sabato 31 dicembre 2011

l’Unità 31.12.11
Immigrati
Un giorno davanti alla scuola
Per l’Istat entro 50 anni gli stranieri saranno un quarto della popolazione.
In classe è già tutto chiaro. Sono una fortuna che arriva dal mare e noi respingiamo.
di Francesco Piccolo


Nel 2065 gli immigrati saranno il 25% così ci dice lo studio demografico dell’Istat. Ogni lettore che ha incamerato questa notizia, sembra si debba chiedere: È una notizia buona? È una notizia cattiva? Sembra che in sintonia con il suo grado di civiltà, ognuno sappia darsi una risposta. E invece sono le domande che non funzionano, a prescindere dalla risposta. Siamo dovremmo essere più avanti. Anzi: siamo più avanti, senza saperlo ancora bene (o averlo accettato). Non sto parlando della politica dell’immigrazione: in quella siamo indietro anni luce ma non c’è da scandalizzarsi troppo: la politica dell’immigrazione è immobile e vetusta come la quasi totalità delle scelte politiche italiane. Ma guardiamo un po’ alla realtà: le nostre scuole sono il luogo giusto per guardare al futuro che è già presente, per comprendere che ciò che costituisce una delle grandi questioni in Europa negli ultimi decenni, in realtà è già un dato di fatto. Basta mettersi davanti all’uscita, e si assiste all’integrazione già avvenuta. Se poi l’integrazione è fatta anche di insulti, prese in giro, e razzismi sotterranei, questo fa parte del cammino. Pian piano, diminuiranno. Gli insulti tra compagni di scuola, se sei basso o hai l’accento diverso o hai i brufoli o la pella nera o vestiti fuori moda, ci stanno. Sono errori, ma ci stanno. Fanno parte della spietatezza dei bambini e degli adolescenti che però attraverso quella spietatezza imparano ad accettare il mondo. Imparano la diversità individuale attraverso il conformismo, imparano ad accettare gli altri (e se stessi) attraverso un pregiudizio facile ma il pregiudizio facile è facile anche da disinnescare. Quindi, il risultato concreto della realtà italiana è quello solito: la politica dell’immigrazione deve inseguire un avvenimento già costitutivo e la speranza è che non sia ancora così nel 2065, quando un cittadino su quattro sarà straniero, e le leggi lo penalizzeranno ancora. La politica dell’immigrazione tenterà ancora di respingere il dato acquisito, la convivenza già in atto, la partecipazione economica e sociale di chi non è nato qui? In più, c’è la questione ancora più evidente di chi è nato qui ma non è considerato italiano: perfino il Presidente della Repubblica è dovuto intervenire per esasperazione, contro l’illogicità dei fatti. Ma l’illogicità dei fatti racconta allo stesso tempo la distanza tra la teoria e la realtà dell’immigrazione in questo paese.
Da una parte, quindi, l’immigrazione è un avvenimento in fase di continua evoluzione, certo, ma nella sostanza già digerito dal sistema, grazie alle seconde e alle terze generazioni. Da un’altra parte, la storia insegna che ciò che sta avvenendo in Europa in questi anni è sempre avvenuto, riguarda gli italiani direttamente sia quando accolgono sia quando sono accolti. Le migrazioni nelle Americhe, le migrazioni in cerca di lavoro dal Sud tutte cose che ripetiamo come una cantilena, perché le sappiamo. E allora perché le ripetiamo?
Perché accanto a un sistema che è già in atto, e che porterà tra cinquant’anni a una proporzione tra italiani e stranieri (diciamo così) impossibile da dipanare (finalmente), i freni che si vedono sono più violenti, insensati, evidenti. Questo paese non è razzista. Ma all’interno di questo paese, i razzisti sono sempre più feroci, perché sentono che stanno perdendo. L’Italia non è quella che vuole far credere la Lega, e non lo è soprattutto nei luoghi dove la Lega prospera. Ma proprio per questo motivo, cresce la violenza teorica contro l’immigrazione.
Tutto questo ha un fatto di cronaca esemplare. Se ci si ferma davanti a una scuola, all’uscita degli alunni, si vede un paese. Se però si guarda ai fatti di cronaca, il paese è un altro. Ed è quello che, per forza di cose, bisogna ancora usare come fermo immagine esemplare anche se non lo è più, non può esserlo più.
“Due morti, Samb Modou e Diop Mor, tre feriti gravi, tutti senegalesi: è questo il bilancio del pomeriggio di sangue a Firenze scatenato da Gianluca Casseri”

il Fatto 31.12.11
Quanto ci separa dal “prima”
di Furio Colombo


Su questa scena si vedono tre personaggi: chi governa, la politica e il popolo. C'è una relazione strana fra i tre. Oscilla tra speranza e sospetto, tra giudizio positivo di attesa e preventiva condanna. Questa oscillazione divide la politica tra favorevoli e contrari a chi governa, ma ciò avviene lungo linee che non corrispondono ai partiti o alle idee (non oso dire “ideologie”) e che dunque lascia tutto in sospeso, perché al momento ogni conta è impossibile. Però alla politica, qualunque essa sia, certa o incerta, in movimento verso nuove aggregazioni o immobile, si sovrappone l'immagine della politica, che è pessima. Il problema è molto più grave di ciò che si definisce “anti politica”. Si tratta della diffusa percezione di un fallimento, di un vuoto pauroso, anche da parte di chi non pensa che tutto sia marcio e corrotto, ma ha capito che quel tutto, in ogni caso, non funziona, gira su se stesso, afferma e nega, promette e dimentica, persino se non c'è il sospetto o la denuncia di un tornaconto. È chiaro, però, che quando una macchina si inceppa in modo così grave e prolungato, il problema non è più se tutta questa gente immobile sia troppo pagata o troppo poco onesta, il problema è l'impressione, pericolosa e terribile, che non serva, che se ne possa o debba fare a meno. Nel migliore dei casi, che non fa differenza.
POI C'È IL POPOLO. Esso appare in tre vesti: la prima è quella degli indignati, che non hanno predilezioni tra governo e opposizioni, fra una soluzione e l'altra. Sono stati a lungo delusi e intendono dichiararsi fuori e dire “no” comunque. La seconda incarnazione è quella di sostenitori e militanti delle coalizioni contrapposte, sui quali si esercitano ogni settimana i più validi sondaggisti. Ma tutti gli oroscopi sono oscuri perché le coalizioni sono o potrebbero essere frantumate, neppure chi dice “sì” e “no” a una parte o all'altra sa chi sarà assente, presente o nuovo arrivato, o se ci sarà un rimpasto profondo delle alleanze, al punto da spostare i pezzi del gioco. La terza incarnazione è quella di chi risponde per sè, non per uno schieramento che non è più sicuro di conoscere. E perciò questa terza incarnazione ci rivela un popolo che si astiene o non vota nella percentuale mai vista del 45 per cento. Se questa descrizione è attendibile, tutta l'attenzione torna, nel caso italiano, a spostarsi sul governo detto “tecnico”, professori, banchieri, managers. Nei giorni scorsi un giornale americano ha provato a stimolare i lettori sul come è nato questo governo tecnico, e ha immaginato che la Cancelliera tedesca lo abbia imposto con richiesta perentoria, al presidente italiano. Persino in un film sarebbe un modesto copione che probabilmente il produttore pregherebbe di riscrivere.
Perché oscura del tutto il fatto che la politica italiana (qualunque cosa sia e da qualunque parti la si giudichi) aveva fermato le macchine, non per un giorno ma per più di due anni, proprio in periodo di pericolo estremo che è stato definito più volte “del precipizio”. Dunque il “governo tecnico” è apparso una necessità' al modo in cui lo è una ingessatura in caso di frattura scomposta. Infatti ciò che è accaduto in Italia è un fenomeno senza precedenti o analogie da invocare non tanto o non solo per la natura anomala e stravagante del berlusconismo quanto per il disciplinato e rigoroso silenzio stampa, grandi e piccoli giornali e TV che si sono impediti di notare eventi clamorosi, ridicoli, assurdi, vistosamente pericolosi, mentre il resto del mondo vedeva, prendeva nota e detraeva ogni volta dalla quota di affidamento e fiducia. Infatti ciò che è stato giustamente addebitato all'Italia non era la vistosa anomalia psichica di un insieme di personaggi che, in posizione di responsabilità, andavano da Gasparri a Brunetta, da Bossi a Sacconi e il loro continuo trasmigrare ogni giorno dalla sottomissione religiosa al voto do fiducia sulla prostituzione minorile. Era il fatto che il resto della classe dirigente, imprese,managers, due sindacati su tre, tutta la stampa, prendessero e commentassero come vero l'intero pacchetto del non governo berlusconian e non si permettessero di ridere sulle “leggi inutili” bruciate col lanciafiamme in prima serata o di denunciare con allarme la totale mancanza di attenzione alla crisi economica, mentre minacciava l'Italia un fenomeno distruttivo come le guerre, ma affrontato con demente allegria. Ma intanto anche l'opposizione restava al suo posto, persuasa che fosse meglio assecondare il vento folle che devastava l'Italia e allarmava il mondo, con il buon comportamento nelle commissioni e in aula. Per questo, per forza, arrivano i tecnici. E allora ci sono due domande inevitabili per la nuova, durissima opposizione di Di Pietro. Una è se, qualunque sia il giudizio, si possa combattere fianco a fianco con la Lega. I sindacati hanno le loro forti ragioni di opposizione come difesa del lavoro ma nessuno potrebbe confonderli con Calderoli. L'altra è che la Lega della persecuzione ai Rom e agli immigrati, degli affondamenti in mare e del trattato con la Libia, ha molto da temere da una situazione di libera Informazione (si vedano adesso i prImi flash sulla vita privata del Trota) ma poco da perdere. Perché Bossi si è attenuto, più o meno con tutti i suoi, alla regola berlusconiana di sbarazzarsi della reputazione, che non ha. Di Pietro invece ha costruito un movimento politico importante sulla sua reputazione di giudice.
E HA CONDOTTO finora molto bene la sua battaglia. Ma se accusa di “televendita” il governo che ha bloccato il disastro di Berlusconi e si associa a Calderoli nelle affermazioni tipo Pontida, quale sarà il suo spazio (e la sua reputazione) nella politica che dovrebbe venire dopo? E a cosa serve ripetere che “passeremo la parola al popolo” se la politica continua a difendere in modo ermetico solo se stessa? Che cosa si aspetta dal popolo? Si allarga la distanza e si rafforza “l'altra protesta”, che non vuole legami con la politica di un tipo e dell'altro, che c'era prima. Adesso la prova più importante è il grado di separazione da quel prima.

Repubblica 31.12.11
L’anno che verrà gli italiani tra paure e sogni
Italiani mai tanto pessimisti su economia e politica ai "tecnici" l’ultima fiducia
Quattro su dieci vedono il 2012 più nero del 2011
Demos rileva insoddisfazione record (80%) per i rappresentanti istituzionali
Il 66% del campione confida che Monti ci porterà fuori dalla crisi. Ma gli scettici crescono
di Ilvo Diamanti


