martedì 4 gennaio 2011

l’Unità 4.1.11
Bersani: «Primarie da rivedere, ma prima programma e alleanze»
Il segretario del Pd: «Se vogliamo salvarle vanno riformate». Veltroni: «Rilanciamo il partito»
La «moratoria» lanciata da Finocchiaro resiste: alla Direzione il tema non sarà in primo piano
Tracciata la linea, la discussione formale non è ancora in agenda. Al centro della prossima direzione Pd, il «patto costituente» proposto alle forze sociali e politiche interessate alle riforme istituzionali.
di Simone Collini


L’argomento verrà al massimo toccato alla Direzione del partito convocata per il 13, anche se pochi giorni dopo si terrà una delicata competizione di questo tipo a Bologna (insieme a Cagliari e Napoli e poi Torino), per non parlare del fatto che le sorti del governo si decideranno tra il 17 e il 23, quando il federalismo dovrà passare l’esame in due commissioni (Bilancio e Affari costituzionali) in cui l’asse Pdl-Lega sulla carta è in minoranza, e presto si potrebbe andare a una sfida elettorale dovendo sciogliere il nodo in tempi rapidi. Nel Pd non c’è però molta voglia di riaprire una discussione sulle primarie. Non ora, anche se ieri il Corriere della Sera e la Repubblica hanno pubblicato rispettivamente un editoriale di Giovanni Sartori dal titolo «Le primarie fanno male al Pd» e un sondaggio con commento di Ilvo Diamanti dal titolo «Dopo le primarie c’è ancora il Pd?». Un uno-due che ovviamente non è passato inosservato al vertice del Pd.
Ma al momento sembra resistere la «moratoria» proposta prima di Natale da Anna Finocchiaro in un’intervista a l’Unità («basta parlare di primarie e alleanze»). Le conclusioni che vengono tratte rispetto gli interventi sui due quotidiani divergono, tra le diverse anime del partito. Ma quando i dirigenti del Pd si rivedranno per discutere come incalzare il governo e come costruire un’alternativa credibile, la discussione verrà centrata su altre questioni.
PRIMA PROGRAMMA E COALIZIONE
Se Sartori ha scritto che le primarie «in linea di principio» sono «una buona idea» ma «estremizzano la scelta dei candidati» e producono all’interno del partito che le adotta «un forte frazionismo», Bersani leggendolo ha trovato una conferma alla sua tesi: «Se vogliamo salvare le primarie dobbiamo riformarle» (serve «un tagliando», per dirla con il responsabile Enti locali Davide Zoggia). Insomma, è necessario studiare delle correzioni per preservare questo «strumento», e presto si aprirà un confronto formale negli organismi del Pd per decidere quali correzioni apportare. Non alla direzione del 13 però, assicurano, al Nazareno. In quella sede Bersani tornerà a spiegare la strategia per andare «oltre il berlusconismo», ovvero il «patto costituente» proposto alle forze sociali e politiche interessate a una riforma istituzionale e a un patto per il lavoro e la crescita (il week-end successivo sarà nelle Marche per spiegare a militanti e simpatizzanti la proposta e altrettanto faranno in altre regioni tutti i membri della segreteria). Per Bersani insomma rimane valida la «sequenza logica» «prima il programma, poi coalizione e infine primarie», con buona pace di Nichi Vendola.
LA REGOLA PER IL PD
Un’impostazione che alla Direzione non dovrebbe essere contestata da Walter Veltroni, per il quale le primarie sono sì un «architrave» del Pd, sono sì «la regola del Pd», ma riguardano il partito, non le coalizioni. Così, se effettivamente la situazione dovesse precipitare e si dovesse andare alle urne in primavera, difficilmente verrà dall’ex segretario una sponda nei confronti di Vendola. Le primarie di coalizione per la premiership, ha detto non a caso Veltroni a l’Unità nell’ultima intervista rilasciata, vanno governate «attraverso il mutuo convincimento nella ricerca del candidato che meglio può garantire unità e consenso». Posizione in linea con quella espressa da Franceschini («se bisogna allargare la coalizione anche a forze diverse dal centrosinistra è inevitabile discutere con loro i criteri per scegliere il leader») e Finocchiaro (se l’alleanza col Terzo polo dovesse andare in porto il Pd «potrebbe fare una scelta di responsabilità e verificare se c’è un consenso generale verso un’altra candidatura come facemmo con Prodi»). Anche se Veltroni non mancherà di sottolineare, al Lingotto il 22, che il partito deve ritrovare l’«ambizione maggioritaria» e mostrare una maggiore «spinta innovatrice». Un discorso che ha a che fare con le primarie, sottolinea Walter Verini («sono nel dna del Pd, che deve essere un partito aperto, che torni a parlare a tutto il Paese e nel quale a contare non siano solo gli iscritti ma tutti i cittadini elettori»), ma che alla Direzione del 13 non sarà messo in primo piano per evitare il riaprirsi di una querelle che non farebbe bene a nessuno.

Corriere della Sera 4.1.11
Il Pd ripensa le primarie: serve un tagliando
di Monica Guerzoni


ROMA— Gli amanti dei gazebo dovranno rassegnarsi. Mentre in Francia parte la corsa in casa socialista, nel centrosinistra italiano la stagione delle primarie è al tramonto. Il «mito fondativo» del Pd sembra destinato a finire in soffitta, o quantomeno in officina. «Le primarie hanno bisogno di un tagliando» , volta pagina il bersaniano Davide Zoggia, esponente della segreteria del Pd, dopo aver letto Giovanni Sartori sul Corriere e Ilvo Diamanti su la Repubblica. E con la minoranza è di nuovo scontro. I due politologi concordano sul fatto che le primarie, per come sono state interpretate, facciano male al Pd e Sartori prevede per i democratici «una catastrofe» , nel caso in cui Nichi Vendola dovesse correre per la premiership e vincere la sfida. Le primarie, è la sua tesi, estremizzano la scelta degli elettori, con il rischio di incoronare un candidato «sbagliato» e «perdente» . Parole che Pier Luigi Bersani ha confidato ai suoi di aver apprezzato, perché vi ha trovato conferma che il suo percorso è quello giusto. Nei prossimi giorni il segretario ribadirà il suo appello a tutte le opposizioni per un «patto costituente» , che metta insieme il più ampio fronte possibile. Prima il programma, poi la coalizione e infine la scelta del candidato, è la tabella di marcia di Bersani e del suo vice Enrico Letta, tra i primi a indicare la rotta nell’alleanza con il terzo polo. «Vendola, con il suo vendolacentrismo, sta uccidendo le primarie— attacca il lettiano Francesco Sanna— Le primarie hanno senso nel partito, più che nella coalizione» . Il «fuoco amico» sulle primarie allarma i veltroniani, che temono la messa in discussione dello strumento che incarna la vocazione maggioritaria del Pd. «Le primarie non sono un optional, sono l’identità di un partito aperto, dove oltre agli iscritti contano gli elettori — avverte Walter Verini, di Modem—. Se tolgono le primarie e privilegiano le alleanze rispetto ai cittadini, la natura del Pd cambia e noi non siamo d’accordo» . Beppe Fioroni va oltre, per lui se le primarie non funzionano la colpa non è certo dello strumento: «Se il primo partito di opposizione candida il segretario e lui viene sconfitto, non vuol dire che le primarie sono sbagliate, ma che il Pd è tutto da rifare» . E il senatore Stefano Ceccanti spiega come il nodo non sia tecnico, quanto politico: «Perseguendo la strada di un Pd che ambisce a rappresentare solo la sinistra tradizionale, si finisce per dover delegare la leadership ad alleati, con o senza primarie» . I gazebo per le amministrative sono già in cantiere e si faranno. Ma la segreteria pensa ad «aggiustamenti» delle primarie, tanto che Zoggia annuncia un «ampio confronto negli organismi del partito» . Nel mirino c’è lo statuto e Giorgio Merlo, ex Popolare vicino a Franco Marini, chiede che venga modificato: «Non è un dogma di fede» . In difesa delle primarie si schierano invece i «rottamatori» di Matteo Renzi e Pippo Civati, che in attesa di riunirsi il 16 gennaio a Bologna preparano il «manifesto del partito dei giovani» , destinato a diventare un libro. Monica Guerzoni

Repubblica 4.1.11
Pd, lo scontro sulle primarie sale l´ipotesi-congelamento
Ma i veltroniani: fanno parte del nostro Dna


ROMA - I dubbi sulle primarie portano il Pd a prendere in esame l´ipotesi-congelamento: potrebbe essere la riunione della direzione, il prossimo 13 gennaio, a decidere uno stop all´aspro confronto aperto sul "come" scegliere il candidato premier del partito. Stabilendo che, in questa fase, conta soprattutto il "quando": fino a che non sarà chiaro se ci aspettano davvero elezioni in primavera, meglio fermare lo scontro primarie sì-primarie no. Se, infatti, dovesse saltare il banco della maggioranza, e aprirsi la corsa al voto, come ha già spiegato Bersani la strada maestra per il partito sarebbe l´alleanza con il Terzo Polo di Casini e Fini, con conseguente passo indietro sui gazebo, "indigesti" al leader dell´Udc che aspira alla premiership. Segretario del Pd dunque pronto a sacrificare le primarie, e le proprie stesse ambizioni alla guida della coalizione. Scontrarsi ora sulla "chiamata" o meno del popolo pd rischia solo, come ha messo in evidenza il sociologo Ilvo Diamanti nel sondaggio pubblicato ieri da Repubblica, di alimentare dubbi e incertezze nella stessa base del centrosinistra. Che, rivela la ricerca Demos, considera le primarie una caratteristica fondativa del partito, ma allo stesso tempo solo un terzo degli elettori le ritiene indispensabili. Fuori dal Pd, Nichi Vendola continua a puntare tutto sui gazebo subito, mentre Antonio Di Pietro frena e chiede prima di trovare l´intesa su programma e coalizione: «Le primarie le vediamo come un possibile e positivo punto di arrivo dopo aver individuato una coalizione e un programma da proporre agli elettori». Farle invece solo sui nomi, sostiene il leader dell´Idv, sarebbe «un puro specchietto per le allodole, rischia di essere un passo azzardato».
Senza arrivare a tanto, anche ai vertici del Pd si fa strada l´idea di rivedere il meccanismo. «Serve un tagliando per le primarie - chiede un esponente della segreteria, Davide Zoggia - come mette in evidenza il risultato stesso del sondaggio di Repubblica: c´è la necessità di aggiustamenti, proprio per non disperdere il patrimonio della partecipazione». Aggiustamenti che dovranno passare attraverso un «ampio» confronto negli organismi del partito, ma «è ovvio che la discussione non può riguardare le primarie già previste». Niente marcia indietro allora a Torino o Bologna, dove il Pd dovrà correre comunque il rischio di ritrovarsi come a Milano, dove ha vinto Giuliano Pisapia, candidato appoggiato da Vendola.
Ma i veltroniani, che si preparano al "Lingotto 2" di metà gennaio, provano a tenere duro. «Le primarie fanno parte del dna di un partito - avverte Walter Verini - che dovrebbe tornare a parlare a tutto il Paese, in cui a contare non sono solo gli iscritti ma tutti gli elettori. E non quel regolamento di conti che purtroppo in qualche caso c´è stato». Sulla stessa lunghezza d´onda Stefano Ceccanti, che chiede consultazioni solo di partito e non di coalizione, e rivendica ancora il Pd a vocazione maggioritaria: «Soprattutto a livello nazionale, ma anche regionale, hanno senso solo primarie di partito in cui il leader è anche il candidato alla guida del governo». E anche per Pippo Civati, dell´area Marino, le primarie non si toccano, «sono molto popolari tra i sostenitori del centrosinistra, nonostante il fuoco di fila cui sono sottoposte dai big del pd». Giusto l´opposto di quel che pensa Giorgio Merlo, ex ppi: «Siamo di fronte ad un sostanziale fallimento delle primarie».
(u.r.)

l’Unità 4.1.11
E Vendola resta il solo a chiedere i gazebo subito
Anche il leader dell’Idv Antonio Di Pietro interviene: «Le consultazioni sono un punto di arrivo. Farle solo sui nomi rischia di essere un passo azzardato»
di S.C.


Nichi Vendola rischia di rimanere il solo a chiedere le primarie subito per scegliere il candidato premier che dovrà sfidare la destra. Il Pd alla Direzione del 13 dovrebbe stringersi attorno alla proposta del segretario di lavorare sul «patto costituente» con le altre forze politiche e sociali interessate ad andare «oltre Berlusconi» e sulla «sequenza logica» più volte sottolineata da Pier Luigi Bersani, che prevede prima il programma, poi le coalizioni e infine le primarie per la premiership. Il governatore della Puglia ha fiutato l’aria e contina a rilanciare la necessità di convocare al più presto il popolo dei gazebo: «Le primarie possono rispondere alla crisi dei partiti, possono illuminare una platea più larga dove non ci sono solo i partiti, facciamole, confrontiamoci».
Ma l’appello di Vendola finora è caduto nel vuoto, soprattutto al di fuori dei confini del Pd. L’altro alleato per così dire naturale dei Democratici e di Sinistra e libertà, l’Italia dei valori, sposa infatti il timing proposto da Bersani. «Le primarie le vediamo come un possibile e positivo punto di arrivo dopo aver individuato una coalizione e un programma da proporre agli elettori», dice Antonio Di Pietro. «Farle invece solo sui nomi, come puro specchietto per le allodole, rischia di essere un passo azzardato». Il leader dell’Idv sottolinea di essere «favorevole» alla consultazione popolare, ma dice anche che prima di chiamare militanti e simpatizzanti a un pronunciamento «bisogna individuare una coalizione e un programma».
Anche i Radicali dimostrano, non da oggi, uno scarso entusiasmo per il modo in cui si svolgono da noi le primarie. Emma Bonino rimane convinta che un conto è come avvengono nei sistemi bipartitici, un conto sono quelle in salsa italiana: «O ci si mette un po’ d’ordine o una pietra tombale, visto che al momento sembrano soprattutto uno strumento per fare la conta interna».
Per non parlare della proverbiale contrarietà a ricorrere a questo strumento da parte dell’Udc. La situazione politica è ancora molto confusa e solo alla ripresa dei lavori parlamentari si capirà se l’ottimismo ostentato da Berlusconi sulla tenuta del governo sia fondato o meno. Non bisognerà però attendere molto per capire se si andrà alle urne in primavera, visto l’aut-aut lanciato dalla Lega (federalismo entro gennaio o si va al voto) e visto che tra il 17 e il 23 il federalismo sarà discusso in commissione Bilancio e Affari costituzionali, dove al momento Pdl e Lega sono in minoranza (a causa del passaggio dei finiani all’opposizione). Gli appelli ai centristi ad entrare nel governo finora sono caduti nel vuoto e l’Udc, che finora è stato l’unico partito a votare in Parlamento sempre contro la legge cara alla Lega, non dovrebbe cominciare ora a fornire stampelle su questo terreno. Bersani continua a lavorare per accorciare le distanze con il partito di Casini. E in caso di un voto anticipato, per dar vita a una coalizione «emergenziale» potrebbe anche rinunciare alle primarie per scegliere chi sarà a sfidare Berlusconi.

