lunedì 3 gennaio 2011

Corriere della Sera 3.1.11
Le primarie fanno male al Pd
di Giovanni Sartori


Sono le primarie, ben più che le preferenze, a dare voce e peso effettivo all’elettorato nella scelta dei candidati. Inoltre la sinistra italiana soffre oggi di mancanza di idee, di nuove «idee di sinistra» . E le primarie diventano una idea di sinistra, visto che Berlusconi ha una concezione padronale del suo partito, e visto, quindi, che per lui le primarie sono inaccettabili. Ciò detto, non è detto che le primarie funzionino sempre come dovrebbero. Un primo rischio è che le primarie «estremizzino» la scelta dei candidati. È così, o può essere così, perché chi va a votare nelle primarie è di solito più coinvolto nella politica, e quindi più «intenso» , più appassionato dell’elettore medio, dell’elettore normale. In tal caso il candidato scelto dalle primarie è un candidato sbagliato, un candidato perdente. Se, per esempio, Vendola trionfasse nelle primarie della sinistra, la mia previsione è che per il Pd sarebbe una catastrofe. Un secondo rischio è che le primarie producano, all’interno del partito che le adotta, un forte frazionismo. Per vincere nelle primarie i pretendenti debbono avere una propria organizzazione elettorale interna. La prima volta, o per un paio di volte, le primarie possono essere salutari: immettono aria fresca, svecchiano un partito troppo ingessato e intorpidito. Ma poi la frammentazione in correnti, oggi variamente travestite da «fondazioni» , centri studio e simili, diventa inevitabile. Negli Stati Uniti non è così perché lì i partiti sono deboli, non scelgono i candidati ma, piuttosto, sono scelti dai candidati. Inoltre negli Stati Uniti i soldi (elettorali) saltano il partito e vanno direttamente a chi scende in campo. In Italia, invece, i soldi per i partiti vanno ai partiti. E questa differenza fa molta differenza. Infine, una stranezza (forse). A lume di logica i partiti con primarie dovrebbero piacere agli elettori più dei partiti senza primarie. Ma in Italia non è così. Agli elettori di Berlusconi sembra (dai sondaggi) che delle primarie non importi un fico.

Repubblica 3.1.11
Dopo le primarie c´è ancora il Pd?
Ma tra gli elettori di sinistra solo un terzo le giudica indispensabili
di Ilvo Diamanti


L´utilizzo nel Pd è stato à la carte: sì per Veltroni e Bersani, ma non Franceschini
D´Alema e Letta tentarono di bloccarle in Puglia, ma rafforzarono Vendola
Parisi le definì "il mito fondativo" dell´Ulivo: in 4 milioni scelsero Prodi

Da qualche tempo, nel Pd, la passione per le primarie sembra in declino. Nel gruppo dirigente, perlomeno. Lo stesso Bersani, di recente, ne ha messo in dubbio il ricorso in caso di alleanza con il Terzo Polo (di Centro). Al quale le primarie - per usare un eufemismo - non piacciono. D´altronde, l´atteggiamento verso le primarie è sempre stato contraddittorio. Basti pensare al caso della Puglia, in vista delle Regionali di un anno fa, quando alcuni dirigenti del Pd (D´Alema e Letta, in particolare) tentarono di bloccarle. Per impedire la ricandidatura di Vendola.
Senza esito. Anzi, con l´effetto opposto: rafforzare Vendola. Trionfatore delle primarie e ri-eletto Governatore. Tuttavia, non solo in Puglia, ma anche altrove, per esempio a Firenze e, di recente, a Milano, si sono imposti candidati diversi da quelli indicati dal Pd. Da ciò la crescente insofferenza dei suoi dirigenti verso le primarie. Con l´argomento che mobilitano soprattutto i "militanti". E, in questo modo, favoriscono la scelta di candidati maggiormente caratterizzati. Ma, per lo stesso motivo, meno rappresentativi degli orientamenti degli elettori. Soprattutto, di quelli più moderati.
In effetti, il dibattito sulle primarie è rivelatore di una questione più ampia. Che riguarda, direttamente, l´identità e il progetto del Centrosinistra in Italia. Oltre che del Pd, che ne costituisce il riferimento. Le primarie, infatti, non hanno un significato semplicemente "tecnico". Assumono, invece, una grande importanza simbolica. Arturo Parisi, che (accanto a Prodi) ne è stato - se non il primo - uno dei primi sostenitori, le ha definite il "mito fondativo" dell´Ulivo. Soggetto politico a vocazione maggioritaria, destinato ad accogliere le istanze e le componenti più diverse del Centrosinistra. In altri termini: il modello dell´Unione, sperimentato alle elezioni del 2006. In vista delle quali si svolsero le primarie, nell´autunno del 2005, che designarono Romano Prodi candidato premier. Si trattò, in effetti, di una investitura. A cui, tuttavia, parteciparono oltre 4 milioni e 300 mila elettori - dei diversi partiti della coalizione. Non solo l´Ulivo, ma anche l´IdV, l´Udeur, i Verdi. Segno di una domanda effettiva e particolarmente ampia nel Centrosinistra. Si tratta, peraltro, dell´unica occasione in cui le primarie siano state utilizzate, in ambito nazionale, per il loro fine naturale (come rammenta spesso Gianfranco Pasquino). Cioè: selezionare il candidato a una carica monocratica. In questo caso: il Presidente del Consiglio. Successivamente, nel 2007 e nel 2009, hanno, invece, funzionato da surrogato - o da complemento - ai congressi di partito. Mediante cui eleggere i segretari - e gli organismi - del Pd. Che, nel frattempo, aveva sostituito l´Ulivo. Seguendo il modello americano del bipartitismo. Non più Unione, ma Partito Unico dei riformisti. Nell´autunno del 2009, in particolare, l´elezione del segretario e degli organismi avvenne attraverso un percorso complesso. Prima i Congressi - a livello di circolo e di provincia - riservati agli iscritti, con il compito di eleggere la Convenzione (e l´Assemblea nazionale). Poi le primarie, aperte agli elettori (dichiarati). Poi ancora l´Assemblea, a ratificare la scelta delle primarie. Un collage di modelli organizzativi, che riassume - ed enfatizza - l´incertezza progettuale alla base del Pd. In bilico fra "partito di massa" - dunque di "iscritti" - radicato a livello territoriale. E "partito di elettori", in formato maggioritario e americano. Fondato sulle primarie. Un equivoco mai risolto. Che riemerge di continuo. E oggi diventa difficile da eludere e da rinviare. Anche perché coinvolge gli stessi elettori. I cui orientamenti riflettono la medesima incertezza dei gruppi dirigenti. Come emerge dal sondaggio di Demos (condotto nelle scorse settimane), la maggioranza degli elettori di Centrosinistra continua a ritenere utili le primarie per scegliere i candidati Premier, Sindaci, Governatori e Parlamentari. Ma coloro che vorrebbero utilizzare questa procedura "sempre" - e in ogni occasione - costituiscono comunque una minoranza, per quanto ampia: il 30%. Questa posizione, peraltro, è espressa dal 42% degli elettori di Sel, ma da poco più di un quarto di quelli del Pd e dell´Idv. Per contro, è vero che solo una quota limitata (intorno al 20%) rifiuta le primarie "a prescindere". Tuttavia, fra gli elettori appare evidente un certo grado di confusione. Sulle primarie, sul partito, sul Centrosinistra.
Sulle primarie. Perché, fino ad oggi, sono state utilizzate "à la carte". Per eleggere i candidati alle cariche di governo - centrale e locale. Vi si è fatto ricorso per designare Prodi ma non Veltroni. Né, a Roma, per candidare Rutelli. Per eleggere gli organismi e i segretari di partito: Veltroni e Bersani, ma non Franceschini.
Sul partito. Sul Pd. I suoi segretari, i suoi organismi, la sua identità. La sua memoria. Hanno tratto legittimazione dalle primarie. Senza che, peraltro, questa procedura venisse regolata e istituzionalizzata.
Sul Centrosinistra. Di cui le primarie hanno definito gli incerti confini. In modo estensivo, nel 2006. Da Mastella fino a Bertinotti. In modo selettivo, nel 2007. Quando Veltroni ne ha riassunto il perimetro intorno all´asse Pd-Idv.
Oggi, nel gruppo dirigente del Pd tutti questi dubbi restano. Irrisolti. E si ripercuotono, evidenti, sulle intese e sulla leadership. Ma con le elezioni che continuano a incombere è meglio scioglierli. Presto. Bersani e il gruppo dirigente del Pd: decidano. Quali intese e quali candidati. E quale metodo di coinvolgimento della base. In altre parole: quale modello di partito. Ma senza reticenze. Le primarie non sono una religione. Restano, tuttavia, il "mito fondativo". Dell´Ulivo, del Pd. Non ultimo: sono la procedura attraverso cui è avvenuta l´elezione di Bersani e degli organi dirigenti del partito. Il rito che garantisce loro legittimazione. Discuterle è utile, perfino necessario. Consapevoli, però, che, nello stesso momento, si rimettono in discussione la leadership e il modello di partito. E anche questo mi pare utile, perfino necessario.

l’Unità 3.1.11
Anche Cofferati d’accordo con i metalmeccanici: «Firma impossibile innanzitutto per lo Statuto»
Il Lingotto all’esame di Piazza Affari dopo lo spin-off, quotate due azioni al posto del vecchio titolo
Cgil con la Fiom: no all’accordo La nuova Fiat debutta in Borsa
Il nuovo assetto del Lingotto, con lo spin-off fra Fiat Industrial e Fiat Spa, viene sottoposto al primo giudizio della Borsa. Intanto, sull’intesa per Mirafiori interviene l’ex segretario Cgil, Cofferati: «Sì impossibile».
di Marco Ventimiglia


Quest’oggi il nuovo assetto azionario della Fiat vivrà il battesimo del fuoco in Piazza Affari, ma non accenna ad allentarsi la tensione sul nuovo modello di rapporti fra azienda e sindacato che il Lingotto sta introducendo nel nostro Paese fra plausi del governo, silenzi imbarazzati e l’aperta contrarietà della Fiom. Ieri quest’ultima ha incassato per bocca di Susanna Camusso l’appoggio della Cgil sul no all’accordo per Mirafiori, un fatto che fino a poco tempo fa sarebbe parso scontato, visto che l’organismo dei metalmeccanici è parte integrante e fondante di Corso Italia, ma che adesso non lo è più considerate le polemiche interne provocate proprio dalla vicenda Fiat. La stessa Camusso ha però sottolineato la necessità di accettare l’esito del referendum sull’accordo, mentre sull’argomento si è anche espresso un suo predecessore, Sergio Cofferati. «A rendere impossibile la firma dell'intesa su Mirafiori da parte della Fiom ha dichiarato l’ex segretario della Cgil -, ancor prima del giudizio negativo espresso dagli organismi direttivi del sindacato dei meccanici sul testo conclusivo presentato dalla Fiat, sono i decisivi vincoli statutari». Cofferati ha quindi spiegato che «il protocollo attuativo dello statuto della Cgil numero 4 (ripreso poi nello statuto della Fiom, ndr) non casualmente intitolato “Democrazia nella solidarietà”, vieta alle organizzazioni della Confederazione di presentare piattaforme o di firmare accordi che contengano lesioni dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori sanciti dalle leggi e dai contratti».
NO ALL’ASSENSO
Da qui la conseguenza che «una firma Fiom al testo di Mirafiori, come a quello di Pomigliano, non è possibile, pena una gravissima lesione statutaria. La discussione sulla firma dell' accordo ha concluso Cofferati -, prima o dopo il referendum, appare semplicemente surreale».
Di contro, all’interno della Fiom si è sentita la voce del leader della minoranza interna, Fausto Durante, per il quale se vincesse il sì al referendum il sindacato dovrebbe comunque «mettere la firma tecnica sull'accordo per difendere i diritti dei lavoratori dentro la fabbrica, non fuori, come vuole la Fiat». Lo stesso Durante si dice però convinto che una bocciatura dell’accordo sia possibile: «In quel caso Marchionne sarebbe costretto a confrontarsi nuovamente con tutti i sindacati, perché se non lo facesse si avrebbe la dimostrazione che intende ricattare l'Italia». Sulla stessa linea Cesare Damiano, capogruppo Pd in Commissione Lavoro alla Camera: «La firma va messa, non farlo sarebbe controproducente».
Intanto, come detto, oggi c’è il debutto per la Fiat dello spin off: In Piazza Affari, alla presenza di Marchionne, verranno trattati due titoli distinti, Fiat Industrial e Fiat Spa. E chi detiene azioni “ex-Fiat” avrà entrambi i titoli: per ogni azione Fiat, infatti, riceverà anche un'azione Fiat Industrial. L’attenzione per l’andamento odierno è alta, poiché sottende il giudizio dei mercati per tutte le recenti e spesso contestate operazioni messe in atto da Marchionne.

l’Unità 3.1.11
Susanna Camusso: «Ma il risultato del referendum andrà accettato»
«I lavoratori dovrebbero votare no all’accordo per Mirafiori, ma alla fine l’esito del referendum andrà accettato»: Susanna Camusso ribadisce la posizione della Cgil e si mostra preoccupata per le trattative future.
di M. T.


