giovedì 6 gennaio 2011

Stilos.it 5.1.11
Annamaria Zesi Storie di Amore e Psiche
Variazioni della favola d'amore più antica del mondo
di Ilaria Paluzzi

qui
http://www.clinamen.it/libro.php?id=116

l’Unità 6.1.11
Il documento
L’appello dell’Anpi per la tutela di lavoro e dignità


«Non sia sovvertito l'impianto democratico del Paese»: è l'appello dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia sulla vicenda Fiat. L'Anpi richiama «l'inalienabilità del diritto per tutti ad un lavoro dignitoso, fondamento primo della Repubblica» e «il dettato non manipolabile» della Costituzione, ossia «condizioni di lavoro rispettose della dignità personale e delle esigenze materiali dell'individuo, libera rappresentanza sindacale». Questi, prosegue in una nota, «sono i principi che devono guidare l'agire di coloro che in questi giorni hanno la responsabilità del futuro di migliaia di lavoratori».


l’Unità 6.1.11
Tempi stretti per il referendum da cui dipende l’operatività dell’intesa firmata il 23 dicembre
La Fiom accusa: «Non c’è tempo per spiegare l’accordo agli operai nelle assemblee»
Fiat Mirafiori, i lavoratori al voto il 13 e 14 gennaio
Ufficializzata la data della consultazione dei lavoratori, che la prossima settimana dovranno decidere sul destino dello stabilimento torinese. Sergio Marchionne è stato chiaro: vittoria dei sì oppure chiusura.
di Luigina Venturelli


La data è stata stabilita: il referendum per rendere esecutiva l’intesa di Fiat Mirafiori si svolgerà la prossima settimana, giovedì 13 e venerdì 14 gennaio, subito dopo il rientro degli operai dalla cassa integrazione che ha contraddistinto le loro festività natalizie. Tempi stretti, dunque, come chiedeva l’azienda e co-
me si auguravano i sindacati firmatari, ansiosi di definire una volta per tutte la vertenza più difficile e controversa dell’attuale stagione industriale. Ancora da decidere, invece, è la domanda che i dipendenti delle carrozzerie troveranno sulle schede elettorali. Probabilmente la formulazione sarà molto semplice, qualcosa come «Sei favorevole all’accordo firmato per lo stabilimento?». Eppure il quesito potrebbe essere posto in modo ancora più essenziale, del tipo «Vuoi conservare il tuo lavoro oppure no?».
LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA
Sulla sostanza della consulatazione che coinvolgerà i 5.500 operai della fabbrica, infatti, nessuno nutre alcun dubbio. Nè la Fiom Cgil, che parla esplicitamente di «referendum della paura» e non parteciperà attivamente ad una votazione ritenuta per questo illegittima. Nè le sigle firmatarie, che discutono di «salvaguardia della produzione e dell’occupazione», non solo della sede di Mirafiori ma pure dell’indotto su cui ruotano circa 70mila lavoratori, e chiedono al sindaco Sergio Chiamparino di farsi garante della consultazione. Sono le due facce della stessa medaglia, quella dell’ultimatum dell’ad. Sergio Marchionne, che pretende almeno il 51% dei consensi affinchè lo storico stabilimento torinese continui a vivere.
Non stupiscono, dunque, i pronostici sull’esito del referendum che si potrà conoscere già nella serata di venerdì: l’obiettivo del 60% è considerato a portata di mano, ma Fim, Uilm,
FLA MOBILITAZIONE DELLA FIOM
Non entra nel balletto delle cifre la Fiom, che oltre a contestare i contenuti del referendum, ne attacca anche la tempistica affrettata: «È necessario convocare le assemblee dei lavoratori prima di andare al voto, anche perchè l’accordo è stato fatto quando gli operai erano in cassa integrazione» ha ricordato il segretario generale Maurizio Landini. «Coloro che ritengono che si tratti di un buon accordo non si assumono la responsabilità di spiegare ai lavoratori il perchè. Noi lo faremo nelle nostre assemblee». Intanto le tute blu della Cgil preparano una fitta campagna d’opposizione alla strategia del Lingotto. Oggi saranno in piazza a Torino per la manifestazione soprannominata «Epifania metalmeccanica», che partirà con un presidio in mattinata da piazza Castello per muoversi nei giorni successivi ai diversi mercati cittadini per informare l’opinione pubblica sulle ragioni della mancata firma. Poi, il 28 gennaio, sarà sciopero generale di tutta la categoria, articolato in cortei regionali.
Una mobilitazione ampia su tutto il territorio nazionale, di fronte alla quale risultano consueti quanto inefficaci gli appelli delle altre sigle. Da quelli bruschi del leader Cisl Raffaele Bonanni, secondo cui tocca al segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, «piegare i ribelli» della Fiom. A quelli più formali della Fim di Giuseppe Farina, che invita l’organizzazione di Landini a «tenere conto del risultato del referendum, in quanto strumento democratico decisionale» con cui «le scelte della maggioranza vincolano anche la minoranza». Fino alle provocazioni della Uilm, il cui segretario torinese Maurizio Peverati sollecita i metalmeccanici Cgil «a fare un referendum abrogativo se non è d’accordo con il testo che abbiamo firmato». Uno scontro che probabilmente si accentuerà dopo il voto della prossima settimana. E che certamente non troverà composizione in una riforma legislativa della rappresentanza sindacale: «Sarebbe una sconfitta per le parti sociali» ha confermato il ministro dello Sviluppo Paolo Romani.
E non si placano nemmeno le polemiche politiche nel centrosinistra. L’attacco dell’ex leader Cgil ed eurodeputato Pd Sergio Cofferati all’attuale segretaria di Corso Italia Susanna Camusso la cui proposta di firma tecnica rappresenterebbe «una lesione gravissima dello statuto» del sindacato non è piaciuta ai colleghi di partito Stefano Fassina e Cesare Damiano. «Rispetti l’autonomia delle parti sociali» gli ha risposto il primo. «La lettura che fa Cofferati della vicenda rischia di impedire di tenere in gioco la Fiom nella rappresentanza e nella contrattazione al fine di una più efficace tutela dei lavoratori» ha sottolineato il secondo.

l’Unità 6.1.11
Verso il referendum. Intervista a Giorgio Airaudo
«Si vuole che i lavoratori votino nella paura»
Marchionne lavora per Chrysler, per restituire i dollari che gli ha prestato Obama a durissime condizioni. Nessuna certezza sugli investimenti
di Oreste Pivetta


Mari tempestosi? «Ma siamo buoni marinai»”, garantisce Giorgio Airaudo, uno dei leader della Fiom, torinese. Attendiamo con ansia l’incontro con la Cgil. Firme tecniche? Fratture? «Intanto bisognerebbe dire che Cgil e Fiom sono molto più vicine oggi di qualche mese fa. C’è identità di vedute: si respinge la proposta di Marchionne, si vota no. Ai tempi di Pomigliano non eravamo così compatti, perché c’era chi sosteneva che un’eccezione non comprometteva nulla. Adesso mi sembra tutto più chiaro: siamo di fronte a una strategia, brutta e pericolosa».
D’accordo, ma se passa il sì, firmerete “tecnicamente”? «Il problema è come dare rappresentanza a quei lavoratori che diranno no. Anche oggi (ieri, ndr)ne abbiamo discusso in un’assemblea affollatissima. Ma la risposta non può essere la firma tecnica. E’ questione di democrazia, che non si può banalizzare».
Al referendum comunque andrete?
«Ai lavoratori diciamo di votare anche se quel referendum lo giudichiamo illegittimo, perché colpisce diritti inalienabili. Diciamo di votare intanto per difendersi da certi istinti vendicativi. Non dimentichiamo che la Fiat qualche decennio fa andò sotto processo per le schedature dei suoi operai, sindacalisti o attivisti di partito. Non dimentichiamo che Marchionne solo qualche mese fa ha dato corso ad alcuni licenziamenti, respinti dai tribunali... Ma diciamo di votare perché sappiamo che il voto è uno strumento importante anche se non esclusivo, pure quando lo impone l’impresa contro i lavoratori».
C’è da dire che la Fiat ha molta fretta. Il rientro dei primi mille è per il 10 gennaio, poi gli altri e si va subito al referendum. Non c’è molto tempo per discutere. «Mi chiedo come si faccia in poche ore a leggere, valutare, discutere 56 pagine di un accordo, in cui si dettano regole nuove, nuova organizzazione, si detta la metrica dei tempi, sapendo che approvando, si cancella qualsiasi possibilità di contestazione: se si contesta poi, si va incontro a provvedimenti disciplinari certi. Mi pare non si voglia che i lavoratori votino nel merito, ma nella paura di fronte all’alternativa di Marchionne: gli applausi o me ne vado. Bisognerebbe ricordare a Marchionne che le auto a Torino si fanno da più di un secolo. Se lui non le sa fare, lo riconosca».
Marchionne rivendica la possibilità di produrre macchine senza la Fiom. «Certo. Non ho dubbi. Però Marchionne dovrebbe sapere che le macchine non si fanno senza lavoratori e che molti lavoratori stanno con la Fiom». Marchionne lavora per la Fiat o per il governo? Colpisce vedere un ministro del Lavoro come Sacconi così gaio e rilassato di fronte a tanto trambusto...
«Marchionne lavora per la Chrysler, per restituire i dollari che gli ha prestato Obama a durissime condizioni, magari vendendo qualche fabbrica italiana, qualche pezzo della Fiat. Il nostro governo sta a guardare e lascia che Marchionne cerchi di imporre in Italia il modello sindacale americano, il modello di un sindacato fornitore di consenso».
E la Fiom per chi lavora?
«Per i lavoratori e per il sindacato confederale, quello che difende la contrattazione nazionale». Nel centrosinistra, molti hanno osservato che c’è del buono nelle proposte di Marchionne, a cominciare dagli investimenti.
«Di investimenti non abbiamo certezze. Per il resto, anche noi avremmo discusso volentieri di alcune parti di quell’accordo, di flessibilità, straordinari, efficienza. Peccato che Marchionne abbia sempre risposto: tutto o niente».

l’Unità 6.1.11
Intervista a Enrico Morando
«Un sì per Mirafiori e poi il confronto sugli investimenti»
«La logica del no non porta da nessuna parte», dice il senatore del Pd che auspica l’emergere di «una linea chiara anche all’interno del partito»
di Marco Ventimiglia


Sulla vicenda Mirafiori, e più in generale sul futuro della Fiat e delle relazioni industriali nel nostro Paese, Enrico Morando si trova in una posizione d’innegabile vantaggio rispetto a molti altri: ha le idee chiare. Il senatore del Pd ha da poco presentato, insieme a colleghi di partito quali Nicola Rossi, Pietro Ichino, Ignazio Marino, un documento esplicito: «Si parla del passato e soprattutto del futuro dell’azienda dice-, della necessità di accettare il cambiamento per stare al passo con l’evoluzione industriale. Tenendo ben presente che i veri riformisti non possono rifiutare la logica del cambiamento solo perché c’è il rischio che avvenga anche qualcosa di negativo». Iniziamo dalla cronaca, che cosa si aspetta dal confronto fra Cgil e Fiom? Che si trovi una soluzione positiva, che la Fiom si convinca a prendere una posizione favorevole all’investimento in Mirafiori e “Fabbrica Italia”, un’opportunità che non possiamo assolutamente permetterci di perdere. Contemporaneamente va risolto il problema della rappresentanza, perché l’esclusione della Fiom non è accettabile sotto alcun profilo. Però, e questo va detto, si tratta della paradossale conseguenza di una scelta sbagliata, anche da parte sindacale». Quale scelta?
«Per anni si è parlato di riforma della rappresentanza sindacale, il partito democratico ha presentato da tempo una proposta di legge in tal senso, ma fin qui ha prevalso la logica di non cambiare le regole, quelle stesse regole, appunto, che permettono di escludere chi non firma».
Che cosa si aspetta, invece, dal partito democratico? «Mi auguro vengano sposate le tesi del documento che abbiamo presentato, un testo che non è frutto di una corrente perché contiene le firme di esponenti del partito con diverse esperienze. Più in generale, è indispensabile che emerga una linea coerente, cosa che, per dirla tutta, fino adesso non è avvenuta». Il pluralismo è un valore, ma che su un tema così importante dall’interno del partito si senta tutto e il contrario di tutto può apparire singolare...
«Il problema non sta nella diversità di opinioni, ma nel fatto che non intervenga una sintesi capace di fare emergere una maggioranza ed una linea a cui attenersi. Il rischio è quello della paralisi».
Torniamo a Mirafiori e Fabbrica Italia, inseguendo altri modelli industriali, magari collocati in Asia o in Paesi in via di sviluppo, non si imbocca una strada ad alto rischio per i lavoratori e i loro diritti?
«Assolutamente no, per il semplice fatto che non è quello che sta avvenendo. I modelli a cui si guarda sono quelli delle altre nazioni occidentali con sistemi industriali evoluti e una lunga storia di relazioni sindacali. Nel caso della produzione automobilistica, lo stesso Marchionne ha citato a più riprese il modello tedesco. Semmai, dopo quello che io auspico essere un massiccio sì all’accordo per Mirafiori, è importante che si entri in una fase nuova del confronto».
A che cosa si riferisce?
«Se con la logica del no non si va da nessuna parte, la Fiat va invece incalzata sul terreno dell’innovazione, facendo emergere degli eventuali comportamenti di comodo. Penso a Marchionne quando, sull’esempio tedesco, chiede che venga adottata all’interno delle fabbriche “la tregua sindacale” dopo la firma dei contratti. È giusto, però della Germania e della sue relazioni industriali occorre importare anche il resto».
Vale a dire?
«Mi riferisco soprattutto alla partecipazione dei dipendenti nell’impresa, che può prendere varie forme: l’individuazione di una componente del salario legata ai profitti, l’azionariato diffuso, oppure l’adozione di un modello duale nella governance aziendale».

il Fatto 6.1.11
A destra e a sinistra del lavoro
di Furio Colombo


Il fatto. Sergio Marchionne, amministratore delegato e proprietario unico della Fiat, ha soldi, molti soldi. Li fa vedere (indica l'enorme cifra) e annuncia: “forse li investo qui, forse no. Dipende”. Dipende dal comportamento degli operai. Obbedienza assoluta, senza discussioni, e senza pretese di invocare i vecchi contratti (già stracciati) o di discussioni e   interpretazioni future. E' così e basta. La situazione è strana perché Marchionne sta annunciando senza finzioni che – se non gli danno subito e completamente ragione – porterà i capitali all'estero. Non capitali venuti dalle isole Cayman. Capitali   italiani fatti, insieme, da operai e manager italiani di una fabbrica italiana. La più grande. S'intende che Marchionne lo può fare per due ragioni. In Italia non c'è governo. In Italia non c'è politica. Se ci fosse un governo, lo a.d. Fiat dovrebbe presentarsi e spiegare. Prima d'ora (anche a causa di interi anni di cassa integrazione) nessuno sapeva che a Mirafiori non si può produrre causa rissosità e assenteismo. A Mirafiori? Manca qualsiasi evidenza, storia o testimonianza. Eppure Torino è una città attenta alle sue fabbriche. D'altra parte la politica è troppo debole per reggere il peso dell'improvvisa botta. Si sottomette quasi subito. In due modi. Uno, più realistico, suggerisce: dite “sì” perché non c'è scampo. L'altro, più euforico, diventa subito celebrazione del mondo nuovo che finalmente si fa avanti. La parola d'ordine, d'ora in poi, non può essere “difendere” ma “cambiare”. Stretta nell'angolo e malvista resta la parte sindacale e culturale che ancora “difende” e trova incostituzionale “cambiare”. Gli storici troveranno tracce di ideologia. Ricordate? Destra e sinistra. Esamineranno, fra vecchie carte, la testimonianza di Pietro Ichino, senatore Pd: “il modello della conflittualità permanente ha fatto il suo tempo. In questo nostro Paese drammaticamente chiuso ai capitali stranieri, vogliamo cacciare anche Marchionne?”   (La Repubblica, 5 gennaio). E potranno contrapporgli ciò che ha lasciato detto il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani. “ Domanda: c'è stata una sola multinazionale che le ha detto: non investo in Italia perché c'è la Fiom? Risposta: no, questo non me l'ha mai detto nessuno. Domanda: le piace Marchionne? Risposta: Mi auguro che le sue origini abruzzesi lo aiutino ad amare un po' di più il suo Paese” (La Repubblica, 5 gennaio). Il problema degli storici sarà l'interpretazione. Qual è la voce di destra?

