domenica 2 gennaio 2011

l’Unità 2.1.11
Il quinto discorso di fine anno di Napolitano dedicato al malessere delle nuove generazioni
Testo più lungo del solito. Il Presidente, apparso preoccupato, ha lanciato dieci messaggi
«Senza futuro per i giovani la democrazia è in scacco»
Non ha fatto nomi il presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno ma i destinatari dei dieci messaggi contenuti nel messaggio complessivo sono apparsi ben chiari a chi ha voluto intendere.
di Marcella Ciarnelli


Più lungo del solito, più preoccupato. Parole di attenzione verso i problemi dei giovani, e qualcuno sarà rimasto «stupito». Indicazioni puntuali a tutti i protagonisti, ognuno per la sua parte, su come procedere sulla strada difficile per uscire da una crisi difficile. Nessun nome, troppo facili da intendere erano i destinatari. Dieci messaggi in uno solo. Una batteria di “botti”, se è consentito il paragone, data la sera in cui Giorgio Napolitano, dal suo studio al Quirinale, ha rivolto agli italiani il suo messaggio di fine anno. Un’occasione consueta di bilancio. Che l’altra sera lo è stata di più.
Ha parlato il presidente della Repubblica agli italiani in pena per sè e per i propri figli, a coloro che dovrebbero portare un contributo concreto al dissolversi delle ansie di giovani e anziani, inquadrando i problemi del paese in quell’Europa unita di cui da sempre è un attivo sostenitore, e che deve misurarsi con le conseguenze della globalizzazione.
I giovani, allora. «Un universo ben più vasto e vario del mondo studentesco» cui bisogna dare la speranza di un domani proprio mentre ci si trova a misurarsi con il dato di fatto che non si può contare, come accadeva in passato, sul progredire di generazione in generazione.
Le nuove generazioni debbono essere consapevoli di non poter più chiedere, magari allo Stato, «un futuro di certezze» ma hanno «diritto ad un futuro». Sulle loro spalle non può pesare il debito pubblico, farlo «sarebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale». Ma loro, che hanno diritto a «un impegno generalizzato», non debbono cedere mai «alla tentazione fuorviante e perdente del ricorso alla violenza».
NESSUN GIUDIZIO
Le risposte debbono venire dalla politica. Del governo e non solo. Nessun giudizio nelle parole di Napolitano, «non mi compete», ma il richiamo fermo alla necessità «di un salto di qualità della politica essendone in gioco la dignità, la moralità, la capacità di offrire un riferimento e una guida». E’ necessario «uno spirito di condivisione» che riguarda le forze politiche e sociali, maggioranza e opposizione. Governare, da qualunque parte si stia, non è solo una questione di numeri. Men che mai di numeri che crescono o diminuiscono a seconda della stagione politica mentre «un confronto serio, costruttivo, responsabile non può avvenire che fuori dell’abituale frastuono e da ogni calcolo tattico». A questo proposito sarà bene che Berlusconi per primo rifletta sulla necessità di finirla con «il lusso che non possiamo più consentirci discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo».
Si è rivolto il Capo dello Stato nel suo discorso a tutti i soggetti che animano la scena sociale e politica di un paese che si accinge a celebrare i 150 anni dell’unità ma continua a vivere situazioni di squilibrio, differenze, lontananze. Il Sud a disagio lontano dal Nord. La situazione di  sofferenza di Napoli a cui debbono porre rimedio istituzioni e cittadini insieme. Le facce diverse di uno stato unitario che si sta rinnovando attraverso l’attuazione del federalismo che, però, dovrà essere portato a termine «in piena aderenza ai principi di solidarietà e coesione sociale» sanciti dalla Costituzione. I problemi dell’economia sono enormi. La disoccupazione attanaglia il Paese. I giovani sono quelli che vivono una drammatica situazione di precariato. Ci sono diseguaglianze che sembrano incolmabili. Il debito c’è. Ma dalla situazione economica non se ne esce usando solo la scure. Il pubblico, assieme al privato, deve impegnarsi per la ricerca e per l’innovazione. La produttività del lavoro deve essere innalzata anche se attualmente è in atto «un difficile confronto, che mi auguro evolva in modo costruttivo, in materia di relazioni industriali e organizzazione del lavoro». Parole per il ministro competente, la Confindustria, i sindacati.
C’è il resto del mondo. L’Europa unita da cui però nessuno può pensare di uscire seguendo rinnovati egoismi sulla base di una maggiore forza rispetto agli altri. Guai se «serpeggia l’illusione di fare da soli, l’illusione dell’autosufficenza». E le grandi potenze, quelle antiche come gli Stati Uniti, e quelle più recenti ma che vanno a una gran velocità che rischia di travolgere gli altri. «Tutti siamo chiamati a cogliere le opportunità di un processo di globalizzazione tuttora ambiguo nelle sue ricadute sul terreno dei diritti democratici e delle diversità culturali ed estremamente impegnativo per continenti e Paesi, l’Europa, l’Italia che tendono a perdere terreno nell’intensità e qualità dello sviluppo».
Le partite aperte sono tante. Tornando ai giovani, che Napolitano ha voluto protagonisti, e non solo nel discorso dell’altra sera, devono essere «l’assillo della nazione». Non dare loro un futuro significa «aver perso la partita del futuro, per tutti, non solo la loro». Per L’Italia sarebbe lo «scacco la democrazia».

l’Unità 2.1.11
Intervista a Stefano Rodotà
«Il Colle ha colmato un vuoto pericoloso»
Per il giurista il Capo dello Stato ha compiuto una «svolta istituzionale» di contro ad un governo «disinteressato ed ostile nei confronti dei giovani»
di Simone Collini


Il riferimento del presidente Napolitano ai giovani è un riferimento al futuro del Paese», dice Stefano Rodotà, che tra lezioni e inaugurazioni dell’anno accademico ha passato l’autunno a contatto con studenti ma anche con docenti e insegnanti precari. E il passaggio sulla «democrazia in scacco» se non ci sarà una correzione di rotta è per il giurista «non un colpo di teatro, ma un passaggio coerente con i recenti atti presidenziali e con l’intero impianto del messaggio di fine anno». Si riferisce alla firma della legge Gelmini accompagnata da una lettera in cui vengono chieste delle correzioni?
«Non solo. Non è da sottovalutare il fatto che Napolitano abbia incontrato gli studenti. Si è trattato di una svolta istituzionale, di fronte a un governo che non solo non li ha voluti ascoltare, ma che ha parlato di professori fannulloni, studenti vagabondi in piazza, della necessità di arresti preventivi. A una disattenzione già di per sé pericolosa si è aggiunta la riduzione di un movimento politico e culturale a fattore di ordine pubblico». Ancora più pericolosa della disattenzione?
«Basti pensare che si tratta di un modo di pensare e agire che è finito col fascismo». Problemi di ordine pubblico però ci sono stati, alle manifestazioni del 14 dicembre.
«Gli studenti hanno reagito nel modo giusto alle violenze e hanno di nuovo guadagnato la fiducia dell’opinione pubblica. Il capo dello Stato ha colto un punto ineludibile di questo movimento, e cioè che è profondamente diverso sia da quello del ‘68 che da quello del ‘77. Quelli si sentivano non solo estranei rispetto alle istituzioni ma anche, soprattutto quello del ‘77, violentemente ostili alle istituzioni. Il tratto caratteristico di questo movimento è invece il volerle avere come interlocutori attraverso la chiave della Costituzione. Novità che la maggioranza e in generale tutta la classe politica non aveva colto. E di fronte a ripetute richieste di attenzione tutte cadute nel vuoto, Napolitano ha colmato un vuoto».
Che però rischia di rimanere un gesto isolato se le altre istituzioni non si muoveranno allo stesso modo, non crede?
«Il capo dello Stato ha aperto un canale tra istituzioni e giovani, e ora tutti gli altri devono muoversi nella stessa direzione se si vuole evitare il rischio a cui lo stesso Napolitano ha fatto riferimento. Però ho l’impressione che ora il Presidente della Repubblica manterrà questo tema al centro, obbligherà il dibattito politico a non cancellarlo». Cosa glielo fa pensare? «Il modo in cui si è mosso ultimamente, e poi lo stesso messaggio di fine anno. Sull’economia ha detto con molta nettezza che non bisogna dare letture superficiali e rassicuranti, ha sottolineato che la cultura è fondamentale per la sopravvivenza di un paese civile. Messaggi che sicuramente i giovani hanno ben compreso. Anche perché, pensando ancora ai movimenti del ‘68 e del ‘77, se prima c’era una speranza nel futuro, chi si mobilita oggi vive con preoccupazione lo stesso presente. La politica non può non dare risposte a tutto questo». Lei ha fiducia che lo faccia?
«Per quanto riguarda il governo, che ha dimostrato nei confronti dei giovani disattenzione e anche ostilità, non mi faccio molte illusioni. E poi basta pensare al modo in cui il ministro Gelmini ha risposto alla lettera di Napolitano. Ma ora né Napolitano né gli studenti vanno lasciati soli. È stato importante il segnale dato da Bersani salendo sul tetto di Architettura, ma nel momento in cui questo movimento aveva bisogno di interlocutori, una mobilitazione più diretta dell’intero Pd sarebbe stata opportuna. Ora i gruppi parlamentari possono giocare un ruolo importante, se si muovono con la stessa forza con cui si stanno muovendo gli studenti».
Ora che sono cambiati gli equilibri parlamentari, dice? «Se c’è un’opposizione determinata e visibile non mediaticamente ma con gli atti parlamentari il governo sarà obbligato a muoversi diversamente».
E ad abbandonare l’abituale frastuono, per dirla con il capo dello Stato? «La politica del clamore, del litigio televisivo, della quotidiana polemica per posizionarsi meglio rispetto al giorno dopo va abbandonata. Deve valere per tutti. Altrimenti il rischio è quello indicato dal presidente Napolitano».
La democrazia in scacco?
«Il riferimento ai giovani è un riferimento al futuro del paese, e se non c’è attenzione quello che verrà meno è la democrazia. Parola forte, ma giusta. Siamo ad un passaggio delicato per l’intero sistema politico e sociale. Pronunciare la parola democrazia in maniera preoccupata, oggi, è il dovere di chi guarda agli eventi di questo paese con occhi liberi da pregiudizi e facili ideologismi».

l’Unità 2.1.11
Democrazia azzoppata: niente più delegati eletti dai lavoratori
Nel 1906, più di un secolo fa, la Fiom firmava il primo accordo nella fabbrica di auto “Itala”. La rappresentanza sui luoghi di lavoro tra commissioni interne, consigli e Rsu. I tempi cambiano, oggi Cisl e Uil si trovano con gli eredi dei sindacati “gialli”
di Bruno Ugolini