Sull´orlo del 2012, gli italiani vorrebbero ritrarsi. Fermarsi sulla soglia. Ma l´anno lasciato alle spalle, carico di problemi insoluti, li spinge oltre. Il sondaggio di Demos li rappresenta così. Insoddisfatti e depressi per quel che è successo nel 2011. Inquieti e, anzi, impauriti da quel che li (ci) attende nell´anno che sta per iniziare. Le cifre, per quanto aride, a volte, parlano più delle parole. Nove persone su dieci (tra quelle intervistate) ritengono che nel 2011 l´economia italiana sia peggiorata. E quattro su dieci pensano che nel 2012 peggiorerà ancora. Quasi metà degli italiani valuta negativamente la situazione del proprio reddito nel 2011. Un terzo teme che, nel corso dell´anno prossimo, sia destinata a degradarsi ancora.
Appare generalizzata (quasi l´80%) anche l´insoddisfazione verso la politica italiana, infetta dalla mala pianta della corruzione. Che, secondo il 37% del campione, è destinata ad aggravarsi ulteriormente. Solo l´atteggiamento verso la sicurezza "personale" sembra più disteso. Soprattutto in prospettiva futura. Ma si tratta di una visione distorta, in quanto l´insicurezza economica oggi sovrasta la "paura" degli altri: immigrati e criminali, che, nella rappresentazione sociale, spesso, coincidono. Non si tratta di un sentimento nuovo. È da qualche anno, infatti, che il lavoro, il mercato, l´economia oscurano l´orizzonte emotivo degli italiani, mettendo in secondo piano gli altri problemi. Tuttavia, quest´anno il pessimismo ha superato, per intensità, ogni livello raggiunto in precedenza. Basti considerare la differenza tra le attese positive e negative nei confronti del 2012. Il segno meno prevale in tutti i campi, ad esclusione - di nuovo - della sicurezza personale e, inoltre della lotta all´evasione fiscale (un segno di fiducia nel nuovo quadro politico). Anche la qualità della televisione, secondo gli italiani intervistati da Demos, migliorerà, seppur di poco. D´altra parte, peggio di quel che si è visto negli ultimi anni…
Il pessimismo risulta, invece, particolarmente elevato riguardo all´economia nazionale e al reddito personale. E, inoltre, alla politica. Nel complesso, solo un quarto degli italiani "immagina" un 2012 migliore dell´anno - orribile - ormai finito. E´ un segno che ormai resta poco spazio anche per l´"immaginazione".
La distribuzione di questi orientamenti nella popolazione non presenta particolari differenze. Il pessimismo contamina un po´ tutti gli strati sociali, senza distinzioni di età, ceto, professione, territorio. In qualche misura, si tratta di un riflesso della svolta politica del 2011. Segnato dalle dimissioni di Silvio Berlusconi. L´Uomo dell´Ottimismo-a-ogni-costo. Colui che aveva negato, fino all´estate scorsa, la crisi. Al tempo di Berlusconi, il Pessimismo era considerato un´ideologia eversiva, sinonimo - e anche peggio - del Comunismo. Perché le attese non contribuiscono solo ad accelerare il corso degli eventi, a tradurre le aspettative in fatti. Ma, nella visione del Cavaliere, le immagini coincidono con la realtà. Si sovrappongono ad essa. Tanto più se fra i due piani c´è coerenza. Se, cioè, le paure sono giustificate e provocate dalla realtà. Dalla crisi.
L´irruzione del Pessimismo ha, quindi, delegittimato Silvio Berlusconi e il suo governo, sottraendo loro spazio e credibilità. Assai più dell´azione esercitata dalle forze politiche di opposizione. Ma anche più della pressione dei mercati. Gli indici di borsa (per primo il famigerato Spread) e le stime delle agenzie di rating, semmai, hanno fornito alle nostre paure una simbologia - oscura la sua parte, come ogni rituale. Hanno, quindi, contribuito ad alimentare un´inquietudine tanto più acuta perché scandita da "misure" in-comprensibili. Ma si sa: quel che è misurabile esiste. "È". Per cui venire declassati, perdere la tripla o la doppia A, anche se non si capisce cosa significhi, sconcerta e disorienta. E, quindi, opprime di più.
Anche per questo, nonostante tutto, in mezzo a tanto pessimismo, Mario Monti mantiene uno spazio di "fiducia", altrimenti poco comprensibile. È difficile, infatti, far coesistere nella stessa popolazione due opinioni tanto distanti fra loro. Da un lato, la convinzione che l´economia nazionale e il reddito delle famiglie peggioreranno. Dall´altro, la fiducia il governo Monti ci condurrà oltre la crisi. È ciò che pensano i due terzi degli italiani. Certi che il governo tecnico ci guiderà al di là delle nebbie, fino a un porto sicuro. Proprio perché è un "tecnico". Sa parlare ai mercati, in tempi di dominio dei mercati. Sa parlare ai tedeschi, in un´Europa governata dai tedeschi. Gli italiani si fidano di Monti perché non finge di essere "uno di noi". "Come noi". D´altronde, non lo è neppure Berlusconi, autonominatosi narratore di "una storia italiana" esemplare. Figurarsi: con tutti quei soldi, quegli interessi, quelle ville. Con tutte quelle donne e donnine. Semmai, poteva raffigurare gli istinti e i desideri più o meno confessati da molti italiani nell´era dell´opulenza. Prima che il Pessimismo si abbattesse sul Paese. Mario Monti e i suoi ministri "tecnici", invece, non somigliano all´italiano "medio". Non tentano di imitarlo. E gli italiani non chiedono loro di trasformare i sogni in realtà. Ma più semplicemente: di "parlare ai mercati". Di costringerci a fare ciò che i politici - troppo simili a noi, troppo dipendenti dal nostro "consenso" - non sono in grado di imporci. Monti e i governo tecnico: sono popolari proprio perché im-popolari. Rappresentano un´èlite diversa e distante dal "popolo". D´altronde, nel 2012 ci attende un percorso difficile, attraverso la crisi economica e politica, senza mappe e senza bussole in grado di orientarci. Senza stazioni e senza destinazioni certe. D´altronde, è finita l´epoca della fiducia nel futuro. Nello sviluppo senza limiti trascinato dal mercato. Ed è finita l´epoca del Grande Imprenditore, ma anche del Politico. Neppure i Magistrati, i Garanti della Virtù - Pubblica e Privata - emozionano più. Per sfidare il pessimismo che avvolge il 2012 ci si affida, invece, ai Tecnici. Con poco entusiasmo. Con un sentimento di fiducia "obbligata". Per necessità più che per scelta. Lo spirito con cui si va dal medico quando si sta male.
Ai Tecnici che parlano il linguaggio dei fatti, tuttavia, gli italiani chiederanno i fatti. Fra un po´. Perché, in tempi di emergenza, l´Ottimismo-a-prescindere può attendere. E, anzi, va messo da parte, insieme ai suoi ideologi. Ma se perdurasse il Pessimismo "realista" (e del suo reciproco: il "Realismo" pessimista), allora neppure i Tecnici potrebbero sopravvivere a lungo.

l’Unità 31.12.11
Gli indignati
Quella rabbia anti-potenti che inizia con Giovenale
Il poeta latino è il primo campione dell’indignazione: uno che di sé diceva
di non avere talento ma tanta rabbia. Ma arrabbiarsi è di destra o di sinistra?
di Massimo Adinolfi


Decimo Giunio Giovenale: la storia la si può far cominciare da lui. D’accordo, è prenderla un po’ alla lontana, poco meno di un paio di millenni, ma forse serve per guardare sotto l’ondata di indignazione che ha investito l’Occidente. Dopo la primavera araba, dagli Indignados di Puerta del Sol a quelli di Occupy Wall Street, passando per le manifestazioni di Roma o di Parigi, un po’ ovunque si è riversata in strada la sacrosanta protesta contro le ingiustizie e le diseguaglianze sociali, spesso mescolata con un’aspra critica, dai tratti populistici, dei privilegi della casta dei politici o delle oscure trame degli gnomi della finanza. L’indignazione infatti è questa roba qua: l’invettiva a sfondo prevalentemente morale come arma di mobilitazione e critica del potere. Indignato è colui il quale, prima ancora di dedicarsi all’analisi complessa delle cause e delle condizioni, si solleva contro lo scandalo dell’ingiustizia. E fa bene, almeno secondo Aristotele, che collocava lo sdegno nel giusto mezzo fra la nera malevolenza di colui il quale gode delle disgrazie altrui, la gialla invidia di chi soffre per la fortuna che arride agli altri. L’indignato si addolora sì per il successo altrui, ma solo quando è ingiusto, quando non vi è ombra di merito. Il che è un bene, perché dimostra che la coscienza morale non è ancora del tutto anestetizzata.
La coscienza morale: ma la coscienza politica? Per quello conviene dare un’occhiata ai temi che sollevavano lo sdegno del primo campione dell’indignazione, Giovenale appunto, uno che di sé diceva di non avere particolare genio artistico e letterario, ma solo tanta rabbia.
Si natura negat, facit indignatio versum. Che grosso modo vuol dire: anche se non ho un talento naturale, sono così incazzato che non posso non scrivere. E di cosa scriveva, Giovenale? Più o meno: di Roma ladrona, dei favoritismi e dei parassitismi dell’amministrazione pubblica, dei privilegi degli uomini vicini al potere, della cortigianeria e dell’insincerità. Fin qui tutto bene. Sono di quelle descrizioni per cui uno dice: niente di nuovo sotto il sole! Ma insieme a questi temi si legge nelle Satirae anche l’elogio del buon tempo antico, il rimpianto per la sana vita di provincia, l’insofferenza nei confronti degli immigrati e l’invettiva contro il lassismo morale, nutrita di misoginia e omofobia.
Tirando le somme: un impasto di sensibilità civile e di forte conservatorismo. Il che spiega benissimo come possa accadere ancora oggi che giornalisti con pedigree autorevolissimi, ma inequivocabilmente di destra, diventino paladini dell’opinione pubblica progressista. E soprattutto, aiuta a porre l’antica domanda: ma indignarsi è di destra o di sinistra?
Collocando la doccia a sinistra e il bagno caldo a destra, la Nutella a sinistra e il cioccolato svizzero a destra, Giorgio Gaber ha quasi ridicolizzato la domanda. E siccome per molti, compresi molti indignati, questa domanda non ha più motivo d’essere, possiamo pure metterla (provvisoriamente) da parte. Non possiamo però rinunciare a capire. O almeno a chiedere se le categorie morali che l’indignazione brandisce, la distinzione fra bene e male, fra ladri e onesti, permetta davvero di descrivere i conflitti reali che attraversano le società occidentali, e la società italiana in particolare: nel mondo del lavoro, nel rapporto tra cittadini e istituzioni, nella sfera dell’istruzione e della formazione, e così via. Se si trattasse di bene e male, basterebbe eliminare il secondo per tenersi il primo: ma sono operazioni che riescono solo sulla carta (o in uno slogan). Nella realtà, le cose sono maledettamente più complicate.
Ora, l’indignazione targata 2011 ha preso di mira, in particolare, la finanziarizzazione dell’economia: di qui le manifestazioni davanti a Palazzo Koch o a Wall Street. E come non indignarsi per l’enorme quantità di zeri che accompagna le transazioni finanziarie, spesso al riparo da ogni forma seria di controllo e di tassazione? Proprio però uno dei guru del movimento, il filosofo sloveno Slavoj Zizek, ha spiegato che pensare di separare con un tratto di penna l’economia reale buona dalla economia finanziaria cattiva è una pia illusione.
In fondo, la finanziarizzazione incomincia con l’invenzione della carta moneta: c’è qualcuno che sogna di eliminare il denaro? Zizek, lui, vuol far la rivoluzione, ed il suo è un invito a rammentare che, per Marx, pure l’economia reale sta sotto il segno dello sfruttamento capitalistico. Ma tra la rivoluzione che abolirebbe il capitale e l’indignazione che abolirebbe le banche forse va trovato il modo ed il terreno per costruire una seria via di riforme. E soggetti politici che ne sostengano il cammino. Non per mollezza o condiscendenza, ma anzi per mettere un po’ di contenuto civile nella risposta che Marziale diede allo sdegnato amico Giovenale: Sic me vivere, sic me iuvat morire. «Così mi piace vivere, e così voglio morire».

