giovedì 30 dicembre 2010

l’Unità 30.12.10
I profughi e gli ignavi
di Luigi Manconi


Quello che segue è un “racconto di Natale” pur se per nulla edificante. Ma è un errore, e grave, pensare che la letteratura natalizia si debba rifare necessariamente a un canone zuccheroso e consolatorio. Si pensi che capostipite e paradigma narrativo può essere considerato quel Canto di Natale (1843) di Charles Dickens, che rappresenta una delle più disincantate analisi delle ingiustizie sociali nell’Inghilterra della prima metà dell’800, tra miseria nera e sfruttamento dei minori, analfabetismo e lavoro semischiavistico. Anche il nostro racconto di Natale ha tratti cupi: quelli di uno stabile fatiscente nel cuore di Roma, in una via che graziosamente si chiama “dei Villini”, dove vivono da anni circa 140 rifugiati somali. Le condizioni di quella coabitazione sono le stesse che si ritrovano in molte aree delle nostre metropoli, dove lo sviluppo urbanistico lascia ai margini costruzioni o semicostruzioni o ex costruzioni, che diventano rapidamente rifugio di chi dispone solo della “nuda vita”. Altrettante ferite aperte nel tessuto della città, escluse dalla rete dei servizi e dalla protezione sociale garantita dai diritti di cittadinanza, dove si raccolgono gli emarginati, gli sconfitti, gli infermi, gli affetti da patologie e da dipendenze. Si tratta di insediamenti che, in genere, si trovano nei lembi estremi delle città, ma che talvolta si insinuano all’interno delle zone dell’abbondanza e del benessere.
Quello di via dei Villini è uno di questi insediamenti, ma in realtà si tratta di una situazione ancora diversa: all’interno di una ex ambasciata vivono circa 140 profughi. Profughi: ovvero coloro che fuggono dal proprio paese a causa di conflitti armati o per motivi etnici o religiosi o politici o per appartenenza a determinate nazionalità o gruppi sociali. A essi lo Stato italiano ha riconosciuto la condizione giuridica di rifugiati, ma ha fornito loro appena un biglietto ferroviario per Roma e, su un pezzo di carta, quell’indirizzo di via dei Villini. Nient’altro. E nella medesima condizione si trovano a Roma circa 1500 profughi, altrettanto miserabilmente riparati negli insediamenti di Ponte Mammolo, Romanina, via Collatina e del binario 15 della stazione Ostiense. Nessuna politica pubblica e nessun programma di protezione che consenta loro l’inserimento sociale e la ricerca di occupazione, l’accesso ai servizi e il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Tanta avarizia colpisce dolorosamente in una società, come quella italiana, le cui istituzioni democratiche devono molto al sacrificio di quanti – settant’anni fa – furono, a loro volta, fuggiaschi, profughi, clandestini in terra straniera per sottrarsi alla dittatura fascista e contribuire, da oltre confine, alla lotta per la democrazia. Tra loro, Sandro Pertini e i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini e Bruno Buozzi, Leo Valiani e Giorgio Amendola e migliaia e migliaia di altri noti e anonimi: molto diversi, per tratti culturali, politici, sociali e psicologici da chi fugge oggi dalla Somalia o dall’Afghanistan, ma per altrettanti tratti così simili. Di quelle vicende di settant’anni fa quasi non resta più traccia nella memoria collettiva del nostro paese e questo spiega forse l’ignavia e la codardia del governo italiano su tali questioni: tanto più che il principale partito della maggioranza, il Pdl, sulla rimozione di quella storia e delle sue lacerazioni, così dolorose ma così gravide di futuro, costruisce la propria malcerta identità e la propria aggressiva ideologia.
È lo stesso governo che non è stato capace di dare una risposta decente agli interrogativi su una tragica emergenza umanitaria. Dal novembre scorso 250 profughi (eritrei etiopi sudanesi somali) sono tenuti in catene da un gruppo di predoni nel deserto del Sinai. Uomini donne e bambini che progettavano di fuggire in Israele e che – fallito l’intento – sono diventati vittime e merce di scambio di una crudele strategia di estorsione. Dal 20 novembre chiediamo al governo italiano di intervenire, com’è suo dovere fare per più ragioni: per il rapporto di amicizia che lega l’Italia all’Egitto e perché una parte di quei profughi è stata respinta mentre tentava di raggiungere le coste italiane e, sempre dal novembre scorso, chiediamo al governo egiziano – firmatario della Convenzione di Ginevra sui rifugiati – di salvare quelle vite. Ma solo ieri, come riporta Avvenire (che, con l’Unità, segue passo dopo passo la vicenda) il governo egiziano ha ammesso l’esistenza degli ostaggi, pur se l’unica iniziativa presa è stata la cattura di 27 profughi e la loro consegna alle autorità dei rispettivi paesi. Con le conseguenze che è facile prevedere. Qui termina il nostro racconto di Natale: come tutti i racconti che si rispettino non ha un lieto fine. A meno che uomini e donne di buona volontà non si impegnino per modificare la conclusione.

il Fatto 30.12.10
L’ambasciata somala
Cinquecento rifugiati nel cuore della Capitale
di Emanuele Piano


Telecamere, fotografi e taccuini. Articoli sui principali quotidiani, servizi nei tg e sulle televisioni locali. Sull'Ambasciata somala di via dei Villini a Roma, diventata da quasi un decennio un campo profughi in città, l'informazione italiana ha aperto finalmente gli occhi. Frutto dell'impegno dell'Associazione Migrare, la presidente Shukri Said presidia quotidianamente l'ex sede diplomatica, e degli articoli de Il Fatto Quotidiano che un mese fa - era la notte tra l'11 ed il 12 novembre – denunciò l'irruzione illegale della polizia alla ricerca di presunti spacciatori sfociata in un'interrogazione parlamentare che ancora attende risposta dal ministero dell'Interno. 
L'EDIFICIO, nel quartiere delle ambasciate della capitale, ospita un numero variabile, da 150 a 500, richiedenti asilo e rifugiati dalla Somalia. Tutti uomini, fra loro alcuni minorenni, vivono in condizioni di degrado estreme. Senza luce, riscaldamento, servizi igienici e con l'acqua prelevata da strutture in amianto, i rifugiati somali sono abbandonati dalle istituzioni e dalla propria ambasciata. Soltanto la società civile in queste ultime settimane natalizie si è mobilitata. Cittadini e associazioni hanno portato sacchi a pelo, cibo e acqua potabile.
Ieri è stata la volta della Nazioni Unite. L'ufficio dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati si è recato in visita nell'ex ambasciata per constatare una situazione di degrado   che si protrae da troppo tempo. “Ho rivisto oggi un articolo che abbiamo scritto per Famiglia cristiana sei anni fa. Non è cambiato niente”, ci ha detto la portavoce dell'Acnur Laura Boldrini. L'obiettivo dell'agenzia dell'Onu è quello di aprire un tavolo con il Comune di Roma e lo Sprar, il Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati attivato dal Viminale   e gestito dall'Anci. “Dai nostri riscontri ci risulta che la maggior parte dei rifugiati somali non abbia mai usufruito dello Sprar”, ha ribadito Boldrini.
Lo Sprar, nato nel 2002, mette a disposizione circa tremila posti letto in 123 comuni della penisola ed in sette anni ha accolto oltre 26 mila persone. Il problema è che i   richiedenti asilo ed i rifugiati presenti in Italia sono circa 55mila. Il Ministero delle Finanze ha ridotto del 45% gli stanziamenti allo Sprar fra il 2008 ed il 2009 ed ha portato le disponibilità a favore dell'unica rete di assistenza ed integrazione dei rifugiati in Italia a 21 milioni di euro nel 2010. Il costo complessivo annuo, come denunciato il presidente dell'Anci Sergio   Chiamparino, è però di 32 milioni. Chi non rientra nello Sprar, come i somali di via dei Villini, è abbandonato a sé stesso senza alcuna rete di protezione e senza la   possibilità di emigrare all'estero. La Convezione di Dublino, sottoscritta fra i Paesi dell'Unione europea, fissa degli standard minimi di accoglienza ed impedisce ai rifugiati il “turismo del welfare” fra un Paese e l'altro. Solo che all'estero lo Stato provvede a case, conto in banca ed assegno mensile. In Italia no. E pensare che il nostro Paese ha un decimo dei rifugiati rispetto alla Germania ed un quinto se confrontato con il Regno Unito.
OGGI ALLE 11 si terrà una conferenza stampa presso l'ex ambasciata somala promossa dall'Associazione Migrare assieme a Fnsi, Articolo 21 ed altre associazioni per richiamare l'attenzione   delle istituzioni sui circa 1.500 rifugiati presenti nella capitale. Due lettere sono state scritte all'Assessorato delle Politiche Sociali del Comune di Roma e alla Protezione Civile per chiedere un loro intervento. Nessuna delle due ha ad oggi ricevuto risposta. “Chiediamo una sistemazione definitiva per tutti i rifugiati. È una questione di civiltà. Non possiamo permettere che queste persone, fuggite da Paesi in conflitto, diventino ostaggio della burocrazia e delle impronte digitali senza ricevere alcuna assistenza”, ha detto Shukri Said, portavoce di Migrare. I rifugiati somali annunceranno uno sciopero della fame per chiedere una soluzione allo loro situazione.

l’Unità 30.12.10
La denuncia dell’associazione umanitaria Everyone: «Rischiano di essere rimpatriati a forza»
Appello all’Europa e all’Onu per salvare la vita dei migranti tenuti prigionieri nel Sinai
Eritrei, l’ultimo oltraggio: in 27 arrestati dagli egiziani
Invece di liberarli, li arrestano. E poi li consegnano alle ambasciate dei Paesi da cui sono fuggiti. È l’ultimo oltraggio riservato, stavolta dalla polizia egiziana, ai 250 eritrei da mesi tenuti in ostaggio nel Sinai.
di Umberto De Giovannangeli


La polizia egiziana, schierata nel Sinai dove centinaia di eritrei sono tenuti in ostaggio dai trafficanti di immigrati, ha ricevuto l'ordine di non sparare, ma di arrestare e interrogare i migranti (considerati immigrati clandestini in Egitto) che vengono rilasciati dopo il pagamento di un riscatto per cercare di capire dove si trovano e come agiscono i beduini. È l’ultimo oltraggio inferto a donne e uomini da mesi in balia dei predoni del Sinai. Gli agenti del Cairo, spiegano fonti egiziane, non intervengono per liberare gli ostaggi per rispetto del Trattato di pace con Israele che impedisce di introdurre armi pesanti e blindati nella zona di frontiera. I beduini, invece, sarebbero dotati di armi molto sofisticate, acquistate dai sudanesi con il traffico di migranti.
ODISSEA CONTINUA
Picchiati. Minacciati di morte. Trattati come bestie. Ed ora anche arrestati da coloro che avrebbero dovuto liberarli. È dell’altro ieri la notizia secondo cui 27 profughi etiopi ed eritrei, liberati dai trafficanti di Abu Khaled nella cittadina egiziana di Rafah, nel Sinai del Nord, dopo che i loro familiari hanno pagato il riscatto di 8mila dollari ciascuno, sarebbero stati prima arrestati dalla polizia egiziana e successivamente portati nelle rispettive ambasciate d’Etiopia e di Eritrea a Il Cairo. «È imminente la loro deportazione nei Paesi d’origine, dai quali questi profughi sono fuggiti per crisi umanitarie, persecuzioni e genocidi», denunciano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell’organizzazione umanitaria Eve-
ryOne, che segue sin dall’inizio l’intera vicenda degli oltre 250 profughi ostaggio dei trafficanti di esseri umani nel Sinai. «Questi innocenti, per fuggire da Etiopia ed Eritrea, hanno affrontato un estenuante viaggio nel deserto, toccando anche i confini libici, venendo ripetutamente respinti. Alla fine sono approdati in territorio egiziano e sono stati consegnati ai trafficanti beduini Rashaida collusi con Hamas e con la Muslim Brotherhood, prima di raggiungere Israele, che li hanno sottoposti a spietate estorsioni e tremendi abusi, tra cui stupri e torture. Deportarli nei rispettivi Paesi di origine vorrebbe dire ammazzarli, istituzionalizzando una persecuzione e rendendo vano ogni loro sforzo di sopravvivenza in tutto questo tempo».
VOCI DA ISRAELE
«We Refugees» (noi rifugiati), una Ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ha chiesto ieri l'intervento urgente del governo egiziano per liberare circa 300 profughi eritrei tenuti prigionieri secondo diverse denunce nel Sinai da trafficanti, in condizioni disumane. L'Ong si è così associata a un analogo «indignato» appello lanciato l’altro da 13 Ong egiziane, che hanno denunciato «una congiura del silenzio» sul caso. Nel messaggio della Ong israeliana, firmato anche dall'ex-parlamentare Zaava Galon, si afferma che l'inazione mostrata finora dalle autorità «suscita la preoccupante impressione che i crimini (di cui sono vittime i rifugiati, ndr) siano visti dai governi egiziano e israeliano come in linea con i loro interessi nazionali. La situazione attuale è il diretto proseguimento di politiche che hanno visto migranti uccisi (dal fuoco delle guardie di frontiera) sul confine israelo-egiziano».«We Refugees» è una Ong formata da legali che si sono impegnati a proteggere i diritti dei rifugiati, di persone in cerca di asilo e di apolidi. Stando a fonti diverse, circa 300 profughi eritrei (e forse anche sudanesi) sono in ostaggio di bande di predoni che avrebbero fortemente aumentato la somma inizialmente pattuita per farli entrare clandestinamente in Israele. In base a quanto è trapelato, si ritiene che essi siano vittime di gravi maltrattamenti, torture e stupri.

l’Unità 30.12.10
Intervista a Massimo D’Alema
«Non consentiremo il silenzio del premier sul segreto di Stato»
Il presidente Copasir: «Berlusconi è stato già convocato quattro volte dall’organismo che vigila sui Servizi, ma non ha mai risposto» Restano gli interrogativi sulla vicenda Telecom e sui dossier di Pio Pompa
di Giovanni Maria Bellu


Vendola e il carisma: «Spero che non si arrivi al “meno male che Nichi c’è”. Dovrebbe mettere il suo carisma a disposizione di un progetto collettivo»