l’Unità 4.1.11
Con le spalle al muro
di Rinaldo Gianola


L’uomo dell’anno Sergio Marchionne arriva in piazza Affari per il battesimo della Fiat post scissione, con camion, ruspe e trattori a fare da scenografia. Due società al listino, un segno positivo a fine giornata, l’illusione che vada tutto bene anche se il mercato dell’auto italiano chiude il 2010 con una caduta delle immatricolazioni Fiat del 16,7% e una quota di mercato pari al 30%, vent’anni fa era più del doppio. Almeno il crollo delle vendite non dovrebbe essere colpa degli operai, ma non si sa mai.
Marchionne ormai recita la parte del manager senza macchia e senza paura, che lancia la solita minaccia «Se a Mirafiori vincono i no, non faccio l’investimento» che è poi la stessa già usata a Pomigliano, ripetuta in tv da Fabio Fazio, issata sul vessillo del Lingotto come fosse la nuova ragione sociale del gruppo, commentata sui giornali dell’ industria e delle banche come il segno della modernità necessaria. Marchionne usa toni e parole arroganti, non rispettose delle parti sociali e delle istituzioni, si irrita perché qualcuno gli chiede il dettaglio dei piani di investimento. C’è da giurarci che non userebbe gli stessi modi in America, quando va a parlare con Obama. Ma così van le cose in casa nostra.
Per gli operai di Mirafiori, come per quelli di Pomigliano, non ci sono alternative. Se vogliono lavorare, se vogliono continuare a entrare nella vecchia fabbrica, se vogliono portare a casa un faticoso salario devono accettare le condizioni imposte dalla Fiat.
E allora, almeno per un momento, dimentichiamoci delle divisioni sindacali, della latitanza della politica, della imbarazzante dialettica nel Pd, della Fiom e della Cgil, dei litigi e degli scontri, dell’inutile Confindustria. Occupiamoci solo di Mirafiori nel giorno in cui Marchionne lancia il suo ricatto, perchè di questo si tratta, ai 5500 addetti della Carrozzeria. Questi lavoratori tra un paio di settimane andranno a votare, con le spalle al muro. Il confronto tra le parti in questa partita è troppo ingiusto, il potere delle parti troppo diverso. Quelli di sinistra, o che vengono da sinistra, e si sono schierati con Marchionne dovrebbero riflettere a fondo, pensare a cosa c’è in gioco.
Da una parte c’è il manager che guadagna qualche milione di euro l’anno e potrà esercitare stock options fino a 200 milioni di euro nei prossimi anni e che decide tutto, dall’altra ci sono i lavoratori che passano da una cassa integrazione all’altra, che vedono il salario minacciato ed eroso, che sperano in un futuro più sereno per le loro famiglie. Questi lavoratori devono giustamente pensare prima al loro posto e al loro salario. Diritti, contratti, Costituzione? Tutto passa in secondo piano, bisogna avere un lavoro, rinunciando a tutto quello che desidera Marchionne. Vuole il 18 ̊ turno nella notte di sabato? Vuole lo straordinario obbligatorio? Vuole decidere quando pagare la malattia? Va bene, diamogli tutto. Diciamo sì, accettiamo tutti i diktat di Marchionne. E se non c’è nessuno che si oppone, se nessuno sente l’urgenza di contrastare politicamente questo disegno, se si corre in soccorso del potente dimenticando storia, valori e cultura, allora diciamo sì a tutto. Viva Marchionne, viva la Fiat. E che sia finita.

l’Unità 4.1.11
La confederazione propone una sigla per poter entrare in fabbrica
Le tute blu insistono: no ai ricatti, il referendum a Torino è illegittimo
Fiom rifiuta la firma tecnica e va allo scontro con la Cgil
È scontro tra Fiom e Cgil sulla strategia per Mirafiori: i metalmeccanici respingono il referendum come «illegittimo» e rifiutano la proposta di una firma tecnica all’accordo caldeggiata dalla confederazione.
di Luigina Venturelli


«Le firme tecniche non esistono, un accordo o si firma o non si firma». La bocciatura lapidaria della Fiom non sembra lasciare spazio ad una soluzione di compromesso che consenta al sindacato dei metalmeccanici di uscire dall’angolo in cui l’ha costretto Sergio Marchionne: fuori dalle fabbriche Fiat di Mirafiori e Pomigliano, e vicino allo scontro con la Cgil. Eppure una soluzione andrà trovata possibilmente concorde tra le tute blu e la confederazione d’appartenenza per affrontare una vertenza tanto difficile quanto decisiva per le sorti del mondo del lavoro, dell’organizzazione e delle relazioni industriali del Paese.
Il calendario degli incontri Fiom-Cgil è dunque fittissimo: in queste ore si vedranno i due segretari generali, Maurizio Landini e Susanna Camusso, per un preliminare confronto faccia a faccia; domani si terrà il vertice dei metalmeccanici per fare il punto sulle carrozzerie torinesi; a seguire verrà fissato l’«incontro urgente» chiesto dalle tute blu ai vertici di Corso Italia. Tutto per ricomporre la frattura consumatasi sulla vertenza del Lingotto: la Fiom ritiene «illegittimo, non libero e fatto sotto ricatto» il referendum che si terrà a metà gennaio tra i lavoratori di Mirafiori e rifiuta di parteciparvi in alcun modo, mentre la Cgil (con l’appoggio della minoranza Fiom di Fausto Durante) propone di fare campagna per il no alla consultazione, accettandone poi il verdetto, anche positivo, per evitare l’esclusione dalle rappresentanze sindacali aziendali.
LO SCONTRO SULLA FIRMA TECNICA
Per ora, comunque, le distanze sembrano allargarsi. Ancora ieri l’organizzazione di categoria ha ribadito «che non sono accettabili, nè firmabili, gli accordi che cancellano il contratto nazionale e colpiscono diritti individuali e collettivi, indisponibili alla negoziazione sindacale». Anche una firma tecnica apposta malgrado il giudizio negativo sulla sostanza dell’intesa sarebbe «in contrasto con le norme statutarie della Cgil e della Fiom». Per reagire al piano Fiat, dunque, l’organizzazione di Landini si affida ad una campagna d’opposizione a tutto campo, dalle raccolte firme alle azioni giudiziarie, dallo sciopero del 28 gennaio alle iniziative di lotta su tutto il territorio nazionale. Ma non all’interno di Mirafiori: «Se poi i delegati ed i lavoratori intendono formare comitati per il no lo consideriamo un fatto legittimo».
Diametralmente opposta la posizione della Cgil. «La Fiom non può limitarsi a registrare quel che sta avvenendo, restando fuori dalla fabbrica e affidandosi esclusivamente all’azione giudiziaria» ha sottolineato il segretario confederale Vincenzo Scudiere, tornando su quanto detto nei giorni scorsi dalla Camusso. «Deve decidere come uscire da questa situazione, prendere il toro per le corna e, anche se il referendum verrà utilizzato a Mirafiori in modo antidemocratico, prendersi la responsabilità di gestire la vertenza ed accettare il voto dei lavoratori». In Corso Italia anche il divieto di firma, stabilito dallo Statuto della confederazione, a un accordo lesivo di diritti viene considerato una forzatura interpretativa. Così come vengono ricordati precedenti storici di referendum illegittimi comunque affrontati e gestiti dal sindacato (ad esempio, alla Michelin di Torino nei tardi ‘70). Fin dove potrà spingersi il contrasto Fiom-Cgil nessuno è in grado di prevederlo. Inedita è la vertenza ed inedito è il momento storico. L’unica ipotesi esclusa è quella della scissione: «Solo propaganda» ha commentato Landini. «In questi casi non ci si divide. Si trova una soluzione» ha confermato Scudiere.
Ormai incolmabile, invece, l’abisso tra la Fiom e le altre sigle sindacali. Secondo il leader Cisl Raffaele Bonnani «la Fiom ne dice una al giorno. L’unica cosa che non dice è che per ottenere il lavoro ci vogliono investimenti». E per Rocco Palombella della Uilm «la Fiom deve avere il coraggio di dire sì o no, senza nascondersi dietro le altre sigle».

l’Unità 4.1.11
I rischi a Corso Italia
Dialettica e divisione
di Bruno Ugolini


Il rischio è quello di un ritorno, in Cgil, alla contrapposizione tra «massimalisti» e «minimalisti». Sono parole di un anziano dirigente della Cgil, Gilberto Bacci. Mi ha ricordato storie del passato e la sempre difficile ricerca di compromessi. È d’accordo con la Camusso: se alla Fiat i lavoratori votano in massa per il Si non si può lavarsene le mani. È la proposta di una “firma tecnica” su quell’accordo separato. Proposta già respinta dalla maggioranza Fiom. Mentre la Fim Cisl fa capire di non accontentarsi di una firma “tecnica”. Ciascuno resterà sulle proprie posizioni? O qualcuno in Cgil ricorrerà a quella norma dello statuto approvata tra contrasti all’ultimo congresso e che prevede la supremazia confederale sulle categorie?
Certo il ricatto del padrone multinazionale è pesante. Sono in gioco diritti indisponibili. Come quello di sciopero. Sarebbe però necessario chiedersi se sia possibile battere oggi la strategia di Marchionne e portare a casa due risultati: la promessa dei 20 miliardi di investimenti e un nuovo accordo che cancelli quello separato. Sarebbe necessaria, come ha suggerito su Rassegna Sindacale Enrico Galantini, riprendendo una formula di Vittorio Foa, una «mossa del cavallo» e abbandonare il muro contro muro. Ma che cosa succederebbe se non si facesse nulla e se il voto a Mirafiori dicesse schematicamente No alla Fiom e Si alle promesse di Marchionne? Il principale sindacato italiano sarebbe escluso da ogni potere di contrattazione, quasi in semi-clandestinità. Sarebbe meglio riflettere. L’”entrismo” non è il peccato del diavolo. Lo hanno usato alcuni emeriti dirigenti della Cgil. Erano gli anni 30 ed era opportuno entrare, nei sindacati fascisti. Non siamo a quel punto, non ci sono le bande che incendiano le Camere del lavoro. Ma il rischio è quello di essere ininfluenti e assistere da fuori alla frana ulteriore di diritti e tutele.

Corriere della Sera 4.1.11
Vertice tra Cgil e Fiom Camusso convoca Landini
Il segretario delle tute blu: comprare azioni? Non ci penso nemmeno
di Enrico Marro


ROMA— Faccia a faccia ieri sera tra il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, e quello della Fiom, Maurizio Landini. Il leader dei metalmeccanici è andato nella sede della Cgil intorno alle 21, dove ha trovato ad attenderlo Camusso che, già ieri mattina aveva deciso di accelerare il chiarimento con la Fiom, dopo lo scontro di questi giorni sulla linea da seguire sulla vertenza Fiat. L’intervista pubblicata l’altro ieri dal Corriere della Sera, dove il segretario della Cgil parlava di «sconfitta» della Fiom e della necessità che la categoria cambiasse atteggiamento sul referendum di Mirafiori, ha provocato la reazione della stessa Fiom, che ieri ha tenuto una riunione straordinaria della segreteria e poi ha diffuso un comunicato nel quale si chiede una riunione urgente con la segreteria della Cgil e, per il resto, si ribadisce la linea decisa a maggioranza pochi giorni fa dal comitato centrale della Fiom. Linea completamente diversa da quella proposta da Camusso. Infatti, mentre Landini ribadisce che la Fiom considera «illegittimo e ricattatorio» il referendum nel quale la prossima settimana i lavoratori di Mirafiori dovranno esprimersi sull’accordo tra la Fiat e i sindacati (non firmato dalla stessa Fiom), Camusso vuole invece che i lavoratori partecipino al voto e che, in caso di vittoria dei sì (probabile), la Fiom prenda atto del risultato e trovi un modo per aderire all’accordo e quindi rientrare nella fabbrica, dalla quale altrimenti resterebbe fuori (l’intesa prevede infatti rappresentanze sindacali solo per i firmatari). Camusso è rientrata ieri mattina nella sede della Cgil dopo qualche giorno di riposo per le festività natalizie e ha avuto una intensa giornata di incontri e contatti con i dirigenti della confederazione. Quasi un sondaggio dal quale ha raccolto la sensazione di un ampio sostegno alle sue posizioni. Che hanno rinfrancato anche la minoranza della Fiom che fa capo alla stessa Camusso e che è guidata da Fausto Durante, il quale ha contrapposto al comunicato della segreteria Fiom una dichiarazione dove si propone di uscire dalla vertenza Fiat con «una firma per presa d’atto: è questo l’unico modo per tener vive le ragioni della Fiom dentro le fabbriche» . La partita tra la Cgil e la maggioranza della Fiom è però aperta e lo scontro è aspro perché sono entrati in gioco anche attori esterni al sindacato. Ai piani alti della Cgil ha creato una forte irritazione l’attivismo dell’ex segretario della Cgil, Sergio Cofferati (ora europarlamentare Pd), che a più riprese è intervenuto a fianco della Fiom, prima sostenendo che ha una posizione «fin troppo moderata» , poi dando vita insieme con Fausto Bertinotti a una associazione (Lavoro e libertà) pro-Fiom e infine affermando che un vincolo statutario impedirebbe ai metalmeccanici di firmare accordi come quelli di Pomigliano e Mirafiori «lesivi dei diritti» , tesi fatta propria ieri dalla segreteria Fiom (secondo Landini Marchionne vuole condizioni «peggiori del 1800» ) e dal leader della sinistra, Giorgio Cremaschi. E non è tutto. La segreteria della Fiom sembra decisa a farsi aiutare da tutti i soggetti politici disposti a stare dalla sua parte. Tanto è vero che ieri ha deciso un calendario di incontri con i leader politici, che comincia oggi con il capo dell’Idv, Antonio Di Pietro. Importante sarà, per Landini, anche l’incontro con Nichi Vendola, leader di Sel che ha schierato tutte le sue truppe con la Fiom, anche in vista dello sciopero generale dei metalmeccanici che questo sindacato ha proclamato per il 28 gennaio. Ieri, Landini si è concesso una sola battuta per allentare la tensione, quando, nel giorno del debutto delle due nuove società Fiat in Borsa, ha risposto ai giornalisti che lui non comprerà azioni: «Non l’ho mai fatto. Avendo pochi soldi sono portato a non rischiare... rischio già abbastanza» . Al momento l’unica idea che è stata messa in campo per uscire da questo scontro tra la Cgil e la Fiom è quella della stessa Camusso di un accordo interconfederale (Confindustria, Cgil, Cisl e Uil) sulle regole della rappresentanza. Se per esempio si stabilisse che gli accordi convalidati da un referendum sono validi per tutti, anche per i sindacati che eventualmente non li avessero firmati, la Fiom dovrebbe sottostare a questa regola, a meno di non uscire dalla Cgil. Ipotesi che per ora nessuno prende in considerazione.