l’Unità 31.12.11
Rivolte arabe
Un fruttivendolo sconvolse il mondo
Il 14 gennaio Ben Ali fugge cacciato dalla rivolta innescata dal suicidio del venditore di carote Bouazizi, uomo dell’anno per il Times. La protesta si propaga a primavera in Egitto e altrove. In Libia è la fine di Gheddafi, in Siria è guerra civile
di Umberto De Giovannangeli


l mondo aveva altro a cui pensare, quel 18 dicembre 2010. Ma quel giorno e l’uomo che ne fu protagonista segnano l’inizio della fine di un ordine costituito nel Maghreb e nel Vicino Oriente. Quel giorno ha inizio «l’89 arabo». Un giovane ambulante si dà fuoco, davanti all’edificio del governo tunisino a Sibi Bouzid, per protestare contro le autorità che gli hanno confiscato tutto e gli impediscono di lavorare. Mohamed Bouazizi – personalità dell’anno per The Times muore il 4 gennaio, quando è già diventato un eroe per le masse del mondo arabo, in particolare dell’Africa del Nord, strette da decenni nella morsa di regimi autoritari e corruzione endemica.
La sua Tunisia viene stravolta in poco tempo, ne fa le spese il presidente Zine El Abidine Ben Ali e la sua «corte», al potere da 23 anni: il 14 gennaio è costretto a lasciare il Paese, infiammato dalla rivolta. Il vento della primavera si propaga presto in Egitto, Libia, Yemen, Siria, Bahrein, con i governi costretti a fare i conti con vere e proprie rivolte, e in maniera minore in tutti i Paesi arabi. Lo strumento preferito dai dimostranti è internet: Twitter, Facebook, Youtube, diventano i nuovi «manifesti» per sfidare i regimi, indire manifestazioni, distribuire manuali per spiegare come confrontarsi con le forze di sicurezza.
L’89 arabo, che segna indelebilmente il 2011, è anche il portato di un mondo non più sommerso o silente, che s’impadronisce della scena per rivendicare un’altra globalizzazione: la globalizzazione dei diritti. Una rivendicazione che ridefinisce il senso stesso di appartenenza, non più centrata sull’elemento religioso o sull’individuazione del nemico da abbattere, ma calibrata su valori e principi che si percepiscono, e si vivono, come universali. È la forza della rivoluzione jasmine tunisina, come lo spirito che ha animato Piazza Tahrir, la «piazza della liberazione», divenuta il simbolo della rivolta egiziana. Ad eccezione di Libia e Siria, i regimi si sono sciolti come neve al sole in poche settimane: dove si è votato hanno vinto i partiti islamici, che ora dominano lo scenario in Tunisia, Marocco, Egitto. Si tratta per la gran parte di formazioni di ispirazione moderata, che fanno della libertà e della lotta alla corruzione la propria bandiera, e che sono chiamati oggi e nei prossimi mesi alla prova dei fatti. L’integralismo è in agguato, con le branche armate di Al Qaeda sparse in tutto il Nord Africa che si sono rafforzate economicamente e militarmente, grazie al contrabbando di armi cresciuto a dismisura. La diffusione di internet l’arabo è balzato in testa ai linguaggi più usati fa da contraltare, con migliaia di giovani che hanno «voglia di Occidente». In Libia non sono bastate le dimostrazioni di piazza: l’ostinazione di Muammar Gheddafi ha portato a un conflitto civile esteso nel quale ha giocato un ruolo importante la comunità internazionale, prima con l’imposizione della no-fly zone da parte dell’Onu, poi con l’intervento diretto della Nato. Nonostante lo schieramento di forze, ci sono voluti migliaia di morti per arrivare a vedere la fine del Colonnello, cruenta e per certi aspetti ancora misteriosa Gheddafi è stato ucciso in circostanze ancora non chiarite il 20 ottobre a Sirte -. Tolto di mezzo il raìs, la Libia ha di fronte a sè un lungo percorso per arrivare a consolidare la democrazia.
Anche in Libia i partiti e le fazioni islamiche giocano un ruolo importante, grazie al sostegno del Qatar, nuova potenza regionale esplosa di concerto con la Primavera araba.
In Siria la rivoluzione è in pieno svolgimento: l’Onu stima già 5mila morti e il regime di Bashar al-Assad, forte dei suoi legami storici con Russia e Iran, non sembra intenzionato a fare passi indietro o grandi concessioni sul piano democratico. È però nato un consiglio di opposizione, e anche un esercito di disertori. «Assad come Gheddafi», è il tam tam su Twitter. E mentre nel resto del mondo arabo si teme che dalla Primavera si passi a un inverno islamico, a Damasco si profilano nuove albe di sangue. Resta comunque, il 2011, l’anno della Grande Speranza araba. Quelle rivoluzioni non sono «anti», sono «per». Per la democrazia, per la libertà di espressione, per la giustizia sociale, per lo sradicamento della corruzione, per una idea di Islam che separi nettamente Stato e Moschea. Sarà molto difficile che quei «per» si realizzino tutti, e compiutamente. In questo, occorre esercitare il pessimismo della ragione.
Ma non vi è dubbio che quello della libertà è l’orizzonte a cui tendere. Una prospettiva che assume i diritti dell’uomo, le libertà politiche e di espressione come valori universali, ma non identifica quei diritti, quei principi con un modello, con stili di vita «occidentali». È la via arabo-islamica alla democrazia. La sfida epocale che il 2011 lascia all’anno che sta arrivando.

Corriere della Sera 31.12.11
Piazza Tahrir e il villaggio di Wukan
il Fruttivendolo e la Cina le nuove piazze del mondo
di Sergio Romano


Esistono avvenimenti che agitano la pubblica opinione, conquistano le prime pagine e i notiziari televisivi, restano per molti giorni sulla bocca di tutti.
Ma non sono necessariamente importanti. Alcuni di essi sono sopravvalutati.
Il matrimonio di William e Kate non cambierà la storia del Regno Unito. La nascita della figlia di Nicolas Sarkozy e Carla Bruni non cambierà quella di Francia. La maggior parte delle apparizioni papali segnala l'immobilità della Chiesa piuttosto che la sua evoluzione. Il G20 di Cannes, nello scorso novembre, è stato soprattutto una fiera delle vanità organizzata da Sarkozy in vista delle elezioni presidenziali francesi del prossimo aprile. Il lungo bisticcio americano sul certificato di nascita del presidente Barack Obama e sulla sua reale fede religiosa è soltanto un inutile psicodramma, privo di qualsiasi rilevanza politica.
Altri eventi sono molto meno decisivi di quanto avessimo immaginato o producono effetti alquanto diversi da quelli che avevamo previsto. Non credo, per esempio, che l'uccisione di Osama Bin Laden abbia decapitato Al Qaeda (una organizzazione priva di una forte struttura gerarchica) o inferto un colpo mortale al terrorismo islamico. Ma ha certamente avuto l'effetto di mettere bruscamente in evidenza tutte le contraddizioni e le ambiguità dell'alleanza fra gli Stati Uniti e il Pakistan. Il suicidio di un fruttivendolo tunisino nella città di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010 ha provocato le rivolte arabe dei mesi seguenti. Ma non sappiamo ancora quale sarà l'effetto di quelle rivolte sui sistemi politici e sugli equilibri della regione. Sappiamo invece, soprattutto dopo le grandi manifestazioni egiziane di piazza Tahrir, che le nuove tecnologie hanno cambiato le forme, lo stile e i metodi organizzativi di una protesta. Non è necessario fondare movimenti, organizzare associazioni, addestrare militanti, predicare la rivoluzione sulle colonne di un giornale. Se esiste un malumore diffuso ma generico e spesso incoerente, basta il turbinio nell'etere dei 140 caratteri di cui si compongono i messaggi di Twitter. Gli indignados di Madrid, i giovani americani di Zuccotti Park, gli inglesi accampati di fronte alla cattedrale londinese di Saint Paul e i manifestanti di Mosca dopo le ultime elezioni, hanno creato una nuova protesta, molto più «liquida», imprevedibile e inafferrabile di quelle del passato, ma forse, in ultima analisi, molto meno efficace.
Esistono altri avvenimenti del 2011 di cui non abbiamo sufficientemente pesato l'importanza? Nello scorso luglio, mentre il tetto del debito pubblico americano era oggetto di una discussione al Congresso degli Stati Uniti, in cui lo spirito settario di alcuni repubblicani e il desiderio di ferire la presidenza Obama prevalevano sull'interesse nazionale, un'agenzia cinese ha denunciato «un brinkmanship (equilibrismo sull'orlo dell'abisso) pericolosamente irresponsabile». Un Paese governato dal Partito comunista ha dato una lezione di finanza alla maggiore democrazia capitalista del mondo. Un Paese creditore ha richiamato all'ordine il suo grande debitore. Il paladino della non ingerenza negli affari interni dei singoli Stati si è permesso di pronunciare un giudizio d'irresponsabilità sul funzionamento della democrazia americana.
Non molto tempo dopo, tuttavia, un'altra notizia proveniente dalla Cina metteva in evidenza la straordinaria vulnerabilità della Repubblica popolare. A Wukan, un villaggio di pescatori della provincia meridionale di Guangdong, la gente è scesa in piazza per protestare contro la requisizione delle terre, lo strapotere della burocrazia locale, le vessazioni poliziesche del regime. Nulla di nuovo. Sappiamo che nella Repubblica popolare le proteste contro gli espropri di terre agricole e contro la creazione forzata di aree industriali, sono da qualche anno, letteralmente, migliaia. Ma questo è il primo caso in cui gli abitanti di un villaggio hanno rifiutato di sottomettersi alle intimazioni della polizia, hanno resistito, hanno creato una Comune autonoma e hanno costretto le autorità a levare l'assedio. È questa la via cinese alla democrazia? O è soltanto l'occasione per un nuovo giro di vite?
Una nuova notizia, nel frattempo, segnalava il cambiamento delle gerarchie mondiali. Nel corso del 2011 il Brasile di Lula da Silva e Dilma Rousseff (il passaggio dei poteri ha avuto luogo in gennaio) ha superato la Gran Bretagna nella graduatoria delle economie mondiali. Il sorpasso ci sembrerebbe meno importante se non sapessimo che nel corso dell'Ottocento e buona parte del Novecento la Gran Bretagna è stata il necessario interlocutore industriale e finanziario delle economie latinoamericane. La dottrina di Monroe, con cui gli Stati Uniti volevano riservare a sé stessi il controllo egemonico della parte meridionale del continente, non ha mai impedito alla Gran Bretagna di dominare i mercati dell'America Latina. Altri allievi, nei prossimi anni, supereranno il maestro.

La Stampa 31.12.11
Pechino si trova di fronte al dilemma dello yuan
di Wei Gu


Pechino si trova a un bivio senza un’apparente via d’uscita. Un ulteriore apprezzamento dello yuan renderebbe più probabile il rischio di un atterraggio duro sul fronte economico, poiché la valuta cinese non è più sottovalutata. Ma i politici Usa non sono dello stesso parere.

Se la bilancia commerciale riflette il valore di una moneta, allora lo yuan è piuttosto vicino al suo valore equo. La posizione commerciale riflette l’elevato tasso di inflazione interna, che ha lo stesso effetto economico di un aumento del tasso di cambio. La Banca dei Regolamenti Internazionali calcola che il valore reale dello yuan, considerando il tasso di cambio effettivo corretto per i prezzi al consumo relativi, sia aumentato del 5,3% nel 2011. Un altro indicatore di equilibrio è dato dalla riduzione delle riserve in valuta estera. Secondo un economista del governo queste riserve sono diminuite nel periodo da settembre a novembre, mentre a ottobre gli acquisti di valuta estera della banca centrale si sono ridotti per la prima volta dopo quasi otto anni. Per molti anni, gli investitori esteri hanno cercato di acquistare yuan e titoli denominati in yuan perché vedevano la valuta cinese come una scommessa vincente. Oggi, tuttavia, sembrano avere cambiato idea. Il mercato offshore dei forward sullo yuan indica che gli investitori esteri si aspettano un deprezzamento dello 0,4% per l’anno prossimo. Allo stesso tempo il piccolo mercato delle azioni B, utilizzato prevalentemente dagli investitori esteri, ha ceduto il 14% a novembre, contro una flessione dell’8% del listino principale. I politici di Washington si rifiutano di riconoscere questo cambiamento. Il presidente Obama ha avvertito che l’opinione pubblica Usa è sempre più frustrata dalla lentezza di apprezzamento dello yuan. Se però Pechino lasciasse salire eccessivamente la valuta, l’inevitabile inversione di tendenza sarebbe ancora più traumatica. E se i cinesi dovessero scegliere tra compiacere Washington e garantire la stabilità interna, opterebbero certamente per la seconda. Può darsi che Pechino non sia ancora pronta per una netta svalutazione dello yuan, ma nel 2012 ci sarà poco margine per un ulteriore apprezzamento.