Questa lunga intervista con Massimo D’Alema si svolge nella sede della Fondazione Italianieuropei al primo piano di un Palazzo nobiliare in piazza Farnese. Sulla scrivania del presidente del Copasir ci sono i quotidiani, sul computer scorrono le agenzie ed è appena giunta la notizia delle bombe-carta davanti alla sede della Lega a Gemonio. E così è inevitabile cominciare da questo clima teso, dal fango, dall’imbarbarimento della lotta politica. Da quella che appare una nuova forma della mai dimenticata “strategia della tensione”. D’Alema si dice “preoccupato” da queste vicende («I violenti vanno subito isolati», dice), ma esclude che sia in atto qualcosa di simile a quanto il Paese conobbe negli anni Settanta: non ha dubbi sulla «fedeltà e affidabilità» dei nostri apparati. Ne ha invece molti, anche da questo punto di vista, su Silvio Berlusconi. Non per un pregiudizio. Il premier, benché più volte convocato, non si è mai presentato al comitato parlamentare che ha il compito di vigilare sulla nostra intelligence. «Eppure – si rammarica D’Alema la legge prevede che il capo del governo debba rispondere al Copasir per tutte le questioni, che sono moltissime, di sua esclusiva competenza come responsabile della sicurezza del Paese. Eppure l’abbiamo convocato, con decisione unanime, ben quattro volte. Un comportamento del genere, in un paese normale, susciterebbe delle reazioni...»
Cosa vorrebbe domandargli?
«Delle volte che ha opposto il segreto di Stato. È quel tipo di segreto che il capo del governo, e lui solo, può opporre alla magistratura. Naturalmente non sono contrario quando ciò viene fatto nell'interesse dell'italia. Ma l’abuso è inaccettabile».
Di quali casi di opposizione del segreto di Stato vorrebbe chiedere a Berlusconi?
«Intanto del caso Telecom. Secondo i magistrati, un’associazione per delinquere ha utilizzato il servizio telefonico allo scopo di costruire dossier su molte persone, non sappiamo quante e quali, ma molte. Un’associazione dove erano presenti il capo della sicurezza della Telecom, un’agenzia privata e il vicecapo dei servizi segreti. Ecco, su questa vicenda Berlusconi ha opposto il segreto di Stato. Inoltre sappiamo che la polizia entrò nel famoso ufficio di Pio Pompa in via Nazionale, a Roma, e trovò vari dossier su magistrati, politici e giornalisti. Materiale che, secondo gli stessi Servizi, non era attinente all’ordinaria attività di intelligence. Quando i giudici gli hanno chiesto se quel materiale fosse relativo ad attività istituzionali, e in tal caso da chi fossero state richieste, Pio Pompa ha opposto il segreto di Stato e il capo del governo l’ha confermato. Ancora una volta: perché? Ma Berlusconi non viene. È un atteggiamento che rivela una concezione inaccettabile, sprezzante, del rapporto tra governo e Parlamento».
Non potete fare nulla?
«Abbiamo gli strumenti della politica e delle istituzioni. Se Berlusconi ancora non verrà, solleverò il problema nell’aula parlamentare attraverso una mozione o una risoluzione». Sempre nell’ambito dei misteri e dei dossier, ci sono le rivelazioni di Wikileaks. Lei ha smentito quel giudizio sulla magistratura, ma qualcuno ha osservato che lei, anche se con altre parole, quel giudizio l’aveva già espresso.
«Le mie posizioni sono molto chiare: sono a favore dell’indipendenza della magistratura e sono garantista. Non faccio parte né del partito degli imputati che vuole inceppare la giustizia, né del partito dei giudici forcaioli che ama la giustizia spettacolo e considera un avviso di garanzia come una sentenza. So che è una posizione difficile, ma mi sembra il modo giusto di guardare alla giustizia per chi guarda agli interessi dei cittadini».
L’ambasciatore Spogli si è sbagliato? «Nel suo rapporto l’ambasciatore cita una mia presunta frase che avrebbe sentito un anno prima. È un modo un po’ curioso di fare un rapporto ed è evidente che egli ha travisato o forzato il senso delle mie affermazioni, dato che quella frase non l’ho mai pronunciata». Berlusconi l’altro ieri ha annunciato che intende governare fino alla fine della legislatura. La prospettiva di un governo tecnico si è fatta più debole? «Non partirei dalla formula. Prima di ragionare di questo dobbiamo partire dalla situazione del Paese: un governo non tecnico, ma “di responsabilità nazionale” non è un espediente per mandare a casa Berlusconi, è lo strumento per dare una risposta a una crisi storica qual è quella che stiamo attraversando».
Allora partiamo dalla crisi.
«Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la situazione drammatica che il Paese vive non è solo il risultato del totale fallimento di Berlusconi, di quanto è accaduto negli ultimi dieci anni: una stagnazione senza riforme, l’acuirsi delle distanze sociali, del divario tra Nord e Sud, l’aumento della corruzione e dei costi della pubblica
amministrazione. Non c’è stato solo questo totale disastro. Il dramma è che questo si compie mentre l’Europa vive il declino della propria centralità. Oggi detiene il 23 per cento del Pil mondiale, ma è destinata – se guardiamo ai prossimi trent’anni – ad averne il 6-7 per cento. Insomma, siamo alla fine del privilegio dell'Occidente e all’alba di un “secolo asiatico”. Ci vorrebbe uno straordinario dinamismo politico capace di mettere a frutto tutto il nostro patrimonio di civiltà e cultura. Il dramma dell’Italia è aver incontrato Berlusconi proprio in una fase come questa. Non è l’unico responsabile del declino, ma ne è certamente il simbolo e un fattore di aggravamento. Ha detto che il suo governo ha dato al Paese “un grande prestigio internazionale”, in effetti vedo che tra le dieci parole dell’anno della rivista Time c’è “bunga bunga”...»
Dunque, il governo di responsabilità nazionale? «Ripeto: non è un espediente antiberlusconiano, ma è lo strumento per reagire a questa gravissima crisi. La via d’uscita non può essere un “governo di sinistra”. Sarebbe bello, ma in una fase come quella che viviamo il governo deve avere una base politica sufficientemente ampia da consentirgli di fare le riforme che fino a ora non sono state fatte. Vedo che si continua a ripetere lo slogan che la sinistra sarebbe conservatrice. In realtà le uniche riforme importanti – anche in senso “liberale” le abbiamo realizzate noi negli anni Novanta: la riforma del bilancio dello Stato per contenere la spesa pubblica, la riforma delle pensioni, lo scioglimento dell’Iri e le grandi privatizzazioni, le prime parziali liberalizzazioni. Soltanto chi è fazioso o ignorante può negare questa realtà. Berlusconi certamente non può fare le riforme perché il populismo vive di sondaggi, dunque di consenso immediato. Le riforme non danno invece frutti istantanei, anzi a volte non ne danno proprio e possono far perdere consenso».
Qual è la riforma più urgente?
«Se parliamo delle grandi riforme – e lasciamo da parte per il momento la riforma più che necessaria della legge elettorale – il nostro Paese deve assolutamente sciogliere il nodo costituzionale. Da dodici anni penso che l'alternativa sia tra un sistema semipresidenziale di tipo francese e una rinnovata democrazia parlamentare. Noi, purtroppo, abbiamo creato un sistema che ha messo assieme i peggiori difetti del presidenzialismo e i peggiori difetti del parlamentarismo, fino ad arrivare al trasformismo, alla compravendita dei deputati... E poi, oltre alla politica ci sono le grandi riforme economiche e sociali a cominciare dal mercato del lavoro, il welfare e il fisco».
E chi dovrebbe risolvere il dilemma?
«È una questione che riguarda davvero tutti, attiene alle regole fondanti. Somiglia al problema che il Paese incontrò nel dopoguerra quando dovette scegliere tra repubblica e monarchia.... Ma non è ovviamente la sola questione da affrontare. Si tratta anche di fare il federalismo possibile. Dico “possibile” perché penso a una riforma che non divida il paese. Oggi la stessa parola federalismo ha perso il fascino che aveva un tempo, ha acquisito un’impronta antimeridionale».
Proprio mentre il divario tra Nord e Sud e le diseguaglianze sociali sono cresciuti, il sindacato è diviso...
«È infatti necessario un nuovo patto sociale. Ed è questa la questione che andrebbe posta a Marchionne. Un patto, infatti, non può essere scritto da una sola parte. La parte che non condivido dell’accordo di Mirafiori è appunto la pretesa politica della Fiat di escludere chi non l’ha condiviso dalla gestione dei rapporti sindacali».
Lei come voterebbe?
«È un accordo che ha il limite che dicevo: l’esclusione di chi dissente non è una buona regola. Ma prevede anche forti investimenti e garanzie occupazionali. Personalmente auspico che i lavoratori votino a favore... Ma questa complessità, ripeto, può essere affrontata solo con un nuovo patto sociale per la crescita. Sul modello di quanto facemmo negli anni Novanta riuscendo a restare agganciati all’Europa. E va ricomposta. riscrivendo il welfare, la frattura che si è creata nel corpo sociale».
Ma tutto fa pensare che arriveranno prima le elezioni. «Effettivamente Berlusconi il 14 dicembre, mentre non ha ottenuto il risultato di dare slancio al governo, è riuscito a togliere slancio a una proposta alternativa. Il risultato è che la prospettiva elettorale è diventata più probabile. Di certo non vedo oggi alcuna prospettiva di rilancio del governo. L’unica possibilità sarebbe l'accordo con i centristi, ma non mi pare nell' ordine delle cose».
Casini non cederà alle lusinghe?
«Gli attacchi squadristici messi in atto in questi giorni da Belpietro dimostrano che l’obiettivo è staccare Casini da Fini. La verità è che Berlusconi vuole vincere e anche umiliare. Una prospettiva degradante per una forza come l’Udc che, con maggior coraggio di Fini, si è per prima staccata da questo centrodestra. Casini, per riavvicinarsi, dovrebbe giocarsi tutta la credibilità che ha conquistato con la sua coerenza e anche rischiando di restare fuori dal Parlamento».
Ha chiamato “costituente” il governo di responsabilità nazionale. Definirebbe così anche l’alleanza elettorale? «Sì. Credo che se dovessimo andare alle elezioni con questa legge elettorale il gioco dei tre poli determinerebbe una prospettiva incerta e pericolosa, una specie di roulette russa. Ci giocheremmo la maggioranza assoluta sapendo che chiunque vinca non l’avrà al Senato. E la formazione del governo, alla faccia di chi dice “deve decidere la gente”, sarebbe affidata a trattative successive. Anche per questo ritengo che la scelta più responsabile per il paese sarebbe quella di un’ampia coalizione con obiettivi chiari».
Un’alleanza con molti reciproci imbarazzi: Vendola con Fini? «Credo che certi imbarazzi riguardino il ceto politico. Il popolo non sarebbe imbarazzato anche perché la gente è davvero stufa della rissosità e della violenza. Se c’è una classe dirigente che sa parlare con chiarezza le cose si fanno. Anche quando sostenemmo il governo Dini alcuni dissero che era una politica avventurosa e sbagliata e che la gente non avrebbe capito. La gente capì. Erano stati loro a non aver capito niente».
Qual è oggi la missione del Pd?
«È imprimere una svolta nel senso delle riforme e del risanamento della politica. Perché dobbiamo tornare alla politica, quella vera. Una certa idea di apertura alla società civile ci ha portato i Calearo e gli Scilipoti... Se davvero pensiamo che l’Italia abbia bisogno di grandi riforme, dobbiamo rivolgerci a tutte le forze in campo chiamandole a una chiara assunzione di responsabilità. È questo il tema. A volte non capisco bene il senso di una strana discussione interna sulla vocazione del Pd. Sarebbe meglio discutere dei contenuti e della proposta politica necessari oggi per l’Italia. E forse si scoprirebbe che siamo molto uniti di quanto diamo a vedere».
I sondaggi danno per certa la vittoria dell’alleanza più ampia e incerto l’esito delle altre due formule col Pd alleato con una sola ala dell’attuale opposizione.
«La logica dei numeri è spietata...»
Ma Vendola non sembra d'accordo.
«Con Vendola vorrei parlare anche di politica. Dico “vorrei” perché oggi l’unico tema sembra essere quello del suo personale carisma...Non mi pare che basti, anche se è importan-
te. Ecco, vorrei parlare con Vendola di quel che vede nel futuro del Paese. Se non ragioniamo così finiamo col cascare anche noi dentro il modo a cui ci ha abituati Berlusconi. E non abbiamo bisogno di Berlusconi di sinistra: non è pensabile passare dal “meno male che Silvio c’è” al “meno male che Nichi c’è”». La stessa idea di regolamentare le primarie è stata letta come una manovra anti-Vendola. «Regolamentare le primarie è indispensabile per non svuotarle di senso e mantenerle in vita. Ho già raccontato che quando negli Stati Uniti ho descritto il meccanismo delle nostre primarie sono rimasti sbalorditi, l’hanno definito “folle”. Là per votare è necessario iscriversi alle liste elettorali di partito, qua la platea è del tutto casuale. Le primarie non possono diventare una forma di competizione non regolata tra i partiti. Che senso ha che si facciano le primarie con sette candidati del Partito democratico e uno di un altro partito il quale può, con un risultato esiguo dal punto di vista della rappresentanza democratica, diventare poi il candidato di tutti? È evidente che in questo modo si falsa il significato stesso delle primarie: candidare persone che ottengono un’ampia legittimazione e un consenso che vadano oltre i confini di partito. Dovremmo discutere tra di noi di queste cose , e anche con Vendola. Evitando di ridurre uno strumento così delicato e importante di partecipazione democratica ad un idolo polemico e propagandistico. O ad una clava da usare contro il Pd».
Nessuna diffidenza verso Vendola, dunque? «Noi riteniamo che Nichi sia importante per la prospettiva del centrosinistra e indichiamo un futuro politico al quale lui può dare un contributo molto significativo. Mentre, francamente, mi pare che sia lui a parlare come se volesse costruire qualcosa che prescinde dal Partito democratico. Qualche tempo fa ha detto che non gli interesse il Pd, ma gli elettori del Pd. Non mi pare onestamente un approccio positivo... credo invece che Nichi, che conosco da una vita, dovrebbe mettere a disposizione in modo non egoistico e in un processo collettivo le sue capacità e il suo carisma, di cui la sinistra ha bisogno. La forza di un leader sta anche nella sua generosità».

Corriere della Sera 30.12.10
Il Pd in imbarazzo su Marchionne Partito diviso, poi il compromesso
Duello «riformisti-conservatori» . Fioroni: ora più difficile il dialogo con Vendola
di Maria Teresa Meli


ROMA — Il «ciclone Marchionne» investe il Partito democratico. E lo spiazza. Il gruppo dirigente non vuole attaccare direttamente un imprenditore considerato fino a poco tempo fa «amico» . E per questa ragione Pier Luigi Bersani dice di non voler scendere in «personalismi» . Ma il Pd non può neanche consentirsi il lusso di lasciare isolata la Cgil e di abbandonare il campo della sinistra a Vendola e Di Pietro. Così il partito è costretto a ripiegare su una linea che viene riassunta con queste parole da un suo stesso esponente: «Un colpo al cerchio e uno alla botte» . Da un lato, il sì alla politica degli investimenti e delle garanzie occupazionali portata avanti da Marchionne, dall’altro il «no» (in alcuni democrat più netto che in altri) al modello della rappresentanza sindacale voluto per la Fiat. E il lunghissimo documento firmato ieri dal responsabile economico Stefano Fassina e dai segretari del Pd torinese e piemontese la dice lunga da questo punto di vista: il moltiplicarsi delle parole evita una presa di posizione netta. Indicativa, in questo senso, anche la decisione del partito regionale di non dare nessuna indicazione di voto per il referendum che si terrà a Mirafiori. D’altronde, il dire e il non dire, il dichiarare— come fa per esempio D’Alema — «accettabile» la parte dell’accordo che riguarda la produttività e l’occupazione e «non accettabile» il resto, è anche l’unico modo per tenere unite le diverse anime del Partito democratico. Dove per un Bersani che mette l’accento sugli «strappi imperdonabili» del modello Mirafiori, c’è un Walter Veltroni che invece preferisce puntare sulla necessità di andare a vedere «la sfida di Marchionne, » , perché il Pd «è il partito del cambiamento» . Già, è innegabile che una parte del cuore democratico batta per la Cgil. Basta sentire quello che dice Vincenzo Vita: «Il Pd dovrebbe avere un giudizio contrario forte e netto» . O quello che dichiara Fassina: «L’intesa è positiva, ma rappresenta una regressione sul terreno della democrazia» . Però c’è anche chi invece sta senz’altro con la Cisl. Beppe Fioroni, per esempio. Secondo il responsabile Welfare «le garanzie occupazionali ottenute a Pomigliano dimostrano che il coraggio di cambiare dà i suoi frutti» . Quindi, avanti anche con Mirafiori, perché «il Pd deve attestarsi sul fronte del riformismo e non su quello della conservazione, che poi non conserva l’unica cosa veramente importante, cioè i posti di lavoro» . E a questo proposito, ad avviso di Fioroni, il Partito democratico deve trarre da questa vicenda anche un utile insegnamento: «A questo punto per noi sarà più difficile mantenere rapporti con quelle forze che rappresentano la sinistra conservatrice» . Come Vendola, tanto per fare un nome. Ma non bisogna pensare che nel Pd la divisione passi per le correnti. Ossia i 75 di Veltroni con Marchionne (tanto per fare una semplificazione) e i bersaniani con la Cgil. Anche dalla minoranza si levano voci molto critiche nei confronti dell’accordo di Mirafiori: «Marchionne è un apprendista stregone» , denuncia il senatore Roberto Della Seta. Per il Pd, questa vicenda della Fiat presenta un’altra difficoltà. A Torino, nella prossima primavera, si vota. E lì il partito ha candidato uno dei suoi esponenti più autorevoli, Piero Fassino. L’ex segretario dei Ds ha scelto una linea di cautela, perché sa che oltre alla primarie dovrà vincere le elezioni. Perciò nessun affondo su Marchionne: «L’accordo consente il rilancio di Mirafiori e dà certezza di lavoro» . Ma anche un occhio di riguardo ai problemi sindacali: «La risposta giusta è quella di sottoporre ogni accordo a un referendum vincolante anche per chi non lo ha sottoscritto, senza che per questo non abbia rappresentanza come invece viene previsto per Mirafiori. Ecco, io dalla Fiom mi sarei aspettato una proposta del genere e non degli attacchi anche personali» . Insomma, il Pd cerca di barcamenarsi. E così capita che, con Cesare Damiano, chieda che «il modello Marchionne per Mirafiori non venga esteso anche ad altri» . Ma lo aveva chiesto anche dopo Pomigliano. Quante volte ancora tornerà a chiederlo?

