mercoledì 5 gennaio 2011

Corriere della Sera 5.1.11
Primarie, il Pd prepara i «paletti» : un solo candidato e decisivi gli iscritti
di R. Zuc.


ROMA— Lo hanno chiamato «tagliando» , ma potrebbe cambiare in maniera decisiva le regole del gioco, quelle delle primarie targate Pd. Perché il partito di Pier Luigi Bersani potrebbe decidere di far tornare le leve di queste elezioni, che servono a scegliere i candidati, in mano agli iscritti, prima di passare ai semplici elettori. In altre parole, si stanno già studiando i paletti alle primarie, tanto osannate da coloro che le lanciarono (in prima fila i veltroniani, ora in minoranza), quanto «sospette» da chi ne ha fatto le spese negli ultimi mesi e cioè la maggioranza del partito, scottata dalle sconfitte di Francesco Boccia in Puglia e Stefano Boeri a Milano, ad opera di Nichi Vendola e del candidato appoggiato da Sel, Giuliano Pisapia. Il primo dei paletti a cui stanno pensando i bersaniani è la riduzione dei candidati del Pd a uno solo. Ovviamente si parla delle primarie di coalizione, quelle che prevedono il confronto con gli alleati: un’unica persona su cui concentrare il partito semplificherebbe la sfida. Evitando anche che un qualsiasi candidato alle primarie — magari solo con il 5 per cento — possa rivendicare il suo peso elettorale all’interno del partito. Il secondo paletto è il più importante, ma certamente il più difficile da far digerire alla minoranza e, soprattutto, ai veltroniani: prevedere un meccanismo che faccia tornare agli iscritti la scelta di indire o meno le primarie, caso per caso, con il potere quindi di decidere l’allargamento agli elettori del Pd, che attualmente costituiscono il «corpo elettorale» delle primarie. Certo, si tratta solo di primi ragionamenti e, a decidere ogni cambiamento, potrà essere solo l’assemblea nazionale dei delegati. Passeranno per giunta molte settimane prima di arrivare a scelte concrete, sempre che il percorso non venga interrotto dalle elezioni anticipate. Ma l’argomento, a livello di dibattito (e anche di scontro), sarà certamente affrontato nella direzione del 13 gennaio e nell’assemblea del Lingotto del 22 gennaio (quella del Modem), come avverte il veltroniano Walter Verini: «Se ci saranno le elezioni anticipate si imporranno altre scelte. Ma se la legislatura dovesse continuare dovremmo approfittarne non per cambiare le regole delle primarie, che è un falso problema, ma per rilanciare il partito e farlo tornare al 35%: a quei livelli le primarie non potrebbero che essere una festa. Così come sono state all’inizio» .

Repubblica 5.1.11
Primarie, i vendoliani attaccano il Pd "Teme che i suoi elettori votino Nichi"
Il tema delle consultazioni sarà discusso nella direzione del 13 gennaio
D´Alema-Veltroni, di nuovo insieme contro le stragi impunite
di G. C.


ROMA Maretta sulle primarie. Non basta il disgelo tra D´Alema-Veltroni a rasserenare il clima nel Pd alle prese con la questione delle primarie. Sono da «congelare» per Bersani e la segreteria, o almeno da «aggiustare». Ma per i veltroniani, così come per Ignazio Marino, sono uno strumento a cui non rinunciare in ogni caso. «I Democratici non hanno paura delle primarie ma dei loro elettori la maggior parte dei quali vuole Vendola», accusa Gennaro Migliore, di "Sinistra e libertà".
Una cosa appare certa: se ne dovrà parlare nella direzione fissata il 13 di gennaio. Lo chiede Giorgio Merlo, ex Popolare, dell´area di Beppe Fioroni. Marina Sereni insiste perché in direzione ci sia «uno scatto e un chiarimento politico: rimandiamo all´esterno troppo spesso l´immagine di un partito incerto e diviso». Insomma non sono ammesse reticenze. Che le primarie debbano essere un «mezzo di selezione della leadership e non un fine», lo ribadisce Francesco Sanna, senatore dell´area del vice segretario Enrico Letta. Le primarie vanno fatte «dopo i programmi e le alleanze; altrimenti senza progetto, chiunque le faccia e chiunque le vinca, producono capi e capetti con delega in bianco, ma per questo modello di finta democrazia l´offerta è già abbondante dalle parti di Berlusconi».
E si parla nel Pd di un possibile asse tra D´Alema e Veltroni. «Mi vedrò con Veltroni? E per che cosa bisognerebbe vederci?». Massimo D´Alema reagisce con aria polemica, senza dare peso all´incontro. Ma lunedì prossimo il presidente del Copasir e l´ex segretario del Pd si troveranno fianco a fianco a Brescia, sul palco, per parlare della strage di piazza della Loggia e della vergogna delle stragi italiane impunite. Un´altra tappa del disgelo tra i due, la cui diversità fino all´inimicizia è un capitolo della storia della sinistra italiana. Loro negano riavvicinamenti, come del resto ufficialmente hanno sempre liquidato gli scontri recenti: «Sono cavolate». Salvo poi neppure rivolgersi la parola.
«È l´argomento, la strage di piazza della Loggia, che li ha messi insieme commenta Matteo Orfini, dalemiano comunque è bene che si smonti una rappresentazione spesso eccessiva di discordia e che in un momento come questo si smussino le asperità interne. Anche se le distanze politiche restano». Emanuele Fiano, il responsabile sicurezza del partito (che durante le manifestazioni degli studenti a Roma ha riunito attorno a un tavolo rappresentanti dei poliziotti e degli studenti) ha avuto l´idea con Andrea Orlando e Marco Minniti. «Cerco di contribuire ad avere un partito normale. Dobbiamo parlare delle stragi a sfondo politico irrisolte, non c´è spazio per diatribe inutili», osserva Fiano. Niente di meglio che far affrontare al presidente del Copasir e a Veltroni, che è in commissione antimafia, la questione del segreto di Stato (la riforma è in discussione in Parlamento). Entrambi con Mino Martinazzoli (il dibattito sarà moderato da Gianni Riotta) parleranno della sentenza che ha assolto i 5 imputati per l´attentato del 28 maggio 1974, che provocò la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102. Paolo Corsini, l´ex sindaco di Brescia, ha insistito perché il partito si mobilitasse.

Repubblica 5.1.11
Parisi difende le consultazioni ma avverte: devono essere vere, quelle finte ci fanno solo male
"Abbandonarle significa fallire il partito così non esiste più"
di Giovanna Casadio


ROMA «Abbandonare le primarie significa riconoscere il fallimento del Partito democratico». Arturo Parisi, che ha ideato l´Ulivo e le primarie, non è sfiorato dal dubbio che come dice ormai il segretario Bersani è meglio congelarle per un po´.
Un tagliando, un´aggiustatina forse ci vogliono, onorevole Parisi. Le primarie fanno male al Pd?
«Quelle che fanno male al Pd sono le primarie finte. Resta però la domanda. Può un partito che si voleva un "partito nuovo" nato per cambiare la politica abbandonare le primarie senza riconoscere in questo abbandono il suo fallimento? Personalmente ritengo di no. Il gruppo dirigente usa perifrasi sostitutive dell´abbandono: il congelamento, il sacrificio, l´aggiustatina. In queste modo ammette che le primarie si possono pure fare fuori, ma non si può dichiararlo. Ma per quanto si provi a fischiettare, anche "cojonare" i cittadini non é semplice. Se ne accorgono. Se non vogliamo farci male dobbiamo farle e farle bene riconoscendo che le primarie ci chiedono di cambiare in radice il partito».
Ma l´esperienza insegna: in Puglia il Pd alle primarie ha avuto uno schiaffo da Nichi Vendola; a Firenze, Matteo Renzi l´ha spuntata contro la nomenclatura democratica; a Milano ora la meglio l´ha avuta il candidato di Sel, Giuliano Pisapia.
«Ripeto. O le primarie sono vere, cioè aperte e trasparenti, o illudersi di poter continuare con primarie finte, pensate come un plebiscito attorno al candidato che il gruppo dirigente del partito ha predestinato alla vittoria, fa male a noi e fa male alla democrazia. È per questo che le primarie che, sperimentando per la prima volta l´istituto conquistato da Prodi, videro vincere nel 2005 Vendola in Puglia, restano un punto di riferimento. Così come quelle sempre in Puglia nel 2010 un regalo straordinario che di certo D´Alema non voleva fare a Vendola hanno rafforzato la convinzione tra gli elettori della necessità delle primarie. Penso che i dati di Ilvo Diamanti su Repubblica dimostrino senza incertezza il loro stabile radicamento tra gli elettori di centrosinistra».
Il suo invito è quindi di rilanciare le primarie?
«Se, invece di vantarci di aver promosso una gara nella quale qualsiasi vincitore poteva essere considerato il candidato di tutti, si arriva a dire che il Pd ha perso a Milano, o, addirittura a Firenze, solo perché non ha vinto la persona sulla cui testa il gruppo dirigente aveva messo il suo cappello, sta già in questo la spiegazione del nostro problema. Diamanti scrive che la passione per le primarie sembra in declino nel gruppo dirigente del partito. La verità è che la passione per le primarie é stata sempre molto bassa. Ora ho paura che si stia avvicinando allo zero. Ecco perché Repubblica ha fatto bene a chiedersi: dopo le primarie, c´è ancora il Pd?».
Dove va il Pd?
«È proprio questo che non si sa. L´impressione é che il partito ha perso il bandolo, la bussola. Nell´arco di tre anni, abbiamo cambiato cinque schemi di gioco: l´Unione, poi la scelta di andare da soli «ma anche» con i radicali dentro e Di Pietro fuori, poi il centrosinistra come cartello di partiti, quindi il Nuovo Ulivo, e ora l´alleanza preferenziale con i centristi. Ma soprattutto c´è una spinta a tornare indietro, alle alleanze decise dopo le elezioni. Senza escludere neppure la possibilità di una Grosse Koalition. Siamo insomma allo sbando. Ecco perché per le primarie viene il dubbio: se è l´alleanza con i centristi a chiedere l´abbandono delle primarie o se viceversa si fa l´alleanza con i centristi proprio per abbandonare le primarie. E se, mentre ci si propone di andare oltre Berlusconi, non si pensi invece di tornare a prima di Berlusconi».
Lei farà una corrente: vuole rifondare il Pd?
«Corrente di che? Uscire da che cosa? La verità é che il partito come soggetto collettivo non esiste più: a destra c´è un insieme di persone che prende ordini da un capo; dalla nostra parte il partito é poco più di un campo nel quale ognuno si comporta in autonomia con libertà sempre più ampia. Continuare sulla strada della contestazione è logorante per tutti, è bene che ognuno si rimbocchi le maniche e operi in libertà, guidati dalla ragione dalla coscienza e dal cuore».

il Riformista 5.1.11
Due obiettivi per la sinistra europea
di Giuliano Amato

qui
http://www.scribd.com/doc/46308965

il Riformista 5.1.11
«Le primarie sono una vera follia E il Pd è un partito-marketing»
Parola di Henri Emmanuelli, mostro sacro della sinistra francese
di Andrea Luchetta

qui
http://www.scribd.com/doc/46308965

Un lungo articolo di Veltroni su La Stampa
nelle edicole

l’Unità 5.1.11
Bersani vedrà Landini
Sull’accordo della Fiat si spacca anche l’Idv
Lunedì incontro tra il leader del Pd e quello dei metalmeccanici Stoccate di Di Pietro ai Democratici. Donadi contro la strategia dell’ex pm: «Sbagliato sposare acriticamente la posizione Fiom»
di Simone Collini


L’accordo Fiat continua ad agitare le acque nel centrosinistra e anche all’interno dei singoli partiti. Antonio Di Pietro nei giorni scorsi aveva annunciato l’intenzione di costruire «un fronte di resistenza» insieme alla Fiom, e ieri ha compiuto un primo passo incontrando il segretario generale dei metalmeccanici Maurizio Landini e anticipando che l’Idv parteciperà allo sciopero generale indetto dalla Fiom per il 28. Ma l’ex pm ha approfittato della conferenza stampa seguita all’incontro per lanciare stoccate al Pd, invitandolo a «non accontentarsi di un tozzo di pane» offerto da Marchionne e a «non rincorrere chimere centrodestrorse». Parole che non sono piaciute al Pd: «Non deve essere certo Di Pietro a darci lezioni e a convincerci di alcunché, anche perché noi restiamo fermi sull’idea di un’autonomia vera del nostro partito sia dai sindacati sia da altri rappresentanti d’interessi, Marchionne compreso», dice la deputata del Pd Alessia Mosca accusando l’ex pm di pensare solo a «presidiare una nicchia di consenso».
Ma la posizione di Di Pietro sull’accordo di Pomigliano non piace neanche a Massimo Donadi. Già poche ore dopo che l’ex pm aveva annunciato il «fronte di resistenza», il capogruppo dell’Idv alla Camera aveva giudicato un errore «sposare indistintamente le ragioni della Fiom». Ora che Di Pietro ha compiuto il primo passo, Donadi ha ribadito il concetto, avvisando che all’esecutivo nazionale fissato per la metà del mese è pronto a dare battaglia.
Quanto a Landini, ha approfittato della conferenza stampa per far sapere che quello con Di Pietro non sarà il solo incontro con leader politici. Il segretario della Fiom vedrà lunedì Pier Luigi Bersani e poi anche con Nichi Vendola. «Alle forze politiche ha spiegato il leader dei metalmeccanici Cgil non chiediamo di schierarsi, ma li informiamo sul nostro punto di vista, nel rispetto dell’autonomia di ciascuno».
Bersani dirà a Landini quello che è andato ripetendo dal giorno dell’accordo, pubblicamente o in colloqui riservati, e cioè che gli investimenti sono «prioritari», che non va lo «strappo sui diritti sindacali», che i toni di sfida di Marchionne sono un errore perché invece di favorire un confronto sereno acuiscono la tensione, ma che sarebbe anche un errore, da parte dei sindacati, cercare di «isolarsi reciprocamente». Per il leader del Pd a questo punto devono essere governo e Parlamento a discutere una riforma dei meccanismi di rappresentanza del mondo del lavoro. Una proposta di legge in tal senso è stata depositata da tempo Pd (ottobre 2009), ma a questo punto è urgente riportarla in primo piano. Anche perché può essere il solo modo per favorire una ricomposizione tra i sindacati.