il Fatto 6.1.11
FIAT Con le stock option l’Ad potrebbe comprarsi metà azienda
Marchionne guadagna 100 milioni. Quanto 6.400 operai in un anno
È quello che il numero uno del Lingotto potrebbe incassare se esercitasse i suoi diritti di acquisto. E nel 2014 la cifra può raddoppiare
di Vittorio Malagutti


Vende meno auto ma diventa sempre più ricco. Grazie alla Borsa già oggi potrebbe incassare 100 milioni

Volendo, potrebbe farlo anche oggi. Sergio Marchionne, nelle prossime ore potrebbe passare alla cassa, presentare i suoi 10 milioni e rotti di stock option, tramutarle in azioni per poi venderle in Borsa. Il suo guadagno immediato si aggirerebbe intorno ai 100 milioni di euro (la paga annuale di oltre 6.400 operai). Marchionne molto probabilmente deciderà di lasciar perdere. E le sue stock option per il momento resteranno in cassaforte. Nel pieno della battaglia di Mirafiori, a pochi giorni dal referendum sul nuovo contratto di lavoro nello stabilimento piemontese, non è proprio il caso di innescare una nuova girandola di polemiche, questa volta sui maxi compensi del numero uno Fiat. E, per di più, proprio quando le vendite di auto Fiat in Europa hanno appena toccato i minimi storici.
Niente da fare, quindi. Marchionne   , salvo sorprese clamorose, per ora non passerà alla cassa. Ma i suoi guadagni continuano comunque ad aumentare. Al momento, infatti, quel primo pacchetto di 10 milioni di opzioni vale un centinaio di milioni. Se le quotazioni di Fiat fossero rimaste quelle di sei mesi fa, Marchionne avrebbe portato a casa meno delle metà di questa somma. Il gran rialzo di questi mesi ha quindi avuto come effetto immediato quello di moltiplicare il valore delle stock option del gran capo del Lingotto.
QUESTO, comunque, è un ragionamento puramente teorico. Perchè il primo pacchetto di opzioni concesse all’amministratore delegato di Fiat può essere esercitato per un periodo di cinque anni a partire da 1 gennaio 2011. E, come detto, al momento non si ha notizia che il manager abbia intenzione di trasformare in denaro contante questo superbenefit.
Certo, fa una certa impressione   constatare che la fase di massimo rialzo dei titoli Fiat da tre anni a questa parte coincide proprio con la prima scadenza delle stock option del numero uno aziendale. Ed è ancora più sorprendente notare che la prima versione del contratto di Marchionne prevedeva che i 10 milioni di stock option scadessero il 1 gennaio 2011. A marzo del 2009 il consiglio di amministrazione di Fiat ha però deciso di cambiare i termini del regolamento, che è poi stato   approvato anche dall’assemblea dei soci. Le vecchie opzioni, quelle che scadevano cinque giorni fa, sono state sostituite da opzioni nuove di zecca esercitabili da gennaio 2011 a gennaio 2016.
Con il senno di poi si potrebbe dire che questo cambio in corsa deciso dagli amministratori di Fiat sembra studiato apposta per consentire al capoazienda di sfruttare al meglio il boom di Borsa delle ultime settimane. Ovviamente a marzo del 2009 nessuno poteva prevedere con certezza l’eccezionale rialzo di questi mesi. Di certo nella primavera di due anni fa, quando il titolo dell’azienda torinese languiva ai minimi, a Marchionne è stato concesso più tempo per esercitare le sue opzioni. E mai come in questo caso si può concludere che il tempo è denaro. A ben guardare, però, il capo di Fiat può anche permettersi di aspettare e magari guadagnare ancora di più. Da qui al 2014 gli spettano altre 8,75 milioni   di opzioni, di cui 1,25 milioni sarebbero già esercitabili. E, infine, bisogna considerare anche 4 milioni di stock grant, cioè il diritto di ricevere azioni gratis. A conti fatti, sulla base delle quotazioni di questi giorni, il guadagno complessivo di Marchionne sfiorerebbe i 200 milioni.
QUESTA SOMMA extra andrebbe aggiunta al normale stipendio del numero uno Fiat, pari, nel 2009 a 4,7 milioni, e nel 2008 a 3,4 milioni. Troppo? Non più tardi di due giorni fa è stato il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, a ricordare “gli stellari capital gain” garantiti al manager dalle stock option. Confrontandoli con gli stipendi, ben più bassi delle media europea, degli operai di Mirafiori (circa 1.200 euro al mese)..
Un altro termine di paragone potrebbero essere i compensi dei colleghi di Marchionne, cioè i capi delle più importanti   aziende concorrenti europee. Martin Winterkorn, amministratore delegato di Volkswagen nel 2009 ha guadagnato 6,6 milioni. Martin Reithofer, a capo di Bmw, non è andato oltre 2,5 milioni. Mentre Dieter Zetsche ha ricevuto circa 4,2 milioni. A prima vista, quindi, lo stipendio di Marchionne è nella media dei suoi colleghi delle grandi case automobilistiche tedesche che pubblicano nel dettaglio i compensi dei manager. Le francesi Renault e Peugeot, invece, non forniscono questi dati. Ci sono, però, almeno un paio di particolari che fanno la differenza. In Germania nessun top manager automobilistico   può vantare un piano di stock option ricco come quello garantito al numero uno di Fiat. Il quale ha un altro importante vantaggio. La sua parte fissa della retribuzione, quella che prescinde dai risultati aziendali è pari a 3 milioni di euro. Il doppio, a volte il triplo, rispetto a quanto percepiscono, come stipendio fisso, i capi di Bmw, Daimler e Volkswagen. La loro retribuzione dipende in gran parte dai dati di bilancio e dal miglioramento della qualità del prodotto. Marchionne invece, per male che vada l’azienda, ha 3 milioni di stipendio garantiti. Senza contare le stock option.

Corriere della Sera 6.1.11
Cofferati in piazza con la Fiom divide la Cgil e irrita il Pd
Fassina: nessuno interferisca con le parti sociali
di Enrico Marro


ROMA — L’attivismo pro-Fiom di Sergio Cofferati è ormai un caso. Nel Pd e nella Cgil. Anche ieri l’ex segretario della Cgil, ora europarlamentare del Pd, è tornato a far sentire la sua voce a sostegno della Fiom contro gli accordi tra la Fiat di Sergio Marchionne e gli altri sindacati sugli stabilimenti di Mirafiori e Pomigliano. «Il 28 gennaio — ha detto Cofferati in un’intervista a MicroMega— sarò in piazza con la Fiom» , che per quel giorno ha proclamato uno sciopero generale dei metalmeccanici E ha ribadito di trovare inaccettabile la richiesta del segretario della Cgil, Susanna Camusso, alla Fiom di aderire all’accordo se nel referendum del 13 e 14 gennaio tra i lavoratori di Mirafiori vincessero i sì: «È vietato da un articolo dello Statuto della Cgil firmare accordi lesivi dei diritti» . E in questo caso, secondo Cofferati, sono in gioco diritto di sciopero e tutela della malattia. In un Pd dove il ciclone Marchionne ha messo a nudo un ventaglio quanto mai ampio di posizioni, la forza con la quale Cofferati sta tornando sulla scena suscita interrogativi sulle reali intenzioni del «cinese» . Se dietro cioè ci sia un disegno politico. A nessuno infatti è sfuggita la creazione di un’associazione, «Lavoro e libertà» , su iniziativa dello stesso Cofferati insieme con l’ex avversario Fausto Bertinotti, vicino a Nichi Vendola, leader di Sel, partito al quale è iscritto il segretario della Fiom, Maurizio Landini. Per ora le reazioni ufficiali del Pd si limitano a chiedere a Cofferati di non interferire nel dibattito della Cgil. «Chi fa politica, soprattutto quando è stato leader sindacale— dice Stefano Fassina, responsabile economico del Pd— dovrebbe ricordarsi di rispettare l’autonomia delle parti sociali» . «La posizione di Cofferati non è assolutamente condivisibile» , dice Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro ed ex Fiom e Cgil. «Hanno ragione, invece— aggiunge— Camusso e il leader della minoranza Fiom, Fausto Durante, nella richiesta di un’adesione tecnica in caso di vittoria dei sì, perché solo così si tiene in gioco la stessa Fiom» . La pensa così anche Achille Passoni, oggi senatore del Pd, ma in passato nella segreteria Cgil guidata proprio dal «cinese» : «Le scelte di Cofferati sono incomprensibili. Ha ragione la Cgil: se il sì vince, la Fiom deve rientrare» . Quanto al rischio di un rassemblement di forze politiche a sinistra del Pd con base sociale nella Fiom, Passoni non ci crede: «Cofferati per cultura non è uno scissionista » . E smentisce un’ipotesi del genere anche Paolo Nerozzi, pure lui senatore ed ex della segreteria Cgil di Cofferati, ma, a differenza di Passoni, schierato con la Fiom, tanto da essere uno degli animatori di «Lavoro e libertà» : «Non c’è nessuna idea di partito del lavoro. Parliamo solo di contenuti inaccettabili dell’accordo. Chi ci accusa di disegni politici è perché non vuole rispondere nel merito» . Certo è che le posizioni nel partito non sono apparse mai così numerose. All’estrema sinistra ci sono appunto Cofferati, Nerozzi e Vincenzo Vita. All’estremo opposto il vicesegretario Enrico Letta («intesa giusta e necessaria» ), Alessia Mosca e i dirigenti di derivazione cislina, da Franco Marini a Sergio D’Antoni. Ci sono poi i torinesi come Piero Fassino e Sergio Chiamparino che non hanno dubbi sul sì per assicurare l’investimento Fiat. In mezzo una serie di posizioni più articolate anche se sostanzialmente danno il via libera all’accordo. Così Walter Veltroni, per il quale i lavoratori hanno «il diritto-dovere di rispondere un chiaro sì alle richieste di Marchionne» , anche se l’amministratore delegato dovrebbe favorire «forme più avanzate di democrazia economica» . E così il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che sostiene l’investimento ma boccia l’esclusione della Fiom dalle rappresentanze sindacali. Posizione analoga quella di Massimo D’Alema, che ci ha messo in più qualche stoccata contro Landini. Lo stesso Landini che lunedì incontrerà Bersani, dopo che ieri ha visto Di Pietro e in attesa di vedere Vendola. Bersani non potrà sbilanciarsi, anche perché la direzione del Pd è convocata per giovedì. E «fare sintesi» , come auspica D’Antoni, sarà complicato.

Corriere della Sera 6.1.11
Ferrari vende 300 vetture in Cina È il quinto Paese per Maranello


La Ferrari ha chiuso il 2010 con quasi 300 vetture vendute alla rete in Cina, il migliore risultato da quando la casa di Maranello è entrata nel mercato cinese, con un incremento di quasi il 50%rispetto al 2009. Se a questi dati vengono aggiunte le vendite di Hong Kong e Taiwan, la cosiddetta Greater China, la Cina diventa uno dei primi cinque mercati al mondo per la Ferrari. «Uno straordinario risultato— sottolinea una nota di Maranello— raggiunto in soli sei anni di presenza ufficiale nel grande Paese asiatico» .

Repubblica 6.1.11
Ecco la proposta della Camusso per superare l´impasse. Contatti con la Marcegaglia per avviare il confronto nelle prossime settimane
"Rappresentanza, serve almeno il 60%" Cgil chiede quorum più alto, no della Cisl
La presidente degli industriali: "Pronti a trattare, ma la proposta spetta a loro"
Il segretario: "Senza una vera maggioranza nessuna firma di accordi separati"
di Roberto Mania


ROMA - La Cgil prepara la sua proposta sulla rappresentanza sindacale e punta a stringere i tempi per avviare il confronto prima con le altre confederazioni, Cisl e Uil, poi con la Confindustria. Tutto entro la fine di gennaio.
È la campagna d´inverno di Susanna Camusso, segretario generale di Corso d´Italia da poco più di due mesi. In mezzo - il 13 e il 14 gennaio - c´è il referendum tra i lavoratori di Mirafiori sulle nuove regole del gioco e dell´organizzazione del lavoro dettate da Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat-Chrysler. Un voto dall´esito scontato e che si tradurrà nella "doppia sconfitta", secondo la lettura proprio della Camusso, della Fiom di Maurizio Landini: fuori dall´accordo e fuori dalle fabbriche. Ma questo è il punto. Perché l´uscita delle newco della Fiat di Pomigliano e Mirafiori dalla Confindustria consente non solo di non applicare più il contratto nazionale ma anche (in base allo Statuto dei lavoratori e non al successivo "protocollo Ciampi" del ‘93) di escludere chi non firma l´intesa (la Fiom, per l´appunto) dalle rappresentanze sindacali. Da qui la ricerca della Camusso di un´altra strada per arrestare quello che chiama «il gioco progressivo dell´esclusione». Una questione di democrazia forse non solo sindacale.
Il varo della proposta cigiellina ci sarà il 15 gennaio, giorno per il quale è stato convocato il direttivo. Prima, dall´11 al 12 gennaio, tutta la Cgil si riunirà a Chianciano all´assemblea delle Camere del lavoro per discutere di welfare e contrattazione locale. Ma soprattutto per definire una nuova via di convivenza con la Fiom.
La Camusso ha messo al lavoro i suoi tecnici. Ha chiesto di trovare una soluzione che tenga conto sì della bozza d´intesa definita con Cisl e Uil (con il dissenso della Fiom) nel maggio del 2008 senza ignorare però che ne frattempo si sono consumate diverse fratture in particolare quella sul sistema contrattuale di inizio 2009. Insomma, secondo la Cgil, non si può rispolverare senza modifiche - come propone proprio la Cisl di Raffaele Bonanni - l´impianto concordato due anni fa. Confermato il sistema per accertare la rappresentatività di ciascun sindacato (mix tra numero degli iscritti e voti ottenuti nelle elezioni dei rappresentanti), il nodo riguarda i meccanismi attraverso i quali i lavoratori approvano o bocciano le ipotesi di accordi.
Nel 2008 Cgil, Cisl e Uil erano orientate a considerare la maggioranza del 51% dei lavoratori (ma non attraverso il referendum che invece chiedeva la Fiom) quella necessaria per far approvare le intese. Una soglia che per la Camusso nel nuovo contesto di divisioni sindacali non va più bene. Da qui la proposta di «considerare - parole della Camusso al direttivo di inizio dicembre - una misura di rappresentanza superiore al 51%». Si ipotizza il 60% che porterebbe i sindacati a ricercare mediazioni e compromessi (per Camusso vere e proprio «coalizioni») prima di presentarsi al voto dei lavoratori. Voto che - nella proposta della Cgil - dovrebbe arrivare prima della conclusione del negoziato nel caso di divisioni tra i sindacati.
Lo "schema Camusso" però è destinato a non essere condiviso da Cisl e Uil che giocheranno questa partita da una posizione di forza, dopo aver condiviso lo strappo di Marchionne. La Cisl ha già accettato non senza qualche mal di pancia, l´equiparazione tra gli iscritti e gli altri lavoratori per misurare la rappresentatività, difficile che possa convenire su un quorum più alto. «Noi la mediazione l´abbiamo già fatta», dicevano ieri in Via Po.
Lo scenario più probabile è che Cgil, Cisl e Uil andranno ancora divise al tavolo con la Confindustria di Emma Marcegaglia. La quale si è detta pronta ad aprire il confronto perché anche gli industriali - dopo la tempesta provocata dal Lingotto - hanno bisogno di rinforzare il ruolo della propria lobby. Ma poi, quando si passerà all´esame delle proposte concrete, come quella chiesta dai sindacati di eleggere in tutte le aziende (anche quelle più piccole) i rappresentanti sindacali, gli interessi contrapposti riemergeranno. L´accordo è davvero difficile ed è pure impossibile che l´attuale maggioranza parlamentare approvi una legge vista la totale contrarietà del governo. Non ci saranno nuove regole. Allora è facile prevedere che prima che la Fiat ritorni in Confindustria passerà molto tempo. Molto.