Corriere della Sera 30.12.10
Marini: ora toni bassi Mi preoccupa questo clima di guerra
di Dino Martirano


ROMA— «L’accordo andava fatto. Sull’auto, in Italia, siamo in grande difficoltà e non ci possiamo permettere di perdere migliaia di posti di lavoro. Ma dico anche che su queste vertenze così delicate i toni dovrebbero rimanere sempre bassi» . Franco Marini, già leader storico della Cisl ed ex presidente del Senato, parla di un «clima di guerra» intorno ai contratti Fiat che non fa bene al Paese. E spiega: «Per le difficoltà in cui vive l’Italia e per la necessità di difendere il lavoro come fatto prioritario — dopo 10 anni di tentativi, dopo i risultati della commissione Giugni insediata da Prodi nel ’ 97 che raccomandava di portare la contrattazione dentro il posto di lavoro— capisco perfettamente che ci sia stata una determinazione per arrivare comunque a un’intesa. È stato necessario perché a un minor livello di produttività corrispondono salari più bassi e, dunque, una contrazione della domanda interna che poi alimenta la crisi» . Presidente, la Fiom ha proclamato lo sciopero generale mentre la Fiat conferma: le sigle che non firmano il contratto non avranno rappresentanza sindacale in fabbrica. «Su questo vorrei ricordare che c’è l’articolo 14 dello statuto dei lavoratori: hanno diritto di costituire associazioni sindacali aziendali e aderirvi tutti i lavoratori dell’azienda. Quindi, in assoluto, la cancellazione non c’è perché anche chi non firma i contratti ha diritto alle sue associazioni. Naturalmente, il contratto può prevedere, dopo il ritocco fatto dal referendum all’articolo 19, tutele ed esercizio di diritti sindacali maggiori o specifici per le organizzazioni che firmano e che dimostrano di avere la maggioranza» . Perché denuncia i toni esasperati? «Io penso che bisogna stare sui problemi. E sono preoccupato che non riprenda il dialogo tra le grandi confederazioni. Tuttavia — dopo aver letto le interviste della Camusso e di Bonanni e poi quella di Angeletti — credo di vedere uno spiraglio e per questo rifiuto il clima di guerra che si cerca di creare intorno alla vertenza. Tutte le persone responsabili che hanno a cuore il ruolo fondamentale del sindacato devono ripartire da quell’accordo sulla rappresentanza, e in qualche modo sulle regole della contrattazione, che le confederazioni, Cgil compresa, hanno condiviso nel 2008 e che è rimasto lettera morta» . La lacerazione sindacale quanto inciderà su un quadro politico già fibrillato? «Non mi pare che il clima politico sia così stabile e tranquillo da poter assorbire anche una rottura sociale di queste dimensioni. Abbiamo una grande difficoltà della politica: il mio desiderio, dopo aver detto cose molto chiare sul merito, sarebbe quello di vedere una ripresa del dialogo che possa aiutare a sdrammatizzare la situazione politica invece di aggravarla» . Nel Pd Fassino, Chiamparino, Fioroni si sono espressi a favore dell’accordo. Mentre altri nel partito remano contro. «Il Pd, naturalmente, soffre e risente di questa situazione di scontro tra organizzazioni sindacali. Però io vedo un partito largamente consapevole: fermi su questi temi non si può stare perché l’unica strada è quella della ripresa del dialogo» . Nichi Vendola avverte i democratici: «La questione Fiat sarà dirimente per la creazione di una coalizione di centrosinistra» . «Non vedo come Vendola, che pure stimiamo come presidente di Regione, possa porre quasi tutti i giorni condizioni al Pd per la costruzione dell’alternativa di centrosinistra. Vendola si arroga un diritto che, sinceramente, non riesco a connotare in termini così scontati» . Presidente, teme che in fabbrica torni un clima cupo come in anni da dimenticare? «Non credo che siamo a quel punto. Ma è pure vero che senza una difesa dell’occupazione la situazione sociale non può migliorare» .

il Fatto 30.12.10
Scavalcato Bersani che non prende posizione
D’Alema consegna il Pd nelle mani di Marchionne
Scavalca Bersani, invita i lavoratori Fiat a votare sì all’accordo e si smarca dalla Fiom. Che proclama 8 ore di sciopero
Una scelta di campo che colloca i democratici più lontano dalla sinistra. Landini: “Questi non sono mai stati alla catena di montaggio”
di Giorgio Meletti


La linea politica del Pd va seguita come la cottura di un risotto, cronometro alla mano. Ieri pomeriggio alle 17, al culmine dell’ennesima giornata caotica, con tanti pareri quanti erano gli esponenti Pd a prendere la parola, l’eurodeputata Debora Serracchiani ha consegnato il grido di dolore a Facebook: “Sono stufa di continuare a leggere titoli come ‘Il Pd si divide sulla Fiat’ ”.
Alle 19 arriva la dichiarazione di Massimo D’Alema al Tg3. É il presidente del Copasir (comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti), pur privo di ruoli dirigenti nel partito, a chiudere la discussione: il Pd sta con Sergio Marchionne. Lo strappo ha del clamoroso, perché mette brutalmente in fuorigioco la posizione di prudente attesa del segretario Pier Luigi Bersani.
Ecco la parole di D’Alema come riferite dall’agenzia Adnkronos: “Spero che i lavoratori votino a favore dell’accordo”, ha detto. “L’accordo che verrà sottoposto al giudizio dei lavoratori credo sia accettabile nella sua parte produttiva. É vero che prevede delle rinunce, dei sacrifici e un particolare impegno da parte dei lavoratori a garantire la produttività, ma prevede anche un forte investimento e forti garanzie per il destino produttivo di Mirafiori”.
D’Alema ha anche riservato una replica acida al leader della Fiom Maurizio Landini, che aveva invitato i politici filo-Marchionne ad assumere il punto di vista dell’operaio in catena di montaggio: “Sono polemiche che non hanno molto senso. Neanche Landini lavora alla catena di montaggio”.
D’Alema ha poi adombrato quello che potrebbe essere il piccolo decisivo passo indietro con cui il numero uno della Fiat potrebbe, diciamo, risarcire sindacalisti e politici che lo stanno appoggiando in queste ore: “La parte che non è accettabile è la pretesa della Fiat di escludere chi non condivide l’accordo dalla gestione dei rapporti sindacali. Alla Fiat e a Marchionne vorrei dire che escludere chi dissente non è una buona regola, perché una grande fabbrica non si dirige con il comando ma con il consenso. Basterebbe un accordo interconfederale e stabilire che il referendum è vincolante per tutti e uscire da questa situazione, evitando così forzature e rispettando il dissenso”. Non trovano conferma le voci secondo le quali la mossa di D’Alema avrebbe fatto seguito a un contatto diretto con Marchionne. Mentre l’impatto politico dell’intervista al Tg3 è evidente. Alle proteste della base - che da settimane chiedeva al Pd di assumere una posizione chiara su una vicenda decisiva per il futuro della vita economica e del lavoro - ha risposto nel modo più netto e tonante (attraverso la televisione) quello che è ancora considerato l’azionista di riferimento del partito. Le sue parole consegnano il maggior partito dell’opposizione allo schieramento filo-Marchionne e mettono in seria difficoltà il segretario della Cgil, Susanna Camusso, sollecitata ancora in queste ore, per l’ennesima volta (non solo dalla Fiom ma anche da Sergio Cofferati del Pd e dall’Italia dei Valori), allo sciopero generale. Diventa poi complicatissima la vita di Bersani. La sua ultima presa di posizione, risalente a lunedì scorso, è pubblicata sul suo sito Internet: “Credo che non sia possibile che una palla di neve diventi una valanga per tutto il nostro sistema senza che nessuno ne parli: le grandi organizzazioni sociali, il Governo ed il Parlamento”. Titolo: “Il Parlamento dica la sua sulle relazioni sindacali”. Primo commento su Facebook, due minuti dopo la pubblicazione: “Magari se la dicesse anche il Pd la sua, non sarebbe male...”.
Ieri il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina ha commentato l’accordo sindaca-le per Mirafiori, firmato da Cisl e Uil ma non dalla Fiom, con un’intervista a La Stampa in cui ha detto due cose opposte nella stessa risposta alla domanda su quale fosse la posizione del Pd: “L’intesa è positiva perché attiva un investimento importante (...). Tuttavia per noi è un accordo sbagliato, che ci preoccupa: la modernità non può essere lavoro senza diritti”.
Le acrobazie della segreteria del Pd vanno lette alla luce del complesso quadro politico. Nel momento in cui si tratta di scegliere tra l’alleanza a sinistra (con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro) e quella con i centristi, c’è un pezzo importante del partito che ha cavalcato la vicenda Fiat per rimarcare la natura riformista moderata del partito. In questa chiave Bersani ha dovuto leggere le dichiarazioni filo-Marchionne e anti-Fiom degli ex Margherita Enrico Letta, Giuseppe Fioroni e Franco Marini, e del partito dei torinesi (il sindaco Sergio Chiamparino e l’aspirante sindaco Piero Fassino, schierati sulla linea “fossi un’operaio firmerei”).
La mossa di D’Alema rompe l’incertezza: i padri nobili del partito hanno fatto la loro scelta, le mediazioni della segretaria non servono più.

il Fatto 30.12.10
“Dalemonne” al Lingotto
di Paolo Flores d’Arcais


D’Alema ha fatto la sua scelta: con Marchionne e contro la Fiom. Con qualche se e qualche ma, come è nello stile slalomistico della casta Pd, ma la sostanza non cambia. Si tratta di un vero e proprio cambiamento di fronte, che rischia di “fare epoca” certificando la definitiva morte del Pd, perché l’inciucio con Marchionne nel quale D’Alema trascina il partito (Bersani seguirà?) ha un sapore strategico, molto più grave perfino dei tanti inciuci “tattici” (comunque devastanti) con Berlusconi.
Anche il diktat di Marchionne, servilmente e prontamente firmato da Uil e Fim, certamente farà epoca, come hanno prontamente e servilmente gorgheggiato gli aedi di regime. Si tratta di capire di quale “epoca” si tratti. A giudicare senza pregiudizi, si tratta in campo sociale dell’analogo rappresentato dalle leggi berlusconiane di bavaglio ai giornalisti e camicia   di forza ai magistrati, fin qui fermate dalla sollevazione popolare della società civile. Quei disegni di legge, che il governo non ha rinunciato a far approvare, segnano un salto di qualità verso approdi specificamente fascisti dell’attuale regime. Un equivalente funzionale e soft (soft?) di fascismo risulta anche il diktat di Marchionne. Se qualcuno ritiene il rilievo eccessivo, si accomodi a considerare le seguenti e modeste verità di fatto.
IL DIKTAT marchionnesco prevede che 1) non vi saranno più rappresentanze elette dei (dai) lavoratori, ma solo nominate dai sindacati che firmano l’accordo, e che 2) i lavoratori che scioperino anche contro un solo aspetto dell’accordo possano essere licenziati. Queste misure costituiscono nel loro   insieme un quadro di (non) diritti che negli oltre sessant’anni di vita della Repubblica non era stato mai ventilato, neppure in via ipotetica, neppure dalle forze più retrive della politica e dell’imprenditoria. Per trovare   un precedente bisogna risalire agli anni del fascismo. Riassumiamo i fatti storici.
Nell’immediato dopoguerra, dopo la rottura dell’unità sindacale, i lavoratori eleggono in fabbrica i loro rappresentanti nelle “Commissioni Interne”, su liste sindacali in concorrenza. Lungo gli anni settanta e fino a quasi la metà degli anni ottanta, invece, in un clima di unità sindacale dal basso, imposta dalle lotte del ’68 e del ’69, i rappresentanti operai vengono eletti su scheda bianca, senza sigle sindacali, votando per gruppi   o reparti “omogenei” direttamente i nomi dei compagni di lavoro che riscuotono la maggiore fiducia. Con la nuova rottura dell’unità sindacale si torna a rappresentanze elette su liste di sigle sindacali concorrenti, che abbiano firmato accordi contrattuali o vi si siano opposti (anche i Cobas insomma).
Lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 parla di rappresentanze sindacali in termini volutamente generici, proprio perché non intende predeterminare per legge quale delle due forme di elezione vada privilegiata, ma intende come ovvio l’eguale diritto di tutti i lavoratori ad essere rappresentati. Quanto al diritto di sciopero, esso è tutelato costituzionalmente (art. 40) “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e dunque non può essere in alcun modo limitato da accordi privati. E la legge oggi lo limita solo in specifici casi, esigendo preavvisi e/o esenzioni per i servizi pubblici irrinunciabili. 
Dunque, neppure ai tempi delle più dure repressioni antiope-raie, che in campo padronale avevano il volto di Valletta e dei reparti-confino per gli attivisti Fiom, e in campo politico il volto   di Mario Scelba e della violenza della “Celere”, era stato mai messo in discussione l’ovvio principio che tutti i sindacati (anzi tutti gli operai) hanno diritto a dar vita alle rappresentanze dei lavoratori, perché altrimenti sarebbero “rappresentanze” non rappresentative.
Per ritrovare un analogo al diktat marchionnesco bisogna infatti risalire al 2 ottobre 1925, al diktat di Palazzo Vidoni con cui Mussolini, il padronato e i sindacati fascisti firmavano la cancellazione delle “Commissioni Interne”, sostituite dai “fiduciari   ” di regime (equivalente “sindacale” dei capocaseggiato). Non c’è dunque nessuna esagerazione retorica nell’allarme che i dirigenti Fiom hanno lanciato, ricordando questi precedenti, e invocando lo sciopero generale contro misure che non solo calpestano la Costituzione, ma che di questo “strame della Costituzione” intendono fare il modello delle future relazioni industriali.
Quello che colpisce e lascia anzi allibiti, semmai, è la mancanza di una risposta anche minimamente adeguata, da parte di forze che si dicono democratiche, e che verbalmente presentano rituali omaggi alla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Parliamo del Pd, dove numerose sono le voci di servo encomio alla “voluntas Fiat”, e comunque maggioritarie   quelle né carne né pesce, nella migliore tradizione di Ponzio Pilato, e non vi è un solo leader di spicco che abbia preso posizione netta a fianco della Fiom. Ma parliamo anche, e in questo caso soprattutto, della Cgil: non si capisce davvero cosa debba ancora accadere, in questo sciagurato paese, perché si ritenga necessario uno sciopero generale, se non bastano neppure misure antioperaie che hanno antecedenti solo nel fascismo.
E PARLIAMO anche, purtroppo, di una società civile che è stata ben altrimenti energica e pronta nel rispondere alla volontà di fascistizzazione in tema di giustizia e di informazione, e che invece sembra neghittosa di fronte a questa seconda ganascia della tenaglia di fascistizzazione del paese. Dimenticando che sulla distruzione delle libertà e dei diritti dei lavoratori è già passata una volta la distruzione delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini. Ecco perché la   sollevazione morale della società civile a fianco dei metalmeccanici Fiom è oggi il dovere più urgente, e la cartina di tornasole della capacità di resistere alle lusinghe e alle violenze del fascismo postmoderno.

l’Unità 30.12.10
Stop di 8 ore dei metalmeccanici il 28 gennaio, raccolta di firme e presidi in tutte le città.
La minoranza: «Se al referendum vincono i Si firma “tecnica” dell’accordo perr estare in fabbrica»
«La Fiat attacca la democrazia» La Fiom proclama lo sciopero
Mobilitazione a tutto campo della Fiom contro gli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano: sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici italiani il 28 gennaio, raccolta firme, presidi ed incontri nelle varie città.
di Luigina Venturelli


In un solo giorno la Fiat incassa il contratto per Pomigliano e la più netta ed evidente spaccatura tra i sindacati dei metalmeccanici della pur caldissima era Marchionne: nelle stesse ore in cui Fim e Uilm stavano firmando un nuovo accordo separato a compimento di quello siglato lo scorso giugno, la Fiom ieri stava decidendo uno sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici italiani contro un’intera strategia aziendale di «cancellazione del lavoro come soggetto che ha la stessa dignità
Accuse e polemiche
Maurizio Landini al Pd «Provate a stare alla catena di montaggio»
dell’impresa» per disegnare un sistema di relazioni industriali in cui «c’è solo l’impresa che detta le regole e il lavoro può solo aderire».
LA MOBILITAZIONE DELLA FIOM
Un atto padronale per avere «operai schiavi, senza diritti e sotto ricatto», un’ipotesi di «rottura col modello sociale e col sistema costituzionale di regole del nostro Paese» contro cui la Fiom privata del diritto di rappresentanza ed esclusa dalle fabbriche della casa automobilistica ha deciso di opporsi con tutte le sue forze. A cominciare dalla proclamazione di uno sciopero di otto ore della categoria, con diverse manifestazioni regionali, per il prossimo 28 gennaio.
Ma le iniziative proposte da Maurizio Landini, ed approvate dal comitato centrale con l’astensione della minoranza, non finiscono qui. Per respingere quanto costituisce oltretutto «un pugno in faccia a Confindustria e Federmeccanica», la Fiom organizzerà «una raccolta di firme in tutti i luoghi di lavoro per dire che il contratto deve restare senza deroghe e che le libertà sindacali vanno difese nell’interesse di tutti». Ci saranno poi «presidi democratici e dibattiti pubblici in tutte le città», il sindacato chiederà di essere «ascoltato in tutte le assemblee elettive di ogni livello» e di «incontrare tutte le forze politiche», saranno approfonditi gli aspetti giuridici degli accordi separati firmati a Pomigliano e Mirafiori, mentre «il 3 ed il 4 febbraio ci sarà l’assemblea nazionale dei delegati Fiom per definire un percorso per riconquistare un vero contratto nazionale di lavoro».
La replica
D’Alema: «Neanche Landini lavora alla catena di montaggio...
Quanto al referendum tra i lavoratori dello stabilimento torinese, si consiglierà agli operai di andare al voto «per non essere esposti a pressioni», pur giudicando la consultazione «illegittima perché riguarda diritti irrinunciabili e indisponibili». Sul punto, però, si registra il dissenso della minoranza guidata da Fausto Durante, disponibile «ad accettare un eventuale esito favorevole all’accordo con una firma tecnica» che permetta alla Fiom di entrare nelle rappresentanze aziendali. Una posizione che potrebbe essere presa in considerazione anche dalla Cgil, quantunque Vincenzo Scudiere ieri intervenuto al comitato centrale Fiom non ne abbia fatto cenno e ha ribadito l’appoggio della confederazione ai alle tute blu: «Gli accordi per Mirafiori e Pomigliano nascondono una natura politica che mira a cancellare la Fiom» ha sottolineato. Esplicito anche il sostegno della Funzione pubblica e dei pensionati dello Spi, ovvero della «generazione di lavoratori che ha combattuto per conquistare democrazia e libertà, e che non può che essere al fianco dei metalmeccanici» ha detto la segretaria Carla Cantone.
LA POLEMICA CON CISL E UIL
Ma se la Fiom incassa l’appoggio della Cgil, lo scontro con le altre confederazioni è violentissimo. «La Fim e la Uilm stanno cancellando con le loro mani la loro storia e il loro futuro. Sono sindacati confederali ma stanno diventando puramente aziendali, sarebbe utile che si fermassero» ha dichiarato il leader delle tute blu Cgil, Landini. Ancora più duro Giorgio Cremaschi: «Angeletti e Bonanni sono la vergogna del sindacalismo italiano. Non è mai successo dal ‘45 ad oggi che un sindacato italiano firmasse l'esclusione di un altro sindacato, è una macchia indelebile sulla storia di Cisl e Uil».
Duro anche il botta e risposta tra la Fiom e il Pd. A coloro che nelle fila del partito «continuano a dire cosa farebbe se fosse un operaio della Fiat», il segretario Landini ha suggerito: «Andate prima nelle catene di montaggio e vediamo se poi ragionate nello stesso modo. Sarebbe utile che la politica prima di parlare di certe situazioni provasse a fare lo sforzo di mettersi nel punto di vista di chi deve lavorare». La risposta, secca, è arrivata da Massimo D’Alema: «Neanche Landini lavora alla catena di montaggio. Sono polemiche che non hanno molto senso».