il Fatto 4.1.11
Marchionne il buono
di Furio Colombo


Caro Colombo, sul “Sole 24 Ore” del 19 dicembre ho letto un articolo che comincia così: “Dobbiamo essere grati a Marchionne almeno su un punto: l’avere avuto una riflessione sui difetti gravi del nostro sistema di relazioni industriali, che contribuiscono a chiudere l’Italia agli investitori stranieri”. Non ci avrei fatto caso. Chi penserebbe a investire nell’Italia al tracollo di Berlusconi? Ma la frase è di Pietro Ichino, senatore Pd. L’uomo è illustre ma la frase è priva di senso. Sbaglio?
Giorgio

CI SONO DUE passaggi, nella breve frase attribuita a Ichino, che non corrispondono a ciò che è avvenuto o sta avvenendo alla Fiat e dunque alle relazioni di lavoro in Italia. Il primo riguarda la parola “riflessione”. Quella di Marchionne è una serie di gesti di potere senza discussione che inizia con il rovesciare il tavolo e diventa ben presto il dominio dell’uomo forte e armato nel “saloon” del film western. La sequenza si svolge così. Primo: licenziare tre sindacalisti per uno sciopero ritenuto legittimo dal giudice. Secondo: far capire al giudice che reintegra i lavoratori nel loro posto di lavoro che quella decisione non conta nulla. Conta la volontà del più forte. Terzo: trattare solo con chi gli dà ragione. Agli altri non si parla e non si risponde. Quarto: la fonte del danno viene identificato nel contratto nazionale di lavoro. Si strappa. Quinto: la Confindustria non condivide. Separazione subito. Sesto: che cosa mi importa di Mirafiori? Io sono il mondo. La Fiat la prendo e la porto via dove Reagan, George Bush padre e George Bush figlio hanno già stroncato i sindacati da un pezzo e abolito ogni assistenza sanitaria nelle fabbriche (spese inutili). Tutto ciò mentre, per mancanza di progetti e di nuovi modelli, le vendite Fiat in Europa scendono in picchiata. Nel frattempo gli operai si danno da fare nel nuovo mondo della meritocrazia. Forza, schnell, lavorare di più. Operai, perplessi, anche i più volenterosi, anche i seguaci del buon Bonanni. Perché sono tutti in cassa integrazione a zero ore. Chiamare “riflessione” questo attacco senza quartiere a ciò che resta dei diritti del lavoro forse è un po’ eccessivo. Poi c’è la questione dei capitali stranieri che non si fidano. Non sarà che non si fidano di un governo che ha avuto fino a poco tempo fa un sottosegretario all’Economia legato (lo dicono i giudici) alla camorra? Non sarà per ‘ndrangheta e mafia che ormai sono protagonisti d’affari anche nel nord Italia? Non sarà che un presidente del Consiglio in attesa di svariati processi, tra cui acquisto di giudici, dà poco affidamento agli investitori del mondo? Sarà un errore tipico dei “ gringos”, ma è proprio ciò che scrivono vari ambasciatori americani di destra e di sinistra quando esprimono giudizi di scarsa fiducia sull’Italia di Berlusconi.

Repubblica 4.1.11
Capitale e democrazia
Distorto un sistema economico che separa il lavoro dalla persona
Così rischiamo di minare le radici della democrazia
Democrazia è la possibilità di avere voce nelle decisioni che toccano la propria vita
di Luciano Gallino


“Qui c´è un problema serio di rapporto tra il capitale e la democrazia". Non lo ha detto uno dei soliti sindacalisti che, a quanto si legge, ostacolano la modernizzazione produttiva.
Ma il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, in un´assemblea con i lavoratori della Eaton di Massa svoltasi poco prima di Natale. Trecento persone che dopo due anni di cassa integrazione hanno ricevuto a metà ottobre 2010 altrettante lettere di licenziamento. Forse perché l´azienda era invecchiata, le sue tecnologie superate, i prodotti rifiutati dal mercato? Niente affatto. La Eaton produceva componenti avanzati per motori d´auto, venduti ai maggiori costruttori europei, con buoni margini di utile.
Ma è successo che nell´Ohio, sede dell´azienda madre, qualcuno ha fatto due calcoli e ha scoperto che in Polonia si possono produrre gli stessi componenti a un costo inferiore. Si sa, laggiù costa tutto meno: il lavoro, i terreni, i servizi. Quindi il management ha deciso di chiudere lo stabilimento di Massa e spostare la produzione in quel paese. Gli azionisti apprezzeranno.
È un´azione di chiara razionalità economica, si dirà. Che c´entra la democrazia? La risposta sta in quelle centinaia di lavoratori che occupano la loro fabbrica senza macchine perché sono state spedite all´estero, che fanno lo sciopero della fame, bloccano per qualche ora l´autostrada. Democrazia è la possibilità di avere voce nelle decisioni che toccano la propria vita, partecipare in qualche misura ad esse, poter discutere del proprio destino; magari per accettarlo, alla fine, anche se ingrato.
A modo loro, quei lavoratori ripropongono un detto che ebbe peso agli esordi stessi della democrazia: siamo tanti, non contiamo niente, vorremmo contare qualcosa. Ci ricordano pure che c´è qualcosa di profondamente distorto in un sistema economico e politico che separa il lavoro dalla persona. Il primo è considerato una merce che un´impresa ha pieno diritto di comprare al prezzo che le conviene, o buttare da parte perché non serve più. La seconda è un essere umano che ha una storia, sentimenti, rapporti familiari, desideri, amicizie, un senso di dignità. È possibile, dobbiamo chiederci, che dinanzi al rischio di restare senza lavoro, che significa anche perdere gran parte dell´identità di persona perché la società intera è stata costruita attorno all´idea di lavoro retribuito, nessuno in pratica abbia il diritto riconosciuto di discutere se ci sono soluzioni possibili, altre strade meno impervie, di affermare che una razionalità economica che non lascia nessuna voce agli interessati al di fuori degli azionisti è una forma di irrazionalità che sta minando alle radici la democrazia?
Bisogna dire che nel caso particolare della Eaton il comune e la regione, insieme con i sindacalisti e un certo numero di politici, sono stati ad ascoltare la voce dei lavoratori. Hanno formulato controproposte alla casa madre, hanno messo sul tavolo capitali per mantenere anche in altre forme la produzione industriale nell´area. Finora le risposte della società dell´Ohio, per la quale lo stabilimento di Massa, Italia, è forse solo un paio di pixel sullo schermo dei computer centrali, sono state in prevalenza negative. Si può sperare vi sia ancora qualche margine per ottenere ulteriori sostegni al reddito, e recuperare un´attività produttiva che ridia prospettive di occupazione stabile agli ex dipendenti. Ma l´occupazione da parte degli operai della fabbrica svuotata delle sue macchine pone la politica, e tutti noi, dinanzi a una questione che il prosieguo della Grande Crisi farà diventare sempre più impellente. C´è un problema generale di rapporto tra capitale e democrazia, che non si risolverà anche se qui e là si porrà rimedio a problemi locali.

Repubblica 4.1.11
Cgil a Cofferati: a ciascuno il suo mestiere


ROMA - «Cofferati? Vada a rileggersi i suo libro "A ciascuno il suo mestiere"». Dai piani alti della Cgil replicano così all´ex segretario generale, l´uomo dei milioni in piazza a difesa dell´articolo 18, che si è schierato con la Fiom nella vicenda Fiat e contro la sua stessa confederazione. Cofferati ha definito «surreale» l´ipotesi, caldeggiata dall´attuale leader Susanna Camusso, di una firma all´accordo per Mirafiori da parte dei metalmeccanici cigiellini se la maggioranza dei lavoratori dovesse votare sì al prossimo referendum.
«Nessuno - aggiungono in Cgil - può invitare Cofferati a non occuparsi di questioni sindacali. È suo diritto farlo. Ma certo nemmeno la Cgil può prendere lezioni da Cofferati su cosa fare su questioni di sua competenza. A ciascuno - appunto - il suo mestiere».
Camusso ha proposto alla Fiom di fare una campagna per il no al referendum, ma poi di accettare l´orientamento prevalente dei lavoratori. Questo per evitare che gli iscritti alla Fiom che lavorano alle Carrozzerie di Mirafiori non abbiano più il proprio sindacato all´interno della fabbrica. Chi non firma, infatti, non ha rappresentanti sindacali.

l’Unità 4.1.11
Muftì saudita
«L’Islam non è la religione degli esplosivi»


L'attentato compiuto il 31 dicembre contro una chiesa ad Alessandria d'Egitto, che ha causato almeno 21 morti e decine di feriti, è «un atto criminale senza alcun legame con l'Islam».
Lo ha detto Abdelaziz Al al-Shaykh, mufti generale dell'Arabia Saudita e presidente del Consiglio dei Grandi Ulema, unendo la sua voce a quella di numerosi leader religiosi islamici di molti Paesi, che hanno condannato il massacro.
«In base alla sharia, questo gesto non è lecito», ha dichiarato l'esponente musulmano, citato dal quotidiano saudita Okaz. «L'Islam vieta ogni forma di ostilità contro l'altro», ha aggiunto Al al-Shaykh, precisando che quella islamica «non è la religione degli esplosivi e non autorizza a colpire i luoghi di culto non musulmani».
Quanto accaduto è «triste e spiacevole», ha sottolineato il religioso. La strage perpetrata ad Alessandria «ha come primo e ultimo scopo quello di aizzare i musulmani gli uni contro gli altri e incrementare la rabbia contro di loro oltre a colpire l'unità nazionale in Egitto e accendere la miccia della crisi e del conflitto».

il Fatto 4.1.11
Ignazio Marino
Fine vita: “Il Pd sia unito o andiamo al referendum”
“Se non votiamo compatti Bersani dia voce agli iscritti”
A che punto sono le leggi
di Caterina Perniconi


La legge sul testamento biologico è chiusa in un cassetto della Camera da mesi. Fino ad oggi il governo non ha avuto alcun interesse a tirarla fuori, nonostante le pressioni dell’opposizione sulla necessità di regolare il fine vita. Ora il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha chiesto che il provvedimento venga calendarizzato, con l’esplicita intenzione di unire i cattolici della maggioranza e, quindi, dividere il Terzo Polo. I più a rischio sono i rappresentanti di Futuro e libertà, spaccati su posizioni differenti.
Anche nel Partito democratico la discussione è aperta tra chi ritiene la proposta Calabrò inaccettabile, come Ignazio Marino, e chi invece vuole ancora discutere con la maggioranza.
Senatore Marino, se il disegno di legge sarà discusso, nel Pd che succederà?
Credo, e auspico, una posizione comune del partito.
Quindi non ne è sicuro.
Dopo l’ampio dibattito pre congressuale, che ha portato il segretario Pier Luigi Bersani a esprimersi pubblicamente due volte (Festa dell'Unità di Torino e “Vieni via con me”, ndr) con affermazioni precise in linea col pensiero che ho sempre sostenuto, spero che il Pd arrivi unito a questo appuntamento.
E se non succede?
Farò un gesto importante: chiederò a Bersani che su un tema come questo costringa i suoi parlamentari a non nascondersi dietro un voto di coscienza e indichi la strada da seguire. Deve avere il coraggio di dire: “Si vota tutti così”. Se invece questa forza non ce l’ha deve proporre come strada il referendum tra gli iscritti.
Un metodo mai utilizzato.
Ma lo statuto permette al segretario di indirlo, o al 30 per cento dei componenti dell’assemblea nazionale di chiederlo.
Quindi, se non lo farà Bersani, lo chiederà lei.
Se il 30 per cento dell’assemblea del Pd la pensa come me, sì. E sono pronto ad accettare una sconfitta. Ma se il 98 per cento degli iscritti al partito ritiene questa proposta sbagliata, allora non ci dev'essere alcuna defezione, dato che i parlamentari sono diretta espressione degli elettori.
É una polemica col segretario?
Assolutamente no. Sono convinto che nel suo cuore e nel cervello Bersani la pensi come me. Ma ha una responsabilità in più. Lui è il segretario del Pd e rappresenta tutti. Deve anche spiegare che questo non è il partito della vita e della morte. Non stiamo discutendo di eutanasia, verso le quale personal-mente sono contrario anche io. Ma di libertà di scelta. Come curarti non può importelo lo Stato. Ognuno deve deciderlo personalmente col proprio medico.
Lei si è battuto affinché il ddl venisse discusso al più presto dalla Camera. Ora però c’è il rischio che si trasformi in un’arma politica.
Questo è un Paese dove tutte le questioni vengono affrontate solo sulla base di una convenienza strumentale e mai per far progredire il Paese. Se diventa un dibattito tra tifoserie abbiamo perso un’occasione importante. L’errore è stato tenere il ddl nel cassetto per tanti mesi e farlo arrivare ora in Parlamento in un clima da derby.
L'articolo contestato è quello che impone l'idratazione e l'alimentazione del malato.
Mi fa impazzire il fatto che questa discussione si sia trasformata in un dibattito sul pane e l’acqua. Non stiamo assolutamente parlando di questo. Ma di corpi nutriti con sostanze prodotte dalle case farmaceutiche, spesso veicolate tramite l'intestino. É giusto aggiornare la legislazione, perché quando è stata scritta non c’erano le strutture tecnologiche che esistono oggi. Ognuno però deve avere il diritto di scegliere.
Cosa farete se verrà approvata questa legge?
Sicuramente ricorreremo alla Corte Costituzionale e se necessario al referendum.
Non teme un flop come la fecondazione assistita?
Con tutto rispetto verso un tema importante come la fecondazione assistita, questa è una questione molto meno marginale, che ha toccato moltissime famiglie in Italia. La gente ci verrà, eccome, a votare.
Quindi secondo lei questo governo non interpreta il sentire comune sui temi etici?
Con una legge del genere non ci sarebbe alcun rispetto nei confronti dei cittadini. Sarebbe solo una soverchieria della politica sulla libertà di scelta delle persone. Chi vince le elezioni non può pensare di imporre indicazioni sanitarie. Solo il paziente può decidere di sé stesso col proprio medico.
Si riferisce alle imposizioni di Formigoni sulla legge 194?
Quando affronto il tema dell'aborto mi sento davvero un passo indietro rispetto alla donna. Non posso neanche immaginare il dramma fisico e psichico che deve affrontare. Non può capirlo neanche Formigoni. Per fortuna ci sono dei bravi medici che decidono insieme alle pazienti e sostituiscono la cattiva politica.
Quindi lei non imporrebbe scelte da politico. Ma da medico?
Non ci penserei neanche lontanamente. La politica non deve avere uno scopo pedagogico. Deve invece spiegare e offrire tutte le possibilità. E così il medico. Lei potrebbe ritenere appropriata per sé una terapia che io non ritengo lo sia per me. Lei deve poterla accettare, io rifiutarla.
Ma se una persona non è cosciente per deciderlo?
É proprio questo il punto. Le indicazioni che io lascio devono essere rispettate. Se perdo coscienza perdo anche i diritti e lo Stato decide per me? Questo mi sembra chiaramente inaccettabile.