l’Unità 5.1.11
Incontro tra Landini e Camusso, ma le posizioni restano distanti
Decisivo sarà il confronto nel comitato direttivo previsto il 15 gennaio
Referendum e firma: Fiom e Cgil alla prova di forza su Mirafiori
Si avvicina il referendum di metà gennaio che deciderà l’operatività dell’accordo per Mirafiori, ma è ancora aperto lo scontro tra Fiom e Cgil sulla strategia da seguire. Decisivo sarà il direttivo nazionale del 15 gennaio.
di Luigina Venturelli


Anche ieri l’attenzione degli investitori si è concentrata sui titoli Fiat freschi di spin off tra i settori dell’automobile e dei veicoli industriali, che nella seconda giornata di contrattazione hanno seguito strade divergenti,unoguadagnando il 6,41% e l’altro perdendo il 2,22%.
ATTESA PER IL REFERENDUM
Eppure la Borsa non è l’unico campo in cui si sprecano previsioni e speculazioni sul Lingotto: in ambito sindacale, la percentuale con cui si affermerà o meno tra gli operai l’accordo per Mirafiori riscuote ancora più interesse. Sergio Marchionne, come al solito, è stato chiarissimo: se i sì non raggiungeranno il 51%, la produzione dello stabilimento verrà spostata altrove. La consultazione potrebbe già tenersi la prossima settimana, forse il 13 e 14 gennaio, al più tardi il 17 e 18, quando le tute blu rientreranno dalla cassa integrazione, e in molti osservatori considerano il 60% di voti favorevoli un obiettivo a portata di mano di Fim, Uilm, Ugl e Fismic. Ma l’opposizione della Fiom, che pure non farà direttamente campagna contro il referendum, si annuncia serrata.
Per il giorno dell’Epifania, infatti, il sindacato ha annunciato una manifestazione di protesta nella centrale piazza Castello, a Torino, per informare i cittadini sui contenuti dell’accordo per Mirafiori e sulle ragioni per cui la Fiom non l’ha firmato. Al fianco dei metalmeccanici ci sarà anche la Cgil del Piemonte, ma questa vicinanza alla confederazione d’appartenenza rischia di sfaldarsi all’avvicinarsi del referendum: sul che fare dopo la consultazione, infatti, la spaccatura tra Fiom e Cgil è ancora profondissima.
BRACCIO DI FERRO FIOM-CGIL
Non è bastato a ricomporla il lungo incontro faccia a faccia di lunedì sera tra i due leader Maurizio Landini e Susanna Camusso, nel quale sono state ribadite le rispettive posizioni.
«Le firme tecniche non esistono, gli accordi o si firmano o non si firmano» ha ripetuto anche ieri il segretario generale della Fiom, respingendo la proposta confederale di accettare comunque il responso dei lavoratori per entrare nelle Rsa della fabbrica torinese. Per ulteriori chiarimenti si dovrà dunque aspettare la segreteria unitaria di Fiom e Cgil prevista per domenica prossima. Anche se Landini non ha lasciato spazio a grandi aperture: «La linea sarà quella decisa dal comitato centrale Fiom, a cui ha partecipato anche la Cgil e che non ha visto voti contrari. La riunione di domenica servirà per mettere a punto le iniziative da realizzare» contro gli accordi di Mirafiori e Pomigliano».
Ma gli appuntamenti in Corso Italia si susseguiranno con scadenza quotidiana: l’11 e 12 gennaio a Chianciano si terrà l’assemblea nazionale delle Camere del Lavoro sulla contrattazione sociale e territoriale, e martedì sera si riuniranno tutti i segretari generali della Cgil, di categoria e dei territori. Occasioni preziose per tentare il riavvicinamento con le tute blu, ma senza potere decisionale. La data decisiva, piuttosto, sarà quella del 15 gennaio, giorno in cui la Cgil (anche in risposta alla polemica sollevata in merito dall’ex leader Fiom Gianni Rinaldini) ha convocato il proprio comitato direttivo nazionale: una riunione formale di un organismo statutario, con tutti i poteri necessari per arrivare ad una decisione definitiva sulla strategia per Mirafiori. Ovvero, la resa dei conti tra Fiom e Cgil.

Corriere della Sera 5.1.11
Convocato un vertice straordinario delle segreterie E Landini lancia l’asse con l’Idv di Di Pietro
di Enr. Ma.


ROMA — La Fiom non si sposta di un millimetro e la Cgil neppure. L’incontro di lunedì sera tra il leader dei metalmeccanici, Maurizio Landini, e quello della confederazione, Susanna Camusso, è durato fino all’una di notte, ma alla fine i due sono rimasti sulle rispettive posizioni. Per il segretario della Fiom il referendum della settimana prossima sull’accordo di Mirafiori tra la Fiat e i sindacati non è legittimo e quindi lui non terrà conto di una eventuale vittoria dei sì. Per il segretario della Cgil, invece, dovrebbe in questo caso prendere atto della volontà dei lavoratori e trovare il modo di aderire all’accordo che non ha firmato. Una tesi questa sostenuta anche dalla minoranza della Fiom che fa capo a Fausto Durante. Il pressing della Cgil sul sindacato dei metalmeccanici si intensificherà nei prossimi giorni. Domenica mattina si svolgerà una riunione tra la segreteria della confederazione e quella della Fiom. Martedì e mercoledì prossimi a Chianciano si terrà la prevista Assemblea delle Camere del lavoro. Una riunione delle 130 strutture territoriali della Cgil e del direttivo nazionale prevista da tempo, ma che avrà inevitabilmente al centro del dibattito l’impatto del ciclone Marchionne sulle relazioni sindacali. Infine, sabato 15 gennaio si terrà una riunione straordinaria del direttivo della Cgil con all’ordine del giorno la proposta per un nuovo accordo sulla rappresentanza. È questa la strada sulla quale punta Camusso per riallineare la Fiom alla Cgil. Secondo la modifica dello Statuto Cgil votata all’ultimo congresso, infatti, le decisioni su materie interconfederali (e le regole della rappresentanza lo sono) sono vincolanti per tutte le categorie e quindi anche per la Fiom. Ovviamente l’operazione avrebbe più possibilità di successo se fosse accompagnata dal raggiungimento di un’intesa su questa materia con Cisl, Uil e Confindustria. L’ostacolo all’intesa è però rappresentato dal fatto che la stessa Camusso ha rimesso in discussione i contenuti dell’intesa sulla rappresentanza che le tre confederazioni avevano raggiunto nel maggio 2008. Secondo il leader della Cgil, infatti, per rendere un accordo valido per tutti non sarebbe sufficiente che questo fosse sottoscritto da sindacati rappresentativi per almeno il 51%, ma ci vorrebbe invece una maggioranza qualificata, in modo da evitare che uno dei tre sindacati resti escluso, come alla Fiat. Ma Cisl e Uil non sono d’accordo e ritengono invece che basti il 51%. Inoltre, la Cgil spinge perché le regole sulla rappresentanza e la democrazia sindacale siano adottate per legge mentre le altre due confederazioni frenano. La Fiom, intanto, va avanti nel suo piano di alleanze politiche. Ieri Landini ha incontrato il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che gli ha promesso pieno appoggio, anche in vista dello sciopero del 28 gennaio dei metalmeccanici proclamato dalla stessa Fiom. Nei prossimi giorni ci saranno gli incontri con il Pd e soprattutto quello con il capo di Sel, Nichi Vendola, anche lui schierato con Landini.

l’Unità 5.1.11
Cari Cofferati e Damiano questa è una sconfitta
Quando si perde, come nel caso Fiat, bisogna riconoscerlo e preparare le condizioni della rivincita. Su Marchionne il Pd prenda esempio dalla Merkel
di Carlo Ghezzi, presidente Fondazione Di Vittorio


Ho letto ieri su l’Unità le interviste di Cesare Damiano e di Sergio Cofferati sul caso Fiat e devo francamente dire che entrambe non mi hanno convinto a partire dall’analisi di fondo su quanto accaduto. Innanzitutto non partono dal fatto che alla Fiat la Fiom-Cgil ha subito una pesante sconfitta paragonabile a quella gravissima, subita sempre a Mirafiori, nel 1955 nel rinnovo della commissione interna e nel 1980 dopo la marcia dei 40.000. Poco importa se, come sottolinea Damiano, l’accordo di Mirafiori sia un po’ meno peggio di quello di Pomigliano, nè regge la sua tesi di una lettura articolata. E’ un accordo a perdere. Punto e basta.
Quando si perde una battaglia non si può negarlo, si può solo cercare di ottenere un trattato di pace meno umiliante e rimettersi alacremente al lavoro per ricostruire il proprio futuro. Anche quando vi sono lesioni dei diritti contrattuali sottoscritti tra le parti. E non è affatto la prima volta che accade.
Voglio ricordare a Cofferati che il 31 luglio del 1992 insieme a Bruno Trentin fu tra coloro che, persa un’altra fondamentale battaglia da parte della Cgil, isolata oltre che dal padronato e dal governo anche dalla Cisl e dalla Uil, decise di firmare non la cancellazione di un accordo aziendale o di un contratto nazionale, ma addirittura dell’istituto della scala mobile per 17 milioni di lavoratori in cambio di nulla.
Altro che appellarsi allo Statuto della Cgil. Trentin prima firmò, poi si dimise. E Sergio sostenne le sue posizioni. Allora ebbero il coraggio di spiegare che quando si perde occorre prenderne atto, non si deve nascondere la testa sotto la sabbia e, al contrario, si lavora per costruire la rivincita. Cosa che magistralmente avvenne con l’accordo con il governo Ciampi e con la Confindustria di Luigi Abete il 23 luglio del ‘93.
Non si può solo evidenziare l’intransigenza dell’avversario. Occorre per prima cosa mettere in campo le proprie proposte per affrontare la crisi della Fiat in un settore che ha quasi il 40% di sovracapacità produttiva. Un settore nel quale Marchionne non può illudersi di risolvere tutto producendo automobili scadenti, che fatica a vendere in Italia come all’estero, tagliando le pause e comprimendo i diritti sindacali.
Mi pare scorretto non mettere in adeguato rilievo che, all’unanimità, i presidenti delle categorie di Confindustria hanno, almeno per ora, girato le spalle alla Fiat che è uscita da Federmeccanica. È una situazione esplosiva per questa organizzazione che subisce una scissione da parte della più grande azienda poiché la maggioranza degli imprenditori italiani riafferma il valore dei contratti e di un sistema di regole. Si fatica a trovare commenti su questa notizia nelle pagine dei grandi giornali. Anche altre prese di posizione mi appaiono incomprensibili. L’arroganza e la miopia di Marchionne sono osannate come scelta di modernità dalla stampa e dal ministro Sacconi. Ma anche da mezzo Partito democratico che non comprende come al sistema di relazioni vigente in Europa non viene contrapposto il modello americano, che pure a noi non piace, ma a quello della Corea del Sud e di altri paesi emergenti. Il non partire da qui fa venire meno il quadro di riferimento nel quale collocare qualsiasi idea di politica industriale, di relazioni in azienda, di modello di società.
Giorgio Tonini sostiene che il Pd è nato per cambiare e deve perciò misurarsi con tutte le sfide poste in campo. D’accordo, ma la sfida per l’innovazione se non pone a riferimento il fatto che lo sviluppo debba essere coniugato con un sistema di regole e di diritti confonde ogni confronto di merito e rischia di essere senza senso. L’Italia, afferma la Costituzione, è una Repubblica fondata sul lavoro, ma senza il rispetto dei suoi diritti e della sua dignità questo non è il lavoro di cui parla la nostra Carta, è un’altra cosa. Ne è consapevole il Pd? Il primo ministro Merkel ha messo alla porta Marchionne quando ha capito quale musica veniva proposta. E l’Italia vuole restare in Europa?

l’Unità 5.1.11
La casta spregevole dei Cipputi
di Bruno Gravagnuolo


Perché è gravissimo quanto accade alla Fiat? perché è il segno di una regressione d’epoca nel rapporto tra democrazia e Capitale: fine e frantumazione del diritto del lavoro. Fine dell’autonoma rappresentanza sindacale, con espulsione della principale organizzazione sindacale dei metalmeccanici dalla fabbrica. Fine del contratto nazionale del lavoro, con accordi decentrati in deroga da leggi generali e accordi interconfederali. Una catastrofe, motivata da ricatto: o così o niente lavoro. Che conferma alcune delle prognosi maxiane da incubo: intensificazione dello sfruttamento per il tramite dell’intensità dei tempi di lavoro a ciclo continuo. Con sussunzione della forza lavoro sotto le macchine e creazione di un immenso esercito di riserva esterno, che fa calare il prezzo della forza lavoro. Altro che Marchionne nuovo italiano, decisore anticonformista, come vanno straparlando i Romano e i Battista sul Corsera. Lui è nient’altro che il proprietario manager cointeressato al profitto d’azienda, per nulla diverso, quanto a metodi e indole, dai Valletta e dai Costa. Incarnazione di una violenza padronale classica, che camuffa il suo agire come necessità impersonale. E che in coro col solito esercito di trombettieri paludati, proclama la fine dell’evo ideologico(quando la merce umana forza lavoro poteva difendere un po’ di dignità). Si dirà: esagerato! Oppure: è la globalizzazione, punto. Ma è umano un contratto con 80 ore di straordinario obbligatorio più altre 120 da negoziare coi sindacati che ci stanno, e in occasione delle quali non si può scioperare? Umane tre pause di 10 minuti e umani turni (anche notturni) di dieci ore più una? Umana una busta paga di 1000 e duecento se va bene, mentre Marchionne e Montezemolo insieme guadagnano 10milioni di Euro, quanto il salario di 1000 operai? Ci dicono: le classi non ci sono più. Giusto: siamo alle caste. Alla lotta di caste, con gli operai invisibili e spregevoli. Eccola oggi la globalizzazione. Arcaica e senza diritti.