l’Unità 30.12.10
«Ricatto, strumento antico per piegare il sindacato»
di Paolo Leon


Le relazioni industriali sono ormai alla mercé dei datori di lavoro. Se Marchionne avesse contrattato come in Chrysler non rischierebbe il discredito dell’imprenditoria e il conflitto nelle sue fabbriche
Come il pugile suonato che prende un gancio dopo l’altro senza poter reagire, così appare il sistema delle relazioni sindacali italiane, ormai alla mercé dei datori di lavoro. C’è già un feuilleton sulle gesta di Marchionne, dalle sue tattiche contrattuali alle sue scelte industriali, e sembra che egli sia riuscito ad assestare un colpo mortale alle conquiste post-68 (ricordate la Gelmini di pochi giorni fa?) che, d’improvviso, sembrano crollare come un castello di carte. Sappiamo che perfino lo Statuto dei Lavoratori non basterebbe a salvaguardare un dignitoso equilibrio tra le parti del contratto di lavoro, se la linea Fiat si estendesse a tutta l’industria. Nel frattempo, il ministro del Lavoro sta varando in Parlamento uno «Statuto dei lavori», dove anche le difese dello Statuto vero e proprio (come l’art.18 sui licenziamenti senza giusta causa) sono diluite omeopaticamente. Ma le cose stanno proprio così?
Marchionne ha usato il più antico degli strumenti per piegare il sindacato: lo ha ricattato, minacciandolo prima direttamente con la chiusura degli stabilimenti (Termini Imerese) e poi indirettamente, offrendo nuovi investimenti, senza i quali non reggerebbero alla concorrenza internazionale né Pomigliano né Mirafiori, il cuore della Fiat. Nella normale economia del crimine, al ricattato si offrono due scelte: pagare, sperando che si accontenti, ma poiché sa che il ricattatore tornerà con nuove minacce, cercherà di associarvi; oppure denunciare alla polizia il ricattatore. Nel caso della Fiat, e fuori dall’economia del crimine, due sindacati hanno pagato, sperando che Marchionne stia ai patti, ma poiché non c’è alcuna ragione perché questo succeda, cercano di associarsi con lui per contrattare quanto possibile. A Marchionne una tale associazione non conviene: rifiutando sia il contratto nazionale sia la presenza in Confindustria, la Fiat si avvia ad assumere quanti e chi riterrà opportuno con contratti individuali. Naturalmente, Cisl e Uil hanno ceduto di schianto, perché nel caso del mercato del lavoro, non esiste la polizia alla quale denunciare il ricattatore: esiste la magistratura, che però opera sui singoli casi, e nei tempi eonici ben noti. Proprio l’aver ceduto al ricatto ha annullato qualsiasi potere sindacale alla Cisl e alla Uil, che ora, paradossalmente, dipendono dalla resistenza della Fiom, per poter raggranellare qualche forza residua nei confronti di Marchionne. Ma le cose stanno proprio così?
La Fiat dipende strettamente dal suo indotto e dalla meccanica generale. Ambedue i settori operano per la Fiat in Italia, in Polonia e in Brasile. La meccanica generale ha poi buone prospettive di operare senza la Fiat, per ordini in Europa e in Estremo Oriente, in particolare Germania e Cina; l’indotto, a sua volta, è certo dipendente dalla Fiat ma, sia pure con perdite, si può spendere nei confronti di altri produttori di automobili, in Europa e in Estremo Oriente. Allo stesso tempo, la Fiat non è capace di rifornire le linee di assemblaggio per lunghi periodi di lavoro: opera “just in time” e minimizza il suo magazzino, per risparmiare costosi finanziamenti. Così, il sindacato dei metalmeccanici, debole in Fiat, è forte nel resto del settore meccanico e metallurgico. Se riuscisse a separare momentaneamente i destini Fiat da quelli della filiera, allora potrebbe contrastare Marchionne: non solo a Pomigliano e Mirafiori, ma anche, e soprattutto, in Polonia e in Brasile. Si dovrebbero studiare meglio le ragioni che spingono la Fiom, novello Scipione l’Africano, a rifiutare il ricatto di Marchionne: la sua polizia sta nella filiera metalmeccanica.
Il problema non sono le esigenze di Marchionne: queste sono vere, soprattutto perché finora la Fiat ha fatto politiche di bassi volumi negli stabilimenti italiani, e per cambiare i volumi occorre certo aumentare la produttività, sia del lavoro sia degli impianti. Se avesse effettivamente contrattato come ha fatto in Chrysler, anziché ricattare, non rischierebbe oggi il discredito nei confronti del resto dell’imprenditoria italiana e, domani, una sollevazione nelle sue fabbriche.
In tutto ciò, non mi stupisce l’atteggiamento del governo: padrone delle ferriere Marchionne, barone di Munchausen Berlusconi. Mi stupisce la paura di politici e intellettuali: che l’attuale e il futuro sindaco di Torino si assoggettino al ricatto, si può capire, anche se ci si attenderebbe una presa di responsabilità nei confronti della maggiore impresa torinese – del resto, nel passato, gli enti locali hanno via via perduto il loro ruolo nei confronti dell’imprenditoria locale. Non c’è, invece, scusa per gli intellettuali e quei politici che hanno sposato Marchionne: non erano ricattabili, né il loro consenso era necessario alla Fiat, ma è il solito vecchio vizio di molti italiani quello di correre al soccorso del vincitore.

Corriere della Sera 30.12.10
Il lavoro cambia la sinistra no
di Pietro Ichino


C’è nella sinistra italiana una radicata convinzione che lega lo stato di salute della nostra democrazia alla temperatura dei rapporti sindacali in Fiat. La spiegazione di questa tendenza affonda nella storia del movimento operaio italiano e nel suo dna torinese. Una storia che ha via via esaltato gli scioperi del marzo ’43 come l’anticipazione della Resistenza, i moti di piazza Statuto come l’antipasto del ’68 e, infine, la marcia dei Quarantamila come l’inizio della «normalizzazione capitalistica»
C aro direttore, l’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri sollecita una risposta chiara da parte del Partito democratico a questa domanda: sul terreno delle riforme di cui il Paese ha urgente bisogno, da che parte sta la vostra opposizione all’azione del governo, in avanti o all’indietro? Panebianco indica diverse materie sulle quali la risposta deve essere puntuale, netta e concreta; una di queste è la materia del lavoro e delle relazioni industriali, nella quale la vicenda Fiat sta portando a una svolta epocale. Nello stesso giorno, su Repubblica due editoriali— quello di Stefano Rodotà e quello di Tito Boeri — sembrano dare, proprio in riferimento alla vicenda Fiat, due risposte di segno opposto: Rodotà denuncia l’accordo di Mirafiori come un «ritorno al Medioevo» delle relazioni industriali, Boeri denuncia l’inerzia del governo e del legislatore nel porre le regole necessarie perché non solo l’accordo di Mirafiori, ma cento altri analoghi possano consentire l’afflusso di quegli investimenti e di quei piani industriali innovativi ai quali il nostro Paese è oggi drammaticamente chiuso. Su questa materia, la domanda di Panebianco può tradursi così: il Pd sta con Rodotà o con Boeri? Non ho titolo per rispondere a nome dell’intero Pd (al cui segretario, comunque, tutti abbiamo titolo per chiedere una risposta molto più chiara di quella data finora su questo punto). Posso farlo, però, almeno a nome di quella larga parte dello stesso partito che si riconosce nel progetto di riforma del diritto sindacale contenuto nel disegno di legge numero 1872, presentato l’anno scorso da 55 senatori democratici. Quel progetto — che i lettori del Corriere ben conoscono— muove dalle stesse considerazioni proposte ieri da Tito Boeri. Tra le cause principali della chiusura del nostro Paese agli investimenti delle multinazionali sta anche, insieme ad altre cause strutturali e a una legislazione sul rapporto di lavoro complicatissima e intraducibile in inglese, l’inconcludenza del nostro sistema di relazioni industriali: un sistema nel quale non è chiaro chi abbia il potere di contrattare un piano industriale innovativo con effetti vincolanti per tutti i lavoratori interessati; e le minoranze sindacali hanno di fatto un potere di veto sulle scelte compiute dalle coalizioni maggioritarie. Occorre dunque dotare il Paese di regole semplici, capaci di rispondere positivamente alle questioni poste dalla «sfida» di Marchionne, conciliando l’effettività del contratto con il pluralismo sindacale. Il progetto delinea un assetto nel quale il contratto collettivo nazionale continua ad applicarsi a tutte le aziende del settore, ma soltanto se non vi sia un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale che abbia la maggioranza dei consensi nell’impresa interessata. Contiene poi una definizione precisa dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati; sancisce il potere della coalizione sindacale maggioritaria di negoziare il piano industriale a 360 gradi, compresa la clausola di tregua che impegna a non scioperare contro il contratto stesso, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti dell’azienda. Alla minoranza sindacale, a cui in questo modo viene tolto il potere di veto, viene però garantito il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando non abbia firmato il contratto: ciò che la legge oggi vigente non garantisce. Certo, sarebbe molto meglio se queste regole potessero essere fatte oggetto di un accordo interconfederale firmato da tutte le confederazioni maggiori. Ma questa prospettiva è purtroppo assai lontana: c’è pieno consenso, infatti, tra Cgil, Cisl e Uil sui criteri per la misurazione della rappresentatività nei luoghi di lavoro, ma — come rileva il segretario della Uil Angeletti sulla Stampa di ieri— il consenso non c’è sul collegamento necessario tra rappresentatività e potere di contrattare in azienda, anche in deroga al contratto nazionale. Inoltre la Cisl teme che una riforma legislativa di questo genere irrigidisca, invece che fluidificare, il nostro sistema delle relazioni industriali, impedendo la contrattazione a chi si trova a essere minoranza (ma la nuova norma non impedirebbe a nessuno la stipulazione, a qualsiasi livello, di contratti che aumentino gli standard di trattamento; si limiterebbe a consentire, regolandolo, ciò che oggi in Italia non può fare nessuno in condizioni di sufficiente certezza del diritto: cioè stipulare contratti che deroghino al contratto nazionale). Il peggio che possiamo fare è stare fermi: il difetto delle regole necessarie rischia non soltanto di essere pericoloso per il principio del pluralismo sindacale, ma anche di essere paralizzante per progetti ambiziosi — e preziosi per il Paese — come quello della «Fabbrica Italia» di Marchionne.

l’Unità 30.12.10
Renzo Penna, Mauro Beschi, Sergio Ferrari
We Want Sex and Democracy
Luigi Cancrini risponde alla Associazione LABOUR “R.Lombardi


La conclusione dell’accordo separato di Mirafiori segna una ferita, un passo indietro nella qualità delle relazioni sociali e della democrazia di questo Paese. Il fatto che a questo corrisponda l’impegno per un investimento di un miliardo a Torino rappresenta, significativamente, il prezzo di questa parte di democrazia sacrificata.
*per l’Associazione LABOUR “R.Lombardi”

In un film bellissimo che racconta una storia vera del 1968, da proiettare in tutte le scuole, il responsabile della Ford reagisce allo sciopero delle operaie che chiedono la parità retributiva fra uomo e donna (lo striscione che dà il titolo al film diceva “We want sexual equality” e veniva trasformato in “We want sex” da un colpo di vento) dicendo ad Harold Wilson, primo ministro inglese, che la Ford sposterà in altri paesi la sua produzione se il suo governo appoggerà lo sciopero. Con parole uguali a quelle dette oggi da Marchionne. Diversa è stata oggi però la risposta di Berlusconi che non ha preso, come fece Wilson, le parti degli operai ma quelle dei padroni e che è contento oggi soprattutto di avere spaccato il sindacato su una grande questione di principio. Un fatto su cui dovrebbero riflettere seriamente quegli esponenti del PD che hanno criticato la Fiom ma soprattutto le persone con idee di sinistra che non votano più pensando che votare sia ormai inutile. Il Ciampi e il Prodi di ieri o il Bersani di domani si sarebbero comportati in modo molto diverso di fronte alla minaccia di Marchionne.

Repubblica 30.12.10
Sacconi: ideologismi ko. Sfida Landini-D´Alema
Il leader Fiom: i dirigenti del Pd vadano in fabbrica. La replica: neanche lui lavora lì
Documento dei democratici: preziosi gli investimenti, ma strappi ingiustificabili
di Giovanna Casadio


ROMA - Fassino, Chiamparino e gli altri del Pd favorevoli all´accordo di Mirafiori, «vadano a lavorare alla catena di montaggio». Maurizio Landini, il segretario generale della Fiom, va sul concreto, o meglio sul vissuto. Dopo un po´ di catena di montaggio, vediamo - dice Landini - «se ragionano nello stesso modo». E sempre per restare sullo stesso piano, Massimo D´Alema controbatte: «Nemmeno Landini lavora alla catena di montaggio, quindi mi paiono polemiche che non hanno molto senso. I lavoratori giudicheranno democraticamente il valore dell´accordo». Colpo su colpo, botta e risposta, nel giorno in cui la Fiat sigla l´altro accordo, quello di Pomigliano.
E il governo apprezza, elogia. Maurizio Sacconi, ministro del Welfare, commenta subito dopo il sì a Pomigliano: «Ha vinto il pragmatismo, non l´ideologia, ben venga la discontinuità nel sistema di relazioni industriali laddove il vecchio impianto politico-culturale fondato sul conflitto sociale ha prodotto bassi salari e bassa produttività». Idem per Paolo Romani, il responsabile dello Sviluppo economico: «Dalle forze responsabili un contributo per competere. L´accordo apre una nuova fase per il settore dell´auto».
Il centrosinistra accusa il governo di avere alimentato divisioni. Ma è a sua volta spaccato: da un lato la sinistra di Vendola, orgogliosamente schierata con la Fiom, e di Di Pietro (per il quale l´accordo di Pomigliano è frutto di «un ricatto a cui sono stati sottoposti gli operai), che pensano allo sciopero generale, dall´altro i Democratici. Molti malumori interni, posizioni diverse che un documento su Mirafiori cerca di tenere insieme. Lo scrivono Stefano Fassina, il responsabile economia del Pd, e i segretari piemontesi, regionale e della provincia di Torino, Gianfranco Morgando e Paola Bragantini. Dice che gli «investimenti sono preziosi e irrinunciabili» ma «gli strappi sulle regole sono ingiustificabili». È il punto di vista di Bersani. Lo ribadisce D´Alema: «L´accordo di Mirafiori è accettabile ma l´azienda sbaglia a escludere il dissenso». Ancora più nettamente a favore è Veltroni che il 21 riunisce i Modem a Torino nel cosiddetto "Lingotto 2", dove si parla dei problemi del paese. «Non potremo che esprimere una posizione di sì all´accordo - spiega Stefano Ceccanti - e questo rimette sui piedi il dibattito sulle alleanze: con Idv e Vendola non c´è condivisione».
La Fiom ha annunciato lo sciopero per il 28 di gennaio per «l´attacco alla democrazia». Uno sciopero che è cartina di tornasole delle distanze nelle file democratiche: Sergio D´Antoni, ex segretario Cisl, esprime «soddisfazione e ottimismo» per quell´intesa che «salvaguarda i livelli occupazionali e aumenta i salari dei lavoratori»; Roberto Della Seta la boccia: «Se il Pd sposa il pensiero di Marchionne condanna se stesso». E del resto, il pd Sergio Cofferati, ex segretario Cgil, ha costituito (con Bertinotti, Nerozzi, Rodotà, Gallino, Rossanda) l´associazione a sostegno della Fiom. Sarcasmo contro la Cgil dal ministro Brunetta: «Ma dove vive? Su Marte?».