A che punto sono le leggi
L’interruzione volontaria e la pillola Ru 486

LA LEGGE 194 DEL 1978 ha fissato le norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione di gravidanza. La 194 consente alla donna di poter ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere all’aborto solo per motivi di natura terapeutica. Normalmente non si può interrompere alcuna gravidanza dopo la 24esima settimana. La delibera della Giunta lombarda del 2008 prevedeva che non fosse ammesso aborto dopo la 22esima settimana e 3 giorni. Il Tar ha bocciato queste linee guida in quanto “contravvengono alla decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio riservato agli operatori”. Sulla pillola Ru 486, invece, la legislazione per adesso è di competenza regionale. Approvata nel 2009 dall’Agenzia italiana del farmaco con 4 voti favorevoli su 5 la pillola è in commercio in Italia da un anno. Le Regioni hanno direttive diverse per l’utilizzo. Nel Lazio sono stati decisi 3 giorni di ricovero. Ma le pazienti non possono essere trattenute contro la loro volontà.

Testamento biologico arenato alla Camera
QUALSIASI LEGGE sul testamento biologico finisce inevitabilmente per scontrarsi col diritto all’autodeterminazione della persona sancito dal diritto internazionale oltre che dall’articolo 32 della Costituzione. Il ddl sul fine vita proposto dal relatore del Pdl in commissione Igiene e sanità del Senato, Raffaele Calabrò, è fermo alla Camera dei Deputati. E a novembre una circolare dei ministri Maroni, Fazio e Sacconi ha definito “illegittimi” i registri comunali, istituiti dallo scorso anno in settantadue città, per raccogliere le volontà dei cittadini sul fine vita, in assenza di una legge nazionale che lo regoli. Al disegno di legge mancano ancora alcuni pareri e il nodo insolubile rimane l’obbligatorietà o meno dell’alimentazione e idratazione artificiale. Futuro e Libertà vorrebbe piuttosto una “soft law”, una legge morbida che lasci al codice di deontologia medica il compito di regolare la materia del fine vita, decisa dai diretti interessati assieme ai medici e ai familiari.

Dai Dico ai DidoRe Niente coppie di fatto
L’ITALIA NON HA UNA LEGISLAZIONE per le unioni civili. I primi disegni di legge furono presentati nel 1986. La prima proposta di legge (mai calendarizzata) fu presentata da Alma Cappiello, avvocato e parlamentare socialista, nel 1988. In Europa sono molti i Paesi con leggi ad hoc per le coppie di fatto. E anche il Parlamento Europeo ha invitato alla parificazione dei diritti di coppie gay e coppie eterosessuali non sposate. Durante il Governo Prodi è stato discusso alla Camera dei deputati un disegno di legge presentato da Franco Grillini, che richiamava i Pacs francesi e comprendeva le unioni civili tra coppie omosessuali, ma non è stato approvato. Molti comuni si sono dotati nel frattempo di registrazioni anagrafiche delle convivenze a significato simbolico. La Spezia, nel 2006, è stato il primo comune ad istituire registri anche per le coppie gay. Nel 2008 i ministri Renato Brunetta e Gianfranco Rotondi hanno proposto un riconoscimento sia per coppie eterosessuali che per coppie omosessuali chiamato DiDoRe. Ma la proposta non è mai stata presentata al Parlamento.

l’Unità 4.1.11
Il giornale Lo scrittore firmò per «Combat», quotidiano della Resistenza francese, 165 articoli
In Italia gli scritti vengono ora pubblicati per la prima volta da Bompiani tradotti da Sergio Arecco
Camus: corrispondenze profetiche dalla Francia del dopoguerra
«Non possiamo sfuggire alla storia ma possiamo lottare dentro la storia»
Tra il ‘44 e il ‘47 Camus lavorò per Combat, organo di stampa della Resistenza francese uscito dalla clandestinità. Già celebre, il filosofo firmò articoli che ne fecero una delle voci più insigni della Francia del dopoguerra.
di Anna Tito


Lunedì 21 agosto 1944, venduto dagli strilloni in Parigi liberata, il quotidiano «Combat», principale organo di stampa della Resistenza francese, uscì dalla clandestinità, al suo cinquantanovesimo numero, con Albert Camus caporedattore ed editorialista. Già celebre, lo scrittore e filosofo firmò per «Combat», fino al giugno del 1947, ben centosessantacinque articoli.
Dagli scritti, finora inediti in Italia e ora pubblicati da Bompiani (Albert Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, trad. di Sergio Arecco, 626 pp., 19,50 euro), emerge che Camus pervenne a scandire speranze, sogni e illusioni degli ormai ex-resistenti che intendevano «restituire al Paese la sua voce profonda». Trattando di Resistenza, Francia, Algeria, quella dello scrittore appare una voce profetica tra guerra e dopoguerra, fra impegno e disincanto: «non possiamo sfuggire alla storia ma possiamo lottare dentro la storia per difendere la dignità dell’uomo»: all’insegna di questo motto, la vita di Camus divenne tutt’una con quella di «Combat», fino a fare del quotidiano una delle pagine più insigni della stampa francese.
Fu fra i pochi a lanciare l’allarme, da subito, per le drammatiche conseguenze dello sganciamento della bomba atomica su Nagasaki e Hiroshima: «La civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie», scrisse angosciato l’8 agosto del 1945, e prosegue: «Dinanzi alle terrificanti prospettive che si aprono agli occhi dell’umanità, ci convinciamo ancor meglio che quella per la pace è l’unica battaglia che valga la pena di combattere».
Dagli anni della clandestinità, passando dai giorni convulsi della Liberazione e fino al 1947, gli editoriali riproposti permettono di cogliere, giorno per giorno, come Camus divenne, per dirla con François Mauriac, «l’uomo che avrà aiutato tutta una generazione a prendere coscienza del proprio destino», o ancora «il nostro giovane maestro», ovvero un moralista ossessionato dalla propria coscienza.
Questi scritti ci permettono di rivivere l’epurazione in Francia in seguito alla Liberazione, l’ascesa del Partito comunista, l’ammonimento ai francesi circa la necessità di riconoscere i diritti della popolazione araba. Di fronte all’incipiente guerra fredda, nel 1946, Camus riafferma le ragioni del dialogo fra i popoli. E sempre controcorrente, con la serie «Né vittime né carnefici» ribadisce la propria ostilità al bolscevismo.
Ma discorre anche di letteratura americana, ammettendo che per scrivere il suo capolavoro, Lo Straniero, ha tratto ispirazione dalla narrativa di Steinbeck e di Hemingway, che bolla però di «letteratura da rotocalco» e il capolavoro Per chi suona la campana, gli appare nient’altro che «una storia d’amore nello stile Metro-Goldwyn-Mayer».
La collaborazione a «Combat» si conclude con una lettera indirizzata al poeta surrealista René Char sulla condanna a morte di due algerini accusati di diserzione di fronte al nemico, nel pieno della disfatta del 1940, e un accorato appello alla morale: «Vi chiediamo di confrontare tale implacabile sentenza con quella emessa nei confronti dei generali accusati di avere offerto i loro servizi al nemico».

l’Unità 4.1.11
Pensiero I classici e i moderni, Marx e l’arte informale... ecco la raccolta dei saggi del grande poeta
... e tabù Al centro il nesso tra ideologia e linguaggio, soprattutto in chiave demistificatoria
Sanguineti, un classico che (ri)guarda ai classici
È una raccolta di saggi, certo: ma soprattutto un’ostinata indagine su come il pensiero, la poesia, l’arte sia capace di modificare il mondo. È questa, scrive Sanguineti, la qualità primaria dei «classici».
di Angelo Guglielmi


Ho l’impressione che Sanguineti con Cultura e realtà sia ancora tra noi a parlarci,con la passione e l’autorità che da sempre gli riconosciamo, a aiutarci a riflettere sulla nostra presente condizione con particolare riferimento al mestiere di scrittore.
Dei due termini del titolo della raccolta, il secondo, realtà, unisce all’accezione cronachistico-evenenziale l’altra più essenziale di origine materialeideologica; riguardo al primo termine, appunto cultura, il significato è implicito, con una particolarità: contraddicendo la cattiva tendenza a attribuire il termine alla sfera metafisica Sanguineti lo riporta all’area della dinamica storica.
Nello scritto Classici e no, tra i primi della raccolta, scrive: «I classici servono perché aprono a un possibile futuro, in quanto sono lì a dimostrarci, di fatto, che si può cambiare la vita e modificare il mondo. Ammaestrano, documentatamente, intorno alla dialettica storica, e ci orientano in un autentico storicismo assoluto. Non importano affatto come immagini di durata, come momenti di eternità. Anzi ci dicono che c’è un’arte di Achille e una di Socrate, che la virtus di Tommaso non è quella di Machiavelli. E questo ci viene certificato sperimentalmente, in parole, in immagini, in suoni, in forme».
È a questo convincimento che Sanguineti ha legato (e riferito) l’intero suo lavoro intellettuale, sfidando anche le difficoltà che comportava per il suo lavoro di poeta, la cui avventura linguistica, così radicalmente eversiva, poteva risultare perlomeno frenato dalla pretesa di così alti obiettivi. Ma così non è stato; la sua ostinata ostinazione ha vinto consentendogli di tenere in un unico nesso ideologia e linguaggio che, se si accetta le versione di ideologia come falsa coscienza, apparirebbero due termini antitetici, tra loro nemici. Sanguineti rifiuta l’identificazione marxiana e riconosce all’ideologia un valore positivo (di condizione assolutamente determinante). Ovviamente non sottovaluta l’avvertimento di Marx: e nutre il rapporto tra i due termini, che altrimenti risulterebbero antagonisti, di forte tensione critica, affidando al linguaggio il compito di liberare l’ideologia dei suoi falsi contenuti e all’ideologia di impedire che il linguaggio svanisca in un ruolo esornativo (di seducente apparenza).
LEOPARDI E LE VIRTÙ
Può accadere cosi che Sanguineti fosse tentato di scrivere il «saggetto» Leopardi reazionario (che poi non scrisse), disturbato che il poeta che più amava insistesse nell’affermare che erano scomparse dal mondo le virtù che avevano fatto grandi gli Antichi, in particolare la capacità di illudersi e di immaginare, con la conseguenza di immiserire e togliere ogni valore alla vita; per contro (e contraddittoriamente) accadeva che lo stesso Sanguineti guardasse con qualche interesse a Carducci, il poeta che meno amava, di cui non sopportava i toni esclamativi ma che pur aveva «scritto una dozzina di sonetti schiettamente giacobini».
Ma non si tratta di una contraddizione ma di una riflessione consapevole: per trascinare la vita e restituirle la capacità di rinnovarsi Sanguineti è convinto che deve essere l’ideologia, in quanto forza di trasformazione,a guidare lo sforzo del poeta.
L’ideologia, il moloch benefico di Sanguineti, all’altare del quale compie continui sacrifici. L’ultimo dei quali, che ha l’aspetto più di uno sgarbo nei confronti dei convincimenti più diffusi e forse della pratica cui lui stesso aderiva quando faceva poesia, è stato di contrapporre sperimentalismo e avanguardia respingendo lo sperimentalismo a «una praticità empirica, immediata, gastronomica e consumatoria, di carattere nettamente emotivo» (un esempio per tutti l’arte informale e il pittore Fautrier) e riservando all’avanguardia «una praticità ideologica... il cui fenomeno centrale è dato dal proposito deliberato di un’arte modificatoria, dalla volontà, in una parola, di modificare il mondo» (come i pittori Baj e Burri).
Noi, suoi amici di sempre, fin dalla prima riunione palermitana del Gruppo ’63, abbiamo contestato il privilegio che Sanguineti accordava alla ideologia spostando uguale privilegio sul linguaggio (e la sua dimensione demistificatoria). Successivamente ci siamo chiesti se in fondo non dicevamo la stessa cosa che se pur diversamente articolata produceva lo stesso modo di fare poesia o comunque la compatibilità dei tanti modi in cui si esprimeva la poesia di ricerca.
Oggi ci limitiamo a essere affascinati dalla lettura dei testi di Sanguineti (le tante note, interventi, saggi ecc. compresi in Cultura e realtà) in cui le dichiarazioni e i giudizi che vi appaiono qualunque sia il senso che propongono sono sostenuti da una strumentazione culturale di tale ricchezza e completezza e da un linguaggio così ironicamente autoritario da risultare assolutamente condivisibili. E siamo certi che Sanguineti tra gli scrittori contemporanei è tra i pochi forse l’unico che meriti il titolo e la dignità di scrittore classico.

