. Quasi tutte parlano francese tranne due che sono nigeriane e parlano inglese. “Quanto quadagnano?”, chiedo. “Possono arrivare a 5.000 franchi in un giorno”, dice Suleyman 5.000 franchi locali corrispondono a poco più di 7 euro, ma una ragazza lo corregge immediatamente: “Non è proprio così; possiamo guadagnare 5.000 franchi, ma questo accade solo nel weekend e, comunque, tu guadagni 5.000 franchi ma devi anche pagare la stanza. Se ne vanno 3.000 franchi, te ne restano 2.000, ma spesso arrivano dei clienti che ti usano e poi non ti pagano o addirittura ti rapinano. Così, per lavorare tranquille, dobbiamo pagarci un guardien, un protettore e se ne vanno altri 1.000 franchi. Restano 3.000 franchi che bastano appena per pagarsi da mangiare gli altri giorni della settimana”.
Sei magnaccia ci osservano per un po’ a pochi passi di distanza poi si disinteressano di noi. Probabilmente sono il primo bianco che vedono entrare a “Le Grotto”. Alle due ragazze che allattano chiedo: “Come fate con i bambini?”. Rispondono: "Paghiamo una vecchia che si occupa di loro mentre lavoriamo".
QUANDO un paese è povero come il Burkina Faso facilmente i corpi dei suoi abitanti diventano merce: braccia di uomini da sfiancare nelle miniere d'oro dello Yayenga o fianchi di donne da offrire ai clienti occasionali nei maquis come “Le Grotto”, un fenomeno talmente diffuso da essere menzionato anche nelle guide turistiche. Le prostitute sono tutte molto giovani. Alcune hanno iniziato questo mestiere perché, arrivate in città dalla campagna, non ne trovavano altri. Ma la maggior parte è finita sulla strada dopo aver lasciato famiglie in cui venivano maltrattate. “Io vengo dal Togo” racconta una di loro ”sono venuta qui per guadagnar qualcosa ma se non ho un lavoro come faccio? E se non hai i genitori accanto a te per aiutarti a mangiare, cosa fai? Se non hai un buon lavoro e nessuno ti dà nulla sei obbligata a venire qui a prostituirti”. Quando chiedo chi vorrebbe smettere, alzano tutte la mano. “Anche tra 10 minuti”, risponde una. Suleyman Nana, l'uomo che mi accompagna, conosce bene le chambres de passe di Ouagadougou perché ha strappato al marciapiede dozzine di ragazze. Gli chiedo: “Ma come mai i protettori ti lasciano lavorare?”. Risponde: “Non sempre. Un protettore una sera mi ha detto ‘se non te ne vai ti sbudello e quel che ti accadrà l’hai voluto tu’”. Sono uscito ma non me ne sono andato. Sono rimasto lì davanti alla porta e gli ho detto: ‘Ascolta, son venuto per farti capire che questa ragazzina non può dormire qui e se tu non accetti un accordo con le buone ripasserò in un altro modo’. Lui ha avuto paura e alla fine ha ceduto”.
Chiedo: “Se il protettore non cedeva cosa avresti fatto?”.
Suleyman: “Avrei chiamato la polizia, non avrei mai lasciato una ragazzina senza assisterla nel pericolo. Era una ragazzina di 15 anni, sequestrata da mesi. Se me ne fossi andato zitto zitto, perché avevo paura, sarebbe stata una specie di omissione di soccorso verso una persona in pericolo”.
A Ouagadougou, Suleyman ha creato una struttura protetta dove le ragazze di strada hanno la possibilità di imparare un mestiere e tentare di ricostruirsi una vita normale. Si chiama “Anpo Mia” e lavora in rete con le volontarie italiane di Aidos. È una di loro, Clara Caldera, che ci fa incontrare Samira (17 anni) Clara: ”Quando uscivi cosa facevi ?”.
Samira: “Uscivo con dei ragazzi e dormivo là...”.
Clara: “Dormivi con i ragazzi?”. Samira: “Sì...”.
Clara: “Per i soldi?”.
Samira: “No, no...”.
Samira si difende dalle domande e risponde a monosillabi ed è Pauline Ilbondo, una delle attiviste di “Ampo Mia” a ricostruire la sua storia: “Quando Samira usciva, rientrava a casa dopo 3 o 4 giorni e quando i suoi le dicevano di non uscire più, il giorno dopo lei era di nuovo fuori, così sua madre passava la giornata a cercarla da un cortile all’altro, con i vicini che le dicevano ‘hei, ho visto tua figlia Samira con dei ragazzi e quella sua amica’, e ogni volta sua madre si metteva a piangere”.