il Riformista 6.1.11
la Cgil vuol rimettersi al tavolo
Camusso ha un’idea perpiegarelaFiom
di Tonia Mastrobuoni

qui
http://www.scribd.com/doc/46388969

Repubblica 6.1.11
L’economista Fitoussi: le regole democratiche non sono smarrite, ma basta adottare misure di regressione sociale
"La ristrutturazione del Lingotto non può gravare solo sui lavoratori"
di Eugenio Occorsio


A questo punto deve essere l´Europa a farsi carico delle crisi per guidarle verso soluzioni cooperative
Ora serve un´attenta gestione politica per evitare che le restrizioni delle garanzie diventino la regola

ROMA - «Il caso Fiat? Non siamo ancora al punto di aver smarrito del tutto le regole democratiche. Ma, certo, tutto dipende dalle risposte che la politica saprà dare. In Italia, come in Europa. Anzi, direi soprattutto nella seconda». Jean-Paul Fitoussi, classe 1942, economista dell´istituto di Studi Politici di Parigi e una solida esperienza nelle istituzioni comunitarie, è fra gli economisti internazionali quello più esperto di vicende italiane, se non altro perché insegna anche International Economic Policy alla Luiss di Roma. Riflette volentieri, all´ultimo giorno di vacanza sulle tiepide alture provenzali («mi scusi, devo partire per Parigi», conclude la conversazione), sulle implicazioni dell´affondo di Marchionne ai fini dei rapporti fra democrazia e capitalismo. Rapporti che erano peraltro già abbastanza tesi «per una serie di forzature e strumentalizzazioni del concetto stesso di globalizzazione», come chiarisce il professore, che alle relazioni fra "Democrazia e mercato" ha dedicato un libro nel 2004 (edito in Italia da Feltrinelli) e una vita di studi e lavoro.
Ci sembra di capire che anche lei ritiene che il colpo che Marchionne ha inferto alle relazioni industriali, se non fa precipitare la situazione ad un clima pre-rivoluzione industriale, non è comunque da poco e si farà sentire.
«Sì, però siamo ancora per fortuna, non so per quanto, in un regime di vera democrazia. Diciamo che è un banco di prova: se la democrazia di mercato, quale quella in cui i principali paesi industrializzati vivono, ha l´obiettivo del progresso sociale, e se da questo obiettivo ci si allontana inesorabilmente, allora vuol dire che c´è stato un cambio di regime. E il nuovo non potrà essere che molto peggiore e soprattutto molto pericoloso socialmente».
Quanto ci si sta avvicinando a questo punto di rottura?
«Occorre fermarsi con le misure di regressione sociale. Siamo ancora in tempo ma serve adesso un´attentissima gestione politica. Se il Parlamento e la classe dirigente cederanno definitivamente alle pressione delle lobby della grande industria, avallando o addirittura accentuando la spinta alla diminuzione delle garanzie, a un taglio della spesa sociale, alla creazione di una specie di limbo fatto di precariato e di incertezza sul lavoro, e non faranno invece argine contro tutti questi passi indietro, allora veramente si sarà imboccata una via senza ritorno».
Ma è una situazione solo italiana?
«Certo che no. Tutto è cominciato all´inizio del decennio in Germania, con quella che il cancelliere Schroeder, che l´aveva varata, chiamò "Agenda 2010". Al centro c´era proprio l´industria automobilistica: tagli occupazionali, diminuzioni degli stipendi, miglioramenti forzati della produttività, allungamenti dell´età pensionabile, tutto sulla pelle dei lavoratori. E Marchionne sta percorrendo una strada analoga».
Il risultato però è stato un poderoso recupero di efficienza, di cui la Germania trae beneficio ora. Sarà così anche in Italia?
«E´ in discussione il mantenimento in Italia dell´industria dell´auto, un tema cruciale. Il problema è che si parte in pesante ritardo: non c´è stata a differenza delle case tedesche la rincorsa ai nuovi modelli e il gap concorrenziale si è accentuato, anche perché la Fiat era quasi fallita a metà del decennio e aveva smarrito la capacità progettuale. Ma la via è obbligata. E non è finita: ora toccherà alla Francia, dove gli incentivi sono scaduti il 31 dicembre e si stanno preparando piani aziendali molto pesanti. Questo mi preoccupa: è un modo di aggiustamento non cooperativo, al quale si affianca una guerra commerciale che potrà avere conseguenze ulteriormente penalizzanti per i lavoratori».
Ma qual è l´alternativa?
«Una gestione cooperativa delle crisi, pensata e portata avanti passo dopo passo a livello europeo. Non è utopistico: le istituzioni comunitarie, insieme con le dirigenze politiche dei singoli paesi, devono farsi carico della situazione e disporre norme e regole per uno sviluppo più ordinato e rispettoso dei diritti. Il tutto nel presupposto che la mondializzazione liberale è opposta al protezionismo e alla globalizzazione sociale, intesa come prendere il peggio dei paesi che basano la loro alta crescita sullo strapazzo delle relazioni sindacali. Invece, a volte ho paura che proprio in quella direzione si vada, e che si voglia partire per la guerra commerciale. Avremmo tutti da perderne».

Corriere della Sera 6.1.11
Germania
Il sindacalista Volkswagen diventa manager
di Giuseppe Sarcina


Alle 13 precise di lunedì prossimo, alla ripresa del lavoro dopo la pausa natalizia, i sindacalisti della Commissione interna, presieduta da Bernd Osterloch, attenderanno con una certa impazienza i manager aziendali guidati dall’amministratore delegato Martin Winterkorn. Tutte le domeniche Winterkorn e Osterloch siedono fianco a fianco allo stadio, quando la squadra di calcio del Wolfsburg gioca in casa. Poi il giorno dopo si ritrovano faccia a faccia al tavolo della «Mitbestimmung» , la cogestione tedesca regolata per legge nel lontano 1976 (governo di Helmut Schmidt), ma che forse sta vivendo la sua stagione migliore proprio in questi mesi, nella fabbrica di automobili più grande del mondo (3-3.500 vetture prodotte al giorno). Lunedì la rappresentanza sindacale, che di fatto coincide con la Ig Metall (91%di adesioni), chiederà un aumento di stipendio medio del 6%, da aggiungere al bonus che scatta automaticamente a fine anno (10%degli utili realizzati). Nelle ultime settimane il gruppo (68 impianti, dieci marche, da Skoda a Lamborghini, 370 mila dipendenti in tutto il mondo) ha annunciato un ambizioso piano di investimenti: 51,6 miliardi entro il 2015. E ai leader dei metalmeccanici sembra quindi arrivato il momento di chiudere il lungo ciclo di moderazione salariale cominciato nel 2006, quando la Commissione interna accettò di aumentare, a parità di retribuzione, il tempo di lavoro per i 16 mila operai alle linee di produzione, (da 30 a 33 ore) e per i 34 mila tra impiegati, quadri dirigenti e manager (da 30 a 34 ore). La regola semplice della «Auto-città» dovrebbe funzionare anche questa volta: se c’è crisi si dà; se ci sono utili si prende. Tutti: azionisti, manager e operai, secondo le giuste proporzioni. Wolfsburg è una cittadina che si identifica con la Volkswagen dal 1938. Il regime nazista ha costruito il primo nucleo della fabbrica in mattoni rossi e con quattro ciminiere che ancora svettano sulla riva destra del canale, proprio di fronte ai binari. Oggi, se possibile, la sovrapposizione è ancora più totale. Gli abitanti sono 125 mila, i dipendenti della fabbrica 50 mila (molti vengono da fuori), gli iscritti alla Ig Metall 73 mila (pensionati e lavoratori dell’indotto compresi), gli studenti di ingegneria meccanica dell’Università Ostfalia 3.500. Tuttavia sarebbe sbagliato procedere per equazioni scontate. Un tempo l’egemonia del sindacato metalmeccanico si traduceva automaticamente nel dominio politico della Spd. Hugo Bork, figura storica della socialdemocrazia tedesca degli anni 50 e 60, era nello stesso tempo presidente della Commissione interna nella «fabbrica » e sindaco della città. Oggi il municipio è nelle mani della Cdu (il partito democristiano di Angela Merkel). «È la dimostrazione di quanto sia cambiato il sindacato— spiega Frank Patta, 46 anni, segretario della circoscrizione provinciale di Ig Metall (la più forte dell’intera Germania) —. Noi rispondiamo solo ai nostri iscritti, che per altro votano partiti diversi» . Il sindacato più importante si autorappresenta come «pragmatico» , «affidabile» , «competente» . Quando l’amministratore delegato Winterkorn si trova faccia a faccia con i sindacalisti Osterloch o Patta «è difficile capire chi sia il manager e chi la controparte» , osserva Karl Heinz Rowitz, commentatore per 25 anni delle vicende della Volkswagen. Pragmatismo, competenza e perfino doti manageriali. Naturalmente potrà piacere o no, ma questa è l’ultima fase evolutiva dei metalmeccanici tedeschi. Senza questa chiave di lettura è difficile comprendere la dinamica concreta delle relazioni sindacali che si rinnova, ogni lunedì, alla Volkswagen. La mattina presto si ritrovano tutti i 65 componenti della Commissione interna (più o meno l’equivalente del Consiglio di fabbrica). Ognuno di loro è stato eletto direttamente dalla base (62 nelle liste Ig Metall, uno dal Cgm, sigla vicina alla Cdu, due indipendenti), mentre 1860 fiduciari mantengono il collegamento tra il vertice e la platea dei lavoratori. Ma il lavoro di filtro e di sintesi sull’asse verticale (base degli iscritti-Commissione interna) è solo un aspetto della rappresentanza. Perché la linea del sindacato, fissata il lunedì mattina, viene subito messa a confronto con la dirigenza aziendale nel pomeriggio (riunione fissa dalle 13 alle 15). L’opera di costruzione comune continua nel corso della settimana. I singoli problemi vengono assegnati a comitati misti (sindacalisti e manager) con specializzazione specifica. Orari, sicurezza, rapporti con i fornitori, formazione professionale, marketing, salario e così via. Praticamente a ogni funzione aziendale corrisponde una mini-commissione. Con questo sistema sono state messe a punto tutte le soluzioni adottate negli ultimi anni, prima a Wolfsburg e poi, proposte ai colleghi degli altri 68 impianti del gruppo, dalla Spagna al Brasile. Nei momenti di crisi o di vendite record. Prima il taglio dei costi, l’aumento delle ore lavorate a parità di salario. Poi, negli ultimi tre anni, il passaggio ai tre turni per coprire le 24 ore giornaliere. Infine la decisione di lavorare il sabato mattina, come è accaduto per gran parte del 2009 e per tutto il 2010. Nei comitati misti si studia, si esaminano più ipotesi alternative. Nella «plenaria» del lunedì pomeriggio i leader aziendali e sindacali discutono, litigano, possono mandarsi anche a quel paese. «Senza però lasciare il tavolo, perché per noi l’opzione sciopero è proprio l’ultima spiaggia» , dice ancora Patta. La fabbrica di Wolfsburg non è più «l’ultimo castello del socialismo in una terra di capitalisti» , come si diceva anni fa, quando a pochi chilometri da qui passava il confine con la Germania Est comunista. I ritmi di lavoro sono serrati, tutto viene cronometrato e poi analizzato nella cogestione. E il divario tra gli stipendi è molto ampio, come in qualsiasi altro settore industriale. Secondo le cifre fornite da Ig Metall, — i manager guadagnano 1-2 milioni all’anno (con punte di cinque). A fronte di un salario lordo di circa 30 mila euro per un operaio (in media più o meno 1.800-2.000 euro netti al mese, compresi gli assegni familiari). «Ma le cose funzionano perché il dialogo è serio — dice ancora Patta— i manager si presentano da noi con i "libri aperti". Nella cogestione non sono ammessi segreti o intenzioni nascoste» .

Repubblica 6.1.11
Generazioni tradite
di Massimo L. Salvadori


In un articolo del 2 gennaio pubblicato su questo giornale a commento del discorso di fine anno pronunciato dal Presidente Napolitano e tanto opportunamente centrato sulla deprimente condizione dei giovani nel nostro paese, Massimo Giannini ha attirato l´attenzione su due aspetti. L´uno attiene ad alcuni dati di fatto allarmanti che documentano questa condizione; l´altro al fatto che l´invito del Presidente ad affrontare finalmente con vigorosa determinazione la questione, non sembra trovare candidati in nessuna parte dello schieramento politico, poiché finora «la politica non ha mosso un dito». Da ciò Giannini è stato indotto a parlare dei giovani italiani come di una «generazione tradita». Per parte mia, vorrei svolgere alcune considerazioni su chi propriamente tradisca i giovani e sulle forme del tradimento: un tradimento che dà luogo a un vero e proprio «genocidio» umano, culturale e sociale.
Il primo tradimento lo commette chi - avendo la responsabilità politica e sociale di sostenere i giovani allo scopo di immetterli proficuamente nella vita civile del Paese - li rende in tanta parte orfani quando li abbandona a se stessi lasciandoli vagare in una società indifferente o addirittura ostile. Esiste, infatti, una paternità naturale, che è quella dei genitori; ma poi, altrettanto importante e decisiva e per molti versi ancor più determinante, vi è la paternità costituita dalle istituzioni e dalle persone preposte a sostenere i giovani dall´infanzia fino a quello che dovrebbe essere il momento giusto del loro inserimento nel mondo del lavoro. Orbene, in Italia si assiste a una vera e propria rinuncia all´esercizio di questa paternità ovvero a un dilagante atto di abbandono.
Il secondo tradimento (l´elencazione non implica una gerarchia di importanza) lo commette chi, a partire dal governo e dai partiti su cui esso poggia, afferma con animo addolorato che si vorrebbe certo trovare risorse adeguate per affrontare i problemi dei giovani, ma che purtroppo, in un momento di pesante crisi dell´economia e con un debito tanto elevato dello Stato, queste sono necessariamente assai limitate. Qui la colpa si accompagna all´ipocrisia. Sicuramente l´Italia non naviga oggi nelle sue acque migliori. Ma è troppo ricordare che la Gran Bretagna costruì il suo sistema del Welfare proprio nei primi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il paese era letteralmente stremato, e che l´Italia, anch´essa in condizioni difficilissime, pose nello stesso periodo le basi della sua ricostruzione non solo civile ma anche materiale?
Mancano dunque da noi - si dice - le risorse per sostenere adeguatamente i giovani, poiché anzitutto il debito dello Stato proibisce che lo si faccia. Ma non si potrebbero aumentare le tasse a quel 10 per cento che ha continuato ad arricchirsi in un contesto di enorme evasione fiscale e da solo possiede il 45 per cento del reddito nazionale? Può sembrare che con ciò si voglia colpire coloro alle cui doti di api operose si deve se i vizi dello Stato sempre più indebitato sono fortunatamente compensati dalla virtuosa capacità di risparmio degli italiani. Sennonché viene da domandarsi: non è che lo Stato si indebita tanto perché troppa gente si mette in tasca i soldi che dovrebbe in tasse evase alle finanze pubbliche? Che dunque le apparenti virtù di molti risparmiatori in realtà altro non sono se non il rovescio della medaglia di una viziosa evasione, che ha avuto da parte di troppi governi persino un acclamato incoraggiamento (Berlusconi docet) e dalla quale si potrebbero trarre sostanziose risorse?
Sarà radicalismo estremista, ma credo che troppi dei sempre più numerosi suv che vediamo sfrecciare nelle nostre strade costituiscano altrettanti documenti dell´evasione fiscale che mina l´avvenire dei giovani.
Il terzo tradimento lo commettono tutti coloro che contribuiscono a vanificare quel principio di solidarietà sociale e di civiltà - cui si è richiamato il Presidente sottolineandone la natura di «principio costituzionale» - il quale consiste nel superare gli ostacoli che si frappongono a che a tutti i giovani sia assicurata una base di partenza eguale nella ricerca e utilizzazione delle «opportunità» nel momento in cui si aprono al mondo del lavoro. L´attuazione di questo principio è lo strumento essenziale per compensare le diverse condizioni di privilegio o all´opposto di disagio create dal dato originario, senza merito di alcuno eppure così determinante, di nascere in famiglie ricche e colte o all´opposto in famiglie povere e sfavorite. Si tratta dell´«ingiustizia della culla». Ingiustizia, che le società civili sono chiamate a correggere con leggi e riforme adeguate, valorizzando - per motivi sia di giustizia sia di interesse economico e sociale generale - le grandi energie di cui sono naturalmente portatori i giovani grazie a una buona istruzione, a borse di studio ai meritevoli, ai finanziamenti alla ricerca, ecc. Quando, come da noi, si fa ciò in maniera gravemente insufficiente, allora quelle energie si bloccano, si disperdono, e persino si inquinano. I giovani non crescono umanamente. Quelli che possono cercano le vie del nepotismo e della protezione materiale della famiglia che non li fa diventare adulti; quelli che non possono, si sentono lasciati alla deriva e vittime, e nei casi estremi si mettono sulla strada della «solidarietà criminale». La personalità degli uni e degli altri non si sviluppa o ne viene deturpata.
Una società che ciò consente è complessivamente malata. Ben a proposito Giannini cita Bauman, che di fronte al profondo malessere che colpisce, e non solo in Italia, i giovani, ha detto: «Gli abbiamo intossicato il futuro». Giusto, ma bisogna aggiungere che una società che intossica il futuro dei giovani intossica tutta se stessa, che una società come la nostra, pur sempre ricca di tante risorse materiali, la quale riduce i propri giovani alla condizione di frustrati ed emarginati a vario titolo, è insieme ingiusta, stupida e cieca. E perciò il risentimento che i giovani gridano nello spazio pubblico ai sordi è sacrosanto.