Corriere della Sera 31.12.11
La prima cinese in orbita. E Pechino sogna già la Luna
I piani da superpotenza: «Lo spazio aiuta l'economia»
di Giovanni Caprara


MILANO — Il 2012 sarà spettacolare per la Cina nello spazio: ma non sarà solo spettacolo. Prima di tutto esibirà la sua prima taikonauta. Due giovani signore, trentenni sposate e pilote dell'aviazione militare, scelte tra 16 candidate, si stanno preparando e una di loro volerà sul laboratorio orbitale Tiangong-1 (Palazzo celeste) che ruota intorno alla Terra da settembre, assieme a un paio di colleghi. Il suo nome non è stato comunicato, ma farà parte di uno dei due equipaggi delle navicelle Shenzhou-9 e 10 che partiranno nei prossimi mesi e con soggiorni prolungati. Così, mentre su un'orbita ruota la stazione spaziale internazionale con americani, russi, europei, canadesi e giapponesi, su un'altra traiettoria si parlerà solo cinese.
Sarebbe sconveniente sorridere pensando che ancora nel 1963, quasi mezzo secolo fa, i sovietici spedivano lassù Valentina Tereskova, la prima signora del cosmo. I confronti con il passato non aiutano a capire la Cina di oggi. La taikonauta che sta per indossare la tuta è un altro simbolo attentamente preparato per mostrare la realtà e le capacità, non solo tecnologiche, del Celeste Impero. Come è stata altrettanto simbolica giovedì la presentazione del libro bianco per lo spazio approvato dal governo con il programma dei prossimi cinque anni. Anche nel 2000 e nel 2006 era stato preparato ma questa è la prima volta che viene ufficializzato. E sottolinea con le parole di Zhang Wei, il portavoce dell'agenzia spaziale CNSA, quattro obiettivi con altrettanti progetti già in corso di sviluppo: un potente razzo in grado di lanciare veicoli cosmici da 25 tonnellate, satelliti per i bisogni della Terra, voli umani ed esplorazione profonda dello spazio guardando a Marte. Aggiungendo pure l'esistenza di «un programma per lo sbarco umano sulla Luna» e l'interesse a «utilizzare lo spazio solo per scopi pacifici aiutando l'economia».
«Per questo — ha aggiunto Wei — abbiamo rapporti di collaborazione con 12 nazioni, soprattutto Paesi in via di sviluppo», precisando che la Cina ha venduto satelliti alla Nigeria, al Venezuela, al Pakistan, alla Bolivia, alla Bielorussia, all'Indonesia, al Laos. Inoltre si sta completando la costellazione del GPS cinese Beidou che soddisferà i bisogni civili e militari senza dipendere da costellazioni «straniere».
Ma Wei ha enfatizzato soprattutto i rapidi progressi compiuti negli ultimi anni; una marcia senza errori culminata il mese scorso nel doppio aggancio in orbita tra la navicella automatica Shenzhou-8 e il laboratorio orbitale Tiangong-1. Era la dimostrazione chiave che coinvolgeva tecnologie informatiche e capacità sensoriali di alto livello senza le quali non si poteva procedere. Essere una potenza spaziale significa padroneggiare tecnologie disseminate poi in varie forme nella vita quotidiana con le implicazioni economiche facilmente immaginabili. Secondo lo Space policy Institute di Washington, la Cina spende dai 2 ai 4 miliardi di dollari per l'attività spaziale, ma la valutazione reale (al di là del costo del lavoro) è giudicata impossibile perché militare e civile si fondono.
Lo spazio è soltanto una delle frontiere dove la Cina sfida l'Occidente. Oltre il riarmo con la nuova portaerei, collauda il supercaccia invisibile Chengdu J-20, dispone di un missile antisatellite, costruisce nuovi tipi di reattori nucleari con il Torio, governa il mercato delle tecnologie solari e il numero dei ricercatori è oltre il milione sfiorando il livello americano. Intanto nello spazio, ma non solo, Europa e Stati Uniti non riescono a esprimere strategie altrettanto precise. E non per colpa della crisi dal momento che i bilanci sono rimasti considerevoli.

Repubblica 31.12.11
Ora la Cina vuole la Luna "Il primo sbarco nel 2016"
Sfida a Usa e Russia: un piano per conquistare lo spazio
Pechino prepara il lancio di una nuova stazione orbitante e nuovi missili
Ma l’obiettivo è anche la nascita di un polo satellitare per la difesa
di Angelo Aquaro


NEW YORK - Se adesso gli americani tremano alla notizia che i cinesi vogliono la Luna, con un programma che promette il primo sbarco entro il 2016, mentre la Nasa proprio quest´anno ha chiuso perfino con gli Shuttle, devono dire grazie soltanto a se stessi. Fu durante la caccia alle streghe comuniste, negli anni ‘50, che lo Zio Sam sferrò un calcio nel sedere al colonnello Quian Xuesen, il cinese naturalizzato americano che per conto degli yankees era volato in Germania per strappare a un certo Wernher Von Braun i segreti balistici che il professore era andato fino ad allora raccogliendo per i nazisti. Quian, lo scienziato di punta del programma spaziale americano, fu accusato di simpatie comuniste, tenuto agli arresti per 5 anni e infine rispedito in patria. Per la gioia di Mao Zedong, che subito - era il 1956 - l´appuntò a capo della neonata Quinta Accademia del Ministero della Difesa, incaricata di stilare i primi piani per la Lunga Marcia nello spazio.
Ci sono voluti 55 anni ma quella Repubblica che è popolare soltanto di nome è finalmente pronta all´ultimo grande balzo in avanti. Il piano quinquennale, come nella migliore - o peggiore - tradizione comunista cinese, prevede il lancio di una nuova stazione orbitante (invece di utilizzare i servizi comuni della Stazione spaziale internazionale) e l´invio sulla Luna di una missione incaricata di raccogliere esemplari del satellite per riportarli a Terra per lo studio. In più, il dettagliatissimo programma disegna la costruzione di nuovi vettori per il lancio di astronauti e si riallaccia al precedente piano conosciuto: che ha tra i suoi obiettivi a più lungo termine lo sbarco su Marte.
Per la Nasa, ma anche per i russi, c´è poco da stare allegri. Certo: il piano è infarcito dalle solite rassicurazioni secondo cui «la Cina da sempre considera l´uso dello spazio per motivi pacifici e si oppone alla corsa agli armamenti nello spazio». Ma è chiaro che a questo punto Houston ha più che un problema. George W. Bush aveva giurato che gli americani sarebbero tornati sulla Luna entro il 2020. E alla vigilia della recessione aveva lanciato un programma chiamato Constellation che sarebbe culminato con lo sbarco appunto su Marte: il tutto alla modica cifra di 98 miliardi di dollari. Barack Obama due anni fa ha cancellato quel disegno faraonico definendolo "costoso, in ritardo e senza innovazione". Il risultato è che oggi la Nasa si ritrova letteralmente a Terra: e senza gli Shuttle ormai in pensione - nell´attesa che si sviluppi almeno quell´industria dei voli privati auspicata dal presidente - deve pietire uno strappo dalla Soyuz russa per mandare nello spazio i suoi astronauti che pendolano sulla Stazione spaziale internazionale. Come se non bastasse anche a Mosca hanno dovuto stringere la cinghia. E una serie di flop comincia ad aprire un inquietante interrogativo sulla sicurezza.
Intanto il Dragone ha fatto passi da gigante. Come sempre sulla pelle dei loro obbedientissimi sudditi. La Cina è più vicina alla Luna: ma chi conoscerà mai i veri numeri delle vittime di questa corsa? Appena una quindicina di anni fa il lancio sbagliato di uno dei missili Lunga Marcia (che dopo la morte di Mao erano stati de-comunistizzati col nome Freccia Divina) ha provocato la morte di almeno mezzo migliaio di civili. Ma tant´è. Oggi si celebrano solo i successi. Come il lancio nel 2003 di Yang Livei che ha fatto della Cina la terza potenza capace di spedire da sola un uomo nello spazio. O i 21 minuti di passeggiata spaziale nel 2007 di Zhai Zhigang.
Ma l´ascesa della Cina spaziale è anche l´ascesa della Cina militare: perché malgrado le rassicurazioni Pechino non distingue tra missioni civili e no e l´intero programma è gestito dal ministero della Difesa. È soprattutto l´ascesa di un terzo polo satellitare: con il progetto Beidou i cinesi stanno infatti mappando l´intero pianeta in una rete Gps che rivaleggerà anche qui con quella americana e russa. «Un piano che ha grandi implicazioni commerciali e grandi implicazioni di sicurezza» spiega l´esperto Andrew Ericksonn al New York Times: «Per essere una grande potenza spaziale e militare è necessario sviluppare un proprio sistema di navigazione satellitare». E non solo per fare in modo che i pendolari di Pechino e Shangai non si perdano più nel traffico.

Corriere della Sera 31.12.11
Le lacrime nord coreane e la psicologia della folla
risponde Sergio Romano


Come spiega la manifestazione di dolore e disperazione così evidente del popolo di Kim Jong-il? Sono i nord coreani così felici e riconoscenti al loro capo?
Luigi Bonvini

Caro Bonvini,
Qualche anno fa apparve contemporaneamente in alcuni Paesi europei (in Italia presso Longanesi) una biografia di Mao scritta da una dissidente cinese, Jung Chang, che aveva lasciato la sua patria per iniziare a Londra, con il marito inglese, una nuova vita. Una parte del libro era dedicata alle grandi celebrazioni funebri che furono organizzate in occasione della morte del «grande timoniere» nel settembre 1976. Quando il libro fu presentato a Milano, nel Circolo della Stampa, Jung Chang descrisse una riunione popolare di cordoglio a cui aveva partecipato e ammise di avere pianto e gridato il proprio dolore come tutti coloro che stavano attorno a lei. Lo fece probabilmente perché temeva di essere considerata un «nemico del popolo» e arrestata, ma anche perché capì che ogni diverso comportamento sarebbe stato in quel momento inconcepibile. La persona che rifiuta di partecipare a un sentimento comune e assume un atteggiamento distaccato e indifferente diventa un nemico. Il suo silenzio non è una manifestazione di riserbo e discrezione: è un atto di accusa contro coloro che lo circondano.
Esiste poi una forma di contagio studiata da un sociologo francese, Gustave Le Bon, in un libro del 1895 intitolato «Psicologia delle masse» che fu letto attentamente da tutti i dittatori del Ventesimo secolo. Le Bon sostenne che vi sono circostanze in cui la folla smette di essere una raccolta di individui diversi per opinioni, professione, sesso, e diventa una «folla psicologica» in cui ogni individuo perde la propria originalità e si trasforma in atomo di un pensiero comune. Secondo Le Bon non è necessario che gli individui siano riuniti in uno stesso luogo. Possono comportarsi come folla anche quando sono separati.
Perché questo accada, naturalmente, occorre una causa scatenante: una tragedia collettiva, la percezione di una minaccia incombente, il timore di un futuro improvvisamente incerto e gravido di pericoli, il sentimento di uno scopo da raggiungere con una mobilitazione generale. Siamo stati colpiti dalle manifestazioni nord coreane perché la liturgia era diversa da quelle con cui abbiamo maggiore familiarità. Ma ciò che è accaduto a Piongyang è solo formalmente ed esteticamente diverso da ciò che accade in piazza San Pietro, alla Mecca durante i pellegrinaggi musulmani, negli stadi, nelle piazze gremite da cortei sindacali, nei raduni degli evangelici americani, o in occasione di grandi funerali come quello della principessa Diana. In ciascuno di questi casi gli individui non esistono. Esiste la folla.

Repubblica 31.12.11
Ungheria, schiaffo dell’ultradestra a Usa e Ue
Il governo Orban mette le mani sulla Banca centrale: "Nessuno al mondo può dirci cosa fare"
Varate le nuove leggi liberticide: controllo dei giudici, bavaglio all’opposizione
di Andrea Tarquini


Berlino - «Nessuno al mondo può dirci come dobbiamo legiferare, se qualcuno tenterà di deviare la nostra traiettoria lo allontaneremo educatamente». Così ha parlato il premier nazionalconservatore ungherese Viktor Orban, ammiratore di Putin, Lukashenko e Berlusconi, autocrate che sfida il mondo, con uno schiaffo al Segretario di Stato Usa Hillary Clinton e al presidente della Commissione Ue José Barroso. Il Parlamento dominato dal suo partito (la Fidesz) ha varato senza dibattito le leggi liberticide: addio alla Banca centrale indipendente, voto dei legislatori senza discussione, condanna del Partito socialista (Mszp, opposizione) come «responsabile dei crimini del comunismo», leggi sulla religione che privilegiano i cristiani rispetto agli altri. L´opposizione è uscita dal Parlamento per protesta, e fuori sulla splendida Kossuth Tér, si è trovata di fronte molti dei giornalisti più famosi del paese, in sciopero della fame da 20 giorni contro la censura, soli al gelo, sorvegliati dalla polizia politica. Capodanno nero sul Danubio: il primo gennaio, dopo gli ultimi botti, Ue e Nato si sveglieranno come un condominio con un membro sgradito, un paese mitteleuropeo magnifico e vitale ma sulla via di una dittatura dal crescente fetore di fascismo.
«Siamo preoccupati per la democrazia in Ungheria», aveva scritto Hillary il 23 dicembre al governo ungherese. Testo tenuto segreto, solo ieri il quotidiano d´opposizione Népszabadsàg è riuscito a citarlo. Intanto la stretta va avanti, come una "marcia su Roma". Dal primo gennaio entra in vigore la nuova Costituzione nazionalclericale, che definisce l´Ungheria «nazione» (etnica, non di valori come Usa, Uk, Germania o Francia), e ai confini sugli scudi blu con le stelle europeee si legge «Ungheria» e non più «Repubblica ungherese». La Banca centrale sarà subordinata al governo. Quanto Fondo monetario internazionale e Ue chiedevano di non fare. La scelta mette l´Ungheria a rischio di default: Ue e Fmi hanno sospeso i negoziati per il credito indispensabile a non fare di Budapest la seconda Atene.
Non è finita: la nomina politica dei magistrati diventa sistema. I postcomunisti (Mszp appunto, affiliati in Europa alla Spd tedesca, al Ps di François Hollande, al New Labour britannico, al Pd italiano) sono «colpevoli dei crimini del comunismo». I giornalisti continuano a oltranza lo sciopero della fame. Vergognosamente ignorati dal resto d´Europa. Klubradio, il maggiore media indipendente, da domani tacerà: perderà le frequenze. Paura, diffidenza, sospetto, si diffondono nella società, molto peggio che sotto il cinico e tollerante regime tardocomunista di Jànos Kàdàr, al potere dal 1956 a poco prima della svolta avviata dalla rivoluzione polacca nel 1989. Sui social networks cogli paura di parlare di politica. Le comunicazioni online assaggiano intralci, al telefono di certi temi non si parla. Come diceva il grande regista Miklòs Jancsò in un suo bel film nella guerra fredda, «il silenzio scende sull´Ungheria». Ma opposizioni e società civile, con i pochi spazi di comunicazione che restano loro, chiamano a proteste in piazza dal 2. La loro organizzazione-ponte si chiama Szolidaritàs, come la Solidarnosc polacca di un´altra èra.
(Ha collaborato Agi Berta)

l’Unità 31.12.11
L’autunno d’oro della fisica italiana
Le scoperte sulla velocità dei neutrini e la particella di Dio hanno visto i nostri studiosi in prima fila
di Pietro Greco