Repubblica 30.12.10
Sporcarsi le mani
"Conosco le fabbriche meglio di loro ora basta arroccarsi"
Fassino: un errore non firmare
di Goffredo De Marchis


Velleitario arroccarsi, se i lavoratori non danno soluzioni ai problemi, alla fine sono i padroni a imporle
Le conosco da più tempo di Landini, e non solo quelle meccaniche Ho fatto tesoro di quella esperienza

ROMA - Alla battutaccia di Maurizio Landini risponde con fastidio: «Conosco le fabbriche metalmeccaniche da molto più tempo di lui. E non solo quelle». Poi conferma: «Voterei a favore dell´accordo di Mirafiori». L´ex segretario dei Ds Piero Fassino, candidato alle primarie per il sindaco di Torino, dice che la Fiom ha «un atteggiamento votato alla sconfitta». E ricorda l´epoca in cui era il delegato del Pci per le fabbriche torinesi: «In quegli anni ho imparato una lezione che Landini sembra ignorare. Come si diceva in sindacalese, di fronte ai problemi veri non si fugge, bisogna sporcarsi le mani».
Perché sì all´accordo?
«Perché dal punto di vista produttivo ha un valore innegabile. Consente un investimento che garantisce la certezza dell´occupazione a 15 mila lavoratori tra Fiat e indotto. Rilancia Mirafiori che era vicina al collasso. Attiva la produzione di modelli di alta gamma. È un´operazione nel segno dell´espansione».
Con grandi sacrifici per gli operai.
«È vero. Ai lavoratori sono richieste condizioni onerose. Compensate però dalla sicurezza del lavoro. In America i sindacati della Chrysler hanno sottoscritto un accordo che prevede per i neoassunti la riduzione del salario da 28 a 14 dollari l´ora e 5 anni di non conflittualità».
Ma qui siamo in Italia.
«Magari. Qui siamo nel mondo globalizzato. In Germania i sindacati di molte aziende stanno ricontrattando le condizioni salariali per tenerne conto. Ecco perché rifiutare l´accordo mi sembra un grave errore. Peraltro avrebbe conseguenze solo sui lavoratori. La Fiat invece ne uscirebbe indenne limitandosi a trasferire la produzione negli Usa. Ma c´è un punto nell´intesa che non condivido».
Quale?
«Marchionne vuole l´esigibilità del contratto e ha ragione. Ma l´obiettivo può essere conseguito con un´intesa interconfederale o aziendale che stabilisca che gli accordi vengono sottoposti a referendum il cui esito è vincolante per tutti i lavoratori e tutte le sigle. In questo modo l´azienda è garantita nel rispetto del contratto, ma nessun sindacato è negato nella sua funzione di rappresentanza».
Lei direbbe sì nell´interesse dei lavoratori. Significa che la Fiom non sta difendendo quegli interessi?
«Non mi permetto di fare una tale affermazione. Ma vedo che la Fiom si è arroccata. È molto velleitario alzarsi dal tavolo e non firmare. Così il sindacato non difende i lavoratori anzi li espone a un rischio maggiore. La tutela delle rigidità non funziona più, oggi ci vuole il governo delle flessibilità. La Fiom dice: 10 anni fa abbiamo sottoscritto degli accordi e non si toccano. Ma 10 anni fa non c´erano la Cina, l´India, il Brasile».
Si può paragonare il no della Fiom di oggi alla posizione del Pci sulla scala mobile?
«Anche allora prevalse una linea puramente difensiva. Successivamente lo riconobbero dirigenti come Trentin e Chiaromonte. Una strategia di conservazione davanti a mutamenti radicali alla fine si rivela la più debole e la più inefficace».
Le fabbriche sono cambiate. Com´è cambiato lei rispetto al ragazzo che andava ai cancelli di Mirafiori negli anni ‘80?
«Ho cercato di fare tesoro di quell´esperienza. Ho avuto maestri del calibro di Emilio Pugno e Aventino Pace. Ho imparato che quando sei davanti a problemi oggettivi, con una radice sostanziale, l´ultima delle cose utili è negarli. Ci si sporca le mani e non si ha paura di farlo. In quegli anni ne abbiamo inventate di soluzioni innovative. Il 6 per 6 nel settore tessile quando arrivava la competizione cinese, l´organizzazione del lavoro nel settore gomma su due settimane con 12 giorni lavorati e 3 di riposo. Siamo stati dentro il cambiamento perché quello non devi mai fare è metterti fuori. Pace insegnava a noi giovani una grande verità: "Guardate che se ai problemi la soluzione non la date voi, la darà il padrone senza di voi"».
Marchionne non parla molto di qualità eppure solo 3 auto su 10 in Italia vengono dal gruppo Fiat. Non sarà mica colpa degli operai e della produttività?
«L´osservazione è giusta. Ed è giusto incalzare il progetto di Fabbrica Italia. Abbiamo una quantificazione di massima dell´investimento: 20 miliardi. Ma oggi sappiamo come saranno spesi, per Pomigliano e Torino, solo un miliardo e mezzo. Sarebbe utile conoscere in quale direzione andranno gli altri 18. Ma dobbiamo incalzare anche il governo che è stato completamente assente, che non si pone il problema di una politica industriale».
Lo sciopero del 28 gennaio proclamato dalla Fiom è una follia?
«Non spetta ai partiti pronunciarsi sugli scioperi. Ma a Landini chiedo: al di là della denuncia come si propone di incidere su quello che succede negli stabilimenti Fiat? Se denuncia e basta rischia di esaurire il suo ruolo in una testimonianza. Sarà pure nobile sul piano etico. Ma sul piano pratico la sua efficacia qual è?».

Repubblica 30.12.10
Israele
"Donne ebree, niente rapporti con gli arabi"

Gerusalemme - In una lettera-shock 27 mogli di rabbini della corrente nazionalista, vicina al movimento dei coloni, rivolgono un appello alle donne ebree perché non abbiano alcun rapporto - tantomeno sentimentale - con gli arabi, specie gli arabi israeliani. Tra le firmatarie, la figlia di Rabbi Ovadia Yosef, il leader spirituale del partito ultraortodosso Shas, che è parte della coalizione di governo in Israele. (f. s.)

Repubblica 30.12.10
Belgio, si è sempre distinto per il suo impegno "altermondista"
Il teologo Houtart confessa "Ho abusato di un bambino"


BRUXELLES - Nel 1976 ha fondato l´Ong "Centro tricontinentale" per l´aiuto ai paesi in via di sviluppo. Oggi il teologo marxista belga François Houtart, 85 anni, ha sconvolto i membri della sua Organizzazione confessando di aver molestato 40 anni fa un cugino di 8 anni.
Le prime ammissioni di Houtart, soprannominato il "papa altermondista" per il suo impegno a favore dei paesi poveri, risalgono all´ottobre scorso, ma sono diventate di dominio pubblico ieri quando il teologo ha rilasciato un´intervista via lettera al quotidiano belga Le Soir da Quito, dove si trova per lavoro. Houtart già il mese scorso si era dimesso dal consiglio di amministrazione del Centro, che si occupa di mettere in evidenza gli abusi delle nazioni ricche nei confronti di quelle povere.
Le ammissioni del fondatore dell´ong rientrano nell´inchiesta avviata in Belgio sui casi di pedofilia all´interno della chiesa cattolica. La commissione Adriaenssens che si occupa delle indagini ha raccolto tra il 19 aprile e il 24 giugno scorso 475 denunce di persone molestate da sacerdoti o altro personale ecclesiastico. A contattare la magistratura è stata la sorella del cugino molestato. Ora Houtart, che è anche direttore della rivista "Alternatives Sud", ha chiesto ai suoi collaboratori di ritirare la sua candidatura al premio Nobel per la pace. A esigere questo passo sarebbe stato lo stesso cugino molestato.
Il teologo ha riferito nell´intervista alcuni particolari dell´episodio. Houtart fu invitato dai suoi parenti a trascorrere qualche giorno nella loro casa di Liegi, mentre rientrava da una conferenza. "Attraversando la camera di uno dei ragazzi della famiglia ho in effetti toccato le sue parti intime due volte, cosa che l´ha svegliato e colpito. È stato chiaramente un atto sconsiderato e irresponsabile». In seguito «i miei parenti mi dissero che il bambino era stato visitato da uno psicologo. Questo episodio mi sconvolse. Sono consapevole della contraddizione con la fede cristiana e con il mio ruolo di prete. Ho sempre detto ai miei parenti che sarei stato pronto a rinunciare al sacerdozio e ad assumermi le mie responsabilità. Non ho mai pensato che fosse una cosa normale».

l’Unità 30.12.10
I tagli di Tremonti
Editoria e cultura. Non può finire così
di Roberto Natale, Presidente FNSI


Volete voi che cento milioni di euro vadano agli studi per combattere la sclerosi laterale amiotrofica oppure alla stampa di partito e cooperativa? Di fronte a una domanda del genere, non avrebbe esitazioni nel rispondere nemmeno il più strenuo difensore del pluralismo informativo. Ma ignobile è aver messo in contrapposizione valori civili tanto rilevanti. E’ esattamente quello che ha fatto il ministro Tremonti, lasciando credere che la decurtazione dei fondi del 5 per mille fosse da attribuire alla necessità di sostenere i giornali di idee e del circuito no profit e le piccole radio e tv. Così questo improvvisato difensore dell’associazionismo e del volontariato (lo stesso che aveva malmenato le voci del terzo settore con il rincaro delle tariffe postali) ha usato il decreto milleproroghe per togliere di nuovo all’editoria e all’emittenza ciò che una battaglia di mesi anche grazie al largo concorso di forze parlamentari di maggioranza e di opposizione aveva faticosamente consentito di riconquistare. “Con la cultura non ci si mangia” è una delle recenti frasi celebri del ministro. Evidentemente Tremonti pensa lo stesso del pluralismo delle idee, che della cultura è parente stretto. Dunque si può procedere con tagli indiscriminati ed esiziali anche nell’informazione, come si sta facendo nella scuola pubblica, nella ricerca, nel cinema, nel teatro, nelle arti.
No, non può andare così: non andrà a finire così. Nel Paese della più straordinaria concentrazione di potere mediatico-politico, del più clamoroso squilibrio nella ripartizione delle risorse pubblicitaria fra tv e stampa, non possiamo accettare che una sola delle voci a rischio debba chiudere. Non abbiamo privilegi clientelari da difendere, ma ragioni forti da far valere. Tremonti, sedicente rigorista, non sa applicare quel rigore che da anni i giornalisti e tante associazioni del settore chiedono venga messo in atto estromettendo i furbi dall’accesso al finanziamento pubblico. Tremonti, custode del conflitto di interessi, non ha il coraggio di vedere che la pingue raccolta pubblicitaria tv o la vendita delle frequenze digitali consentirebbero di trovare senza problemi i fondi per permettere una vita meno stentata a parti essenziali del fragile pluralismo italiano. Metteremo in questa battaglia la stessa vincente determinazione usata nel contrastare il ddl sulle intercettazioni. Anche in questo caso si tratta di un diritto più grande di quello di una categoria: è il diritto dei cittadini a conoscere, a poter confrontare idee e punti di vista diversi. Anche in questo caso la partita si gioca nella società non meno che in Parlamento: dove il milleproroghe dovrà essere discusso e votato, entro i prossimi due mesi. E non è affatto detto che le Camere vogliano farsi sbeffeggiare di nuovo da un ministro refrattario a riconoscere il ruolo che la Costituzione assegna loro.

l’Unità 30.12.10
Milleproroghe: stangata su editoria e cultura E Tremonti chiede rigore
Il decreto di fine anno in Gazzetta Ufficiale. Fnsi: scippo all’editoria. In una circolare il ministro del Tesoro chiede rigore agli uffici. Ma non mancano assunzioni di amici e parenti. Pd: speriamo non serva un’altra manovra.
di Bianca Di Giovanni


Dopo aver «regalato» 80 milioni a Guido Bertolaso per le assunzioni di «parentopoli», 30 milioni a Michela Vittoria Brambilla per il suo portale del turismo Italia.it, altrettanto ai grandi giornali (quelli della famiglia del premier inclusi) come credito d’imposta sulla carta (soldi prelevati, quelli sì, dal 5 per mille), dopo aver sottratto nove milioni ai fondi per i consumatori danneggiati da eventuali truffe per «girarli» ai benzinai, oggi Giulio Tremonti chiede rigore ai ministeri. In una circolare il ministro conferma «l’esigenza di una rigorosa azione di contenimento della spesa pubblica». Gli uffici dovranno procedere a un’«oculata riduzione degli stanziamenti complessivi per spese diverse da quelle obbligatorie ed inderogabili». Nel testo il ministro ricorda i tagli disposti con la manovra estiva. la riduzione dal 2011 del 10% di indennità, compensi, retribuzioni corrisposti ai componenti di organi di indirizzo, direzione e controllo, cda e organi collegiali. Non solo, ma anche la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza non potrà essere superiore al 20% di quella sostenuta nel 2009. Nè potrà superare il 20% la spesa per relazioni pubbliche, convegni, mostre e pubblicità. Sforbiciata anche per le spese per le missioni che non potranno essere superiori al 50% della spesa sostenuta nel 2009 (escluse forze armate, di polizia e magistrati). Più stringenti i criteri, inoltre, per le spese del personale, e relative assunzioni (visti gli ultimi scandali romani, si interviene a danno fatto).
MILLEPROROGHE
Tace, il ministro, dell’ultima stangata inferta a un corpo già indebolito proprio nel mezzo della crisi. Il decreto milleproroghe, pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale, annienta definitivamente i piccoli giornali di partito, idee e non profit, tra cui anche l’Unità. Tutto in 24 ore: nella legge di Stabilità si era rifinanziato il fon-
do per l’editoria con 100 milioni, il giorno dopo si è tagliato di 50 milioni. E non solo: altri 45 milioni sono sottratti alle Tv locali. Il tutto con la scusa del 5 per mille, che in realtà nel 2010 era finanziato assieme all’editoria. Una spirale perversa, con un sapore di vendetta politica contro i «traditori» finiani (tra i maggiori sponsor del finanziamento) che colpisce al cuore il pluralismo dell’informazione. Oggi alle 15 la Fnsi (il sindacato dei giornalisti), insieme a Mediacoop, la Cgil, Articolo 21 e a tutte le associazioni della cultura e dello spettacolo vittime anch’esse della scure di Tremonti terrà una conferenza stampa su quello che definisce lo «scippo» all’editoria. Dopo le vacanze la partita sarà in Parlamento, per risanare almeno in parte le ferite di Tremonti: ferite che peggiorano gli effetti della crisi sul Paese.
La circolare di Tremonti ha suscitato una miriade di reazioni. «Speriamo non sia l'indizio dell'avvicinarsi della manovra correttiva dichiara Francesco Boccia del Pd in ogni caso è la conferma che il rigore finora millantato dal governo non ha funzionato». Il Fli, con Italo Bocchino, si chiede dove sia il rilancio e lo sviluppo. Luca Galletti (Udc) denuncia una politica «debole, basata solo sui tagli lineari, senza investimenti».

il Fatto 30.12.10
Sanità. L’Ospedale Sant’Orsola e Ignazio Marino
Essere scorretti senza fare reati
di Giorgio Meletti


I fatti sono noti. Il 20 agosto 2009 magistrati calabresi intercettano casualmente una telefonata in cui un chirurgo di Bologna racconta al suo interlocutore una storia quantomeno curiosa. Il direttore generale dell’Ospedale Sant’Orsola, Augusto Cavina, che aveva già pronto un contratto con il noto chirurgo Ignazio Marino per farlo operare a Bologna, avrebbe fatto marcia indietro perché, proprio in quelle settimane, lo stesso Marino si era   candidato alle primarie per la leadership del Pd. Diceva quel medico al telefono: “In sostanza i vertici regionali, che come tu sai si sono schierati con Bersani, e quindi Marino non è più gradito qua”.
L’intercettazione viene inviata alla procura di Bologna, che apre un fascicolo contro ignoti per abuso d’ufficio. La notizia esce, provoca imbarazzo. Lo stesso Pierluigi Bersani, insieme al presidente della regione Emilia Romagna Vasco Errani   , giurano a Marino di non saperne niente. Marino ci crede. Pochi mesi dopo un altro ospedale emiliano, a Modena, si assicura le pregiate prestazioni del quotato chirurgo.
Nei giorni scorsi il pubblico ministero Luca Tampieri ha chiesto l’archiviazione del procedimento, perché non ha rintracciato nella vicenda gli estremi del reato. Ha però scritto nella stessa richiesta che dall’inchiesta risulta evidente che Marino non fu voluto al Sant’Orsola per motivi di ordine politico, in un “desolante quadro di sudditanza politica delle   scelte anche imprenditoriali di un'azienda ospedaliera di primaria importanza”.
Lo stesso Marino ha così commentato la vicenda: “Le affermazioni della procura di Bologna spingono a riaffermare con vigore la necessità che la politica si tenga fuori dalla gestione della sanità pubblica”. Adesso chiederà di vedere il fascicolo, riservandosi una considerazione più ponderata e documentata dell’antipatica vicenda. Sergio   Venturi, da poco al vertice del Sant’Orsola al posto di Cavina, ha fatto una strana dichiarazione: “Non mi è mai capitato che qualcuno mi abbia suggerito il nome di un primario da nominare e sicuramente ci sono regioni in cui questo avviene in modo molto più pesante”.
Questa storia ha una morale (provvisoria   ) e molte ragioni per non essere lasciata cadere. Uomini politici, manager e imprenditori hanno imparato a respingere ogni critica con un argomento assurdo: “Non c’è niente di illegale” (mentre se l’accusa viene da un magistrato c’è “persecuzione” con sospetti di giustizialismo). Invece sarebbe utile che, per esempio in questo caso dentro lo stesso Pd, si discutessero fatti del genere.
Marino ha presentato un disegno di legge per togliere alla politica le nomine dei primari, cioè per trasformare in reato le attuali correnti porcherie “niente di illegale”. Ma c’è da chiedersi perché la politica non tenti, almeno qualche volta, di usare i suoi strumenti per tenere nei binari della correttezza   e della decenza l’esercizio del potere. In fondo basterebbe, per rimanere a questo caso esemplare, che qualcuno del Pd affrontasse i fatti nel merito, e si assumesse la responsabilità di dire una cosa: “Non è successo niente, è un malinteso, è tutto a posto”. Oppure: “Sì, purtroppo al Sant’Orsola è stata fatta una cosa brutta, criticabile, non da andare in galera, ma un po’ da vergognarsi sì”. Sarebbe un utile contributo per restituire alla politica un po’ di dignità e di credibilità. Sennò restiamo allo schema consolidato: non è ammessa la critica dove non c’è reato. Anzi: dove non c’è sentenza definitiva di colpevolezza. Che è poi la strada maestra per delegare ai magistrati (in esclusiva) la valutazione e la selezione della classe politica.