Repubblica 6.1.11
Perché le nuove generazioni sono rimaste senza futuro
di Benedetta Tobagi


Il presidente Napolitano li ha messi al centro del suo discorso di fine anno. Evidenziando le contraddizioni di un´epoca che sembra togliere speranze e possibilità
Gli anni Cinquanta partorirono la generazione dei ribelli alla James Dean poi venne l´ondata del Sessantotto
Oggi scendono in piazza per gridare che non vogliono pagare la crisi E sono il simbolo non di una rivoluzione ma della nostra angoscia

Il presidente della Repubblica, 85 anni, ha pronunciato ben 19 volte la parola "giovane" e derivati nel suo messaggio alla nazione di fine anno: i dati sul malessere giovanile devono diventare un "assillo comune", altrimenti "la partita del futuro è persa, non solo per loro, ma per tutti". I disordini dicembrini, certo, la dimensione internazionale della protesta universitaria e del dramma del precariato, ma le parole di Napolitano attingono a una radice più profonda.
L´immagine dei giovani è sovraccarica di significati simbolici, catalizza le angosce di una società e le sue aspettative per il futuro. Incarna le possibilità di grandezza e di riscatto di un paese: per questo i regimi totalitari erano ossessionati dalla fabbricazione e dall´educazione della nuova gioventù. I giovani sono un ricettacolo di proiezioni ambivalenti, utopie incarnate e specchio del male sociale: a volte si ribellano, più spesso le interiorizzano. Come se non fosse già abbastanza difficile esserlo, giovani, tra pulsioni violente e contraddittorie, slanci di sogno e angosce distruttive. Oggi come ieri: già nel primo Ottocento l´idealismo dei patrioti coesisteva con la moda romantica dei suicidi alla Werther. Una tempesta continua di paura e fiducia, nell´animo di chi è giovane e negli occhi di chi guarda. Dal secondo dopoguerra, quando i giovani si affermano definitivamente come categoria sociologica e soprattutto merceologica, l´ambivalenza si accentua: angeli di cambiamento o demoni che minacciano la morale, la stabilità sociale e l´ordine pubblico? Gli anni Cinquanta partorirono il "ribelle senza causa" Dean, il "selvaggio" Brando, l´allarme per la delinquenza giovanile. Ma the times they are a-changin´, e dopo il primo spavento l´ondata internazionale del ´68 fu presto circonfusa da un alone di ottimismo e positività. Un´eccezione, favorita dalle circostanze materiali: la società dei baby boomer era prospera, fiduciosa e anelava a profondi mutamenti dei costumi. I giovani diedero la spallata decisiva. Nel 1977, dopo gli shock petroliferi, l´afflato dylaniano è già rimpiazzato dalla rabbia punk: "siamo fiori nei cestini della spazzatura, nessun futuro per la gioventù", decreta il secondo singolo dei Sex Pistols, mentre in Italia molti manifestanti impugnano la P38. Dopo la sbornia consumista dei decenni successivi, da allarme lanciato dai marginali, lo slogan "no future" e la variante ansiogena "quale futuro?" esprimono l´angoscia profonda dei giovani dell´Occidente industrializzato. Ecco la nuova questione giovanile del Primo Mondo, divenuto consapevole che l´eterno progresso era solo un´illusione: il crollo delle aspettative, i giovani che hanno – a ragione! – angosce da adulti, lavoro, mutuo, o da vecchi, come la pensione. Spesso, nemmeno lo urlano in piazza: il che rende tutto più drammatico. I più inconsapevoli si dibattono cercando di riempire un vuoto di senso, prima ancora che di prospettive. La questione giovanile sono anche le dipendenze, i salti dal balcone e i sassi dal cavalcavia, le violenze inspiegabili, i fantasmi nottambuli che muoiono ai rave. La mortifera assenza di desiderio del rapporto Censis di De Rita e il nichilismo analizzato da Galimberti. A confronto di questi spettri, le intemperanze di piazza dovrebbero far tirare un sospiro di sollievo: c´è ancora vita che freme in tanti isolotti emersi nel mare tumultuoso sotto il parallelo dei trent´anni.
Ansia, rabbia, indifferenza: questo rimandano alla società le metafore viventi del futuro. La fuga di giovani all´estero evoca l´immagine dei topi che abbandonano la nave. Pensieri spaventosi: non sorprende che li evitino le nuove generazioni di adulti, che aspirano a sentirsi giovani (liberi, leggeri, deresponsabilizzati, onnipotenti) in eterno. Il nuovo paradosso è la disperazione giovanile che convive col trionfo del mito della giovinezza come bene supremo. La popolazione matura ha il terrore di invecchiare e vampirizza l´allure della gioventù, abbandonando i ragazzi alle loro ombre. Già, è fantastico avere l´energia, le aspettative, il corpo tonico, la leggerezza dei vent´anni con i soldi e le sicurezze materiali di un quasi cinquantenne. "I quaranta sono i nuovi venti!", recitava la pubblicità di una nuova serie tv. Mai come oggi "sentirsi giovane" dipende poco dal dato anagrafico. È un lusso per chi può permetterselo. Chiaramente, quasi mai i giovani veri, che non a caso scappano sulla Rete e inventano strumenti per condividere gratis musica, film, conoscenze, spazi sociali. Dall´Italia all´Inghilterra, sono scesi in piazza a gridare che non vogliono pagare la crisi di padri preoccupati soprattutto di mantenere il proprio benessere. Da più parti li si accusa di remare contro le riforme, di essere "conservatori", rispetto ai coetanei che nel ´68 volevano cambiare il mondo. Ma è cambiato il mondo, più che i giovani. Basti pensare alla famiglia: per la maggioranza oggi non è la trappola soffocante dei Pugni in tasca, ma il supporto materiale essenziale e un miraggio irraggiungibile. Ottima la risposta di un 21enne inglese all´editoriale del Guardian che paventava la "politica dei dinosauri": la battaglia per difendere i principi del welfare e dell´educazione pubblica oggi è "trasformativa". Anzi, potenzialmente innovativa: perché un giovane che protesta oggi ha già i piedi fuori dalla coperta dello stato sociale, che non ha ancora saputo ripensarsi per accogliere gli ultimi arrivati e aiutarli a giocare la loro partita.

Repubblica 6.1.11
L’antichità
L´invenzione sociale. Ogni cultura ha interpretato diversamente quell´età
Nell’antica Sparta i bambini, già a sette anni, venivano addestrati a reincarnare il modello adulto Così erano sottratti alla famiglia e crescevano con i coetanei fino a diventare soldati, cioè uomini
di Marino Niola


La giovinezza è solo un´invenzione sociale. È il modo in cui ogni cultura riempie lo spazio tra l´infanzia e la maturità e ne definisce gli step essenziali, i confini che separano un´età dall´altra. Come dire che la parola giovane non significa niente di fisso e immutabile. Ci sono società dove la verde età dura lo spazio di un mattino e società, come la nostra, dove l´evergreen non è un´età ma una condizione permanente, uno stile di vita, addirittura una mentalità. Che, invece di separare le generazioni, le tiene insieme allo stato fusionale, o meglio confusionale. Mentre fino alla metà del Novecento l´adolescenza era una fase transitoria della vita, il tempo dell´attesa e dell´apprendistato. Come dice la parola stessa che deriva da adolescere – la medesima radice di adulto – e quindi indica una crescita in atto, un processo di "adultescenza". Ai giovani dunque si chiedeva di diventare grandi, posati, con la testa sulle spalle. Futura classe dirigente insomma. Ecco perché se una volta i ventenni sembravano quarantenni oggi, è il contrario, sono i padri ad avere l´aspetto e il look dei figli.
In realtà la categoria dei teenagers è figlia della civiltà dei consumi. Che, dal dopoguerra, inventa questo nome per una nuova fascia di mercato, costruendo così una tipologia sociale inedita che si è progressivamente affrancata dall´anagrafe e dalla fisiologia per diventare l´emblema inquieto della tarda modernità. Non a caso le grandi icone dello star system, dal maledetto Jim Morrison al sempreverde Mick Jagger, fino alle trasgressive Mary Quant a Jane Fonda sono tutti forever young. Emblemi di quella gioventù bruciata, tutta sesso droga e rock and roll, che per la prima volta nella storia contrapponeva apertamente la sua cultura a quella dei padri. Non più imitativa ma alternativa. Non più riproduzione ma contestazione, spesso rivoluzione.
È il Sessantotto, a braccetto con il mercato, a fare da punto di non ritorno, a cambiare per sempre l´agenda delle generazioni, a desincronizzare il timer anagrafico che fino ad allora scandiva inesorabilmente la vita delle persone. Ogni età uno scatto in avanti verso la sospirata indipendenza.
Né più né meno di quel che accadeva nella maggior parte delle società antiche e tradizionali. Che addestravano gli individui sin dalla più tenera età a reincarnare il modello genitoriale. Alcune lo facevano prolungando l´infanzia e l´adolescenza fino ai trent´anni. Come nell´antica Sparta, dove i bambini a sette anni venivano sottratti alla famiglia e crescevano con i loro brothers in arms fino ai trenta, quando diventavano soldati, come dire uomini a tutti gli effetti. Solo allora avevano il permesso di sposarsi e mettere su casa. E così pure le donne, addestrate alla guerra prima che al telaio. Viceversa a Roma si passava quasi senza soluzione di continuità dall´infanzia alla maggiore età. A sedici anni si indossava la toga virile e il tempo delle mele era bell´e finito. I maschi entravano nel mondo del lavoro e le bambine si ritrovavano matrone in quattro e quattr´otto. E senza rughe. Se a Sparta la società rallentava le trasformazioni fisiologiche, a Roma la cultura era più veloce della natura. Proprio come in quei paesi extraeuropei dove le ragazzine, varcata la soglia della pubertà, diventano donne. E non solo metaforicamente, tant´è che si sposano bambine.
Insomma più breve è la giovinezza, più profonde sono le differenze tra le generazioni e tra i generi. Più è lunga, più è leggera e unisex. A Sparta come a Manhattan.

Corriere della Sera 6.1.11
«Attacchi al Pd Vendola ora deve smetterla»


ROMA— È impossibile «qualsiasi ragionamento» sull’Italia che prescinda dall’Europa. Con questa convinzione, nell’editoriale che appare nell’ultimo numero delle Nuove ragioni del socialismo, si lancia un avvertimento alla sinistra di casa nostra: «La bufera economica e sociale che attraversa l’Europa trova l’Italia senza un governo che governi, ma anche senza un’opposizione in grado di governare» . E il monito non riguarda solo il Pd, ma anche il partito di Nichi Vendola: «Non si capisce perché i compagni di Sel non dedichino le loro energie alla creazione di un partito di sinistra alleato con il Partito Democratico e a lavorare per costruire in Italia una grande forza legata alla sinistra europea» . In particolare viene criticata l’offensiva sulle primarie, portata avanti dal leader di Sinistra ecologia e libertà, come sfida al Pd: «Il tentativo di Vendola di candidarsi come leader del centrosinistra è velleitario e provoca solo conflitti a sinistra. Se le elezioni, come pare, saranno a primavera, occorre mettere insieme le forze in grado di presentare un governo possibile e autorevole. Altrimenti vincerà ancora la destra» . Nelle pagine interne della rivista viene ripreso il tema dell’incapacità a proporsi come forza di governo sia da parte della maggioranza che dell’opposizione insieme alla crisi del bipolarismo e alle difficoltà a concepire grandi coalizioni: per realizzarle «servono partiti veri che, come è noto, non ci sono» .