«Se si è teorizzato che il referendum è sempre lo strumento di accertamento della volontà dei lavoratori allora bisognerà prendere atto del risultato anche questa volta e rispettare il voto, anche se vince il sì»: ad affermarlo è stata Susanna Camusso in un’intervista rilasciata ieri al “Corriere della Sera”. Il segretario generale della Cgil ha comunque ribadito «il giudizio negativo sull'accordo di Mirafiori, che i lavoratori dovrebbero bocciare perché tocca materie indisponibili, come il diritto di sciopero o l'esclusione di un sindacato».
Per il leader di Corso Italia i lavoratori «hanno di fronte una scelta difficile perché il referendum è stato presentato in definitiva come una scelta per il posto del lavoro. Ma l'accordo è sbagliato e il modello Marchionne rappresenta una privazione rispetto agli attuali due livelli contrattuali, nazionale e integrativo, e non va bene per un sistema produttivo frammentato come il nostro». Il ministro Sacconi, poi, «è stato complice dell'impresa invece che arbitro della trattativa».
Per il segretario della Cgil, però sbaglia anche la Fiom quando parla di “Marchionne fascista” e “operai schiavi”: «La Fiom alle volte esagera a interpretare se stessa come avanguardia. E invece non dobbiamo mai dimenticare che siamo un sindacato e che non possiamo esorcizzare le paure dei lavoratori semplicemente lanciando la palla più in avanti». Susanna Camusso ha comunque sottolineato che «non abbiamo certo bisogno di essere presi dalla frenesia scissionista che tanti problemi ha creato alla sinistra politica». Quanto al futuro, «ora è complicato anche pensare di sedersi di nuovo al “tavolo per la crescita” per fare un confronto con qualcuno che pensa che la Cgil debba sparire. Vogliamo capire di questo disegno che cosa ne pensano Confindustria, Cisl e Uil».

Corriere della Sera 3.1.11
La Cgil e il «no» della Fiom: su Mirafiori non cediamo
La tentazione della scissione. Airaudo: ora un chiarimento
di Enrico Marro


ROMA— Il 3 novembre scorso, durante il comitato direttivo che elesse Susanna Camusso segretario generale della Cgil, Giorgio Cremaschi passeggiava nervosamente nei corridoi dell’Auditorium di via dei Frentani, aspettando il risultato. E al cronista che gli chiedeva «Camusso sarà meglio o peggio di Epifani?» rispose senza esitazioni: «Peggio» . Perché? «Perché Epifani era equilibrato o, come scrivete voi, un po’ ondivago, nel senso che alcune volte è stato con la Fiom e altre contro. La Camusso no, ce l’avremo sempre contro» . Forse il leader della sinistra dei metalmeccanici aveva visto giusto, perché alla prima occasione importante, la vertenza Fiat, il leader della Cgil ha detto chiaramente che la Fiom ha subito una sconfitta e che deve riflettere sulla propria linea, cominciando a cambiare atteggiamento sul referendum al quale i dipendenti delle carrozzerie di Mirafiori saranno chiamati tra un paio di settimane per esprimere il loro giudizio sull’accordo tra la Fiat e i sindacati, quello che Fiom non ha firmato. E lo ha fatto con l’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera che ha scosso la vita interna della confederazione e della Fiom, da troppo tempo abituate a un dibattito dove spesso ipocrite formule sindacalesi hanno coperto posizioni tra loro inconciliabili. E in questo caso la posizione della Camusso è completamente diversa da quella presa pochi giorni fa dal comitato centrale della Fiom, che ritiene illegittimo il referendum e quindi non terrà conto del risultato e resterà fuori dalla fabbrica e dalle rappresentanze sindacali che l’accordo riserva ai soli firmatari dell’intesa. Camusso, invece, invita a votare no, ma dice che se vincerà il sì (come molti prevedono) la Fiom dovrà prendere atto del risultato e cercare un modo (una firma con riserva o altro) per rientrare in partita e in azienda. Al momento non si vede come le due posizioni si possano incontrare, visto che il segretario della Fiom, Maurizio Landini, ha già detto che lui non firmerà mai l’accordo di Mirafiori. Gli stessi Landini e Cremaschi ieri si sono consultati e hanno deciso che risponderanno oggi all’intervista della Camusso. L’altro dirigente di spicco della Fiom, Giorgio Airaudo, segretario responsabile per l’auto, esce invece allo scoperto ed esprime preoccupazione per lo scontro in atto e sollecita «una riunione tra la segreteria della confederazione e quella della Fiom per discutere una situazione obiettivamente difficile» . A complicare la partita interna alla Cgil ci si mettono anche le interferenze della politica. Mentre molti dirigenti del Pd sono critici verso la Fiom l’europarlamentare Pd, e soprattutto ex leader della stessa Cgil, Sergio Cofferati, ieri è intervenuto definendo «surreale» la richiesta a Landini di firmare l’accordo di Mirafiori. Non solo perché i suoi contenuti sono negativi, dice Cofferati, ma anche per un vincolo dello statuto della Cgil che vieta di «firmare intese che contengano lesioni dei diritti dei lavoratori» . E l’intesa Fiat li contiene, secondo Cofferati (si tratta delle sanzioni sugli scioperi in violazione degli impegni di produttività e sui tassi anomali di assenteismo per malattia). L’uscita di Cofferati, che in Cgil ha provocato la secca reazione di Agostino Megale («l’unica cosa surreale è che Cofferati dica alla Cgil che cosa dovrebbe o non dovrebbe fare» ), ha comunque un certo peso, anche perché l’ex segretario della Cgil ha dato appena vita insieme con Fausto Bertinotti e altri politici e intellettuali all’associazione «Lavoro e libertà» a sostegno della Fiom. Sostegno che si affianca a quello che la Fiom riceve da Nichi Vendola, leader di Sel, alla quale è iscritto lo stesso Landini, e da Antonio Di Pietro, capo dell’Italia dei valori. Insomma, la situazione è complessa, anche dal punto di vista politico, per gli equilibri interni alla Cgil. Nei giorni scorsi le leader della Funzione pubblica e dei pensionati, Rossana Dettori (anche lei di Sel) e Carla Cantone, hanno preso esplicitamente posizione a favore della Fiom. Susanna Camusso si trova davanti a un passaggio difficile. Portare fino in fondo il chiarimento con la Fiom vuol dire fare i conti con l’unica categoria della Cgil dove è la sinistra massimalista (minoritaria nella confederazione) a comandare mentre la maggioranza congressuale della Cgil non pesa più del 27%. E vuol dire fare i conti con una categoria che con Landini teorizza ancora «l’indipendenza» della Fiom. Che significa? Che andando fino in fondo c’è la scissione a sinistra della Cgil? «Ma no — assicura Airaudo —. L’indipendenza della Fiom è dal governo e dalle imprese, non dalla Cgil. Sfido chiunque a trovare un dirigente nella Fiom che prenda in considerazione la scissione. E aggiungo che perché un’ipotesi del genere fosse possibile, la Cgil dovrebbe diventare un’altra cosa» . Anche Camusso pare concordare. «Non abbiamo bisogno di frenesie scissioniste» , ha detto nell’intervista al Corriere. Nelle prossime settimane si capirà se il nuovo segretario della Cgil ha la forza per affermare anche sui ribelli della Fiom la propria leadership oppure se saranno ancora le formule ipocrite a prevalere.

Corriere della Sera 3.1.11
Mirafiori e la Fiom, proposta sul caso Fiat
di Dario Di Vico


Passata la prima ondata di commenti sull’intesa raggiunta tra la Fiat e quattro dei sindacati presenti a Mirafiori (Cisl, Uil, Ugl e Fismic), vale la pena di ragionare più in profondità sulle conseguenze di un accordo definito «storico» . E che però, a giudizio di molti, presenta un grave difetto: distorce i meccanismi della rappresentanza perché esclude un sindacato, la Fiom, che pure ha largo seguito in quella fabbrica.
Siccome la rappresentanza è sorella della democrazia non è peregrino chiedersi come sia possibile eliminarlo, quel difetto, senza cambiare la sostanza. Ovvero portando a casa il mega-investimento su Mirafiori destinato a rilanciare la Grande Fabbrica con la produzione di modelli di vetture a maggior valore aggiunto. È paradossale ma l’esclusione della Fiom si basa giuridicamente sullo Statuto dei lavoratori, la mitica legge 300 del ministro Giacomo Brodolini e di Gino Giugni, giudicata da tutte le sinistre operaiste e antagoniste una sorta di linea Maginot contro il capitalismo selvaggio. L’esempio più noto è quello dell’articolo 18 della stessa legge, articolo che rende impossibili i licenziamenti individuali nelle aziende sopra i 15 dipendenti. A tagliare fuori la Fiom però è l’articolo 19 che riconosce il diritto di rappresentanza alle sole sigle sindacali presenti in fabbrica che abbiano però sottoscritto gli accordi aziendali. Pochi lo ricordano ma l’articolo 19 è stato modificato per effetto del referendum radicale del ’ 95 sulle buste paga dei lavoratori e proprio questa modifica risulta oggi taglia-Fiom. Come verranno individuati i nuovi rappresentanti sindacali di Mirafiori? Il «contratto di Mirafiori» voluto da Sergio Marchionne prevede la designazione da parte delle cinque organizzazioni firmatarie con il criterio di 15 membri ciascuno. Non saranno quindi i lavoratori Fiat a scegliere i loro rappresentanti, ma Cisl, Uil, Ugl, Fismic e l’Associazione Quadri e Dirigenti a nominarli. Un po’ come avviene in politica oggi con il Porcellum. Ma siamo sicuri che sia corretto (oltre che lungimirante) seguire questa strada? L’articolo 19 in verità quando parla delle rappresentanze sindacali aziendali dice che possono essere costituite «ad iniziativa dei lavoratori» (e non degli iscritti ai sindacati) e quindi si presta a diverse interpretazioni. E soprattutto lascia aperta la porta a una vera scelta dal basso dei delegati e non a una designazione dall’alto. Quando si parla di rappresentanza questi non sono dettagli ma la vera sostanza. Come si può, dunque, riuscire a salvare l’accordo e tener conto della reale presenza Fiom in fabbrica? Un link c’è e potrebbe passare attraverso un’azione combinata tra Torino e Roma. Nella città della Mole si va al referendum di Mirafiori e vincono i sì. Nel frattempo in sede nazionale la Confindustria negozia con Cisl, Uil e Cgil un accordo interconfederale sulle regole della rappresentanza. L’accordo oltre a disciplinare i meccanismi per l’elezione delle Rsu dovrebbe prevedere alcuni principi che diano alle aziende la certezza dell’applicazione delle intese raggiunte. Ad esempio dovrebbe sancire che le organizzazioni confederali e i loro sindacati di categoria non possono disconoscere accordi che: a) siano stati approvati da una coalizione di sindacati che rappresenti la maggioranza dei lavoratori; b) siano stati sottoposti eventualmente a un referendum in fabbrica. In questo modo si costringerebbe la Fiom a misurarsi con una metodologia democratica di convalida degli accordi difficilmente contestabile e allo stesso tempo però i metalmeccanici della Cgil non resterebbero esclusi pregiudizialmente dall’elezione (dal basso) dei delegati. Più consenso, meno ingovernabilità.

Corriere della Sera 3.1.11
Il conflitto sommerso che divide genitori e figli
di Giovanni Belardelli


Conclusosi il primo decennio del XXI secolo, è ancora presente nella nostra società, e vi giuoca un ruolo ancora da protagonista, il conflitto sociale, almeno nelle forme che lo hanno caratterizzato nel secolo scorso? Come è sotto gli occhi di tutti, la vicenda Fiat mostra l’assenza delle vecchie forme di lotta operaia, la scomparsa quasi completa delle modalità di scontro sociale che avevano caratterizzato l’Italia novecentesca. Il vecchio tipo di conflitto tra azienda e sindacati (un tempo si sarebbe detto tra padrone e operai) sembra aver qui lasciato il posto a uno scontro che quasi raggiunge i toni più aspri entro lo stesso schieramento sindacale. Contemporaneamente, la vicenda Fiat mostra l’assenza di un’altra caratteristica del conflitto sociale novecentesco: quel conflitto, a lungo costitutivo dell’identità dei partiti socialisti e comunisti in quanto partiti «operai» , non trova più una sponda e una rappresentanza politica nel principale partito della sinistra, il Pd, che piuttosto riproduce dentro di sé tutte le posizioni di tutti gli attori in campo, da Marchionne alla Fiom. Forse sono allora gli studenti, che nei mesi scorsi si sono mobilitati contro la riforma Gelmini, a riproporre oggi le vecchie forme del conflitto sociale, compresi purtroppo— come è stato nel caso degli scontri romani — certi suoi caratteri violenti. È possibile che quelle agitazioni prima o poi riprendano. Sembra però difficile che possano costituire il centro di nuove e durature esplosioni di conflitto. Sia per il non eccessivo numero degli studenti coinvolti sia perché l’opposizione in questo caso non è andata oltre un sostegno di notevole visibilità mediatica (con le famose salite sui tetti di Bersani, Di Pietro e altri) ma tutto sommato limitato. Benché i giornali molto si occupino (a ragione) della vertenza Fiat, benché molto si siano occupati (a ragione) del movimento anti-Gelmini, credo che in realtà il principale conflitto sociale di questi e dei prossimi anni non veda come protagonisti né gli operai né gli studenti. E che quel conflitto tenda però a restare nascosto, anche perché le vecchie categorie del 900 non consentono di dare ad esso piena espressione. Si tratta del conflitto, sommerso ma sempre più centrale, tra le vecchie e le nuove generazioni, tra i figli del boom economico del dopoguerra (italiano e non solo), e i ragazzi e le ragazze — spesso gli uomini e le donne, ormai— che i baby boomer hanno generato. Non si tratta del tradizionale conflitto generazionale che ha dominato tanta parte del 900 e, prima ancora, dell’ 800 (cosa fu il romanticismo se non, in larga parte, una ribellione giovanile?). I tradizionali conflitti tra generazioni erano anzitutto conflitti in senso lato culturali, di modelli di vita, valori, costumi. Non a caso i giovani ribelli, crescendo, finivano con l’avere spesso una vita lavorativa (e non solo) simile a quella dei genitori. È questo che ora viene meno, appunto perché il nuovo conflitto generazionale investe non tanto un dato di cultura e di costume, quanto la differenza di condizioni economico sociali tra tanti genitori cresciuti nell’età del benessere, e dunque del welfare generoso che non ci possiamo più permettere, e i loro figli. Questa differenza nelle prospettive di vita, per cui le nuove generazioni, per la prima volta da molto tempo, debbono attendersi un futuro peggiore della generazione che le ha precedute, non è certo un fenomeno solo italiano: basti pensare a quanto è legato alla globalizzazione dell’economia e dunque di un mercato del lavoro che sempre più vedrà, che so, i nostri ingegneri competere non solo con i laureati dell’intera Unione Europea, ma con le schiere inesauribili dei colleghi cinesi o indiani. Ma quel fenomeno generale ha anche una forte specificità italiana per il fatto che è in Italia, come forse in nessun altro Paese occidentale, che il benessere dei padri si è realizzato anche attraverso un gigantesco debito pubblico messo in conto alle nuove generazioni, cioè ai propri figli. Quello tra genitori garantiti e figli precari è però un conflitto che per molte ragioni resta inesprimibile. È nascosto proprio dal fatto che molti giovani riescono oggi a sopportare il peso di un’esistenza precaria (basso reddito, insicurezza del posto di lavoro, impossibilità di ottenere un mutuo, ecc.) grazie ai privilegi grandi e piccoli dei loro genitori (posto fisso, pensioni più generose, secondi lavori di chi si è ritirato ben prima dei sessant’anni, pensioni di invalidità più o meno regolari). È probabilmente proprio questo fatto che nasconde come in realtà siano stati e siano tanti genitori a sfruttare, involontariamente ma sostanzialmente, i loro figli. Come spesso siano proprio loro, verrebbe da dire col linguaggio dell’altro secolo, i nuovi «padroni».