Tutto comincia nel 1906, oltre cento anni or sono. Nella fabbrica automobilistica “Itala” di Torino viene siglato con la Fiom nazionale un accordo di portata storica. Nasce la prima rappresentanza sindacale composta da cinque operai: la prima Commissione Interna. L’intesa, criticata dai "sindacalisti rivoluzionari” (così si denominavano), prevede, tra l'altro, una ferrea tregua sindacale. Pace sociale in cambio di potere.
E' la prima tappa del lungo cammino percorso dai sindacati per radicarsi nei luoghi di lavoro, per non essere solo una specie di Ente assistenziale esterno. Un cammino tormentato. L’ultima estrema piroetta, imposta da Sergio Marchionne, cancella ogni forma di rappresentanza eletta e intende espellere da ogni forma di potere contrattuale i discendenti di quella Fiom di cento anni fa. Non saranno i lavoratori a scegliere chi li dovrà rappresentare bensì i segretari di Cisl, Uil, Fismic, Ugl. Con la Fiom costretta ad agire quasi in modo clandestino, senza riconoscimenti, senza sedi, senza risorse.
Torniamo agli esordi. L’esperienza delle Commissioni Interne si estende rapidamente e in forme diverse dalla torinese “Itala” a tutta Italia. Trova un pesante ostacolo: il ventennio. Non bastano le squadracce che incendiano le Camere del lavoro. Il 2 ottobre del 1925 il cosiddetto Patto di palazzo Vidoni, a Roma, stipulato fra la Confindustria e la Confederazione fascista delle corporazioni, pone fine alle Commissioni Interne. Al loro posto nascono i "Fiduciari" ovvero coloro che godono della fiducia del sindacato unico fascista. Non eletti ma nominati. Non per meriti ma per fedeltà ai gerarchi. Una pausa lunga un Ventennio che non seppellisce la collera operaia.
Scoppia nel 1943 con gli scioperi che annunciano la Resistenza. E già il 2 settembre 1943 i sindacati dell'industria con Bruno Buozzi e gli imprenditori con Giuseppe Mazzini (capo della Confindustria) decidono la rinascita degli organismi operai. Alle elezioni partecipano tutti i lavoratori e non solamente gli iscritti al sindacato. Non più fiduciari di partito. Un sistema che prevede la presentazione di liste e il voto segreto, via via modificato attraverso altri accordi nel 1947, nel 1953 e nel 1966. Qui arriviamo a un’altra svolta. I sindacati italiani ritrovano l’unità d’azione e decidono un radicamento molto più esteso nei luoghi di lavoro. La Cisl si disfa di sindacalismi gialli (filo padronali) come il Sida di Arrighi alla Fiat (ironia della sorte oggi gli eredi del Sida, la Fismic, sono alleati di Cisl Uil e Ugl). Nascono negli anni 60 i “delegati di gruppo omogeneo”, i Consigli di fabbrica. Ricordo i tempestosi capannelli davanti alle porte di Mirafiori con le ragazze e i ragazzi di Lotta Continua che sbeffeggiano il “delegato bidone” e lo contrappongono a cento lire di aumento salariale. La discussione sui consigli coinvolge anche le Confederazioni e le forze politiche, la Dc ma anche il Pci. Molti vivono tale esperienza come una pericolosa avventura estremista. E’, invece, il seme che fa il sindacato italiano più forte e più democratico, capace di grandi conquiste.
E’ un impulso che contamina l’intera società, con il movimento delle donne, il movimento degli studenti. Oggi quegli anni vengono ricordati solo alludendo all’esperienza truce del terrorismo. Mentre proprio il terrorismo rappresentò una barriera posta all’espandersi di una stagione di libertà. Oggi un ministro della Repubblica come Sacconi parla dei nuovi accordi separati alla Fiat come la fine della “nefasta ombra lunga” allungatasi in quegli anni sull’Italia. Mentre un glorioso giornalista come Gianpaolo Pansa ricorda di quella fabbrica di automobili solo le avventure erotiche di qualche operaio nei capannoni.
Conservo i Cd di un operaio di Mirafiori anni 70, Cesare Cosi. Sono documentate le analisi che facevano i militanti sindacali. Indagavano su produzione e produttività: per difendere una preziosa integrità psico-fisica del lavoratore e per partecipare davvero. Vien da chiedersi se davvero alle fortune di un’impresa serve solo una manodopera supina e obbediente, al seguito di nuovi fiduciari.
La stagione dei consigli finisce ad ogni modo, certo, anche per errori del sindacato, fino alla sconfitta del 1980, sempre alla Fiat. Ma il cammino della rappresentanza non si arresta.
C’è nel 1991 un tentativo di dar vita ai Cars (se ne occupa Fausto Bertinotti per la Cgil). Nascono invece le Rsu, le rappresentanze sindacali aziendali. Nel 1993 un accordo (contestato da sinistra e fortemente voluto da Bruno Trentin) sancisce, tra l’altro, la possibile estensione di tali organismi aziendali. Le Rsu godono, per il pubblico impiego, di una prima legge arrivata nel 1997. Un insieme di regole che ora il ministro Brunetta, precursore di Marchionne, impedisce di rispettare. Siamo alla fine del cammino. E’ possibile che riprenda un dialogo sulla rappresentanza. Con l’idea di far rientrare in gioco sia la Fiat sia la Fiom. Il rischio è pesante anche per le imprese. Buttare a mare un sistema di regole significa aprire le porte alla guerriglia sociale, al dilatarsi dei Cobas. Forse bisognava pensarci prima. Magari ai tempi di un parlamento (1995) che discuteva, appunto, di una legge sulla rappresentanza, la legge Smuraglia, frettolosamente accantonata anche per le titubanze della sinistra.


il Fatto 2.1.11
La Fiat del dio Marchionne
di Furio Colombo


Nella visione di Marchionne, l’impresa è una cattedrale senza Dio. L’impresa non è più la creatura che non solo fa vivere gli operai, ma è viva (esiste, cambia) perché ci sono gli operai a dare un senso al lavoro.

Sergio Marchionne, lo sbrigativo Ad della Fiat, mette sul tavolo i pezzi del gioco. Uno è il lavoro, inteso come “posto di…” e “diritto al…”; uno è l’impresa, vista come serie di regole, nessuna delle quali può essere alterata, ritoccata o violata; uno è il sindacato, che deve essere grande e fedele, pronto a difendere – insieme – la necessità del lavoro e la volontà dell’impresa; infine il quarto pezzo: è l’investimento, una somma di danaro molto grande. Ma, in questo gioco, il quarto pezzo viene assegnato solo se i primi tre – come nel Lego di un bambino poco fantasioso – si sovrappongono in modo perfetto: sopra sta l’impresa, sotto sta il lavoro. In mezzo il sindacato, che mantiene l’ordine. Nella visione di Marchionne, l’impresa è una cattedrale senza Dio. L’impresa non è più la creatura che non solo fa vivere gli operai, ma è viva (esiste, cambia, acquista un’immagine) perché ci sono gli operai a dare un senso al lavoro. L’impresa è una tastiera   di uomini e cose altrettanto regolate, altrettanto ubbidienti. In questa visione, il sindacalista diventa un kapò, che fa la spola tra le regole imposte e quelle osservate, per accertare che le une siano identiche alle altre, e che ciò che è stato previsto coincida con ciò che viene vissuto. La mancanza di coincidenza equivale a disdetta. Non è vero che questa visione della vita in fabbrica porta indietro. Molti di noi hanno detto “come ai tempi di Dickens”. Sbagliato. La fabbrica dei tempi di Dickens, il manchesterismo di cui tanto si è discusso a mano a mano che – nell'Ottocento e nel Novecento – il lavoro conquistava spazi di dignità e di libertà, corrispondeva a vita e valori del tempo. Era un tempo in cui non tutte le vite umane avevano lo stesso valore. Si viveva per censo. Le classi erano muraglie stabili. Di qua i bambini potevano morire di lavoro in filanda e in miniera, di là cavalcavano il primo pony e prendevano lezioni di disegno e di musica. Si andava in   prigione per debiti e qualunque abuso su esseri umani più deboli si poteva sanare con una somma in danaro.
NON È GIUSTO dire che “Marchionne è un fascista” (come ha detto impetuosamente Cremaschi della Fiom). Il fascismo aveva un suo modo di organizzare la realtà, raccogliendo parti sociali diverse in corporazioni diverse a seconda delle attività e degli interessi. Toccava allo Stato stabilire in che modo, in quale gerarchia e ordine mettere in contatto le corporazioni. Toccava al partito il compito preliminare di stabilire quale fosse al momento l’interesse dello Stato e, alla fine, di celebrare la vittoria, visto che non veniva cercata l’approvazione e consacrazione del mercato. Dunque, la visione di Marchionne non è un ritorno al passato, perché il paesaggio di ogni fase dei tre secoli di avventura sociale del lavoro è finito per sempre. Ovvio che Marchionne vorrebbe circondare la sua fabbrica – che immagina servita da androidi obbedienti   una realtà altrettanto ordinata e obbediente, sul tipo della Invenzione di Morel, l’isola immaginaria del romanzo di Adolfo Bioy Casares. Ma poiché non è possibile (Marchionne può molto, di qua e di là dall’Oceano, ma   non tutto), ecco che vediamo il progetto dell’AD Fiat per quello che è: del tutto scollegato dai fatti veri in cui tutto ciò sta avvenendo. Pensate: non si potranno chiamare al referendum sulla firma del nuovo ferreo contratto di Pomigliano o di Mirafiori (“o firmate e poi votate sì”, è l’ingiunzione dei datori di lavoro “o non ci saranno investimenti”) perché fino al 15 gennaio gli operai sono tutti in cassa integrazione. La cassa integrazione è un colpo di testa dei ribelli della Fiom che stanno provocando ammonimenti, rimproveri, indignazione da tutta la destra e da metà della sinistra italiana? No, è lo stato dei fatti. La Fiat   crolla nelle vendite (perde come tutti, nel mercato europeo, ma perde più di tutti) e in questo fatto tutto ciò che si sta accanitamente discutendo non c’entra e non ha alcun peso. Ma intanto – avrete notato – si è affacciata una parola   che è rimasta, finora, del tutto estranea alla grandiosa messinscena sul ritorno macho e decisionista dell’impresa dura e pura: il mercato. Liberisti e vendicatori della libertà di impresa vogliono farci credere che il destino di un’azienda si decide dove i tre di Pomigliano – Ragozzino, Pignatelli, Lamorte – hanno fatto per poche ore un inizio di sciopero nonpreannunciato,definitosubito “sabotaggio”. Eppure, in quel gesto ormai dimenticato (salvo che da i tre operai mai reintegrati nel loro posto di lavoro, nonostante l'ordine del giudice) non c’è traccia delle disavventure commerciali della Fiat. Mai abbiamo sentito parlare di auto imperfette, difettose, pericolose o ritirate per possibili problemi di vendita sul mercato. 
A QUANTO PARE , quei perdigiorno degli operai Fiat che – quando non sono in cassa integrazione – producono in modo antico, mandano sul mercato prodotti perfetti. Le due parti di questa frase non stanno insieme. Ma su questa frase si fonda la rivoluzione di Marchionne. A meno che voglia dirci che le sue auto costano troppo perché gravate dai raffreddori e dall’assenteismo degli operai del Gruppo. Ma non risulta agli esperti, agli analisti. Prezzo e volume di vendita, vi direbbe qualunque tecnico di impresa, sono due fattori che dipendono dalla fabbricasoloincasodiguerra(costo delle materie prime) o di rivoluzione (scioperi a oltranza). Ma qui siamo in cassa integrazione.   Come può esserci, tutto insieme, cassa integrazione e problemi di relazioni industriali così gravi da far saltare in aria tutto, compresi i diritti civili di chi lavora? Adesso ci dicono (Tito Boeri, “La Repubblica”, 29 dicembre) che c’è un grande malinteso. La questione non è come si lavora. La questione è come definire giuridicamente la rappresentanza sindacale (chi ha diritto a dire che cosa per   chi). Sarà, ma la storia di Boeri non corrisponde alla storia di Marchionne, che non corrisponde al crollo delle vendite e al ricorso massiccio alla cassa-integrazione, lunghe stagioni in cui i contribuenti partecipano al sostegno degli operai, ma non hanno diritto di difenderli. E gli imprenditori contano di uscire dal lungo aiuto di Stato con un abbassamento drastico della condizione degli operai (tempi e paghe e minima qualità della vita e giorni di malattie non pagate) e la minaccia appare così grave e pericolosa (niente investimenti, se non vai in fabbrica anche con la febbre) che ti ammoniscono di votare “sì” quando – finita la cassa integrazione – gli operai saranno di nuovo in fabbrica e dovranno decidere – come si dice – del loro destino.   Resta una domanda: non c’è per caso qualcuno che deve rispondere del buco delle vendite, invece che passare il tempo a cercare di rendere peggiore la vita alla catena di montaggio? “Dopo tutto” come diceva Willy Loman in “Morte di un commesso viaggiatore”“èdallevenditechesivedeil vero manager”. E qui sono le vendite che vanno male, non la fabbrica. Tant'è vero che bisogna fermare la fabbrica con l'espediente della cassa integrazione, per fare in modo che non si riempiano i piazzali di prodotti ben fatti e in-venduti. Perché allora punire gli operai, a meno che l'intento sia esclusivamente politico?.

Repubblica 2.1.11
Fiat, la Cgil in pressing sulla Fiom
"Non fatevi isolare, firma tecnica su Mirafiori". Landini: "Impossibile"
Le tute blu pensano a un ricorso sulla costituzionalità dell´intesa, ma la strada è lunga
di Paolo Griseri


TORINO - Il giorno della verità potrebbe essere l´11 gennaio. Il luogo, l´hotel Excelsior di Chianciano all´assemblea dei rappresentanti della Camere del Lavoro italiane. Quella sera i segretari generali delle categorie si riuniranno con i vertici nazionali della Cgil, Camusso in testa. Tema della discussione: «Lo stato della contrattazione». Traduzione: la vertenza Fiat.
La pausa di fine anno non c´è stata affatto. I tempi stringono. Entro giovedì si conoscerà la data del referendum sull´accordo separato di Torino. E´ molto probabile che la prossima settimana, al rientro dei lavoratori, si svolgano a Mirafiori le assemblee informative in fabbrica e che nascano quei "comitati per il no" che la Fiom vuole appoggiare pur non partecipando direttamente a una consultazione che considera illegittima. Le urne potrebbero aprirsi il 18 gennaio e chiudersi il 20 sfruttando una delle rare finestre lavorative in un anno che si annuncia falcidiato dalla cassa integrazione.
La strategia della Cgil è quella di evitare che il 21 gennaio, in caso di una vittoria dei sì all´accordo, la Fiom si trovi, in prospettiva, fuori dalla fabbrica. «Non vogliamo finire tutti in corso Tazzoli a guardare gli altri entrare nello stabilimento», sintetizza Vincenzo Scudiere, segretario confederale della Cgil. La preoccupazione di Corso d´Italia è evitare di accreditare la caricatura di una Cgil ragionevole e di una Fiom estremista. Perché quella divaricazione non solo non risolverebbe i problemi ma li aumenterebbe facendo esplodere l´ennesimo conflitto tra la Confederazione e la Fiom. La speranza è quella di convincere il gruppo dirigente dei metalmeccanici a non rimanere a lungo fuori dal gioco. Questo sarà il tema della riunione di Chianciano.
Sul piatto quella che in gergo viene definita l´eventualità di una firma tecnica: in caso di vittoria dei sì all´accordo di Mirafiori la Fiom mette una firma al solo scopo di avere i suoi rappresentanti in fabbrica. Una firma che segna il disaccordo dell´organizzazione sul testo, ma allo stesso tempo mantiene il sì per non perdere i rappresentanti in fabbrica. Percorso non facile perché presuppone che si accetti quella clausola di autolimitazione del diritto di sciopero che la Fiom non ha firmato a Pomigliano. Perché in Campania no e in Piemonte sì? L´ipotesi della firma tecnica non piace al leader dei metalmeccanici Maurizio Landini: «Nello statuto della Fiom e in quello della Cgil è scritto chiaramente che non si possono firmare accordi che ledano i diritti dei lavoratori. Per questo noi non possiamo aderire all´intesa di Mirafiori». In caso di vittoria del "sì" al referendum, la Fiom pensa piuttosto a una serie di denunce penali sull´incostituzionalità degli accordi contestati. Ma è una strada lunga, tortuosa e dall´esito incerto. Per questo il pressing della Cgil si sta facendo incalzante. Per giungere a una scelta prima del 18 gennaio, prima che si aprano le urne a Torino.