Repubblica 6.1.11
Veltroni e l’offensiva del Lingotto "Se non si vota congresso anticipato"
Pd, i rottamatori lanciano la direzione "parallela"
Fassino difende le primarie: autolesionistico metterle in discussione
di Giovanna Casadio


ROMA - Il Pd va alle grandi manovre. La partita politica si riapre nel partito con la direzione di giovedì 13. Che sarà preceduta da una provocatoria "direzione parallela" convocata dai "rottamatori" Matteo Renzi e Pippo Civati, il 12, sempre a Roma. E poi c´è la data-clou, a cui Veltroni sta lavorando da mesi, ovvero il "Lingotto 2", a Torino, il 22 gennaio. È lì che i veltroniani giocheranno le loro carte. Giurano che non vogliono una conta, né battaglie per la leadership. Però avvisano: se non si va alle elezioni, se insomma non c´è l´emergenza che richiede il serrate le file e di «mettersi l´elmetto per andare in combattimento», allora «ci vuole un congresso anticipato».
È un´analisi dettagliata quella di Veltroni e della corrente di minoranza, che muove da cinque idee-chiave per modernizzare il paese: un esempio è la posizione dell´ex segretario su Mirafiori, ovvero le condizioni per il sì a Marchionne, illustrata ieri sulla Stampa, e che si smarca dal "compromesso" di Bersani. Dalle questioni concrete all´offensiva politica nel Pd il passo è breve: la strategia dei Democratici va ripensata. «I nodi riemergono tutti, perché siamo finiti spostati a sinistra per fare un accordo con Casini che non lo vuole, e pensa piuttosto al dialogo nel centrodestra», osserva Stefano Ceccanti. La direzione della prossima settimana non sarà forse il luogo dei chiarimenti. «È stretta tra date cruciali, la decisione della Consulta sul legittimo impedimento e il referendum a Mirafiori. Finiranno giocoforza per tenere banco. Però - sottolinea sempre Ceccanti - Bersani non potrà a maggior ragione parlare di alleanze in astratto». Ma è Giorgio Tonini, senatore, cattolico, veltroniano doc, a incalzare: «Il 14 dicembre, il giorno della fiducia per tre voti a Berlusconi, ha segnato il fallimento della linea tutti-contro Berlusconi, l´idea cioè di un cartello di tutte le opposizioni è una non-strategia. Va ripresa la strada maestra. Vendola appare sempre più in continuità con il bertinottismo. O si rilancia o non c´è soluzione. E un congresso sta in questo quadro».
Per ora Walter Verini, braccio destro e amico personale di lunga data di Veltroni, dice che «il "tagliando" non va fatto alle primarie ma al partito» e che il tempo del «partito di sinistra che si allea al centro ha tutta l´aria di essere una stagione finita». Il tam-tam del congresso è sempre più forte. Veltroni ha riconquistato un formidabile attivismo, deciso a lasciarsi alle spalle anche rancori consolidati, come quello con D´Alema, che ha incontrato e vedrà lunedì a Brescia in un´iniziativa per la strage di piazza della Loggia. Ancora più netto è Beppe Fioroni, che con un gruppo di Popolari sarebbe pronto alla scissione. Lui nega decisamente però ammette: «La linea politica del Pd va riplasmata, elezioni o non elezioni. Se si va al voto rapidamente e i Democratici fanno un´alleanza con Vendola e Di Pietro è chiaro che noi siamo in sofferenza. Un partito che incontra Landini, come fa Bersani, non ci sta bene». La carta del congresso insomma è quella che la minoranza di Modem vuole giocarsi. A tempo debito. Veltroni intende così contrastare Vendola. Fioroni spera che, se la frattura non si potrà evitare, a quel punto sarà l´ala sinistra a mettersi fuori. Da quel lato, il movimento da registrare è l´associazione "Lavoro e libertà" che vede insieme Cofferati e Bertinotti, Nerozzi e Rossanda, Rodotà, contro la deriva di Marchionne e a sostegno della Fiom. Bersani dovrà fronteggiare l´offensiva provocatoria dei "rottamatori" (che difendono le primarie e lanciano una petizione) e la carta a sorpresa dei veltroniani. Aperto è il fronte-primarie: sono da congelare? Fassino, candidato sindaco di Torino e in corsa alle primarie, avverte: «È autolesionistico metterle in discussione adesso». Gozi ritiene che abbandonarle sia «snaturare il partito».

il Riformista 6.1.11
Nuova sfida a Bersani
Walter rilancia la corrente del golf
di Alessandro Da Rold

qui

il Riformista 6.1.11
«La linea non può essere quella di Walter»
Per Roberto Della Seta, senatore democrat e membro del primo esecutivo veltroniano, «su un tema così serio dovremmo avere un orientamento chiaro: sui diritti la Fiom ha ragione».
di Sonia Oranges

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l’Unità 6.1.11
Intervista a Fabio Mini
«Vogliono negare che siamo in guerra»
L’ex comandante Nato in Kosovo: «La nuova versione in conflitto con quella retorica della pace e della missione umanitaria che è stata abusata anche in questo caso».
di Umberto De Giovannangeli


La nuova versione data dal ministro La Russa della morte del caporalmaggiore Miotto non aggiunge o sottrae nulla al valore del soldato, semmai entra in conflitto con quella retorica della pace e della missione umanitaria che è stata abusata anche in questo caso». A sostenerlo è il generale Fabio Mini, ex Capo di stato maggiore delle forze nato del Sud Europa, già comandante della missione Nato-Kfor nel periodo 2002-2003. «Bisogna finirla rimarca il generale Mini di raccontare le storielle e dare conto a tutta la nazione del rischio reale che i nostri soldati in quella guerra stanno affrontando». E sul futuro, l’ex comandante della missione Nato in Kosovo, non nasconde il suo pessimismo: «Così stando la politica e la situazione militare, non prevedo nessuna uscita che possa giustificare tutti gli anni, le energie e le vite che abbiamo speso in Afghanistan». Generale Mini, per la terza volta è cambiata la versione della morte del caporal maggiore Miotto. Come spiegarlo?
«Probabilmente il ministro La Russa ha ricevuto dalle autorità militari una ricostruzione più dettagliata dell’accaduto. In particolare, il tipo di proiettile che ha colpito il caporal maggiore Miotto non proviene da un’arma sofisticata come quella usata dai cecchini ma da un’arma residuale delle cento guerre afghane che può essere in mano a chiunque...».
Cosa cambia nella dinamica dell’evento? «Se Miotto era di guardia e si è trovato sottoposto a colpi di arma da fuoco, significa che la sua postazione era stata assaltata da più individui, a distanza più ravvicinata di quella che può usare un cecchino, e quindi si è difeso rispondendo al fuoco ostile. Non si tratterebbe quindi di un incidente durante una routine di servizio di guardia ma di un vero e proprio atto di combattimento di quella che da sempre sostengo essere una guerra...».
Una guerra che si vuole negare... «Se non fosse che la nuova versione della morte del caporal maggiore Miotto entra in conflitto con quella retorica della missione umanitaria che è stata abusata anche in questo caso...». Insisto su questo punto: cosa cambia questa terza versione? «Per quanto riguarda il soldato ucciso e il suo valore, non cambia niente. Semmai soddisfa quell’ansia di apparire guerrieri ad ogni costo. Dal punto di vista della dirigenza politica e militare, cambia l’atteggiamento nei riguardi di tutta l’operazione. Bisogna finirla di raccontare le storielle e dare conto a tutta la nazione del rischio reale che i nostri soldati in quella guerra stanno affrontando». Come uscire da questo «pantano insanguinato»? «Così stando la politica e la situazione militare, non prevedo nessuna uscita che possa giustificare tutti gli anni, le energie e le vite che abbiamo speso in Afghanistan. E che possa farci ritenere di aver raggiunto, o almeno sfiorato, uno di quegli obiettivi di sicurezza, ricchezza, democrazia, stabilità che ci eravamo posti quando abbiamo assunto l’impegno di Isaf».

l’Unità 6.1.11
Sudan, il Cavaliere nasconde l’accordo della vergogna
L’Italia ha sottoscritto un trattato di cooperazione con un Paese guidato da un presidente perseguito per crimini contro l’umanità
di U.D.G.


Promemoria per il «ministro crociato». Colui che, sull'onda della strage di Alessandria nella chiesa copta, ha proclamato: è ora di cambiare registro, fondando ogni accordo internazionale, bilaterale o multilaterale, sul principio «accordi in cambio di diritti».
È il teorema-Frattini. Da appoggiare. Ma ciò significa che l'Italia dovrebbe dare il buon esempio al resto dell'Europa e del mondo libero, rivedendo gli «accordi vergogna» che il governo del Cavaliere ha sottoscritto con Paesi retti da regimi sanguinari. Un esempio? L’Accordo tra il Governo della Repubblica Italiana e il Governo della Repubblica del Sudan sulla promozione e reciproca protezione degli investimenti Approvato dal Governo nel febbraio 2009, l'Accordo doveva essere ratificato dal Parlamento nel luglio di quest'anno: grazie anche alla spinta critica di parlamentari dell'opposizione e di organizzazioni umanitarie, la ratifica è stata rinviata. Ma l'Accordo resta sul tavolo. «Puntare ad un accordo per il rafforzamento dei rapporti commerciali e finanziari, e dunque politici, anche con il Governo Sudanese nonostante sia guidato da un Presidente. Omar al-Bashir ricercato dalla Corte Penale Internazionale (istituita a Roma nella sede della Fao nel 1998) per crimini commessi nella regione del Darfur è il risultato di una precisa scelta di apertura politica ai governi autoritari di tutto il mondo portata avanti coerentemente dall’attuale Governo», rimarca il deputato Radicale nel Gruppo Pd Matteo Mecacci. Secondo un rapporto di Human Rights First del novembre 2009, l'Italia avrebbe esportato, anche indirettamente, armi al Sudan per circa 300mila dollari, in un periodo compreso tra il 2004 e il 2005. Il ministro Frattini è a conoscenza della gravissima situazione del rispetto dei diritti umani in Sudan e in particolare in Darfur dove, nonostante la stipula di accordi tra le parti in conflitto che vengono regolarmente smentiti, si è verificata e continua a verificarsi una delle peggiori catastrofi umanitarie degli ultimi decenni.
L'Unità gliela ricorda. 1) La repressione violenta da parte del Governo sudanese dei movimenti ribelli in Darfur secondo le Nazioni Unite ha prodotto dal 2003 oltre 2,7 milioni di sfollati e rifugiati, e tra i 180 e i 300 mila morti; 2) Le responsabilità dirette del Governo Sudanese in questa vera e propria campagna di sterminio hanno portato alla incriminazione non solo del Presidente al-Bashir da parte della Corte Penale Internazionale che, va sottolineato, ha iniziato le indagini su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (il che significa senza l’opposizione dei suoi 5 membri permanenti), ma anche di altri esponenti governativi e di leader dei movimenti ribelli; 3) dopo l’incriminazione di al-Bashir da parte della Corte Penale Internazionale, 13 organizzazioni umanitarie internazionali che assistevano i rifugiati sono state espulse dal Darfur, aggravando una situazione già tragica; 4) allo stesso modo, dopo la richiesta di l’arresto di al-Bashir, secondo il rapporto di Amnesty International 2010 sul Sudan, il Governo ha intensificato la repressione nei confronti di organizzazioni umanitarie, dei difensori dei diritti umani e degli oppositori politici, repressione che ha portato tra l’altro a più di 60 nuove condanne a morte – 54 emesse da Tribunali Speciali antiterrorismo; 5) sempre secondo il Rapporto 2010 di Amnesty International nei campi di rifugiati in Darfur le violenze sulle donne, inclusi gli stupri, da parte delle milizie controllate dal Governo sudanese continuano in modo imperterrito. «Se a tutto ciò rileva ancora Mecacci si aggiunge che, dopo 10 anni dalla ratifica, e nonostante numerose iniziative parlamentari, l’Italia non ha ancora adeguato la legislazione interna a quella della Corte Penale Internazionale (e dunque il nostro paese non sarebbe in grado di arrestare al-Bashir se si trovasse sul territorio italiano), la valenza politica di questo accordo diviene chiarissima, poiché il Paese che più ha voluto la nascita della Corte Penale Internazionale adesso è il primo a legittimare politicamente il il maggiore e più importante imputato di quella stessa istituzione».

l’Unità 6.1.11
Rosarno un anno dopo
Ancora crisi, ancora paura. E sempre più lavoro nero
Il 7 gennaio 2010 si scatenò la rivolta e la caccia all’uomo lungo le strade Oggi i migranti sono 800 circa e come allora nessuno raccoglie le arance...
di Gianluca Ursini


Per le strade intorno Rosarno, i campi dal verde fosco sono punteggiati dal sole: mèlange di arance abbandonate. «A 5 centesimi al chilo, andateveli a raccogliere voi», sbeffeggiano il forestiero amareggiati i caporali a tarda sera, sulla statale 118 che attraversa la Piana e unisce una realtà metropolitana di paesini divisi da ettari di agrumeti e uliveti centenari: Rizzìconi, Rosarno, Laureana, Drosi, San Ferdinando, Taurianova e giù verso il mare le luci del porto di Gioja. Rumeni, Bulgari, magherebini, persino un improbabile argentino biondo come un Gesù che di giorno fa il cassiere all’Iper, guidano i furgoncini da dove smontano gli africani, la minoranza. Per la gran parte, un migliaio di bulgari, macedoni, rumeni e ucraini che dopo la rivolta del 2010 non se ne sono mai andati, mai stati espulsi. Chi perché comunitario,chi perché bianco. E qui di troppo erano solo i nivuri.
Gli africani, che nel 2011 in gran parte non sono tornati, si vedono in giro solo all’alba e in gruppi divisi per nazionalità: guineani, malesi, ghanesi, pochissimi nigeriani, come in passato moltissimi burkinabé e ivoriani, forgiati da anni nei campi di cacao. Ma lì non pioveva ogni giorno come nel cuore umido della Calabria più verde. «Abbiamo registrato 800 presenze di migranti», conta Peppe Pugliese dell’Osservatorio Migranti CalAfrica, mentre porta in giro un allampanato pastore, David McFarland della chiesa Evangelica, a distribuire coperte. «Hanno superato il migliaio», ribattono dalla rete di Ong del progetto “Radici”, che chiede per i lavoratori un permesso di soggiorno per non faticare in nero. «Conviene raccogliere le clementine, i mandarini, almeno rendono 20 centesimi, qui si deve affrontare una universale crisi del lavoro nell’agroalimentare meridionale, delle condizioni di lavoro e dei flussi di manodopera: a questi prezzi non conviene assumere, forse nemmeno produrre», allarga le braccia Antonino Calogero della Cgil locale. Per i braccianti la paga continua ad essere da 20 o 25 euro a giornata. Si comincia alle 5 sulla statale poi alle 8, finita la contrattazione col padroncino che può lucrare sulla tua schiena 10 euro, ti ritrovi nel “giardino”. Alle 5 è buio, tutti a casa. Quale casa? Un anno fa esplose la rabbia nelle fabbriche abbandonate e occupate dagli anni 90: la Cartiera a S. Ferdinando, abbandonata coi tetti sfasciati di Eternit in luglio dopo un incendio; rimaneva l’ex fabbrica di succhi “Rognetta” alle porte di Rosarno. Ora demolita, con 800mila euro del Viminale i rosarnesi avranno un mercato, al chiuso. Dormitori, no. C’erano i silos della ex “Opera Sila” sulla strada per Gioia, dove in contrada Bosco ci sarebbero stati in gennaio gli scontri più animati con l’auto di una donna incinta data alle fiamme. Nelle tre notti successive, 150 bravi pattugliavano i campi con le mazze da baseball battute ritmicamente sull’asfalto della statale a cercare un “cuginetto” che tentasse la sortita. A Rizziconi, alla Collina, in due casoni sequestrati alle sorelle Albanese, clan dei più feroci, in 200 sopravvivevano senza acqua né luce. Tutto finito nel 2011. Ora i nivuri sono meno della metà dei 2500, presenti al momento della rivolta, quando la chiusura delle fabbriche del Nord li spinse verso i campi del Meridione.
Lavoro non ce n’è, non si mettono insieme più di tre giornate a settimana e a sera il western Union vicino l’unico hotel ora ingombrato dalle tv satellitari straripa di africani per spedire i soldi. Dormono tutti in casolari sulle strade tra Rizziconi, San Ferdinando e Rosarno; non più di 20. Hanno paura della caccia. «Da ottobre in bande girano per i casolari a controllare quanti siano gli africani», spiega sconsolato un parroco. Gli unici a ribattere alle mafie sono volontari e Chiesa. In una frazione di Rizzìconi la Caritas locale ha creato il “modello Drosi”: il sacerdote fa da garante e 50 migranti trovano affitto a prezzi moderati. «in un anno avremo il centro Formazione professionale con 120 alloggi per i migranti regolari», assicura la neosindaco Elisabetta Tripodi. «Intanto sgombereremo il cementificio Beton Medma sequestrato al clan Bellocco; poi in primavera costruiremo tre palazzine, con un milione e mezzo già stanziato».
Secondo “Radici” «gran parte delle 800 presenze censite sono regolari richiedenti asilo – spiega Francesca Chirico – ma all’asilante le questure rilasciano un cedolino che permette il soggiorno: non si può firmare un contratto». Il risultato è lavoro nero. Nonostante gli oltre mille controlli in autunno dichiarati dall’Inps, sempre agli stessi orari, sempre il lunedì. Nonostante l’inchiesta Migrantes di maggio del pm Stefano Musolino e del procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo: oltre 30 sfruttatori comunitari in manette.