Repubblica 3.1.11
Giuseppe Farina (Fim): parti dell´accordo non vanno bene, miglioriamolo in Federmeccanica
"Se Fiom firma l´intesa la Cisl non metterà veti"
Non è giusto escludere dalle fabbriche chi dissente da un testo. Molto meglio la soluzione del ´93 che apriva ai sindacati forti del 5 per cento delle adesioni
di Paolo Griseri


TORINO - Se la Fiom decidesse di firmare l´accordo di Mirafiori dopo il referendum di metà gennaio, «la Fim non si opporrebbe». Giuseppe Farina, segretario generale del metalmeccanici Cisl, è uno dei soggetti che può impedire alla Fiom di rientrare in gioco, in caso di vittoria dei sì nella consultazione di Torino. In base all´intesa l´adesione di nuove sigle è subordinata all´assenso degli attuali firmatari.
Se Fiom mettesse una firma tecnica in calce all´accordo, la Fim darebbe il suo assenso?
«Saremmo favorevoli».
Anche con una firma tecnica?
«Firma tecnica? Dovremo metterci d´accordo sul significato».
Una firma messa prendendo atto dell´eventuale sconfitta nel referendum. Accettereste?
«Alle firme tecniche non credo. Credo alle firme. Se una organizzazione come la Fiom firma un testo, si impegna e quel testo lo rispetta».
Dopo i giudizi espressi sull´accordo, la Fiom può rientrare?
«Ci sono punti che anche noi avremmo preferito modificare. Se dovessi firmare solo gli accordi che mi piacciono, non farei il sindacalista».
La Fiom ha sostenuto che ci sono parti dell´intesa che violano le leggi e il diritto di sciopero?
«Non è la nostra interpretazione dei punti controversi, come la famosa clausola di responsabilità. E la stessa Fiat ha smentito che quella clausola riduca i diritti. Se vogliamo una scrittura migliore di quel testo, possiamo sfruttare il tavolo aperto in Federmeccanica e recuperare, nel nuovo contratto che si sta scrivendo, una formulazione più nitida».
E´ giusto che un accordo escluda dal diritto di avere rappresentanti in fabbrica le organizzazioni dissenzienti?
«Non è giusto. Molto meglio il testo dell´accordo del ´93 tra le confederazioni e Confindustria. Quello che concede il diritto a essere rappresentati a tutti i sindacati che raccolgano il 5% delle firme in fabbrica. Ricordo, per inciso, che quando fu firmato quel testo, ormai 17 anni fa, la Fiom non lo firmò come non ha firmato molti altri testi».
E´ per non applicare quell´articolo che la Fiat ha fatto uscire le newco da Confindustria…
«Non credo sia solo per quello. In ogni caso il tavolo di Federmeccanica serve anche a recuperare il diritto di rappresentanza per chi non firma gli accordi. Con una precisazione importante».
Quale?
«Che dobbiamo garantire il rispetto degli impegni presi. Se un accordo viene validato con un referendum dai lavoratori che lo approvano, anche chi dissente deve adeguarsi. Altrimenti avremmo una totale instabilità nelle fabbriche. E quell´instabilità è un lusso che nella globalizzazione nessuno può concedersi».
Come si chiuderà la vicenda?
«Se la Fiom smetterà di fare politica e tornerà a fare sindacato, come sa fare, allora potremo provare a gestire dall´interno, migliorandolo insieme, un accordo che porta un investimento da un miliardo. Nell´interesse dei lavoratori».

l’Unità 3.1.11
Interruzione di gravidanza Il Tribunale amministrativo: «illegittime» le linee guida lombarde
22 settimane Respinte le restrizioni per gli interventi terapeutici. Ma il Governatore tira dritto...
Aborto, il Tar boccia i limiti imposti dal crociato Formigoni
Il tribunale amministrativo della Lombardia ha dichiarato «illegittime» le linee guida che prevedevano nuovi limiti all’aborto terapeutico. «Una materia così sensibile non può essere disciplinata» dalle Regioni.
di Mariagrazia Gerina


Il governatore della Lombardia Roberto Formigoni non l’ha presa bene. Alla bocciatura delle “sue” linee guida regionali sull’aborto, che il Tar ha dichiarato totalmente «illegittime», replica con una dichiarazione degna del principe di Salina. «Dopo la sentenza del Tar tutto rimane come prima negli ospedali lombardi», assicura, cercando di mantenere in vita, a dispetto della legge, la delibera 22 gennaio 2008 che i giudici amministrativi hanno cassato.
La sentenza, che sostanzialmente Formigoni si ostina a non riconoscere, parla molto chiaro. Intanto, spiega che «sarebbe del tutto illogico permettere che una materia tanto sensibile» come l’aborto, «possa essere disciplinata differentemente sul territorio nazionale, lasciando che siano le Regioni a individuare, ciascuna per il proprio territorio, le condizioni per l’accesso alle tecniche abortive». Poi, entra nel merito bocciando il limite perentorio, che la delibera introduceva ex novo e fissava a 22 settimane e tre giorni, oltre al quale, anche in caso di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, non sarebbe stato possibile in Lombardia procedere all’interruzione volontaria di gravidanza. Una indicazione hanno sottolineato i giudici amministrativi che contravveniva «alla chiara decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori» per «non imbrigliare in una disposizione legislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni sempre diverse», e «soprattutto del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in dato momento storico». Altro punto, censurato dal Tar, l’indicazione che l’accertamento dei gravi motivi psichici dovesse avvenire con la consulenza di uno psicologo o di uno psichiatra. Laddove la 194 «ha riposto piena fiducia nella capacità di valutazione dell’ostetrico-ginecologo». Insomma, la bocciatura del Tar è integrale. E dà pienamente ragione agli otto medici che con la Cgil avevano presentato ricorso rivolgendosi alla giustizia amministrativa. Ma il governatore non si rassegna. E boccia lui il Tar, spiegando che la sua delibera era solo «un atto di indirizzo». «La differenza è sostanziale perché con l’atto di indirizzo non si impone una disciplina, ma si indicano a tutti gli ospedali lombardi le migliori pratiche definite in accordo con i migliori professionisti».
E mentre Formigoni assicura che quelle «pratiche» continueranno come prima negli ospedali lombardi, il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione annuncia già la prossima crociata: «Limitare l’aborto entro e non oltre la ventesima settimana di gravidanza». Stavolta, per legge nazionale.
Mentre il segretario del Pd Lombardo Martina consiglia piuttosto di «non perdere altro tempo nell’applicazione rigorosa e totale degli impegni contenuti nella legge statale 194». Tanto più che la sentenza «è inequivocabile: il termine fissato dalla Giunta Formigoni delle 22 settimane contrasta con la legge nazionale», avverte la deputata radicale eletta nelle fila del Pd Maria Antonietta Coscioni, che denuncia: «A suo tempo avevamo debitamente avvertito, inascoltati, che si trattava di linee guida in evidente contraddizione con la legge 194 sull’aborto. Ma alle nostre interrogazioni e ai nostri atti parlamentari non è mai stata data risposta, così abbiamo dovuto attendere tre anni e l’intervento del Tar che finalmente ha ripristinato legalità e il buon senso».

l’Unità 3.1.11
Dal Piemonte al Lazio, l’attacco federale alla 194 in nome della vita


Non solo Lombardia. Le «linee interpretative» di Formigoni dovevano fare da apripista ad altre regioni nell’offensiva contro la legge 194. A cominciare dal Lazio, dal Piemonte e dal Veneto. Ma il Tar le ha fermate.
Le linee guida lombarde dovevano fare da apripista. Di più, quella dettata dal “Celeste” Formigoni doveva essere l’avanguardia di una via federalista alla revisione della legge 194. Non a caso paladina del provvedimento regionale appena bocciato dal Tar è stata in questi tre anni di ricorsi la sottosegretaria Eugenia Roccella. Le cronache dello scorso 27 novembre la ritraggono in prima fila alla veglia per la vita nascente celebrata in San Pietro mentre riceve dallo stesso Benedetto XVI il mandato di «andare avanti nell’azione politica di difesa della vita». E una delle principali promesse portate fin qui in dono è stata proprio il famoso «piano federale per la vita», da lei più volte annunciato. E pensato sul modello lombardo.
Era il 22 gennaio 2008: il governo Prodi cadeva e Formigoni varava la sua delibera-manifesto. Le nuove linee guida nazionali sulla 194, affossate in conferenza stato-regioni proprio dalla Lombardia, rimanevano nel cassetto, mentre il centrodestra si ritrovava in mano una carta in più per lanciare la sua nuova crociata elettorale.
Nonostante i ricorsi e la battaglia legale, in questi tre anni, la Lombardia ha fatto scuola. Seguita a ruota dalle altre regioni diventate a loro volta pilota.
In Piemonte, Roberto Cota, appena eletto presidente, ha spiegato che non poteva tirarsi indietro visto che il suo programma elettorale dava largo spazio alle associazioni pro-vita. «Quando si governa gli impegni si devono mantenere». Quindi via al provvedimento pro-vita. Una delibera che in questo introduce nei consultori pubblici la figura dei volontari anti-abortisti. L’opposizione in consiglio regionale ha alzato le barricate. Ma anche in questo caso la battaglia si sposterà nelle aule di tribunale. Come ha annunciato lo scorso 10 novembre il consigliere Andrea Stara, del gruppo Insieme per Bresso. Ricorso contro il Protocollo dell’assessore Ferrero che introduce nei consultori i volontari del movimenti pro vita. E sostegno legale alle associazioni e alle donne che vorranno sporgere denuncia contro la presenza dei volontari al primo colloquio.
Lo schema per colpire dall’interno la legge 194 è molto simile a quello messo a punto nella Regione Lazio da Olimpia Tarzia, segretaria generale del Movimento per la vita nonché consigliera eletta nella Lista Polverini, quella su cui il Pdl, rimasto a Roma senza lista, ha fatto convergere in massa i suoi voti.
Appena eletta, l’onorevole Tarzia si è fatta promotrice di una proposta di legge ancora più ideologica. Sia nella formulazione che nell’impianto.
In sostanza, la “sua” legge, se approvata, provvederà a finanziare i consultori privati o costituiti da associazioni familiari o che fanno capo a diocesi, equiparandoli a quelli pubblici. Ovviamente molti di quei consultori sono sostenuti proprio dal Movimento per la vita. Non solo. La legge riconosce, il concepito «come membro della famiglia» e definisce, come ha spiegato la stessa Olimpia Tarzia, la «posizione sussidiaria delle istituzioni pubbliche nei confronti di consorzi familiari, associazioni e ong che promuovono i valori familiari».
Anche in questo caso, si tratta di un test nazionale. Come ha avvertito la vicepresidente del senato Emma Bonino, già candidata alle ultime elezioni alla presidenza della Regione Lazio. E anche in questo caso, la mobilitazione per fermarne l’approviazione in consiglio regionale è fortissima. A promuoverla, oltre ai partiti d’opposizione ci sono i sindacati, le associazioni di donne. «Salviamo i consultori della Regione Lazio dalla proposta di riforma», è il titolo del manifesto promosso dalla Casa internazionale delle donne. MA.GE.

Corriere della Sera 3.1.11
«Deriva abortista dal Tar. Non tolgo le restrizioni»
di Simona Ravizza


«Perché non toccano le Regioni sulla Ru486? Ora intervenga il Parlamento»

Un attacco a muso duro: «Il Tar avalla una deriva abortista» . Il governatore Roberto Formigoni contesta il provvedimento del Tar che boccia le restrizioni dell’aborto adottate in Lombardia nel 2008. Una sentenza destinata a riaccendere in Italia le polemiche sulla legge 194 del 1978. Le implicazioni toccano temi di bioetica tra i più controversi di sempre. In gioco c’è l’aborto dopo i primi 90 giorni.