I neutrini corrono più veloci della luce. Preceduta dal lancio di agenzia della Reuters che ha rotto l’embargo, la notizia appare sul sito arXiv.org, della Cornell University Library, in piena notte, nelle primissime ore del 23 settembre scorso. Ed è poi illustrata l’indomani in un seminario aperto al pubblico presso il Cern di Ginevra. È una notizia del tutto inattesa. Fosse confermata, sarebbe probabilmente la scoperta più importante in fisica dell’ultimo secolo e forse più.
Passano meno di due mesi e il 13 dicembre, sempre al Cern di Ginevra, viene annunciata il rilevamento di una serie importante di indizi che lasciano pensare che Lhc, la macchina più grande e potente mai realizzata dall’uomo, abbia scovato «il bosone di Higgs», la cossidetta particella di Dio, quella mancante che fa tornare i conti del Modello Standard delle alte energie, ovvero del modello con cui i fisici descrivono l’universo nella sua dimensione più piccola. Fosse confermata, sarebbe una scoperta da premio Nobel.
Quello del 2011 è stato, senza dubbio, l’autunno d’oro della fisica. Sono queste le due notizie scientifiche infatti che, nel corso del 2011, hanno titillato di più il nostro immaginario e che hanno avuto maggiore riflesso sui media di tutto il mondo. In termini tecnici si tratta di «quasi notizie», perché vanno entrambe confermate (lo saranno, probabilmente, nel corso del 2012). Ma, attenzione, non si tratta di «fattoidi», ovvero di invenzioni mediatiche, perché la sostanza c’è. Eccome.
La collaborazione Opera ha raccolto dati per tre anni prima di dare l’annuncio. I dati dicono che nel percorrere il tragitto di 730 chilometri tra il Cern di Ginevra e i Laboratori Nazionali del Gran Sasso (Lngs), attraversando la roccia senza essere fermati e neppure rallentati, i neutrini impiegano 60 nanosecondi meno di quanto impiega la luce a percorrere nel vuoto la medesima distanza. Nessuno, dal 23 settembre a oggi, ha trovato un difetto nell’elaborazione di questi dati. Anzi, il gruppo Opera li ha confermati con misure di tipo diverso. Ma, prima di dare per certa la novità, è giusto attendere almeno una verifica indipendente.
Allo stesso modo, i responsabili degli esperimenti Atlas e Cms hanno ottenuto dati che dicono che al 99,7% gli indizi rilevati in un intervallo di energia compreso tra 116 e 130 GeV indicano la presenza del «bosone di Higgs». Ma i fisici vogliono una probabilità non inferiore al 99.99994% prima di parlare di relativa certezza sperimentale. Per cui occorrerà attendere qualche mese e la raccolta di nuovi dati.
Dunque siamo in presenza di dati molto seri, anche se non definitivi, che hanno dimostrato – dopo anni di relativa calma – che qualcosa si muove nel mare della fisica. Nel caso del bosone, questo qualcosa che stabilizza un quadro, quello del Modello Standard delle alte energie. Nel caso dei neutrini superluminali, invece, genera «nuova fisica», ovvero spalanca la finestra su mondo imprevisto. Nel primo caso si conferma la potenza delle previsioni della teoria. Nel secondo caso si conferma la necessità di andare oltre le teorie consolidate.
Tuttavia queste due «quasi notizie» ci danno una certezza. Gli italiani sono al top della fisica mondiale. Gareggiano (in realtà, collaborano) da pari a pari con i migliori colleghi di tutto il mondo. E spesso primeggiano. E, infatti, leader dell’esperimento Opera, che coinvolge oltre 160 scienziati di tutto il mondo, è un italiano, Antonio Ereditato. Leader dell’esperimento Atlas e dell’esperimento Cms, ciascuno dei quali raduna centinaia di fisici di tutto il mondo, sono due italiani: rispettivamente Fabiola Gianotti e Guido Tonelli. Non sono i soli, per la verità: su sei esperimenti principali condotti su Lhc, ben cinque sono realizzati da gruppi guidati da italiani. D’altra parte pur essendo l’Italia al dodicesimo posto nel mondo per investimenti in ricerca, i fisici italiani delle alte energie sono terzi (dopo i colleghi di Usa e Germania) per produzione di articoli e per numero di citazioni.
Non c’è dubbio, dunque, non solo quello del 2011 è stato l’autunno d’oro della fisica. Ma è stato anche e soprattutto l’autunno della fisica italiana. Pochi se ne sono accorti. Ma in questi ultimi tre mesi i fisici italiani hanno dimostrato, con i fatti, di essere tra i più bravi del pianeta e hanno restituito al mondo un’immagine positiva del nostro Paese proprio mentre il mondo o rideva dell’Italia (letteralmente, ricordate il siparietto tra la Merkel e Sarkozy?) o tremava (causa collasso finanziario) a causa dell’Italia.
In questo autunno, dunque, la fisica è stata una sorta di ricostituente per il nostro Paese. Ha dimostrato al mondo che il nostro Paese può lavorare, con serietà ed efficienza, con gli altri e spesso meglio degli altri alla frontiera della conoscenza. E ha dimostrato a noi stessi che, se lavoriamo con serietà ed efficienza, ce la possiamo fare. Già a partire dall’anno che verrà, il 2012.

Corriere della Sera 31.12.11
Dodici giorni per rifondare il mondo
Il rito del nuovo inizio esiste da sempre. Ma ormai celebra l'energia della tecnica
di Emanuele Severino


Da centinaia e migliaia di anni prima della nascita di Cristo, vi sono dodici giorni, in ogni ciclo delle stagioni, che i popoli arcaici considerano sacri. I giorni dedicati alla rifondazione del mondo. Nelle società cristiane sono quelli che vanno dal Natale all'Epifania. Nel loro mezzo, il Capodanno, festeggiato dovunque. Soprattutto in quei dodici giorni, già quei popoli agiscono per ricostituire l'integrità e la vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che veniva chiamato l'«anno». Ripetono la creazione originaria compiuta dagli Dèi o dal Dio supremo.
Oggi i popoli credono sempre meno nel divino; ma la loro cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo profondamente diverso, i tratti essenziali. Tale cultura è la tecnica scientificamente orientata e controllata dalla produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede «energia». Il consumo di «energia» ne richiede il rinnovo, la reintegrazione. Richiede la ricostituzione del suo «fondo». La «rifondazione» del ciclo energetico ripropone la ripetizione umana della creazione divina. Il Capodanno può essere anche la festa del ciclo energetico.
Noi capiamo subito che l'«energia» si consuma e dev'esser rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di rifondare periodicamente il mondo? Se non si risponde, anche l'analogia tra tecnica e rifondazione mitica del mondo rimane sospesa nel vuoto.
Eppure quel bisogno è molto meno stravagante di quanto possa sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il concetto di «volontà» (un aiuto di cui non si approfitta adeguatamente non solo da parte delle scienze dell'uomo). Poi indicherò come le implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando — che non è per noi irrilevante, ma è anche il nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di vivere.
Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se non si vuole e si resta immobili, si muore. La volontà è la vita. Ma quando la volontà apre gli occhi non ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che non si lascia smuovere e trasformare: l'Inflessibile. Per il singolo è l'ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo «natura», ma che a essi si presenta, appunto, come la barriera di fronte alla quale l'uomo si sente impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia aprirsi un varco per riuscire a ottenere il voluto e dunque per vivere. Un varco nella barriera dell'Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza suprema, demonica, divina.
Nell'atto stesso in cui l'Inflessibile acquista per l'uomo il volto del divino, in quello stesso atto l'uomo, per vivere, deve quindi flettere l'Inflessibile, forzarne e penetrarne la barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo. Volendo essere «come Dio» Adamo vuole uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo rende «come Dio» Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l'uomo si senta colpevole, in debito. Il bisogno di vivere diventa bisogno di espiazione.
Ogni giorno, ogni ora, ogni istante facciamo esperienza di ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non si lascia spezzare, ci spegneremmo subito, la volontà, per ottenere, ha bisogno di spezzarlo, di agire sui frammenti, sulle parti del blocco. L'agire richiede l'isolamento delle parti dal blocco e tra di loro. Oggi si crede che anche la conoscenza sia «seria» solo se fa conoscere parti del mondo, non il «Tutto», vanamente inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama «specializzazione» la propria conoscenza delle parti. E la tecnica, da essa guidata, agisce sempre su parti. (Anche l'arte si chiude nel «frammento»). Adamo che vuol uccidere Dio ha già un'anima tecnica. La tecnica ha un'anima teologica. E il senso di colpa affiora anche nell'uomo della civiltà della tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria incapacità di realizzare uno «sviluppo sostenibile».
Per quanto ci dicono le scienze storiche si può dire che ogni forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al proprio centro il mito in cui lo smembramento del Dio è la condizione dell'esistenza del mondo. Dall'Oceania alla Mesopotamia, dall'India alle popolazioni germaniche e alle società greco-cristiane, i miti raccontano la creazione del mondo come effetto del sacrificio originario di un Dio, di una Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio: Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi, Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i Germani), Purusha e Prajapati (India), Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo.
La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell'uomo. L'uomo vive solo in quanto usa, consuma, gode le membra, le parti del Dio. Anche la morte di Cristo sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del mondo che era andato consumandosi e morendo in conseguenza del peccato. E nella Genesi si dice che Dio «si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto» e da cui era stato dunque consumato e indebolito.
Ma il divino rimane pur sempre la fonte della vita. L'esaurirsi della fonte è la morte dell'uomo, così come lo era l'inflessibilità originaria del divino. E la morte è il pericolo estremo da cui ci si deve difendere. Diventa quindi necessario che si restituisca al divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è stato consumato e non c'è più. È a questo punto che il genio religioso deve inventare il sacrificio compiuto dall'uomo (che assume anche la forma del sacrificio dell'uomo) come ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione del mondo. Acquisterà le forme più diverse, nei tempi e nei popoli, ma l'essenza della ripetizione del sacrificio divino e della fondazione divina del mondo è la consapevolezza della necessità che, per continuare a vivere, non venga spenta la fonte della vita.
Quando ci si convince che qualsiasi vittima offerta dall'uomo al Dio è radicalmente incapace di assolvere il compito gigantesco che le si assegna, allora diventa necessario credere che sia Dio stesso a farsi uomo e vittima con la quale Dio restituisce a se stesso quello che la violenza e il peccato dell'uomo gli ha tolto. E quando la filosofia, volendo «dire e fare cose vere», si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da cui sarà seguita), le sue prime parole (quelle di Anassimandro) diranno che il mondo, separandosi dal divino, dovrà necessariamente dissolversi in esso, scontando la pena dell'«ingiustizia» commessa con tale separazione — dove la separazione dal Dio è l'eco dello smembramento — sacrificio mitico del divino, e la pena da scontare è l'eco della ripetizione umana di tale sacrificio.
Quando, infine, nel nostro tempo, non si crederà più né negli Dèi del mito né in quelli della «verità», e la lotta contro la morte sarà affidata soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al consumo di questa Potenza, cioè al suo sacrificio, dovrà corrispondere una civiltà in cui le saggezze e sapienze del passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non contrastare il potenziamento indefinito della Tecnica.
Sin dagli inizi della storia dell'uomo il giorno del Capodanno, rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo alla vita, si sbarazza dell'anno vecchio, della «vecchia terra», ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia cadere nell'oblio. (Accade anche nel grande Capodanno dell'Apocalisse di Giovanni, dove l'«anno» della vecchia terra viene diviso da quello della nuova).
Oggi il Capodanno «rievoca» soltanto le vicissitudini della volontà: non le rivive.
Ma a questo punto la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso autentico della volontà — alla quale invece ci si affida come alla cosa più sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel senso.