l’Unità 5.1.11
Le stock options di Marchionne e la cig degli operai


MODERNITÀ    Gli operai, anche quelli in cassa integrazione, pagano il doppio delle tasse dell’ad del Lingotto, pur guadagnando infinitamente di meno, anche se considerati tutti insieme. «La modernità dischiusa da Fabbrica Italia è efficacemente rappresentata da due dati» denuncia il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, «nel 2011 i capital gain di Marchionne sulle sue stock options Fiat sono attesi in circa 120 milioni di euro, una somma superiore ai salari e stipendi percepiti da tutti gli operai e quadri delle Carrozzerie Mirafiori se lavorassero a tempo pieno per tutto l’anno, ma purtroppo faranno tanti mesi di cassa integrazione». E ci si mette pure il fisco: «Sui suoi stellari capital gain, Marchionne verserà, come gli altri azionisti Fiat, un’imposta sostitutiva del 12,5%. Gli operai sulla cassa integrazione e sui loro salari pagheranno in media un’Irpef del 25%, i quadri avranno un carico intorno al 33%. È il mondo post ideologico tanto caro e celebrato dal nostro modernissimo ministro Sacconi».

l’Unità 5.1.11
La legge mancata per tutelare i sindacati
di Pietro Gasperoni


Le vicende di Pomigliano e Mirafiori ripropongono il tema della mancanza di regole sulla rappresentanza e la rappresentatività sindacale e sull’efficacia generale degli accordi sindacali. È utile ricordare che nel luglio del 1999 la Camera dei Deputati approvò con il consenso di Cgil-Cisl-Uil, 9 articoli su 12 di un testo di legge unificato da me redatto in qualità di relatore di maggioranza, su Rappresentanza, Rappresentatività sindacale ed efficacia erga omnes dei contratti di lavoro. Quella legge non fu approvata per l’ostinata opposizione di tipo ideologico di Confindustria e del centro-destra, che adottò le forme di opposizione più intransigenti, fino all’abbandono dell’aula parlamentare. Se quel testo di legge, ripresentato alla Camera e al Senato, fosse stato approvato, il tema che oggi divide il Paese non esisterebbe, in quanto la regolamentazione lì prevista definiva le condizioni attraverso le quali un accordo sindacale era valido e quindi efficace per tutti i lavoratori interessati, oppure non lo era, quindi scompariva concettualmente l’idea di accordo separato.
Erano previste un insieme di procedure democratiche che favorivano la ricerca di percorsi unitari ma alla fine, in caso di contrasti, il principio di maggioranza, ne sarebbe stato l’elemento risolutore.
Quel testo di legge fissava i criteri e le modalità di elezione delle Rsu in azienda e a livello territoriale per le piccole aziende, veniva definito il metodo di misurazione della rappresentatività di ciascun sindacato utilizzando un sistema misto legato sia agli iscritti accertati che ai voti riportati nelle elezioni delle Rsu.
Erano considerati sindacati rappresentativi coloro che riscuotevano almeno il 5% a livello nazionale e il 10 a livello aziendale ed in quanto tali, titolari di diritti di agibilità sindacale e di negoziazione, limitando la frammentazione sindacale e combattendo la microconflittualità che tanto nuoce soprattutto nei trasporti. Espletate queste procedure e indicati alcuni percorsi di verifica democratica, gli accordi che riscuotevano il consenso del 50% più uno della forza sindacale rappresentata assumevano valore di legge come prevede l’articolo 39 della Costituzione, ancora inattuato.
Quella legge va ripresa e con l’accordo delle forze sociali va approvata dal Parlamento per dargli forza di legge, diversamente verrebbe da sostenere che in mancanza di tale normativa universale ciascun sindacato tratta per i propri iscritti, come avviene in Germania, ma lì vi è di fatto un solo sindacato, tale scelta in una realtà come la nostra, di marcato pluralismo sindacale, sarebbe un guaio grosso per i lavoratori e per le aziende, e in contrasto con il dettato costituzionale.

il Riformista 5.1.11
Sul lavoro il Pd si gioca il futuro
di Peppino Caldarola


La minaccia di Sergio Marchionne di mettere in discussione Mirafiori nel caso di sconfitta dell’accordo nel referendum probabilmente spingerà molti lavoratori al voto favorevole. È la ripetizione dello schema di Pomigliano. Se così accadrà l’attenzione si concentrerà sulla quantità di voti negativi e soprattutto sull’atteggiamento degli sconfitti. Quel che rende indigeribile la posizione del leader della Fiat è l’idea della umiliazione delle posizioni contrarie. In un’azienda depurata dalla Fiom sarà più facile o più difficile governare il lavoro? Sembra affacciarsi la suggestione di una fabbrica in cui non esistano i conflitti. Nella storia dell’industria, nei regimi democratici, questa eventualità non si è mai registrata. Marchionne ha qualche idea nuova in proposito? E i suoi sostenitori di sinistra hanno capito quale inferno sociale si sta per aprire? Anche la Fiom deve ragionare sullo scenario della propria estromissione per cercare di elaborare una via d’uscita che non la riduca a una forza grande ma extraparlamentare. Per il Pd si apre una discussione sul proprio futuro assai più impegnativa delle banalità sulle primarie. Il tema del lavoro si ripresenta come l’unico in grado di ridefinire l’identità di un partito riformatore. Quelli che sostengono che queste sono vecchie tematiche non si accorgono che ci propongono un’idea del capitalismo degli albori della lotta di classe quando all’ordine del giorno c’era la rivoluzione perché i riformisti erano al di sotto del compito.

il Riformista 5.1.11
Se nel Pd serpeggia la stessa tentazione che c’è al Lingotto
di Ritanna Armeni

qui
http://www.scribd.com/doc/46308965

Repubblica 5.1.11
Padova, il calendario della discordia cancellati 25 aprile e Primo maggio
Iniziativa della Provincia per le scuole. Insorge il Pd: ritiratelo
Nessun accenno a Liberazione e Festa dei lavoratori: in compenso c´è il Capodanno veneto
di Filippo Tosatto


PADOVA Nel Veneto ai tempi della Lega, il Primo maggio non coincide più con la festa del lavoro e il 25 aprile celebra la Pasquetta e San Marco, non certo la liberazione del Paese dai nazifascisti. Resiste ancora la festa della Repubblica del 2 giugno mentre spuntano nuovi appuntamenti, dal 28 febbraio con il "Bati marso" (una sorta di Capodanno veneto) al 25 marzo dedicato al "ricordo del Popolo veneto"; e ancora, le ricorrenze familiste della mamma o dei nonni elevate a pietre miliari dell´anno.
È il calendario 2011 stampato in 50 mila copie dalla Provincia di Padova, e ha il suo artefice nell´assessore all´identità veneta Leandro Comacchio, esponente del Carroccio. Corredato da disegni e filastrocche, in occasione della Befana è stato inviato a tutte le scuole elementari perché sia distribuito ai bambini. Ma c´è chi non ha gradito. È il caso dell´amministrazione di Solesino, un piccolo centro retto dal centrosinistra, che ha deciso di rimandare il regalo al mittente, invitando gli altri comuni a fare altrettanto. «Non contestiamo il richiamo alla tradizione locale commenta il sindaco Walter Barin ma la festa del lavoro e quella della Liberazione rispondono a valori fondanti della nostra storia, escluderle ci sembra diseducativo. Il segnale trasmesso ai ragazzini è che si tratta di ricorrenze minori».
Il presidente pidiellino della Provincia, Barbara Degani, minimizza il caso «Noi il Primo maggio lo festeggiamo ma vogliamo anche mantenere vivo nelle nuove generazioni il ricordo delle nostre origini» l´assessore regionale Maurizio Conte rivendica invece i contenuti dell´iniziativa: «La festa di San Marco, in un calendario veneto, ha di certo priorità sul quella della Liberazione afferma il leghista quanto al Primo maggio, dovrebbe esserci un almanacco che riporta la festa del lavoratore tutti i santi giorni. Contestando questo calendario, la sinistra cerca di minare il nostro senso di appartenenza identitaria ad un popolo ma, una volta ancora, otterrà l´effetto contrario».
Sdegnate le reazioni sul versante progressista. «È un insulto verso tutti i martiri veneti caduti per la libertà e per la democrazia e un´offesa per tutti i veneti che lavorano», accusa il consigliere padovano del Pd Paolo Giacon. E da Roma il responsabile democratico degli enti locali va oltre: «È un episodio di sciatta cialtroneria dal quale le forze di centrodestra, a livello locale e nazionale, devono prendere le distanze», sostiene Davide Zoggia. «C´è poi un ignobile spreco di denaro pubblico: dopo le balle sulle bandiere, i soli di Adro e le mille altre buffonate che i berlusconiani e la Lega ci propinano continuamente, oggi abbiamo un altro capolavoro. Si vergognino e si preoccupino piuttosto dei problemi reali dei cittadini in un´area colpita dalla crisi economica e dalla disoccupazione».
Tant´è. Con l´avvento del governatore "padano" Luca Zaia, le celebrazioni nel segno dell´identità del "popolo veneto" contrapposte alle ricorrenze "romane" e "nazionaliste" si sono moltiplicate. Tra tutte, quella del 25 marzo (data della storica fondazione di Venezia) sancita solennemente da una legge regionale.

l’Unità 5.1.11
La sfida del Pd. L’esempio della Toscana
Non è un Paese per giovani? Diamoci da fare
di Vittoria Franco


Un principio  deve radicarsi nella    politica: la responsabilità verso le generazioni future. Ne parlava Hans Jonas alla fine degli anni ’60 del ’900 riferendosi alla salvaguardia del pianeta, di fronte al potenziale distruttivo dell’energia nucleare. Oggi bisogna parlarne in relazione alle primarie esigenze di vita dei nostri giovani: il lavoro, la realizzazione dei propri progetti di vita, la creazione di una famiglia. «Il loro futuro è il futuro dell’Italia», ha detto il Presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. E ha centrato in pieno il problema. Un Paese che crea prospettive ai giovani è un Paese che cresce, che si sviluppa, che crea nuove opportunità. Altrimenti, aumenta la disoccupazione, subentrano mortificazione e frustrazione, c’è dispendio di talenti e capacità. Esattamente come per le donne: costituiscono oggi più che mai una riserva di crescita inutilizzata, tenuta in cantina affinché prevalga il loro ruolo nella famiglia, sempre più concepita come surroga di un welfare che si restringe.
Non è un destino inoppugnabile se siamo a questo punto, se cresce la disoccupazione di giovani e donne, se non si può creare una famiglia prima dei 30 anni, se la maternità è sempre più ritardata. Non è soltanto a causa della crisi economica. È l’effetto di politiche miopi della destra italiana negli ultimi quindici anni, del suo individualismo cieco che porta a demonizzare il welfare e quindi non a innovarlo, ma a distruggerlo; della sua concezione della politica come mero esercizio di potere familistico e affaristico.
Con i loro movimenti i giovani richiamano con severità e preoccupazione chi ha compiti di governo, ma anche tutti coloro che vi aspirano, come il Partito Democratico, a un serio esercizio di responsabilità verso il loro futuro; vale a dire a un’altra politica: una politica che ponga al centro della scena proprio loro e i loro problemi, cioè l’esistenza concreta di individui e famiglie che vogliono uscire dalla paura, che desiderano e rivendicano un futuro. Esigono una risposta a quel cartello terribile che ho letto in una scuola: “abbiamo paura del futuro”. Non chiedono la luna; si può fare. La Toscana ci sta provando. Trecento milioni stanziati per incentivare assunzioni, pagare stages e servizio civile, agevolare affitti o mutui per la casa a giovani coppie; un progetto sul quale si è impegnato personalmente il presidente Enrico Rossi. È un buon esempio. Ma non può restare isolato. È l’intero Paese che deve muoversi in questa direzione, come ha capito una persona saggia come il presidente Napolitano. Una sfida, forse quella più importante, per il Partito Democratico.

l’Unità 5.1.11
Riforma Gelmini
La sostanza del sistema che tagliando lo studio macina le generazioni
L’orario di funzionamento della scuola equivale a quello delle lezioni. Così, colpevolmente, si tralascia il resto delle attività educative. Ovvero l’interazione tra studenti e quella con gli insegnanti, e lo sviluppo di progetti che richiedono il congiungimento di pensiero e azione
di Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia sperimentale Roma Tre