MILANO — Un attacco a muso duro: «Il Tar avalla una deriva abortista» . Il governatore Roberto Formigoni contesta il provvedimento del Tribunale amministrativo regionale che, come anticipato ieri dal Corriere della Sera, boccia le restrizioni sull’aborto adottate in Lombardia nel 2008. Una sentenza, quella firmata dal giudice Celeste Cozzi, destinata a riaccendere in Italia le polemiche sulla legge 194 del 1978. «Viene annullato l’atto di indirizzo con cui la Lombardia invita i propri ospedali a non effettuare interruzioni di gravidanza oltre la 22 ª settimana e 3 giorni— ammette Formigoni —. Ora sulla materia è auspicabile un intervento del Parlamento, anche se negli ospedali lombardi non cambierà nulla perché la prassi è ormai consolidata» . Dal punto di vista medico la questione riguarda solo lo 0,2%delle nascite. Ma le implicazioni toccano temi di bioetica tra i più controversi di sempre. In gioco c’è l’aborto dopo i primi 90 giorni (definito terapeutico): la sua disciplina deve trovare l’equilibrio tra il diritto di salute della donna e il diritto alla vita del nascituro. E si apre, poi, il dilemma della rianimazione dei bambini prematuri, con le cure da offrire a un feto che eventualmente sopravviva all’interruzione di gravidanza: prolungare la sua vita, in presenza di gravi malformazioni e danni cerebrali, può rivelarsi solo accanimento terapeutico. Spiega il governatore Formigoni: «Il provvedimento, ora bocciato dal Tar, si limita a raccogliere le evidenze scientifiche: i progressi delle tecniche di rianimazione soprattutto nei centri all’avanguardia come la Mangiagalli di Milano, hanno anticipato temporalmente la possibilità di vita autonoma di un feto rispetto al 1978. Di qui la scelta di fissare il limite alla 22 ª settimana e 3 giorni per l’interruzione di gravidanza terapeutica» . Usa toni forti, Formigoni: «La sentenza è antiscientifica e anticlinica» . Per il Tar, però, è «del tutto illogico permettere che possa essere disciplinato differentemente sul territorio nazionale l’accesso alle prestazioni» sanitarie che permettono la tutela dei diritti della madre e del nascituro. Il potere legislativo, insomma, viene riconosciuto solo allo Stato facendo leva sull’articolo 117 della Costituzione. «Eppure sulla pillola abortiva Ru486 viene ammessa una competenza legislativa anche per le Regioni — ribatte Formigoni —. C’è una giustizia che ha due pesi e due misure. Mai in difesa, però, dei provvedimenti pro-vita» . Tutto inizia con la delibera della giunta lombarda del 22 gennaio 2008 sulle «Linee di attuazione operativa della legge 194 nelle strutture sanitarie della Lombardia» . Un documento che — come viene messo in evidenza già nella sua prima pagina — è stato studiato insieme a ginecologi e neonatologi di spicco della Lombardia. «Non viene calata dall’alto nessuna disciplina come sostiene il Tar — insiste Formigoni —. Ma si indicano a tutti gli ospedali lombardi le migliori pratiche definite in accordo con i più noti professionisti che operano in Lombardia, anche di opposto orientamento politico» . Tra gli esperti chiamati in causa ci sono, per esempio, il ciellino Luigi Frigerio dei Riuniti di Bergamo e la «non obiettrice di coscienza» Alessandra Kustermann della Mangiagalli. Non c’è da sorprendersi, per Formigoni: «I medici hanno già adottato spontaneamente negli anni le pratiche oggi contestate dal Tar. È il motivo per cui negli ospedali lombardi continueranno a essere utilizzate nonostante il provvedimento del Tribunale amministrativo regionale» . Ma nella sua sentenza il Tar sottolinea: così la Lombardia «contravviene alla chiara decisione del legislatore nazionale (non frutto di una svista, ma al contrario scelta precisa, consapevole e ponderata) di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori» per «non imbrigliare in una disposizione le- gislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni sempre diverse» , e «soprattutto del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in dato momento storico» . Nelmirino del Tar, che è intervenuto su richiesta di 8 medici appoggiati dalla Cgil, anche la decisione di fare compilare il certificato per l’interruzione di gravidanza da almeno due ginecologi e di prevedere l’intervento di uno psicologo. Il ricorso è stato presentato dagli avvocati Vittorio Angiolini, Ileana Alesso e Marilisa D’Amico. «Quello di Formigoni è stato uno sbaglio, la 194 non si tocca» , esulta il senatore del Pd Ignazio Marino. Soddisfazione anche da Sinistra ecologia e libertà: «Nel tentativo di ostacolare le donne nella loro libera scelta, Formigoni ha volut o u t i l i z z a r e u n a discrezionalità che non gli è data» . E il ginecologo Silvio Viale, presidente di Radicali italiani, noto per avere introdotto la RU486 in Italia, ammonisce: «La politica non deve ostacolare, ma sostenere chi applica la legge 194» . Ma il dibattito non appare destinato a chiudersi. Per il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione è urgente portare in Parlamento la sua proposta per limitare l’aborto alla ventesima settimana di gravidanza.

Corriere della Sera 3.1.11
E alla Mangiagalli non cambia nulla: restano i nostri limiti
«Li usiamo dal 2004, sono condivisi dai medici»
di  S. Rav.


MILANO — «L’aborto terapeutico spinto oltre la 22 ª settimana e 3 giorni può porre il problema di rianimare il feto che sopravvive all’interruzione di gravidanza: fermarsi prima è un atto di umanità» . È il 21 settembre 2004 quando alla clinica Mangiagalli di Milano il direttore medico, Basilio Tiso, firma il codice di autoregolamentazione che, per la prima volta in Italia, dà direttive etiche per l’interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni. «Non ho dormito per tre notti — ricorda Tiso adesso —. Ma è una scelta che rifarei subito per evitare a feti sopravvissuti all’aborto di vivere con malformazioni e gravissimi handicap» . Ma ora la sentenza del Tar porterà un cambio di rotta? «Nient’affatto: le disposizioni sono, infatti, condivise dai medici che devono applicarle. Come prevede la legge 194» . Dagli slogan sull’autogestione dell’utero degli anni Settanta, alle norme restrittive sull’interruzione di gravidanza terapeutica. Le linee guida sull’aborto del governatore Roberto Formigoni che dal 2008 fanno discutere l’Italia sono state lanciate proprio dall’ospedale simbolo delle lotte per l’introduzione della legge sull’aborto. È proprio qui che, sotto la spinta del movimento femminista, si è aperto il dibattito sulle interruzioni di gravidanza, soprattutto dopo l’esplosione dell’Icmesa a Seveso: i medici della Mangiagalli si sono battuti per riconoscere il diritto di abortire alle donne che rischiavano di avere figli con malformazioni provocate dalla diossina. Ma quello che è successo nel giro di 30 anni non è un paradosso della storia. «Le regole del codice di autoregolamentazione le ho condivise, tra gli altri, con Giorgio Pardi, uno dei padri della ginecologia italiana e tra i principali fautori della legge sull’aborto ai tempi di Seveso— spiega Tiso, cattolico —. Il filo rosso che accomuna le battaglie della Mangiagalli è la difesa della libertà delle donne senza dimenticare i diritti del concepito» . Tra i ginecologi che per sei anni hanno rispettato i paletti sull’aborto terapeutico c’è Augusto Colombo, ora in pensione: «È tra i medici che hanno presentato ricorso contro le linee guida di Formigoni — dice Tiso —. Ma il codice di autoregolamentazione l’ha condiviso: è la prova che qui non cambierà nulla perché i ginecologi stessi che devono applicare le norme le sostengono» . In Mangiagalli gli aborti terapeutici sono 140 l’anno. «Il certificato medico dev’essere firmato da due ginecologi a garanzia sia della donna sia del singolo professionista— spiega Tiso —. Con il parere supplementare di un genetista e di uno psicologo, invece, cerchiamo di limitare il rischio di derive eugenetiche. Troppo spesso le donne abortiscono perché lasciate sole davanti alla diagnosi di un bimbo non perfetto» .

Corriere della Sera 3.1.11
Fine vita, blitz sulla legge per stanare Udc e futuristi
La centrista Binetti: dobbiamo approvarla a ogni costo. Lupi accusa: finora Fini ha frenato l’iter
di  Monica Guerzoni


ROMA — Sul testamento biologico la maggioranza fa sul serio. Tra l’ 11 e il 12 gennaio la conferenza dei capigruppo della Camera potrebbe calendarizzare la legge, per approvarla a tempo di record. «L’iter è finito da oltre quattro mesi, non possiamo tenerla ancora lì col rischio di farla morire» accelera il vicepresidente dei deputati del Pdl, il cattolico Maurizio Lupi. A lanciare l’offensiva su temi etici e fine vita è stato nei giorni scorsi il ministro Maurizio Sacconi, Pdl. Il responsabile del Welfare, con delega alla bioetica, ha chiesto che il ddl Calabrò sia messo all’ordine del giorno e non ha fatto mistero di come, nel governo, si lavori per riunire moderati e cattolici in una nuova e più larga maggioranza. A La Tribuna di Treviso Sacconi ha confermato gli obiettivi della legge: «Evitare l’accanimento terapeutico e garantire sempre, allo stesso tempo, i bisogni vitali come l’idratazione e l’alimentazione» . Il piano di Palazzo Chigi è fin troppo esplicito: usare il grimaldello dei temi sensibili per spaccare il Fli e dividere la strada di Fini da quella di Casini. Come dice Eugenia Roccella, «con l’Udc sulla biopolitica c’è una alleanza naturale, che potrebbe andare ben oltre questi temi» . Il sottosegretario alla Salute è ottimista e ricorda come, con il voto segreto, il governo abbia trovato maggioranze più ampie proprio sulle questioni sensibili: «Questa legge la porteremo a casa, il governo ci tiene molto. Contro il diritto a morire c’è uno schieramento trasversale e finiani come la Moroni o Benedetto Della Vedova dovranno chiedersi se vogliono morire democristiani» . La Roccella punta dritto alle contraddizioni di Fli e ritiene che le divergenze tra laici e cattolici siano destinate a deflagrare in Aula: «Fini non potrà cavarsela con l’escamotage della libertà di coscienza. Certo, il peso del presidente della Camera varrà anche per la calendarizzazione...» . Teme che vorrà frenarne l’iter? «No, ma dico che nel passato lo ha fatto, alcune sue dichiarazioni hanno destato perplessità» . Lupi è ancora più esplicito. Sottolinea «la strana impasse degli ultimi cinque mesi» e rimprovera a Fini di aver «messo un freno» al provvedimento: «Non può dire che il Parlamento non deve affrontare la legge. È l’ennesima questione legata al suo doppio ruolo, ma comunque Gianfranco non potrà che calendarizzarla, se un gruppo lo richiede» . Lupi attacca, ma allo stesso tempo ammonisce la maggioranza: «Non si può discutere un tema così importante per evidenziare la spaccatura dei finiani, sarebbe un insulto per chi crede nel rispetto della vita nel suo momento finale» . Per Paola Binetti, Udc, è la «battaglia» della legislatura: «Dobbiamo approvarla a ogni costo, perché non so cosa potrebbe accadere nella prossima» . Anche a rischio di spaccare il Polo della nazione? «Non succederà e non si spaccherà il Fli, salvo il gruppo di testa sono tutti dalla nostra parte» . Ma il problema esiste e i primi a saperlo sono i finiani. Benedetto Della Vedova non elude la questione: «Io non do per certa una divisione, ma se pure avvenisse non sarà una tragedia. Non stiamo costruendo un partito etico e monoculturale» . Laici e cattolici nella visione del deputato ex radicale possono stare insieme: «Non escludo che dentro Fli si costruisca una posizione comune, come astenersi o votare alcuni emendamenti per cambiare la legge» . Quel che Della Vedova non crede è che Berlusconi riesca ad attrarre a sé Casini con le sirene della bioetica: «Il premier leader del partito dei bacchettoni? Non ce lo vedo, sarebbe grottesco. Una contraddizione ben più grossa di quelle che ci sarebbero dentro Fli, o tra Fini e Casini» . E anche Enzo Carra, Udc, mostra di non temere per la tenuta del nuovo polo: «Berlusconi non riuscirà a prendere Casini all’amo dell’etica. Si tratta di provvedimenti isolati e non facili da portare a casa» .