il Fatto 4.1.11
Tutti uguali (in Israele)
di Marco Travaglio


Casomai i giudici della Consulta necessitassero di illuminazioni in vista della sentenza sul legittimo impedimento, suggeriamo la lettura delle ultime cronache da Israele, dove l’ex presidente della Repubblica Moshe Katzav (Likud, centrodestra) è stato appena condannato per stupro e molestie sessuali su nove impiegate del suo ufficio durante il suo mandato, dal 2000 al 2007. Le indagini sono durate 4 anni, il processo un anno e mezzo: l’ex capo dello Stato s’è difeso gridando al complotto politico-mediatico e alla persecuzione per motivi religiosi (in quanto ebreo sefardita), ma s’è ben guardato dal dire una parola contro i giudici, che alla fine hanno creduto alle sue accusatrici e ai riscontri portati dalla polizia. E che ora dovranno quantificare la pena: Katzav rischia 16 anni di reclusione, che sconterà in galera. A questo punto qualcuno (italiano, s’intende) si porrà alcune domande, tratte dal consueto repertorio che accompagna (in Italia, s’intende) i processi ai politici. Come ha potuto Katzav svolgere serenamente le sue funzioni, dividendosi fra il palazzo presidenziale e l’aula di tribunale? Come hanno osato i giudici calpestare il primato della politica e sostituirsi al popolo? Com’è possibile che l’uomo più potente d’Israele non fosse coperto dall’immunità che (come si racconta in Italia, s’intende) in tutte le democrazie protegge le alte cariche per metterle al riparo dalle incursioni giudiziarie? Le risposte sono semplici, quasi disarmanti. Nel 2007, quando finì sotto inchiesta, Katzav poteva avvalersi dell’immunità che copre il capo dello Stato per i delitti connessi alle funzioni fino al termine del mandato. E restare al suo posto, magari invocando la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Invece, forse perché gli veniva da ridere a sostenere che stuprare segretarie rientri tra le funzioni presidenziali, forse per un soprassalto di dignità, preferì dimettersi a pochi mesi dalla scadenza naturale. Al suo posto il Parlamento elesse un esponente dell’opposizione, il laburista Shimon Peres. Katzav affrontò l’incriminazione e poi il processo come un normale cittadino. Per evitare il carcere, si dichiarò colpevole di accuse minori, altrimenti l’avrebbero pure arrestato. Ora, insieme alla condanna (non solo per i reati sessuali, ma pure per le menzogne raccontate ai giudici, che in Italia sono un diritto della difesa, mentre in Israele costituiscono reato di “ostruzione della giustizia”), s’è visto ritirare il passaporto: deve tenersi a disposizione, perché appena sarà fissata la pena, finirà in carcere. Di lì potrà fare appello nel secondo e ultimo grado di giudizio: la Corte suprema. Che raramente riforma le sentenze di primo grado. Ricapitolando: in Israele non c’è immunità automatica né legittimo impedimento per nessun’alta carica dello Stato, nemmeno per reati commessi durante il mandato e connessi a esso (due anni fa anche il premier Ehud Olmert, inquisito per presunti finanziamenti illeciti, lasciò il governo per sottoporsi alla giustizia e al suo posto fu eletto il suo avversario Benny Netaniahu). Figurarsi per quelli commessi da un premier prima e al di fuori delle funzioni (come nel caso B.). Commento del premier Netaniahu, compagno di partito di Katzav: “E’ un giorno molto triste, ma anche un giorno in cui si dimostra che ogni cittadino israeliano è uguale di fronte alla legge e ogni donna è la sola padrona del suo corpo”. Commento del quotidiano Haaretz: “Il nostro sistema legale ha dovuto decidere se l’uomo scelto per essere il cittadino numero uno di Israele ha gli stessi diritti sessuali un tempo garantiti ai signori feudali, ai re e ai principi”. Commento di Fiamma Nirenstein, giornalista filoisraeliana e deputata del Pdl, sul Giornale di B.: “La fiducia nei giudici in Israele è incrollabile. La decisione della Corte serve da monito: qui non esistono signori feudali e sovrani assoluti. L’intoccabilità non è di casa”. Signori della Corte costituzionale, ci siamo capiti?

il Fatto 4.1.11
Indignarsi come comandamento
di Maurizio Chierici


Arriva da Parigi, lo stiamo leggendo in tanti, piccolissimo libro: “Indignatevi”. L’autore si chiama Stefan Hessel, sta per compiere 94 anni. Ha accompagnato la storia della Francia con l’anticonformismo di un grande borghese, ebreo nato a Berlino e diventato parigino appena spunta Hitler. 530 mila copie vendute in poche settimane. Sta per uscire in spagnolo ed inglese, chissà se lo tradurranno. Hessel ha attraversato la lunga vita senza smettere di indignarsi. Contro il nazismo, contro il colonialismo crudele dei francesi in Algeria, contro gli affari dei politici, contro Israele che brucia Gaza. È uscito vivo da Buchenwald ed è scappato dal treno che lo accompagnava in un altro campo della morte. Nel 1946 diventa il primo segretario delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani e 60 anni dopo va a difendere i sans papier che occupano le chiese per protestare contro la disumanità della destra di Chirac e Sarkozy, allora ministro degli interni dalla mano dura con stranieri senza casa e al lavoro nero. Mendes France e Mitterand l’hanno voluto per consigliere. Allievo “spirituale” di Walter Benjamin e compagno di caffè di Sartre, insomma, leggenda che comincia in una famiglia di banchieri: “Jules e Jim” di Truffaut si ispira all’autobiografia del padre di Hessel. Racconta del triangolo che unisce due amici nell’adorazione della stessa ragazza diventata madre del sociologo quando Jim si arrende e Jules (Franz Essel, appunto ) può sposare Elena “più bella di Jeanne Moreau” che le dà vita sullo schermo. Hessel invita i francesi ad indignarsi contro razzismo, corruzione, furti di stato, intrighi delle polizie segrete, spese militari che rubano la vita alle persone senza nome e minacciano, soprattutto, il futuro dei ragazzi. Messaggio che si allarga all’Europa avvolta nella rete dei desideri inutili: pianificano un’obbedienza plastificata per le nuove generazioni, da considerare “clienti” non persone. Nel lettore italiano l’amarezza diventa disperazione. Perché Hessel fa riferimento ad architetture sociali alle quali i francesi possono aggrappare le speranze; strutture consolidate dalla tradizione di una borghesia non profumi e balocchi e con certezze culturali e burocratiche che aiutano la resistenza al ridicolo, al grottesco, al malcostume, al servilismo, alle ingiustizie e ad una corruzione sia pure lontana dal modello Italia dove fanno scalpore i ragazzi in marcia nelle piazze contro la malafede dei baroni che spargono incenso sulla riforma universitaria con la furbizia di far fuori le baronie concorrenti. “Mai arrendersi”, consiglia Hessel. Discuterne in casa coi figli, sui treni pendolari, nei posti di lavoro e di studio. Mai accettare le banalità di populismo e retorica. Mai prendere sul serio le tv e i giornali che gonfiano gli scandali per nascondere le truffe dei padroni. Mai fidarsi dei comunicatori maggiordomi. Rovesciate pacificamente le solidarietà più o meno segrete – insiste per dare continuità alle critiche che il voto raccoglie nell’indignazione. Belle parole di un secolo fa ma utopia per l’Italia delle mafie e della P2, dei Verdini, dei Bertolaso e delle figuranti alla Santanché. Se dopo Sarkozy la Francia può affidarsi ad una cultura civile non disgregata dai potentissimi pupi Nord-Sud, mafie e maffiette, gli italiani dei grandi fratelli quali speranze hanno? Il berlusconismo degli amici non è che l’evoluzione mercantile dell’andreottismo e quando Napolitano lascia, magari al Quirinale va Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità.

il Fatto 4.1.11
In difesa del Brasile
di Massimo Fini


Se io fossi nei panni delle autorità brasiliane non consegnerei Cesare Battisti all'Italia. Che garanzie di giustizia può dare un Paese il cui presidente del Consiglio dichiara quasi quotidianamente, anche in sedi estere, che “la magistratura è il cancro della democrazia italiana”, che “all'interno della magistratura esiste un'associazione a delinquere a fini eversivi”, che “i giudici sono antropologicamente dei pazzi”? Dice: ma Battisti è stato condannato molti anni fa, nel 1985, nel 1991, nel 1993, prima dell'era berlusconiana. Ma se la Magistratura è il “cancro della democrazia” non lo è diventata improvvisamente dall'avvento di monsieur Berlusconi, se la suo interno ci sono “associazioni a delinquere”, ci sono oggi come potevano esserci anche ieri.
CHE GARANZIE hanno le Autorità brasiliane che Battisti non sia stato condannato da qualche gruppo di magistrati felloni?
Nel suo parere favorevole all'estradizione di Battisti l'Avvocatura dello Stato brasiliano dice: “Non si deve tralasciare di riconoscere che lo Stato italiano è indiscutibilmente uno Stato democratico di Diritto e che le sue decisioni devono considerarsi espressione della volontà dei propri cittadini”. Ma proprio questa precisazione dice che in Brasile si hanno dei dubbi sulla effettiva democraticità del nostro Stato. Nessuno si sentirebbe in dovere di chiarire che la Germania o la Svezia o l'Olanda sono “Stati democratici di Diritto”, sarebbe dato per presupposto, per implicito, per scontato. E in effetti l'Italia non è uno Stato democratico. Non è democratico un Paese in cui la Magistratura, che è l'organo di garanzia dell'osservanza delle leggi, quello che ci consente di essere uniti e di non darci alla giustizia privata, alla faida, è delegittimata. Non è uno Stato democratico quello in cui il presidente del Consiglio, proprio in base a questo sospetto sulla Magistratura dello Stato di cui pur è guida, si sottrae, con vari espedienti, alle leggi del suo Paese.
In realtà, nel caso Battisti, scontiamo anni di garantismo peloso. Di destra e di sinistra. Da noi esiste un signore, Adriano Sofri, che è stato condannato a 22 anni di reclusione per l'assassinio sotto casa di un commissario di polizia, dopo nove processi, di cui uno, caso rarissimo in Italia, di revisione, avendo quindi goduto del massimo di garanzie che uno Stato può offrire a un suo cittadino.
EPPURE Sofri ha scontato solo sette anni di carcere e, senza aver potuto usufruire dei normali benefici di legge, che non scattano dopo solo sette anni su ventidue, è libero da tempo, e scrive sul più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica, e sul più venduto settimanale della destra, Panorama, e da quelle colonne lui ci fa quotidianamente la morale ed è onorato e omaggiato dall'intera intellighentia che, ad onta di tutte le sentenze, lo ritiene, a priori e per diritto divino, innocente. Perché, soprattutto vedendo le cose dal lontano Brasile, non potrebbe essere innocente anche Cesare Battisti che ha potuto usufruire solo dei tre normali gradi di giudizio?
In verità siamo noi, noi italiani, che ci siamo messi in questa situazione giuridicamente ambigua che con lo Stato di diritto e la democrazia non ha nulla a che vedere. E Silvio Berlusconi che ha guidato per quattro volte il governo ha dato il suo potente e determinante contributo alla delegittimazione della giustizia dello Stato di cui pure è a guida e, con essa, alla delegittimazione del nostro Paese. Nella sostanza e nell'immagine. Per cui è patetico che adesso facciamo le suorine scandalizzate perché il Brasile non ci vuole consegnare l'assassino Cesare Battisti. Raccogliamo ciò che, in questi anni, abbiamo seminato. All'interno ci consideriamo un Paese democratico. All'estero ci vedono per quello che siamo e appariamo: un Paese in cui sono saltate tutte le regole dello Stato di diritto. Io non consegnerei Battisti all'Italia nemmeno se fossi il Burkina Faso.

Corriere della Sera 4.1.11
Boom del cinese. Corsi in cento istituti «Serve agli affari»
Sperimentazioni anche alle elementari
di Lorenzo Salvia


ROMA — Forse è troppo complicata per diventare la lingua del futuro, prima di arrivare a scrivere in scioltezza persino i cinesi faticano nove anni. Ma unisce il fascino di una cultura antica ai vantaggi di una potenza economica pronta a diventare la potenza economica. Ed ecco che il cinese si fa largo nelle scuole italiane. «Sono un centinaio gli istituti che offrono questa possibilità nel nostro Paese» dice il professor Federico Masini, già preside della facoltà di studi orientali della Sapienza di Roma, tra i più grandi esperti in Italia. Una novità degli ultimi anni, nata in forma spontanea e messa a regime solo pochi mesi fa con il consueto ritardo rispetto ad altri Paesi europei: in Francia il cinese è materia ufficiale dal 1973, in Gran Bretagna addirittura dal 1952. Ma la crescita c’è e per misurarla basta scorrere le tabelle dell’Ufficio scolastico della Lombardia, l’unica Regione a monitorare costantemente la questione. «Per quest’anno— spiega Gisella Langé, responsabile dell’area multilinguismo — sono stati attivati 57 corsi in 18 istituti, per un totale di 1.500 studenti» . Solo nel 2003 eravamo a 17 corsi, un terzo. L’anno dopo siamo saliti a 31, poi a 43, poi a 49. Per le elementari e le medie c’è solo qualche sperimentazione, come all’Altiero Spinelli di Torino o al Convitto Foscarini di Venezia: corsi volontari fuori dall’orario scolastico, niente voto che fa media. Il cinese si studia sul serio alle superiori, soprattutto nei licei linguistici, dove da quest’anno può essere materia curriculare, cioè fare media come l’italiano o la matematica. In realtà qualcuno si era mosso prima, ed è una storia che fa capire quanto sia faticoso adattare le nostre scuole al mondo che cambia. Nel 2005 il liceo Pigafetta di Vicenza è stata la prima scuola pubblica a offrire un corso di mandarino: 20 studenti che adesso sono diventati 50. Già allora trovare i soldi non era facile: «Mi aiutò il genitore di un nostro studente,— racconta il preside Giorgio Corà — aveva un’impresa di tubature che lavorava in tutto il mondo, diceva che quella era lingua del futuro e le spese le pagò lui» . Ma poco tempo dopo il mecenate morì. E a quel punto il Pigafetta decise di forzare la mano alla burocrazia: «Coperto dall’ufficio scolastico regionale— racconta ancora il preside— sono riuscito ad infilare nell’organico un professore di cinese che sostituiva uno di un’altra lingua» . Per fortuna con la riforma dei licei, a regime da quest’anno, il trucco non serve più: il cinese può essere materia con voto in pagella, ed è questo il vero motivo del boom. L’esempio più avanzato è quello del convitto nazionale di Roma. Qui il liceo scientifico internazionale ha nove ore di cinese alla settimana. «Forse le sembrerò un esaltato — dice il rettore Emilio Fatovic — ma il nostro obiettivo è formare ragazzi che portino la cultura europea in Cina» . Per il momento il vento soffia in direzione opposta: gli insegnanti di mandarino del convitto arrivano direttamente dalla Cina e da Pechino vengono pagati. È la stessa scelta fatta in passato dagli Stati Uniti: esportare la propria cultura per preparare la strada a esportare tutto il resto. Ma se le cose stanno davvero così a noi studiare il cinese serve oppure no? «Imparare un’altra lingua è sempre una palestra per il cervello» dice Andrea Moro, professore di linguistic a e a l l i e v o d i Noam Chomsky. «Il cinese può essere una palestra migliore perché usa gli ideogrammi e non le lettere dell’alfabeto e quindi è ancora più distante dalla nostra lingua» . Conosci l’altro per conoscere te stesso? «Esatto. Non so se il cinese sarà utile per concludere affari in Cina. Può esserlo per concludere affari in Italia» .