Repubblica 2.1.11
Durante, leader di minoranza Fiom: il sì sacrificio necessario
"Meglio un passo indietro che lasciare i lavoratori senza punti di riferimento"
Epifani ha firmato il protocollo del welfare "per presa d´atto". Non era un´adesione tecnica anche quella?
di P. G.


TORINO - Fausto Durante è il leader della minoranza della Fiom, l´area che fa riferimento alle posizioni della maggioranza Cgil: «Se a Mirafiori vincessero i sì all´accordo - dice - la Fiom dovrebbe firmare. Fare un passo indietro sul piano ideale per non lasciare i lavoratori soli nella fabbrica».
Durante, qual è il suo giudizio sull´accordo di Mirafiori?
«E´ un giudizio negativo. Perché prevede il peggioramento delle condizioni di lavoro e perché è stato voluto per ridurre la democrazia interna escludendo la Fiom dalla fabbrica».
Che cosa farà la Fiom se al referendum vincesse il sì a quell´accordo?
«Se l´accordo passasse è chiaro che la Fiom rimarrebbe fuori dalla fabbrica. Per questo credo che a quel punto la Fiom dovrebbe mettere un firma tecnica sull´accordo, per evitare di lasciare i suoi iscritti senza rappresentanti sindacali. Altrimenti il rischio è che senza un delegato o una figura di riferimento in linea gli iscritti della Fiom e gli stessi lavoratori che simpatizzano per noi si rivolgano ad altre organizzazioni sindacali».
Voi dite ‘firma tecnica´. Ma è noto che le firme tecniche non esistono: o un accordo si firma o si boccia...
«Senza arrivare a citare Trentin che nel ‘92 firmò un accordo e poi si dimise perché sapeva che la Cgil non lo condivideva, ricordo che nel 2007 Epifani ha firmato il protocollo del welfare "per presa d´atto". Non era una firma tecnica quella?».
Lei stesso dice che quell´accordo è negativo perché riduce la democrazia in fabbrica. Si può fare un passo indietro sulla democrazia?
«Se al referendum vincessero i sì, la Fiom sarebbe fuori da Mirafiori. Ci sarebbero tanti gazebo con tante bandiere rosse davanti ai cancelli dello stabilimento. Ma dentro la fabbrica gli iscritti e i simpatizzanti della Fiom sarebbero soli. Per non fare un passo indietro sul piano ideale finiremmo per dover fare un passo indietro nei luoghi di lavoro, nelle diverse Mirafiori che ci vedrebbero esclusi dal diritto di rappresentanza. Siamo in una fase in cui i rapporti di forza sono tutti a favore del capitale e il lavoro finisce per subire. Quale dei due passi indietro è meglio compiere? Secondo me è meglio arretrare sul piano ideale e rimane in fabbrica a resistere».

l’Unità 2.1.11
Seguire la Costituzione
I diritti senza sconti
di Ettore Martinelli, resp. diritti segreteria naz. Pd


Non di rado e sovente a sproposito si narra dell’Europa delle sue radici e della superiorità culturale rispetto al resto del mondo. Al di là della retorica sulle radici e dell'uso antistorico che ultimamente ne viene fatto, è vero che l’illuminismo e le lotte iniziate negli ultimi decenni dell’ottocento ci hanno condotto verso una società meno ingiusta in cui alla persona, a prescindere dal proprio status, debbono essere garantiti diritti civili e sociali indispensabili alla propria effettiva realizzazione ed emancipazione. “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” recita la Costituzione e la “sovranità appartiene al popolo”, di lavoratori mi vien da dire, che ebbero l’attenzione privilegiata del Costituente; è sin troppo evidente come i diritti dei lavoratori siano l’unica salvaguardia per una società che dovrebbe tendere ad offrire opportunità ad ogni persona. Lo sviluppo di ogni società dipende dalle condizioni del lavoratore e lo sviluppo economico non può essere ostacolo a quello sociale. Questo significa essere democratici e non temere i conflitti che in un sistema democratico possono sorgere e alla politica tocca risolvere. Se la politica continua a stare un passo indietro alla finanza ed ai poteri forti, vivremo in un mondo sempre più ricco di disuguaglianze. Il caso Fiat non può che essere visto dal Partito Democratico partendo dai diritti dei lavoratori, senza scorciatoie. Il Pd deve proporre un progetto politico e culturale alternativo a quello di coloro che pongono al centro della loro azione solo il mercato e il profitto, mettendo in maniera netta la persona prima di qualsiasi ragionamento: non ne va solo del destino dei lavoratori ma è la democrazia ad essere in pericolo.Diamo attuazione all’art. 39 della Costituzione, rivediamo le relazioni industriali, affrontiamo in maniera non ideologica i problemi della rappresentanza, ma non permettiamo che i diritti dei lavoratori si fermino sulla soglia della fabbrica.

Corriere della Sera 2.1.11
La sinistra denudata dal caso Fiat-Chrysler
di Massimo Gaggi


La sinistra che in Italia, non riuscendo a confezionare una ricetta per il futuro, sceglie una difesa dell'esistente che la fa apparire conservatrice, si comporta in un modo che, in sé, non è insensato né ridicolo: reagisce chiudendosi a riccio a un cambiamento dell'economia mondiale che percepisce come un'involuzione. Resistendo, cercando di conservare, pensa di rallentarla. E'un errore e il fenomeno Marchionne— comunque si giudichino le strategie e le convenienze imprenditoriali della Fiat— offre un'occasione per correggerlo.
L’uomo che comanda a Detroit e al Lingotto non è un «amerikano» : è un manager cosmopolita che non ha ripudiato le radici abruzzesi, ma si è convinto, sulla base delle esperienze fatte all’estero, che non esistono scorciatoie italiche né «soluzioni furbe» per aggirare i problemi. Ora con la sua rude franchezza mette la classe dirigente davanti a un bivio: confrontarsi con le regole economiche del mondo d’oggi, per quanto indigeste esse possano risultare, o restare tagliati fuori dalle rotte dello sviluppo. Che stia sollevando una questione ineludibile lo dimostra lo stesso disagio dei suoi contestatori: chi lo combatte si aggrappa al fantasma del fascismo non trovando di meglio sul terreno economico; chi riconosce che ha ragione nella sostanza ma non accetta il suo metodo arriva a parlare, con discreto sprezzo del vocabolario, di «ricatto legittimo» . Risposte contorte di persone intelligenti che testimoniano del travaglio di un’area politica che in Italia fatica a confrontarsi con una realtà diversa da quella che aveva immaginato nei suoi schemi. Del resto la resistenza al cambiamento è stata a lungo il tratto caratterizzante anche di altre sinistre occidentali, con la grande eccezione della «terza via» anglosassone di Blair e Clinton (con momentanea infatuazione dalemiana). Una «terza via» gestita, però, con imperizia a livello di governo e sfociata negli eccessi di finanziarizzazione tanto negli Usa che in Gran Bretagna. I guai comuni a quasi tutti i movimenti progressisti dell’Occidente nascono dal fatto che nei Paesi industrializzati la sinistra aveva costruito la sua idea di «sviluppo solidale» su tre pilastri: 1) un’enfasi sulla redistribuzione della ricchezza che trascurava l’imperativo della sua produzione; 2) l’intervento dello Stato in economia alimentato da un ricorso senza limiti al denaro pubblico; 3) una sorta di «terzomondismo» , di fratellanza con gli immigrati (anche clandestini) e coi movimenti operai dei Paesi in via di sviluppo basato sulla giusta aspirazione a liberare tutti i popoli dalla povertà. Senza, però, tener conto di cosa questo avrebbe significato per i Paesi ricchi in un mondo nel quale, come Bill Clinton ripete ormai da quasi vent’anni, l’unico sovrano è l’interdipendenza. Oggi i primi due pilastri sono stati polverizzati: la crescita non è più il dato scontato, «automatico» degli anni della ricostruzione postbellica e del successivo «boom» dell’Occidente industrializzato. Va conquistata con le unghie e coi denti e i Paesi emergenti affamati di sviluppo sono comprensibilmente assai più dinamici di chi il benessere l’ha già raggiunto. In secondo luogo l’iperindebitamento che ha portato molti Paesi europei e gli Usa sull’orlo del «meltdown» fiscale rende quasi inutilizzabile la leva pubblica per sostenere l’economia e alimentare il «welfare» . Quanto al «terzomondismo» , proprio la sinistra, sostenendo con simpatia la Cina comunista, l’India dalle radici socialiste, i postcomunisti russi e il Brasile del compagno Lula, ha contribuito ad aggiungere una corsia all’autostrada dell’avanzata dei «Bric» , le nuove potenze emergenti (e mercatiste) che hanno travolto l’Occidente. La difficoltà di comprendere e accettare la nuova realtà non è solo della sinistra: fanno sorridere i ministri di Berlusconi che minacciano, dopo il caso Battisti, di «isolare il Brasile» come se fosse un povero esportatore di caffè e non una nuova potenza i cui jet Embraer, tanto per dirne una, volano con le aviolinee di mezzo mondo, compresa Alitalia. Con la conseguente necessità di rapporti commerciali quotidiani col Paese sudamericano per tenere in efficienza la flotta. Ma è la sinistra la parte politica maggiormente spiazzata dal cambiamento, la più tentata di resistere perché non riesce a definire una nuova piattaforma politica appetibile come quelle del passato. Non ci riesce perché continua a difendere conquiste inesorabilmente erose dalla realtà: dal livellamento imposto dalla globalizzazione, ma anche da una rivoluzione tecnologica mai completamente metabolizzata dal mondo politico e sindacale. Anziché analizzare fatti positivi (mezzo mondo uscito dalla schiavitù della fame) e meno positivi (il trasferimento di ricchezza dall’Occidente all’Asia), molti da noi preferiscono non vedere. Così, però, si imbocca la strada di un sottosviluppo, lenito dall’anestetico del consumo delle risorse accumulate dalle generazioni precedenti. L’America reagisce con più coraggio, accettando una correzione di rotta che solo il nostro provincialismo ci fa ridurre a «ricetta Marchionne» , anche perché non dispone di un simile anestetico. E’ significativo e sorprendente che da noi a toccare questo problema — affermando con forza che l’imperativo assoluto deve essere quello di tornare a crescere, a produrre ricchezza, prima di discutere del resto— sia stato, nel discorso di Capodanno, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: un personaggio che per la sua storia e la sua età avrebbe potuto essere portato a guardare al suo passato più che a scrutare il futuro.