Occorre chiedersi se la legge approvata in via definitiva dal Senato qualche giorno prima di Natale costituisca solo una razionalizzazione (almeno nelle intenzioni di chi l'ha promossa) nel funzionamento del sistema universitario o se ad essa si colleghino implicazioni molto più ampie, e tali da configurare nel complesso un cambiamento sostanziale del ruolo che gli studi superiori hanno finora assunto nel sistema educativo e, più in generale, nella società.
Una razionalizzazione comporta, infatti, che si sia in grado di incidere sul funzionamento del sistema: ma questo obiettivo, che suppone siano effettuati investimenti consistenti, appare rinviato a tempi migliori. Viene quindi da pensare che l'intento realmente perseguito sia stato il secondo, e cioè la sostituzione del modello degli studi superiori derivante dalla tradizione universitaria con una diversa concezione della quale si incominciano a vedere i principali elementi costitutivi.
Per cominciare, ed è questo l'aspetto sul quale vorrei qui soffermarmi, c'è stata la sostituzione di un' idea degli studi universitari come rivolti al perseguimento di benefici di lungo periodo con una attenta a considerare l'utilità del sistema nel tempo breve. Con tale sostituzione si completa un disegno di revisione del sistema educativo già ampiamente definito al livello primario e a quello secondario. E proprio l'analisi delle scelte effettuate a tali livelli consente di ricavare, per analogia, elementi interpretativi applicabili anche agli studi superiori. Il criterio seguito è consistito nella riduzione ad un limite inferiore del tempo dedicato all'educazione. Gli allievi delle scuole primarie e di quelle secondarie fruiscono di un'offerta didattica che suppone aggiunte consistenti nel tempo non scolastico. In pratica, l'orario di funzionamento delle scuole tende a coincidere con quello delle lezioni. Ma le lezioni sono solo una parte dell'attività educativa delle scuole. Ad esse dovrebbero aggiungersi le attività che prevedono più intense interazioni degli allievi fra loro e degli allievi con gli insegnanti (iniziative di gruppo), l'applicazione degli elementi forniti in chiave sistematica in contesti e situazioni determinate (per esempio, nei laboratori), lo sviluppo di progetti che richiedono il congiungimento del pensiero con l'azione (nel campo teatrale, musicale, letterario, artistico, naturalistico, scientifico, sociale). Quando, per giustificare decisioni limitative del tempo scolastico si afferma che gli orari delle lezioni sono più o meno equivalenti a quelli che si osservano in altri paesi, si dice il vero per ciò che riguarda le lezioni, ma si mistifica circa la consistenza dell'impegno educativo, che nelle nostre scuole prevede una presenza solo filiforme delle altre attività. Accade il contrario altrove: se si considera l'orario di funzionamento (non solo delle lezioni) delle scuole francesi, inglesi, tedesche, spagnole e via seguitando si constata che quelle che in modo riassuntivo sono state indicate come altre attività assorbono frazioni sempre più consistenti di un tempo scolastico che si prolunga dal mattino al pomeriggio avanzato. La linea evolutiva del sistema educativo appare dunque orientata nella direzione inversa a quella che si persegue altrove (anche in paesi governati da forze conservatrici).
La limitazione del tempo corrisponde da un lato ad un accrescimento delle condizioni di svantaggio sociale (gli allievi meno favoriti non fruiscono delle opportunità compensative fornite dalle famiglie e dal contesto), dall'altro ad un prevalere della concezione di un'utilità a breve termine su quella di un beneficio educativo che abbia come riferimento l'in-
tero corso della vita. Proprio in questo consiste la continuità fra il modello di università implicito nella legge da poco approvata e i livelli primario e secondario di istruzione. Nel caso dell'università all'intento dell'utilità a breve termine si aggiunge una ridefinizione degli spazi per la ricerca prevalentemente rivolta a sostenere le esigenze del sistema produttivo.Non si può dire che la subordinazione della ricerca e degli studi superiori sia un fenomeno solo italiano. Ma se si pone attenzione ai fenomeni in atto altrove ci si accorge che nei paesi in cui il condizionamento esercitato dal mondo produttivo è più forte esistono oasi protette che hanno lo scopo di consentire che il sistema universitario continui ad operare un'accumulazione conoscitiva che non presenti caratteri di utilità immediata.
Ciò vale in Inghilterra come negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi le università che nelle graduatorie occupano le posizioni più favorevoli sono quelle che sono impegnate nell'accumulazione di lungo periodo. La scomparsa delle università italiane dalle top 200 nel world ranking pubblicato dal Times Higher Education conferma la scelta utilitaria e il disimpegno (salve le solite eccezioni, spesso solo indice di una ostinata volontà di resistenza da parte di studiosi e gruppi) nei diversi settori della ricerca.
Il fatto è che il disimpegno nella ricerca riduce le possibilità di successo anche della scelta utilitaria. Le nostre università diventano sedi decentrate di diffusione di una sapienza pratica alimentata dalla ri-
cerca che si svolge in altri paesi e condizionata dalle richieste del sistema produttivo. Si attiva così una spirale al ribasso, il cui elemento dinamico è costituito dal crescere della distanza tra le sedi in cui la conoscenza è acquisita e quelle in cui è solo distribuita.
I comportamenti delle famiglie nei confronti degli studi universitari sono sempre più simili a quelli che le medesime famiglie manifestano nei precedenti livelli del sistema educativo. In questo caso non si tratta di assicurare opportunità integrative, ma di sostituire in tutto o in parte gli studi che potrebbero essere effettuati in Italia (e che tradizionalmente si effettuavano in Italia) con studi compiuti all'estero. Le università italiane spesso non si rendono conto che con il loro
marketing dissennato concorrono a svalutare i titoli che conferiscono accrescendo la desiderabilità di quelli conseguiti all' estero. La leggerezza con la quale sono riconosciuti percorsi di studio offerti dalle università cosiddette telematiche (ovvero di università dimidiate, per il fatto che non svolgono attività di ricerca, neanche per assicurare l'innovazione nelle soluzioni tecnologiche utilizzate) costituisce il segnale del disarmo in atto nell'accumulazione delle conoscenze. Chi paga il prezzo della scelta utilitaria sono i giovani: effettuano un percorso scolastico che assume e conserva validità solo se integrato dall' esterno, e conseguono titoli universitari ai quali corrispondono capacità di fare in rapida dissoluzione. La macina della gioventù alimenta i bisogni del sistema produttivo: eppure, specialmente in questi anni di crisi economica, si sarebbe dovuto capire che perseguendo intenti di utilità a breve dalla crisi, bene che vada, si potrà uscire dal basso.

Repubblica 5.1.11
Battisti e la Francia. L’ignoranza militante
di Barbara Spinelli


La lettera più difficile, più scabrosa, Bernard-Henri Lévy avrebbe dovuta scriverla non al Presidente Lula ma, informandosi sulla storia italiana, al Presidente Napolitano. Non mi consta l´abbia fatto. Il gesto più difficile e scabroso sarebbe stato quello di visitare, oltre a Cesare Battisti, le sue vittime. Non mi consta abbia fatto neanche questo. Né che abbiano fatto cose simili Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, e i tanti francesi che guardano all´Italia come a un paese di scimmie, privo di magistrati dignitosi: bellissimo e incivilissimo, diceva Stendhal.
I francesi in questione sono esteti e assai selettivi: contro la mafia o la cultura dell´illegalità dilatata da Berlusconi, mai alzano la voce.
Usiamo la parola scabroso perché letteralmente deriva da scavare, cercare sotto la superficie. Con le sue dichiarazioni giubilanti e la lettera a Lula, Lévy pensa d´aver pensato, chiude il ragionamento in un boccale come una pietanza che si riscalda di tanto in tanto. Non ha preso neppure una pala, per smuovere la terra alla maniera in cui Rilke, meditando il buio, «ascolta come la notte s´inconca e s´incava». Danza sulla superficie, imbocca le vie più facili presumendole anticonformiste. Crede di cantare fuori da un coro. Azioni del genere screditano gesti compiuti da lui e altri: in Bosnia, Cecenia, Ruanda. L´accostamento del volto di Sakineh a quello di Battisti, sul suo sito, è empietà. Mostra un´incapacità radicale a comprendere il male inflitto all´innocente. Non è il vero sofferente che interessa, quando il fascino esercitato da un assassino è così trascinante, compiaciuto. André Glucksmann, vicino a Lévy, non ha mai cantato in questo coro.
Battisti non è neppure un terrorista, per chi lo sostiene. Lévy lo chiama un «ancien enragé divenuto scrittore». Gli enragés (letteralmente: «gli arrabbiati») furono i più estremisti nella Rivoluzione francese. Philippe Sollers lo battezza «eroe rivoluzionario». Altri, citando Céline, confutano i verdetti emessi contro «un uomo senza importanza collettiva, un semplice individuo», come se la giustizia concernesse altro che l´individuo. Il solo esser divenuto scrittore lo trasfigura, l´assolve. Lo tramuta in intellò, come se il titolo bastasse per issarlo all´altezza di Zola e di chi, tra il 1895 e il 1906, difese il capitano Dreyfus.
Il fatto, sempre che i fatti contino, è che Battisti non è solo un intellò. Fu un criminale comune fino a quando per comodità si mascherò da rivoluzionario, aderendo ai Pac (Proletari Armati per il Comunismo). Scappato dal carcere, fu condannato in contumacia per aver ucciso tre uomini e concorso a un quarto omicidio, fra il ´78 e il ´79, e nei tre gradi di giudizio fu assistito da avvocati da lui istruiti. Nell´81 era fuggito a Parigi profittando della dottrina Mitterrand, abiettamente travisata. In realtà il Presidente fu chiaro, quando l´espose il 22 febbraio e il 20 aprile ´85: l´asilo offerto escludeva tassativamente «chi si era macchiato di crimini di sangue» o di «complicità evidente in vicende di sangue», e riguardava i fiancheggiatori dissociati dal terrorismo.
Gli intellettuali mobilitatisi per Battisti si immaginano eredi non solo dei dreyfusardi ma dei moralistes francesi vissuti fra il ´500 e il ´700. I moralisti non facevano la morale ma descrivevano la storta natura dell´uomo, a cominciare dalla propria, con impietosa ironia. Penso a Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, Vauvenargues, Chamfort. Nei pretesi loro eredi non è mancato questo sguardo spietato e anticonformista, quando hanno fustigato il proprio esser comunisti: i «nuovi filosofi» hanno capito Solženicyn assai prima degli italiani, dei tedeschi. Ma uno strabismo singolare li affligge: ben più arduo, se non impossibile, è approfondire ancor più l´esame di sé. Quando maneggiano il concetto di rivoluzionario o di intellettuale, l´acume diminuisce. Aver ghigliottinato un re è motivo immutato d´orgoglio, che li rende superiori a ogni europeo.
Anche l´universalismo, di cui i francesi si vantano, li rende ciechi ai propri limiti, incapaci di apprendere. Il loro contributo all´unione europea è un impasto di universalismo decorativo e nazionalismo effettivo. Ci sono princìpi a tal punto sacralizzati da ossificarsi e perire come stelle che per noi brillano nonostante siano morte da tempo. Molte dispute intellettuali avvengono tra francesi. Non parlano all´Europa né al mondo, verso i quali l´ignoranza è spesso abissale.
È l´ignoranza militante che provai a descrivere il 14 marzo 2004 su Le Monde, in una lettera aperta su Battisti agli amici francesi, ma si sa che le parole informative non servono quando non si vuol sapere e si vive nel performativo (basta che io dica una cosa e la cosa è, anche se contraddetta dai fatti). Quel che si vuol ignorare è come funziona la giustizia in Italia, la sua indipendenza ben più solida che in Francia, la lotta che i magistrati conducono contro la mafia, la corruzione, la politica ridotta a lucro privato. È un´ignoranza non ingenua ma attivisticamente coltivata. Ebbe forme analoghe anche nel ´68: un ´68 che i francesi, più saggi, hanno saputo frenare prima che degenerasse in terrorismo. Essendosi tuttavia fermati in tempo, nulla sanno dei suoi baratri, del valore della legalità. Non a caso parlano lo stesso linguaggio di tanti marxisti finiti con Berlusconi. Lo spirito libertario del ´68, lo hanno stravolto facendosi libertini. Il disprezzo delle istituzioni, della Costituzione, della magistratura, accomuna perversamente tanti intellettuali francesi e Berlusconi: stessi attacchi ai giudici e ai «teoremi giudiziari», stesso istinto a parlare di Battisti come di un accusato o un capro espiatorio e non di un condannato. Non stupisce che qualche mese fa Berlusconi abbia confidato a un ministro: «Battisti è un personaggio orribile, e non capisco perché dovremmo fare i salti di gioia alla prospettiva di doverlo mantenere noi per anni nelle nostre galere».
Rivolgendosi agli italiani, Lévy ci invita a «voltare la pagina degli anni di piombo», o almeno a pensarli «senza passione, con equità, evitando la terribile logica del capro espiatorio». È una solfa che gli italiani conoscono: meglio voltar le pagine del fascismo, delle stragi, di Mani Pulite, dell´omicidio di Falcone, Borsellino, delle loro eroiche scorte. Ma le pagine si voltano ricordando e facendo giustizia (la clemenza viene dopo i verdetti), altrimenti restano lì, infezione letale. Oppure le si gira e basta, come fanno gli scemi o gli arruolati dell´Ignoranza, due categorie così affini. Persino Gesù faticava, con gli stupidi. C´è un suo detto islamico, citato da Sabino Chialà, che confessa: «Gli storpi li ho guariti, i ciechi pure. Con gli stupidi non sono riuscito» (I detti islamici di Gesù, Mondadori). Di ignoranza militante e ebete non abbiamo bisogno che venga da fuori: ne abbiamo già tanta in casa. L´amalgama creatosi fra terrorismo, mafia, corruzione, sprezzo della magistratura: non è una vecchia pagina da voltare. È il presente limaccioso che viviamo.
Tutte queste vicende i francesi non le capiscono. Pur avendo compiuto la rivoluzione e chiamato ogni uomo allo stesso modo – citoyen – lo spirito di casta è tenace. Se sei un intellettuale hai speciali immunità, anche se hai ammazzato tua moglie come il filosofo Althusser. Già Tocqueville trovava intollerabile la mistura francese tra politici e letterati.
Fa parte dell´astrattezza letteraria (la più obbrobriosa forse) considerare gli ex terroristi come sconfitti, vinti dalla storia. Sconfitto è chi esce battuto essendo stato un combattente, regolare o guerrigliero, o un vero enragé. Gli si deve rispetto: con lui si ricostruirà un ordine. Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale, come gran parte della storia italiana.