Corriere della Sera 4.1.11
Dalla Pizia a Trasillo, quelle divinazioni sono parte di noi
di Eva Cantarella


Tra i tanti possibili modi di conoscere il futuro, l’astrologia è, a quanto è dato saperne, il più antico, o quantomeno uno tra i più antichi. Sviluppatasi probabilmente in modo indipendente nelle diverse civiltà, nel 3.000 a. C. era già praticata in Mesopotamia e da qui si diffuse sino a raggiungere l’Asia Minore, l’Egitto, e quindi la Grecia e Roma, dove andò ad affiancarsi ai molti sistemi ivi in uso. In Grecia, ad esempio, era praticata l’arte della «capnomanzia» , che leggeva il futuro nella forma delle spire di fumo; la «igroscopia» , che esaminava, interpretando, il corpo delle vittime dei sacrifici; la «catoptromanzia» , che leggeva i segnali per mezzo dello specchio... La varietà non mancava, insomma, anche se la pratica divinatoria più diffusa era quella oracolare, che aveva luogo in un tempio, dove il dio rispondeva alle interrogazioni che gli venivano poste. A volte, per farlo, si serviva di segni naturali, come a Olimpia la fiamma del fuoco in cui si consumavano le vittime, o, nel tempio di Dodona, lo stormire delle fronde della quercia sacra. Altre volte il messaggio giungeva attraverso la voce di una profetessa, che fungeva per così dire da megafono al dio. Il più importante fra tutti gli oracoli di questo tipo era quello di Apollo a Delfi, che continuò a essere frequentato fino al VI secolo d. C, quando tutti i culti pagani vennero vietati da Teodosio. I vaticini A consultare l’oracolo si recavano, oltre ai privati cittadini, molti uomini di stato, che chiedevano un responso sulla opportunità di istituire nuovi culti, di promulgare le leggi, di concludere alleanze politiche, e via dicendo. E a tutti il dio rispondeva con la voce della celebre Pizia, profetessa invasata di furore mistico, che pronunziava parole spesso incomprensibili, successivamente interpretate da un sacerdote (cresmologo), che le traduceva per lo più in versi, in forma così ambigua da far sì che l’oracolo risultasse comunque veritiero. Non diversamente, va detto, di quel che accadeva quando a profetare era la Sibilla cumana, di cui parla Virgilio, che secondo la tradizione avrebbe così risposto a un soldato che la interrogava sull’esito di una spedizione bellica: ibis redibis non morieris in bello, frase che, se si pone una virgola prima di «non» , significa: andrai ritornerai, non morirai in guerra; se invece si mette la virgola dopo «non» , significa: andrai, non ritornerai, morirai in guerra. Infine, in età ellenistica, alle forme più tradizionali della mantica locale si affiancò l’astrologia, che divenne particolarmente popolare a Roma, dove vissero astrologi (teorici e pratici) molto noti, molto ricchi e molto potenti. Alcuni di essi, come ad esempio il grammatico alessandrino Tiberio Claudio Trasillo, avendo pronosticato a Tiberio la futura carica imperiale come successore di Augusto, quando l’evento si verificò andò a vivere ed esercitare la sua arte a corte, ricevendo la cittadinanza romana come ricompensa dei suoi servizi. Il «no» dell’imperatore Ma non tutti gli astrologi erano teorici raffinati come Trasillo: la maggior parte si essi era di livello sociale e culturale assai meno elevato ed era vista con notevole sospetto. Nell’ 11 d. C. Augusto vietò le consultazioni private (il racconto in Dione Cassio). Durante il regno di Tiberio il senatore Libone Druso, posto sotto accusa capitale in quanto mago e astrologo, si suicidò (la storia in Tacito). Ma questo non fu che l'inizio dei problemi. A partire da Diocleziano, l’astrologia venne punita con la pena capitale, e il Codice Teodosiano, nel 367, la incluse tra i reati esclusi da ogni possibilità di grazia. Nel diritto criminale gli astrologi, definiti mathematici, erano ormai equiparati ufficialmente ai maghi. Oggi la situazione è molto diversa. Ci sono astrologi consultati in televisione, che scrivono sui giornali, nelle cui previsioni molte persone credono ciecamente. La credulità popolare, giustamente tenuta dagli antichi, è ancora forte. Comunque la sia pensi in proposito, agli oroscopi dobbiamo riconoscere di essere una parte, pur piccola, della nostra lunga storia.

Corriere della Sera 4.1.11
Riscoperta la lingua di Giasone
di Eva Cantarella


La lingua degli Argonauti. Esisterebbe ancora, e sarebbe il dialetto romeyka parlato da una piccola comunità del nord-est della Turchia, in quella che durante l’antica Grecia era la colonia di Pontus. Questa scarna notizia battuta ieri dalle agenzie di stampa evoca immagini fantastiche, che appartengono al patrimonio mitologico che la Grecia ci ha lasciato. Gli Argonauti sono i compagni d’avventura di Giasone (nella foto, scolpito da Thorvaldsen nel 1803), che sulla nave «Argo» partirono alla volta della Colchide per riportare in Grecia il vello d’oro. Discendente di Eolo, dio dei venti, Giasone era figlio di Esone, re della città di Iolco. A compiere l’impresa che gli avrebbe dato gloria eterna era stato costretto: mentre si trovava sul monte Pelio, per essere educato dal centauro Chirone, il regno di suo padre Esone era stato usurpato dal fratellastro Pelia. Ma un giorno Giasone, ormai adulto, torna a Iolco, e l’usurpatore Pelia escogita un piano per sbarazzarsi di lui: gli cederà il trono se riuscirà a riportare in Grecia il vello del prodigioso montone che tempo addietro, dopo essere volato fino alla lontana Colchide, era finito nelle mani del re Aete, figlio del Sole e padre di Medea. L’impresa che Giasone avrebbe dovuto compiere era impossibile. Ma Medea si innamorò di lui, ed essendo maga lo aiutò a uccidere il drago e a recuperare il vello d’oro. Oggi Giasone torna alla ribalta perché il greco da lui parlato sopravvivrebbe in una delle zone dove (quanti millenni or sono?) sarebbe passato l’equipaggio della nave Argo. Anche se, quanto meno a una prima impressione, par di capire che si tratti di un greco più simile a quello della koinè — la lingua parlata in Asia minore a partire del IV secolo a. C. — la notizia regala un’emozione a chiunque ami la Grecia e i suoi miti. Ovviamente, a questo punto la parola passa ai linguisti.

Repubblica 4.1.11
Un saggio di Maria Luisa Catoni sugli effetti sociali del bere nel mondo antico
Vino, simposio e poeti. Così nacque l’alfabeto
di Laura Lilli


Nella pratica conviviale si sperimentavano forme di inclusione e di esclusione. Si mettevano a punto parole e immagini. E in questo ambito fu inventato il sistema dei segni

«Scrivere questo libro è stato come entrare in un laboratorio del pregiudizio, farlo a pezzi, smontarne gli elementi. Ogni volta, è venuto fuori che il pregiudizio nasce dalla paura: così si fanno mille acrobazie per definire se stessi in primo luogo e poi l´altro, o gli altri, come diversi da sé. Oggi in Occidente la paura dell´altro è al culmine, e la ricerca di una pretesa propria identità è ossessiva». Maria Luisa Catoni è una storica di arte antica e archeologia, e insegna al prestigioso Institute for Advanced Studies di Lucca, dove si entra con selezioni severissime. Lei si occupa della sezione Beni culturali, «cercando», dice, «di rispondere alla domanda: cosa serve veramente?».
Il libro in questione è Bere vino puro. Immagini dal simposio (Feltrinelli, pagg. 505, 39 euro), saggio documentatissimo e originale su come bevevano i nostri pretesi progenitori del mondo classico (che il vino puro lo bevevano di rado, e invece lo diluivano con due parti di acqua). Un libro capace di viaggiare nel tempo, arrivando dal simposio ateniese alla geniale invenzione greca dell´alfabeto, e ancora più indietro, alla questione omerica. E, per contro, di venire in avanti verso i nostri tempi leggendo come funziona la paura dell´altro quando tutti si mescolano con tutti gli altri. Non solo: ma le parole si sono svincolate dalle cose, e di simposi (chiamiamoli anche convegni) se ne fanno tanti, ma molti sono solo vaniloquio. Un saggio, infine, fitto di illustrazioni che sono un inno alla sfrenata fantasia greca: "crateri" gremiti di satiri che afferrano altri satiri o baccanti, di cavalieri, di coppieri, di suonatori di cetra o di flauto, di atleti e lottatori, di miti illustrati – come quello di Atena che sbuca dalla testa di Zeus.
Professoressa Catoni, perché il bere insieme è importante nell´antichità classica, e cosa c´entra col pregiudizio e la ricerca di identità propria e altrui?
«Perché è fatto di inclusi ed esclusi. Gli uomini che partecipavano al simposio greco si definivano arbitrariamente "i migliori", ed erano ovviamente "gli inclusi". Parlavano di politica, di eros, di filosofia, e avevano un forte pregiudizio contro chi doveva lavorare per vivere e contro gli stranieri. Senonché, gli oggetti che tenevano in mano – crateri o strumenti musicali, o la coppa per bere – erano fatti da artigiani, uomini considerati dappoco: esclusi. Spesso erano immigrati. Sul simposio noi abbiamo due fonti principali: i canti (cioè le parole) e le immagini. I canti sono fatti dagli inclusi, le immagini dagli esclusi, che a volte però lasciano sul manufatto qualche piccola traccia di sé: una sigla, o una piccola immagine, quasi un ideogramma».
È così che si è giunti a inventare l´alfabeto?
«Forse, almeno in parte. Certo è che questa invenzione – una delle più geniali, un alfabeto di ventidue segni, che inserisce le vocali, grande novità rispetto alla scrittura fenicia sillabica – implica assolutamente una mescolanza. Non a caso dovette avvenire fra l´ottavo e il settimo secolo, quando i traffici fra Greci e levantini erano molto intensi nelle due direzioni, e non si stava tanto lì a chiedersi chi era chi».
Ma perché ci si arrivò?
«Ci sono due risposte, ma nessuna delle due è provata fino in fondo. La prima è commerciale. Data l´enorme quantità di merci trasportate nei vasi, occorreva indicare quantità, proprietà e così via. La seconda è che era diventato necessario annotare la poesia, e non lasciarla solo alla voce degli aedi. Se fosse vero, questo ci condurrebbe al cuore della questione omerica. A testimoniarlo, ci sarebbe la coppa di Nestore, trovata ad Ischia, su cui sono annotati dei versi».
Tornando alla contraddizione inclusi/esclusi, capita anche che gli esclusi siano ammessi al banchetto come mendicanti, no? Penso a Ulisse che, vestito poveramente, va a mendicare a Itaca, al banchetto dei Proci.
«Ottimo esempio di meccanismo inclusione / esclusione, addirittura al quadrato. Infatti a prendersela con Ulisse, finto – ma soprattutto nuovo – mendicante, non sono solo i Proci, che si sono inclusi da sé (non dovrebbero), ma è il mendicante abituale, Imo, timoroso che il nuovo arrivato gli porti via cibo e vino».
I romani bevevano in modo diverso dai greci?
«Sì. Il banchetto romano era gerarchico (i triclini disposti attorno alla mensa centrale in ordine di importanza) ed esibiva il rango del padrone di casa. Il quale non operava esclusioni, anzi invitava degli ospiti di serie b, detti umbrae (ombre), che non avevano il diritto di parlare. Potevano solo mangiare e bere (cibi e vini meno buoni) e stavano a significare la magnificenza dell´ospite. Che, più in alto stava nella scala sociale, più clientes aveva».