Corriere della Sera 2.1.11
Quei partiti senza confronto
di Paolo Franchi


I sostenitori più convinti e i critici più radicali almeno su un punto (ma è un punto fondamentale) concordano, anche se, è ovvio, per arrivare a conclusioni opposte. Gli accordi di Pomigliano e Mirafiori segnano, almeno potenzialmente, una svolta che investe tutto il sistema delle relazioni industriali. E anche qualcosa di più. Non è il caso di farsi turbare dagli eccessi verbali degli uni e degli altri: il giudizio, nella sostanza, è esatto. E dunque la cosa migliore è prendere le mosse da qui anche per valutare le posizioni delle diverse forze in campo. Il caso del Pd è, a modo suo, esemplare. Pier Luigi Bersani rivendica, a ragione, il diritto-dovere dei partiti, di fronte ad accadimenti di tale portata, di discutere anche in modo acceso. Ma prova pure a indicare una possibile sintesi dei diversi punti di vista emersi nel suo partito. Bene gli accordi, ma non la parte sulla rappresentanza, perché chi dissente (oggi la Fiom, domani chissà) deve certo adeguarsi alle decisioni della maggioranza, ma non può essere tagliato fuori dai diritti sindacali. Pure questa, ci mancherebbe, è una posizione ragionevole. Ma Bersani glissa su un aspetto davvero non secondario di tutta la vicenda: della svolta di Pomigliano e Mirafiori il capitolo Fiom è parte quanto mai essenziale. Non è solo a un’organizzazione (per inciso: storicamente la più prestigiosa della Cgil, e tuttora la più forte tra i metalmeccanici) che viene inferto un colpo pesante, ma a tutta una concezione e una pratica del sindacato, delle battaglie sindacali e delle relazioni industriali. A una storia che è cominciata almeno negli anni Sessanta, ha celebrato i suoi fasti nei Settanta, è sopravvissuta alle sconfitte durissime degli Ottanta (la Fiat, il decreto prima, il referendum poi sul costo del lavoro) e alla concertazione dei Novanta, è riuscita a restare in campo nell’ultimo decennio, scontando l’isolamento dagli altri sindacati, in una certa misura persino dalla Cgil, e anzi facendone quasi una bandiera. Avranno pure ragione gli avversari di Landini e compagni, quando sostengono che ormai la Fiom non è neanche più un sindacato conflittuale e renitente a ogni intesa, ma piuttosto un movimento politico, quasi un partito, che funge da punto di riferimento e di coagulo per i più diversi radicalismi politici e sociali. Anche in questo caso, però, non si tratterebbe di un reperto di archeologia sindacale, meritevole, al più, dell’attenzione degli storici del ramo, ma di una componente viva, e vivace, del mondo del lavoro italiano. Si può dare battaglia per cambiarne gli orientamenti, non si può ignorarla. Ora, tutto si può pensare di Bersani tranne che non sia pienamente avvertito di considerazioni persino banali come queste. Ma nelle sue parole, e nel dibattito (lasciamo pure da parte le divisioni, se a parlarne si passa per critici prevenuti) che si è aperto nel Pd, di tutto questo c’è scarsa traccia. È comprensibile, naturalmente, e a giudizio di chi scrive anche sacrosanto, che il più grande partito dell’opposizione di centrosinistra alzi la bandiera dei diritti sindacali di tutti, e dunque anche di chi gli accordi non li sottoscrive. Meno comprensibile, invece, è che questo partito— un partito che pure, con la segreteria di Bersani, era parso voler accentuare i suoi tratti per così dire laburisti — del mondo del lavoro e del sindacato nella crisi continui a discutere così poco. Certo sono pochi, nel partito, a condividere le posizioni della Fiom: ma a quale sindacato pensi il Pd non è dato sapere. Solo perché rispetta l’autonomia sindacale? Sarà. Ma non sembra proprio. Nessuna nostalgia per le cinghie di trasmissione e i collateralismi, ci mancherebbe; e nessuna voglia di restare intrappolati nei perimetri ideologici del ’ 900. Chi ha qualche annetto sulle spalle, però, ricorda (è solo un esempio, ma non scelto a caso) l’aspro, drammatico confronto sui mestieri del sindacato, e dei partiti, aperto nella sinistra politica e sociale da un articolo di Giorgio Amendola, all’indomani del licenziamento di 61 operai, accusati di contiguità con la violenza e il terrorismo, alla Fiat Mirafiori. Era il 1979, e anche allora si stava profilando un passaggio d’epoca. Altri tempi, si obietterà. Vero. Ma quei sindacati ci sono ancora, eccome. Sono quei partiti (non solo il Pci) che non esistono più. Al loro posto ne sono sorti, e poi risorti, e poi magari risorti ancora, di nuovi, che però faticano tutti (non solo il Pd) a chiarire persino a se stessi la loro ragione sociale di esistenza. Forse è per questo che non riescono a produrre niente di paragonabile, nemmeno alla lontana, al confronto, o allo scontro, di allora. Forse è per questo che non c’è ombra di grandezza nemmeno nei loro errori. Forse è per questo che contano così poco.

il Riformista 2.1.11
La strategia del segretario per evitare l’esplosione del Pd sul caso Fiat
Bersani chiama Marchionne
Il segretario teme che il partito possa deflagrare per le divisioni sulle scelte del Lingotto. E allora prende l’iniziativa con l’ad chiedendo su invetimenti e innovazione. In attesa di risposte.
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/46158052

Corriere della Sera 2.1.11
Lombardia, bocciate dal Tar le linee guida sull’aborto
«Il termine delle 22 settimane contrasta con la legge nazionale»
di Lugi Ferrarella


Il Tar boccia Formigoni e annulla le linee guida di attuazione della legge sull'aborto impartite nel 2008 dal presidente della Lombardia. Via, quindi, tutte le restrizioni volute dalla Regione. Per il Tar è «del tutto illogico permettere che possa essere disciplinato differentemente sul territorio nazionale l’accesso alle prestazioni» sanitarie da rendere affinché i diritti di madre e nascituro siano tutelati.
MILANO — «Le linee guida che abbiamo adottato come Regione Lombardia non sono certo in contraddizione con la legge 194 sull’aborto, anzi diventeremo un modello per il resto d'Italia» , si diceva sicuro nel 2008 il presidente Roberto Formigoni a proposito delle disposizioni con le quali prescriveva che l’interruzione volontaria di gravidanza fuori dai primi 90 giorni, in caso di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, non potesse essere effettuata oltre la 22 ª settimana più 3 giorni (dopo la quale presumeva la possibilità di vita autonoma del feto), e imponeva al ginecologo di avvalersi di altri specialisti. Ma l’auspicio di Formigoni s’infrange ora nella stroncatura del Tribunale amministrativo regionale, che ha dichiarato «illegittima l’intera disciplina impartita dalla Regione» per contrasto con la legge statale 194, e annullato la delibera lombarda del 22 gennaio 2008. A ricorrere al Tar, facendo leva sull’articolo 117 della Costituzione che riserva alla competenza legislativa dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili o sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, erano stati 8 medici con la Cgil della Lombardia, rappresentati dagli avvocati Vittorio Angiolini, Ileana D’Alesso e Marilisa D’Amico. Il Tar (presidente Giordano, estensore Celeste Cozzi) premette che la legge sull’aborto del 1978 contempera la tutela giuridica del concepito (ricompresa nell’articolo 2 della Costituzione sui diritti inviolabili dell’uomo) con i casi nei quali può essere sacrificata se collide con la necessità di evitare gravi pericoli alla salute della madre (articolo 32 della Costituzione che impone di dare assoluta prevalenza al bene-salute di una persona già nata): la legge fissa le condizioni al ricorrere delle quali le prestazioni del servizio sanitario debbono essere rese affinché i diritti di madre e nascituro possano essere tutelati. Ma «per determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni» , ragiona il Tar, «non deve intendersi esclusivamente l’individuazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni, ma anche (e prima ancora) delle condizioni cui è subordinato l’accesso a quelle prestazioni: sarebbe del tutto illogico permettere che una materia tanto sensibile» come l’aborto, che coinvolge scelte di fondo riguardanti valori essenziali quali “ vita” e “ salute”, possa essere disciplinata differentemente sul territorio nazionale, lasciando che siano le Regioni a individuare, ciascuna per il proprio territorio, le condizioni per l’accesso alle tecniche abortive» . In questa cornice il Tar boccia le linee guida di Formigoni laddove, nel caso in cui la madre non sia in pericolo di vita, ammettono l’aborto terapeutico solo se vi è impossibilità di vita autonoma del feto, e cioè se non ha raggiunto un grado di maturità tale da consentirgli, una volta estratto dal grembo materno, di completare il suo processo di formazione. Mentre infatti la legge statale 194 non fissa un termine oltre il quale presumere che il feto sia in grado di condurre vita autonoma, e lascia che ad accertarlo siano caso per caso i medici, la Lombardia individua invece un termine (22 settimane e 3 giorni) oltre il quale si deve presumere, salvo prova contraria, che il feto possa avere vita autonoma. Ma così la Lombardia, osserva il Tar, «contravviene alla chiara decisione del legislatore nazionale (non frutto di una svista, ma al contrario scelta precisa, consapevole e ponderata) di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori» per «non imbrigliare in una disposizione legislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni sempre diverse» , e «soprattutto del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in dato momento storico» . Le linee guida della Lombardia, inoltre, nell’ammettere l’aborto terapeutico quando una patologia può arrecare gravi pericoli alla salute fisica o psichica della madre, imponevano che l’accertamento dei gravi motivi psichici dovesse avvenire con la consulenza dello psicologo/psichiatra, e che nella consulenza alla donna il ginecologo dovesse avvalersi di altri specialisti. Ma anche qui il Tar rileva il contrasto con «il legislatore nazionale» della 194 che «ha riposto piena fiducia nella capacità di valutazione dell’ostetrico-ginecologo, anche con riferimento alla capacità di valutare i propri limiti conoscitivi, lasciando che sia tale specialista a dover decidere se avvalersi o meno dell’ausilio di altri medici» . Il Tar dichiara perciò «l’illegittimità di tutta la disciplina impartita dalla Regione, avente carattere inscindibile e unitario, e per tale ragione non suscettibile di essere annullata solo parzialmente» . Cadono, dunque, anche le disposizioni regionali che imponevano che il certificato medico che diagnosticava i gravi pericoli alla salute della donna fosse redatto da almeno due ginecologi, e firmato dal dirigente della struttura per presa visione. Niente più istituzione di un registro regionale dove la diagnosi prenatale fosse confrontata con l’accertamento sul feto abortito. E stop all’indicazione di presa in carico, da parte dei servizi sanitari, non solo della donna che chiedeva di abortire ma anche della coppia e della famiglia.

Repubblica 2.1.11
Dietro lo schiaffo di Lula
di Adriano Prosperi


La richiesta di estradizione di Battisti non è stata sostenuta dalle autorità italiane con fermezza. Emergono i limiti della nostra politica estera
La regola per cui "gli affari sono affari" non dovrebbe far passare in secondo piano gli interessi prioritari del Paese nel confronto con altri stati

«Anche esaminando un singolo osso, uno può arrivare a determinare la classe di appartenenza e in certi casi anche il genere a cui l´animale apparteneva»: questo il celebre principio di Cuvier. Ci si chiede se lo si possa applicare a un episodio della vita politica italiana.
L´ossicino di oggi è lo schiaffo morale e politico inferto all´Italia dal rifiuto di Lula di concedere l´estradizione di Cesare Battisti.
Il ministro brasiliano della giustizia Tarso Genro ha fornito una chiave del rifiuto parlando di sospette volontà persecutorie e di spirito di vendetta della nostra giustizia contro un uomo colpevole di «delitti politici». Le sue parole dimostrano fino a qual punto le autorità italiane siano state incapaci non solo di sostenere con adeguata fermezza la richiesta di estradizione avanzata dall´Italia, ma anche la dignità del nostro sistema giudiziario e civile che con tutti i suoi difetti ha ancora qualcosa da insegnare al Brasile e ad altri stati dell´America latina.
Il minimo che si può dire è che tra Berlusconi e Lula, al di là degli abbracci e delle pacche sulle spalle, c´è stato un difetto di comunicazione: le trattative d´affari a vantaggio di singole aziende hanno occupato tutto lo spazio, lasciando in ombra le questioni più propriamente politiche del rapporto tra stati.
Ma va detto che questo non è avvenuto solo col Brasile.
Da anni la politica estera come promozione all´esterno del patrimonio materiale e immateriale della nazione italiana è stata messa in ombra da un cinismo affaristico senza limiti. Da noi anche i bambini sanno che l´Italia è un paese che vive di esportazione e che esporta non le materie prime che non ha ma i prodotti del lavoro e dell´ingegno dei suoi cittadini. Dunque ha interesse a trattare con tutti, anche con personaggi poco presentabili in società democratiche come Putin, come Gheddafi, come la dirigenza cinese.
Gli affari si debbono fare, ci mancherebbe altro. Ma l´economia di un paese è qualcosa di diverso dagli affari privati dei suoi imprenditori. I quali, per esempio, possono essere attirati dalla prospettiva di delocalizzare le produzioni là dove i diritti dei lavoratori valgono poco o nulla e non si ha a che fare con i sindacati italiani: ai quali si rinfaccia la scarsa redditività del lavoro dimenticando che se l´operaio italiano rende meno di quello tedesco è perché da noi il forte drenaggio di ricchezza dal pubblico al privato e dal lavoro al capitale non si è tradotto in potenziamento e ammodernamento del sistema produttivo ma è finito a ingrassare capitali all´estero e ad alimentare speculazioni finanziarie: un difetto antico dell´individalismo italico e della frammentazione politica della penisola, che all´inizio dell´età moderna portò al declino economico di un´attività mercantile allora all´avanguardia in Europa.
Oggi bisognerebbe che anche l´opposizione parlamentare, invece di dividersi sulla questione dei contratti Fiat e sulla figura di Marchionne, facesse maggiore attenzione alle lesioni agli interessi reali del paese nascoste dietro certe espansioni delle industrie italiane oltre frontiera e dietro le vanterie dei contratti firmati grazie alla diplomazia informale del nostro premier. Qualcuno forse potrebbe rispondere citando la famosa battuta dei clintoniani: «It´s the economy, stupid!». Ma quella battuta parlava appunto di economia come tutela degli interessi del paese e non come politica dell´arricchimento di qualche privato senza scrupoli.
Gli Stati Uniti fanno affari nel mondo intero: ma i loro uomini di stato sono stati in genere molto attenti a mantenere le distanze da regimi liberticidi come quello cinese e da personaggi poco presentabili come quelli che abbiamo ricordato: personaggi che invece in Italia hanno trovato accoglienze calorose e davanti ai quali troppo spesso le maggiori autorità del nostro paese si sono presentate col cappello in mano.
Un´ultima osservazione: il problema non è solo quello di un´Italia dominata oggi dall´idea che gli affari sono affari e che la difesa dei diritti è roba da «prima repubblica». Il difetto è più generale, anche se da noi tutto rischia di riassumersi negli schieramenti pro o contro la figura dell´uomo "sceso in campo" con tutto il fardello mentale, prima ancora che economico, dei suoi interessi privati. E´ un difetto della costruzione europea. Se il nostro paese aderì con entusiasmo al grave sacrificio immediato della moneta unica fu perché se ne attendeva la nascita di una superiore formazione politica capace di promuovere la crescita civile ed economica dei suoi membri e di affermarsi da protagonista nell´arena delle grandi potenze mondiali rafforzando l´area delle democrazie di contro alla minaccia di titani economici portatori di modelli radicalmente illiberali. Oggi quelle speranze sono lontane: e il sentimento di delusione nei confronti di un´Europa balbettante e avara ha assunto qui da noi la forma di una svalutazione rassegnata di tutta intera l´eredità migliore dei primi centocinquant´anni della nostra unità nazionale.