Clara: “La tua amica ti diceva di dormire con i ragazzi?”. Samira: “Sì”. Clara: “E anche lei lo faceva?”. Samira: “Sì”. Clara: “E lei si faceva pagare? Le davi dei soldi?”. Samira: “Sì”. “Più spesso spiega Pauline degli amici maschi, e quando la notte uscivano con questi ragazzi le facevano entrare nelle chambres de passe, nei postriboli, ed erano questi ragazzi che incassavano”. A poco a poco, incalzato dalle domande di Clara, il racconto di Samira diventa un incubo: “Un giorno, le amiche del mio gruppo mi hanno lasciata da sola con i ragazzi e quelli volevano possedermi e siccome io rifiutavo uno di loro ha estratto un coltello e mi ha detto ‘se resisti ti uccidiamo’”. Clara: “Prendevi delle precauzioni?”. Samira: “Sì, usavo dei condom”. Clara: “E non sei mai rimasta incinta?”. Samira: “Sì, ma l'ho perso”. Clara: “Volontariamente o si trattava di un aborto? Sei tu che l’hai provocato o il ragazzo ti ha spinto a farlo?”. Samira: “Avevo un ragazzo e sono rimasta incinta. Mia madre non lo sapeva e quando l’ha saputo mi ha detto ‘non voglio più vederti, in questa casa non c’è piu niente per te, perciò ho abortito’”. Oggi Samira, grazie a un progetto di Aidos sostenuto da Mediafriends, sta imparando a fare la sarta ed è sicura di ottenere il perdono dei suoi genitori, ma reinserirla nel suo quartiere e farla accettare non sarà cosa facile. Sarà il compito di Clara e delle altre volontarie del “Centro per la salute delle donne” di Ouagadougou, che ha arruolato anche uno psicologo e un'avvocatessa. “Servono ad aiutare le donne che hanno problemi con il loro ambiente”, spiega Paola Cirillo.
Davanti all'avvocatessa siede una donna con la schiena tagliata da una vistosa cicatrice “L'ultima volta che il marito l'ha bastonata è svenuta spiega Paola poi, grazie a noi l'ha denunciato e adesso c'è un'inchiesta ma sino a poco tempo fa questa sarebbe rimasta una storia privata”.
*articolo tratto da “Storie di confine” (Rete4)

l’Unità 28.12.10
Dalle prime carte dell’Unità d’Italia ai «resti» di Matteotti ai documenti del ’68 rimasti fuori
Nella struttura a Portonaccio non c’è più posto per conservare il materiale della nostra storia
Quando la memoria «scoppia» Nell’Archivio di Stato di Roma
L’Archivio di Stato di Roma occupa degli ex magazzini che costano 750mila euro di affitto. 23 chilometri di scaffalature che non bastano più a contenere la nostra storia. Tutto il ‘68, per esempio, è rimasto fuori
di Jolanda Bufalini


Portonaccio, via Galla Placidia 93 a Roma, proprio dove è la rampa per la A24. La sede distaccata dell’Archivio di Stato di Roma occupa degli ex magazzini che costano 750.000 euro di affitto. 23 chilometri di scaffalature che non bastano più a contenere la nostra storia. Il 1968, per esempio, i quaranta anni sono trascorsi e le carte dell’epoca dovrebbero essere già negli archivi ma non c’è posto. Con le caserme vuote, il patrimonio del Demanio e quello del comune, si chiedono gli archivisti, ha senso pagare quello sproposito di affitto per una sede che non basta più?
Stiamo per entrare nell’anno delle celebrazione del 150 dell’unità d’Italia ma l’archivio di Roma capitale rischia di chiudere. Non c’è solo il problema della sede c’è anche quello dei tagli al funzionamento ordinario che «ci costringerà – spiega il direttore degli archivi romani Eugenio Lo Sardo – alla chiusura delle sale di consultazione». Eppure la gran parte dei fascicoli riposti nei 23 chilometri raccontano proprio Roma capitale. Le prime carte risalgono al 1870, quando prefettura e questura furono incaricate del passaggio dallo Stato pontificio allo stato unitario. Ci sono gli archivi del distretto militare e le visure catastali. L’ultimo lascito è stato fatto dalla Digos una decina di anni fa. I romani vengono qui per scoprire la propria storia, per finalità pratiche, nel caso delle visure, o per memoria: i mille nomi scolpiti a San Lorenzo che oggi ricordano i bombardamenti del 1943 sono stati trovati qui.