l’Unità 5.1.11
Il saggio Indagine su corporeità, pensiero e l’impossibiltà del suo annullamento
Michela Marzano dalla colomba di Kant alla rivoluzione fenomenologica
Le perigliose avventure del corpo in viaggio attraverso la filosofia
Cerca di annullarsi, il corpo, in tante tradizioni culturali, cerca il proprio annientamento, ma è tutto inutile. Michela Marzano ripercorre il viaggio del corpo attraverso la filosofia (anzi, le filosofie). Con esiti a volte sorprendenti.
di Silvia Santirosi


Mo e Ho sono due gemelli che vivono nel paese di Cento-case. Alla morte di Mo, trasformato dagli uomini-cavi in uno di loro, Ho cerca di liberarlo. Quando lo trova, spacca con un piccone la sua forma evanescente e, come una spada nel fodero, penetra in essa. Dalla loro fusione nasce Moho. E sarà lui a trovare la Rosa-amara, il fiore del discernimento, che il padre aveva chiesto ai due ragazzi come pegno per diventarne il successore. Una storia affascinante, raccontata da René Daumal ne Il monte analogo, che consideriamo particolarmente adatta a introdurre il tema dell’ultimo libro di Michela Marzano, La filosofia del corpo. Vediamo come.
Il testo attraversa trasversalmente il pensiero filosofico, prendendo in considerazione il rapporto tra anima e corpo (dal dualismo platonico al monismo di Spinoza; dal riduzionismo materialista alla rivoluzione fenomenologica), senza fermarsi però alla sola ricostruzione storica. Avvia anche una riflessione che argomenta in favore del superamento di un approccio per lo più dicotomico e antagonistico che finisce per gerarchizzare i due modi d’essere dell’esistente, stabilendo una supremazia della dimensione mentale su quella corporea. «L’essere umano è una persona incarnata» leggiamo nel testo, «senza corpo non esisterebbe; tramite il corpo è legato alla materialità del mondo». Un discorso che ricorda quello della colomba di Kant: l’aria oppone una resistenza che le sue ali devono vincere, ma senza l’aria l’uccello non potrebbe neanche volare. In altre parole, il mondo resterebbe lontano senza una materia che lo abiti, senza un corpo che lo assapori, lo annusi, lo guardi, lo percepisca e lo contempli, il mondo sarebbe inabitabile. E questo ciascuno lo può sperimentare quotidianamente. Per non parlare del fatto che l’agire, l’interagire con gli altri e l’ambiente (geografico, materiale, sociale) non è frutto solo di riflessione. Entrano in gioco, infatti, le emozioni, il desiderio, altro tema di ricerca caro alla filosofa, insomma l’affettività nel suo complesso. E con loro il corpo. «Eccolo, l’errore di Cartesio», scriveva qualche anno fa il neurofisiologo Antonio Damasio, «la separazione delle più elaborate attività della mente dalla struttura e dal funzionamento di un organismo biologico».
Ma perché è così cruciale una riflessione e un ripensamento dello statuto della corporeità? Perché, volenti o nolenti, i filosofi continuano a occuparsi della questione? «Ciascuno è il proprio corpo, essendolo» e al tempo stesso «ciascuno ha il proprio corpo, possedendolo»; ed è in questa ambiguità di essere e avere, di naturalità e costruzione culturale, di identità e genere, che l’uomo fa esperienza di Sé, del Mondo, dell’Altro nella dimensione della fragilità e della finitudine che oggi cerca di essere continuamente superata. Basti pensare alle diverse opportunità offerte dalla scienza e dalla tecnica contemporanee di intervento sul corpo: la chirurgia, più o meno estetica, l’attenzione all’alimentazione e l’allenamento fisico.
Eppure, «nonostante ogni tentativo di annullarlo, il corpo è sempre presente» scrive Michela Marzano nelle conclusioni, «pronto a tradurre in sintomi il disagio di chi cerca di farlo sparire». Ecco allora l’importanza di recuperare, di reintegrare non tanto la coincidenza tra il sé e il corpo (non serve ragionare come eroi omerici per i quali la bellezza fisica corrispondeva a quella morale), ma la coappartenenza di ragione e sentimento, Io e corpo, filosofia e poesia. Come i gemelli di Daumal, devono diventare tutt’uno se vogliono riuscire nell’impresa di trovare il fiore della vera conoscenza. E la stessa strada sembra indicare Michela Marzano.
Michela Marzano «La filosofia del corpo» pp. 108, euro 13,00 Il Melangolo, 2010

l’Unità 5.1.11
Londra celebra Nora. Musulmana, morì per un’Europa libera
Arruolata dai servizi segreti britannici durante la seconda guerra mondiale fu torturata dai nazisti e morì a Dachau
di Virginia Lori


Una statua nel centro di Londra per Noor Inayat Khan, agente segreto di Winston Churchill in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Un busto di bronzo che ne riproduce le fattezze sarà collocato non lontano dalla sua casa di Bloomsbury.
Nome in codice Madeleine, Noor Khan era la maggiore di quattro figli di un principe indiano che viveva in Europa, musicista e predicatore del Sufismo. La giovane donna morì nel lager nazista di Dachau il 13 settembre 1944 dopo essere stata torturata per dieci mesi dalla Gestapo senza mai rivelare nulla sul suo lavoro e sui suoi complici durante gli interrogatori.
La storia di Noor, eroina islamica, acquista particolare significato mentre escono in Gran Bretagna nuove statistiche sulla progressiva islamizzazione del paese: nei dieci anni trascorsi dagli attentati dell’11 settembre 2001, nel Regno Unito il numero dei convertiti alla fede musulmana è quasi raddoppiato. Lo ha scoperto il centro di ricerche Faith Matters.
NATA A MOSCA
Erano 60mila nel 2001, i sudditi di Sua Maestà transfughi dalla Bibbia al Corano. Ora sono saliti a oltre 100mila, oltre cinquemila in più ogni anno: una cifra in linea con le conversioni in Francia e Germania dove si contano 4000 musulmani in più ogni anno.
La statua di Noor sarà la prima in Gran Bretagna in onore di una donna di fede musulmaana. «Il suo ultimo atto, mentre la fucilavano, è stato gridare: Liberté». Così ha scritto il quotidiano britannico Independent raccontandone la storia.
Noor, che era nata a Mosca da madre americana e padre giramondo, era cresciuta a Parigi e aveva studiato alla Sorbona. Aveva cominciato a scrivere poesie e racconti per l’infanzia. Quando scoppiò la guerra, la sua famiglia fuggì in Gran Bretagna.
INSEGNAMENTO PACIFISTA
Pur influenzata dall’insegnamento pacifista del padre, la ragazza decise di dare un contributo allo sforzo di guerra. Con un primo nome in codice di Nora Baker, Noor si unì alle squadre di sabotatori di Churchill, il cosiddetto Special Operation Executive (Soe).
Il 16 giugno 1943, a un anno dal D-Day, fu la prima operatrice radio inviata in Francia con il celebre mandato di «dar fuoco all’Europa». In quella veste, con lo pseudonimo di Jeanne Marie Regnier e il suo fluente francese, Noor aveva coordinato da Parigi una cellula di spie, cambiando più volte aspetto e casa. Era un lavoro pericolosissimo ma la ragazza era riuscita per tre mesi a sfuggire alla cattura mentre altri suoi collaboratori finivano nelle mani della Gestapo. Alla fine era stata tradita e arrestata anche lei. Trasferita a Dachau, dopo dieci mesi di prigionia fu uccisa con un colpo di pistola alla testa e immediatamente cremata. Aveva appena 30 anni.

il Fatto 5.1.11
Il Riformista che verrà: di sinistra e di Quirinale
Macaluso, editore (e direttore?) del quotidiano insieme a un “Buena Vista Social Club” del migliorismo italiano
di Luca Telese


Due notizie, anzi tre, una dopo l’altra, intorno all’avvincente saga de Il Riformista. La prima arriva direttamente dalla voce di Emanuele Macaluso, classe 1924, l’uomo che sta conquistando in queste ore il controllo del quotidiano arancione, sentito ieri al telefono: “La trattativa non è ancora conclusa. Se ne parla tra 48 ore, eh, eh, eh....”. Il che è come dire che ormai è fatta, e che il padre nobile della sinistra riformista sta per acquisire dalla famiglia Angelucci a 87 anni la testata fondata da Claudio Velardi e Antonio Polito. La seconda notizia, è quasi un corollario della prima: nella cordata che sostiene l’impresa di Macaluso, c’è la squadra che si è formata in questi anni intorno alla sua storica rivista, Le ragioni del socialismo.
L’uomo dei soldi dell’operazione , per dire, è Guido Cervetti, 77 anni, l’ex colonna della corrente migliorista meneghina, ma anche l’uomo che aveva studiato a Mosca avendo come compagno di Mosca un certo Michail Gorbaciov , ma anche l’uomo che ha gestito e raccontato la storia del finanziamento dei rubli al Pci, immortalata in un libro storico, L’oro di Mosca. L’altro compagno di mille battaglie è Andrea Geremicca, intellettuale storico del partito comunista napoletano, che in un’altra epoca, prima della discarica, aveva bonificato Pianura all’epoca delle giunte Valenzi.
Il quarto uomo della compagnia è Giovanni Matteoli, primo caporedattore de Le ragioni del socialismo, occhialetti tondi, barbetta senza baffi, intellettuale pignolo e meticoloso, oggi consigliere alla presidenza della Repubblica con un prestigioso incarico di consigliere. Unendo le biografie di questi uomini come i puntini di “Che cosa apparirà” sulla Settimana enigmistica, si arriva al minimo comune denominatore che li unisce. Sono tutti fidatissimi compagni di battaglie di Giorgio Napolitano . Per dire: nel 1988, quando durante il primo anno di segreteria di Achille Occhetto Cervetti fu killerato ed escluso dall’elezione del comitato centrale (per via di una alleanza degli uomini del segretario con gli ingraiani), la corrente dei miglioristi arrivò a minacciare persino la possibilità di una scissione. Certo, c’era di mezzo la questione del nome, ma per Napolitano l’attacco a Cervetti era il gesto più inaccettabile che si potesse subire.
Nasce proprio nel biennio della Svolta e per effetto della battaglia congressuale, con uno storico convegno al cinema Capranica, la prima corrente organizzata riformista. Ne fanno parte i due grandi vecchi solidali e antitetici Napolitano e Macaluso dirigenti del calibro di Cervetti e Gerardo Chiaromonte, la generazione di mezza età come i gemelli Borghini (uno finito addirittura nel morente pentapartito, a Milano), come e giovani come i “due Umberti” (Minopoli e Ranieri). E Ranieri, in queste ore, nel momento più felice della storia di quel gruppo dirigente, è potrebbe diventare con la benedizione di Napolitano il nuovo candidato del centrosinistra a Napoli. Insomma, unisci con un unico tratto queste storie, e scopri che per la prima volta il Quirinale potrebbe avere un quotidiano non amico, ma in qualche modo persino consanguineo. Una squadra di vecchie volpi piene di passione che costituiscono una sorta di Buena vista social club del riformismo italiano.
La terza notizia è quella che trapela per ultima, dai primi colloqui della trattativa. Il nome che Macaluso (editore) ha in mente per la conduzione del quotidiano è quello di Macaluso (giornalista). Ovvero lo stesso uomo che dirigeva l’Unità nel 1984, quando nacque anche il Macaluso corsivista, quello degli editoriali brevi e affilati, sotto lo pesudonimo di Em.ma. Dice Claudio Velardi, che di quel mondo è stato un figlio scavezzacollo: “Matteoli Geremicca, Cervetti, Macaluso direttore... quando ho saputo che la squadra è questa ho provato tenerezza. Ma pensato che un solo di questi settantenni vale più di quattro rottamatori ventenni.
Ma sarà davvero Macaluso il direttore? L’interessato risponde così: “Con Macaluso direttore puoi stare sicuro di una cosa: non ce n’è più per nessuno... A partire da Il Fatto”.

il Fatto 5.1.11
Dario & Franca. Che male ti Fo?
Il ritorno di Mistero buffo a 41 anni dalla prima Il Nobel: “Senza memoria, vivere è inutile”
di Federico Pontiggia