Repubblica 2.1.11
L’anno dell'atomo
Siamo elettroni sospesi intorno a un nucleo Compie un secolo il modello teorico che ha cambiato il nostro mondo
di Piergiorgio Odifreddi


O gni nuovo anno porta con sé innumerevoli anniversari. Uno dei più significativi del 2011 è sicuramente il centenario del modello atomico, che ha cambiato la nostra percezione del mondo ed è entrato a far parte del nostro immaginario. Lo dimostra il fatto che ancor oggi, dai libri di testo per le scuole ai logo delle organizzazioni nazionali o internazionali, l´atomo si rappresenta come lo pensò per la prima volta Ernest Rutherford nel 1911: cioè, come un sistema solare in miniatura, con un nucleo di protoni e neutroni al posto del Sole, e un sistema di elettroni in orbita attorno ad esso al posto dei pianeti.
Naturalmente, non è stato Rutherford a inventare l´atomismo. Anzi, non sono stati neppure gli scienziati moderni. L´idea risale agli antichi greci in generale, e Leucippo e Democrito in particolare. E già un secolo prima della nostra era il poeta latino Lucrezio l´aveva divulgata nel De rerum natura: un meraviglioso poema materialista e razionalista, che farebbe tanto bene agli studenti, se fosse insegnato al posto delle troppe opere idealiste e irrazionaliste.
Nel 1911 Ernest Rutherford confermava ciò che i filosofi antichi avevano sempre sospettato: l´esistenza di particelle infinitamente piccole alla base della materia. Il suo modello planetario di neutroni, protoni ed elettroni e le sue applicazioni cambiarono la storia. Ecco, a un secolo da quella scoperta, quanta strada abbiamo fatto e quanta ancora ce ne resta
Tra le molte cose utili e belle che Lucrezio dissemina nei suoi versi, ci sono anche gli argomenti a favore dell´esistenza degli atomi. In particolare, quello che sarà poi ripreso da Kant nella seconda antinomia della Critica della ragion pura: «Se non ci fossero gli atomi, ogni corpo consisterebbe di parti infinite, e allora quale sarebbe la differenza fra l´universo e la più piccola delle cose?» Soprattutto, Lucrezio suggerisce che le cose possono essere costituite da atomi invisibili alla vista, attraverso una serie di convincenti analogie. Il pulviscolo atmosferico, reso visibile da un raggio di Sole che penetra in una stanza, e la cui danza offre un modello dell´eterno tumulto degli atomi nel grande vuoto. Oppure, le pecore che si aggirano saltellando sui prati, e i soldati delle legioni che avanzano nei campi, i cui movimenti individuali appaiono indistinti a un osservatore lontano. E infine le parole, che pur essendo tutte costituite delle stesse poche lettere dell´alfabeto, «denotano il cielo, il mare, la terra, i fiumi, il sole, le messi, gli alberi e gli esseri viventi».
Nonostante la divulgazione di Lucrezio, i brillanti argomenti degli atomisti non convinsero gli antichi, così come non li avevano convinti gli altrettanto brillanti argomenti degli eliocentristi. Il risultato fu che entrambe queste verità rimasero ibernate per due millenni, fino a quando vennero scongelate dagli scienziati moderni: Galileo, in particolare, che pagò cara la sua audacia in entrambi in campi. Per sdoganare scientificamente la teoria atomica della materia si dovettero aspettare le ricerche chimiche intraprese agli inizi dell´Ottocento da John Dalton. Ma ancora agli inizi del Novecento, nonostante la sistematizzazione effettuata nel 1869 da Dmitrij Mendeleev con la sua tavola degli elementi, rimanevano degli scettici. Primo fra tutti Wilhelm Ostwald, premio Nobel per la chimica nel 1909, che riteneva l´atomismo solo un´utile finzione. La prova definitiva dell´esistenza degli atomi venne da un lavoro del 1905 di Albert Einstein. Non quello più famoso sulla relatività speciale, ma uno precedente «sul moto di piccole particelle in sospensione nei liquidi a riposo», scoperto nel 1823 da Robert Brown e osservabile al microscopio.
La prima impressione è che si tratti di una qualche forma di vita, ma Einstein dimostrò che il movimento è in realtà prodotto dalla vibrazione delle molecole atomiche che compongono il liquido. Secondo un´immagine di Richard Feynman, che possedeva un po´ del talento lieve di Lucrezio, è come se noi osservassimo da molto lontano delle enormi palle in uno stadio (le particelle in sospensione), urtate da una folla di persone che va e viene (le molecole del liquido), ma che non riusciamo a distinguere per la distanza. Vedremmo allora soltanto le palle muoversi, con un incessante movimento irregolare (il moto browniano).
Ovviamente, il problema fondamentale dell´atomismo riguarda la struttura stessa degli atomi. Lucrezio li immaginava provvisti di uncini. Nel 1696 Niklaas Hartsoecker sostituì agli uncini degli aculei. Nel 1808 Dalton passò alle palle da biliardo. Ma le cose si complicarono nel 1897, quando Joseph Thomson scoprì che gli atomi non erano affatto indivisibili e risultavano invece composti di particelle positive pesanti (protoni) e particelle negative leggere (elettroni). La scoperta gli fruttò il premio Nobel per la fisica nel 1906, e gli ispirò un modello in cui gli elettroni erano conficcati nella pallina del nucleo come le uvette nel panettone. Alla fine di questa lunga storia arrivò finalmente Rutherford, che nel 1908 scoprì che se si sparavano delle particelle alfa leggere contro una sottilissima lamina di un materiale pesante come l´oro, la maggior parte di esse l´attraversava senza deviare la propria traiettoria: dunque, la materia doveva essere in massima parte vuota. Ma a volte alcune di quelle particelle rimbalzavano indietro, come se avessero incontrato un ostacolo: dunque, la materia doveva essere in massima parte concentrata in un nucleo pesante.
La scoperta valse a Rutherford il premio Nobel per la chimica quello stesso anno. Poi, nel 1911, propose finalmente il modello planetario che, a onor del vero, oggi è doppiamente sorpassato. Anzitutto perché, come scoprì il suo studente Niels Bohr nel 1913, non è stabile: per renderlo tale, bisogna supporre che gli elettroni non possano stare a qualunque distanza dal nucleo, come i pianeti col Sole, ma solo a particolari distanze fisse. E poi, perché gli elettroni non sono in realtà palline, ma nubi: dunque, risultano più simili a fasce di asteroidi che a pianeti. Ma tant´è, il modello è troppo bello per essere abbandonato, e noi continuiamo a mostrarlo e amarlo. Così come facciamo con le foto che ci ricordano i bei tempi andati, quando ci sentivamo tanto più giovani e belli, benché fossimo solo molto più semplici e ingenui.

Repubblica 2.1.11
L’ultimo mistero
di Michelangelo Mangano


Ovunque, e praticamente da sempre. Non c´è angolo dell´universo in cui la materia non sia fatta degli atomi che conosciamo. Un secondo dopo il Big Bang si sono formati neutroni e protoni; dopo tre minuti questi si sono aggregati in nuclei leggeri (per esempio idrogeno ed elio), che sono diventati atomi circa trecentomila anni dopo. Gli atomi più pesanti, come carbonio, ossigeno, ferro, hanno iniziato a formarsi dopo circa un miliardo di anni, all´interno delle prime stelle.
Alla fine degli anni Sessanta, con esperimenti simili a quelli di Rutherford, abbiamo "osservato" che protoni e neutroni sono a loro volta composti da altre particelle, i quark. Ai laboratori dell´acceleratore lineare di Stanford, elettroni di alta energia vennero scagliati contro un bersaglio di protoni. Studiando come gli elettroni rimbalzavano sul protone, si svelò l´esistenza di qualcosa di ancora più piccolo al suo interno, che si comportava come una particella puntiforme. Era stata dimostrata sperimentalmente l´esistenza dei quark. La scoperta non arrivò di sorpresa. Prima ancora di essere osservati, i quark erano stati introdotti come ausili matematici.
Servivano per descrivere le proprietà della moltitudine di particelle che, a partire dagli anni Cinquanta, vennero scoperte studiando i raggi cosmici e facendo esperimenti con gli acceleratori. Le misure a Stanford indicarono che tutte queste particelle sono composte da quark, aprendo la porta alla comprensione e semplificazione dei fenomeni subnucleari.
Né la scoperta sconvolse le leggi della fisica note fino ad allora. Si scoprì che le leggi che governano le interazioni fra quark sono concettualmente semplici e simili alle interazioni fra cariche elettriche. Le forze fra quark sono mediate da altre particelle elementari, i gluoni, successivamente scoperti, così come le forze fra particelle cariche sono mediate dai fotoni. Se pensiamo alla chimica, anche le reazioni più complesse sono riducibili alle semplici interazioni fra le cariche elettriche di protoni ed elettroni che compongono atomi e molecole. Analogamente, le forze che legano protoni e neutroni all´interno del nucleo sono il risultato delle interazioni fra i quark e i gluoni che li compongono.
Oggi abbiamo ragione di pensare che il fondo sia stato raggiunto. Esistono modelli teorici in cui anche i quark sono composti, ma al momento non hanno riscontro sperimentale: la ripetizione dell´esperimento di Rutherford, bersagliando i quark usando gli acceleratori più moderni come l´Lhc del Cern di Ginevra, continua a indicare che sono puntiformi, e appaiono dunque come i costituenti elementari del nucleo atomico.
Se con i quark abbiamo forse definitivamente risolto il mistero di come sia fatto l´atomo, un mistero che rimane aperto è quello della composizione della materia ed energia presenti nell´universo. La materia a noi nota, fatta di nuclei, elettroni e atomi, rappresenta infatti solo il cinque per cento dell´energia contenuta nel cosmo. L´intensità della forza gravitazionale che lega ammassi di galassie richiede l´esistenza di un addizionale venticinque per cento di cosiddetta materia oscura, la cui origine è tuttora ignota. L´accelerazione nell´espansione dell´universo stesso, infine, richiede l´esistenza di un settanta per cento di pura energia, nota come energia oscura. La scoperta della natura della materia oscura potrebbe arrivare entro breve, grazie a esperimenti di ricerca diretta, osservazioni di raggi cosmici, e alle ricerche all´Lhc. Chiarire la natura dell´energia oscura, invece, sarà probabilmente una delle grandi e complesse sfide scientifiche del Ventunesimo secolo.
(L´autore è un fisico teorico del Cern di Ginevra)

Corriere della Sera 2.1.11
Atlantide
L’isola raccontata da Platone Un «fantasma geografico» sopravvissuto alle esplorazioni
di Viviano Domenici