Il Secolo d’Italia Domenicale 2.11.10
Un convegno e una mostra per raccontare le vite parallele di due grandi della letteratura del Novecento. Per capire le affinità oltre le divergenze
Tra Pund e Pasolini

di Flavio Alivernini

Pier Paolo Pasolini era venuto al mondo da pochi mesi quando la fatidica marcia su Roma istituzionalizzò il fascismo. In quel periodo Ezra Pound si trovava a Parigi, dove già svolgeva un ruolo di "catalizzatore culturale", radunando attorno alle sue idee e alle sue opere importanti intellettuali e artisti europei (James Joyce affermò che se non l'avesse conosciuto sarebbe rimasto un oscuro scribacchino). Era al centro del vortice avanguardistico, ma stava progettando di raggiungere l'Italia, stanco dell'atmosfera urbana e del freddo nord. 
La famiglia del poeta italiano si trasferì a Casarsa della Delizia, quel vecchio borgo… popolato a stento da antiquate figure di contadini. Il vate americano, originario di Haley, sperduto paesino della provincia rurale americana nello stato dell'Idaho, stava per iniziare la sua lunga polemica nei confronti della finanza e dell'economia che lo avrebbe spinto a sottoporre le sue eccentriche proposte di riforma al Duce, il quale lo ricevette per la prima e unica volta il 30 gennaio 1933. Nonostante Pound andasse molto fiero delle lezioni che il Rettore della Bocconi di Milano gli aveva chiesto di tenere in quel periodo, le sue soluzioni cervellotiche non furono mai prese in considerazione dal regime fascista, peraltro finanziato lautamente dalle istituzioni bancarie. 
All'inizio degli anni 40 Pasolini, incoraggiato dai giudizi positivi che riceveva per i suoi dipinti, si cimentò nella stesura di una tesi di laurea sulla pittura italiana contemporanea con Roberto Longhi, ma perse il manoscritto in seguito allo sbandamento generale dell'8 settembre, ed elaborò allora un lavoro sulla poesia di Giovanni Pascoli. Due anni dopo si consumò il dramma della morte del fratello Guido, che faceva parte della Brigata Osoppo, partigiani moderati, sterminata a Porzus da partigiani filocomunisti. In quello stesso periodo l'ammirazione per Mussolini (non ricambiata) e i discorsi infuocati alla radio italiana sulla natura economica delle guerre, costarono all'autore dei Cantos, opera in versi che continuò a scrivere per tutta la vita, il ritiro del passaporto e l'accusa di tradimento da parte dei tribunali del suo Paese. Prelevato il 3 maggio 1945 da due partigiani nella sua casa di Rapallo, Pound fu a lungo interrogato a Genova per poi essere trasferito a Metato presso Pisa, in un grande campo di prigionia creato dall'esercito americano. A Metato Pound fu rinchiuso per alcune settimane in una cella di sicurezza (la "gabbia del gorilla") e subì un tracollo psicofisico; in seguito, visto che non c'era pericolo che fuggisse, il comandante del campo gli assegnò una tenda e gli diede accesso a una macchina da scrivere per tradurre Confucio e comporre nuovi versi. Il poeta statunitense fece ritorno in Italia solo dopo dodici anni di reclusione in un manicomio criminale di Washington, una volta che il suo governo ebbe ritirato l'imputazione di tradimento; la decisione fu presa grazie anche all'impegno di amici scrittori come Hemingway, il quale, pur ritenendo Ezra fuori di testa, giurò che se necessario si sarebbe fatto impiccare con lui. 
Anche Pasolini, del resto, ebbe i suoi guai con la giustizia; nel 1949 fu denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico. Fu espulso dal partito comunista di Udine e interdetto dall'insegnamento; da quel giorno i suoi avversari, sfruttando lo scandalo, seppero come apostrofarlo. Si spostò a Roma e tra difficoltà e ristrettezze economiche riuscì a lavorare molto fino a pubblicare Ragazzi di vita, opera che gli costò l'accusa di oscenità, anche se Giuseppe Ungaretti andava affermando che era la «cosa migliore che si poteva leggere in quegli anni». Fu assolto con formula piena grazie anche a Carlo Bo che testimoniò che il romanzo era impregnato di valori religiosi, come «la pietà per i poveri e i diseredati». Nel frattempo il poeta delle Ceneri di Gramsci, il regista di Accattone, il romanziere di Ragazzi di vita, il corsivista-corsaro del Corriere della Sera, dipingeva, scriveva canzoni, spaziando in tutti i campi dello scibile come piaceva a Pound. Questi, da parte sua, si dedicava a traduzioni di Properzio e Sofocle, egizi e cinesi e componeva addirittura due melodrammi, Villon e Cavalcanti, che intonano in maniera arcaica i poeti da lui più amati e anche imitati nella vita. 
Nel 1959 Pound fu candidato al Nobel, ma il Presidente della commissione valutò che non aveva i requisiti necessari poiché, si legge dal resoconto della riunione, propagatore di «idee che sono decisamente in contrasto con lo spirito del Premio Nobel». In quell'anno Pasolini fu insignito invece del Premio Crotone per Una vita violenta; la giuria era composta, fra gli altri, da Moravia, Ungaretti, Gadda e Bassani. Mentre cominciava la consacrazione culturale di Pasolini, nonostante la continua persecuzione dei suoi avversari per il suo spirito critico e dei giudici per le sue opere considerate blasfeme e immorali, si consumava il declino fisico e mentale di Pound, molto provato dalla vecchiaia e dalla depressione.
Arriviamo al 1967, alla vigilia del più grande movimento di contestazione politica e sociale che il dopoguerra italiano ed europeo ricordi. Fu allora che Pier Paolo Pasolini, prendendo in prestito dei versi che Ezra Pound dedicò a Walt Whitman nel 1913, scrisse una lettera al padre del vorticismo: voleva incontrarlo. La richiesta di intervista iniziava così: «Stringo un patto con Te. / Ti detesto ormai da troppo tempo. / Vengo a Te come un fanciullo cresciuto che ha avuto un padre dalla testa dura. / Sono abbastanza grande ora per fare amicizia./ Fosti Tu ad intagliare il legno. / Ora è tempo di abbattere insieme la nuova foresta./ Abbiamo un solo stelo ed una sola radice./ Che i rapporti siano ristabiliti tra noi». 
«Bene... Amici allora... Pax tibi... Pax mundi». Questa fu la risposta, conciliante, del vecchio Ezra Pound. 
Il memorabile dialogo ebbe luogo a Venezia, il 26 ottobre del 1967, e fu trasmesso dalla Rai. L'intensità dell'incontro può valere da antidoto contro i giudizi affrettati che, da destra come da sinistra, colpiscono questi due protagonisti del Novecento internazionale. La voce soave del poeta di Casarsa che intervista e legge passi dai Canti Pisani, le risposte pungenti di Pound, canuto e scavato, come un profeta biblico, evocano una dimensione poetica al di là di ogni polemica contingente. Dalle suggestioni di questo formidabile documento ha preso vita un convegno sui due intellettuali, a prima vista inconciliabili, organizzato dall'Associazione AxA. Nella splendida cornice di Villa d'Este a Tivoli, Massimo Bacigalupo, ordinario di Letteratura Americana alla Facoltà di Lingue dell'Università di Genova, tra i maggiori esperti di Ezra Pound in circolazione (nonché figlio del suo medico) e Filippo La Porta, scrittore e critico letterario, autore di importanti contributi sull'opera e il pensiero di Pier Paolo Pasolini, hanno tracciato un ritratto dei due poeti partendo dalla loro idea comune di modernità, mai svincolata dal passato e dalla tradizione. "Pier Paolo Pasolini ed Ezra Pound. L'utopia che nasce dal passato", questo il titolo del dibattito, moderato da Federico Brusadelli e con la partecipazione di Marina Cogotti, direttore di Villa d'Este e Riccardo Luciani, Assessore alle Politiche Culturali del Comune di Tivoli, primo sostenitore dell'iniziativa. L'idea di questo accostamento si fonda sulla convinzione che, oltre quelle biografiche, esistano altre convergenze nell'opera dei due. Sia Pasolini che Pound incarnano, in modi diversi, «una forza che viene dal passato» (per parafrasare il verso pasoliniano del Pianto di una scavatrice). Sebbene Pound sia parso a volte esclusivista ed elitario, chiuso in un suo mondo di riferimenti arcani, e abbia inseguito sul piano teorico un'idea di purezza, ha però rivelato nella sua poesia, in modo non dissimile da Pasolini, il gusto promiscuo della lingua parlata, mescolata a quella colta e continuamente contaminata dalla prosa del mondo, dalla realtà impura.
Il "miglior fabbro" americano e il "corsaro" italiano rileggono la tradizione in funzione di una critica radicale del presente e di una visione utopistica del futuro. «Fra i temi cari a Pound - dice Massimo Bacigalupo - c'è l'amore per il Rinascimento: le sue poesie sono dense di citazioni che ci riportano a quell'epoca. Sognava un mondo libero dalle necessità economiche, dove gli artisti potessero disporre del tempo necessario per creare opere d'arte di cui si sarebbe giovata l'umanità». Entrambi amano la civiltà rurale e contadina, alla quale sono legati per nascita e contiguità e avversano ovviamente borghesia e capitalismo. «Pasolini - sostiene La Porta - conserva una lucidità razionale, è visionario ma non delirante, critica la modernità distinguendo tra progresso e sviluppo. In India elogia la povertà e la mitezza degli indù ma anche la nuova classe dirigente dei Nehru». I due poeti, inoltre, pur aderendo a ideologie politiche, non sono ad esse asserviti, anzi non perdono occasione di prenderne le distanze affermando posizioni personali. A tal proposito Bacigalupo afferma che «Pound aveva "scoperto" il fascismo così come aveva scoperto Eliot e Hemingway, da esteta, e voleva addirittura spiegarlo agli italiani. Non si capacitava dello scetticismo che spesso incontrava presso i compagni di mestiere. C'è poi nei suoi scritti una poetica del fallimento, che emerge proprio nel periodo della Repubblica Sociale. Con la sua passione per le cause perse, non poteva non schierarsi con il fascismo perdente più che con il fascismo di regime. Continua La Porta: «Pasolini era anticapitalista in maniera fisiologica, non ideologica. Diventa comunista negli anni '50 perché si sente vicino ai contadini friulani, per uno slancio di solidarietà». 
Molti i punti di contatto, ma la poesia rimane, comunque, il terreno di base più attendibile sul quale cogliere il messaggio e apprezzare l'eredità culturale che i due grandi intellettuali hanno lasciato alla contemporaneità. Ed è proprio dai versi che nasce l'idea di una mostra che coinvolgerà giovani artisti nella reinterpretazione del messaggio poetico. 
Emanuela Gregori, storica dell'arte, lancia il progetto: «L'esposizione si svilupperà su due livelli: da una parte, l'iter artistico dei due poeti verrà "frammentato" e "ricomposto" attraverso i temi e i diversi metodi espressivi utilizzati dai giovani artisti contemporanei coinvolti. Dall'altra, la loro poesia e importanti materiali d'archivio si porranno come elementi funzionali, una sorta di sezione trasversale che toccherà tutti i temi. A guidare l'artista nel processo creativo dell'opera, come pure il visitatore nel percorso espositivo, saranno le poesie selezionate dai curatori scientifici, motivo di una suggestione che diviene insieme impressione e visione». Che siano gli artisti dunque, «le antenne della razza umana», come amava definirli Pound, a tracciare il profilo dei due geni sulla tela dei loro stessi versi.
02/01/2011

l’imam di Al-Azhar, Ahmed Al Tayeb: «Non vogliamo commentare l’opinione del Papa  ma abbiamo il diritto di non essere d’accordo con lui. La sua è una visione sbilanciata su musulmani e cristiani che rischiano di essere uccisi in tutto il mondo. Perché non ha chiesto la protezione dei musulmani quando erano massacrati in Iraq?»
Corriere della Sera 3.1.11
Il leader islamico uscito dalla Sorbona
L’incontro fra modernità e tradizioni religiose al centro dello sforzo di Al Tayeb
di Antonio Ferrari


La durezza con cui l’Imam di Al-Azhar Ahmed Al Tayeb ha risposto alle parole di Benedetto XVI, ricordandogli la mancata condanna per le vittime musulmane durante la guerra all’Iraq, non deve ingannare. Al Tayeb non è un estremista e neppure un ottuso fideista. È arrivato al vertice della grande istituzione sunnita dopo averne percorso, dall’età di 10 anni, ogni gradino prima di diventarne rettore e, alla morte di Mohammed Sayed Tantawi, Grande Imam. Al Tayeb è un intellettuale di 64 anni dai modi gentili e dal carattere tollerante. Il suo Phd in filosofia islamica l’ha ottenuto a Parigi, alla Sorbona, e la sua capacità di assimilare con intelligenza le spinte progressiste coniugandole con la propria cultura lo ha portato a raggiungere la carica più alta per un leader religioso sunnita. A differenza di Tantawi, che era intransigente soltanto quando la linea dell’intransigenza era fortemente gradita al potere politico, Al Tayeb ha una sua visione che potremmo definire più attenta e realistica. È sicuramente vicinissimo al presidente Hosni Mubarak; è ovviamente iscritto al partito del leader, che oggi è guidato dal figlio Gamal, candidato-forte per le prossime presidenziali. Ma è soprattutto un convinto moderato. Già negli anni trascorsi al vertice dell’università di Al-Azhar si era espresso duramente non soltanto contro l’estremismo dei Fratelli musulmani, ma aveva sostenuto che il prestigioso ateneo e il suo campus non potevano essere utilizzati per marce e caroselli di giovani studenti incappucciati che inneggiavano alla violenza e gridavano slogan a favore dei guerriglieri armati di Ezzedim al Qassem (braccio militare di Hamas), dell’Hezbollah libanese e dei Pasdaran iraniani. Al Tayeb, subito accusato dagli estremisti d’essere un «fantoccio» dell'esecutivo, rispose con calma, all’interno del Paese in arabo, e nelle interviste destinate all’estero in inglese e in francese (lingue che parla fluentemente), per spiegare le sue convinzioni. Che insomma bisogna trovare un punto di equilibrio tra varie scuole di pensiero: tra i salafiti intransigenti, che vorrebbero imporre la legge dell’islam, respingendo tutto ciò che viene da Occidente; e i modernisti pronti ad accogliere le altre culture nel nome del progresso. Da costoro Al Tayeb si distanzia, cercando una terza via, che accetti la modernità rispettando la cultura e le tradizioni dell’islam. Le sue conferenze sul ruolo del colonialismo in Egitto e più in generale nel Medio Oriente sono un esempio di solida preparazione. Negli incontri internazionali (è accaduto anche con la Comunità di Sant’Egidio) Al Tayeb non soltanto spiega le sue opinioni, ma partecipa ai dibattiti, è curioso, pone domande intelligenti. Non sembra insomma prigioniero di un ruolo formale, ma attivo protagonista di un’opera di rinnovamento. Che riguarda proprio Al-Azhar. Che significa università tra le più prestigiose del mondo, e vertice religioso. Al-Azhar aveva assoluto bisogno di un robusto maquillage innovativo. Fondata nel 970, ha rappresentato per secoli il centro del pensiero religioso sunnita, e ogni suo intervento era legge per centinaia di milioni di persone. Ma proprio quella linea di equilibrio, soprattutto negli ultimi decenni, dominati anche nell’islam dalla globalizzazione, dalle nuove tecnologie e dai profondi cambiamenti nel mondo dell’informazione, si era indebolita. A vantaggio della propaganda meno equilibrata e decisamente più estremista, diffusa soprattutto dalla televisione. Il linguaggio felpato del passato e forse un’eccessiva dipendenza dal potere politico hanno rischiato di far perdere prestigio all’istituzione sunnita. Che ora, con Al Tayeb, cerca un grande rilancio. Ieri, proprio il colto e moderato leader sunnita era andato a far visita a papa Shenuda III, il capo della Chiesa copta, per porgergli le sue condoglianze. All’uscita, il corteo di Al Tayeb è stato assediato dai dimostranti cristiani, che urlavano la loro rabbia per la strage nella chiesa di Alessandria. Il rischio di un pericoloso conflitto inter-religioso è alto, e proprio per attenuarlo l’Imam di Al-Azhar ha risposto a Benedetto XVI.