l’Unità 30.12.10
Intervista a Massimo Salvadori
«Le carte di Wikileaks. Una bomba scoppiata nell’Italia di Fangopoli»
Lo storico: «I cablo sul nostro Paese usciti in un quadro di imbarbarimento dei rapporti tra le forze politiche. Berlusconi ha provato a minimizzare ma lo sguardo americano sulle vicende interne è davvero inquietante»
di Umberto De Giovannangeli


Nell’agire delle persone vi sono sempre elementi complessi. E questo vale anche nel caso di Julian Assange. Di certo, però, Wikileaks ha segnato una tappa significativa nella storia dell'opinione pubblica». A rilevarlo è uno dei più autorevoli storici e scienziati della politica italiani: Massimo Salvadori. E sull'impatto particolare che le rivelazioni di Wikileaks hanno avuto in Italia, Salvadori osserva: «Credo che il motivo vada ricercato nel fatto che in Italia il livello della conflittualità tra le forze politiche è particolarmente alto e si va sempre più imbarbarendo». Nel merito, annota Salvadori, «Berlusconi ha provato a sminuire la portata di quei rapporti, sostenendo che si trattava di pettegolezzi e, addirittura di spazzatura. Ha provato anche ad abbassare la statura dei diplomatici che quei cablogrammi avevano stilato. Ma tutti capiscono che si tratta di tentativi vani di sminuire la sostanza di quelle annotazioni». E la sostanza sta «nell’intreccio tra affari pubblici e privati che connota la politica e le relazioni internazionali del presidente del Consiglio»
Dalla Russia di Vladimir Putin alla Libia di Muammar Gheddafi. Professor Salvadori, perché a suo avviso la «bufera Wikileaks» ha avuto un impatto politico particolare in Italia?
«Credo che il motivo sia legato al fatto che in Italia il livello della conflittualità tra le forze politiche è particolarmente alto e si va sempre più imbarbarendo. Abbiamo assistito anche in un recente passato a episodi di virulenza polemica che traevano motivo da scandali reali o supposti. Abbiamo di fronte il recente episodio costituito dall' inqualificabile attacco che il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, ha rivolto al presidente della Camera, raccogliendo notizie spazzatura legate addirittura a un attentato da giocarsi nella contesa politica, o alla frequentazione da parte di Fini di una prostituta. Questa squallida vicenda è solo l'ultimo episodio di una conflittualità che trae pretesto da ogni cosa per aggredire gli avversari politici. È l'Italia di “Fangopoli”. Una brutta Italia...».
E Wikileaks...
«In un contesto simile anche le rivelazioni di Wikileaks diventano motivo per l'amplificazione di questo trend. Detto questo, non bisogna perdere di vista il fatto che queste
rivelazioni hanno messo in luce elementi assai inquietanti che riguardano in primo luogo i comportamenti del presidente del Consiglio...».
A cosa si riferisce in particolare?
«Al fatto che l'Ambasciata americana ha dato giudizi certamente assai pertinenti riguardanti il riverbero che i comportamenti privati di Berlusconi hanno sulla politica nazionale e sulla politica di governo. Inoltre, certamente assai significativi e rilevanti sono i cablogrammi dell' Ambasciata Usa a Roma attinenti al rapporto particolare, pubblico-privato, che Berlusconi ha intrecciato con il Governo russo e in particolare con Putin, da un lato, e dall'altro anche con Gheddafi: rapporti, su questi due fronti, che intrecciano questioni questioni personali, la politica estera del Paese e, plausibilmente, interessi privati».
Era immaginabile quel tipo di «uscite» da parte di diplomatici americani? «Direi che non solo è immaginabile ma è qualcosa che fa parte dell'attività diplomatica. Si tratta del fatto che le ambasciate in tutto il mondo sviluppano le loro azioni su due canali: uno è quello delle relazioni ufficiali, e l'altro è quello delle relazioni, che si arricchiscono di incontri ufficiosi e altro, che danno un quadro realistico delle cose e del modo in cui un Paese, in questo caso l'Italia, sviluppa la sua politica e le proprie relazioni internazionali. Insomma, Wikileaks ha svelato aspetti che le diplomazie di tutto il mondo tengono al riparo dall'ufficialità, con l'intento di dare informazione adeguata sulla realtà delle cose. Naturalmente seguono le smentite, il tentativo di sminuire la statura dei funzionari dell' Ambasciata, riducendo le loro informazioni, come ha fatto Berlusconi, a pettegolezzi e perfino a spazzatura. Ma tutti capiscono che si tratta di un tentativo vano di coprire la portata effettiva delle rivelazioni e la loro sostanza. Certo, da tutto questo verrà la conseguenza che da ora in avanti le ambasciate di tutti i Paesi provvederanno a preservare gli arcana imperii, ovvero i segreti di Stato, con tecniche più sofisticate al riparo dei “pirati” informatici...».
Il re dei «pirati» informatici ha un nome e un volto: quello di Julian Assange. C’è chi dipinge il fondatore di Wikileaks come un «angelo» liberatore, chi, invece, lo identifica come una sorta di «demone» che sta attentando alla sicurezza internazionale. Quale opinione si è fatta di lui, professor Salvadori?
«In tutta franchezza credo che non sia facile dare un giudizio. Quello che si può dire dell'azione di Assange, volendone vedere il lato migliore, è che essa ha rappresentato la manifestazione di una sorta di “democrazia informatica”. Per altri versi, si può anche pensare che questa azione risponda al desiderio di acquistare una personale celebrità. Nell'agire delle persone vi sono sempre elementi complessi. E Julian Assange non fa eccezione. Una cosa, però, è certa: Wikileaks ha segnato una tappa significativa nella storia dell'opinione pubblica. Una tappa che non a caso gli Stati, a partire dall'America, anno definito una forma di “criminalità informatica”».

l’Unità 30.12.10
A Cracovia con le «Crazy Guides», giovanotti che mostrano i luoghi del socialismo reale
Anche a Budapest, Berlino, Praga spopolano i «Comunist Tour» anche a bordo delle Trabant
Il comunismo? Ora è di moda come tour per i turisti
Si chiamano «Crazy Guides», sono di Cracovia ed accompagnano i turisti a visitare i luoghi del socialismo reale. Come loro altri gruppi fanno lo stesso a Budapest, Berlino, Praga. È il nuovo business dell’Est.
di Luca Del Frà


Il comunismo come volàno dell’economia? E perché no, se può esserlo il turismo. Dilagano nei paesi dell’ex Patto di Varsavia tour, gite, addirittura parchi tematici dedicati ai regimi del cosiddetto socialismo reale: Budapest, Praga, Berlino, ma lo stato dell’arte lo trovi a Cracovia. Nella antica capitale polacca, dove sono sepolti i re della dinastia jagellonica e che fu l’arcivescovado di Karol Józef Wojtyla prima di salire al soglio di Pietro, un gruppo di ragazzi, che si sono soprannominati Crazy Guides, hanno inventato il «Comunism Tour». Un vero successo, che ha a che vedere con una cultura funky e stradaiola, più che con una seriosa o nostalgica rievocazione del passato. Potete addirittura sparare con la più celebrata delle armi sovietiche, da loro definito il «mitico AK 47, aka Kalashnikov»: aka, manco fosse un dj rapper. E poi con debita prenotazione online sarete accolti all’aeroporto da un vero eroe del socialismo, medagliato e con tanto di tuta da metallurgico.
NOVA HUTA
La carta vincente delle Crazy Guides è Nova Huta (Nuova Acciaieria): è la città del socialismo realizzato, sorta alla fine della guerra per espressa volontà di Iosif Vissarionovic Džugašvili, anche conosciuto come Stalin, accanto a un impianto siderurgico a pochi chilometri da Cracovia. Una urbanistica ispirata alla città ideale del Rinascimento e costruita secondo i dettami del razionalismo del Novecento, per un centro che si articola in un immenso semicerchio solcato da larghi viali a raggera, con parchi, laghetti, ampi
spazi di verde tra gli edifici, sette teatri, cinque cinema (ne sono rimasti uno per tipo) e che ospita circa centomila persone. «I comunisti avevano anche buone idee –spiega Tim, una delle Crazy Guides che ti porta a Nova Huta a bordo della mitica Trabant (autovettura a due tempi costruita in Germania est)–, dicevano ad esempio che tutti dovevano essere uguali. Purtroppo era una bugia». E alza gli occhi sul grande viale che taglia a metà la cittadina. «Qui ci sono gli appartementi dei funzionari del partito, grandi 100, 150 metri quadri, mentre per gli operai erano più piccoli. E non potendo dire che erano diversi, dicevano che quelli “più uguali”. Per loro, la nomenklatura, c’erano anche ristoranti riservati». Il tour comprende anche la visita a un appartemento operaio, trasformato in una specie di museo: 65 metri quadri – assai più di quanto oggi molti operai e non operai si possano permettere in città come Roma, Parigi o Londra –, tra i semplici oggetti del socialismo realizzato ecco il ritratto di Lenin e quello di Wojtyla, la tessera del Partito e quella di Solidarnosc. Tim mostra i ridicoli filmati di propaganda su Nova Huta, ma ricorda come tutti gli appartamenti però avessero fin dall’inizio riscaldamento, bagno e acqua corrente calda e fredda: cosa niente affatto comune all’epoca in Polonia.
Conclude sottolineando che la città delll’utopia realizzata del socialismo negli anni ’50 e 60, è divenuta negli ’80 una delle più combattive roccaforti del sindacato di Lech Walesa.
Sorride e ci scherza anche su: non c’è risentimento né livore nelle sue parole, perché Tim il regime lo ha appena avvertito visto che nel 1989 aveva 4 anni, non diversamente dalle altre Crazy Guide, come Cuba – diminutivo di Jakob – o crazy Mike, l’inventore della cosa. Infatti queste iniziative, come i tour in Trabant per Praga o in quella che era
Memorabilia
Gita a Nova Huta la città del socialismo realizzato
Berlino est, sono dovute più che altro a ragazzi che non hanno ancora 30 anni, quindi i regimi stalinisti non li hanno conosciuti, e guardano al passato con occhi magari severi, ma senza una diretta implicazione emotiva: «Come una guida che ti mostra il Colosseo». Il tutto organizzato come un divertimento, forse un po’ da villaggio vacanze, assolutamente «non politicaly correct» dicono. E meno male.
Ma ovviamente non è così facile: Cracovia è una della città dell’olocausto. Nel 1931 oltre il 20% della popolazione era ebrea, ed è passata nel tritacarne dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. E a Cracovia trovi la fabbrica di Schindler – oggi un museo –, i percorsi nell’antico ghetto della città, con i centri di cultura ebraica, le sinagoghe, i cimiteri, i musei. Ma è anche la città dei manifesti che strillano «Auschwitz the best ticket here!!». Così le Crazy Guide, il Cuminism Tour, gli eroi del socialismo, gli spari con l’Ak 47, rischiano di gettare una luce beffarda e sinistra su quello che stanno oramai diventando i viaggi o forse tour se non addirittura le crociere della memoria.

Corriere della Sera 30.12.10
E la parola ci rese umani Una rivoluzione infinita
Racchiusi nella mente infantile i segreti del linguaggio
di Edoardo Boncinelli


P robabilmente niente è più esclusivamente umano del linguaggio e niente conosciamo di più difficile da tenere separato dal nostro modo di vedere il mondo e vivere la nostra vita. Tutto quello che sappiamo e che riusciamo ad argomentare passa infatti per la nostra capacità di concettualizzare e di parlare. Non sappiamo quando il linguaggio sia comparso nella nostra storia naturale, ma siamo in molti a pensare che da allora niente è stato più come prima. È stato molto probabilmente «un evento improvviso ed emergente» alla base di quello che qualcuno ha chiamato «il Grande Balzo in Avanti» della nostra storia, perché si ritiene da parte di molti che il linguaggio sia «virtualmente sinonimo di pensiero simbolico» . La sua conquista è un evento unico nella nostra evoluzione come specie e nella nostra personale esistenza individuale. Ma quali sono i suoi tratti essenziali e su quali fondamenti si appoggia? A nessuno è mai sfuggita l’importanza del linguaggio, ma solo oggi il suo studio, coincidente almeno in parte con l’avanguardia della linguistica contemporanea, ha raggiunto una sua maturità e sta probabilmente per dare i suoi frutti migliori. Sono più di cinquant’anni che la linguistica è stata rivoluzionata e posta su nuove basi dalle idee di Noam Chomsky, il massimo linguista vivente e un grande indagatore delle profondità della nostra mente e dello spirito. Di lui è appena uscito Il linguaggio e la mente (Bollati Boringhieri), che riassume un po’ tutto il tragitto del suo pensiero sull’argomento. Si tratta in realtà della recente, terza, edizione di un’opera ormai classica che ebbe la sua prima edizione nel 1968 e che può essere utilizzata come filo conduttore per l’esposizione del pensiero di Chomsky e per fare, attraverso questo, il punto sullo stato dell’arte dello studio del linguaggio e del suo rapporto con il funzionamento della mente. Il libro consta di tre parti, concettualmente se non tipograficamente: un inquadramento storico della disciplina, un’esposizione della visione chomskyana della struttura del linguaggio e una sua valutazione dei rapporti fra lo studio del linguaggio e lo studio della mente stessa. È ovvio che la parte più estesa e più interessante debba essere la seconda. Chi sappia poco o niente della linguistica contemporanea può trovare qui una sua mirabile esposizione, priva di tecnicismi e virtualmente estranea allo slang specialistico. È questa la parte più vitale e duratura del contributo di questo autore, ma io mi voglio concentrare invece su alcuni punti della terza parte, che contiene secondo me aspetti stimolanti e contraddittori. Molte persone ritengono che il contributo storico specifico di Chomsky sia stato quello di tentare di persuaderci che il linguaggio è una nostra facoltà innata, così che tutti parliamo essenzialmente la stessa lingua, anche se moltissime sue caratteristiche specifiche sono inevitabilmente apprese, e danno delle idee di Chomsky stesso un giudizio positivo o negativo a seconda che condividano o meno questo assunto. Ciò è molto curioso, perché a me, biologo, la cosa sembra così pacifica che non valga nemmeno la pena che qualcuno la affermi: come potrebbe essere che il linguaggio — che tutti impariamo, che tutti impariamo alla stessa età ed essenzialmente con le stesse modalità e che rappresenta una nostra caratteristica e necessità irresistibile — non abbia una solida base biologica radicata nei nostri geni? Come ho detto, non mette nemmeno conto di parlarne, se non per studiarne le modalità e soprattutto il suo sbocciare in tutti i bambini del mondo di tutte le epoche, indipendentemente dalla loro condizione culturale e sociale. Ma il paradosso è poi rappresentato dal fatto che il nostro autore non è tenero con alcuna forma di riduzionismo e in questo libro in particolare si mostra sostanzialmente, benché forse inconsapevolmente, pessimista sulla riducibilità anche futura dello studio del linguaggio allo studio del cervello e della mente. Nell’ultimo capitolo del libro Chomsky va direttamente a toccare tali temi occupandosi di «Biolinguistica e capacità umane» . Due osservazioni. Appoggiandosi ad una citazione di Bertrand Russell del 1929, secondo cui la chimica non può essere ridotta alla fisica, il nostro autore liquida per sempre un approccio riduzionista, si intende al linguaggio, anche se non lo dice esplicitamente. L’esempio capita proprio a proposito. Se è vero che ogni grande investigatore delle forme di pensiero è fiero di studiare il suo tema iuxta propria principia ed è tentato di farne una disciplina autonoma, è proprio l’esempio della chimica che mostra i limiti del tentativo. Se un chimico oggi volesse dedurre tutti i fenomeni chimici basandosi solo su quel capolavoro dello spirito umano che è il sistema periodico degli elementi, o tavola di Mendeleev, incontrerebbe serie difficoltà, fingendo di ignorare l’esistenza del nucleo atomico e degli elettroni. Così oggi forse continuare a scavare esclusivamente dentro e intorno alla grammatica generativa trasformazionale e alle sue varianti è come tentare di fare del sistema periodico la stele di Rosetta del linguaggio e del suo uso. Una grande, forse insormontabile, difficoltà nello studio del linguaggio è data poi dal fatto che noi non nasciamo parlando, ma acquisiamo l’uso del linguaggio durante un lungo periodo della nostra infanzia del quale non siamo assolutamente coscienti e che lascia nel cervello stesso una traccia sconvolgente e indelebile. Nessuno può sapere che cosa succede allora nel nostro cervello ed è arduo persino cercare di immaginarlo. Non si può, in sostanza, capire il linguaggio osservando il cervello adulto, occorre studiarne la genesi nel tempo senza incorrere nell’errore, per tanto tempo portato avanti, che i bambini siano adulti in miniatura. L’arrivo del linguaggio è stato rivoluzionario ed epocale nella nostra storia evolutiva, ma lo è anche nella nostra storia personale.