C hissà se il filosofo greco Aristocle, più noto col soprannome di Platone, immaginò quello che avrebbe scatenato quando, nel IV secolo avanti Cristo, mise nero su bianco la sua idea di società ideale ambientandola ad Atlantide, un continente immaginario situato in pieno Oceano Atlantico, oltre le Colonne d’Ercole, cioè in un mondo indefinito dove i Greci avevano collocato terre evanescenti come le Isole dei Beati e altre improbabili lande abitate da genti senza testa e con la faccia sul petto. Un luogo che sembra scelto apposta da Platone per avvisare i lettori di non prenderlo troppo sul serio anche se afferma che quella di Atlantide «non è una favola inventata, ma vera storia» ; tipica precisazione di chi sta raccontando una favola. Una sorta di ammiccamento. D’altro canto fin dall’inizio del racconto il filosofo sembra prendere le distanze da tutta la storia facendola riferire da Crizia, il quale spiega che un secolo e mezzo prima Solone, uno dei sette saggi di Grecia, statista e gran viaggiatore, l’aveva sentita da un sacerdote egizio e poi l’aveva raccontata a suo fratello Dropide, bisnonno di Crizia, che a sua volta l’aveva tramandata ai suoi discendenti. Quindi una storia fatta di tanti sentito dire, di cui nessuno sembra volersi prendere la responsabilità. Fu Aristotele uno dei primi a capire che doveva trattarsi di una macchinosa metafora escogitata da Platone per spiegare come lui avrebbe voluto il mondo; Aristotele liquidò la faccenda commentando seccamente che «l’uomo che l’ha inventata l’ha anche fatta sparire» , sprofondandola nell’oceano in appena un giorno e una notte da tregenda, con l’aiuto di un provvidenziale terremoto; probabilmente per evitare che a qualcuno venisse in mente di andare a cercare le prove della sua esistenza. E per questo aveva anche collocato il tutto oltre novemila anni prima dei suoi tempi; come a dire «c’era una volta…» . Insomma, sembra proprio che Platone non volesse affatto prendersi gioco di noi, tutt’altro. Volendo esplicitare il suo pensiero filosofico sotto forma favolistica, senza però correre il rischio che qualcuno lo prendesse alla lettera, si preoccupò di disseminare nella sua Atlantide un gran numero di «avvisi ai naviganti» in modo che anche il più credulone dei suoi lettori non finisse per crederci davvero. Ma, come sappiamo, non andò così. Per trovare i particolari rivelatori basta scorrere il racconto di Platone-Crizia usando un po’ di buon senso. Prima che il dio del mare Poseidone costruisse la città, dice il racconto di Crizia-Platone, il continente era abitato soltanto da una coppia di anziani, Euenore e Leucippe, magicamente generati dalla Terra, e dalla loro figlia Clito su cui Poseidone aveva posato gli occhi da tempo. Infatti, appena i due vecchi morirono, Poseidone mise su casa con la ragazza in cima a una collina circondando il nido d’amore con anelli concentrici di terra e acqua; ciascuno protetto da un muro rivestito, rispettivamente, da lastre d’oricalco, di stagno e di bronzo. Questa città da gioco dell’oca aveva un diametro di 23 chilometri e la pianura limitrofa, rettangolare e delimitata da alte montagne a settentrione, misurava 370 chilometri per 540; un parco naturale provvisto di sorgenti d’acqua calda e fredda. Clito era bella, Poseidone focoso, e in breve ebbero cinque coppie di gemelli maschi che, diventati grandi, si sposarono e proliferarono (con chi?) trasformando Atlantide in una vera metropoli ed estendendo il loro dominio su una quantità di isole atlantiche tanto da creare una potente confederazione che arrivò a insidiare la stessa Atene. Poi tutto sprofondò in fondo al mare, come noto. Si può credere che Platone e i suoi contemporanei prendessero per vera una storia come questa? Sinceramente no. I Greci dell’epoca raccontavano sì miti popolati da draghi, sirene e unicorni, ed erano di sicuro immersi in un mondo in cui i confini tra realtà e fantasia potevano essere facilmente attraversati; ma non erano certo degli ingenui sempliciotti. Duemilacinquecento anni fa s’erano già fatti un’idea dell’atomo, discutevano di filosofia e di distanze stellari, sapevano bene che la Terra non era piatta ma sferica, avevano costruito il Partenone e posto le basi della civiltà occidentale. Pensare che scambiassero per realtà la storia di Atlantide così com’era raccontata da Platone sarebbe come credere che ascoltassero le favole di Esopo immaginando che gli animali parlassero davvero. Comunque, benché non sia mai stata trovata una qualsiasi prova archeologica o geologica a sostegno della reale esistenza di Atlantide, nel corso dei secoli l’isola di Platone ha tentato ripetutamente di riemergere sulle mappe medievali, accanto a Frislandia, Brasil, Antillia, San Brandano e altri fantasmi geografici svaniti nel nulla all’epoca delle grandi esplorazioni. Ma, a differenza delle sue sorelle più sfortunate, Atlantide è sempre sfuggita all’epurazione spostandosi di continuo da un oceano all’altro, da un libro all’altro, grazie all’opera di fedelissimi che, soprattutto tra l’Ottocento e il Novecento, scatenarono un’autentica crociata per recuperare la terra affondata. Veri atlantidei ad honorem come lo scrittore, erudito e politico americano Ignatius Donnelly, che elaborò dodici tesi a sostegno della terra inabissata; la famiglia Krupp, che spese inutilmente mezzo milione di dollari per cercare qualche rimasuglio di Atlantide in Mato Grosso; la spiritista russa Helena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, sostenitrice di Lemuria, versione orientale di Atlantide abitata da una razza di ermafroditi; Edgar Cayce, fotografo, guaritore, profeta e chiaroveggente che in trance si collegava con Atlantide dove gli abitanti sfruttavano l’energia atomica, i principi del volo e altre meraviglie tecnologiche. Paladini poco credibili? Certo. Ma sicuramente co-fondatori di un mito capace di replicarsi all’infinito, che forse per questo qualcuno considera un capolavoro.

Corriere della Sera 2.1.11
Maccari e Bilenchi, eterni ribelli
L’artista e lo scrittore, spiriti liberi delusi da fascismo e comunismo
di Giovanni Russo


Lo scrittore e giornalista Romano Bilenchi e il pittore e disegnatore satirico Mino Maccari, entrambi di origine senese, sono stati legati da una grande amicizia, che ha attraversato intatta tempeste e malintesi e i drammi del Novecento. Maccari (1898-1989) aveva undici anni più di Bilenchi (1909-1989) e finì per assumere il ruolo di fratello maggiore e di riferimento culturale. Come scrive Maria Antonietta Grignani, avevano in comune «l’avversione per il conformismo della borghesia, l’intolleranza verso le gerarchie e il potere, l’attenzione amorosa al paesaggio toscano» . Maccari aveva dato origine a un movimento letterario, «Strapaese» , che si contrapponeva all’internazionalismo culturale di «Novecento» di Massimo Bontempelli. Bilenchi non è da meno: anche lui è pervaso da un ribellismo anarcoide, insofferente dei riti della vecchia politica. Il fascino che esercita su Maccari e sul giovane Bilenchi il movimento dei Fasci deriva dal comune sentimento contro il conformismo borghese e la retorica socialista. Il dialogo tra i due— testimoniato dalle 107 lettere, cartoline e biglietti scarabocchiati con salace irriverenza, di recente raccolti nel volumetto Il gusto della fucileria. Romano Bilenchi Mino Maccari. Lettere 1927-1982, pubblicato dalle Edizioni Cadmo di Fiesole (a cura di Maria Antonietta Grignani e Nicoletta Trotta, con postfazione di Roberto Barzanti, pp. 225, € 16) — proseguì per tutta la loro vita. Bilenchi custodì con cura missive e messaggi del meno ordinato e attento Mino. Sia Maccari sia Bilenchi hanno una continua nostalgia dell’infanzia e dell’adolescenza e della vita nel paese toscano a contatto con gli umori popolani. Le lettere ci danno anche un ritratto dei fermenti culturali e politici della provincia toscana. Il titolo dell’epistolario si riferisce alla «estrosa funzione di stimolo» che, come scrive la Grignani, i due protagonisti svolgevano, facendo a gara tra loro. Si esercitavano in polemiche con i letterati del tempo, i gerarchi fascisti e, nel dopoguerra, con gli esponenti dei partiti politici cui Maccari dedicava le sue caricature negli «Almanacchi» , nel «Selvaggio» e nel «Mondo» . Il tormentato Bilenchi invece, pur impegnato nella direzione del quotidiano di sinistra «Il Nuovo Corriere» , si dedicò soprattutto all’opera narrativa: il suo capolavoro è il romanzo Conservatorio di Santa Teresa, pubblicato nel 1940, altri titoli importanti Anna e Bruno (1938) e Mio cugino Andrea (1943). Maccari parla raramente dell’opera letteraria di Bilenchi, mentre questi ne apprezza molto i quadri e le vignette e nel «Nuovo Corriere» non manca mai di far recensire le sue mostre. Scrive di lui: «Maccari era ed è un uomo libero, mai fazioso. Un grande umorista. Se in quegli anni lontani era fascista, lo era molto a modo suo: direi meglio che era già allora un populista. Partecipò alla marcia su Roma vestito con un maglione nero, un impermeabile da donna color crema e invece della pistola un pollo spennato. Nella famosa sosta a Orte scrisse su un muro "O Roma o Orte"» . A questo proposito, proprio nel giornale «Il Selvaggio» di Maccari, nel 1931 è ospitata una testimonianza di Bilenchi che rievoca il clima successivo alla marcia su Roma e già enuncia una profonda disillusione. I «grandi» che ritornarono dalla coraggiosa impresa «furono ricevuti — osserva sconsolato Bilenchi — da uomini che approfittando del tempo rischiarato erano usciti quel giorno per la prima volta di casa e non avevano a che far nulla con i fascisti. Mi parve quello un cattivo segno. Capii che ci sarebbe stato ancora da fare; e che anche a noi sarebbe toccata un giorno la nostra parte di lotta e di sacrificio» . Più tardi, pure il comunismo avrebbe mostrato a Bilenchi i tratti aspramente censori di un’ideologia totalitaria, molto lontana dalle speranze della Resistenza. La brutale chiusura, nel 1956, del «Nuovo Corriere» da lui diretto, fu una ferita non rimarginabile. Bilenchi uscì dal Partito comunista dopo la sanguinosa repressione della rivolta operaia scoppiata nella città polacca di Poznan, nell’estate del 1956, e vi rientrò soltanto nel 1972. Nella postfazione all’epistolario, Roberto Barzanti osserva che queste lettere «non avevano alcuna voglia di consegnarsi ai posteri» . E aggiunge: «Hanno l’immediata autenticità e proprio per questo offrono una traccia preziosissima per comprendere, dal di dentro, scelte solidali e franche divergenze, e arricchire così una delle pagine più acri e vivide del Novecento italiano» .

Corriere della Sera 2.1.11
Le missive di Campanella da un mondo alla rovescia
di Nuccio Ordine


«Sono doi anni e più che sta in una fossa posta sopra un’altra fossa d’acqua... e non vede mai la luce, ... con li ferri a’ piedi, dormendo vestuto; ... stracciato e morto, con dolor di denti, di petto, di milza e di testa» : con queste strazianti parole Tommaso Campanella (1568-1639) descrive gli orrori del carcere di Castel Sant’Elmo a Napoli in una lettera indirizzata, tra luglio e agosto del 1606, al nunzio apostolico, monsignor Guglielmo Bastoni. Dopo l’arresto in Calabria nel 1599, con l’accusa di aver organizzato una congiura antispagnola, il filosofo si finge pazzo per sfuggire alla condanna a morte. E proprio durante la prigionia, tra torture e malesseri, scrive molte delle sue opere più importanti, continuando a intrattenere rapporti anche con eruditi e letterati del tempo. Sempre nell’estate del 1606, Campanella si rivolge direttamente a papa Paolo V per ricordargli come «tutti profeti, apostoli e Nostro Signore Cristo, anzi li filosofi buoni e savii di tutte nazioni... morîro sotto questo titolo d’eretici e ribelli» . Un accanimento contro i saggi voluto soprattutto dai cattivi governanti: «Platone e Senofonte nell’Apologia in favor di Socrate dicono che questa è querela antica contra li sapienti nati ad illuminar la gente al meglior vivere, e però odiati da chi governa male» (lettera del 30 agosto 1606 al cardinale Odoardo Farnese). Non a caso l’autore della Città del sole ribadisce in un sonetto che la battaglia contro i «gran mali» del mondo («Io nacqui a debellar tre mali estremi: /tirannide, sofismi, ipocrisia» ) deve soprattutto puntare a eliminare l’ignoranza imperante («Dunque a diveller l’ignoranza io vegno» ). Per seguire le peregrinazioni italiane ed europee di Campanella, per ricostruire le fitte relazioni intellettuali con straordinari personaggi del tardo Rinascimento (da Galileo a Gabriel Naudé, da Peiresc a Gassendi, da Richelieu a papa Urbano VIII), per ritrovare i grandi temi della sua filosofia (la natura, la cosmologia, la conoscenza, il teatro del mondo, la religione) il suo epistolario diventa uno strumento indispensabile. Oggi— grazie alla cura di Germana Ernst, importante studiosa del filosofo calabrese, in collaborazione con Laura Salvetti Firpo e Matteo Salvetti— è possibile ritrovare tutte le missive in un solo volume (Lettere, Olschki, pp. 726, € 74). Si tratta di un’edizione, fondata su materiali preparatori inediti di Luigi Firpo, che raccoglie ben 172 lettere, comprese quelle in latino, corredate da un prezioso commento. La Ernst, nella sua introduzione, suddivide l’epistolario in quattro specifici gruppi: le lettere legate alla giovinezza (1591-1599) in cui è possibile leggere, tra l’altro, le lodi a Telesio e le critiche all’astratto aristotelismo dominante; le lettere dal Caucaso, il carcere di Sant’Elmo, caratterizzate dalla sofferenza e dalla solitudine ma anche dalla creatività (1606-1626); le lettere concepite nel soggiorno a Roma, la «Città santa» , segnate dall’incontro con Galileo (1626-1634); e, infine, le lettere degli ultimi anni della sua vita a Parigi (1634-1639) in cui il filosofo, partendo dal declino della Spagna, teorizza il ruolo fondamentale della monarchia francese. Resta ancora attuale il grido d’allarme di Campanella contro il mondo alla rovescia della politica perché gli empi «spesso fûr canonizzati, /gli santi uccisi, e gli peggior tra noi /príncipi finti contra i veri armati».