I numeri
I copti sono la comunità cristiana più numerosa del Medio Oriente. In mancanza di statistiche precise, si dice che contino il 10% degli 83 milioni di egiziani. La comunità copta appartiene alla Chiesa ortodossa di Alessandria d’Egitto, con patriarca Shenouda III
Le origini
La tradizione vuole che sia stato San Marco a evangelizzare l’Egitto, intorno al 42 d. C., quando a Roma era imperatore Claudio. Il termine copto (in arabo: qibt, plurale aqbat) deriva dal greco aiguptios, letteralmente: egiziano, e indica i discendenti degli antichi egizi che resistettero alle conversioni dei conquistatori arabi, dopo l’invasione del Paese nel 642 d. C.
La convivenza
Tra l’Ottocento e il Novecento lo status dei copti in Egitto, per secoli cittadini di seconda classe, è via via migliorato, tanto che diversi posti di rilievo, al Cairo, sono oggi occupati da cittadini copti (nella foto sopra, il miliardario Naguib Sawiris, un copto). Rimangono tuttavia molte discriminazioni e limitazioni. Per esempio, una chiesa, in Egitto, non può essere costruita o restaurata senza il permesso del governatore locale. Le moschee non sono soggette ad alcuna limitazione

I copti credono che il Signore sia perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, ma la sua divinità e la sua umanità sono state unite in una sola natura chiamata "la natura del Verbo incarnato", ribadita da san Cirillo di Alessandria

Repubblica 3.1.11
"Israele preparava la guerra in Medio Oriente"
Le rivelazioni in un dispaccio di WikiLeaks del 2009: gli obiettivi erano Hamas e Hezbollah
Il capo di stato maggiore avrebbe informato una delegazione del Congresso Usa
di Fabio Scuto


GERUSALEMME - Il fiume delle rivelazioni di WikiLeaks è arrivato a Israele, ieri una manciata di cablogrammi inviati dall´ambasciata Usa di Tel Aviv è comparsa sul giornale norvegese Aftenposten. Del resto era stato lo stesso fondatore di WikiLeaks Julian Assange ad annunciare la scorsa settimana che il suo website si apprestava a rivelare 3.700 documenti riguardanti Israele, tutti documenti scottanti relativi agli ultimi cinque anni, dalla guerra contro il Libano del 2006 all´operazione "Piombo Fuso" a Gaza del 2009, ai preparativi di un attacco contro l´Iran per fermare il programma nucleare degli ayatollah di Teheran.
Secondo il quotidiano scandinavo, il capo di stato maggiore israeliano, Gabi Ashkenazi, incontrando una delegazione del Congresso americano alla fine del 2009, ha riferito che Israele si preparava a «una guerra su larga scala» in Medio Oriente, probabilmente contro Hamas e Hezbollah, ancor prima che contro l´Iran. «Sto preparando l´esercito israeliano a una guerra su larga scala, perché è più semplice trasformarla in una piccola operazione piuttosto che fare il contrario», ha detto il generale Ashkenazi, citato in un documento dell´ambasciata americana a Tel Aviv, datato 15 novembre 2009. «La minaccia del lancio di razzi contro Israele è più grave che mai. È per questo che Israele reputa tanto importante la difesa antimissilistica», ha aggiunto il generale Ashkenazi alla delegazione americana che era guidata dal deputato democratico Ike Skelton, secondo il cablogramma citato dal giornale.
L´incontro fra il chief of Staff israeliano e il congressman statunitense è avvenuto due mesi dopo il lancio test in Iran di un missile da crociera di tipo "Shabab". In quella occasione il capo di stato maggiore israeliano ha sostenuto che Teheran disponeva già di circa 300 missili di quel tipo in grado di raggiungere Israele e che in caso di attacco lo Stato ebraico avrebbe solo tra dieci e dodici minuti per reagire a un attacco missilistico di quel genere.
Ma anche se la minaccia di un attacco dell´Iran è grave, sono i gruppi integralisti Hamas e Hezbollah - sempre sostenuti dagli ayatollah - a turbare i sonni dei generali israeliani. I due movimenti islamici dispongono di razzi con minore gittata ma con una precisione di gran lunga superiore ai missili balististici iraniani. «Hamas avrà la possibilità di colpire Tel Aviv, dove si trova la più alta concentrazione di popolazione israeliana», ha detto Ashkenazi durante l´incontro.
In un´altra nota, derivante da una serie di colloqui il 2 e 3 settembre 2009 tra alti ufficiali israeliani e una delegazione del Congresso Usa guidata dal senatore Kirsten Gillibrand, se ne ricava una valutazione dell´Operazione Piombo Fuso a Gaza. Durante quel mese di guerra l´Esercito israeliano avrebbe operato con potenza limitata e senza nessuna intenzione di tornare a occupare il territorio di Gaza, decidendo anche di non entrare nelle principali aree urbane della Striscia. Il risultato - dice un generale al senatore Gillibrand - «è stato che un´operazione che doveva durare tre giorni ha preso invece tre settimane». La guerra di Gaza nel dicembre 2008-gennaio 2009 provocò circa 1.400 morti tra i palestinesi, soprattutto civili, e 13 negli israeliani, di cui dieci soldati.

Parmenide, Platone, Severino
Corriere della Sera 3.1.11
Alla ricerca della verità
di Leonardo Messinese


Al centro della discussione di Emanuele Severino con la tradizione filosofica e culturale dell’Occidente c’è la questione del mondo. Il «mondo» al quale fa riferimento quando lo giudica in opposizione alla «verità» è quello messo in luce da Platone nella Repubblica: la regione dell’ «essere intermedio» tra l’essere assoluto e il nulla. È il mondo dell’esperienza, il quale ha come suo contenuto ciò che appare, ovvero è il mondo che Platone, opponendosi a una riduzione dell’esperienza a mera illusione — come la tradizione filosofica ha ritenuto abbia fatto Parmenide— intende mostrare nella sua «realtà» e nella sua «verità» . E, tuttavia, è pure il mondo che, quale viene affermato effettivamente nell’ontologia platonica non riuscirebbe a evitare di scontrarsi con il divieto parmenideo di «pensare e dire il non essere» . Il «mondo» , così inteso, è l’eredità che Platone ha lasciato ai posteri e che anche il cristianesimo ha fatto propria. Esso dovrebbe essere condotto al «tramonto» , a motivo della sua non verità, ma questo esito porterebbe con sé anche il tramonto di «Dio» : innanzitutto del Dio della metafisica, ma, poi, anche del Dio del cristianesimo, in quanto la fede cristiana ha fatto proprie le categorie dell’ontologia platonica. Per Severino, il «mondo» e «Dio» sono perfettamente solidali, ma tale solidarietà presenta due aspetti distinti. Per un lato, essa resta tutta inscritta nella non verità del «divenire» nichilistico e del «creatore» nichilista; per un altro lato, a motivo di una maggiore coerenza in relazione all’affermazione del divenire, nell’epoca moderna è venuta a spezzarsi con la proclamazione della «morte di Dio» . In ragione della critica radicale del «mondo» , così come esso appare nell’orizzonte della metafisica, i due principi fondamentali del sapere filosofico, il «principio di non contraddizione» e l’ «apparire fenomenologico» , in quanto affermano la realtà dell’essere diveniente sono ritenuti da Severino entrambi sorretti dalla persuasione i m p l i c i t a d e l l a «nientità» di ogni ente. I due principi della struttura originaria del sapere occidentale, sovrapponendo il «mondo» alle cose, impediscono che esse si lascino vedere autenticamente. Analogamente, accade che anche il kérigma cristiano sia criticato da Severino innanzitutto perché non è stato ascoltato che all’interno del «mondo» . Accade, infine, che l’intera cultura occidentale, umanistica e scientifica, si rapporti con le cose restando all’interno dell’orizzonte nichilistico del «mondo» . Per questa serie di ragioni, affrontare la questione della verità o non verità del «mondo» significa abbordare uno di quei fili essenziali dai quali dipende tutto l’ordito del pensiero severiniano. Per Severino, entrare nel «mondo» significa uscire dal paradiso della verità. Egli sottolinea il carattere onniavvolgente della «verità dell’essere» . È a partire da questa tesi fondamentale che Severino qualifica come «errore» l’organizzazione teoretica e pratica del divenire da parte dell’uomo occidentale, inclusa quella realizzata dall’agire etico. Infatti, stabilito che l’etica implica sempre un’ontologia e quindi s’inscrive in una concezione unitaria dell’essere, appare chiaro che l’unificazione della totalità degli enti già in Aristotele è realizzata a partire da quella certa concezione dell’essere per cui gli enti sono originariamente «disponibili» a essere manipolati. Questo che è stato appena indicato sarebbe l’ «errore» originario e fondamentale nel quale è immersa l’intera storia della civiltà occidentale e del quale la filosofia greca costituirebbe una sorta di «teoria» fondativa. La verità dell’immutabilità dell’essere viene ad escludere la verità della prassi etica, a motivo del nichilismo implicato tanto nella presunta «contingenza» degli enti— che, così, sarebbero disponibili per l’agire dell’uomo — quanto nel concetto di «libertà» , intesa come la contingenza dell’agire. Uno degli obiettivi principali della «lettura» del pensiero severiniano proposta nel mio libro Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino (Ets, pp. 236, e 18) è di andare a vedere se tra la «verità» dell’essere e il «mondo» (incluso il mondo costituito dal conoscere e dall’agire dell’ «uomo» ) debba restare un rapporto di assoluta «opposizione» o se il mondo, che non dovrà essere inteso secondo il metro della «ontologia» platonica (almeno per quanto riguarda il suo aspetto criticabile), possa essere riconciliato con la verità dell’essere.

Corriere della Sera 3.1.11
Il catalogo degli inquisitori, senza invettive né apologie
di Alberto Melloni


Nell’immaginario popolare che ha fatto ricco Dan Brown l’Inquisizione occupa un posto assolutamente straordinario, sul quale, dall’Illuminismo in qua, la storiografia, il diritto, la letteratura prima e non ultimo il cinema poi— dal grande inquisitore di Dostoevskij all’infinito moltiplicarsi dei loschi figuri di Dreyer — hanno costruito uno stereotipo funesto. Uno stereotipo contestato o da una apologetica autoconsolatoria di ecclesiastici codini che tentano comparazioni con la ferocia di altre inquisizioni e altre giustizie; o da difensori d’un nazionalismo ferito, come quello della scrittrice Emilia Pardo Bazán o del repubblicano Vicente Blasco Ibáñez, che a inizio Novecento puntavano il dito contro la leyenda negra che avrebbe condannato la Spagna a diventare icona dell’oscurantismo, per colpa dell’Inquisizione e dell’interpretazione che ne dà Goya. Rispetto a un secolo fa la storiografia ha iniziato a collezionare studi che distinguono geografia e struttura delle tante inquisizioni — studi che hanno conosciuto un progresso deciso dopo che nel 1998 l’allora cardinal Ratzinger, accogliendo la richiesta di Carlo Ginzburg, aprì l’archivio del Sant’Uffizio. Quella decisione dell’attuale Pontefice favorì ulteriori aperture di carte e una stagione di ricerche che hanno toccato sia i grandi casi (come Galileo, su cui oggi si hanno decisivi lavori, da quelli di monsignor Sergio Pagano a quelli recenti di Vittorio Frajese) sia gli «infami» (e dunque, nell’etimo e per Michel Foucault, privi di celebrità ma non «minori» per contenuto o valore). Ultima solo in ordine di apparizione, arriva un’opera senza precedenti e senza emuli come il grande Dizionario storico dell’Inquisizione di Adriano Prosperi, Vincenzo Lavenia e John Tedeschi, uscito per le Edizioni della Scuola Normale Superiore di Pisa, che, sotto la direzione di Michele Ciliberto, hanno surclassato l’esitazione dei più blasonati marchi italiani. Lanciato al Salone di Torino il Dizionario — quattro volumi, centinaia di voci su giudici, imputati, luoghi, crimini; una bibliografia imponente; un tomo di strumenti e uno iconografico— è arrivato da poco nelle sale di studio di mezzo mondo: ora, dunque, comincia ad essere usato, studiato, ammirato e discusso. Apprezzamento e discussione — quando non conditi di banalità invidiose o preconcetti prepotenti sempre possibili nel lettore superficiale— vertono su un punto decisivo. Per Prosperi, ideatore dell’opera, scopo dell’impresa è smontare l’immagine generale di un istituto chiave del governo papale dal 1548 fino al post concilio ed oltre: perché la scorza dura del giudizio generale sull’Inquisizione confonde il percorso dei singoli casi, occulta le specificità regionali, rende indecifrabili le varianti che sono sostanza del lavoro storico. D’altro canto c’è chi — l’ha fatto Silvana Seidel Menchi— contesta non gli esiti, ovviamente, ma l’approccio: perché a suo avviso troppo grande è il rischio di rimanere subalterni alla logica interna di una macchina che s’è sostenuta anche grazie alla ideologizzazione del «bene» che intendeva perseguire e alla formalizzazione delle procedure alle quali attenersi. È una tensione fra visioni dell’oggetto e del lavoro storico che percorre anche l’opera: la sua vastità dunque associa chi parla di «terrorismo» per indicare le campagne contro i Templari e chi registra come «denunzia» la trappola contro un convertito che fa lo spedizioniere di Bibbie ebraiche. Ma il pregio del grande lavoro di cucitura intellettuale di Prosperi e dei suoi collaboratori è forse proprio questo: rendere possibili letture diverse e aprire una discussione che onora la cultura italiana che nella sua povertà, col solo prestigio di chi chiede una collaborazione, riesce a trovare un centinaio di dotti connazionali e altrettanti stranieri per collaborare a un’opera come questa. Se l’Italia avesse una visione del valore politico della propria produzione culturale, ci sarebbe qualcuno che si premurerebbe di far subito una edizione inglese online per un portale d’edizioni digitali talmente esclusivo da diventare una onorificenza: ma l’Italia non ce l’ha; e se l’avesse forse ci metterebbe qualche cianfrusaglia; e nessun inquisitore andrebbe mai a chiedere il perché.