Corriere della Sera 31.12.11
La palingenesi secondo l'Islam
di Armando Torno


Anche l'Islam ha subito il fascino di un grande rinnovamento ciclico dello spirito. Taqî al-Dîn Ahmad Ibn Taymiyya, nato nel 1263 a Harrân (Mesopotamia settentrionale), educato a Damasco, diventò un teologo autorevole e un riferimento politico; in particolare si distinse per la sua opposizione contro le autorità mamelucche. Per questo conobbe le prigioni del Cairo e della cara Damasco. Di lui ora viene pubblicata la traduzione, a cura di Marco Di Branco e con testo arabo, della Lettera a un sovrano crociato sui fondamenti della vera religione (La Vita Felice, pp. 128, 10,50). Il piccolo libro ridiventa attuale, giacché il nostro è anche il tempo in cui si pretende — nota il curatore — «di imporre con le armi la democrazia e il rispetto dei diritti umani al mondo islamico». Il vero dialogo, suggerisce Ibn Taymiyya, si realizza con la conoscenza reciproca e la comprensione delle proprie differenze. Senza aggiungervi talune ipocrisie ecumeniche. Ed evitando di credere che la violenza possa risolvere problemi economici e politici.

Corriere della Sera 31.12.11
Quegli scherzi del cervello «Ti guardo senza vederti»
Se stona uno strumento nell'orchestra della mente
di Livia Manera


Fortuna che certe cose succedono anche a Oliver Sacks, il grande neurologo-scrittore inglese prestato da tanti anni all'ospedale psichiatrico del Bronx, a New York. Scrive nel suo nuovo libro, L'occhio della mente (Adelphi, pp. 288, € 19): «Sono molto più bravo a riconoscere i cani dei miei vicini che i miei vicini stessi». E se gli capita di incontrarli a passeggio senza cane, non ha alcuna sensazione di averli mai visti prima, anche se abitano alla porta accanto.
Questa incapacità di ricordare i volti delle persone, che Sacks porta all'estremo (una volta si è messo a pettinarsi la barba specchiandosi nella vetrina di un caffè, per scoprire che il «sé» che aveva davanti era in verità un esterrefatto signore barbuto seduto dall'altra parte del vetro), è una malattia piuttosto comune con un nome — per restare in tema — impossibile da ricordare: prosopagnosia. E dei cinque casi descritti nell'Occhio della mente, in cui Sacks racconta come vediamo — come, cioè, il nostro cervello ricostruisce il mondo tridimensionale in base a una capacità che da un lato è innata, e dell'altro si è affinata alla perfezione con l'esperienza — il suo caso è quello che ci è più vicino e ci fa più simpatia. Pare che una volta Sacks abbia dovuto incontrare a pranzo un collega che aveva il suo stesso problema — bisogna sapere che la difficoltà a ricordare i volti si accompagna spesso anche alla difficoltà a ricordare i luoghi — e che le rispettive segretarie abbiano faticato non poco a organizzare l'incontro in un ristorante di New York. «In un modo o nell'altro siamo riusciti a vederci e a pranzare insieme. Ma a tutt'oggi non ho la più pallida idea di che aspetto abbia il Dott. W, e lui probabilmente pensa la stessa cosa di me».
Benvenuti nel mondo della neurologia accattivante di Oliver Sacks, uno scienziato letto come un romanziere in tutto il mondo, tanto che i suoi detrattori, parafrasando il titolo del suo libro L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, lo accusano di avere scambiato i suoi pazienti per una carriera letteraria. «Il cervello è più di un assemblaggio di moduli autonomi, ognuno cruciale per una specifica funzione mentale», spiega lo scrittore prestandosi alla divulgazione intelligente. «Ciascuna di queste aree dalla funzione specializzata deve interagire con dozzine o centinaia di altre, integrandosi in modo da creare una sorta di complicatissima orchestra con migliaia di strumenti, un'orchestra che dirige se stessa, con una partitura e un repertorio che cambiano continuamente».
Quando uno o più elementi di questa orchestra stonano, accadono fenomeni che possono essere allarmanti o devastanti. Come la «alexia» — cioè la capacità di riconoscere le lettere dell'alfabeto, ma non le parole — che colpisce due dei pazienti di cui parla Sacks, in questo libro scritto con garbo e calore umano: e cioè Lillian Kallir, una nota pianista che si rivolge a lui nel 1999, avendo capito che scambiare un ombrello per un serpente non deve essere un problema oculistico, ma qualcosa di più grave; e Howard Engel, un romanziere canadese che non riesce più a leggere ma può ancora scrivere («alexia sine agraphia»), e che avendo spesso difficoltà a riconoscere gli oggetti più comuni, continua a trovare lattine di tonno nella lavapiatti e portapenne nel frigorifero.
Come loro, gli altri personaggi di questa serie di case histories — come Pat, una gallerista ipersocievole che perde la parola dopo un'esperienza comatosa che la lascia semiparalizzata; e Sue, che fatica ad adattarsi alla visione stereoscopica dopo una serie di operazioni che la guariscono da uno strabismo congenito — dimostrano che si possono «sviluppare modi alternativi di fare le cose, valorizzando i propri punti di forza, e trovare ogni sorta di compensazioni» alle mutilazioni inferte dalla vita. E attraverso questa capacità di compensazione straordinaria, ci ricordano una verità anche troppo nota alla maggior parte dei lettori: che ogni tragedia è al tempo stesso un'occasione di crescita.
Ma il penultimo capitolo, quello in cui Sacks racconta di essersi ammalato di cancro — un melanoma oculare — nel 2005, e aver conseguentemente perso la vista da un occhio, ci riporta coi piedi per terra, ridimensionando eventuali ambizioni di leggere il suo libro in chiave troppo ottimistica. Se c'è una lezione nell'Occhio della mente, è che la perdita è sempre una pugnalata al cuore, e la compensazione, per ottimisti che si voglia essere, è una ben magra consolazione.

Corriere della Sera 31.12.11
Torna di moda l'Alveare di Mandeville
La crisi si supera solo con le passioni
di Giuseppe Bedeschi


Torna di moda la grande metafora delineata da Bernard de Mandeville nella Favola delle api (1714) a proposito del funzionamento della società, che fece inorridire filosofi e moralisti (Hutcheson, Berkeley, Rousseau, ecc.). Infatti il medico olandese aveva sostenuto nel suo poemetto che le grandi società non si fondano sulla probità e sulla virtù, bensì sulle passioni e sui vizi degli uomini. Così avveniva nel grande alveare da lui rappresentato, in cui l'industria e il commercio prosperavano perché alimentati dall'egoismo, dalla superbia, dalla ricerca del lusso, e in generale dalle passioni delle innumerevoli api. Le quali, del tutto ignare dei veri motivi della loro prosperità, a un certo punto pregarono gli dei di liberarle dai loro vizi. Gli dei le accontentarono, ma, insieme ai vizi delle api, scomparve anche il loro benessere, e il grande alveare divenne un piccolo alveare, in cui si viveva una vita virtuosa sì, ma assai povera, di pura sussistenza. La morale della favola, ricordata ieri da Samuel Brittan sul Financial Times, era che bisognava essere consapevoli che i public benefits derivano sempre dai private vices. Scriveva infatti Mandeville: «Cessate dunque di lamentarvi: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare».
La grande metafora di Mandeville appariva provocatoria e cinica. Ma Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni, esprimerà concetti non troppo dissimili quando scriverà che «l'uomo ha un bisogno quasi costante dell'aiuto dei suoi simili, ma non può aspettarselo soltanto dalla loro benevolenza», e che potrà conseguirlo più probabilmente se riuscirà a volgere il loro egoismo a suo favore, e se riuscirà a mostrare che per loro è vantaggioso ciò che egli richiede. «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio — dirà Smith — che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità».
In tempi a noi più vicini il grande pensatore liberale Friedrich von Hayek riprenderà l'ispirazione di Mandeville (e di Smith) per ribadire la propria idea centrale: che nessun individuo e nessun gruppo di individui può pianificare la società, la quale risulta dalle infinite azioni di un numero elevatissimo di persone. Il risultato di tutto ciò sarà soddisfacente (e anche molto soddisfacente) solo se ognuno potrà perseguire, nel modo che ritiene migliore (cioè secondo le proprie idee ma anche secondo le proprie passioni) il proprio vantaggio.

Corriere della Sera 31.12.11
Due miliardi di cristiani sulla Terra, quelli europei contano sempre meno
di Marco Ventura


Un secolo fa, sei cristiani su dieci erano europei. Oggi in Europa vive solo il 26% dei cristiani del mondo, mentre la maggior parte, il 37% contro il 27% del 1910, vive nelle Americhe. Negli ultimi cento anni, i cristiani asiatici sono passati dal 4% al 13%. E i cristiani africani, che nel 1910 non raggiungevano il 2%, sono oggi il 23% della popolazione cristiana globale.
La fotografia statistica del numero e della collocazione geografica dei cristiani è contenuta nell'ultimo Rapporto del Pew Forum sul Cristianesimo globale. A fronte di un così sensibile mutamento della distribuzione dei cristiani nel mondo, la percentuale di cristiani rispetto alla popolazione mondiale è rimasta stabile. Come un secolo fa, un terzo degli abitanti del mondo è cristiano. Se infatti dal 1910 al 2010 i cristiani sono triplicati, raggiungendo gli attuali 2 miliardi, la popolazione mondiale è cresciuta in proporzione analoga. Il cristianesimo è così ancora la prima religione mondiale e il 90% dei battezzati vive in Paesi a maggioranza cristiana. L'Islam, al secondo posto, rappresenta «solo» un quarto dell'umanità.
La perdita di centralità dell'Europa occidentale è palese se si considerano i dieci Paesi in cui si concentra la metà dei cristiani mondiali; in ordine decrescente: Usa, Brasile, Messico, Russia, Filippine, Nigeria, Cina, Congo, Germania ed Etiopia. I cattolici brasiliani, notano gli analisti del Pew Forum, sono più del doppio dei cattolici italiani; i protestanti nigeriani sono il doppio dei protestanti tedeschi. Anche i cristiani del Nord Africa e del Medio Oriente, la terra di Gesù, appaiono marginali per quantità.
Tra le confessioni cristiane, il cattolicesimo rappresenta la metà dei cristiani del pianeta. Per numero di cattolici, l'Italia è il primo Paese in Europa e il quinto al mondo. L'Europa è al secondo posto (24% del totale) dopo le Americhe (47%), mentre è prima per numero di ortodossi e ultima per numero di protestanti. Quello che si affaccia sul 2012 è un cristianesimo meno europeo e più globale: hanno mille volti e mille centri i nuovi seguaci di Gesù Cristo.

