sabato 8 gennaio 2011

Repubblica 7.1.11
Oramai il 20% delle novità viene lanciato usando le strisce di carta sopra le copertine
Se una fascetta sul libro lo rende “caso dell’anno”
di Benedetta Marietti


Per gli editori sono una forma di promozione che funziona e che attira l´attenzione. Ma i lettori non sempre sono d´accordo: "Slogan spesso ripetitivi"

Un fenomeno esploso di recente, anche se la sua invenzione è molto più antica. Basta entrare in libreria e si notano subito: sono le fascette promozionali che avvolgono i volumi, in genere gialle o rosse, nate per richiamare l´attenzione del lettore con frasi a effetto, stampate a caratteri cubitali. Da quelle più generiche, "Ha scalato le classifiche grazie al passaparola" (Jamie Ford), a quelle informative, "Nobel per la letteratura 2010" (Vargas Llosa), "Un milione di copie vendute" (Muriel Barbery), fino ai cosiddetti quote, i commenti di critici o di altri scrittori ("Mio Dio, quel libro... David Foster Wallace" a proposito di un Cormac McCarthy).
Una strategia di marketing molto diffusa in Francia (vedi Gallimard e le sue fascette rosse), che unita all´efficacia di titolo, copertina e risvolto contribuisce al lancio in libreria. Una novità su cinque, oramai, viene "incartata" così. Ma quante copie "spostano" le fascette? Non ha dubbi Romano Montroni, fondatore delle Librerie Feltrinelli ora consulente delle Coop: «Servono sempre perché trasmettono un´emozione visiva che incuriosisce il lettore. Soprattutto se citano la vittoria di un premio letterario come lo Strega o il Campiello. Informazioni che fanno vendere automaticamente migliaia di copie».
È d´accordo Stefano Mauri, a capo del gruppo GeMS che utilizza le fascette più di altri editori: «La fascetta vincente deve avere carattere d´urgenza e comunicare una notizia. E il suo colore deve stridere rispetto alla copertina. Ma non abbiamo inventato niente. Fin dall´800 Sonzogno metteva le proprie promozioni in copertina». All´interno del gruppo le strategie si diversificano. La narrativa straniera della Garzanti sceglie le copie vendute all´estero mentre secondo Vincenzo Ostuni, editor di Ponte alle Grazie, «c´è un effetto fascetta soprattutto nel caso di medie tirature. Anche la segnalazione delle cinquina dello Strega funziona. Ma in generale preferiamo puntare su una citazione».
Non tutti gli editori però ne sono entusiasti. Più cauto il gruppo Mondadori che le utilizza solo per segnalare la vincita di un premio o un film tratto dal libro. Spiega Edoardo Brugnatelli, responsabile narrativa Strade Blu: «È una questione di impostazione mentale. Anche nel caso di esordi, Mondadori preferisce fare il lancio lasciando parlare il libro, senza appoggi secondari. La fascetta subentra in un secondo tempo, con le ristampe, per comunicazioni di servizio». Ecco perché nessuno dei più recenti successi italiani targati Segrate, da Paolo Giordano ad Alessandro D´Avenia, è uscito in prima edizione accompagnato dalla fascetta. Solo dopo, semmai. A differenza di Rizzoli che per il primissimo lancio da 6500 copie di Acciaio dell´esordiente Silvia Avallone, anche lei finalista allo Strega, ha voluto una fascetta di presentazione ("Un´adolescenza dura di corpi, fabbriche e sentimenti"), per «trasmettere lo spirito e la passione del libro, senza effetti speciali o slogan urlati», come dice il suo editor Michele Rossi.
Ma troppe fascette non espongono i libri a un rischio inflazione? Secondo Daniele Di Gennaro di minimum fax, «non bisogna abusarne, altrimenti si è poco credibili. Io sarei tendenzialmente contrario perché la fascetta spacca la grafica di copertina. Ma in alcuni casi non se ne può fare a meno». Del resto alcuni lettori non nascondono la propria insofferenza nei confronti della fascetta come dimostra una discussione nata recentemente su aNobii, il social network dedicato ai libri. Dove viene preso di mira soprattutto il ripetersi delle solite frasi fatte ("il caso editoriale dell´anno", "l´esordio straordinario") e il fastidio per un inutile ingombro (c´è chi propone di riutilizzarle come lista della spesa).
Ultimamente la fascetta tradizionale sembra non bastare più. E gli editori si ingegnano a trovare nuove strategie. Per Paolo Repetti, responsabile di Einaudi Stile Libero, «la fascetta funziona meglio se entra a far parte di una comunicazione marketing più ampia». Un esempio? Il lancio di Anne Holt, la scrittrice di Oslo che rischiava di essere considerata l´ennesima "regina del giallo scandinavo". «Per i suoi libri è stata studiata una più ampia campagna pubblicitaria basata sui colori giallo-nero o rosso-nero tipici del nastro adesivo che delimita la zona del delitto. Ripresi anche sulla fascetta».
Funziona anche la recente tendenza di riportare sulla fascetta una foto dell´autore (tradizionalmente pubblicata in quarta di copertina) come dimostrano i successi di Camilla Läckberg (La principessa di ghiaccio) o della coppia Anders-Hellström di Tre secondi. E c´è anche il caso di Isbn, l´editore milanese che ha voluto copertine tutte uguali, bianche con il codice a barre sul fronte, e che ultimamente tenta di differenziare i 150 titoli in catalogo con fascette una diversa dall´altra, "un buon compromesso che preserva la purezza dell´oggetto libro", secondo il direttore editoriale Massimo Coppola. Ecco perché su L´inedito di Hemingway di David Belbin, un romanzo Isbn sulla falsificazione letteraria, compare sulla fascetta una bizzarra foto di alcuni sosia del grande scrittore americano. Dimostrando come a volte la fascetta possa diventare una quasi-copertina.