il Fatto 6.1.11
Un anno dopo Rosarno è sempre più inferno
In Calabria il 7 gennaio di un anno fa le violenze tra “bianchi” e braccianti africani, che adesso vivono nascosti come topi nelle campagne
di Giampiero Calapà


inviato a Rosarno (Reggio Calabria)

PRIMA DEL 7 gennaio 2010, prima di quelli che qui chiamano “i fatti”, i migranti africani a Rosarno erano 2500. Poi i giorni della violenza, qualcuno tra i “bianchi” comincia a “sparare” ai neri. Scoppia l’inferno. È guerra per giorni, la Statale 18 bloccata, il centro messo a ferro e fuoco. Vince la rabbia. Poi si scatena la “caccia al nero”. Lo schema “è mafioso: una minoranza di rosarnesi si spende nella caccia, megafono e spranga in mano, mentre la maggioranza sta zitta, chiude le persiane”, spiega Agostino Pantano, giornalista che a Rosarno conosce ogni singolo sasso. Catapecchie del centro, la ex cartiera, scheletri di edifici abbandonati nel triangolo ad alta densità mafiosa tra Rosarno, San Ferdinando e Gioia Tauro, regno delle famigerate famiglie di ‘ndrangheta dei Pesce e dei Bellocco. Prima dei “fatti” quei tuguri erano le case da Terzo mondo di questi disperati che dal vero Terzo mondo sono scappati. Adesso, un anno dopo, che cosa è cambiato? Ci sono più immigrati dell’Est europeo, soprattutto bulgari. Gli africani sono molti meno: 700 anime (poco più di mille in tutta la Piana di Gioia Tauro, di cui almeno la metà sono cosiddetti clandestini), veri fantasmi. Mentre prima affittavano in nero una   stanza senza luce, acqua, riscaldamento, da qualche italiano senza scrupoli a 150 euro al mese per posto letto – anche dieci o venti stipati in uno stesso locale – adesso la maggior parte di loro è costretta a vivere nelle campagne attorno a Rosarno. In casolari apparentemente abbandonati, per cui alcuni giurano di non pagare neppure un centesimo. In realtà nulla è gratis nella miseria di Rosarno. Tra campi di agrumi e oliveti il Terzo mondo è qui.
Il fango sale fino alla gola, poco lontano dal centro del paese, dove cominciano le distese di campagne che sono il luogo di lavoro e di vita dei “fantasmi”. Tra di loro ci sono i caponeros, parlando meglio degli altri l’italiano, trattano con il padrone, sono i nuovi caporali, “schiavi” che hanno scalato un gradino   nella piramide delle caste dell’inferno. Usano le loro automobili per portare al lavoro i braccianti.
Il piccolo viaggio in macchina costa 2,50 euro. La giornata di lavoro ne varrà 25, quando va bene, a volte anche meno di venti. E non si lavora tutti i giorni. Su trenta persone che affollano questa catapecchia di campagna, quindici questa mattina non sono andati nei campi di agrumi. Restano ad aspettare tutto il giorno che i compagni ritornino con qualcosa da mangiare anche per loro. Fanno passare il tempo riscaldandosi con il fuoco, tutti attorno a un tavolo. Ma è un giorno speciale, perché c’è la visita del sindaco. Elisabetta Tripodi è primo cittadino di Rosarno da neanche un mese, con una giunta di centrosinistra dopo   due anni di commissariamento per infiltrazioni mafiose. Arriva con un furgoncino messo a disposizione dalla Cgil, in servizio da “sindacato di strada”, per portare assistenza ai fantasmi. Ha i tacchi alti il sindaco, non è la calzatura ideale per camminare nel fango che circonda questo pezzo di Africa nera nel cuore della Calabria. Infatti, procede a fatica. E scuote la testa, quando si ritrova davanti alle scene di ordinaria disperazione quotidiana della vita di questa gente.
Una pentola è sul fuoco, l’acqua deve bollire per poter essere utilizzata per la doccia. Una doccia di fortuna, ovviamente, delimitata da qualche cartone e lamiere. Non ha parole il sindaco, a cui Abrham, 46 anni, da quasi venti al lavoro nei campi tra la Calabria e la Puglia,   chiede: “Cosa potete fare per noi? Avete visto le condizioni in cui viviamo? Non abbiamo i documenti, non possiamo ritornare in Africa a vedere i nostri figli, le nostre mogli. E qui dobbiamo vivere così. Ma adesso non ci mandi i carabinieri, non ci faccia cacciare”. Il sindaco scuote ancora la testa e poi scappa via. Abrham insiste: “Costa potete fare per noi?”. Il sindaco Tripodi gli volta le spalle e a denti stretti, sussurra: “Niente, non posso fare niente”.
Ha già realizzato questa triste considerazione o è solo la disperazione del momento, ma in via ufficiale Tripodi spiega che “la Protezione civile installerà venti container per accogliere gli immigrati”, in attesa della costruzione di un centro di prima accoglienza. Non è abbastanza   , lo sa il sindaco, che denuncia: “In questo ultimo anno, almeno a livello di strutture di accoglienza, non è cambiato proprio nulla”. Però si dissocia dai “mass media che un anno fa hanno descritto i rosarnesi come razzisti: la solidarietà di cittadini, associazioni e parrocchie c’è sempre stata”. E la Cgil, inseme all’associazione Rete Radici, domani sarà impegnata in due manifestazioni: una a Rosarno e l’altra a Reggio Calabria.
Non hanno aderito i ragazzi dell’Osservatorio migranti Africalabria: “Solo passerelle, il problema qui è cosa succede dall’8 di gennaio. Cosa che già sappiamo, non perché siamo indovini, ma perché è sempre così: restiamo solo noi”. Peppe Pugliese, anima e corpo dell’Osservatorio, passa le giornate al telefono con i migranti: “Peppe ci serve un materasso”, “Peppe non abbiamo la luce”, “Peppe è un mese che cammino senza scarpe”. Peppe parte da casa in macchina, nel pomeriggio, passa sulla Statale 18, davanti agli edifici adesso vuoti dell’ex Opera Sila. Pochi giorni fa Eugenio Ripepe, responsabile della Protezione civile calabrese ha annunciato l’avvio della bonifica di quei luoghi che sono stati il simbolo dei “fatti” di un anno fa. Tutto è cominciato qui, sulla 18. Dopo gli sgomberi la polizia presidiò per giorni la struttura e oggi qui non dorme più nessuno.
Peppe, intanto, procede verso Gioia Tauro, dove dovrà comprare un generatore elettrico. Con 250 euro, regalo della Chiesa Battista: “Andiamo avanti così, con la beneficenza”. Ritornando verso Rosarno sosta anche in una farmacia, “per comprare dell’acqua ossigenata per un ragazzo, che si è tagliato, ha un dito gonfio da far paura, spero vada anche dal medico domani”. A Rosarno le giornate cominciano all’alba, quando lungo le strade  gruppi di migranti aspettano l’arrivo delle auto o dei furgoni di caporali e caponeros, e finiscono quando gli stessi ritornano e si dirigono verso i tuguri dove dormono. Nel mezzo c’è la vita in strade dissestate “arricchite” dalla spazzatura. Già, succede, a Rosarno – nonostante l’inceneritore che domina il panorama proprio là dove c’è l’ex Opera Sila adesso non più abitata dai migranti – che, periodicamente, i cassonetti vomitino metri e metri di sacchetti, scene che in questi mesi siamo abituati a ricollegare subito al dramma di Napoli.
Perché l’inferno è un’opera completa. E allora deve ricordare la miseria ad ogni angolo di Rosarno, dove, se non c’è la spazzatura, ci sono arance buttate in nome dello spreco, perché in questo momento il calo dei prezzi, insieme a strategie criminali, ne rallenta il raccolto. Tanto che, paradosso dei paradossi, in un pomeriggio rosarnese al bar è possibile sentirsi negare una spremuta da dietro il bancone: “Mi dispiace, abbiamo finito le arance”.

il Fatto 6.1.11
“I caporali sono i nuovi mercanti   di schiavi”
Vladimiro Polchi: “Vengono pagati 3,50 euro l’ora”
di G. Cal.


“CHIUDONO le fabbriche. I cantieri edili si fermano di colpo. Si raffreddano i forni a ciclo continuo nelle aziende   di ceramica. Chiudono ristoranti, alberghi e pizzerie. Tra le famiglie è il panico: scompaiono babysitter, colf e badanti. Vuoti i mercati ortofrutticoli”. Vladimiro Polchi, giornalista e scrittore, nel libro “Blacks Out. Un giorno senza immigrati” (Laterza), ha immaginato cosa accadrebbe in Italia se i migranti scomparissero di colpo. Dalla finzione letteraria alla realtà: l’1 marzo 2010 si è avuto il primo sciopero dei migranti e “al di là di manifestazioni riuscite, della visibilità mediatica e di parziali astensione dal lavoro in alcune fabbriche del Centro-Nord, lo sciopero in senso tecnico non è riuscito”, commenta Polchi.
Un flop. Perché?
Perché i sindacati non avevano avallato l’iniziativa e perché i lavoratori stranieri non sono un corpo omogeneo, legato da vincoli di solidarietà interni, capace di muoversi compatto. Sono divisi, ricattabili, spesso in nero. Un nuovo sciopero è stato indetto per il primo marzo di quest’anno: vedremo come andrà. 
Se lo sciopero dovesse funzionare, cosa accadrebbe nelle campagne?
Il contraccolpo sull’agricoltura sarebbe devastante. Non potrebbe essere altrimenti. I lavoratori stranieri nei campi sono oltre 133mi-la e appartengono a 155 diverse nazionalità. Secondo Coldiretti, in molti distretti agricoli i braccianti immigrati sono indispensabili: nella raccolta delle fragole nel Veronese, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna e Campania, dell’uva in Piemonte, del tabacco in Umbria e Toscana, dei meloni nel Mantovano e del pomodoro in Puglia. Insomma, senza stranieri l’agricoltura si ferma. Emblematica è la filiera del pomodoro da industria. Qui il loro lavoro è essenziale: braccianti slavi e africani nella raccolta sui campi; camionisti romeni, ungheresi ed ex-jugoslavi nella distribuzione; operaie straniere nel lavaggio e stoccaggio. Non è tutto: le statistiche fotografano solo la componente regolare del fenomeno; la punta dell’iceberg, all’ombra della quale si nasconde l’esercito degli invisibili, degli immigrati irregolari. Ed è qui che fanno affari i caporali, i nuovi mercanti di schiavi. Ben l’88% degli stagionali intervistati da Medici senza frontiere nel 2008 ha dichiarato di lavorare senza contratto. E nulla è cambiato dopo lo sciopero del primo marzo, né dopo Rosarno. 
Il caporalato non è certo un’esclusiva di Rosarno.
È una piaga delle campagne italiane, soprattutto nel meridione. Per la Cgil della Puglia in agricoltura solo il 5% degli imprenditori è in regola con contributi e stipendi. Il resto è nero o grigio, terreno di caccia per i caporali.
Facciamo qualche numero.
Il contratto nazionale parla di 36,30 euro per sei ore e mezza di lavoro. Oggi un bracciante è fortunato quando prende 3,50 euro l’ora. O meglio il padrone dà al caporale 3,50 euro l’ora per ogni operaio e lui si tiene 70 centesimi: schiavismo.

il Fatto 6.1.11
Tuguri a caro prezzo
Strozzati dagli affitti


Saliu e Soulaye hanno 50 anni, quattro e due figli in Senegal, da dove sono partiti una quindicina di anni fa. Loro abitano un buco in un palazzo abbandonato appena fuori Rosarno. Sono già più fortunati rispetto a   quelli che stanno nelle campagne. Ogni tanto ritornano in Africa, loro hanno i documenti, quindi possono farlo. Delle violenze dello scorso anno non vogliono parlare: “Non eravamo qui”, è un po’ il ritornello che ripetono anche tutti gli altri   “fantasmi” di Rosarno. Però, dopo avergli chiesto se hanno paura adesso, il loro sguardo si fa più serio: “Certo, come si fa a non avere paura, è successo solo da un anno – dice Soulaye – Si sta meglio ad   Agrigento, in Sicilia, noi lavoriamo anche là per diversi mesi all’anno”. Quindi doppio affitto da pagare? “Sì, qui paghiamo 50 euro per un tugurio, là abbiamo quasi una vera casa, stiamo in quattro e paghiamo 250 euro al mese, appena ritorniamo dobbiamo saldare la nostra parte”.

l’Unità 6.1.11
Quanto pesa la bioetica
Politica culturale: la svolta del 2010
di Maurizio Mori


L’anno che si è appena chiuso ha portato almeno due significative novità in campo bioetico. La prima, politico-istituzionale, riguarda l’assunto “la bioetica non porta voti”: ebbene, questo assunto non vale più. Nonostante alcuni importanti episodi (Welby, Englaro, ecc.), l’assunto appariva indiscutibile, mentre ora ci si accorge che la bioetica pesa, sposta parlamentari ed è una delle carte buone per creare o per scompigliare le alleanze politiche. Nell’agosto scorso, per neutralizzare il nascente Fli, il governo ha varato l’Agenda Bioetica; a dicembre i contrasti bioetici hanno avuto un ruolo per ostacolare la formazione del Terzo Polo: i vescovi cattolici han fatto la loro parte con interventi che appaiono più come pesanti ingerenze che come richiami spirituali.
L’altra grande novità riguarda il piano culturale e sta in un netto spostamento del flusso e del tipo di riflessione pubblica sul tema bioetico del momento: il fine-vita. La televisione ha reso palese il cambiamento su tre importanti fatti accaduti quasi contemporaneamente. Primo, l’intervento di Beppino Englaro e di Mina Welby alla fortunata trasmissione di Fazio e Saviano Vieni via con me (15 novembre), in cui hanno ribadito la moralità della sospensione dei trattamenti medici non voluti. Subito i cattolici hanno lamentato l’assenza di contraddittorio e, in nome della par condicio, richiesto (senza successo) la replica dei malati che non rinunciano a sospendere le cure. Secondo, le parole del presidente della Repubblica, Napolitano, sul suicidio di Monicelli (95 anni e malato terminale) giudicato come “estremo scatto di volontà che bisogna rispettare”. Terzo, grazie alla brillante iniziativa dell’Associazione Coscioni, la diffusione su Rai3 di un cortometraggio molto sobrio, diretto e pulito a sostegno della libertà di scelta anche per l’eutanasia. I cattolici, che prima hanno richiesto la par condicio la loro favore, ora si sono precipitati dalla Commissione di vigilanza Rai, protestando per l’assenza di censura preventiva e di sanzioni!
Dal punto di vista culturale i fatti segnalano un salto paradigmatico decisivo: mentre in passato i nuovi modelli erano proposti come “disvalore necessario” (si pensi al divorzio), ora le nuove scelte di fine vita sono presentate come progresso morale e civile: non più un “male minore” ma un diritto. E di fronte al nuovo vento culturale i cattolici sembrano sguarniti di argomenti solidi, e devono invocare la censura o denunciare complotti contro di loro. Già è successo con le libertà civili e sindacali, ma chissà se tra qualche anno (o decennio), non diranno che la libertà di scelta biologica è un portato del cattolicesimo?

il Fatto 6.1.11
Il mosaico dei cristiani d’oriente
Copti, caldei, malabarici tra Egitto, Iraq, Siria e Turchia
di Marco Politi