«Soprattutto donne, anziani e bambini – racconta Augusto Pompeo, archivista in pensione e docente di archivistica contemporanea – perché gli uomini erano al lavoro. I parenti venivano qui a vedere quelle terribili fotografie per cercare di riconoscere i loro cari». Fra le chicche del patrimonio fotografico c’è uno scatto che ritrae il celebre gobbo del Quarticciolo , Giuseppe Albano, a 17 anni, vestito da gangster impugna una pistola e punta contro un suo amico, Bruno Taverna, accanto a lui un poliziotto, pure amico suo. La fotografa Simona Granati si emoziona nel vedere una foto di gruppo davanti alla sede del Pnf, sempre al Quarticciolo. In quello stesso posto, sopra quel portone, dopo la targa del partito fascista c’è stata quella del Pci e, ora, c’è un centro sociale.
Pompeo ci fa da guida: «Abbiamo mostra il foglio matricolare di Enrico Toti». Nel settore C8, invece, c’è la storia dei sorvegliati politici, ormai quasi completamente informatizzata e consultabile via computer. Fu Francesco Crispi a creare il casellario politico centrale poi rafforzato durante il Ventennio. Durante il fascismo gli schedati erano 3500, venivano prelevati in occasione delle adunate o delle visite di capi di Stato stranieri, perché non gli saltasse in mente di dare fastidio. «Il casellario chiosa Pompeo è durato, chissà perché, fino al 1950». La dirigente Marina Pieretti, Manola Venzo e Elvira Grantaliano, che è la «risorgimentale» del gruppo, quella che di solito sta china sulle carte della Repubblica romana, portano religiosamente una sconnessa cassettina di laboratorio: contiene i vetrini con il sangue di Giacomo Matteotti. Il cadavere del martire antifascista fu trovato in condizioni tali da non poter essere identificato. Gli atti del processo sono qui, «fu l’odontoiatra, in realtà, a portare alla identificazione certa». Ci sono le foto della macchina del rapimento e i disegni della giacca su cui i periti riportarono la traiettoria della coltellata fatale.
I processi celebri sono la ricchezza dell’archivio di Stato di Roma ma nascosta in queste carte c’è anche quella che Eric Hobsbown chiamerebbe storia di gente comune. Una ce la racconta Luca Salvetti, 39 anni, archivista disoccupato ma occupatissimo. L’archivistica è un virus che, una volta contratto, non ti lascia più, e Luca viene ogni giorno, anche se da tempo non ci sono i soldi per i co.co.pro.
«Maggio 1898, commercianti e artigiani si ribellano per l’aumento delle tasse. Il concentramento è al Campidoglio, si uniscono anarchici e socialisti. Viene bruciato il tricolore. Il corteo parte verso piazza Navona, dove era allora il ministero dell’Interno, a Palazzo Braschi, blindata». Sembra di sentire cronache recenti sulla zona rossa. «La folla preme per entrare. I primi a caricare sono i carabinieri, poi entra la fanteria. C’è un tentativo da parte dei dimostranti di disarmare i soldati». La carica con sciabole e baionette farà una carneficina, moltissimi i feriti, alcuni, come l’ambulante Sabato Moscato, molto gravi. Sul selciato rimane Lamberto Ghezzi (che negliatti processuali diventa Ghezel), 17 anni, garzone di bottega. In un rapporto della Questura si racconta di una piccola processione dei familiari che portarono una croce sul luogo della morte, in vicolo della Pace. Croce dice la Questura prontamente rimossa. Ma in vicolo della Pace, sotto un tabernacolo votivo, c’è ancora, incastonata nel muro, una piccola inusuale croce.