Corriere della Sera 2.1.11
E la peste creò la sanità pubblica
Come le pandemie (vere o presunte) hanno cambiato l’Italia
di Gianpiero Dalla Zuanna


L o studio delle pandemie che ciclicamente colpiscono l’Italia e l’Europa mette in luce due aspetti contraddittori. Da un lato, con il correre del tempo la società è riuscita ad approntare armi sempre più efficaci per contenere e sconfiggere il contagio. Dall’altro, a ogni diversa ondata epidemica si ripete una vecchia storia: panico collettivo, ricerca di capri espiatori, approfittatori che guadagnano nuovo denaro e acquisiscono nuovo potere. La storia sociale delle pandemie è un’ottima chiave di lettura della nascita del mondo moderno, in continua oscillazione fra vecchi demoni e nuova razionalità. Questo è il tema dell’agile e ben scritto volume Pandemie d’Italia (Egea) di Guido Alfani (storico economico) e Alessia Melegaro (epidemiologa), due giovani studiosi del Centro Dondena per la ricerca sulle dinamiche sociali dell’Università Bocconi di Milano. La prospettiva di lungo periodo è il valore aggiunto di questo libro, che — senza forzature— coglie i fil rouge epidemiologici, economici e psico sociali che collegano la peste nera del 1348, di cui parla nel Decameron Giovanni Boccaccio, con l’influenza suina del 2009-10, passando per la sifilide, il colera, la grande influenza spagnola del 1918-20, e le nuove paure degli ultimi decenni (Aids, Sars e aviaria). La rilevanza culturale si coglie in alcuni stralci del capitolo conclusivo. La peste nera del 1347-49 uccise il 30-60 per cento della popolazione italiana. Se confrontate alla peste, le più terribili pandemie dei secoli successivi appaiono lievi. L’influenza spagnola uccise nel 1918-20 in Italia 300-400 mila persone, per un tasso di mortalità generale di poco superiore all’uno per cento, inferiore di almeno trenta volte a quello della peste nera. La Sars in Italia fece registrare tre casi ma nessuna vittima; per l’influenza aviaria non vi furono casi accertati nella nostra penisola; l’influenza suina— iniziata nel 2009— con 260 decessi confermati in Italia, si colloca su di un piano non confrontabile rispetto alle pandemie sopra citate. La peste favorì la nascita di autorità di sanità pubblica permanenti, e condusse alla definizione di cordoni sanitari e procedure di quarantena. Il colera ampliò il campo d’azione della sanità pubblica e ne rafforzò i poteri d’intervento in tema di igiene urbana. Nel Novecento è divenuta evidente la necessità di un coordinamento efficace non solo alla scala nazionale, ma anche a quella globale. L’istituzione nel 1948 dell’Organizzazione mondiale della sanità risponde a questa esigenza. Ma l’adeguamento istituzionale è lungi dall’essere terminato. Un nodo cruciale da sciogliere è quello del ruolo delle grandi case farmaceutiche, la cui importanza come partner della sanità pubblica cresce per tutto il Novecento, raggiungendo oggi livelli senza precedenti, senza però che siano chiare le modalità secondo cui tale partnership dovrebbe svilupparsi. L’operato dei governi, almeno in Occidente, davanti alle recenti epidemie di influenza può essere giudicato in modo sostanzialmente positivo. La cooperazione internazionale funzionò, e l’Italia — al pari degli altri Stati— fece bene a prepararsi al peggio. Infatti, dal punto di vista della gestione del rischio, non vi sono reali alternative a un’allerta anticipata e alla predisposizione di strumenti (vaccini, farmaci terapeutici, strutture ospedaliere d’emergenza) adeguati ad affrontare anche l’ipotesi meno felice. Dal punto di vista dell’informazione al pubblico, l’unica strategia seria è una comunicazione tempestiva, basata su dati scientificamente solidi, progressivamente aggiornati col procedere della pandemia, e che spieghi l’esigenza di prepararsi comunque al peggio in modo da non generare allarmismi. Lo scenario peggiore non deve essere presentato come un’apocalisse incipiente, ma come un’eventualità improbabile, di cui però è doveroso e prudente tenere conto. I governi occidentali hanno cercato di agire in questa prospettiva. La strada indicata da Alfani e Melegaro è certamente difficile da percorrere. Ma è l’unica via per affrontare i rischi di pandemia che continueranno ad accompagnare la storia dell’uomo. Perché in un mondo senza confini le nuove pandemie obbligano a sfruttare fino in fondo le grandi possibilità positive offerte dalla globalizzazione. Questo dato di fatto induce a sperare che anche oggi — come nell’Italia del Seicento, quando venne sconfitta la peste— la sfida epidemiologica possa accelerare la corsa verso una società dove le spinte alla cooperazione e all’approccio scientifico prevalgano sulle tendenze all’arrocco e all’irrazionalità collettiva.

Corriere della Sera 2.1.11
La liturgia, rifugio della fede emarginata e oppressa
di Albero Melloni


A chi chiedesse che cosa ha tenuto viva la fiammella della fede nella Russia durante i decenni sovietici dell’ateismo di Stato, o ha preservato la fisionomia spirituale dell’ortodossia nei territori conquistati dall’Islam, si potrebbe rispondere telegraficamente: la liturgia, anzi la divina liturgia. Un gigantesco archivio di teologia dei padri, di formule antichissime, di segni e di simboli che possono essere praticati in modo meccanico senza consumarsi, oppure possono alimentare una intera vita di fede con la stessa eleganza e la medesima sobrietà. Su questo patrimonio immenso si concentrano dall’Ottocento in poi anche gli occhi di quegli studiosi così speciali che sono i «liturgisti» : dotti che hanno bisogno di tutta l’erudizione del filologo e del codicologo, delle grandi biblioteche di studio, del polpastrello fine che sa sentire perché in uno scriptorium dell’VIII secolo colui che detta ai suoi copisti una preghiera— così nel post communio dell’Epifania del sacramentario gelasiano — muta una vocale e scambi affectu con effectu, convinto di raddrizzare un errore e non di mutare il corso di un testo. Oggi i liturgisti però hanno anche bisogno dei computer: si sono messi anche loro sulla scia di quel pioniere che è padre Roberto Busa, che a suon di messe per la defunta moglie convinse il patron di quella che negli anni Cinquanta era un’aziendina dal nome corto, Ibm, a fare la concordanza degli scritti di Tommaso d’Aquino prima su grandi macchine, su schede, su nastri, su dvd e ora pronta per passare su iPhone; e usando di quella scienza che è la linguistica computazionale scompongono i libri liturgici in frequenze, contesti, occorrenze, e svelano l’architettura profonda di queste fonti. Da qualche settimana due liturgisti di prima grandezza come Manlio Sodi, presidente della Pontificia accademia teologica, e Alessandro Toniolo, docente di liturgia e webmaster di liturgia. it, hanno completato l’ultimo tratto della doppia serie di volumi editi dalla Libreria editrice vaticana sulla liturgia riformata dal Concilio di Trento: ai dieci tomi dei Monumenta Liturgica Concilii Tridentini e ai Monumenta Liturgica Piana, che fornivano l’edizione anastatica dei libri pubblicati fra la fine del Concilio e il papato di Clemente VIII, aggiungono ora Liturgia Tridentina. Fontes, indices, concordantia 1568-1962 (pp. 126, € 49). Un’opera specialistica, a dir poco: impreziosita dalla riedizione di un introvabile strumento di padre Placide Bruylants, una delle figure di spicco del movimento liturgico, sulle fonti che trasmettono tutte le preghiere contenute nel messale edito da san Pio V. Ma a suo modo un’opera di severa attualità. Il vociante mondo lefebvriano cerca oggi di impossessarsi di una convinzione di Benedetto XVI. Dagli anni Settanta l’allora professor e cardinal Ratzinger sostenne che imporre il messale del Vaticano II era un errore, perché la continuità ontologica della Chiesa universale, che è al centro della sua posizione, non poteva non manifestarsi al livello della Chiesa orante. Ma egli, come tutti, sapeva bene che c’è più tradizione — tradizione orientale, mozarabica e anche latina— nel messale che Paolo VI «sostituì» a quello di Pio V, che nel suo immediato predecessore. Giacché, come documentano le analisi di Sodi e Toniolo, il messale tridentino voleva creare un linguaggio liturgico uniforme, che permettesse ai fedeli di riconoscere immediatamente la natura del culto che «ascoltavano» : e oggi la moltiplicazione dei riti «romani» pone il problema opposto. Evitare cioè che la liturgia diventi un fatto de gustibus, nel quale ciascuno si scelga la comunità, l’ambiente, la lingua, lo sfondo musicale e l’iconografia che più gli aggrada e perda il senso della liturgia come disciplina e grammatica della fede che educa e custodisce chi la ama.

Avvenire Agorà 2.1.11
Invidia, il tormento dell’impotenza
Il filosofo Salvatore Natoli scandaglia una passione bifronte: da un lato il livore conferma il detto «vizio privato, pubblica virtù», perché costringe chi ha successo, le sue «vittime», a render conto della propria fortuna. Dall’altro è forse l’unico peccato che anche quando viene soddisfatto non dà alcun piacere, nemmeno illusorio e fugace
di Salvatore Natoli


Proponiamo in queste colonne ampi stralci del saggio Invidia composto da Salvatore Natoli per il volume Una mappa dei sentimenti (Biblioteca dell’immagine, pagine 120, euro 12,00), che raccoglie anche interventi di Vincenzio Vitiello ( Amicizia), Pier Aldo Rovati ( Amore ), Carlo Sini ( Felicità), Rocco Ronchi ( Gelosia ), Aldo Giorgio Gargani ( Inquietudine ), Massimo Donà ( Odio ) e Laura Boella ( Speranza ). Natoli, docente di Filosofia teoretica presso l’università di Milano Bicocca, ha rivolto la sua attenzione alla possibilità di un’etica che sappia confrontarsi con il rapporto tra felicità e virtù e con gli aspetti della corporeità e del sacro, in una ricostruzione genealogica delle linee fondamentali del progetto moderno. Tra i suoi libri più recenti, Stare al mondo (Feltrinelli 2002), Libertà e destino nella tragedia greca (Morcelliana 2002), Il cristianesimo di un non credente (Qiqajon 2002), Parole della filosofia o dell’arte di meditare (Feltrinelli 2004), La verità in gioco. Scritti su Foucault (Feltrinelli 2005), L’attimo fuggente e la stabilità del bene (Edup 2007), La mia filosofia.
Forme del mondo e saggezza del vivere (Ets 2008), Edipo e Giobbe: contraddizione e paradosso (Morcelliana 2009), Il crollo del mondo. Apocalisse ed escatologia (Morcelliana 2009).