il Fatto 30.12.10
L’insostenibile leggerezza della vita
L’anoressia uccide Isabelle, anti-musa di Toscani
di Malcom Pagani


Isabelle Caro è morta a sette anni. A ucciderla, un'infanzia iperprotettiva, un padre assente, una madre che quando era ancora bambina, la chiudeva in casa, sognando rimanesse per sempre piccola, eterea, senza amici, peso né aria, perché le diceva, la donna che le aveva dato la vita per poi sottrarle il gioco: “respirare fa crescere”. I bambini sono animali strani. Spugne che assorbono, compiacendo, i desideri dei grandi. Per non scontentare la madre, Isabelle smise di mangiare. Fiammifero senza luce, fuoco senza ossigeno. I danni di allora sono l'epitaffio di adesso. Per i necrologi, Isabelle Caro ha salutato il mondo a 28 anni, tra le luci di Tokyo il 17 novembre scorso, notizia filtrata ieri sera dopo essere stata sepolta nei bizzarri percorsi virtuali dell'informazione e della privacy per più di un mese. Isabelle l'anoressica, la modella di 30 chili che Oliviero Toscani scelse nel 2007 per   una campagna choc No-lita, idea nata per fare il verso a Nabokov e avversata e poi vietata dal grand jury della pubblicità. Le ossa di Caro rimasero nell'immaginario di tutti. Gli occhi smarriti di Isabelle con i suoi desideri traditi: “Mi sto riprendendo, mangio anche il gelato, sogno di fare l'attrice di teatro, di avere dei figli”, anche.
Le fotografie che costringevano l'occhio ad allontanarsi colpevole, il manifesto esistenziale di un prodotto volutamente sconvolgente erano opera dei 69 anni erranti di Oliviero Toscani. Dai casali in campagna in cui rifugiarsi, con la provocazione propedeutica alla riflessione   , Toscani proiettò lontano, ai confini con l'innocenza perduta per sempre e non da ieri, le foto di Isabelle. Oggi Toscani è in montagna. Il tono è anodino, apparentemente freddo. E' solo un'impressione: “L’anoressia è l’effetto di un modello di vita sociale. È un’espressione moderna, una delle immagini del nostro tempo. La società è anoressica e l’anoressia è una condizione umana, soprattutto femminile. Viviamo nella realtà dell’apparenza, del sembrare, dell’omologazione: i media mostrano e propongono una donna eternamente bella, giovane, efficiente, per i quali ormai la bellezza fisica rimane l’unico valore. Isabelle era affetta, nella psiche e nel corpo. L'anoressia è una malattia terminale. La sua morte, un riflesso naturale quasi inevitabile, non mi stupisce”. 
Perché la fotografò?
Per mettere in luce una condizione umana allucinante. Isabelle era una delle tante potenziali modelle anoressiche in giro per il mondo. Ci sono tante ragazze in quella condizione. Non calcano le passerelle e muoiono tutti i giorni.
Ai tempi della campagna No-Lita lei parlo di Urlo di Munch scagliato contro la malattia.
E venne inscenato come sempre il balletto demenziale delle reazioni contrarie, le carovane del Codacons, il coro degli ipocriti a comando.
La disturba?
A me il consenso non è mai interessato particolarmente. Un artista va dove passione, interesse e curiosità lo portano. La ricerca dell’applauso trascina nella mediocrità, l'arte intesa come il punto più alto della comunicazione non ha bisogno dei corifei. Per quelli c'è il circo. 
Isabelle Caro è un prodotto di oggi, diceva.
Certo. L'anoressia mi colpisce, le modelle che si fanno fotografare con i vestiti larghi, gli zigomi in vista, lo sguardo vitreo sui settimanali femminili mi sconvolgono. E' un modello di bellezza alieno, che non riconosco come tale. Isabelle era soltanto un tristissimo prodotto   di quella pulsione.
Ci sono responsabilità?
Se per essere belle bisogna essere a un passo dalla morte, esiste uno spaventoso problema. Il danno che hanno fatto i giornali di moda femminili è irreparabile. Se vuole le dimostro   il perché.
Spieghi.
Ci sono tre mantra inamovibili, ripetuti, a cui inchinarsi. La dieta, come ottenere l'orgasmo, consigli e indirizzi per cambiarsi i connotati con la chirurgia plastica. Abiezioni.
Duro.
Le redattrici dei giornali di moda sono come kapò nei campi di concentramento e i settimanali femminili sono   anticostituzionali.
Non pensa di esagerare?
Assolutamente no. E' proprio così. Bisognerebbe intentare una causa collettiva, ai settimanali femminili. E' strano. Le direttrici dei settimanali sono donne, eppure proseguono   sulla strada pericolosa di un gioco ambiguo, sulla pelle dellla bellezza femminile.
Perché?
Non lo so. Si devono adeguare alla richiesta maschile? Forse. Le confesso che covo un progetto semirivoluzionario, antistorico direi.
Esponga.
Espongo, ma tanto non lo porterò a termine. Vorrei convincere le bellezze di un tempo lontano, le Vanoni, le Patty Pravo, devastate dagli interventi chirurgici tesi a scongiurare la vecchiaia, a mostrare cosa abbia davvero fatto al loro antico splendore l'intervento del bisturi. Allo scopo ho scritto una lettera.
Risposte?
Zero. Neanche lo straccio di un no. Capisce?
Però lei il mondo della moda e dell'esasperazione della bellezza artificiale lo conosce bene.
Ho sposato una modella norvegese, Kirsty Moseng, distante anni luce dai modelli di bellezza contemporanea. Venivo da due matrimoni bruciati e la incontrai per caso. Un fiore che mi turbò.
Come andò?
La convocai per lavoro e di fronte a lei improvvisai una gag. Chiamai Riccardo Gay, il direttore dell’agenzia che l’aveva mandata da me cazziandolo bonariamente: “Ma sei impazzito? Ti avevo chiesto una modella e mi hai spedito qui una contadinella”. Fisicamente lo era. La sua generazione era precedente alle top-model, una parola inventata nelle agenzie, per definire il prezzo di un passaggio, di una foto.   Sintomatico, non crede?
Solo questo?
No. Poi esistono famiglie che mettono in vendita un oggetto. Si suppone che sfilare sia un lavoro che non richiede particolare intelligenza, ma forma fisica. Oggi però quel mondo è degenerato e la filosofia spinta all'estremo, un burrone su cui ho visto avviarsi un’intera generazione con i miei occhi.
Caro è la punta estrema di  una società medicalizzata?
I medici li ho sempre tenuti lontani. Ho 69 anni, io e mia moglie stiamo benissimo. Sciamo dalla mattina alla sera in questi giorni e se ci guardiamo allo specchio, pensiamo alla nostra fortuna.
Se avesse avuto una figlia anoressica?
Impossibile. L'educazione impartita è tutto e quella che abbiamo tentato di diffondere non c'entrava nulla con la dipendenza dai media o con l'apparenza. Bisogna essere, non far finta di essere. Mia figlia non ha visto in sua madre lifting, simboli dell'accettazione sociale o del successo greve. Miss Italia, per dire, è uno spettacolo desolante, un mercato del bestiame, il moderno burqa delle donne occidentali. 
Lei ha detto di odiare il disordine.
Sono sempre stato ordinatissimo. Non ho mai conosciuto un grande artista che fosse disordinato. Warhol era maniacale, Michelangelo teneva i conti al centesimo e Leonardo Da Vinci stava mollando a metà L'ultima Cena perché non l'avevano pagato. L'arte chiede lucidità e rigore. L'artista può essere eccentrico o estroverso ma non presuntuoso perché sa che ha un angelo, una musa che gli sta parlando.
Però. L'umiltà è il viatico essenziale per la creatività. Si è mai affezionato all’oggetto della sua indagine momentanea?
L’arte per essere tale deve parlare della condizione umana. Se non lo fa si ferma all’estetica, al colore, alla superficie, alla mediocrità. Temi che mi hanno sempre interessato. Prenda L’Aids. 
Dica.
Non è più di moda, feci una pietà caravaggesca a circondare un ammalato terminale. La lotta al male sembrava la battaglia del secolo, oggi non interessa più a nessuno ed è incredibile. Di Aids però si continua a morire, come di anoressia. I problemi generali sono più interessanti dei casi individuali.
La moda la annoia?
Non credo alla noia. E’ una malattia come l’anoressia. Compare quando ci si lascia prendere dalla pigrizia, dalla resistenza a fare le cose. Quando accetti il patto, sei fottuto. Ti annoi ed è lì che inizi a morire.

Corriere della Sera 30.12.10
La regola di Faulkner per diventare scrittori: «Essere ciò che si è»
di Franco Cordelli


Q uando Mario Materassi pubblicò la sua imponente monografia dedicata a William Faulkner, nel 1968, che l’autore di Sartoris o di Luce d’agosto fosse il più grande scrittore americano del XX secolo non era per niente scontato. Si parlava di una triade, Hemingway-Faulkner Fitzgerald; si era a due terzi di secolo. Se il rango di Faulkner in Italia è ora indiscutibile, ed è quello che è, lo dobbiamo proprio a Materassi in quanto suo traduttore, e ad Adelphi da quando ha cominciato a ripubblicarlo. Come sappiamo, Adelphi è un editore-Mida, non solo rende brillante ciò che di per sé lo sarebbe meno, ma attesta una gloria che altrove sarebbe riuscita più difficile da riconoscere. Faulkner, poi! Faulkner è obiettivamente uno scrittore di ardua lettura, vi sono alcuni suoi testi, da L’urlo e il furore a L’orso, che a viso aperto sfidano il lettore. Un tardivo ma non indifferente contributo a chiarire qualche punto, oltre che alla conoscenza dell’autore, lo fornisce W. F., una raccolta di testi faulkneriani non narrativi, scritti in un arco che va dai primi anni Venti al 1960. Il curatore, James Meriwether li ha divisi in Saggi, Discorsi, Introduzioni, Recensioni e Letture pubbliche: una miniera di cui non si può rendere conto in modo esauriente. Ne vorrei sottolineare qualche punto. Vi sono, in questi testi, tre grandi temi che Faulkner tratta in modo diverso in ragione dei diversi contesti. 1) Come si apprende. Si apprende, per Faulkner, leggendo Conrad, Dostoevskij, Melville, Turgenev e Flaubert a più non posso e poi smettendo di leggere, addirittura dimenticando quanto si è letto. 2) Come si scrive. Lo si potrebbe sintetizzare con quanto una volta proclamò per Sherwood Anderson, suo primo e vero maestro: «Era come se scrivesse non per la sete logorante insonne implacabile di gloria per la quale qualsiasi artista normale è disposto a eliminare la propria vecchia madre, ma per ciò che egli considerava più importante e più urgente: non la mera verità, ma la purezza, la più esatta purezza (...) Gli si confaceva quell’annaspare in cerca dell’esattezza, della parola e della frase esatta nell’orizzonte limitato di un vocabolario controllato e persino represso da ciò che in lui era quasi un feticcio di semplicità, spremere parole e frasi insieme fino in fondo, cercare sempre di penetrare all’estremo confine del pensiero» . Ma poiché semplicità e repressione del vocabolario non furono tipici di Faulkner è giusto aggiungere queste altre righe: «Ho imparato che, per essere uno scrittore, occorre essere prima di tutto ciò che si è, ciò che si è nati; che per essere americani e scrittori non è obbligatorio dover dare la propria adesione formale a chissà quale immagine convenzionale come il granturco dolente dell’Indiana, o dell’Ohio, o Iowa (...) Basta ricordare ciò che si è. 3) Perché si scrive. Qui la faccenda è più complessa. Personalmente ho sempre ricordato, di Faulkner, due frasi o concetti. In Fino all’ultimo respiro di Godard, leggendo Palme selvagge Jean Seberg chiede a Jean-Paul Belmondo: «Tra il dolore e il nulla, cosa scegli?» . La citazione è identica in All’ultimo respiro, il remake di Jim Mc Bride del film di Godard: a chiederlo è Valerie Kaprisky a Richard Gere. Ma in una Nota a Una favola, Faulkner attribuisce questa possibile scelta a Levine, un giovane pilota inglese che simboleggia il nichilismo: «Tra il niente e il male, scelgo il niente» . Non fu la scelta di Faulkner, che però pose l’ipoteca, sia pure con due diverse dizioni, o traduzioni (sebbene io dubiti fortemente che abbia usato la metafisica parola «male» piuttosto che la parola «dolore» ). L’altra frase che sempre rammento è: «Come si muore, ecco perché si muore» . Ma come, a nostra volta, non tradurla in: «Come si scrive, ecco perché si scrive» ? In modo più spiccio Faulkner una volta comunque chiarì: «Nobilitare il cuore dell’uomo; vale per tutti noi: per chi cerca di essere un artista, chi cerca di scrivere semplice intrattenimento, chi scrive per stupire, e chi semplicemente fugge dai propri tormenti privati» . Un’ultima osservazione. In questo libro la cosa più bella sono le recensioni, quasi sempre fulminanti, a volte veri inni, a volte maliziose stroncature, sempre circonfuse dal tipico alone faulkneriano, luce più luce. A questo proposito vale sottolineare che l’unico tratto in comune tra scrittura creativa e non creativa è questo alone, che non viene mai meno. È un accento di alta retorica: esso va dall’uso di aggettivi magniloquenti («imperituro» , «lo scheletro evocativo delle foglie essiccate» ), a metafore di vasta eco («rispetto a Conrad Aiken gli altri versificatori sono tanti rumori chiassosi persi nel fitto di una siepe di ligustro» ; oppure: «sarebbe venuto il giorno in cui il palato della mia anima non avrebbe più reagito al semplice pane-e-sale del mondo che avevo assaporato negli anni delle scoperte» ), fino a sprezzature alla John Ford-John Wayne: «Accidenti che buon lavoro. Questa è lingua non britannica, non americana, non sudafricana, non di Ebury Street né di Chicago: soltanto lingua. È quasi come un bel ciclone pulito o una dose di sale, poiché la maggior parte dei libri d’oggi sembra scritta da mammolette o da stalloni» .

Corriere della Sera 30.12.10
Woody Allen a fumetti: sesso, complessi e lettino
di Giuseppina Manin


L’ essere umano? Un verme nel piano cosmico. Anche se, alla fine di ogni cosa, i vermi vincono. Le donne? Ogni volta che lei aveva un orgasmo, il naso le cresceva. Lui e la psicoanalisi? L’ultima spiaggia di Freud... Così parlò Woody Allen. O meglio, così parlò il suo avatar a fumetti, spiritosamente disegnato a immagine e somiglianza dell’originale. Una striscia fortunata, varata nel 1976 dal disegnatore Stuart Hample, che chiede ad Allan Stewart Konigsberg, in arte Woody Allen («un giovanotto rosso di capelli, occhialuto, la pelle bianco gesso come il ventre di una rana» ) il permesso di trasformarlo in fumetto. Onore raro per un essere umano in carne e ossa, tanto più se vivente. Casi illustri, Freud e Pertini, per citare le metamorfosi più recenti (Freud a fumetti. Il divano racconta, editore Raffaello Cortina, e Pertini schizzato dalla matita geniale di Andrea Pazienza, ora in mostra a Roma) hanno avuto la consacrazione nella «strip» solo dall’aldilà. Consapevole e divertito di tanto privilegio, Woody quindi non solo accetta di farsi cartoon, ma puntuale e pignolo collabora, per tutto il tempo in cui la strip (fino al 1984) uscirà sui quotidiani americani, a ogni vignetta, pretendendo riunioni settimanali e mettendo a disposizione di Hample la sua sterminata riserva di gag. Il meglio di quelle strisce, trecento, corredate da bozzetti, interviste, squarci di backstage, è ora raccolto ne La vita secondo Woody Allen (Isbn Edizioni, pagine 240, e 29). Piacevole summa del Woody pensiero, il volume esce in coincidenza del 75 ° compleanno dell’attore-regista drammaturgo newyorkese. Che si ritrova così, come l’eroe del suo surreale La rosa purpurea del Cairo, catapultato in un disegno, ringiovanito nei tratti, immortalato in quell’universo schizoide e geniale che tanto ci ha fatto sorridere al cinema e in cui tutti ci siamo, in un’occasione o l’altra, identificati. Persona e personaggio insieme, Woody ha sempre giocato a travestirsi da se stesso, o da qualcuno che la gente crede essere lui. «Non sono mai stato un intellettuale ma ho quest’aspetto» , tenta di smentire lui. Invano. Svela Hample: «Mi venne in mente che quel suo carattere, uno che si sente solo nell’universo, che è un disastro con le donne, che viene umiliato dai genitori, poteva diventare un fantastico fumetto» . E difatti, all’apparire della prima strip, fu subito successo. «Inside Woody Allen» era esattamente quello che la gente aveva conosciuto nei suoi primi film, un essere pauroso, angosciato, pessimista, rifiutato dalle donne. Su sesso e ragazze Hample infierisce con la matita: «Ehi Woody! Voglio ringraziarti per tutte le risate che mi regali» , gli dice uno sconosciuto che l’abborda. «Ah, hai visto i miei film?» , fa lui lusingato. «No, ho la finestra di fronte alla tua camera da letto!» . Impietoso, il disegno gli attribuisce anche altri complessi: un perenne contrasto con i genitori e con la psicanalista, l’aggressiva dottoressa Eobick. Che in una deliziosa striscia gli demolisce in un colpo solo i suoi pochi brandelli di ego. «Ho la sensazione che la gente sparli di me alle mie spalle» , le confessa Woody sul lettino. E la megera freudiana: «Lei ha un ego paranoico: nessuno parla di lei, la gente si dimentica di lei nell’istante stesso in cui la incontra» . La vendetta di Allen non tarderà. Basta una battuta: «La psicoanalisi? Un mito tenuto in vita dall’industria dei divani» .