2/continua


Corriere della Sera 28.12.10
Fermi e la bomba, il giallo dei brevetti top secret
Armi nucleari: silenzio Usa per ragioni di Stato. E il premio Nobel non fu mai pagato
di Lanfranco Belloni


Undici brevetti di ingegneria nucleare. Brevetti «top secret» . Brevetti firmati da Enrico Fermi e tenuti a lungo «nascosti» dalle autorità americane, intenzionate a mantenere un controllo totale nelle tecnologie per la costruzione della bomba atomica. L’elenco è contenuto nel volume «Neutron Physics for Nuclear Reactors -Unpublished Writings by Enrico Fermi» , edito di recente da World Scientific di Singapore a cura di Salvatore Esposito e Ofelia Pisanti, dell’Università Federico II e della sezione di Napoli dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. Il primo brevetto risale al 1934, all’origine dei lavori sulla fisica dei neutroni in via Panisperna, ed è intitolato «Metodo per accrescere il rendimento dei procedimenti per la produzione di radioattività artificiale mediante il bombardamento con neutroni» . C’è la descrizione dettagliata dei risultati ottenuti studiando la radioattività indotta in un numero di elementi chimici, in seguito a irradiamento con i neutroni lenti. Il testo originale non è mai stato pubblicato in italiano, e nel volume i curatori presentano la versione inglese, quella destinata all’ufficio brevetti Usa nel 1935, e lì rilasciata nel 1940. Gli altri brevetti riguardano tutti gli aspetti operativi del funzionamento dei reattori, basati sulle reazioni a catena. E costituiscono altrettante trattazioni dettagliate, ma distinguibili dalla descrizione dei medesimi argomenti apparsa invece nei lavori pubblicati e già conosciuti. Il secondo brevetto, «Metodo per il funzionamento di un reattore a neutroni» , desecretato nel 1955, fu definito dal New York Times «brevetto storico, che copre il primo reattore nucleare» . Vi sono presentati la teoria, i dati sperimentali, e i principi di costruzione e funzionamento di ogni tipo di reattore nucleare conosciuto all’epoca. A partire dalle diverse forme di uranio impiegato ai differenti sistemi di raffreddamento e alle diverse disposizioni geometriche dei vari componenti. Insomma, la madre di tutti i brevetti successivi. Nel regime militare vigente a Los Alamos, nel New Mexico, sede dei laboratori per la ricerca e la produzione di armi nucleari, le «invenzioni» di Fermi e colleghi erano subito coperte da brevetto segreto, di proprietà dell’Autorità dell’energia atomica, che rappresentava il governo statunitense. Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la Casa Bianca si rifiutò sempre di riconoscere un compenso per quelle invenzioni segrete: Enrico Fermi e i suoi collaboratori non percepirono mai un dollaro. La questione dei brevetti sulle tecnologie nucleari si dipanò attraverso vicende intricatissime, fra le esigenze del segreto militare, legate alla sicurezza nazionale, e le aperture verso l’utilizzazione dell’energia atomica per scopi civili. Quei brevetti del fisico italiano, ormai diventato cittadino americano, erano «declassificati» , cioè desecretati, all’epoca della pubblicazione delle opere complete di Enrico Fermi, sotto la direzione dell’allievo e premio Nobel Emilio Segrè, avvenuta nel 1962-65. Avrebbero potuto essere inclusi già allora nell’opera omnia del gran maestro, ma furono tralasciati. Ci si può chiedere la ragione di una simile «dimenticanza» . La spiegazione più plausibile è che si sia sentita l’esigenza di non divulgare eccessivamente tecnologie sensibili sotto il profilo strategico. Fra gli inediti inclusi nel volume, anche gli appunti presi alle lezioni di fisica dei neutroni tenute da Fermi alla cosiddetta «Università di Los Alamos» . L’autore degli appunti, rimasti per lungo tempo inediti, era un membro della delegazione britannica, il fisico inglese Anthony French. Anche attraverso il filtro di questo uditore, si ha l’ennesima conferma delle singolari capacità didattiche di Fermi, dalle quali trasse vantaggio tutta la singolare comunità, radunata a Los Alamos.