l’Unità 3.1.11
«Io, Dario Fo e l’eterno Sessantotto del Mistero buffo»
Ieri & oggi «Chiudi gli occhi e pensa: chi ti ricorda Bonifacio Ottavo?» Il premio Nobel riporta in scena dopo 42 anni il suo spettacolo più famoso, più surreale, proverbiale E qui, guardando agli studenti in piazza, spiega perché oggi è attuale come nel ’69...
di Toni Jop


Ma tu, che di mestiere fai il tecnico di computer nelle valli di alta montagna e non hai ancora quarant'anni sai chi è Dario Fo? Che domande, sì che lo so. E Mistero Buffo, sai cos'è? Madonna, ci sono cresciuto dentro, così volevano i miei genitori.
Ecco cos'è Mistero Buffo in questo inizio di 2011: è una di quelle «cose» che ciascuno di noi si porta dentro, un teatro, un mucchio di parole, un corpo, una parabola in crescita, un ambiente mentale, una lunghissima poesia senza «a capo», un Vangelo interpretato da una intelligenza senza potere, una immensa nuvola di tenerezza forte come un maglio, parola di chi non ha parola, discreto canto senza regole, esperienza morale, riso gentile, il bagliore di vittoria riflesso da una barricata di liberazione che sogna convinzione e non vittoria. Quando apparve al sole del lontano e tumultuoso 1969, Mistero Buffo sembrò a molti un segnale, l'avviso di una utopia realizzata: forse era nato o stava nascendo l'Uomo Nuovo, quello che avrebbe costruito il Mondo nuovo, sostituendo la critica alle armi, la comprensione allo schiaffo, l'uguaglianza alla legge del più forte.
Gramsci aveva detto: abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza e Fo – con Franca, sempre – aveva detto: io ci provo, vado avanti e poi si vede.
Mise a punto uno sguardo sulla storia e sul contemporaneo che partiva dai Vangeli, apocrifi, irregolari e inventò una giostra di «crisi» meravigliosa, orgogliosamente «pop», popolare, mossa da un ritmo, da una frequenza che aveva a che fare con la musica dei corpi mentre sussurrava urlando: la vita è roba nostra, non del potere.
Messo in scena da altri giullari, ora, 42 anni dopo la prima «apparizione» Mistero Buffo torna nelle mani e nelle ossa di Dario e Franca, e plana in un altro mondo.
Domani a Milano, al teatro Lirico. Un'altra Milano, un'altra Italia ma il Mistero è sempre più buffo. Sei un po' matto. Quella è roba che scotta, anche e soprattutto per chi se la porta sulle spalle: Mistero Buffo è una fatica fisica anche per un giullare nato come te... chi te lo fa fare?
«Sì, sì. Ci provo ancora, nonostante tutto tira un'aria che sembra annunciare primavera, quei ragazzi del movimento, quelli che sono scesi in piazza in queste settimane: lo sento che non si fermeranno, sento che non è finita con Marchionne, sento che la Fiom, la Cgil non sono acqua passata, a loro è appesa in gran parte la dignità dell'umanità di oggi e di domani, sono loro i muratori, e anche noi, giullari...». Benedetto “fiol de Deo”, non saranno invecchiati le tue Madonne, i tuoi Gesù belli, cari fantasiosi che danno vita alla creta, i tuoi Bonifaci ottavi, i tuoi papi mercanti di indulgenze, non sarà invecchiata la tua tigre accogliente e dispotica?
« Chiudi gli occhi e pensa: chi ti ricorda Bonifacio Ottavo? Un altro papa, ovvio, ti lascio il nome nell' ipofisi.
Chi ti ricorda la Madonna se non la madre, la grande madre, dolce come una donna, forte e intelligente come una donna? E la tigre cosa ti insegna oggi, forse qualcosa di diverso da quel che insegnava ieri?» Riso e dolcezza, riso e dolcezza, Dario: hanno consegnato il Nobel nelle mani di un rivoluzionario davvero pericoloso, il più pericoloso perché predichi, ad una età in cui non puoi finire in galera, che la rivolta senza amore semplicemente non è... «Entusiasmo, figliolo. Torno a quei ragazzi del Movimento: loro hanno capito da soli la lezione e nessuno gliel'ha insegnata, grande generazione, tutto intorno a loro sostiene altro e cioè che se non prevarichi e non metti sotto i piedi gli altri non sarai nessuno, questa è vita fratello...». Adesso basta – si fa per dire -: sei un fottuto sessantottino con la testa tra le nuvole e il corpo in purgatorio... «Ecco, bravo che me lo ricordi: la signora Gelmini ha detto che il Sessantotto è finito e sepolto.. Ha ragione, in molti hanno provveduto a seppellirlo e lei ha fatto la sua parte con la riforma universitaria, dopo Marchionne, dopo Berlusconi e le sue tv.... «Nessuno seppellisce il Sessantotto perché, bada, è immortale. Può darsi che la signora in questione abbia ragione mentre fa il conto della spesa. Ma quello sa fare, per il resto non sa nulla, non sa nemmeno che senza Sessantotto lei, una donna, col cavolo che starebbe al governo: femminismo e uguaglianza tra i sessi è roba che nasce lì. Si tornerà lì, in questo calderone di crisi e di parole oggi apparentemente senza senso quando l'idiozia del potere sarà costretta a fare un passo indietro. E col Purgatorio ci andrei cauto: se lo sono inventato in Vaticano qualche secolo fa perché gli serviva a far soldi e a mietere potere...».
A proposito del Vaticano: com'è che si sono seccati alla prima uscita di Mistero Buffo? Mi sembra un lavoro non lontano dal clima di un morbido presepe...
«Ricordando, il Vaticano si lamentò con lo Stato italiano per aver permesso che si recitasse in pubblico una cosa simile. Poi, è vero che Mistero Buffo rivendica al popolo la titolarità del sentimento religioso, della religiosità più profonda che ha a che fare con il senso della vita e della morte. Così Dio non è lontano da Bacco, Gesù è molto vicino a Dioniso. Nella cultura popolare, queste distanze sono cancellate: per esempio, nel “Risus Pascalis” , abolita nell'Ottocento, la gente si dava da fare per scatenare la gioia per la resurrezione, per la vittoria contro la morte, era una festa allegrissima e vitalissima...».
Dal punto di vista della tecnica teatrale, da Oltretevere hanno sempre posto l'accento sulla compostezza ortodossa e misterica con cui Jacopone da Todi aveva tessuto le laudi, tanto per dire che tu eri fuori...
«Meglio fuori che male accompagnati. Però, con Jacopone hanno confezionato uno dei loro falsi meglio riusciti: bisogna leggerlo davvero per capire quanto fosse sanguigna e accesa la sua critica all'ordine delle cose che allora regnava. Te lo recito?»
Diamolo per fatto. Se non sbaglio, hai continuato per anni ad arricchire il panorama del Mistero... «Vero, e così per metterlo in scena tutto ho calcolato che servirebbero dieci giorni e dieci notti. Stavolta torno in scena con una parte che mette assieme pezzi vecchi e fondamentali con pezzi nuovi, ma poi cambiamo in corso d'opera.
E l'opera è il corpo, siamo noi, i nostri corpi, il più grande mistero buffo».

Corriere della Sera 3.1.11
L’eroe dell’anti-colonialismo che morì suicida in povertà
Emilio Salgari, una produzione grandiosa e un destino avverso
di Pino Cacucci


Q uanti erano? Di preciso, non lo sapeva neppure lui, che ormai teneva il ritmo di tre romanzi all’anno, ma dovevano essere almeno un’ottantina, i libri pubblicati, più un centinaio di racconti sparsi… A metterle insieme, tutte quelle pagine scritte, avrebbe potuto costruirci un castello di carta. Milioni di parole al vento, pensò. A cosa è servito? Ad accumulare debiti, frustrazioni, amarezze, senza neanche poter garantire un avvenire ai figli. E l’amata, adorata Aida, che vegetava in un manicomio, con la mente smarrita e lo sguardo vacuo… Troppo, davvero troppo, da sopportare: la vita era stata crudele e spietata, con lui, perché le traversie le aveva affrontate con dignità e tenacia, senza mai arrendersi, anche a costo di imporsi quelle tre pagine al giorno— e cento sigarette per poterle scrivere— caschi il mondo, domeniche comprese, che raddoppiavano per rimettersi in pari se un malanno lo costringeva a letto, con la testa che scoppiava e il corpo scosso dai brividi delle febbri… qualsiasi cosa, ma non l’Aida in manicomio, no, questo alla vita non lo poteva perdonare. E allora… fu più la rabbia che l’abbandono: recidere la vita infame con un gesto furioso, di implacabile disprezzo. Scrisse una lettera ai figli, Omar, Nadir, Romero e Fatima: «Figlioli, vado a morire, voi sapete dove, poiché è sul colle ove andavamo a cogliere i fiori. Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire e un credito di altre 600…» . Poi ne scrisse una agli editori: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna» . Uscì con un rasoio in tasca. Raggiunse le colline nei dintorni di Torino, e si squarciò il ventre e la gola. La fantasia gli aveva permesso di creare personaggi eroici, la realtà lo condusse a una fine da protagonista di memorabili avventure che non accetta la resa al nemico: un harakiri colmo di rancori. Era il 25 aprile del 1911. A soli 49 anni lasciava una mole di opere destinate a propagarsi in tutto il mondo e a far sognare generazioni di giovani lettori che su quei romanzi avrebbero scoperto luoghi esotici ignorando — almeno i suoi contemporanei — che l’autore non si era mai mosso dall’Italia, e tutti i perigliosi viaggi si limitarono a qualche traversata dell’Adriatico. Ma la capacità di immaginare situazioni lontane nello spazio e nel tempo fu unica e irripetibile, perché Salgàri sapeva assorbire attraverso le letture ambientazioni e usanze di popoli sconosciuti, gli bastavano atlanti e carte nautiche per descrivere mari, arcipelaghi e giungle, ma, soprattutto, era in grado di narrare l’avventura con coinvolgente immedesimazione negli eroi che ingaggiavano lotte strenue contro avversari poderosi, forse senza neppure rendersi conto di trasmettere un messaggio «politico» : perché in fin dei conti il nemico era spesso il colonialismo, nelle sue varie forme. E nonostante la fervida fantasia, non poteva lontanamente presagire che a distanza di tanti anni, nel continente latinoamericano avrebbero considerato i suoi romanzi come esempi di «letteratura antimperialista» … O almeno così ritiene Paco Taibo II, che gli attribuisce persino un alto valore educativo: «Un ragazzo che legge Salgàri, da adulto non potrà essere razzista» . E Luis Sepúlveda racconta che suo nonno, anarchico andaluso emigrato in Cile, organizzò il primo circolo di letture delle opere salgariane come sorta di seminari libertari. In Italia nessuno colse questo singolare aspetto di «alfiere dell’anticolonialismo» , anzi: ignorato dai critici, ottenne successi effimeri con i cicli dei pirati della Malesia e dei corsari delle Antille, ma sempre considerato come autore di pura evasione, anche se, in effetti, molti genitori non vedevano di buon occhio le sue avventure intrise di violenza contro potenti e sfruttatori, e poco dopo la sua morte, un sondaggio rivelò che tanti giovani lo leggevano di nascosto, perché secondo mamma e papà Salgàri «eccita i nervi» o «scalda la testa» . E nell’Italia a cavallo dei due secoli, non si volevano ragazzi teste calde e per giunta innervositi da letture eccitanti. Crudele beffa del destino, far sognare gli altri, arrivando addirittura a «eccitarli» , mentre si conduce un’esistenza da forzato della penna, oberato di debiti e stretto nella morsa di editori rapaci: «La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedirle agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere» , si sfogava con l’amico pittore Gamba, nel 1909. E intanto Ida Peruzzi, che aveva sposato nel 1892, e che lui chiamava Aida, unico sostegno al suo affanno, smarriva il senno e lo lasciava solo in quella realtà desolata. Vivevano a Torino, ma lui amava ancora le colline della Valpolicella dove era cresciuto, terra fertile per le vigne che donano il vino prediletto di Hemingway, terra di antiche tradizioni che non lo ha dimenticato e in tempi recenti ha visto nascere appassionati comitati, la rivista «Ilcorsaronero» e un premio biennale per la letteratura avventurosa, e la Ca’ Salgàri è sempre lì, nelle campagne di Negrar, accogliente e semplice nella sua bellezza d’altri tempi, con i cipressi alti e dritti, e la famiglia di suoi discendenti a produrre il miglior Amarone e il Valpolicella classico e ripasso, con l’etichetta che riporta con orgoglio quel cognome, e guai, qui, a usare l’accento sbagliato, e chissà se Emilio lasciò correre perché gli sembrò più esotico: di fatto, i salgàri nel veronese sono i salici, e da sempre il loro nome si pronuncia così. Da quel giorno in cui «spezzò la penna» , è trascorso un secolo. Verona e la Valpolicella si accingono a ricordare lo scrittore con il rispetto e la stima che l’Italia non gli tributò da vivo, e con affetto per l’uomo che non resse alle umiliazioni di una vita ingrata: cento anni ci dimostrano che la sua opera è immortale, malgrado non avesse neppure il tempo di rileggerla e correggerla.