È un mosaico scintillante di tradizioni molteplici, i cui protagonisti sono apostoli, evangelisti, eretici, missionari che risalgono alla stagione tumultuosa dei primi quattro secoli della nostra era, quando il cristianesimo si espandeva in Oriente e i pontefici a Roma erano spesso di origine greca e siriana.
AD ALESSANDRIA d’Egitto la comunità cristiana dei copti nasce – secondo la tradizione – dalla predicazione dell’evangelista Marco (le cui reliquie vennero poi rubate da mercanti veneziani). Sono gli egiziani più antichi, antecedenti alla conquista araba: copto viene dalla parola greca aigyptos, “egiziano”. Ad Alessandria – la Manhattan del mondo antico con la più fornita biblioteca   dell’epoca greco-romana – si faceva grande teologia quando ancora nell’Occidente latino si muovevano i primi passi. Oggi è sede di un Papa copto-ortodosso e di un patriarca copto-cattolico. Insieme, secondo statistiche ufficiali, raggiungono gli otto milioni di fedeli. Il 10 per cento su 80 milioni di abitanti, ma secondo altre stime potrebbero arrivare anche al 13 per cento. È una minoranza colta ed attiva. L’ex segretario dell’Onu Boutros Ghali è copto. Benedetto XVI, novembre scorso, ha creato cardinale il patriarca dei copti cattolici Antonios Naguib. In India sarebbe arrivato l’apostolo Tommaso, quello che volle toccare la ferita nel costato di Gesù per credere alla resurrezione: ora vi sono i cristiani di rito latino, i malabaresi e i malankaresi. In Iraq e in Persia a fondare la   Chiesa assira o caldea fu – raccontano – lo stesso Tommaso, poi arrivarono i seguaci del vescovo eretico Nestorio. I cristiani caldei si considerano iracheni doc e ricordano volentieri   che Abramo nacque a “Ur dei Caldei”. Il patriarca dei Caldei (cattolici) Emmanule III Delly fa parte del collegio cardinalizio. Ai tempi di Saddam i caldei erano più di ottocentomila, la guerra e il dopoguerra li ha ridotti a un terzo e forse meno. Per la Santa Sede si tratta di salvare la presenza cristiana nella culla del cristianesimo.
Ad Antiochia la prima comunità cristiana ebbe (secondo gli ortodossi) san Pietro primo vescovo, a Damasco i cristiani c’erano già quando san Paolo-Saulo cavalcava alla volta della città per sterminarli, a Edessa (oggi Urfa in Turchia) Gesù avrebbe mandato al re Abgar addirittura la sua prima   immagine impressa su un velo, con cui si era asciugato il viso. Con il passare dei secoli tra scismi, eresie, riunificazioni con Roma si sono sovrapposte tante diverse comunità (nate da elaborazioni teologiche oggi difficilmente comprensibili) che in una stessa città c’è un groviglio di denominazioni. Lo vede qualsiasi turista al Santo Sepolcro, dove ogni metro di spazio è affidato a diverse comunità – dai francescani agli etiopi – che ogni tanto all’interno del tempio non rifuggono da risse per la “precedenza”. Nella sola Gerusalemme si registra la presenza di sei patriarcati e altre sei denominazioni: i greco-ortodossi, i cattolici di rito latino, gli armeni   ortodossi, i copti ortodossi, i siro-ortodossi, gli etiopi ortodossi, i maroniti, gli armeno-cattolici, i greco-cattolici, i siro-cattolici, gli episcopaliani (anglicani), i luterani. Ogni denominazione rimanda ad un ricco patrimonio religioso e culturale delle prime comunità in Siria, in Armenia, in Etiopia, alle vicende storiche in Libano (maroniti), alle crociate (Patriarcato latino), ai “ritorni” verificatisi tra l’Ottocento e i primi del Novecento: luterani ed episcopaliani.
STIME ESATTE sono difficili, ma si calcola che nel Grande Medio Oriente (dalla Turchia allo Yemen, dall’Egitto all’Iran) i cristiani siano circa venti milioni e mezzo su una popolazione di 356 milioni, a maggioranza schiacciante musulmani. In questo oceano i cattolici sono cinque milioni e settecentomila, oltre la metà peraltro formata da immigrati di Filippine, India e Bangladesh. Tra i più attivi politicamente   i maroniti del Libano, legati storicamente alla Francia.
Il pericolo incombente, ha detto una volta il cardinale Leonardo Sandri (prefetto della Congregazione vaticana per le Chiese orientali), è che nella regione il cristianesimo a causa di guerre, conflitti, emigrazioni si riduca a “pietre morte o monumenti storici”. Per questo Benedetto XVI da Cipro ha lanciato nel giugno scorso un appello pressante a rimanere, perché ogni “prete, comunità religiosa, parrocchia” che resiste “è un segno di straordinaria speranza”. E a ottobre ha organizzato uno speciale Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente.

Corriere della Sera 6.1.11
«Il Papa invii un messaggio di pace ai musulmani»
L’imam Al Tayyeb: «Può creare malintesi l’appello del Pontefice alla difesa dei fedeli»
di Antonio Ferrari


«Spero che Sua Santità Benedetto XVI, che gode di un’autorità morale universale e che porta dunque una responsabilità di importanza straordinaria, decida di inviare un messaggio al mondo islamico. Un messaggio che possa ristabilire i ponti della fiducia e che dissipi le origini dei malintesi. Sarebbe un’iniziativa molto apprezzata» . Con la mano tesa ma anche con la convinzione che viene dal suo ruolo di capo spirituale della moschea di Al Azhar, culla teologica sunnita, dal Cairo il Grande imam Ahmed Al Tayyeb risponde al Pontefice attraverso questa intervista al Corriere della Sera. Con prudenza, coniugata alla ferrea volontà di cementare il dialogo e la collaborazione tra le religioni, Al Tayyeb indica quale può essere la strada per riprendere il cammino dopo il feroce e sanguinoso attentato di Alessandria d'Egitto contro la chiesa copta dei Due Santi. Chiesa copta che in queste ore si prepara al proprio Natale. Le sue parole, pronunciate a caldo dopo il discorso di Benedetto XVI all’Angelus di domenica 2 gennaio, hanno creato qualche equivoco. A volte si ascoltano dichiarazioni ma non se ne comprende appieno il senso. Ci vuole spiegare che cosa voleva dire con la sua dichiarazione? «Come lei sa, ho ascoltato le parole di Sua Santità sull’attentato di Alessandria, che è stato un crimine condannato da tutte le religioni e dagli uomini di buona fede del mondo intero. Ho sentito che il Papa ha chiesto protezione per i cristiani d’Egitto. Ora, temendo che le parole di Benedetto XVI possano creare una reazione politica negativa nell’Oriente in generale, e in Egitto in particolare, tengo a precisare tre cose: che i cristiani d’Oriente sono una componente essenziale delle loro società di appartenenza e una fonte di ricchezza della civilizzazione orientale e della tradizione arabo-islamica; che la loro protezione e la sicurezza sono garantite dai loro diritti di cittadini e, secondo la tradizione islamica, attraverso una lunga storia di vita comune basata sul rispetto dell’altro e sulla diversità religiosa e culturale; che queste azioni terroristiche non sono dirette soltanto contro i cristiani ma contro l'intero Egitto con l'obiettivo di destabilizzare il Paese e di attentare alla sua sicurezza e all'unità nazionale» . Conoscendola per averla incontrata più volte agli incontri interreligiosi organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, le chiedo che cosa si può fare per eliminare o almeno attenuare gli effetti di questa pericolosa atmosfera che si respira. «Io credo profondamente che la libertà religiosa, etnica e culturale sia una legge divina. Dio ha creato l’Uomo libero di scegliere e libero di decidere secondo coscienza. Di conseguenza non sta a noi, creature di Dio, imporre ai nostri fratelli umani una sola religione o un solo modo di vivere. Nonostante le nostre differenze, abbiamo tutti molti valori comuni: di giustizia, di bene, di compassione, di libertà. Dobbiamo quindi approfondire la mutua comprensione ed eliminare le fonti di pregiudizio e malinteso. Il rispetto dell'altro e del suo diritto alla diversità è una condizione indispensabile per quel dialogo costruttivo che possa riavvicinarci. Il grande saggio musulmano El Gazali diceva: "L'uomo più saggio è colui che conosce meglio le differenza tra gli uomini"» . Ma che cosa propone lei per cementare e quindi consolidare questo dialogo costruttivo? «Glielo ho detto prima con la domanda al Papa di un'iniziativa. Questa iniziativa, questo messaggio potrà aprire la via a un dialogo serio ed efficace tra le civiltà orientali e occidentali che ci spinga a rafforzare la pace e la sicurezza nel mondo» . Pensa che in Egitto le relazioni tra musulmani e cristiani si normalizzeranno in fretta? In altre parole, che la tensione di questi giorni svanirà? «Sì, senza alcun dubbio, perché credo sinceramente che la tragedia di Alessandria sia nata come un attentato diretto contro cristiani e musulmani, e quindi contro l'intero Egitto. Il popolo egiziano non ha mai vissuto, durante 14 secoli di vita comune, un conflitto interno per una ragione religiosa o razziale. Questi attentati hanno risvegliato la coscienza collettiva contro i comuni pericoli. Il popolo egiziano ha riaffermato la sua unità nazionale organizzando manifestazioni comuni e spontanee, sollevando, assieme, la croce e la mezzaluna. E'una dichiarazione di incrollabile volontà di vivere assieme. Un solo popolo in una patria eterna» .

il Fatto 6.1.11
Battisti, “Ecco perché il ricorso è infondato”
Il consulente del governo brasiliano: “La scarcerazione sarà inevitabile”
di Sofia Toscani


Rio de Janeiro. “Perderete il ricorso sul caso Battisti. L’avvocato dell’Italia sa di presentare un ricorso giuridicamente infondato. Sta solo facendo la parte che il governo Berlusconi gli chiede di fare, simula di credere che il caso non sia giuridicamente chiuso”. Dalmo Dallari, costituzionalista brasiliano, è certo che non ci sia margine giuridico per riportare in Italia Cesare Battisti, condannato all’ergastolo   per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta e al momento in cella a Brasilia. Il difensore di Battisti, Luis Barroso, ha chiesto la scarcerazione immediata del suo cliente e per questo martedì il Tribunale supremo federale (Tsf), massimo organo giudiziario del Brasile, ha dovuto riaprire il dossier del detenuto italiano. “Il tribunale temporeggia quanto può, ma alla fine Battisti sarà scarcerato – sostiene Dallari – perché non c’è modo consentito dalla legge di modificare la decisione presa. La scelta   di Lula è inattaccabile perché costituzionalmente perfetta”.
DALLARI è professore emerito di diritto costituzionale all’università di San Paolo e fa parte del Consiglio nazionale brasiliano per i diritti umani. Non ha incarichi formali nel governo, è il ghost writer del caso Battisti per il partito di Lula. E’ il costituzionalista che ha seguito   passo passo la vicenda per dare sostanza giuridica alla decisionepoliticadelrifiutodell’estradizione.
Ma la nuova presidente potrebbe non volersi tenere Battisti in Brasile, Dilma Rousseff ha sempre detto di voler rispettare le decisioni dei giudici e il Tsf ha votato a maggioranza in favore dell’estradizione. “Anche se volesse la presidente   non potrebbe concederla, la legge non le dà il potere di farlo”, spiega Dallari con il tono pacato di chi è convinto di avere già vinto la partita.
Difficile è aspettarsi un intervento risolutivo dell’Unione europea al riguardo. Il portavoce della Commissione europea, Michael Mann, ha ribadito ieri che il caso Battisti “è una questione bilaterale” sulla quale “non è prevista una competenza della Commissione”. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha escluso un congelamento dell’accordo economico con il Brasile firmato ad aprile da   Berlusconi e Lula. “Rompere gli accordi non aiuta nè a riavere Battisti, nè a difendere gli interessi dell’Italia”, ha detto. Alla Camera, invece, tornerà in Commissione (e quindi slitterà) la ratifica dell’accordo militare bilaterale, prevista per lunedì prossimo.
“NEL PIENO dei poteri che la Costituzione gli attribuisce – sostiene Dallari – l’ex presidente Lula ha deciso in maniera definitiva sul caso. Il suo atto formale estingue giuridicamente il processo di richiesta d’estradizione legittimamente intrapreso dall’Italia. E’ una decisione con la quale si può non essere d’accordo, ma non è ribaltabile. A Berlusconi che chiama al rispetto del diritto italiano bisognerà ricordare che l’Italia deve rispettare quello brasiliano, nonché il trattato che ha firmato. Il trattato di estradizione è stato onorato da Lula”. Ammetterà che il rischio di persecuzione di Battisti in Italia è quanto meno opinabile. “Perché ci si possa appellare a quella norma del trattato che consente a chi decide sull’estradizione di rifiutarla   se per la persona in oggetto c’è rischio di violenza, non c’è bisogno che ci sia il rischio di violenza fisica”, dice Dallari. “Le rozze e scomposte dichiarazioni di alcuni ministri italiani, mi riferisco in particolare a quelle del ministro La Russa, confermano che in Italia non c’è la serenità sufficiente a garantire che Battisti sia rispettato”. Cesar Peluso, il presidente del tribunale supremo, ha però promesso battaglia, non scarcera Battisti subito e dice di dover attendere la riunione di tutti i giudici del Stf.   “Ma quella di Peluso è una mossa politica – non si scompone Dallari –, è stato sconfitto, ha perso. Non ha possibilità di ridiscutere l’assunto. In Italia la questione è stata ricostruita con mala fede, temo. Il Tsf non ha potere di decidere in materia, doveva solo esaminare la correttezza formale della richiesta d’estradizione italiana, l’ha fatto e ha chiamato il presidente della Repubblica   ad esprimersi. Il presidente ha deciso. La carcerazione di Battisti serviva a impedire che scappasse e rendesse impossibile l’estradizione. Ora che l’estradizione è stata negata, la sua detenzione non ha più fondamento legale”. Ha però commesso il reato di entrare di Brasile con un passaporto falso. “Ma quello è un processo completamente separato. E non è concluso. Non può restare in cella per quel reato. Uscirà. Sarà un immigrato con permesso di residenza permanente”. Non potrà quindi uscire dal Brasile? “Non legalmente”.