Corriere della Sera 4.1.11
Un Medioevo senza l’idea di denaro
Troppa antropologia nella visione di Le Goff sull’economia dei secoli bui
di Giuseppe Galasso


Il recente lavoro di Jacques Le Goff (Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, Laterza editore, pagine 236, e 18) è di quelli che avvincono anche il lettore più esperto. Vi si afferma, senz’altro, «l’assenza di un concetto medievale di denaro» ; e, per di più, la si mette in rapporto «con la mancanza non solo di un ambito economico specifico, ma anche di vere teorie economiche» . Dire il contrario è «un anacronismo» . E ciò in una visione generale per cui «nella maggior parte della vita individuale e collettiva uomini e donne del Medioevo si comportano in modi che li rendono ai nostri occhi degli estranei» . Nel caso del denaro l’ «esotismo del Medioevo» è «particolarmente forte» e, per capirlo, lo storico deve ricorrere «alla luce dell’antropologia» . Non che il denaro non vi fosse. Anzi, vi è una «pluralità delle monete» , e una loro «grande varietà e dinamismo» . Solo, però, dal 1100 in poi vi è un’effettiva «diffusione del denaro» , e la moneta accompagna «l’evoluzione della vita sociale nel suo insieme» ; e solo ancora più tardi, dal 1300, vi sono «metodi di pagamento alternativi» al contante. L’impulso viene dai mercanti, ma anche dalla Chiesa, che sembra voler «aiutare gli uomini del Medioevo a salvaguardare nello stesso tempo la borsa e la vita» , cioè «la ricchezza terrena e la salvezza eterna» . Per Le Goff, però, si rimane, con ciò, ancora in un’ «economia del dono» . Resta «la subordinazione delle attività umane alla grazia di Dio» anche per il denaro. Lo stesso «uso "laico"del denaro» è «condizionato da due concezioni specificamente medievali: l’aspirazione alla giustizia, che si ripercuote nella teoria del giusto prezzo, e l’esigenza spirituale della caritas» . Come sempre in Le Goff, a questo si arriva attraverso un racconto profondamente coinvolgente, che sa narrare e valutare, insieme, ciò di cui parla, ed è guidato da una rara competenza medievistica (fonti e bibliografia). Né la sua era un’impresa facile, se si pensa che in fatto di monete il Medioevo, oltre tutto, registrava spesso nelle sue contabilità valori relativi solo a monete di conto, non a denaro circolante. Si può, tuttavia, accogliere in tutto e per tutto la sua negazione di un’idea e di una prassi del denaro nel Medioevo? Si credeva un tempo che l’economia del Medioevo fosse tutta e soltanto «naturale» , cioè fondata sullo scambio di beni e di servizi. Le Goff è più sottile. Pensa non tanto alla presenza e all’uso materiale quanto all’idea del denaro, che per lui esula dall’orizzonte mentale del Medioevo, e quando vi si introduce, dal 1100 in poi, la concezione negativa che se ne aveva toglie senso alla sua rinnovata presenza. Altro che capitalismo o precapitalismo! Al Medioevo ne manca ogni presupposto. Perfino il mercato della terra attiene all’ «economia del dono» anche quando la moneta ritorna nell’uso corrente. Anzi, «soggiace al ruolo dominante che in tale economia è proprio della caritas, principio morale da cui il dono deriva, e continua ad assicurare la centralità della Chiesa nella vita sociale» . Eppure, c’è qualcosa in queste pagine mirabili che rende perplessi. Economia del dono o, piuttosto, del baratto? Assenza di mercato della terra anche se i valori di scambio delle proprietà, comunque espressi, mostrano fasi alterne di aumento o di ribasso? Ancora tutta fondata sulla caritas e sull’economia del dono e dei suoi presupposti etico-religiosi quella delle grandi compagnie dei finanziatori dei re d’Inghilterra o quella dei Medici, che stendono le loro agenzie in tutto l’Occidente? Ed è un’economia ancora del tutto medievale quella che inventa la partita doppia (base del moderno calcolo dei profitti e delle perdite), la cambiale e le sue girate, il deposito bancario o il conto corrente? E anche nell’alto Medioevo o nel feudalesimo l’assenza della «merce denaro» implica l’assenza delle logiche connesse a quella merce? In altri termini, non occorre il denaro perché sia presente e agisca la logica sulla quale il denaro stesso si fonda e opera; e pensare a un’umanità, un tempo, un mondo, in cui non vi siano l’economia e il relativo pensare e agire può essere un’astrazione analoga agli anacronismi a ragione deprecati da Le Goff. Queste perplessità non vogliono, però, proporre alternative alla rappresentazione forte ed elegante di fenomeni complessi e di mille anni di storia europea dataci da Le Goff. È utile, certo, che l’antropologia e altre scienze sociali (la psicologia, in specie) aiutino a chiarire le cose, ma più certo è poi che solo la ragione storica può dominare il passato con la forza della sua logica, che lega la storia e la vita in un nesso indissolubile, e per la quale diventa piano e concreto che possono valere, per la stessa cosa, più verità.

Corriere della Sera 4.1.11
Addio a Freud: le ragioni di Jung
di Marco Garzonio


S e c’era bisogno di una conferma che Jung non fu allievo di Freud, ecco la prova provata: la testimonianza del protagonista, Jung. Di lui Bollati Boringhieri ha pubblicato l’attesissimo Libro rosso (pp. 371 +XXII, e 150), l’inedito a ragione definito evento editoriale. Per numerosi motivi. Tecnici innanzi tutto: mole e formato da tomo enciclopedico; stampa a colori in facsimile del codice pergamenaceo rilegato in pelle rossa (di qui il titolo) in cui tra il 1913 e il 1930 Carl Gustav Jung trascrisse le sue esperienze in caratteri antichi, con capilettera miniati e disegni potenti; traduzione, apparati introduttivi e note indispensabili per comprendere un materiale tanto vasto nei riferiment i e s t u p e f a c e n t e p e r vulcanicità. Nei contenuti, dal punto di vista storico l’avvio dell’opera risale alla rottura con Freud. In realtà alla vigilia dei 40 anni Jung decise di ritirarsi in se stesso ed avviò un drammatico confronto con l’inconscio: sogni, immagini, fantasie, che lo invadevano col rischio di travolgerlo. Abbandonò lo «spirito del tempo» , valori e codici ispirati a riconoscimenti esterni («Appartenevo alle persone e alle cose. Non appartenevo a me stesso» ) e scelse di ascoltare lo «spirito del profondo» . Nel «cercare la propria via» ebbe come ispiratori due antichi filoni del sapere: il «conosci te stesso» della classicità e il monito evangelico «rinnega te stesso» se vuoi seguire la via del Signore e ritrovarti. Una discesa dolorosa agli inferi che ha per modello Dante e, più prossimo per cultura e tempi, Nietzsche; con una differenza però rispetto a quest’ultimo: Zarathustra inneggia alla morte di Dio; in Jung, invece, v’è la scoperta della rinascita di Dio. Certo, un Dio non confessionale, realtà numinosa e potenza spirituale universale più che persona come vuole il Cristianesimo; comunque dimensione trascendente che dà spessore alla ricerca di senso del singolo e accomuna gli uomini. Non è un caso che il vero titolo dell’opera (sottotitolo del volume) è Liber novus, cioè annuncio di trasformazione interiore e rinascita, conquista dell’ «uomo nuovo» . L’intero drammatico viaggio di Jung per ritrovare se stesso, la sua soggettività, il «chi sono io» , è il prototipo del «processo di individuazione» , un’avventura personale che assurge a schema psicologico dotato di validità generale, uno dei fondamenti della psicologia analitica. Nel testo, negli apparati straordinari messi a punto dal curatore Sonu Shamdasani v’è la riprova che quando va da Freud a Vienna (1907) Jung è studioso e terapeuta già formato. Vanta convinzioni sue sull’avventura onirica (il sognatore che svolge più parti come in un dramma), sull’inconscio (non è solo rimosso), sul principio trascendente e vitale (l’anima). Riconosce maestri Goethe, Schopenhauer, Nietzsche; in psicologia si sente debitore verso Flournoy, Bleuler, Janet; ha frequentazioni coi movimenti dadaista e simbolista. Alle spalle fondanti sono gli anni universitari a Basilea, i riferimenti al concetto di coscienza individuale di Lutero e al filone umanistico-rinascimentale di Burkhardt, teso a ricostruire il nesso tra senso della storia e sviluppo della psiche. Resta la domanda, come mai Freud e Jung che a prescindere l’uno dall’altro han costruito ipotesi su origini della nevrosi, senso della sofferenza e della cura, metodo di analisi, nozione di inconscio e di libido, abbiano subito un’attrazione reciproca così forte da rendere tanto fragorosa poi la rottura. La risposta non sta nelle teorie, ma nei rapporti umani e nelle proiezioni che innescano; da esse i fondatori non erano vaccinati evidentemente. Freud, fiero delle sue scoperte («La psicoanalisi è una mia creazione» ) investì su Jung e lo designò erede; Jung, bisognoso di legittimazioni dopo l’esempio devastante del padre (persa la fede continuò il ministero di pastore), gradì il ruolo di figlio, salvo poi cercar di liberarsene alla sua maniera, uomo d’ingegno ma d’un carattere che gli farà confessare in Ricordi, sogni, riflessioni: «Ho offeso molta gente» . V’è da augurarsi ora che Bollati Boringhieri realizzi un’edizione praticabile, in 8 ° , con testo, introduzione, note e una cinquantina di immagini, rendendo il Libro rosso accessibile a un pubblico vasto, oltre gli specialisti o i cultori di emozioni superficiali e svianti (s’è parlato di «santo Graal dell’inconscio» o di «nuova Bibbia» !). Occorre voltar pagina e ripartire dalle scoperte di Jung su di sé. Egli rivendicò di essere un empirico (il Libro lo prova), non guru né fondatore di una religione, nemmeno l’anti Freud, perché la psicologia del profondo è plurale. Sulla scia di Jung che pone il «fantasticare» accanto al «pensare indirizzato» , logico e verbale, si schiudono orizzonti nuovi per la portata immaginifica, plastica, creativa della psiche.

Repubblica 4.1.11
"Dopo vent'anni di televisione mi merito Marco Bellocchio"
di Rodolfo Di Giammarco


L´attrice debutta a teatro nell´adattamento di "I pugni in tasca", il film scandalo del 1965 La regia è di Stefania de Santis Co-protagonista Pier Giorgio, il figlio dell´autore
Al provino di ‘Vincere´ diedi il peggio di me. Ma Marco mi coinvolse in un cortometraggio e mi parlò del progetto di mettere in scena la pellicola
Dopo la fortuna con ‘Non è la Rai´ ho dovuto sempre reinventarmi. Ho iniziato a 13 anni, oggi ne ho 33 ma mi metto ancora in gioco

ROMA. Dopo quasi mezzo secolo un´opera d´arte cinematografica che fece scalpore e scandalo nel 1965 farà esplodere, in un´imminente versione per la scena, una ferocia stavolta meno sociale, un buio più domestico, un deserto affettivo ancora più patologico. Marco Bellocchio ha concepito un adattamento drammaturgico del suo primo, dissacratorio film I pugni in tasca, e lo spettacolo - destinato alla regia di Stefania De Santis già attrice e assistente di Carmelo Bene, e da poco co-regista dell´ultimo exploit teatrale di Filippo Timi - vedrà Ambra Angiolini nel ruolo della morbosa, flemmatica e complice Giulia (che nel film era Paola Pitagora), e Pier Giorgio Bellocchio, figlio di Marco, nella parte del paranoico e delittuoso fratello Alessandro (che nella pellicola era Lou Castel). C´è grossa attesa attorno a questo lavoro prodotto dal Teatro Stabile di Firenze, che vede anche la partecipazione di Giovanni Calcagno (il ritardato fratello Leone), Aglaia Mora (Lucia, fidanzata di Augusto), Fabrizio Rongione (il fratello "sano" Augusto) e Giulia Weber (la madre cieca), impresa che dal 14 gennaio affronterà un rodaggio a Pietrasanta e in Toscana per approdare a un giro nelle grandi città.
Ambra, dopo tante opportunità del cinema, quest´occasione teatrale ha un suo bel peso...
«Altro che. Non faccio che dire, da tempo, che dopo aver conosciuto la fortuna con Non è la Rai, ho dovuto sempre reinventarmi. Ma ho la testa dura. L´incontro con Bellocchio e col suo lato dark della famiglia, della religione, della politica e dell´amore, io lo volevo a tutti i costi. Detti il peggio di me ai provini per Vincere, ma poi lui mi ha coinvolto nel cortometraggio La monaca, e lì m´ha anticipato l´idea de I pugni in tasca a teatro. Ho accettato subito l´operazione, con atteggiamento naturale, senza pesantezze, mettendo in gioco vent´anni di lavoro. Perché oggi, sa, ho 33 anni e ho cominciato già a 13...».
Su che binari viaggiano i suoi rapporti con l´autore Bellocchio?
«Ho relazioni molto caute, riservate. Evito di chiamarlo. L´importante è recitare e dare senso alle sue parole. Paradossalmente io sono fortunata. Credo che per lui sia difficile slegarsi del tutto dall´esperienza del film, mentre io affronto le situazioni e le battute trovandole di grande attualità».
Oggi come definirebbe questa attualità?
«Un lavare i panni sporchi in famiglia, tra deviazioni assurde, in una sorta di malato isolamento dal mondo, senza che questo manicomio claustrofobico coi suoi orrori sia indagato coi plastici di Vespa o in una puntata di Matrix».
E lei come affronterà il personaggio Giulia?
«Intanto tutte noi interpreti femminili dobbiamo adottare i gesti non evidenti degli anni Sessanta, una compostezza mista a qualcosa di torbido o di elegante. La mia Giulia ha attenzioni maniacali per se stessa, si cambia tante volte, e ha profondità che lei per prima non vuole scoprire. È consapevole che il suo nucleo vive meglio in gabbia, come i canarini. È lucida, superficiale. Conta molto il non detto. Giulia è seducente anche perché coi fratelli non c´è un preciso mantenimento delle distanze. Gira a piedi scalzi, e io che amo i tacchi 12 mi sono "smontata", cammino e mi tocco in un altro modo, fino al punto in cui dietro a un pannello prendo il sole nuda».
Non le chiedo identificazioni, ma c´è un momento che sente suo?
«Sì. In una scena muta vengo lasciata sola con Leone, il fratello puro che non sta bene, sono stizzita, e accendo la musica a tutto volume, finché scoppia un rock, e allora mi scateno in un ballo violento e grottesco. Quella liberazione mi rappresenta benissimo, fare qualcosa di tuo, di impellente, in cui gli altri non ti guardino. Lì mi batte il cuore».
Lei è a suo agio da tempo, con la regista de I pugni in tasca...
«Stefania De Santis è stata la mia apripista, quella che mi ripulì dal romano e dal non sapere fin dall´epoca di Non è la Rai, la mia insegnante di dizione e di recitazione, quella che m´ha fatto scoprire il diaframma... senza dover andare dal ginecologo, aggiustando voce alta e bassa, timbri, accenti e zeta dolce, quella che m´ha introdotto a Shakespeare e all´Antigone di Sofocle».
In realtà lei ha già fatto teatro...
«Come no. Ho lavorato un po´ nell´off romano, ho preso parte a una Duchessa d´Amalfi di Webster con la regia di Nuccio Siano, e poi ai Menecmi portati in scena a Segesta, al musical su Battisti Emozioni. Ma lo sforzo nuovo l´ho messo a punto da un anno nel monologo La misteriosa scomparsa di W di Stefano Benni con la regia di Giorgio Gallione, che poi riprenderò dall´autunno 2011 cambiando ritmo».