Corriere della Sera 28.12.10
Tre secoli di diari, prima dei blog
Hawthorne, Einstein, Burroughs: gli sfoghi segreti dei grandi
di Alessandra Farkas


NEW YORK — Nathaniel Hawthorne usava il suo diario per celebrare l’amore profondo per la moglie Sophia. Nel suo journal, Tennessee Williams confessava con quotidiano puntiglio la solitudine e l’insicurezza che l’attanagliarono fino alla morte, mentre le annotazioni giornaliere aiutarono John Steinbeck a liberare con catartica onestà il tormento artistico che accompagnò la stesura di Furore, il suo capolavoro. Questi e altri settanta diari, scritti nell’arco di tre secoli, fanno parte di «The Diary: Three Centuries of Private Lives» . La mostra, allestita alla Morgan Library &Museum di New York dal prossimo 21 gennaio e curata da Christine Nelson, illustra come la diaristica non sia affatto un’invenzione dei blog, di Twitter o dei social network. Da secoli poeti e scrittori utilizzano il diario, la più privata e onesta delle forme letterarie, per documentare le proprie esperienze di viaggio, liberare l’animo da tribolazioni e affanni, attenuare la solitudine o semplicemente tramandare ai posteri l’affresco della propria era. Si tratta, insomma, di uno dei generi di scrittura più eterogenei, che va dai celebri diari osé di Anaïs Nin e quelli castigati della Regina Vittoria — pubblicati e apprezzati da milioni di lettori in tutto il mondo — ai manoscritti privati e inediti di Albert Einstein (che saranno pubblicati nel 2011 dall’Einstein Papers Project), di John Newton, l’autore dell’inno cristiano Amazing Grace, scritto intorno al 1772 e di Baron Larrey, il chirurgo dell’esercito Napoleonico. Che cosa ha mosso questi ultimi a tenere segreti i loro scritti? Forse lo stesso pudore che negli anni 30, durante la stesura di Furore, spinse il premio Nobel Steinbeck a confessare, nel suo privatissimo quaderno: «Ho già tentato prima d’ora di scrivere un diario, ma non ci sono riuscito a causa della necessità di essere onesto con me stesso» . Una preoccupazione, questa, estranea al filosofo e scrittore statunitense Henry David Thoreau, al centro della mostra. Tra i suoi 39 diari e dozzine di blocchi per appunti nella collezione permanente della Morgan Library spiccano titoli come «verità» , «alba» e il lirico «i ruscelli immobili sono i più profondi» che il padre dell’ambientalismo moderno decorò con disegni di paesaggi e animali, tra cui il dettaglio di una piuma di falco. Nel diario di nozze compilato a quattro mani da Nathaniel e Sophia Hawthorne, qualcuno individuerà il primo documento interattivo dell’era moderna, 150 anni prima della nascita di Internet. «Credo profondamente che non vi sia il sole in questo mondo — scriveva Hawthorne nel 1842 — eccetto quello che irradia dagli occhi di mia moglie» . «Mi sento nuova— ribatte lei— come la terra appena rinata» . Più tardi i loro tre figli inserirono schizzi e disegni tra le pagine, trasformandole in un vero e proprio quadro di famiglia. La lettera scarlatta, rivela la mostra, ebbe origine proprio da uno di questi diari. «Vorrei scrivere un libro sulla vita di una donna condannata dalla vecchia legge delle colonie a indossare sempre la lettera A trapuntata sul petto, come punizione per aver commesso un adulterio» , scrive Hawthorne, dando per la prima volta forma a quello che era destinato a diventare uno dei romanzi più celebrati della letteratura americana. Lo scrittore della beat generation William Burroughs, un diarista tra i più prolifici, pubblica uno dei suoi «giornali» — «The Retreat Diaries» — nel 1976: la cronaca dettagliata del suo soggiorno di due settimane in una comunità buddista del Vermont. Vent’anni prima, durante un viaggio a Barcellona, Tennessee Williams aveva immortalato l’incontro con un giovane amante: «Un figlio dell’amore» , spiega. «Abbiamo cenato sulla terrazza con le guglie della cattedrale illuminate e il coro della messa che cantava motivi catalani nella piazza sottostante» . All’apice del suo successo letterario, quando La gatta sul tetto che scotta trionfava sulle scene e una nuova produzione di Un tram chiamato desiderio stava per debuttare a Broadway, Williams, sempre più dipendente da droghe e alcool, scrisse freneticamente il suo diario tra New York, Roma, Atene e Istanbul, registrando con maniacale onestà il suo dolore fisico ed emotivo, i suoi frequenti incontri sessuali con uomini e la sua disperazione con frasi quali: «Nulla da dire oggi, tranne che sono ancora vivo» . Lo stesso desiderio di sfogo emerge dai diari dell’allora ventenne Charlotte Brontë che nel 1836, ai tempi in cui insegnava alla Roe Head School, scribacchiava annotazioni autobiografiche su sottili fogli di carta per esprimere il suo bisogno di fuga da una quotidianità fatta di solitudine e tristezza. Alcuni anni dopo, quando insegnava a Bruxelles, l’autrice di Jane Eyre utilizzò un testo di geografia per confidare il proprio stato d’animo: «È una vita abominevole, specialmente perché c’è solo una persona in questo luogo che meriti di essere apprezzata» . Una delle pagine più struggenti appartiene a John Newton, autore dell’inno cristiano Amazing Grace, consumato dal timore di Dio e dall’ansia di rettitudine morale, che nei suoi scritti non menziona mai il suo passato di ex schiavista, nonostante il tacito senso di colpa che li permea. Nel diario scritto nel 1974 durante la tournée con The Band, Bob Dylan combina immagini e poesia. «Galassie che esplodono nel rosso-bianco-blu pulsante nella notte del grande occhio» , annota accanto al disegno della sua stanza d’albergo a Memphis. Meno ermetico Charles Seliger, il pittore scomparso nel 2009 che ci ha lasciato oltre 150 diari dove ha registrato quotidianamente opinioni, pensieri e attività. Il suo mentore è il leggendario Samuel Pepys, il politico scrittore inglese, autore del diario-bestseller in mostra alla Morgan: un’avvincente commistione di idee personali e testimonianze di grandi avvenimenti londinesi, dalla Grande Peste al tragico incendio del 1666.