Corriere della Sera 6.1.11
Il cimitero dei dimenticati dell’eutanasia nazista
In Austria, dove vennero deportati 400 malati trentini
di Dino Messina


DAL NOSTRO INVIATO INNSBRUCK— Nessuna «clamorosa e macabra» scoperta di una «fossa comune» , come nella concitazione dei primi momenti è stato scritto, ma il lavoro certosino di uno studioso, Oliver Seifert, è all’origine di un ritrovamento che potrà dare un contributo notevole alla storia dell’eutanasia durante il nazismo. Il luogo, Hall, 9 chilometri a nord est da Innsbruck, è oggi più noto come località sciistica che come sede del più importante ospedale psichiatrico del Nord Tirolo. Quattordici ettari di parco cintato, vialetti lindi, palazzine che sembrano decorosi condomini, dove vivono circa 250 residenti con disagio mentale: la loro permanenza media è di 13 giorni e sono assistiti da cinquanta medici. Oltre 65 anni fa, quando si svolge questa storia, i medici erano soltanto 5 e i pazienti più di 800, con una degenza che durava anni, magari tutta la vita, a meno che non intervenisse una mano impietosa a interrompere quelle povere esistenze «non degne di essere vissute» , secondo la nota definizione di Adolf Hitler che nell’ottobre 1939, pochi giorni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, emanò il decreto che diede via al programma ufficiale di eutanasia per le persone disabili. Un provvedimento che rimase in vigore per un paio d’anni, sino all’agosto 1941, determinando l’assassinio legalizzato attraverso iniezioni di potenti veleni o docce di ossido di carbonio, di oltre 70 mila persone. vescovi cattolici e i pastori protestanti riuscirono a por fine alla barbarie ufficiale, ma la pratica dell’eutanasia continuò, anche in strutture più decentrate come quella di Hall. Wolfgang Markl, direttore amministrativo della Tilak, società pubblica cui fa capo questo ospedale, ci spiega com’è avvenuta la svolta. «Sapevamo che in una certa area dell’ospedale c’era un cimitero per i degenti poveri, ma il professor Seifert, storico dell’Università di Innsbruck che lavora con noi da cinque anni, pochi mesi fa in uno dei nostri archivi che documentano la storia del nosocomio, fondato nel 1830, ha trovato un libretto con i nomi di 220 degenti deceduti nell’ospedale psichiatrico tra il 1942 e il 1945 e l’indicazione della loro tomba» . In un altro archivio sono raccolte tutte le cartelle cliniche, ma avere a disposizione in un unico libretto così tanti nomi ha fatto risaltare, spiega il primario Christian Haring, «un’eccessiva concentrazione di decessi in alcuni periodi, per esempio 30 nel solo marzo 1945» . Quanti solitamente ne morivano in un intero anno. Per il momento lo storico, il direttore amministrativo e il primario di psichiatria tengono un profilo basso, ma hanno scelto di annunciare in questi giorni il ritrovamento, contestuale all’inizio dei lavori per un nuovo edificio, che naturalmente sono stati bloccati, in attesa di inviare i resti per esami autoptici all’Università di Monaco. «Ove sarà necessario — dice Markl — si procederà all’esame del Dna» . Non tutti i 220 seppelliti nel cimitero dimenticato di Hall furono vittime dell’ «eutanasia selvaggia» , quella che seguì alla fase di «trattamenti autorizzati» . La storia dell’ospedale nord-tirolese, dove non sono ancora cominciati gli scavi nel cimitero abbandonato, che era stato progettato un paio d’anni dopo l’Anschluss perché si pensava di trasformare Hall in uno dei centri di sterminio, è stata da subito seguita dalla comunità altoatesina. Si sa che ad Hall furono uccise almeno 360 persone nell’ambito del progetto di eutanasia ufficiale e ora, con la scoperta dell’elenco dei 220, il dottor Lorenzo Toresini, allievo di Basaglia e primario dei servizi mentali di Merano, ha ricordato il caso dei quattrocento malati «optanti» provenienti dall’ospedale di Pergine, «che una mattina furono messi su pullman con i vetri oscurati, accompagnati sino al Brennero da un gruppo di suore e poi scomparvero nel nulla» . Non esclude il dottor Toresini che nell’elenco dei 220 possano esserci dei nomi di quei poveretti. Malati di mente che forse senza saperlo, solo perché parenti di persone che avevano optato, secondo quanto prevedeva un accordo italo germanico, per la nazionalità tedesca, vennero arruolati tra i reietti del Reich. La Provincia di Bolzano si è offerta, ieri, di collaborare all’identificazione delle vittime. Lo storico italiano Gustavo Corni condivide l’idea del collega austriaco Oliver Seifert che questa è un’occasione da non perdere: avviare finalmente un nuovo filone di studi su un capitolo poco conosciuto del nazismo, quello dell’ «eutanasia selvaggia».

Repubblica 6.1.11
Un saggio di Maria Cristina Amoretti e di Nicla Vassallo su questa disciplina
L’epistemologia è viva e conosce insieme a noi
di Maurizio Ferraris


Non bisogna considerarla come filosofia della scienza ma proprio strumento per indagare il sapere, dalla nozione di fiducia a quella di testimonianza

Sentite cosa dice George Bernard Shaw: «Se si racconta una storia, per quanto assurda o impossibile, a un bambino, e chi la racconta è qualcuno che lui considera infallibile (generalmente un genitore), la accetterà come verità rivelata e ne conserverà un ricordo immutato fino al momento in cui non sarà portato a rifletterci su. Il che può anche non succedere mai». Questa frase è la migliore introduzione alla importanza della epistemologia, ossia della teoria che ci insegna a giudicare la validità del nostro sapere, e soprattutto di quello degli altri. In questo campo, il Novecento ha oscillato tra due modelli opposti, l´idea che sia vero solo quello che dice la fisica (e in questo caso l´epistemologo sarebbe uno Stranamore contraddittorio e superfluo), o l´idea che sia vero tutto e che non c´è differenza tra medici e sciamani (e in questo caso l´epistemologo non saprebbe spiegare perché, in fin dei conti, se sta veramente male va dal medico). Nel frattempo, gli scienziati sono diventati bravissimi a raccontare quello che fanno, in articoli e in libri che sono spesso dei bestseller, e l´epistemologia sembra morta.
Ma non è così, come dimostrano convincentemente Maria Cristina Amoretti e Nicla Vassallo in questo Piccolo trattato di epistemologia (Codice edizioni, pagg. 168, euro 18). Il recupero dell´epistemologia nell´età degli scienziati superstar richiede due mosse. La prima è sottolineare che l´epistemologia non si riduce affatto alla filosofia della scienza, ma è quello che un tempo si chiamava "gnoseologia", teoria della conoscenza, e che la conoscenza non è soltanto quella che riceviamo dalla fisica o dai suoi derivati. C´è non solo una grande quantità di sapere (e dunque di teorie della conoscenza) nella sfera delle scienze umane, e soprattutto nell´analisi di elementi così decisivi per la nostra esperienza come la fiducia, la credenza, la testimonianza. In questo quadro, l´epistemologo non assomiglierà tanto a un piccolo chimico, come lo voleva almeno in parte la tradizione novecentesca, ma piuttosto a un antropologo che indaga i sensi e i contesti in cui noi ci serviamo del concetto di "conoscenza".
Questo però non significa trasformare l´epistemologia in una pratica relativistica che, per l´appunto, assimili il medico allo sciamano. Ed è qui che interviene la seconda mossa di Amoretti-Vassallo. Si tratta di tenere fermo che la conoscenza è e resta innanzitutto e per lo più "opinione vera accompagnata da ragione", come voleva Platone. Immaginiamo che un meteorologo preveda che domani pioverà, e che alla stessa conclusione (o magari persino più accurata) pervengano un aruspice scrutando il volo degli uccelli e uno scommettitore che tira a indovinare. Solo del meteorologo si potrebbe dire che "sa" veramente: l´aruspice crederebbe soltanto di sapere, e lo scommettitore saprebbe benissimo di non sapere, perché il sapere non è tirare a indovinare e azzeccare la risposta giusta, ma essere in grado di render ragione di quello che si afferma.
Immagino che a questo punto chi legge si chiederà quanto sappia, e scoprirà di sapere molto poco. Bene, può consolarsi. Non solo lui o io, ma il più grande degli scienziati, al di fuori della sua sfera di competenza, ne sa più o meno come qualunque dilettante di media cultura, e saggiamente si fida di quello che ha imparato a scuola. Non c´è bisogno di scalare il Monte Bianco per sapere che è alto 4.810 metri, non c´è bisogno di andare a Wellington per sapere che è la capitale della Nuova Zelanda (e potremmo visitarla senza sapere che è la capitale), e soprattutto non c´è bisogno di farsi una scorpacciata di funghi velenosi per sapere che sono velenosi. E non finisce qui. Perché certo non si può vivere senza sapere, ma uno degli insegnamenti più importanti di una epistemologia aggiornata è che ci sono ampie sfere della nostra esperienza che possono svolgersi senza sapere, almeno nella versione esigente che ho esposto. Se io chiedessi a qualcuno perché gli piaccia un quadro, un romanzo o una persona, e lui mi rispondesse "non lo so", non potrei obiettargli granché, mentre non c´è bisogno di essere un epistemologo per diffidare di un medico che, alla domanda sul perché ci abbia prescritto una determinata terapia, ci rispondesse "non lo so".


l’Unità 6.1.11
Destra israeliana contro gli attivisti per i diritti umani


Il partito di destra Israel Beitenu ha chiesto un’inchiesta parlamentare che faccia luce sui legami fra gruppi della sinistra ed organizzazioni internazionali «che mettono in questione la legittimità delle attività dell'esercito israeliano». Secondo Faina Kirschenbaum (la parlamentare che ha firmato l’ iniziativa) è necessario verificare i finanziamenti stranieri a gruppi di difesa dei diritti civili come Mahsom Watch (che documenta il comportamento dei militari ai posti di blocco), Rompiamo il silenzio (che denuncia episodi di brutalità dei soldati nei Territori), nonchè Betzelem, Yesh Din e Adala (che raccolgono informazioni su violazioni dei diritti civili dei palestinesi e degli arabi in Israele). Il leader di Peace Now, Yariv Oppenheimer, ha definito l’iniziativa «una vera caccia alle streghe», anche se la sua organizzazione non è entrata per ora nel mirino di Israel Beitenu.

l’Unità 6.1.11
Beccaria: «La lingua di Berlusconi? L’aziendalese, il barzellettese... Un disastro»
Parla il linguista autore del libro «Il mare in un imbuto», edito da Einaudi «Ho difeso l’italiano per un vita. Le parole sono potenti, rasserenano e guidano ma plasmano anche il pensiero, canalizzano i sentimenti, la volontà, l’azione»
intervista di Roberto Carnero


Dove va la lingua italiana? Verso la globalizzazione, verso un lessico sempre più standarzizzato, in cui i termini stranieri (in particolare inglesi) la fanno da padroni. Eppure le parlate regionali e i dialetti, fino a qualche decennio fa da molti dati per spacciati, oggi tornano alla grande a informare di sé il nostro modo di esprimerci. Sono alcune delle riflessioni che sviluppa Gian Luigi Beccaria, uno dei maggiori storici della lingua italiana, docente all’Università di Torino, a partire dall’uscita del suo ultimo libro, Il mare in un imbuto. Dove va la lingua italiana (Einaudi, pp. 246, euro 18,00).
Una vita, quella di Beccaria, spesa a studiare e a «difendere» la lingua italiana. «La mia difesa ci spiega è rivolta all’interno di una comunità come la nostra, in cui insostenibile si fa spesso l’assedio delle parole, dalle quali dobbiamo talvolta anche difenderci, appunto, per riuscire, se possibile, a pensare anche con la nostra testa di fronte alla parole invadenti, che subiamo, che ci informano e ci attraggono, ma che anche ci travolgono. Perché le parole sono potenti, rasserenano e guidano, ma anche plasmano il pensiero, canalizzano i sentimenti, la volontà e l’azione». Professor Beccaria, qual è oggi il ruolo dell’italiano nel contesto mondiale ed europeo? Lingua dalle nobili tradizioni letterarie ma irrimediabilmente minoritaria oppure dotata di nuove chance per il futuro?
«Nel contesto mondiale, l’italiano, lingua di cultura e non “imperiale”, è ancora la lingua dell’arte, della musica. E lingua di una grande letteratura. Ma facciamo troppo poco per difenderla. Si pensi al decadimento dei nostri Istituti di cultura all’estero. In Europa, la cui Unione comprende ora tante lingue, l’italiano dovrebbe contare di più, all’interno di una scelta pluralistica che non privilegi totalmente l’inglese. A Bruxelles dovremmo essere inseriti almeno tra le cinque o sei lingue “ponte”, perché oggettivamente noi siamo da annoverare tra le lingue “utilitarie”, grazie alla capacità di svolgere notevoli funzioni pratiche di comunicazione anche fuori dei nostri confini».
Pasolini profetizzò la fine dei dialetti, della lingua della “strada”, a vantaggio di quella che è stata definita “lingua standard” o anche “lingua standa”, vista come termine di approdo negativo ma ineludibile. La profezia pasoliniana si è compiuta? «Sì, la profezia di Pasolini si è compiuta. Ma se una qualche malinconia può a volte aleggiare tra le mie pagine, quando penso al perduto, certo l’asse portante della mia ricerca è tutta volta al presente, a “che lingua fa oggi in Italia”, nel bene e nel male. Ho cercato di metterne in luce la superstite vitalità e vivacità, che spesso si annida anche nei linguaggi giovanili, e negli stessi
mass-media».
Quale apporto produce, sul piano linguistico, la presenza sempre più massiccia nel nostro Paese di cittadini immigrati? Si risentono già influssi in questo senso?
«Oggi purtroppo arriva poco, rispetto ai grandi apporti, fondamentali, che in passato hanno dato alla nostra lingua le lingue straniere. Si pensi soltanto agli arabismi nel campo della matematica, della chimica, dell’astronomia, dell’agricoltura. Oggi, dal mondo degli immigrati islamici, non riceviamo più parole, salvo quel derelitto e derisorio “vu’ cumprà” che ci testimonia quanto il modo povero e oscuro dei gruppi extracomunitari in Italia sia privo di prestigio sociale e culturale. Non assimiliamo quasi nulla da loro».
C’è chi sostiene che, con il passaggio, negli anni Novanta, dalla prima alla seconda Repubblica, sia entrato in crisi anche il cosiddetto “politichese”, a vantaggio di una comunicazione più semplice e immediata dei politici con i cittadini. Le chiedo se è così e, in caso affermativo, se questa trasformazione sia positiva o non sia piuttosto negativa, rivelando un impoverimento dei contenuti ideali della vita politica.
«Si possono mettere a confronto gli anni del compromesso storico, i linguaggi sfumati, cauti e spesso raffinati di quegli anni (“cauti accostamenti”, “equilibri più avanzati”, “convergenze parallele” ecc.), le contorsioni della sinistra radicale (“radicarsi nelle masse”, “calarsi nella prassi”) e la volontà della cosiddetta seconda Repubblica di parlare alla gente, la nascita dunque del “gentese”, come l’ha battezzato la stampa: un processo certo di svecchiamento, verso una maggiore disinvoltura e un maggiore contatto, i toni più parlati, meno colti, anche sbracati (penso alla Lega Nord). Ma secondo me l’oscurità del passato, giustamente combattuta, è risultata non più reazionaria dell’odierna semplificazione populistica, soltanto apparentemente amichevole e aperta».
E Berlusconi che italiano parla?
«Avesse una lingua sua Berlusconi, come l’aveva il suo predecessore triranno nel Ventennio, ricca e colorita, ce l’avesse..., e invece non ce l’ha. Il suo è l’aziendalese più scontato, il barzellettese più terra terra, il gentese meno frizzante, il gestualese più bambinesco (le corna, cucù...), tutto battute, slogan, tormentoni (“comunisti, comunisti!”, uso cioè di un termine che oggi non ha più un fondamento reale), e parole-bandiera fondamentali (libertà, democrazia, giustizia) svuotate di ogni contenuto concreto! Una disastro, un’ambiguità senza fine... Ogni tanto cerca di tirarsi su, nobilitando il suo povero parlare con un po’ di altezze latine, citazioni (ha detto un giorno di voler riformare lo stato “ab imis”), e usa anche toni messianici, un po’ di lessico religioso (“l’unto del Signore” che compie in tempi grami la “traversata del deserto”, a metà tra rally e Bibbia, commentava uno spiritoso giornalista)».
Prima anncennava alla Lega. Che cosa pensa della sua insistenza sui dialetti? «La Lega porta tronfia il vessillo della difesa delle tradizioni locali e dei dialetti, eppure il dialetto non sta scomparendo, anzi.
Questo perché, se devo dirla tutta, sono proprio iniziative demenziali come quella, ventilata di tanto in tanto da qualche esponente leghista, di imporre l’insegnamento scolastico obbligatorio del dialetto del luogo a far morire questa tradizione espressiva. Che invece si vivifica nelle forme spontanee e nelle sedi non istituzionali. Tra i giovani, oggi vengono usati termini del dialetto, parlando ma anche scrivendo (mail, sms eccetera.), in chiave ironica o affettuosa. Trovo terribilmente provinciale anche l’idea di regionalizzare il reclutamento degli insegnanti. Così si perde la ricchezza che viene dallo scambio tra le regioni. Tutti qui al Nord abbiamo avuto insegnanti meridionali. E molti di loro sono stati fantastici».

Terra 6.1.11
Il cuore profumato
dell’Arabia Felix batte ancora
di Federico Tulli

qui
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