Repubblica 3.1.11
Il libro del 93enne Hessel ha venduto 500mila copie in Francia
“Indignatevi”. Se il bestseller è di un partigiano
"È un messaggio per le giovani generazioni" In Italia uscirà a febbraio
di Anais Ginori


PARIGI. «Il motivo di base della Resistenza era l´indignazione. Noi veterani dei movimenti di resistenza, noi chiamiamo le nuove generazioni a fare vivere, trasmettere, l´eredità della Resistenza e dei suoi ideali. Noi diciamo loro: raccogliete il testimone, indignatevi!». Appena trenta pagine, un libriccino. Che esce quasi di nascosto, ma passa di mano in mano, accende discussioni interminabili nelle famiglie e ora anche nel mondo politico. Perché è di 500 mila copie e dieci edizioni in due mesi che si sta parlando, del regalo di Natale più gettonato quest´anno dai francesi. Indignez-vous! di Stéphane Hessel non è un caso letterario ma qualcosa che ormai sconfina nel fenomeno sociale.
Nel suo numero speciale sul 2010, Le Monde ha chiesto a sette intellettuali di raccontare un motivo di indignazione ispirandosi al testo di Hessel. Il quotidiano Libération ha dedicato la prima pagina a questo libro e un´indagine per capire cosa c´è dietro l´improvviso entusiasmo dei francesi per un signore di novantatré anni, sconosciuto ai più fino a qualche mese fa. Chi è dunque Stéphane Hessel, ex partigiano nato a Berlino nel 1917 in una famiglia ebraica? Non precisamente un figlio del popolo. Sua madre è stata la pittrice che ha ispirato François Truffaut per il personaggio di Catherine in Jules et Jim, suo padre traduceva Proust insieme all´amico Walter Benjamin. Ma Hessel è stato partigiano in clandestinità durante l´occupazione nazista, a Londra insieme a De Gaulle, poi deportato a Buchenwald, sfuggito più volte alla morte. Ha partecipato alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo, nominato ambasciatore nel 1981, negli ultimi anni si è schierato con i sans-papiers e poi con i palestinesi. Non ha paura di evocare concetti come la disobbedienza civile o quella che chiama "dolce insurrezione". È convinto che la vecchia socialdemocrazia europea e lo Stato sociale abbiano ancora un futuro.
«La lotta contro le ingiustizie è la mia bussola» racconta Hessel, guardato ora come un nuovo maître à penser da una gauche in perenne ricerca della propria identità. Intorno alle parole semplici, quasi ovvie, di Hessel, si ritrovano d´accordo dagli ex trotskisti fino ai moderati, giovani e vecchi. Il suo appello all´indignazione ha già valicato le frontiere. «Riceviamo chiamate da tutto il mondo» dice Jean-Pierre Barou, ex giornalista e fondatore con Sylvie Crossman della piccola casa editrice Indigène Editions. In Italia sarà pubblicato a febbraio dall´editore Add.
«Questo libro non è un programma di governo – commenta Harlem Désir, numero due del Ps – è piuttosto un appello alla riflessione su un progetto di società. E ricorda alla sinistra che non deve dimenticarsi di essere, allo stesso tempo, ribelle, umana e ottimista». In realtà, l´appello di Hessel può anche essere letto come un richiamo a un´opposizione troppo passiva, rassegnata, silenziosa. Ma comunque tutti interpretano questo caso editoriale come un segnale politico, lo legano a un improvviso risveglio delle coscienze. «Se 500 mila copie vi sembran poche» è il lancio della nuova, ennesima ristampa. Qualcosa sta cambiando nella Francia di Sarkozy.

Repubblica 3.1.11
Missione 2011 impariamo a cambiare la nostra mente
di Oliver Sacks


Non spegnete il cervello: si può sempre imparare
Il celebre neurologo spiega che anche gli anziani possono apprendere cose nuove
Una signora ha iniziato a suonare l´arpa a 55 anni: prima non conosceva neppure una nota

I propositi per l´anno nuovo spesso riguardano un´alimentazione più sana, il frequentare di più la palestra, lo smettere di mangiare dolci, il perdere peso: tutti encomiabili obbiettivi che servono a migliorare la salute fisica. La maggior parte della gente, tuttavia, non si rende conto di poter potenziare allo stesso modo anche il proprio cervello.
Sebbene alcune aree cerebrali siano determinate geneticamente fin dalla nascita o dalla prima infanzia, altre zone - specie quelle poste nella corteccia cerebrale, che è nevralgica per le funzioni cognitive superiori come il linguaggio e il pensiero, nonché per le funzioni sensoriali e motorie - possono essere in larga misura ricondizionate nell´età adulta. In effetti, il cervello possiede la sorprendente capacità di recuperare la propria funzionalità dopo aver subito un danno: persino un danno devastante come la perdita della vista o dell´udito. Nella mia veste di medico che si occupa di pazienti affetti da malattie neurologiche, mi accade continuamente di assistere a questo fenomeno.
Ad esempio, una delle mie pazienti rimasta sorda a 9 anni, in seguito a una scarlattina, era talmente abile a leggere il labiale che ci si dimenticava della sua sordità. Una volta, senza pensarci, mi sono voltato mentre le stavo parlando.
«Non riesco più a sentirla», mi disse seccamente. «Intende dire che non riesce più vedermi», le dissi. «Lei può definirlo vedere, ma per me é un modo di sentire».
La lettura labiale, osservando i movimenti delle labbra, è stata immediatamente trasformata da questa paziente in un modo di "ascoltare" il suono delle parole nella propria mente. Il suo cervello ha trasformato una sensazione in un´altra.
Allo stesso modo, i ciechi riescono spesso a "vedere". Alcune aree del cervello, se non stimolate, si atrofizzano e muoiono. («Usalo o lo perderai», dicono spesso i neurologi). Ma le aree visive del cervello, anche in alcuni soggetti nati ciechi, non scompaiono completamente ma vengono reimpiegate da altri sensi. Tutti abbiamo sentito parlare di persone non vedenti che possiedono un udito insolitamente acuto, ma anche altri sensi possono essere potenziati. Ad esempio, Geerat Vermeij, un biologo diventato cieco all´età di 3 anni, ha identificato molte nuove specie di molluschi sulla base di lievissime variazioni dei contorni delle conchiglie. Egli utilizza una sorta di abilità spaziale o tattile di molto superiore a quello di una qualunque persona vedente.
Lo scrittore Ved Metha, anch´egli cieco fin dalla prima infanzia, naviga soprattutto utilizzando la "ecolocazione" - la capacità cioè di avvertire la presenza degli oggetti dal modo in cui essi riflettono i suoni, o gli impercettibili cambiamenti delle correnti d´aria che raggiungono il suo viso. Ben Underwood, un ragazzo straordinario che perse la vista quando aveva 3 anni e che è morto nel 2009, a 16 anni, aveva elaborato un´efficace strategia, simile a quella dei delfini, che gli permetteva, emettendo schiocchi a ritmo regolare, di avvertirne l´eco sugli oggetti vicini. Era diventato così abile che poteva andare in bicicletta, fare sport e persino giocare con i videogame.
Persone come Ben Underwood e Ved Metha, che hanno avuto qualche precoce esperienza visiva ma che in seguito hanno perso la vista, sono in grado di trasformare istantaneamente le informazioni che ricevono attraverso il senso tattile o l´udito, in un´immagine visiva: riescono, ad esempio, a "vedere" i puntini mentre leggono con le dita la scrittura Braille.
I ricercatori che utilizzano le immagini funzionali del cervello confermano che in situazioni del genere i soggetti attivano non solamente le aree della corteccia dedicate al senso tattile, ma anche parti della corteccia visiva.
Non c´è bisogno di essere ciechi o sordi per sfruttare la misteriosa capacità del cervello di apprendere, adattarsi e svilupparsi. Ho visto centinaia di pazienti con vari deficit - ictus, sindrome di Parkinson e persino demenza - imparare a fare le cose in modo nuovo, sia consapevolmente che inconsapevolmente, così da aggirare quei problemi.
Il fatto che il cervello sia in grado di adattamenti tanto radicali solleva interrogativi interessanti. Fino a che punto siamo plasmati dal nostro cervello, e in che misura siamo noi a plasmarlo? La capacità del cervello di modificarsi può essere sfruttata in modo da fornirci maggiori capacità cognitive? L´esperienza di molte persone fa ritenere che ciò è possibile.
Una mia paziente è diventata paralitica da un giorno all´altro a causa di un´infezione del midollo spinale. Inizialmente è caduta in depressione perché non poteva più godere nemmeno del più piccolo piacere, come il cruciverba quotidiano, da lei tanto amato. Dopo qualche settimana, però, ha chiesto di avere il suo giornale, in modo da poter almeno dare un´occhiata al gioco, vederne la configurazione, gettare uno sguardo agli indizi. Nel fare questo, accadde qualcosa di straordinario. Leggendo gli indizi, le risposte sembrarono scriversi da sole negli spazi vuoti. Nelle settimane successive la sua memoria visiva si potenziò fino a quando scoprì di poter tenere a mente l´intero cruciverba e tutti gli indizi dopo una sola, attenta, occhiata e di poter risolverlo mentalmente.
Questa evoluzione può verificarsi anche in pochi giorni. I ricercatori di Harvard, ad esempio, hanno scoperto che soggetti adulti vedenti, tenuti bendati per soli cinque giorni, sono in grado di produrre un cambiamento nel modo in cui funziona il loro cervello: i soggetti hanno migliorato considerevolmente le loro competenze tattili, come l´apprendimento del sistema Braille.
La neuroplasticità - la capacità del cervello di creare nuovi percorsi - svolge un ruolo essenziale nel recupero di coloro che perdono una capacità sensoriale, cognitiva o motoria. Essa tuttavia può svolgere un ruolo essenziale anche nella vita quotidiana di tutti noi. Sebbene sia vero che apprendere durante l´infanzia è più facile, i neuroscienziati oggi sanno che il cervello non cessa di svilupparsi, anche nell´età matura. Ogni volta che ci accingiamo a fare qualcosa che già sappiamo fare, o apprendiamo qualcosa di nuovo, le connessioni neuronali già presenti si potenziano e, con il tempo, i neuroni ne creano di nuove. Possono essere create persino delle nuove cellule nervose.
Ho sentito molte storie di persone comuni che hanno iniziato a praticare un nuovo sport o a suonare uno strumento musicale a 50 o 60 anni e non soltanto sono diventate piuttosto brave ma, facendolo, ne hanno tratto una grande gioia. Eliza Bussey, una giornalista di 55 anni che oggi studia arpa al conservatorio Peabody di Baltimora, solo pochi anni fa non era in grado di leggere neanche una nota. In una sua lettera, mi ha scritto che cosa è significato imparare a suonare la Passacaglia di Händel: «Sentivo, ad esempio, che le mie dita e il mio cervello cercavano di collegarsi per dare forma a nuove sinapsi… So che il mio cervello è cambiato in modo straordinario». Non c´è dubbio che la signora Bussey ha ragione: il suo cervello è cambiato.
La musica ha una particolare forza plasmante, perché ascoltarla e soprattutto suonarla impegna molte differenti aree del cervello, le quali devono tutte lavorare in tandem: dalla lettura della notazione musicale e il coordinamento di precisi movimenti muscolari della mano alla valutazione e all´espressione del ritmo e della tonalità e all´associazione della musica a ricordi ed emozioni.
Che sia attraverso l´apprendimento di una nuova lingua, viaggiando in posti nuovi, seguendo una passione per l´apicoltura o semplicemente pensando in modo nuovo ad un vecchio problema, tutti noi, nei prossimi anni e in quelli che seguiranno, possiamo stimolare lo sviluppo del nostro cervello. Proprio come l´attività fisica è essenziale al mantenimento di un corpo sano, così mettere alla prova il proprio cervello, mantenerlo attivo, impegnato, flessibile e vivace non è soltanto divertente: è essenziale al benessere cognitivo.
© 2011 The New York Times Distributed by The New York Times Syndacate(Traduzione di Antonella Cesarini)