Corriere della Sera 28.12.10
I senzatetto girano un film sulla Marsiglia che li rifiuta
Clochard trasformati in registi, attori e sceneggiatori
di  Lorenzo Cremonesi


Fare un film per imparare a sopportare il quotidiano. È tra le motivazioni più forti che ha spinto la trentina di senza tetto tra le migliaia nelle strade di Marsiglia a trasformarsi in registi, attori, sceneggiatori. Gli hanno dato un titolo inglese Hope City, città della speranza, a sottolineare il carattere multietnico della povertà nella zona urbana più violenta e disperata della Francia. Meno di un’ora di pellicola: cruda, acida, mai moralista, promettono i neo-artisti. L’idea è maturata negli ultimi cinque anni nella Boutique Solidarité legata alla Fondazione Abbé Pierre, il centro di sostegno ai senza tetto nel cuore di Marsiglia. Ci si arriva per fare una doccia calda, lavare i panni, leggere un giornale in santa pace, o semplicemente per trovare compagnia. Qui vengono periodicamente anche una regista, Léa Jamet, assieme ad un attore, Théo Trifard, per animare su base volontaria un gruppo di incontro. È attorno a loro che nel settembre 2009 si decide di appendere un piccolo annuncio sulla bacheca all’ingresso: «E se facessimo un film assieme?» . «La trama è stata redatta durante un corso di scrittura alla Boutique» , notava ieri il corrispondente da Marsiglia per Le Monde. Non è stato facile. Gli aspiranti artisti nei mesi sono cambiati, molti hanno lasciato, altri si sono aggiunti. Ma un nucleo ha tenuto duro sino alla fine. «Facevo lo squatter, scrivere la trama mi ha aiutato a sopportare il quotidiano» , racconta Mickael Rabia, 38 anni di Rennes, nella strada dal 2007. Lui è tra coloro che rivendicano per i clochard il desiderio di «poter parlare ad alta voce di qualsiasi argomento, di arte, libertà, amore» . Da vero appassionato, ogni settimana attendeva con ansia gli incontri del mercoledì per condividere la verve artistica. Aveva preso l’abitudine di tenere block notes e penna sempre in tasca, pronto ad annotare i suoi suggerimenti per una scena, una modifica, nuovi dialoghi, tutti rigorosamente ricavati dalla caducità delle sue giornate ritmate dalle necessità della sopravvivenza. Ci trovi il freddo dell’inverno, le ore seduto nella biblioteca comunale giusto perché è riparata, i passaparola tra poveracci quando si scopre che c’è un palazzo comodo da occupare. Hope City è un luogo dominato da una gerarchia onnipotente dove si fronteggiano due classi sociali: i «nantis» , i ricchi in gergo francese, e i «lambdas» , letteralmente gli uomini qualunque. Pascal Ludman, uno dei quattro senza tetto che hanno lavorato come apprendisti scenografi, è stato l’autore del discorso radicale tenuto da Fox (Volpe, sempre un nome inglese), sindaco xenofobo della città che promette ai suoi concittadini «nantis» di espellere i «lambdas» una volta per tutte. «I pidocchiosi dovranno andarsene, sono loro che spargono l’immondizia attorno ai cassonetti, che si aggirano presso le scuole dei nostri figli» , tuona minaccioso. I costi della produzione sono stati circa un decimo di quanto speravano di raccogliere. L’opera sarà dedicata a Jehemi Boumediene, morto da pochi mesi, mentre stava collaborando alla sceneggiatura. Sembra sia stato vittima di un’embolia polmonare dopo circa 15 anni trascorsi in strada.