Repubblica 4.1.11
Il regista
"Una storia di disperazione, più che un'opera simbolica"

«Quarantacinque anni fa un ragazzo che uccideva la madre e il fratello disabile venne visto come un segno violento di rivoluzione, un preavviso duro del ´68. Ora il discorso ha una presa più reale se riportato all´interno della casa, in una sfera psicologica disperata più che politica» riflette Marco Bellocchio. «Al giorno d´oggi il film emoziona la sfera personale dei ragazzi che allora non erano neanche nati. E io, che nel frattempo sono sempre stato restio o perplesso ho cominciato a convincermi, che potevo trasferire in parole anche ciò che nel film era prettamente immagine». Bisogna fare i conti, adesso, con la realtà dei "mostri" e delle stragi in famiglia che sono all´ordine del giorno... «Non è che allora non ci fossero i casi della Cianciulli, della Rina Fort, della contessa Bellentani. Diverso era però l´impatto della comunicazione, senza confronto col chiasso per Avetrana o cose simili». Lei allora aveva 26 anni, oggi 71... «Non a caso ho evitato la regia. Posso essere partecipe. E avrò le mie palpitazioni».
(r.d.g.)

Corriere della Sera 4.1.11
Blitz sacrilego
Un nanetto al posto della Madonna
di G. Ca.


ROMA— Prima è misteriosamente sparita la statuetta della Madonna. Poi, al suo posto, in cima al Monte Pirio, sui Colli Euganei, ne è comparsa una seconda, decisamente d’altro genere: si tratta di un nanetto da giardino, con barba bianca e giubba rossa, alto circa venti centimetri. Ribattezzato «Piriolo» dai suoi sostenitori, un gruppo che su Internet si presenta come «Collettivo operasione Pirio» . I congiurati precisano che l’idea era «posizionare Piriolo l’ottavo nano e l’amico Conigliolo accanto alla Madonnina» . Però la postazione era già vuota. E sul loro blog documentano l’ascesa al colle, avvenuta il 29 dicembre scorso all’alba, con fotografie e commenti. Scopo della missione era rivendicare la laicità dei Colli Euganei, che secondo loro non dovrebbero ospitare alcun simbolo religioso e «non andrebbero esposti ad atti narcisistici ad opera di gruppi di privati cittadini» . Ce l’hanno con l’associazione «Giovane Montagna» di Padova, che qualche mese fa sistemò la riproduzione della Vergine e per prima ha denunciato il furto. Colpo che ha richiesto una certa preparazione. E una robusta mola con cui rompere i tre perni di acciaio che tenevano la statuetta ancorata alla roccia. Protestano i volontari della «Giovane Montagna» , che avevano piazzato la statua sacra da pochi mesi. E solidarietà è arrivata dal Cai: «Un gesto che offende tutti, trovare croci e immagini sacre lungo i sentieri è una tradizione» .

Avvenire Agorà 4.1.11
Bergson sulla soglia della Chiesa
Settant’anni fa moriva il grande filosofo francese.
Nel testamento spirituale scrisse: «Nel cattolicesimo vedo il completamento dell’ebraismo. Mi sarei convertito, se l’antisemitismo non dilagasse nel mondo»
di Filippo Rizzi


Per sua richiesta, sarà un prete cattolico a recitare le preghiere al funerale. Il suo percorso speculativo orientò in maniera rilevante Maritain e Teilhard de Chardin

«Le mie riflessioni mi han­no portato sempre più vicino al cattolicesimo dove vedo il completamento dell’e­braismo. Io mi sarei convertito, se non avessi visto prepararsi da diver­si anni la formidabile ondata di an­tisemitismo, che va dilagando sul mondo. Ho voluto restare tra coloro che domani saranno dei perseguita­ti ». Fu il testamento redatto quattro anni prima della sua morte, avve­nuta il 4 gennaio di settant’anni fa, dal grande filosofo e massimo espo­nente dello spiritualismo, il france­se, di origini ebraiche, Henri Berg­son (1859-1941). Per sua richiesta, sarà un prete cattolico a recitare le preghiere al suo funerale.
Un pensatore che inciderà, attraver­so i suoi studi e la sua ricerca filoso­fica, su importanti personaggi del cattolicesimo francese – solo per ci­tarne alcuni – da Jean Guitton, ai co­niugi Jacques e Raïssa Maritain, fino ai gesuiti Pierre Teilhard de Chardin e Auguste Valensin e al grande do­menicano, esponente del neotomi­smo, Antonin-Dalmace Sertillanges. Nel 1927 (un anno dopo Grazia De­ledda) gli verrà assegnato, tra l’al­tro, il premio Nobel per la letteratu­ra per i suoi saggi filosofici. Un’ere­dità, quella di Bergson, sempre vi­va a 70 anni dalla sua morte grazie ai suoi scritti, sempre al centro di grandi discussioni accademiche an­cora oggi, come Materia e memoria (1896), L’evoluzione creatrice (1907) o Le due fonti della morale e della religione (1932).
«È il grande rimosso della filosofia contemporanea – rivela Vittorio Mathieu, già professore di Filosofia morale all’università di Torino e au­tore di un testo che fece epoca Berg­son. Il profondo e la sua espressione(Torino 1954) –. Il suo più grande contributo è stato quello di aver ten­tato di creare un’alleanza tra scien­ze biologiche e metafisica». Il pro­fessor Mathieu in particolare rievo­ca di Bergson la sua attenzione alle leggi della fisica e della meccanica, la sua concezione del tempo e della relatività rispetto a quella enuncia­ta da Einstein: «Da buon seguace di Spencer ha cercato di dare una spie­gazione al principio della relatività di Einstein. Il suo saggio verrà poi ri­tirato, per sua richiesta, ma questo non nasconde il suo tentativo di da­re una risposta, in chiave filosofica, a questa impellente questione».
E proprio sul rapporto tra filosofia e scienza, l’anziano accademico tori­nese, aggiunge un particolare: «Berg­son non è mai stato ossessionato dal possibile contrasto tra tecnologia e filosofia come invece accadrà a Mar­tin Heidegger e oggi a Severino. La tecnica per lui non è mai chiamata a sopprimere l’anima. Si spiega così il filo rosso ideale che lo riporta al pensiero di Plotino, al trascendente e alla loro comune critica all’aristo­telismo. Rileggendo la sua ricerca si passa da una parabola panteista a u­na visione più vicina al cristianesimo ma anche a un recupero delle sue o­rigini giudaiche». Non a caso il grande Charles Péguy vedrà in Bergson colui che aveva fi­nalmente infranto le catene dell’in­tellettualismo scientifico.«È proprio così – spiega il giovane teologo do­cente alla Facolta teologica dell’Ita­lia Meridionale, il frate minore con­ventuale Edoardo Scognamiglio e autore nel 2005 di un bel saggio per le edizioni Messaggero di Padova Bergson: anima e corpo –. Quest’au­tore ci aiuta a pensare e ad interro­garci, ad avvicinarci al mistero del­l’esistenza con più rispetto e libertà, salvandoci dalle maglie soffocanti dello scientismo e del tecnicismo». Il religioso francescano intravede in Bergson un vero «inquieto cercato­re di senso» che possiede una visio­ne antropologica molto simile al cat­tolicesimo: «La sua concezione di persona è più vicina a quella giudai­ca che a quella greca. La persona, per Bergson, è, infatti, il suo vissuto».
Ma un terreno e un incontro del tut­to particolare per il filosofo parigino più della teologia sarà lo studio del­di la mistica cristiana: diventerà un ap­passionato lettore di madame Guyon, Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Gio­vanna d’Arco e Vincenzo de’Paoli. Assieme al Vangelo – raccontano le testimonianze di Georges Cattaui e padre Sertillanges – rappresente­ranno la fonte maggiore del suo av­vicinarsi, negli ultimi anni, al catto­licesimo, e del riconoscere la divi­nità di Gesù. «Tutto questo è testi­moniato dagli scritti dei due amici di Bergson – rivela Piero Viotto , già do­cente di Psicologia alla Cattolica – e da molte pubblicazioni successive alla sua morte, tra queste, anche quelle raccolte dalla rivista svizzera diretta da Albert Béguin. Tutto que­sto manifesta che il grande pensa­tore fosse giunto alle soglie della Chiesa. Come affermerà la moglie di Bergson, 'pur aderendo moralmen­te al cattolicesimo, mio marito ave­va deciso nel medesimo tempo di non fare il passo decisivo del batte­simo' ». A questo proposito torna alla men­te di Scognamiglio il commento al Discorso della montagna dove «Bergson vedrà in Gesù il portatore di una morale del paradosso. Cristo diviene per lui immagine del misti­co completo che si apre al vero sen­so della gioia e dell’emozione crea­trice ». Dal canto suo Viotto, evidenzia di Bergson il ruolo di «maestro perdu­to e ritrovato» nella vita di Jacques e Raïssa Maritain: «È stato il loro do­cente alla Sorbona di Parigi. Dopo Tommaso rimarrà il pensatore che più ha inciso nella loro vita. Con la pubblicazione de Le due sorgenti del­la morale e della religione i due co­niugi rivaluteranno il loro vecchio professore, alla luce del suo approc­cio all’Assoluto e all’esperienza mi­stica. Sarà lo stesso Bergson a confi­dare a Raïssa che, dopo tanti anni, solo ora 'abbiamo camminato l’uno verso l’altro e ci siamo trovati a mez­za strada'». Un capitolo a sé stante della biogra­fia e della quasi conversione di Berg­son al cattolicesimo è il ruolo gioca­to dalla figlia Jeanne, morta nel 1961 e dotata di un carisma mistico. «In­dubbiamente il dramma di questa figlia, poi convertitasi al cattolicesi­mo – è la convinzione di Mathieu – che era sordomuta ha sicuramente influito sulle scelte di Bergson dalla passione per la mistica alla sua ten­sione verso il trascendente e si può capire il suo cosiddetto 'slancio vi­tale' verso tutto ciò che riguardava la sfera dell’anima e della religione». Dello stesso avviso è la riflessione fi­nale di Scognamiglio:«Poco prima di morire Bergson pensò al cielo e al­l’eternità ed ebbe delle visioni mi­stiche. Sicuramente questo segno prodigioso accompagnò il vissuto spirituale e l’esperienza non solo ac­cademica di Henri Bergson. Basti pensare a come nei suoi scritti Cri­sto diviene per lui 'l’energia vitale', il 'portatore della vita' e dell’'emo­zione creatrice'. Non è un caso che la sua idea di uomo, in Cristo, non è mai orientata verso la morte secon­do la concezione di Heidegger, ben­sì sempre tesa verso la vita».

Avvenire Agorà 4.1.11
Agostino e l’agape, marchio dell’Europa dopo i Greci
Nel pieno della stesura delle opere maggiori, il santo di Ippona commenta il Vangelo più spirituale. Illuminando così il dogma dell’«homoousía»
di Francesco Tomatis


Il Commento al Vangelo di Gio­vanni accom­pagnò sant’Agosti­no d’Ippona a lun­go nella sua vita teologica, all’incir­ca dal 406 al 421, quindi parallela­mente alla composizione del De Trinitate, avviata successi­vamente alle Confessioni, e al­l’altra grande opera agostinia­na, il De civitate Dei, termina­ta qualche anno dopo. Ne pro­pone una nuova traduzione i­taliana, corredata di una am­pia e illuminante monografia introduttiva, nonché dell’edi­zione maurina del testo origi­nale in latino, il massimo stu­dioso vivente del pensiero an­tico, Giovanni Reale, che, gra­zie alla sua profondissima co­noscenza della filosofia greca, classica e tardoantica, della Bibbia e dei Padri della Chie­sa, riesce in questa edizione dei discorsi agostiniani sul Vangelo di Giovanni a rico­struirne struttura interpreta­tiva, visione metafisica, mes­saggio di fede (Il libro è edito da Bompiani, pagine 2368 + 928, euro 50,00).
Reale sottolinea come il Com­mento al Vangelo di Giovanni sia affiancabile a pieno titolo, per profondità e importanza, alle altre tre opere agostinia­ne ritenute comunemente principali: le Confessiones , il e Trinitate e il De civitate Dei.
In esso per eccellenza abbia­mo infatti il principale risulta­to teologico della credente e­segesi di sant’Agostino, cioè la comprensione che Dio sia a­more. Come scrive Giovanni nella sua Prima lettera, «Dio è amore; chi sta nell’amore di­mora in Dio e Dio dimora in lui». Inoltre proprio in questi discorsi, frutto di esposizione orale, trascritta dal discorso vi­vo o redatta per iscritto trami­te dettatura diretta dell’auto­re a tachigrafi, di un comple­to commentario al Vangelo giovanneo, Agostino formula le proprie principali linee teo­logiche interpretando diretta­mente il più speculativo, e al tempo stesso realissimo, dei Vangeli, vera metafisica vi­vente, ricorrendo ad una sua continua, puntuale conte­stualizzazione rispetto ad al­tri scritti biblici, secondo una tecnica ad intarsio, richiama­ta ed evidenziata nella propria edizione da Reale, la quale va oltre il mero ricorso a citazio­ni scritturistiche, per giunge­re attraverso i suoni e le paro­le all’aiuto del Signore nella comprensione della sua auto­rivelazione.
Che Dio sia amore, agápe, è per il cristianesimo rivelato at­traverso l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Reale riesce fi­nemente a ricostruire la di­stinzione agostiniana dell’a­more cristiano dall’éros greco, non mancando tuttavia di do­cumentare anche quanto A­gostino riesca a far proprio dello stesso pensiero greco. E­semplare è poi la ripresa del­l’interpretazione porfiriana dell’essere come Uno, nella sua distinzione dall’ente. In A­gostino, come Reale mostra e­videnziando la sua reinterpre­tazione, alla luce della rivela­zione biblica, della filosofia greca, vengono delineate le fondamenta di quello che sa­ranno il pensiero e la civiltà europei. L’idea di persona, ad esempio, sarebbe inconcepi­bile senza la sua fondazione cristiana nel personale rap­porto con Dio, egli stesso tri­nitario rapporto interperso­nale. Accostandosi ad udire la voce di quella immane vetta spirituale, dell’elevatissima a­nima che è Giovanni, Agostino illumina esemplarmente il dogma dell’homoousía, della uguaglianza di essenza o na­tura fra Dio Padre e Dio Figlio, centro dell’incarnazione cri­stiana e conseguentemente della comprensione e fede in Dio come amore, come rela­zione fra diverse persone in u­nitaria armonia, identificazio­ne, comunione: secondo il pluralismo e l’unitarietà as­sieme. «Tu, dunque, devi dire quello che dice il Vangelo: io e il Padre siamo una cosa sola. Quindi non siamo una cosa di­versa, in quanto siamo 'una cosa sola'; non una persona sola, perché noi 'siamo'».