Corriere della Sera 30.12.10
C’è la crisi? Meglio puntare sui figli
Il baby boom della Germania
di Gianpiero Dalla Zuanna


Nei primi nove mesi del 2010 in Germania sono nati 510 mila bambini, 20 mila in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un incremento del 3,6%, mai registrato nell’ultimo decennio. A rendere ancora più notevole questo dato— proveniente dall’Ufficio di Statistica tedesco — è il fatto che il numero di donne in età 15-4, 5 anni diminuisce annualmente di circa 300 mila unità. Inoltre, nei primi sette mesi del 2010 in Italia le nascite sono diminuite del 2,7%. Perché le coppie tedesche, in un anno di crisi come il 2009, hanno deciso di concepire un numero così alto di figli, comportandosi in modo opposto rispetto alle coppie italiane? Per dare una risposta, si debbono conoscere dati più precisi: chi ha avuto più figli? Le donne più ricche o quelle più povere? Le coniugate, le conviventi o le single? Le donne più giovani o più mature? Le tedesche o le straniere? Per ora non si può escludere che questo piccolo baby boom sia almeno in parte legato all’assegno parentale, introdotto il 1 gennaio 2007. Per ogni nuova nascita, lo stato tedesco versa l’intero stipendio fino a un tetto di 1.800 euro mensili a uno dei due genitori che resta a casa da lavoro, fino ai 14 mesi di vita del bambino. Ciò vale per tutti i lavoratori dipendenti, anche se a tempo determinato. Questa misura— che per la Germania unita è stata un’assoluta novità — ha aumentato in modo sensibile la conciliazione fra figli e lavoro. Inoltre, spesso sono stati i padri a usufruire di parte dei mesi previsti. Nel commentare l’evoluzione positiva delle nascite, già iniziata nel 2009, una portavoce del ministero per la Famiglia tedesco ha parlato di un «segnale positivo» , sottolineando che la politica di incentivi alla maternità «va nella direzione giusta» . Tuttavia, solo osservando i dati del prossimo futuro potremo capire se si tratta di un fuoco di paglia, o se la fecondità tedesca— che è ancora fra le più basse d’Europa— sta veramente risalendo. È infatti possibile che proprio la crisi, aumentando la paura di perdere il lavoro, abbia incoraggiato le coppie tedesche ad anticipare un concepimento, per avere 14 mesi di stipendio garantito, senza indurre un reale incremento del loro numero di figli.

Repubblica 30.12.10
Le mamme in affitto e le nuove famiglie
di Miriam Mafai


È dei giorni scorsi la notizia di una terza gemella nata undici anni dopo le prime due sorelline, bimbe che stanno per entrare nell´adolescenza. Per undici anni uno degli embrioni prodotti dalla coppia era rimasto chiuso, sigillato, nel freddo di un contenitore a non so quanti gradi sotto lo zero. Nove mesi fa, uscito dal ghiaccio, è stato introdotto nell´utero della donna che lo aveva a suo tempo prodotto, e che ha portato a termine, pare felicemente, la nuova gravidanza. La terza sorellina è dunque geneticamente gemella delle due più grandi, anche se non ha la stessa età.
Una vittoria, certamente della scienza. Ma è anche, lo confesso, una notizia che mi turba. Così come mi turba, lo confesso, la notizia che Elton John e il suo partner, ormai in età avanzata, sono diventati padri grazie alla collaborazione di una donna che, dopo aver fatto fecondare in vitro un suo ovulo dallo sperma di uno dei due partner, ha portato avanti la gravidanza per consegnare, dopo i tradizionali nove mesi, un bambino alla coppia che l´aveva ordinato.
Appartengo all´ultima generazione di donne che ha portato avanti una gravidanza e ha partorito al buio, senza sapere cioè se la creatura che portava in grembo fosse maschio o femmina, fosse sana o malata. Le donne che affrontano oggi una gravidanza sanno tutto: molte tengono incorniciata in camera da letto la fotografia (per la precisione, l´ecografia) del bambino o della bambina che verrà alla luce. E di lui/lei sanno tutto (o quasi).
Immagino che questo abbia cambiato il rapporto delle donne con la loro maternità, lo abbia reso probabilmente più stretto, stabilendo una sorta di affettuosa complicità con il nascituro, una complicità spesso condivisa con il partner, che si addestra alla futura paternità ben prima della nascita del figlio. Tutto questo mi sembra molto bello e positivo.
Ma cosa accade quando la scienza e la tecnica, che hanno affidato fino ad oggi alla donna la piena responsabilità e il controllo della sua gravidanza, vanno oltre fino a espropriarla di questa possibilità? Cosa accade quando una coppia omosessuale (come nel caso di Elton John e David Furnish) o eterosessuale decida di affidare a un´altra donna il compito di portare a termine una gravidanza? Come si modifica, se si modifica in questo caso il rapporto tra la madre e il nascituro?
La tecnica aiuta. Anzi, è relativamente facile. Esiste, infatti, la possibilità di trasferire un ovulo già fecondato nell´utero di una donna disposta a portare a termine per nove mesi una gravidanza e a restituire poi il piccolo, nel momento del parto alla madre naturale. La pratica è illegale in molti Paesi tra cui il nostro. In Francia ha dato luogo a un lungo dibattito, ma la legge a favore delle madri "in affitto" non è stata finora approvata anche grazie all´opposizione di gran parte del pensiero femminista francese che vede, non a torto, nella vendita anche volontaria ed anche temporanea del proprio corpo non una vittoria delle donne e della loro autonomia, ma una sua riduzione, sia pure volontaria, a puro strumento della volontà e del desiderio di altri. La gravidanza resta un fatto tutto personale non può essere delegata ad altre.
Anche Chiara Saraceno ieri su queste pagine ammetteva e giustificava il turbamento che può nascere da questa frammentazione della procreazione. Ma non mi sembra che sia possibile stabilire un´analogia tra queste nuove forme di maternità e le già esistenti e diffuse diverse forme di famiglia presenti nel nostro paese. Tutti conosciamo, e molti di noi vivono, dentro famiglie che si definiscono "ricostruite", in cui cioè sono presenti figli di lui, di lei, di entrambi.
Sono convivenze che conoscono anche fasi e periodi di difficoltà (ma quale famiglia non ne conosce?) ma nelle quali il padre, la madre e le nonne, quando ci sono, sono chiaramente riconoscibili e individuabili. Ogni bambino, anche in queste famiglie "ricostruite" sa da chi è nato. La libertà, cui fa riferimento Chiara Saraceno, è salva ma è salva anche, a mio avviso, l´identità di ognuno.

Repubblica 30.12.10
Quell'antica illusione di leggere il destino nelle stelle
di Adriano Prosperi


Dalla storica passione per i movimenti celesti a quella sempre viva per gli oroscopi, l´ossessione della previsione del futuro tra scienza e credenza
Prima della rivoluzione copernicana la scienza degli astri era stata coltivata dai dotti e dai professori in tutte le università del continente
Papa Urbano VIII fece arrestare e condannare l´abate Morandi, reo di avergli preparato una previsione astrologica "ostile"

Per molto tempo gli uomini hanno guardato al cielo per trovarvi segni e messaggi e per caricare di significati speciali tutto ciò che vi appariva. Spingeva a questo una molla fondamentale: la convinzione che la terra fosse al centro dell´universo e che l´uomo fosse l´oggetto delle forze divine che facevano muovere il sole e le altre stelle.
Solo con la rivoluzione copernicana e per effetto della rivoluzione scientifica del ´600 l´astrologia doveva ritrarsi dal territorio della scienza e rifluire nel mondo degli errori popolari, tra le tante illusioni e i tanti inganni che l´umanità è abituata a concedersi.
Quando Pierre Bayle nel 1682 scrisse i suoi celebri Pensieri sulla cometa, la fiducia nell´astrologia stava ormai lasciando il mondo dell´alta cultura. Ma questo non impediva che le previsioni degli astrologi continuassero a trovare ascolto. Come ha raccontato un bel libro di Elide Casali (Le spie del cielo, Einaudi 2003), gli attivissimi astrologi del ´600 italiano dedicarono un fiume ininterrotto di almanacchi, oroscopi e lunari alla interpretazione dei tanti segni del cielo: le comete, le costellazioni dello Zodiaco ma anche visioni di draghi e di diavoli. La rivoluzione scientifica a cui la cultura italiana dette con Galileo un contributo decisivo non attecchì nel nostro paese. Non è per caso se sugli errori popolari e sulla storia stessa dell´astronomia doveva accendersi nel primo ´800 l´interesse di un giovanissimo Leopardi.
Ma prima di quella rivoluzione l´astrologia era stata una scienza importante, coltivata da dotti e da professori dell´università che si occupavano della stesura di pronostici e di oroscopi. Ricavare dalla posizione delle stelle nello zodiaco auspici per avviare imprese di ogni genere e previsioni su durata e caratteri della vita delle persone fu a lungo un´attività molto apprezzata.
Lo statuto scientifico dell´astrologia era garantito da un´illustre tradizione: Tolomeo aveva elaborato e complicato l´originaria concezione greca dell´influenza sulla vita delle persone del pianeta dominante al momento della loro nascita. Nel Medioevo, grazie alla mediazione della cultura araba, si era innestata su questa base la pratica della magia come azione del sapiente capace di dominare e sfruttare le forze naturali operando attraverso l´evocazione delle entità demoniache che ne erano ritenute le padrone. Anche la medicina ne fu influenzata. È vero che nel mondo cristiano l´astrologia dovette fare i conti con l´altra via aperta alla conoscenza del futuro dalla tradizione ebraica: quella della profezia.
I teologi accusarono il determinismo astrale di limitare l´onnipotenza divina e di eliminare la libertà dell´azione morale. Da ciò la prudenza con cui gli astrologi calibravano le loro previsioni. Ma tanto la profezia penitenziale quanto la previsione astrologica offrivano occasioni di dominio sul presente in nome del futuro: e questo apriva un varco alla propaganda e all´uso politico dell´una e dell´altra. Se ne ebbero esempi clamorosi con annunci che destarono grandi attese e grandi spaventi. Una congiunzione astrale sotto il segno dei Pesci fece annunziare un grande diluvio nel 1524: e l´annunzio fu posto in rapporto con la rivoluzione dei contadini in Germania. Nelle polemiche che si scatenarono intorno a Lutero, si ricorse a oroscopi e geniture e se ne spostò la nascita al 1484 perchè in quell´anno un popolare pronostico astrologico aveva previsto la nascita di un personaggio inquietante segnato dalla congiunzione astrale di Marte e di Saturno.
I divieti e le misure di controllo della profezia e dell´astrologia si vennero moltiplicando. Ma ci si scontrava con una grande forza, «la naturale inclinazione dell´uomo a preoccuparsi del futuro», come scrisse Pierre Bayle. Una inclinazione diffusa ad altissimi livelli, come mostra il caso di Papa Urbano VIII. Il pontefice che processò Galileo e che come gran parte delle classi dominanti del tempo non disprezzava il ricorso a pratiche di tipo magico per allontanare gli influssi negativi degli astri, fu oggetto di un oroscopo ostile che ne prevedeva la morte nell´anno 1630. Era un caso di uso politico della scienza. Il papa fece arrestare e processare l´autore dell´oroscopo, l´abate Orazio Morandi, che morì in prigione forse avvelenato; e subito dopo pubblicò la bolla "Inscrutabilis" che ribadiva i divieti di Sisto V e colpiva specialmente l´uso politico dell´astrologia. In questione era non la verità della scienza ma la sua potenziale pericolosità.
La successiva condanna di Galileo confermò la fede nella centralità della terra in un universo tolemaico e alimentò ancora la speranza di cogliere nel cielo i segni del futuro. Ma con Isaac Newton il paradigma astrologico doveva abbandonare del tutto la pretesa di scienza.

Repubblica 30.12.10
Cosa ci spinge a credere nell´irrazionale
La paura dell’ignoto
di Umberto Galimberti


Chi crede nell´idea di destino che idea ha della propria libertà? Perché se tutto è già scritto lo spazio della nostra possibilità di scelta si riduce a zero, nei disegni astrali così come nel razionalismo deterministico

A cosa credono coloro che si affidano agli oroscopi? E che cosa li distingue da coloro che non ci credono? Nulla. Perché quelli che credono, in realtà, desiderano conoscere qualcosa circa il loro futuro, e quelli che non credono non sono esenti da questo desiderio. E allora il vero problema è l´angoscia del futuro che, a differenza del passato e del presente, è imprevedibile. E, come tutto ciò che è imprevedibile, è ingovernabile, perché sfugge al nostro controllo, alla nostra previsione, alla nostra progettazione, mettendo in chiara evidenza la precarietà della nostra esistenza, e, con la precarietà, il nostro bisogno di rassicurazioni.
Non potendole trovare sulla terra, dove i nostri progetti confliggono con i progetti degli altri e con le circostanze favorevoli o infauste, da che mondo è mondo, gli uomini hanno cercato la loro rassicurazione nel cielo, che appariva più stabile della terra inquieta. Chiamarono le luci che compaiono nel cielo "stelle fisse", e la loro disposizione "firmamento" dove è traccia di "ciò che sta fermo" e non muta come gli eventi della terra. Chiamarono inoltre le disposizioni del cielo "destino" che significa "ciò che sta". E nell´immodificabilità del suo "stare", rispetto alla mutevolezza delle vicende umane, intravidero quella rassicurazione a cui cercarono di dar parola nella forma della "predizione".
L´oroscopo è questa parola. La sua verità o falsità nulla toglie a quel bisogno, insopprimibile nell´uomo, di ridurre, il più possibile, il terrore dell´ignoto. Lo stesso terrore che, a sentire Nietzsche, anima la scienza che ovviamente divide coloro che non credono da quelli che credono agli oroscopi, dimenticando che la ragione per cui la scienza è nata è la stessa che, dai tempi più remoti, ha indotto gli uomini a scrutare il cielo. Che altro è la scienza se non l´arte della previsione? Con questo non voglio mettere sullo stesso piano la previsione astrologica con la previsione scientifica, ma semplicemente segnalare che identico è il bisogno che sta alla base della scienza e dell´astrologia: sconfiggere l´ignoto, ridurre l´inquietudine ad esso connessa, rassicurare l´uomo ampliando l´orizzonte della prevedibilità.
Si dirà: ma la previsione scientifica, a differenza di quella astrologica, poggia su elementi rigorosamente razionali. È vero. E io sto con la previsione scientifica, senza però dimenticare due cose. La prima è che la scienza sa di essere una conoscenza "ipotetica", disposta a cambiare ipotesi ma mano che se ne presentano di più esplicative, per cui ciò che la scienza dice ha solo la probabilità, ma non l´incontrovertibilità di essere vero. La seconda ce la rammenta Kant là dove dice che: «La ragione è un´isola piccolissima nell´oceano dell´irrazionale». E siccome ognuno di noi lo sa e sulla propria pelle lo sperimenta, è in questo oceano che l´oroscopo getta il suo sguardo e formula la sua previsione.
È una previsione che prende le mosse da "ciò che sta", quindi dal "destino". E allora (e qui nasce il secondo problema) quanti credono agli oroscopi che fiducia hanno nella propria libertà, che è tale solo se prescinde dall´idea di destino? A meno che, sublimata nella danza delle stelle, non ci sia, ben nascosta e non ammessa la persuasione che lo spazio della nostra libertà è estremamente ridotto rispetto a quello che l´astrologia chiama "destino" e la scienza "determinismo". E allora, nate l´una in opposizione all´altra, scienza e astrologia rispondono entrambe al bisogno di sconfiggere l´ignoto, per poi giungere all´inconfessata conclusione che di ignoto non c´è proprio nulla, se tutto è deciso dal destino o dal determinismo più rigoroso.