“Il grottesco avanza, basti pensare al ministro Gelmini che si dice soddisfatta della nuova legge per cultura e scuola perché seppellisce il ‘68”. Ma per Dario Fo si tratta di “una imbecillità incredibile, come se fosse facile eliminare uno dei fatti più grandi della cultura europea: il movimento studentesco, la presa di coscienza delle donne e quindi degli uomini, la dignità del lavoro, i diritti umani, il divorzio, l’aborto. Il ’68 è stato una rivoluzione fondamentale, il centro focale dell’Europa”. 84 anni, Nobel per la letteratura nel ’97, Fo scalpita da ragazzino e s’indigna da saggio, soprattutto, freme per ritornare in scena con Franca Rame e il suo cavallo di battaglia: Mistero buffo è sul palco del Teatro Nuovo di San Babila a Milano, fino al 16 gennaio (biglietti 22 ).
41 anni dopo, dunque, Mistero buffo torna a teatro.
L’abbiamo deciso con Franca, le uniche volte che ci capitava di riportarlo in scena era durante le manifestazioni in fabbriche occupate o in via di smantellamento, per tirare su un po’ di fondi a favore degli operai oppure durante le lotte degli studenti in Sicilia, Calabria, Puglia, Roma, Milano, dove ora stiamo facendo qualcosa al Politecnico. Ci siamo chiesti, non è il caso di provare dopo 41 anni a rimetterlo in piedi? In molti l’hanno dimenticato, altri non l’hanno mai visto se non in homevideo.
Come è nato e cresciuto?
E’ nato a cavallo fra anni ’60 e ’70, la prima esibizione è stata nel ‘68 a Porta Romana. C’era tensione, momenti di grande entusiasmo e clima di lotta, anche molto dura. Per la prima volta accanto al mondo operaio entravano in campo gli studenti, consci di essere pure loro degli sfruttati. Si è sviluppato progressivamente, abbiamo incominciato a prendere dal teatro satirico e grottesco, con andamenti erotici. In breve, scurrilità civile, e poi spettacoli legati a storie non solo italiane.
Tantissimo materiale, ogni  sera sarà uno spettacolo diverso?
Ogni sera ci sarà qualcosa di nuovo, perché ci diverte la reazione del pubblico. Io e Franca abbiamo superato gli 80: se gli spettatori hanno la nostra stessa età, la memoria frana, come possono ricordare tutto? Viceversa, i giovani lo conoscono tramite cassette e dvd: puoi trovare 15enni che lo recitano a memoria.
Ma qualcosa è cambiato.
Vecchi pezzi hanno acquisito un’attualità impressionante, viceversa, momenti tragici della storia di 50 anni fa, già ricordati per la loro efferatezza, oggi sono diventati grotteschi, sarcastici. Comicità e tragedia stanno l’una dentro l’altra: non a caso, Aristofane prendeva spunti tragici per la commedia. Cose che facevano scalpore 40 anni fa oggi passano inosservate: Berlusconi e le leggi inventate, le ruberie e le frodi, ministri costretti a lasciare lo scranno perché impelagati in truffalderie infinite. Ai tempi della Dc, sarebbe stato uno scandalo enorme, disgustoso, per non parlare di Mani Pulite, quando saltò il tappo e insieme il governo. Al contrario, oggi tutto si ripete ma non succede niente: la colpa è dei giudici aggressivi, che perseguitano e non lasciano lavorare in pace Berlusconi.
Reazioni?
Il grande pubblico dice: “Ma, sì, lasciamolo fare. E’ normale che si debba distrarre; imperatori e non, rubano tutti, l’importante è che sia disponibile con noi”. Poveri illusi, Berlusconi e gli altri sono spiritosi, ma non ti lasciano vivere, ti annegano, come dimostrano i contratti Fiat, veri e propri atti di sciacallaggio industriale.
Qual è il problema?
La cultura della disinformazione, l’addormentamento della coscienza, far credere che il mondo sia fatto di lotteria e colpi gobbi, con la speranza che un giorno tocchi a te e ti cambi la vita. Il sogno è un uomo ricco e felice, capace di lavorarsi bene le leggi e avere i santi in Paradiso: la corruzione e l’accettazione della corruzione sono una follia culturale.
E la sinistra?
La sinistra è drogata, imbesuita dalla situazione politica: troppi si sono assuefatti a conciliare, addomesticare e medicare, sperando di avere aggiustamenti per tutti. Si lavano le mani, fanno come Pilato, non si prendono responsabilità, stanno a vedere, con una parola d’ordine: “io non c’entro”.
La speranza sono gli studenti?
Sono un fatto collettivo, la loro cocciutaggine è giusta, da applausi.
Oltre a loro, il vuoto?
No, ci sono uomini su cui puntare. Vendola è una persona di tutto rispetto, con un seguito importante. E Di Pietro sballa, scentra, sceglie con superficialità i suoi aiuti e collaboratori, che poi si scopre essere degli infami, dei baluba che corrompono e si fanno corrompere. Ma anche lui ha delle cose positive, non è da buttare. Ma il problema non è individuare un uomo, ma una formai ideale di società.
Mistero buffo allude ai nuovi potenti?
Senza alcuno sforzo, perché quando in scena è la storia di un potente che compie gesta tracotanti subito la gente lo becca, indovina che quello è uguale e preciso a… C’è una tale effervescenza in giro che per intendere bastano solo poche indicazioni. D’altronde, i giullari per evitare la censura si rifacevano a persone ed eventi antichi: i nostri testi funzionavano a meraviglia 40 anni fa e così oggi. L’infamia, l’ipocrisia, il trucco e la truffalderia del potere sono gli stessi, non c’è sforzo di attualizzazione.
Non è che rimpiange il passato, la Dc?
Per carità, non rimpiango né Andreotti né Fanfani: abbiamo lottato contro la censura, subivamo violenza, i teatri venivano bruciati, quando parlavo di mafia venivo insultato e mi facevano capire che sarebbe andata male anche fisicamente. Non è cambiato nulla, salvo che oggi il potere è più spudorato.
Anche nell’America di Obama?
Obama sta portando avanti un lavoro duro e difficile, perché l’opposizione è spietata e usa tutti i mezzi. Bush l’ha messo in trappola, lasciandogli un’orrenda macchina da sfasciare: l’aggressione criminale condotta nel Medio Oriente. Ma Obama riesce ancora a farcela, speriamo non vada di nuovo al potere la destra, che ha la colpa di tutto, a partire dalla crisi economica.
Potenti per potenti, di papi ne ha passati in rassegna tanti, da Paolo VI a Wojtyla.
Oggi tocca a Ratzinger. Con piccole indicazioni, squarcerò il velo sullo Ior, perché le parole di Ratzinger (le norme antiriciclaggio europee imposte alla banca della Santa Sede, ndr) non fanno altro che levare di mezzo un ulteriore scandalo, perché nella Chiesa ormai ce n’è uno a settimana, compresi quelli sessuali. Si cerca di tamponare, ma sui fianchi ci sono ferite terribili.
Teatro a parte, che cosa si augura per il 2011?
Mi aspetto una presa di coscienza della nazione intera: spero che i soliti felici e contenti, con il cervello imbottito di ipocrisie e imbecillità, si sveglino e partecipino alla vita civile. Hanno la testa dentro la sabbia, è ora che la tirino fuori.

Corriere della Sera 5.1.11
La baby mamma e l’educazione che non c’è
di Silvia Vegetti Finzi


Ogni volta che un fatto inquietante coinvolge la sessualità degli adolescenti ecco riproporsi la richiesta di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole. È di questi giorni il caso di due giovanissimi, lui di 16 anni lei di 13, diventati troppo presto genitori. In proposito i pareri sono concordi nel deprecare un’anticipazione che turba i processi dell’età evolutiva e limita il ventaglio di possibilità che caratterizza l’adolescenza. Sarà soprattutto la ragazzina ad affrontare l’interruzione degli studi, la separazione dalle coetanee, l’indisponibilità agli svaghi e alle confidenze dell’età. A entrambi spetta poi il difficile compito di portare avanti un rapporto gravato da premature responsabilità. Ciò nonostante la scelta di mettere al mondo un figlio, quasi un fratello, rimane valida se i genitori ragazzini hanno agito non per costrizione ma per convinzione. In questi frangenti è fondamentale il sostegno delle famiglie, della scuola e della comunità. L’esperienza della maternità e della paternità contiene potenzialità maturative se viene vissuta positivamente, alla luce della fiducia nel presente e nella speranza del futuro. Nulla esclude che a una sessualità avventata faccia seguito una genitorialità responsabile. Certo sarebbe stato meglio proteggere questi «poco più che bambini» con una corretta educazione sessuale. Ma su questo punto il nostro Paese sconta una inadeguatezza storica. Da decenni giacciono in Parlamento le più vetuste e inascoltate proposte di legge. Mentre altrove si è fatto molto, talvolta troppo, da noi la questione si è arenata su uno scoglio che appare insuperabile, la contrapposizione tra cattolici e laici, tra un orientamento religioso o scientifico. Nel primo caso la gestione dell’educazione sessuale spetterebbe alla famiglia, nel secondo alla scuola. Ma è proprio necessario costringere un tema, che riguarda i fondamentali rapporti umani, nella morsa di rigide polarità ideologiche? L’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito il benessere sessuale e riproduttivo degli adolescenti nell’agenda delle priorità. In Inghilterra siamo all’emergenza: nel 2007 sono nati 7.715 bambini da genitori sotto i 15 anni mentre sono in aumento i padri di 12-13 anni. Su dieci giovani o giovanissime che hanno concepito, sei chiedono l’interruzione volontaria di gravidanza. Nel 2007 hanno abortito 198.499 minorenni. Per ridurre queste allarmanti statistiche lo Stato inglese ha stanziato 20,5 milioni di sterline, puntando soprattutto sulla diffusione della contraccezione. Un provvedimento utile ma insufficiente. Sappiamo che le cause del malessere sessuale degli adolescenti sono profonde: svantaggio socio-economico, famiglie disfunzionali, basso livello d’istruzione, stile di vita disordinato, abbandono e solitudine. Per fortuna da noi la situazione non è così catastrofica. Le madri minorenni sono il 5 per mille contro il 25 dell’Inghilterra. Secondo il professor Giovanni Ascona, direttore dell’ufficio Tutela della salute della donna e dell’età evolutiva del ministero della Salute, «un significativo incremento delle maternità precoci nel nostro Paese non è stato ancora statisticamente rilevato» . Non mancano tuttavia segnali di disagio che fanno auspicare l’introduzione della «Educazione alla sessualità e alla affettività» nei programmi scolastici, a decorrere dalla Scuola secondaria di primo grado, programmi che comprendano anche la preparazione dei genitori a un compito educativo che li impegna in prima persona.

Repubblica 5.1.11
Se la Cina compra anche Montagnier
Così Pechino inventa il pianeta del futuro
di Giampaolo Vsetti


Luc Montagnier sceglie l´«asilo scientifico» in Cina e la fuga in Oriente del simbolo della lotta al virus dell´Hiv traccia un confine nuovo al lento tramonto che investe, dopo l´economia, anche la cultura dell´Occidente. Se Montagnier, a 78 anni, avesse accolto l´invito per un ciclo di conferenze negli Usa, o un´accademica pensione dorata a Cambridge, nessuno avrebbe inarcato un sopracciglio. Il super-ingaggio dell´università di Shanghai, come si trattasse di una star del calcio a fine carriera, impone invece il volto più ignorato e contemporaneo del gigante asiatico: quello di grande seduttore degli intellettuali americani ed europei, legati non più ad una patria.
Ma all´opportunità di sviluppare i propri progetti e di realizzare i sogni ritenuti impossibili. Costretto alla pensione in Francia, Montagnier ha dichiarato di «fuggire da un clima di terrorismo intellettuale» e di aver ottenuto dai leader di Pechino i soldi per far avanzare la conoscenza su virus ancora sconosciuti. È questa disponibilità finanziaria cinese senza limite, unita ad un´attrazione irresistibile verso le esperienze altrui traducibili in business, a far prevalere oggi il timore sul rispetto. Può essere che la Cina voglia comprare più credibilità internazionale che progresso. L´esito di un´apertura senza precedenti alle figure-chiave della nostra civiltà condurrà però presto al traguardo reale, destinato a cambiare radicalmente il profilo del pianeta: alla delocalizzazione delle catene di montaggio inizia a seguire la migrazione dell´intelligenza e il futuro dell´umanità sarà deciso non più tra le due sponde dell´Atlantico, ma sulle rive del Pacifico. La ragione è chiara. La Cina deve all´imitazione il successo che in trent´anni l´ha trasformata in «fabbrica del mondo» prima e in «locomotiva della crescita globale» poi. Sa bene però che lo sviluppo, per essere stabile, ha bisogno di innovazione. L´obiettivo del partito comunista è dunque «costruire una società più innovativa», dalla scienza, alla tecnica, all´economia. Trasformare la Cina nel «motore planetario della creatività in questo secolo», come indicato a fine anno dal governo, è un´impresa senza precedenti che impone quelli che l´amministrazione Usa ha definito ieri «numeri incredibili». Il metodo scelto da Pechino per bruciare i tempi, privilegia la «quantità del potere di attrazione esterna» piuttosto che la «qualità della capacità di costruzione interna». Ciò significa che risorse pubbliche ineguagliabili sono destinate all´acquisto di cervelli, conoscenze e tecnologie dall´estero. Dal 2006 la Cina detiene il primato degli stipendi più alti per scienziati, docenti universitari, manager e tecnici stranieri. Nel 2010 ha aggiunto il record di finanziamenti per ricerca e università, a partire da medicina ed energia pulita. Lo Stato, consapevole del «deficit di fantasia» comportato dalla mancanza di libertà, garantisce i migliori bonus legati ai risultati, alloggi più vantaggiosi e sgravi fiscali per le imprese estere più prolifiche sul fronte dei brevetti. Mentre l´Occidente contiene il deficit tagliando istruzione e ricerca, la Cina investe proprio sulla nostra «rinuncia all´innovazione e alla formazione». Gli studenti che aspiravano a completare gli studi in Usa e Gran Bretagna si dirigono ora verso Shanghai, Pechino e Hong Kong. Se nel 2009 le domande per brevetti in Cina erano 300 mila, rispetto alle 480 mila negli Stati Uniti, nel 2010 sono state 520 mila ed entro il 2015 saranno 2 milioni. Quello dei brevetti è l´ultimo primato strappato al resto del pianeta. I premi Nobel, non solo per la pace, arriveranno presto dall´Oriente e la Cina punta a diventare «la Silicon Valley del Duemila» per trasformarsi nella «capitale mondiale dell´assemblea innovativa». Comprato il pianeta, lo reinventa: assicurandosi l´affare estremo del secolo.