Repubblica 31.12.11
Imponderabile, istruzioni per l’uso
Contro i capricci del destino fate un corso di scacchi
Ecco come difendersi dall’azzardo, dal caso, dal "non calcolabile"
di Stefano Bartezzaghi


La teoria matematica ed economica dei giochi insegna a impostare razionalmente il proprio gioco per avere le maggiori probabilità di sconfiggere l´avversario. I suoi modelli sono fatalmente astratti e soprattutto faticano a fare i conti con una serie di variabili, psicologiche, ambientali, casuali che li inquinano con elementi di imponderabilità.
L´imponderabile è un nemico apparentemente invincibile: è la zolla che impedisce al centravanti infallibile di mettere a segno l´ennesimo rigore o il minuscolo dato econometrico che perverte l´andamento prevedibile dei mercati; la cellula che incomincia a diffondere informazioni perniciose in un organismo sano o l´oscuro meccanismo che decreta il passaggio dello psicotico dall´innocuo delirio verbale all´atto inconsulto e criminale. Di fronte all´imponderabile c´è chi si rifugia nella mistica; un´alternativa sarebbe l´enigmistica, e ci dice che l´anagramma di "imponderabile" è "dà i Premi Nobel". In effetti chi ci insegnasse ad affrontare il caso, e a indurlo a produrre (a proposito di anagrammi) non il caos ma una cosa, meriterebbe i riconoscimenti più alti e prestigiosi dagli altri uomini.
L´imponderabile, però, non è l´imprevedibile: è l´elemento che non entra nel calcolo, di cui non è possibile prevedere l´influenza. È "quel certo non-so-che", un capriccio del destino, uno sfavore degli dei, qualcosa che facciamo dipendere dal sentimento di chi un sentimento non dovrebbe averne.
Nel gioco si chiama "azzardo", che ora è diventato il nome di ogni gioco che abbia il denaro come posta, ma in origine significa solo "gioco che ha a che fare con il caso". La parola azzardo viene da zara, il nome arabo di un dado, e poi di alcuni giochi con i dadi, uno dei quali è ricordato da Dante all´inizio del sesto canto del Purgatorio: «Quando si parte il gioco de la zara / colui che perde si riman dolente, / repetendo le volte, e tristo impara». Cosa impara, il perdente che si chiede dove abbia sbagliato? Nel film Wargame la guerra termonucleare pare oramai inevitabile quando il computer che la sta ciecamente scatenando, messo a giocare contro sé stesso a tris, capisce che ci sono giochi in cui l´unica vittoria consiste nel non giocare. Occorre, dunque, un salto di razionalità.
Primo Levi, dopo il suo ritorno da Auschwitz, si impiegò come chimico in una fabbrica di vernici di cui divenne anche direttore. Come scrittore si è ispirato più volte alle esperienze professionali, in laboratorio, in fabbrica, nei rapporti con clienti, fornitori e personale. Un giorno raccontò di avere tenuto in fabbrica otto bidoni di segatura, uno dei quali all´improvviso si incendiò. Perché proprio quello, e non gli altri? Parlando con il capo dei pompieri, Levi apprese quello che già sospettava: che "autocombustione" è una parola ingannevole, un nome dato per far finta di spiegare qualcosa che non si può spiegare. Il fatto è che il legno è un materiale "metastabile": è apparentemente inerte ma, come una palla da bigliardo appoggiata su un piano senza sponde, può squilibrarsi a un minimo cambiamento di condizioni ambientali, come un cielo sereno ma segretamente saturo di umidità che in un momento si può rannuvolare. Levi dice allora che a sembrare "metastabili" sono i nostri comportamenti sociali: l´intero mondo contemporaneo «sembra stabile e non è» poiché nasconde «spaventose energie» che «dormono di un sonno leggero».
Etimologicamente l´imponderabile è ciò che non si può soppesare. Nel piccolo, l´imponderabile è ciò che la massa critica è nel grande: il minimo cambiamento qualitativo che è capace di determinare conseguenze quantitative. In parole più semplici è la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso.
Qualcuno pensa che di fronte all´imponderabile l´unica scelta razionale è essere irrazionali, e giocare d´azzardo. Tanto, se tutto è un Caso, perché non venerare il dio Caso e sottoporsi alle sue sentenze senza controbattere? C´è sempre qualcuno che vince al Superenalotto, prima o poi: perché non potrei essere io? Si può anche pensare che il mondo abbia leggi occulte che governano anche l´Imponderabile. Sin dall´antica Mesopotamia gli aruspici cercavano responsi nelle viscere delle bestie sacrificate, nella convinzione che un fegato di bue fosse fatto a somiglianza del cosmo, così come il modo in cui si deposita la polvere di caffè in fondo alla tazza o la carta che scegliamo tra quella che ci tende il chiromante dovrebbero riprodurre la nostra posizione e la nostra predisposizione a vittorie e sconfitte in ogni campo.
Ancora Primo Levi ci indicava un modo diverso di trattare l´imponderabile. Gli scacchisti, notava, hanno in comune con i poeti e i tennisti due qualità: sono fortemente irritabili. Questo succede perché hanno la responsabilità completa dei loro atti, non possono addossare responsabilità ad altri: sono «privi di pretesti, e i pretesti sono un analgesico prezioso». Davanti all´insuccesso l´attore dà la colpa al regista e viceversa, in un´azienda, il sottoposto incolpa il superiore, e viceversa; il capo del governo dice di non avere potere ma persino l´autocrate, il despota «responsabile totale per sua scelta aperta ed ammessa» vuole l´analgesico; Hitler, ricorda Levi, un´ora prima di suicidarsi affermò che era tutta colpa dei tedeschi, che si erano dimostrati indegni di lui.
Nella formazione delle classi dirigenti, conclude Levi, dovrebbero essere previsto un corso di scacchi, che insegni «precocemente a vivere da scacchisti, cioè meditando prima di muovere, pur sapendo che il tempo concesso per ogni mossa è limitato; ricordando che ogni mossa ne provoca un´altra dell´avversario, difficile ma non impossibile da prevedere; e pagando per le mosse sbagliate», che sono sempre irreversibili.
Un modo per dare peso all´imponderabile sarebbe dunque quello di abrogare il nesso che lo collega alla nostra irresponsabilità. È così che si può trasformare l´azzardo in una partita a scacchi; l´impulso cieco in un calcolo, fallibile ma razionale; la scommessa contro il caso in una scommessa su e per noi stessi.

Repubblica 31.12.11
L’ultimo saggio del filosofo sulla povertà. E sull’ideale della vita in comune
Le regole monastiche secondo Agamben
Certi ideali nascono prima come fuga dal mondo e poi diventano invece un´opzione per stare insieme e costruire modelli alternativi dove tutto appartiene a tutti
di Antonio Gnoli


Si può scegliere la povertà senza subirla? Questione delicata, soprattutto per noi moderni, abituati a vedere nella ricchezza uno dei prepotenti obiettivi della nostra esistenza. Eppure la storia convoca esempi in cui la povertà è un gesto che nasce da una decisione piuttosto che da un´imposizione che ci condanna a una rassegnata e indesiderata condizione di indigenza. È facile nascere o diventare poveri, ma esserlo, con tutte le implicazioni profonde di una tale condizione, può aprire scenari giuridici, etici e politici per noi impensabili.
Il nuovo libro di Giorgio Agamben – Altissima povertà (Neri Pozza) – sceglie la figura del monaco per analizzare il complicato rapporto tra povertà e regola. O meglio ancora, come scrive l´autore: «Il dispositivo attraverso il quale i monaci provarono a realizzare il loro ideale di una forma di vita comune». Che cosa hanno di interessante quelle figure religiose che tra il quarto e il quinto secolo si produssero in una letteratura al cui centro erano state elaborate le regole monastiche? Fa notare Agamben che proprio quei testi, tanto disparati e monotoni da risultare disagevoli al lettore moderno, possono chiarire, meglio di tanti libri di etica o di diritto, la relazione tra l´azione umana e la norma, tra la vita e la regola. Ma occorre aver chiaro che l´ideale monastico nasce prima come fuga solitaria e individuale dal mondo (l´eremo) e solo in seguito si trasformerà in un ideale di vita comunitaria (il cenobio). Cioè diventerà un sistema capace di dar vita a una comunità di credenti, dove tutto è in comune. Abitare insieme non è solo un fatto materiale ma una condizione spirituale, grazie alla quale il monaco si eleva verso il cielo. Nella Scala claustralis di Bernardo sono quattro i gradini dell´ innalzamento: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. Un tale movimento presuppone una nuova scansione temporale «il cui rigore», osserva Agamben, «non soltanto non aveva precedenti nel mondo classico, ma, nella sua intransigente assolutezza, non è stato forse uguagliato in alcuna istituzione della modernità, nemmeno dalla fabbrica taylorista». La vita del monaco è interamente regolata da una divisione del tempo che ritroveremo dispiegata nei dispositivi della modernità. Ma cosa ci insegna quell´esperienza sulla quale scese anche la condanna della Chiesa?
Uno dei punti di snodo nella riflessione di Agamben è il francescanesimo, per il quale il rapporto tra regola e vita si fa più acuto e più bruciante il conflitto con la curia. È Francesco a porre al centro del modello di vita dei frati minori l´altissima paupertas. Dove per povertà si deve intendere non solo, o non tanto, una pratica ascetica di perfezione in cambio della salvezza, ma soprattutto una diversa concezione dell´uso dei beni e del loro possesso. Per i francescani e per il suo fondatore è possibile una vita fuori dal diritto (abdicatio iuris), ossia fuori dalla proprietà. Di qui, ad esempio, l´importanza che gli animali rivestono in Francesco, le loro vite autonome dal diritto sono un modello per i fratelli la cui condotta implica una rinuncia alla proprietà, ma non all´uso, dei beni. Molto prima che nascessero i movimenti che rivendicheranno l´abolizione della proprietà, il francescanesimo adotta una povertà di tipo nuovo che si richiama al vivere secondo la forma del santo Vangelo. Quella che potrebbe essere una posizione teoricamente feconda finirà, nei secoli successivi, col diventare marginale. La parte conclusiva del libro converge sulla sconfitta delle posizioni francescane. Il limite dei teorici francescani è, per Agamben, riconducibile alla loro incapacità di approfondire la teoria dell´uso e di connetterla con l´idea di forma di vita. Sono questi i due grandi dispositivi che l´Occidente, dopo il fallimento francescano, ha lasciato sospesi, irrisolti, impensati.
Le teorie della povertà sono state soppiantate da quelle del consumo. Il valore d´uso della merce, avrebbe detto Marx, dal valore di scambio. Ma per quanto tempo ancora le nuove e illusorie conquiste sapranno e potranno soddisfare i nostri desideri? Ecco il punto, non dichiarato, che mi sembra far da sfondo al bel libro di Agamben.

Repubblica 31.12.11
La vittoria dei classici
Sainte-Beuve e Voltaire per capire il mondo
di Piergiorgio Odifreddi


Così alcune riedizioni di libri famosi aiutano a capire la realtà di oggi rivelandosi indispensabili
"Port Royal" è un saggio sterminato che ci mette di fronte al pensiero del Seicento
Tra i testi scientifici bisogna riprendere "Formiche" di Wilson: ci spiega cos´è la natura