L’ esistenza è puntuazione di forza e come tale non solo tende a conservarsi ma riesce a conservarsi solo se è capace di espandersi. Nel contempo ogni puntuazione di forza è sempre una forza limitata. Da qui discende che il bisogno d’espansione genera insofferenza non solo nei confronti di quel che ci limita, ma anche rispetto al proprio limite. In questa dinamica risiedono le condizioni strutturali per l’impiantarsi dell’invidia. Ora, le condizioni strutturali a partire dalle quali prende avvio l’invidia sono in sé positive, e da esse si genera l’invidia, ma egualmente l’agonismo, la competizione che sono istanze di vita, sono sviluppo e crescita. In questo quadro l’invidia viene a configurarsi come un’alterazione di qualità strutturali positive e questo avviene, in genere, in tutte le passioni. A questo punto bisogna analizzare quali sono gli elementi che determinano un processo degenerativo nello svolgimento della potenza: in breve, per comprendere adeguatamente che cos’è l’invidia bisogna analizzare il contesto della sua genesi e i fattori che ne innescano la dinamica. Uno dei fattori per lo scatenarsi dell’invidia è l’impotenza sia come impotenza di fatto che come sentimento d’impotenza. L’impotenza rende impossibile o comunque difficile il giusto rapporto tra bisogno d’espansione e insofferenza del limite. L’insofferenza del limite è razionale solo in quanto è proporzionata all’effettiva capacità di espandersi. Proprio per questo la cognizione di sé è una condizione necessaria per orientare la propria crescita e per non trasformare l’insofferenza del limite in delirio di onnipotenza. C’è dunque impotenza laddove il grado della propria potenza non è sufficiente per attingere la meta del desiderio. Quel che infatti è desiderabile non è perciò stesso ottenibile. In questo caso si ha a che fare con uno stato naturale di impotenza di cui bisognerebbe prendere atto senza con ciò dover perdere la stima di sé. Se la meta è troppo alta per la propria forza vale la pena rinunciarvi e la rinuncia non è sconfitta, ma è misura, atto di ragione. Ma l’equilibrio razionale che proporziona il bisogno di sviluppo al limite non è facile da attingere e non solo perché non si è sempre nelle condizioni di valutare adeguatamente il peso della propria forza rispetto all’oggetto del desiderio, ma perché la rinuncia alla meta del desiderio è vissuta come sconfitta in confronto alla medesima meta attinta da altri. E ciò avviene perché gli uomini sono per lo più valutati per le mète che essi raggiungono e poco considerati per quello che in se stessi sono. A questo punto l’impotenza di fatto si tramuta in sentimento d’impotenza e in invidia dell’altro. L’invidia è quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, poiché è la società che decide del valore degli individui e assume come termine di valore proprio quegli individui che hanno successo. Questo accade prevalentemente nelle società contemporanee. Ogni individuo potrebbe forse accettare il proprio limite se il giudizio sociale non lo alterasse in un inevitabile confronto che, in taluni casi, se non è denigrazione, certamente viene a coincidere con l’irrilevanza. In queste condizioni il limite pesa e si fa intollerabile. Ma se l’invidia è tormento, a differenza di ogni altro vizio è un vizio che non dà piacere. Nell’invidia l’individuo logora se stesso senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio inestinguibile della distruzione dell’altro. E quand’anche l’altro fosse distrutto, la soddisfazione non sarebbe egualmente raggiunta poiché la fine dell’altra non procurerebbe in alcun modo l’accrescimento di sé. Per l’invidioso vi è delusione anche quando fosse capace di condurre a compimento la propria strategia di distruzione. L’invidioso che distrugge impoverisce il mondo senza riuscire in alcun modo a valorizzare se stesso. In una società in cui l’ineguaglianza è assunta come un dato naturale e intrasformabile, si sarà indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e perciò stesso sarà più facile tollerare il proprio limite. Non così, evidentemente, in una società in cui la diseguaglianza la si ritiene innaturale e ancor più prodotto del disordine e dell’iniquità sociale. Se si ritiene che la diseguaglianza è frutto del disordine sociale, si riescono a trovare buone ragioni per trasformare l’invidia in virtù travestendo il sentimento di distruzione dell’altro in istanza di giustizia.
Ancora una volta risulta vera la formula illuminista «vizi privati pubbliche virtù».
Tutto ciò mostra come la santità dei principi abbia nascita bassa e quanto di «umano, troppo umano» sottendano gli ideali.
Nietzsche contro Kant, anche se in taluni casi Kant torna così utile che bisogna prenderlo per vero. nella società antica la diseguaglianza tra gli uomini era un dato indiscutibile che da un lato consentiva la sottomissione, ma dall’altro favoriva l’ammirazione. Nietzsche alludeva proprio a questo secondo aspetto quando affermava che il mondo antico conosceva la capacità di venerare. La capacità di venerare, così come Nietzsche l’intende, è tutt’altro che passività e asservimento, ma scaturisce dal riconoscimento di ciò che è grande.
Ora, coloro che sono nelle condizioni di riconoscere ciò che è grande (e per questo venerano), non solo non limitano ciò che cresce ma cercano di adeguare, per quanto loro è possibile, la grandezza riconosciuta. Si capisce allora perché il riconoscimento di ciò che è grande, lungi dall’essere paralizzante, è incentivante, e assumere qualcuno a modello non significa per nulla subirne il giogo. Al contrario, solo se si elegge per sé un modello si è capaci di realizzare sé come forma. Solo chi non riconosce subisce, ed è proprio del servo identificarsi e insieme maledire. Chi riconosce la grandezza si fa diverso proprio in grazia del riconoscimento, e nella distanza cresce. La capacità di venerare resta comunque un modo possibile di concepire, e tutto ciò è magnificamente espresso da Goethe quando nel suo romanzo Le affinità elettive scrive: «Contro la grande superiorità di un altro non c’è mezzo di salvezza all’infuori dell’amore». E proprio per questo può, per converso, affermare: «Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo». Lo Stato moderno nasce all’insegna dell’eguaglianza che garantisce nel diritto e promuove nel fatto. Ora, per quanto gli uomini siano diversi in forza e ricchezza, sono comunque da ritenersi uguali quanto meno in base alla comune cittadinanza. In tale frangente non si è facilmente disposti a concedere credito agli altri e ad approvarne il successo come conseguenza del merito. Nella logica dell’eguaglianza diviene normale chiedersi: quali sono i suoi meriti perché ottenga quei benefici che io non possiedo? La prossimità favorisce l’invidia e, difficilmente, si invidia chi è troppo lontano da noi. L’invidia – si è detto – è il tormento dell’impotenza che si consuma in se stessa e che desidera costantemente la distruzione di colui che viene invidiato. In questo senso, l’invidia ha effettivamente a che fare con il non videre nel doppio significato che non sopporta la visione della gloria dell’altro, ma anche nel senso che l’altro, a cagione del suo successo, gli risulta inviso vale a dire odioso. In breve, ciò di cui non si sopporta la vista deve scomparire e deve scomparire nel senso realissimo d’essere distrutto. La tradizione metaforizza perfettamente l’invidia quando la rappresenta nella forma dell’accecamento e del livore.
Questa metafora trova poi una sua rappresentazione icastica e violenta nei versi di Dante: (Purgatorio, XIII, 67-72) In proposito vale la pena notare come l’accecamento contraddistingua propriamente l’odio e l’invidioso, poiché desidera ardentemente la distruzione dell’altro, non può non odiare. Per altro verso l’invidioso è costretto a dissimulare continuamente il suo odio poiché l’invidia è un sentimento che può solo trasparire, ma non può mai essere dichiarato. L’invidioso non può mai dare a vedere d’esserlo poiché in tal modo renderebbe pubblica ed evidente la sua inferiorità e la sofferenza che patisce per essa. L’invidioso si nasconde quanto il superbo si mostra. Eppure l’invidia è sottesa dalla superbia a tal punto da poter essere intesa come la pena pagata per essa. In breve, l’invidia altro non è che l’espiazione della superbia. E ciò spiega perfettamente perché essa è un vizio senza piacere. Tutto ciò risulta più chiaro se si tiene conto della definizione che Tommaso d’Aquino dà della superbia: la superbia è l’amore della propria eccellenza, da cui discende una smisurata presunzione di superare gli altri. Se dalla superbia si genera la presunzione di superare gli altri, risulta evidente che qualora si venga superati non ci si rassegni. In questo non rassegnarsi si consuma quel tormento che è l’invidia. Se le cose stanno in questi termini, l’invidia più che un vizio pare essere una pena. Lucifero cade per la superbia, ma si danna eternamente nell’invidia. Satana cerca il piacere nella distruzione, ma nessuna distruzione gli dà piacere: non gli resta altro che maledire e l’invidia è il suo inferno. Questo lo comprese perfettamente Dante quando per identificare la dimensione originariamente attiva del male coniò la formula «invidia prima», vale a dire potere assoluto di negare fino alla propria autonegazione. Ora, se mai una passione può essere controllata dalla ragione, all’invidioso non tocca che dissimulare, e se non vi riesce il risentimento e il malessere si leggono nel grigio e cinereo del volto. Così Dante scorge dapprima gli invidiosi: E vidi ombre con manti al colore della pietra non diversi (Purgatorio XIII, 47-48) Per altro verso se l’invidioso non è stravolto dalla passione, finisce per apprendere da essa e impara a sorvegliarsi, a conoscere il suo aspetto e le sue mutazioni; non attacca mai direttamente il successo di un altro, ma lo fa discendere da congiunture favorevoli, da circostanze esterne e in ogni caso mai dipendenti dal merito del soggetto in questione. L’invidioso è reticente, ma è pronto a gettare discredito se se ne presenta l’occasione. Ma l’invidioso non si limita a questo: al contrario, predispone il terreno per colpire favorevolmente. In questo caso, l’invidioso sa osservare ed essere paziente come è proprio di coloro che tendono agguati. Se l’invidia la si considera come vizio, e soprattutto come vizio che giunge a effetto, se la si considera non in relazione ai suoi effetti collaterali ma ai suoi tratti specifici, allora è pericolosa e può, in taluni casi, rivelarsi devastante. In ogni caso l’invidia, in quanto costitutivamente distruttiva, rende impossibile l’abbandono nell’amore e l’anticipazione del dono. Si aggiunga, inoltre, che l’invidia, in quanto è in sé reattiva, può incentivare la capacità di organizzazione, ma certamente impedisce il libero gioco della creazione, non sa ideare modelli di grandezza perché fondamentalmente la misconosce.
L’invidia, in quanto tende a sminuire, non sa godere di ciò che riesce.
A questo punto vale la pena ricordare quella parabola del Vangelo di Matteo in cui si narra di quei vignaioli della prima ora che si lamentano con il padrone del campo perché sono stati pagati allo stesso prezzo di quelli giunti all’ultima ora. A uno di essi il padrone risponde: «Voglio dare anche a quest’ultimo quanto ho dato a te. O non mi è permesso di fare quello che voglio della mia roba? O il tuo occhio è invidioso perché io sono buono?» (Matteo 20, 14-15). Bisogna allontanare da noi ogni invidia non foss’altro per l’egoistica ragione di poter fruire dei benefici comuni che quel che è buono ed eccellente di per sé dispensa. Chi ha risentimento non solo non possiede la virtù che dona, ma si impedisce di beneficiare dei doni della virtù. In tutto ciò che riesce vi è sempre qualcosa di eccedente e di gratuito e, a suo modo, d’imponderabile. In fondo non bisogna dimenticare che ogni bellezza è grazia e se qualcuno si avvantaggia sugli altri senza che ciò divenga ragione per privare gli altri di quel che a essi conviene, ciò non può che ridondare a beneficio di tutti.
Per l’invidioso vi è delusione anche quando fosse capace di condurre a compimento la propria strategia di distruzione. In essa l’individuo si logora senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio inestinguibile della cancellazione dell’altro.
Quand’anche l’intento riuscisse, poi, la soddisfazione non sarebbe egualmente raggiunta poiché la fine dell’altro non procurerebbe alcun accrescimento di sé.
E come a li orbi non approda il sole così all’ombre quivi, ond’io parlo ora, luce del ciel di sé largir non volo; ché a tutti un fil di ferro i cigli fora e cuce sì, come a sparviero selvaggio si fa però che queto non dimora

Agi 1.1.11
Pd: Orfini traccia la road map “progetto alleanza, primarie


(AGI) - Roma, 1 gen. - Prima il progetto alternativo riformista e laico al modello berlusconiano che aggredisce i saperi e la conoscenza e mette in discussione i diritti acquisiti; poi la coalizione che lo condivide e lo porta avanti; quindi la scelta del Premier che lo realizzi attraverso le Primarie che sono la tappa conclusiva di un percorso e non sono riducibili alle sole aspirazioni individuali di Nichi Vendola. E' la road map che il responsabile della Cultura e Informazione del Pd, Matteo Orfini disegna per far uscire il partito dalla palude. Orfini ritiene "centrale l'idea di Paese che ci si propone: e' su questo progetto alternativo - spiega all'agi - che il Pd, il maggior partito di opposizione, e' aperto e disponibile al confronto con tutti". Un Pd che in teoria "avrebbe diritto a tutto ma che - osserva Orfini - si apre generosamente al confronto con tutti, per cui chiediamo agli altri altrettanta generosita'". Confronto aperto a tutti, anche ai Radicali? "Quella delle Regionali - rimarca Orfini - con la candidatura della 'fuoriclasse' Emma Bonino, e' stata una campagna elettorale stupenda che ci ha ben tenuti in campo: un'esperienza straordinaria". Orfini ricorda il 54,18% di voti riportato a Roma dalla Bonino, in condizioni peraltro eccezionali. "E' stato un grande risultato - rimarca - Abbiamo bisogno di laicita', ne ha bisogno il Paese per primo. E poi non si dimentichi che i Radicali sono stati eletti (politiche 2008) nelle liste del Pd: il comportamento tenuto di recente il 14 dicembre sulla sfiducia al Governo e' stato positivo ". Assi portanti del progetto alternativo sono laicita' e riforme. "Il Paese ha bisogno di un altro nuovo modello culturale che renda disponibili, da una parte, saperi e conoscenza oggi negati da Tremonti con i tagli a universita', scuola e ricerca e, dall'altra, diritti e tutele del lavoro gia' acquisiti che sono messi in discussione dall'inaccettabile disegno di Marchionne alla Fiat", aggiunge Orfini. "C'e' un clima pesante di aggressione alla cultura che e' una leva importante dello sviluppo del Paese - spiega Orfini - ridotta da Tremonti a semplice optional: e di fronte a tale disegno aggressivo fatto di tagli, di cui Brunetta e' il teorico, Bondi non si e' opposto e si ha un settore in grossa sofferenza". In questo clima pesante si inserisce la vertenza Fiat. "Si tratta di questioni e materie diverse eppure registriamo - prosegue Orfini - un attacco ai diritti e alle tutele sul lavoro gia' acquisiti: e' improponibile un modello fatto soltanto di produttivita' e competitivita' che riduce drasticamente il valore del lavoro, il modo di lavorare, il fattore umano e la qualita' della vita: noi pensiamo invece che e' possibile un modello che coniuga e tiene assieme ricchezza e valorizzazione del lavoro, diritti e sviluppo". Si tratta di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze dell'impresa, la competitivita' e produttivita' e quelle del mondo del lavoro. "Il Pd ha al suo interno culture diverse che hanno solide radici e un approdo al riformismo - conclude Orfini - Con luci ed ombre in passato queste diverse culture hanno dato vita a stagioni importanti di riforme per il Paese: la nostra idea di societa' e' dentro questa cultura riformista, laica e libertaria". (AGI) Pat