Repubblica 5.1.11
La Cina ingaggia Montagnier "Troppo avanti per l´Europa"
di Elena Dusi


Lo scienziato francese che nel 1983 scoprì il virus dell´Hiv emigra lanciando strali contro il suo Paese Il Nobel parla di "terrorismo intellettuale" ed elogia l´apertura dell´Est: Shanghai gli dona un laboratorio
I nuovi studi riguardano le onde elettromagnetiche emesse dal Dna di alcuni virus
Ma queste ricerche sono già al centro di controversie: molti le reputano alquanto bizzarre

L´Est è il futuro, non l´Europa del "terrorismo intellettuale" che rigetta "gli scienziati troppo avanti con le loro idee" secondo Luc Montagnier. Il virologo francese che nel 1983 scoprì l´Hiv in concorrenza con l´americano Robert Gallo e fu mandato in pensione forzosamente a 65 anni tuonando contro la legge sui limiti di età, oggi a 78 anni si considera ancora troppo avanti per gli standard della vecchia Europa. Così ha fatto le valigie per l´Est, dove una Cina a caccia di cervelli è stata ben felice di accogliere il Nobel per la medicina 2008.
L´università Jiao Tong di Shanghai ha donato a Montagnier un laboratorio che porta il suo nome e contiene tutto ciò che uno scienziato possa desiderare. Ma ovunque vada, il virologo che nel 2003 propose di curare il Parkinson di Giovanni Paolo II con un estratto di papaya fermentato, porta con sé controversie. E questa volta le sue valigie sono cariche di frasi astiose verso la scienza occidentale, una causa per violazione di brevetto e la promessa di trovare una cura per l´Aids, l´autismo e l´Alzheimer che per molti suoi colleghi è ciarlataneria.
Gli studi che Montagnier porterà avanti in Cina riguardano le presunte onde elettromagnetiche emesse dal Dna di alcuni virus patogeni diluiti nell´acqua. Lo scienziato vuole tracciare l´identikit di queste emissioni e generare onde contrarie per bloccare l´attività dei virus. L´idea è così bizzarra che nessuna rivista scientifica ha accettato di pubblicarla, né lo scienziato ha trovato fondi. Almeno fino a ora.
La notizia dell´inaugurazione dell´Istituto Montagnier a Shanghai è stata accompagnata da un´intervista del Nobel a Science. Ma la rivista americana fa notare che gli studi del Nobel ricordano i tanto vituperati esperimenti sulla "memoria dell´acqua" che furono dapprima considerati la prova dell´efficacia dell´omeopatia, ma vennero subito declassati a "mera illusione" dalla rivista Nature che li aveva pubblicati nel 1998. Quella scoperta si basava sulla fortissima diluizione di una sostanza curativa nell´acqua, fino a farla scomparire. Montagnier nell´acqua mette i suoi virus, sempre a concentrazioni estremamente basse, per studiare le presunte onde elettromagnetiche del genoma. "Le mie ricerche – spiega il virologo – sono alla frontiera tra fisica, medicina e biologia. Abbiamo scoperto che la presenza di Dna, anche in bassissime dosi, genera variazioni strutturali nell´acqua. Possiamo misurarle attraverso i segnali elettromagnetici. Così si spiega come batteri sciolti nel sangue causino danni al cervello".
Le teorie che Science definisce pseudo-scienza verranno messe alla prova a Shanghai, dove Montagnier ha trovato "spirito di apertura, dinamismo e rapidità di decisione". Ma un biglietto di ritorno il Nobel dovrà farlo presto. L´apparecchio rilevatore dei segnali elettromagnetici del Dna sarebbe stato già inventato nel 2005 e fra l´autore del brevetto Bruno Robert e Montagnier è in corso una causa. La sentenza è attesa per il 20 maggio. L´esaminatore del brevetto che commentò "l´invenzione è basata su fenomeni che contraddicono i principi di fisica e chimica" non immaginava quante controversie quella strana idea avrebbe causato.

Repubblica 5.1.11
Nella biblioteca di Dio
Dimenticate Dan Brown, c´è Mendelsohn "Quei libri segreti nel cuore del Vaticano"


Costruire un luogo come questo dà il senso di una volontà evangelizzatrice E mostra il rapporto tra sapere e potere
Che sia un posto speciale lo capisci immediatamente: è l´unico centro al mondo dove serve il passaporto per poter entrare
Lo scrittore in visita ai tesori dell´istituzione voluta da papa Nicola V
"Per apprezzare la musica o l´arte figurativa devi conoscere la religione"

NEW YORK. Nei sotterranei del Vaticano. O quasi. Qualche mese fa, infatti, Daniel Mendelsohn ha passato una settimana in Italia per raccontare la riapertura della Biblioteca Apostolica Vaticana dopo tre anni. Ha incontrato bibliotecari, studiosi, cardinali e semplici sacerdoti. Così è nato l´articolo uscito sul New Yorker di questa settimana, dal titolo I bibliotecari di Dio. «È un posto unico, anche perché è la sola biblioteca in cui per accedere devi avere il passaporto, essendo il Vaticano uno Stato a sé», ha scritto. "Un posto unico" nato per volontà di Niccolò V e quindi ampliato e modernizzato da Pio II, Sisto IV, Leone XIII, e, negli ultimi anni, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il critico, a un passo dagli Archivi segreti, spiega: «Qui l´aggettivo "segreto", a dispetto di quanto sia stato modificato per effetto di Dan Brown, riacquista tutta la sua banalità etimologica: è qualcosa che è messo da parte».
Nei giorni della visita, Mendelsohn ha avuto modo di consultare veri e propri tesori bibliografici, dalle lettere di Enrico VIII ad Anna Bolena, alla Historia Arcana, un manoscritto del 550 dopo Cristo che creò sconcerto all´interno della Chiesa per la rivelazione di elementi scandalosi della vita dell´imperatore Giustiniano e della moglie Teodora. Gli elementi più scabrosi vennero omessi quando la Historia Arcana fu stampata per la prima volta come libro nel 1623, ma ora, in occasione della riapertura della biblioteca, è possibile esaminare il manoscritto nella sua integrità. Mendelsohn, che si dichiara ateo, si è reso conto che studiare la Biblioteca Vaticana significa analizzare uno dei modi con cui la Chiesa Cattolica ha interpretato la propria missione evangelizzatrice «È esattamente così», racconta nel suo appartamento di Chelsea. «Si tratta di una chiave di lettura illuminante ed estremamente affascinante per capire il rapporto del Vaticano con la conoscenza, con il potere, il segreto e l´autorità».
Cosa colpisce di quel luogo?
«È una esperienza che intimidisce e ti emoziona. È incredibile la quantità e la qualità dei tesori che sono conservati nella Biblioteca. L´atteggiamento di deferenza da parte dei bibliotecari nei confronti dei manoscritti è quasi commovente. È un rispetto che sfiora la venerazione nei confronti della possibilità di tramandare la cultura. Un altro elemento che mi ha colpito è la relativa mancanza di protezione, un tesoro del genere in altri paesi sarebbe molto più blindato. Credo che abbia a che fare con l´idea di evangelizzazione, e con la fede innata nella natura umana di Niccolò V, un pontefice colto che volle creare una sede di apprendimento umanistico nel cuore ideologico e geografico della chiesa cattolica».
Qual è il testo che l´ha emozionata di più?
«Da un punto di vista personale i manoscritti più antichi dell´Eneide, ma per l´importanza che ha avuto per la cultura occidentale direi la Historia Arcana di Procopio. Mi ha colpito anche il modo semplice in cui è archiviato: VAT GR 1001. Le lettere stanno per Vaticanus Graecus: indicano che il testo fa parte della collezione dei manoscritti greci del Vaticano, senza sottolineare il valore del contenuto. Un altro manoscritto è conservato con un nome apparentemente anonimo è il Libro I, proposizione 47, ed è una delle copie più vecchie esistenti del Teorema di Pitagora. Purtroppo non mi è stato possibile vedere la meravigliosa Bibbia di Montefeltro, con illustrazioni di Botticelli».
Qual è la sensazione che prova una persona che proviene da una cultura giovane nell´entrare in un luogo dove sono conservati tesori millenari?
«Potrei risponderle che sono americano soltanto da due generazioni, e che i miei studi sono classici, ma credo che chi ama la cultura in un posto così la sente e basta».
Cosa prova un intellettuale ateo all´interno di un´istituzione culturale gestita da religiosi?
«Sono ateo ma credo in chi crede. Anche quando preparavo il mio libro Gli Scomparsi mi sono trovato a contatto con alcuni rappresentanti della comunità greca ortodossa, e sono rimasto molto colpito dalle persone che vivono autenticamente la propria fede».
Il Vaticano oggi rende pubblici testi che per anni erano accessibili sono al clero.
«La prima cosa che ho notato è che i bibliotecari non sono semplici archivisti ma uomini di cultura. C´è ovviamente un cambiamento facilitato anche dalle innovazioni tecnologiche, ma credo che il cuore di questo momento di apertura sia altrove, e ha a che fare con le scelte della chiesa, che hanno tempi e modi diversi da quelli del mondo secolare. Non sono un vaticanista, ma so bene che ci sono stati periodi bui e tragici nella storia della chiesa. Tuttavia credo che quello che sta avvenendo oggi sia nella linea di quello che è scritto nel Vangelo "non c´è nulla di nascosto che non debba essere rivelato e nulla di segreto che non debba essere conosciuto". L´impressione complessiva che ho avuto alla fine della visita è stata quella di trovarmi di fronte all´energia e non alla stanchezza della storia».
Quando Montaigne venne a consultare la biblioteca nel 1581, notò che i libri erano assicurati con delle catene agli scaffali.
«Si verificavano numerosi furti, e all´epoca si trattava probabilmente di copie uniche. Molte volte i furti erano fatti da studiosi, che avevano bisogno di consultare i manoscritti in questione».
L´attuale pontefice è un intellettuale colto: ritiene che ciò influenzi in qualche modo la funzione divulgativa e di studio della Biblioteca?
«Il rinnovamento e la modernizzazione è precedente al pontificato di Ratzinger, anche se la sua attenzione alla cultura ha certamente un ruolo importante. Molto si deve a Wojtyla, a proposito del quale ho scoperto un aneddoto esemplare nella storia della Biblioteca».
Quale?
«Nel 1990, in occasione di un viaggio in Messico, Giovanni Paolo II prese dalla Biblioteca un libro molto prezioso per farne omaggio al presidente. Si trattava di un rarissimo testo messicano del Seicento che il pontefice voleva restituire al paese d´origine. Solo che lo fece d´autorità, senza consultare il bibliotecario dell´epoca, padre Leonard Boyle, il quale, mandò in reazione una lettera di protesta nella quale spiegava che il libro non apparteneva al papa, ma alla Biblioteca».
Ritiene che la religione rappresenti un limite o un completamento della cultura?
«Non si può essere autenticamente colti se non si conosce la religione. E aggiungo: l´educazione religiosa è importante sia da un punto di vista morale che culturale. Qualunque cosa si voglia fare, è insostituibile: come puoi apprezzare la musica o l´arte figurativa se non conosci la religione?».

Repubblica 5.1.11
Italia paese del pessimismo
di Enrico Franceschini


La Francia è il paese più pessimista della terra, la Nigeria il più ottimista. Lo afferma il Barometer of Hope and Despair (Barometro della Speranza e della Disperazione), un sondaggio internazionale affiliato al rispettato istituto Gallup, condotto su un campione di 60 mila persone in 54 nazioni. Sembra un verdetto paradossale o ridicolo: ci sono certamente più nigeriani che sognano di trasferirsi a Parigi di quanti francesi desiderino andare a Lagos. Ma uno sguardo al resto della graduatoria ne spiega il senso. Dietro la Francia, trai paesi più pessimisti, compaiono Gran Bretagna, Spagna, Italia e poco distanti Giappone, Stati Uniti, Germania. Dietro la Nigeria, trai paesi più ottimisti, figurano Vietnam, Ghana, Cina, Brasile, Kossovo. La statistica fotografa insomma la realtà: l´Occidente industrializzato preoccupato e consapevole del proprio inevitabile declino; il mondo in via di sviluppo animato da speranze di cambiamento e fiducia nel progresso. È la globalizzazione, vista non con i nostri occhi eurocentrici, bensì con quelli degli altri, i popoli emergenti: che sono poi, numericamente, la maggioranza.