Domandarsi cosa legga un matematico, è come domandarsi cosa mangi: anche perché, in fondo, i libri sono il cibo dello spirito. Ma, in entrambi i casi, la domanda non ha una risposta definita: ci sono lettori e mangiatori di ogni tipo, tra i matematici, così come in ogni altra categoria di persone.
Più facile domandarsi cosa legga uno specifico matematico: quello che scrive, ad esempio, il quale può facilmente raccontare quali libri abbiano caratterizzato il suo anno. Un anno che avevo iniziato con una gita al Cairo, giusto prima dello scoppio dei moti che hanno rivoluzionato il Nord Africa. E avevo portato con me il Vicolo del mortaio di Naguib Mahfouz, premio Nobel per la letteratura nel 1988. Infatti, come mi annoio a praticare il turismo letterario seduto sul divano di casa, mi diverto a immergermi nei racconti dei luoghi e delle popolazioni che sto visitando. Anche quando il legame tra ciò che leggo e ciò che vedo è più spaziale che temporale, come nel caso della storia raccontata da Mahfouz, che risale ormai al 1947: all´Egitto non solo pre-Mubarak, ma addirittura pre-Nasser, quando sul trono dei Faraoni sedeva ancora re Faruq.
Ma i romanzi sono solo svaghi, e insieme a essi porto sempre con me almeno qualche saggio che mi stimoli a pensare. In Egitto si trattava di Fede e scienza, una raccolta di saggi scritti da Ratzinger prima e dopo la sua elezione. Uno di essi era un estratto dalla sua Introduzione al cristianesimo, e ne riportava l´apologo di apertura: quello in cui il giovane teologo si domandava se lui, e quelli come lui, non fossero altro che clown, che quando vogliono allertare il pubblico del circo a un pericolo imminente, riescono solo a farlo sghignazzare. E si chiedeva se sarebbe comunque bastato che i preti si togliessero il trucco e gli abiti da clown, per diventare più credibili, o se invece a far ridere era proprio il copione dello spettacolo portato da loro in pista.
Si trattava di un Ratzinger inaspettato e irriconoscibile. Tornato a casa, mi procurai immediatamente l´Introduzione al cristianesimo. e leggendolo trovai finalmente il teologo col quale potevo e volevo discutere. Un teologo aperto e coraggioso, che non si nascondeva dietro a un dito, e non spazzava sotto il tappeto le problematiche connesse alla fede, alla religione e al cristianesimo. Un teologo che accettava di porsi in discussione scendendo sul piano di chi criticava radicalmente la religione.
Decisi dunque di rispondergli in Caro papa, ti scrivo. Anche se le letture che feci per completare l´opera, furono più deludenti di quel suo primo libro. In particolare, né nell´intervista Luce del mondo, né nei due volumi su Gesù di Nazaret, ho ritrovato lo stesso Ratzinger.
Tra i saggi scientifici ho letto due classici della matematica: la Geometria intuitiva di David Hilbert e Stefan Cohn-Vossen, ed Euclide e i suoi rivali di Charles Dodgson. Il primo è un capolavoro della divulgazione, concepito da una delle menti più brillanti del Novecento. Il secondo è invece un´imbarazzante e anacronistica difesa d´ufficio della geometria euclidea, sostenuta da uno dei più innovatori letterari dell´Ottocento: il matematico Lewis Carroll, lo stesso di Alice nel paese delle meraviglie.
Tra i romanzi, mi sono gustato L´energia del vuoto di Bruno Arpaia, esemplare in due sensi complementari: l´opera, come romanzo scientifico divertente e informato sulla fisica delle particelle, e l´autore, come letterato interessato e competente in faccende non umanistiche. L´esatto contrario di Solar di Ian McEwan, irrealistica e sciocca storia di un premio Nobel della fisica.
Per farsi perdonare, l´Einaudi (che ha pubblicato Solar) mi ha regalato un´opera straordinaria e sterminata: Port Royal di Charles de Sainte-Beuve. Difficilmente mi sarei avventurato lungo le sue duemila pagine, se non fossi stato nella mia vita professionale un logico, e non avessi sempre sentito parlare della Logica di Port Royal di Antoine Arnauld e Pierre Nicole, senza aver mai avuto l´occasione di approfondire l´argomento.
Ma Sainte-Beuve ha fatto ben altro, per me. Mi ha introdotto alle dispute sulla Grazia alimentate dai giansenisti. Mi ha aperto le porte delle loro due istituzioni, per metà conventi e per metà manicomi. Mi fatto conoscere uno stuolo di personaggi, compresi Arnauld e Nicole. Ma, soprattutto, mi ha permesso di osservare il Seicento da una molteplicità di punti di vista: compreso quello letterario, perché all´interno dell´opera si possono leggere le biografie di Corneille, Montaigne, Moliere e Racine.
E, naturalmente, di Pascal. Della sua matematica non si parla in Port Royal, anche se il suo vero lascito intellettuale sta lì: ma, si sa, certe cose «intender non le può chi non le prova». Avendo però in casa i Pensieri, che non avevo mai letto, ho colto l´occasione. Ma a parte gli aforismi che tutti conoscono, il libro rimane un abbozzo di progetto di apologia del cristianesimo che non mi ha convinto. E mostra, come già notò Voltaire, che «anche gli spiriti più eminenti si sbagliano come le persone più comuni».
Dopo aver sbirciato il Seicento di scorcio, mi era ormai venuta la voglia di osservarlo da una prospettiva centrale. E, per farlo, cosa meglio di Il secolo di Luigi XIV di Voltaire, appunto? Ora che l´ho letto, sono felice e dispiaciuto allo stesso tempo: felice per averlo letto, e dispiaciuto di non averlo più da leggere. Ci sono pochi libri, e non solo di storia, come quello.
Tra ottobre e novembre ho fatto un viaggio in Nepal, e ho portato con me L´ardore di Roberto Calasso. Un´altra volta, in India, avevo portato Ka e non me n´ero pentito. Ma questa volta ho fatto un buco nell´acqua: L´ardore è antimoderno e antirazionalistico. Per fortuna avevo il Newton di Niccolò Guicciardini, nel quale la saggezza e la profondità si trovavano abbondantemente, sia nel lavoro del grande scienziato, che nel racconto del nostro bravo storico.
Ora, mentre l´anno sta per finire, sta finendo anche l´ultimo libro che sto leggendo: Formiche di Edward Wilson e Bert Holldobler. Un´opera che da sola, smonta tanti miti, su come la natura sia o debba essere, che albergano nelle menti di coloro che pretenderebbero di vivere, e far vivere, appunto "secondo natura". Chissà per quale associazione libera, il prossimo libro nella mia lista è Allegro ma non troppo di Carlo Cipolla (Il Mulino), che contiene le sue famose "leggi fondamentali della stupidità umana". Ma da questo ripartiremo il prossimo anno, se qualcuno mi chiederà ancora quali sono i libri che ho letto nell´anno passato.

Repubblica 31.12.11
Maurizio Pollini
Resto un uomo di sinistra folgorato da Sartre e Russell
«In un’arte come la musica, che consiste nel dire ciò che non può essere detto a parole, l’aspetto irrazionale ed emotivo è assolutamente fondamentale»
di Leonetta Bentivoglio


Uno dei testi che mi colpì di più da giovane fu quello scritto da Sartre in occasione della rivolta di Budapest nel ´56: illuminante e sofferto
Quando registrai con Böhm il concerto Imperatore volevo rifare il primo tempo, ma lui era così scosso che non tornò sul podio
Rubinstein era il pianista che amavo di più da ragazzo Poi diventammo amici, e furono preziose le sue osservazioni su varie composizioni
Considerato il più grande pianista vivente, l’artista milanese festeggia il 5 gennaio un compleanno importante. Ci racconta i suoi incontri e i progetti per il futuro

Il 5 gennaio il mitico pianista Maurizio Pollini compie settant´anni, e la scadenza incombe come un accidente più che mai importuno su questo personaggio notoriamente schivo, in quanto portatrice di assillanti richieste d´interviste e di minacciosi inviti a celebrazioni in suo onore. Chiaro che qualche fanfara sia prevedibile e inevitabile per quest´interprete adorato dal pubblico e considerato il massimo pianista vivente. Ma lui sarebbe più contento di scavalcare nel silenzio la ricorrenza, anche perché «vivo proiettato nei progetti del futuro», dice nella quiete del suo appartamento milanese, «e con i compleanni il futuro si restringe».
Parliamone, di questi suoi progetti.
«A uno tengo in modo particolare: nato in seno al festival di Lucerna, è articolato in due estati, 2011 e 2012, e consta di quattro programmi nei quali, accanto alle ultime Sonate di Beethoven, eseguo pezzi di compositori moderni come Stockhausen e opere commissionate ad autori contemporanei quali Manzoni, Lachenmann e Sciarrino. La serie viene ripresa a Parigi, Berlino e Tokyo, e forse sarà alla Scala nella stagione 2013-2014. Poi, oltre a vari concerti (tra cui due a Roma, per Santa Cecilia, uno in gennaio con Pappano e l´altro da solo in febbraio), ci sono le incisioni. Mentre la Deutsche Grammophon lancia 3 box di cd di mie esecuzioni, uno tutto su Chopin, un altro sul Novecento, e il terzo eterogeneo e rappresentativo delle mie linee di repertorio, penso al completamento della registrazione delle Sonate di Beethoven e al secondo Concerto di Brahms, che farò l´anno prossimo con Thielemann, col quale ho già inciso il primo. E in primavera uscirà un nuovo disco dedicato a Chopin».
Maestro: lei suona da una vita. Da quando di fronte a un pubblico?
«Piccoli recital li feci a nove anni. Cose da dimenticare…».
Poi la vittoria, diciottenne, al Concorso Chopin, e una carriera scandita da un´incrollabile tenacia nella difesa delle proprie scelte.
«Scelte dettate dalla volontà di suonare solo composizioni in cui credo e delle quali non potrò mai stancarmi. Il criterio del mio repertorio è quello di un interesse che non rischia di estinguersi: ci sono opere che non finisco mai di riscoprire».
Quest´interesse è rivolto anche alla musica contemporanea. Perché il pubblico continua a sentirla ostica e lontana?
«Perché i processi storici sono lenti: la gente si avvicina gradualmente alle composizioni più audaci, anche perché non aiutata da un numero sufficiente di esecuzioni. In passato ci sono stati ritardi fenomenali. L´ultimo concerto di Mozart per pianoforte e orchestra, il K 595, oggi considerato tra i più belli, fu suonato per la prima volta in tempi moderni da Schnabel a Vienna, negli anni Trenta del Novecento; e Toscanini e Serkin, dagli Stati Uniti, gli scrissero per chiedergli se valeva la pena di eseguirlo. Quando, verso il 1840, Wagner diresse la Nona di Beethoven, questa sinfonia era ancora considerata quasi inascoltabile, e quando Liszt eseguì l´opera 106 di Beethoven, era reputato un pezzo estremo per difficoltà tecnica e concettuale».
Quali sono stati per lei gli incontri più decisivi?
«Tanti: Rubinstein, Serkin, Horowitz, Rostropovich, Karajan… Rubinstein era il pianista che amavo di più da ragazzo. Poi diventammo amici, e furono preziose le sue osservazioni su varie composizioni, tra cui il primo Concerto di Brahms. Lo aveva suonato a inizio Novecento a Berlino con Joachim, famoso violinista molto vicino a Brahms e suo interlocutore privilegiato durante la creazione del concerto. Perciò ne conosceva ogni dettaglio, e m´insegnò cose essenziali sui piccoli cambiamenti di tempo, modifiche che dovevano risultare impercettibili. "Noi sappiamo che acceleriamo, ma il pubblico non deve accorgersene", mi disse».
Con Karl Böhm, pupillo di Strauss, incise Mozart, Beethoven e Brahms.
«Ricordo la nostra registrazione del Concerto "Imperatore" di Beethoven. Volevo rifare il primo tempo, che avevamo già eseguito due volte, ma lui era così scosso da quella che chiamava "l´atmosfera" del brano, che ebbe difficoltà a tornare sul podio. La sua tensione nervosa dipendeva da un enorme senso di responsabilità verso il compositore».
Pensa di aver subìto influssi anche da non musicisti?
«Un forte punto di riferimento intellettuale è stato per me Bertrand Russell, con la sua intelligenza anticonformista in ogni sua applicazione. E uno dei testi che mi colpì di più, quand´ero giovane, fu quello scritto da Sartre in occasione della rivolta di Budapest nel ‘56. Un saggio illuminante e sofferto, perché era un uomo di sinistra a condannare l´intervento sovietico in Ungheria».
E lei, Pollini, si sente ancora un uomo di sinistra?
«Destra e sinistra: oggi, quando si dicono parole come queste, sembrano non aver più peso. Eppure io mi considero senz´altro un uomo di sinistra».
A settant´anni cos´ha concluso? Che nell´eseguire musica conta di più l´architettura logica o l´emozione?
«In un´arte come la musica, che consiste nel dire ciò che non può essere detto a parole, l´aspetto irrazionale ed emotivo è assolutamente fondamentale».

Repubblica 31.12.11
La manifestazione capitolina nel caos: il decano del cinema sarà in sella fino a giugno
Festival di Roma, Rondi resta presidente e insiste: "Muller direttore, io non lo voglio"
di Arianna Finos


ROMA - Il presidente Rondi dice no a Marco Muller, il sindaco Alemanno non vuole più Piera Detassis. E il Festival di Roma rischia di restare senza direttore artistico fino a giugno. L´incontro di ieri tra il presidente della Fondazione cinema e il sindaco di Roma ha certificato l´impasse, lo scontro. Nei giorni scorsi Alemanno e la presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, avevano lanciato pubblicamente l´idea di sostituire la direttrice in scadenza Piera Detassis (il mandato finisce oggi) con l´ex direttore della Mostra di Venezia, che si era detto felice di accettare l´incarico. Il loro entusiasmo non aveva fatto i conti con l´iter procedurale e i poteri del presidente Rondi, a cui solo spetta di proporre la nomina del direttore.
Alemanno aveva voluto l´incontro per «parlare del magnifico progetto di Muller» prima del 13 gennaio, quando si riunirà il collegio dei soci fondatori. Ma Rondi ha difeso fino in fondo la direttrice. «C´è stata un´amichevole conversazione con il sindaco, al quale ho ribadito che non ho intenzione di proporre Muller», racconta Rondi. «Non ho niente contro Muller, ma il mio candidato è Piera Detassis». La presa di posizione fa scivolare il Festival nel "pantano" descritto dal presidente della Provincia, Nicola Zingaretti. Rondi resterà fino alla scadenza di giugno («nessuno toccherà Rondi», ha detto lo stesso Alemanno) e poi non si ricandiderà. Ma, fino ad allora, chi preparerà l´edizione del Festival 2012? Rondi ha ventilato l´ipotesi di fare anche il direttore artistico garantendo in prima persona la prossima edizione.