Repubblica 5.1.11
Se la coppia è un’invenzione
Così il modello dell´amor cortese è riuscito a conquistare il mondo
di Giorgio Vasta


C’erano una volta i legami tra maschi, cavalieri ed eroi. Poi le storie sono cambiate e la relazione uomo-donna è diventata esemplare: lo racconta un saggio
Nell´opera di Rabelais si nota un disagio rispetto al cambiamento epocale
La società virile dell´età feudale perde potere e credito: si afferma l´eterosessualità

Ogni prospettiva sul mondo è cieca a se stessa. Dunque la cultura eterosessuale – sicuramente la macroprospettiva che più di ogni altra ha determinato e determina la nostra percezione del mondo – non si conosce. Esiste, agisce ma non si mette nelle condizioni di vedersi criticamente. Al contrario si dà forma e continuità pensandosi strutturale e fisiologica, «natura "naturale"».
Louis-Georges Tin nel libro L´invenzione della cultura eterosessuale (:duepunti edizioni) propone un movimento laterale, un capovolgimento prospettico nel quale la cultura eterosessuale passa da soggetto a oggetto di analisi. Nel suo saggio – che di fatto è uno studio delle origini sociali e culturali del nostro presente – Tin, docente a Parigi nonché ideatore del movimento antiomofobia IDAHO (International Day Against Homophobia and Transphobia), concentra la propria attenzione sulla letteratura per comprendere in che modo nel corso del tempo un modello di relazione prevalentemente omosociale è stato sostituito da un altro modello, quello eterosessuale, divenuto culturalmente tirannico.
L´omosocialità – che diversamente dall´omosessualità, specifica Tin, rimanda all´esistenza di un legame maschile non necessariamente vincolato al rapporto carnale – è il denominatore comune delle narrazioni di epoca feudale. A prevalere sono gli ideali di fedeltà al re, dunque la morale del vassallaggio, e la Chanson de geste, con i suoi esempi di eroica dedizione al sovrano, è semplicemente lo specchio di una struttura sociale incardinata sull´esaltazione dell´amicizia tra uomini. Fin qui la coppia uomo-donna è solo relativamente percepita e trova dunque, nelle storie, uno spazio esiguo.
Con il XII secolo tutto cambia. Perché l´avvento della società cortese produce una metamorfosi decisiva: la società virile dell´età feudale lascia il posto alle logiche, ai meccanismi e soprattutto ai valori dell´amore cortese. Una lettura attenta di testi considerati vere e proprie celebrazioni della cultura eterosessuale come Tristano e Isotta o Lancillotto permette di scoprire che ognuna di queste opere è un luogo di scontro e di passaggio: laboriosamente, tra mille contrasti, la cultura cavalleresca cede il passo a quella cortese.
Nonostante le resistenze opposte a questa metamorfosi – resistenze cavalleresche, medicali, persino clericali – la cultura eterosessuale si impone facendo coincidere le pratiche eterosessuali con la cultura tout court.
Ancora una volta, applicando al meglio i criteri della sociologia della letteratura, Tin individua nei testi più rappresentativi della letteratura del Cinquecento il disagio di un cambiamento epocale, leggendo nella saga pantagruelica di Rabelais un´ulteriore critica alla cultura eterosessuale. Se da una parte il Gargantua e Pantagruele è infatti l´esaltazione di un universo ostinatamente omosociale (in particolare nel legame tra Pantagruele e Panurgo: «Pantagruele trovò Panurgo, che amò per tutta la vita», scrive Rabelais), dall´altro in quest´opera il paradigma del romanzo cortese è di continuo messo in parodia. La donna, se anche è descritta come oggetto di una ricerca, è sistematicamente assente e i veri piaceri sono quelli che derivano dall´amicizia virile.
Trascorre un altro secolo e nel Seicento è la Chiesa a segnare a dito il dilagare della cultura eterosessuale individuando nel romanzo d´amore un vero e proprio rischio. Tutt´altro che corrispondere, come vuole la retorica attuale, a qualcosa di sano e formativo, la lettura dei romanzi è in sé pericolosa: perché – come il "caso" di Don Chisciotte insegna – induce negli uomini la mollitia, dunque una disponibilità al languore sentimentale incompatibile con la perfezione cavalleresca, mentre nelle donne veicola l´impudicitia, ovvero una dimestichezza con il discorso amoroso in grado di metterne a rischio la tenuta morale. Padre Jacques du Bosc, in L´Honneste femme, non ha dubbi: «I romanzi rendono le donne prima ardite e poi abili, poiché vi trovano la sottigliezza con la padronanza, e non solo vi apprendono il male che dovrebbero ignorare, ma anche i modi più fini di commetterlo».
Risalendo attraverso i secoli l´indagine di Tin si connette in modo sempre più esplicito al nostro presente e rende palese l´intento politico che lo muove. Condurre uno studio di questo genere si configura infatti come un ragionamento sul potere, considerato che l´amministrazione di un potere si esprime anche, e forse soprattutto, attraverso la manutenzione degli impliciti, ottenendo cioè che quanto è normato venga percepito come normale: «Meglio che una norma, che richiederebbe sempre una spiegazione, l´eterosessualità era divenuta per le donne e gli uomini che ne erano in quel modo condizionati un non-pensato della loro personale costituzione psichica, un a priori di ogni sessualità umana».
Ed è altrettanto chiaro che normalizzare è una pratica che fa le sue vittime. Il mondo occidentale, infatti, ha introiettato un dispositivo sociosessuale i cui due pilastri sono da un lato la sistematica discriminazione dell´omosessualità e dall´altro l´enfatizzazione del femminile, a condizione però che questa enfatizzazione produca effetti simbolici e non sostanziali, soprattutto su un piano sociale: in entrambi i casi si delinea con chiarezza che il presupposto della cultura eterosessuale – qualcosa dei cui effetti continuiamo a fare quotidianamente esperienza – è di fatto riduzionista e difensivo, determinato da un fondamentale androcentrismo; affrontarlo analiticamente chiarisce che «il più delle volte la cultura eterosessuale è stata edificata con la Donna, ma senza le donne».
Attraverso il suo studio Tin ci domanda di provare ad arretrare per guadagnare un angolo visuale più ampio su quanto è accaduto alla cultura occidentale almeno negli ultimi nove secoli; in questo modo, ricapitolando e riconsiderando la Storia, potremo renderci conto che questo metodo, al di là del contingente, è un´occasione di conoscenza e di civiltà: un modo ulteriore per rispettare la costitutiva complessità di ogni scenario umano.
(L´autore ha scritto il romanzo "Il tempo materiale", uscito per minimum fax nel 2008)

Repubblica 5.1.11
Il nuovo Eastwood
I fantasmi del vecchio Clint sono un vero capolavoro
di Curzio Maltese


Hereafter” è il bellissimo ultimo film del regista che attraverso tre storie e tre personaggi parla a suo modo dell´aldilà Un racconto avvincente, con un inizio terrorizzante, che insinua il dubbio anche nei più scettici di una possibile vita oltre la morte

Durante le riprese di "Shining", anche per sciogliere la pazzesca tensione sul set, Stanley Kubrick ripeteva agli attori: «Niente paura, una storia di fantasmi è sempre ottimista, in fondo significa che esiste qualcosa oltre la morte». È un pensiero che può aiutare lo spettatore di "Hereafter", l´ultimo film di Clint Eastwood, a superare la prima terrificante mezzora, una sequela di pugni allo stomaco, e abbandonarsi al più felice racconto sulla morte mai concepito sullo schermo. Il rapporto con la morte è al cuore di ogni arte. Lo è di sicuro in quella di Eastwood, fin dai tempi in cui s´aggirava come uno spettro pistolero fra i cimiteri del Far West, in quella straordinaria parabola su vita e morte che era il cinema di Sergio Leone. A ottant´anni, ma ancora nel pieno della giovinezza artistica, Clint Eastwood ha deciso di affrontare la domanda delle domande in maniera diretta e sconvolgente: esiste qualcosa oltre la morte?
Un´avvertenza. Non si tratta di un film di genere. Di qualsiasi genere. I cultori delle ghost stories o degli horror ne rimarranno delusi. "Hereafter" è da sconsigliare a chi crede già nel soprannaturale, ai clienti della fiorente industria collegata e agli abituali spettatori di baggianate ai confini della realtà. Al contrario, lo si raccomanda agli scettici, agli atei, meglio ancora se ferrei. A coloro che sono ancora convinti che le religioni siano l´oppio dei popoli. Perché a loro il film è rivolto.
È la storia di tre persone toccate in maniera differente dalla morte, che convergono soltanto nel finale. A San Francisco vive George (Matt Damon), un uomo che ha il dono terribile di parlare con i morti. A Parigi lavora Marie (Cècile de France), giornalista televisiva giovane, bella e famosa, che vive un´esperienza fra la vita e la morte durante il devastante tsunami in Indonesia. A Londra cerca di crescere Marcus, un dodicenne con la madre tossica e un fratellino gemello morto in un incidente stradale.
Il film comincia con la scena dello tsunami, girata al computer. Una delle più terrorizzanti con cui si sia mai aperto un film dai tempi del "Soldato Ryan" di Spielberg. La morte arriva come un´onda anomala e travolge ogni cosa, valore, esistenza. Trascina anche lo spettatore, dai primi minuti, in una dimensione diversa, rovesciata. È lo stesso rovesciamento che subiscono i tre protagonisti dai destini spezzati. George è un fenomeno paranormale, ricco e famoso, ma la compagnia della morte lo spinge alla disperazione e alla fine preferisce il ritorno a una vita normale, da operaio in fabbrica, piuttosto che la penosa fama, nonostante le pressioni di un fratello manager. Marie è una star immersa in una scalata al successo, in procinto di dare alle stampe una scandalosa biografia del presidente Mitterrand, ma dopo la tragedia dello tsunami la cronaca, la politica, la storia perdono ai suoi occhi ogni interesse. Marcus è un bambino timido e taciturno che volta le spalle a una vita difficile. L´unica sua relazione col mondo, il gemello Jason, è persa per sempre e lui la insegue nell´aldilà. Anche attraverso un umiliante e grottesco pellegrinaggio fra ciarlatani e sedicenti medium.
Con un materiale simile qualsiasi regista e qualsiasi sceneggiatore finirebbero inghiottiti in una terra di nessuno fra il bizzarro e il sentimentale. Non questo regista e non questo sceneggiatore, Peter Morgan, che aveva già dato prova di talento in film completamente diversi come "Frost-Nixon" e "The Queen". Non manca nulla del necessario per fare un bel film. La forza delle immagini e dei dialoghi, il tocco magico nel filmare le città, la recitazione memorabile dei protagonisti, compresi i piccoli gemelli, e di alcuni comprimari, a cominciare da Bryce Dallas Howard nella parte di Melanie, fuggevole possibilità per George di una vita normale. Ma "Hereafter", è il caso di dirlo, va molto aldilà di un bel film. Grazie allo sguardo del regista, che non smette di meravigliare. Carico di pietas sulla vita delle cosiddette persone normali, infinitamente più affascinanti degli uomini che fanno la cronaca e la storia.
È un racconto sulla morte dal quale si esce paradossalmente allegri, pieni di vita. Del resto, che cosa c´è di più bello di provare a credere per una volta all´ipotesi di una vita oltre la vita? Per giunta, lasciarsi tentare dal soprannaturale grazie a un grande film e non in virtù di una predica. Convertire gli scettici non è naturalmente lo scopo dell´autore. La missione qui, per così dire, è una missione tipica del laico: far venire dubbi. In questo caso perfettamente riuscita.
La parte più controversa di "Hereafter" riguarda i ripetuti accenni a presunte prove documentali dell´esistenza di qualcosa oltre il mondo terreno. Chissà se esistono davvero. In ogni caso tutti, credenti e non, possono consolarsi. Se la dimostrazione scientifica dell´aldilà è ancora da trovare, in compenso esiste almeno una prova evidente e inconfutabile che gli uomini, nonostante l´inesorabile morte delle cellule, possono continuare a crescere, maturare in profondità e creatività fino agli ottant´anni suonati e oltre. Questa magnifica prova vivente si chiama Clint Eastwood.

Repubblica 5.1.11
Marco Paolini è Galilei "Sarò il grande scienziato meno palloso che a scuola"
Un work in progress dedicato alla scienza e alle sue implicazioni nella nostra vita
di Rodolfo Di Giammarco


ROMA. «Non parlo del ‘600, ma di un uomo che propone un modo di essere contemporaneo. Non indago il conflitto tra scienza e Chiesa, ma esploro l´odierna magia degli oroscopi. E non mi limito a un ritratto di Galileo, ma associo la sua vita a quella di Einstein. E infine non ho pensato a uno spettacolo definito, ma ho messo insieme biografie, note, domande aperte e filoni connessi. Con l´idea che si possa partire con lo zaino sbagliato, ma sono poi spalle e gambe a decidere lo zaino giusto».
Parla di "ITIS Galileo", Marco Paolini, alla vigilia di un "giro" di rodaggio. Il nuovo lavoro realizzato con Francesco Niccolini, la collaborazione di Michela Signori, la consulenza storica di Giovanni De Martis e la condivisione di Stefano De Matteis, avrà il primo appuntamento venerdì 7 a Mira, poi, tra l´altro, a Catania, Modena, Genova, Venezia e Firenze. «Quest´impresa risale a una "vendemmia" di due anni fa, prima dell´anno galileiano. Dopo, il materiale l´ho tenuto in botte, facendolo assaggiare alle scuole medie superiori, convincendomi che era affascinante lavorarci. Ai preliminari della narrazione gli studenti, col cellulare in mano, hanno reagito dicendomi che malgrado l´argomento pallosissimo ero riuscito in due ore a non far pensare ad altro». Adesso Paolini ha davanti a sé la messinscena. «Spazio, luci e forma. "ITIS Galileo" va sedimentato perché ora è un vino novello, e tutti hanno fretta ma la struttura deve diventare musicale, umana. Prima la drammaturgia, poi la regia, e ora bisogna dare tempo all´interpretazione».
Si porrà interrogativi di secoli. «Già. Cosa c´entra ad esempio Shakespeare con Galileo? Quanto uno sapeva dell´altro? I teatranti di allora non si occupano di riflessioni e conflitti di Galileo e di Copernico che pure cambiano il mondo». Sul tema c´è Brecht, nel ‘900. «Non mi sono confrontato col suo Galileo, che pure mi fu fondamentale, per i toni troppo in bianco e nero. A me hanno colpito le cose con cui non si sono fatti i conti fino in fondo, che si ripresentano nel tempo. Vedi l´elemento magico, l´astrologia applicata ai destini, come se le stelle fossero fisse». E c´è, per Paolini, il rapporto complesso tra scienza e tecnologia. «Siamo capricciosi fruitori della tecnologia, demonizzando la scienza che la produce. Beneficiamo come bambini dei giocattoli che la tecnologia ci mette a disposizione, ma non ci sono più le suggestioni di un Giordano Bruno che sostenendo un universo infinito era potente come un Pasolini ante litteram». Un ponte è gettato tra Galileo e Einstein. «Personalità scomode, tutti e due autori di sbagli ma pieni di intuizioni, pronti ad accettare limiti e revisioni. Sono d´accordo con loro. Anch´io, oggi, non sono disposto a tornare all´Arcadia. Non voglio essere escluso dalla scienza».