l’Unità 8.1.11
Cesa e Di Pietro aprono all’appello del segretario Pd per «un patto costituente». Fli tiepido
Veltroni «Partito in difficoltà, basta inseguire alleanze. Riportiamo l’attenzione su di noi»
Bersani convince Idv e Udc Ma resta aperto il fronte interno
Tensione per indiscrezioni sulla stampa. Una telefonata tra Migliavacca e Verini fa siglare la tregua. Veltroni: «Mai detto di volere un congresso anticipato». Bersani: «Basta chiacchiericcio politicista, dobbiamo cambiare l’agenda»
di Simone Collini


«Dovete smentire quelle frasi offensive». «E voi che volete un congresso anticipato». Alla fine a far siglare la tregua è stata una telefonata tra il capo della segreteria politica di Bersani, Maurizio Migliavacca, e quello che è il parlamentare Pd più vicino a Veltroni, Walter Verini. I due si sono parlati nella tarda mattinata di una giornata che era cominciata male, con il segretario del Pd sconcertato dal fatto che la sua proposta alle opposizioni e alle forze sociali per cambiare insieme l’agenda politica avesse sì incassato l’ok da parte di Idv e anche Udc, Api e Mpa (più tiepida per forza di cose Fli), ma fosse stata messa in ombra dalla discussione tutta interna al partito sull’opportunità o meno di indire in tempi brevi un nuovo congresso per approdare a un cambio di linea; e con l’ex segretario irritato dalla lettura dei giornali in cui erano attribuite al leader Pd frasi non proprio benevole nei suoi confronti (in sintesi: lo vadano a dire davanti ai cancelli Fiat che c’è bisogno di un congresso, gli operai li inseguirebbero con i forconi, pensiamo piuttosto ai problemi del paese). «Leggo sui giornali di indiscrezioni che riguardano mie decisioni sulla vita interna del Pd e conseguenti sgraziate risposte varie ad esse», si è sfogato in una nota Veltroni riferendosi in particolare a un articolo apparso su “Repubblica” che gli attribuiva l’intenzione di volere un congresso anticipato. «Posso semplicemente dire che non so di cosa si parli». L’ex segretario del Pd si è lamentato con i suoi per il fatto che Bersani non l’avesse chiamato per verificare se l’indiscrezione corrispondesse al vero, e avesse invece fatto filtrare frasi così dure.
APPELLO PER CAMBIARE L’AGENDA
C’erano tutti i presupposti perché la Direzione di giovedì prossimo si trasformasse in una resa dei conti tutt’altro che centrata sui contenuti. E a quel punto da una parte e dall’altra si è deciso per la tregua. C’è stata la telefonata dei due “messaggeri di pace”, dopodiché Migliavacca ha rilasciato una dichiarazione in cui si smentivano le frasi attribuite a Bersani e Verini ha apprezzato e confermato che la minoranza non vuole un congresso anticipato. Tutto risolto? Fino a un certo punto, almeno a giudicare da un paio di fattori. Il primo: Veltroni su un punto ha confermato, e cioè che le «difficoltà del Pd e del centrosinistra a costruire una alternativa riformista credibile al berlusoconimo» meritano un dibattito «vero», che «dopo gli estenuanti inseguimenti di alleanze rese difficili proprio dalle difficoltà di identità del Pd riporti l’attenzione su di noi». Secondo: nessuno della minoranza di Movimento democratico ha commentato positivamente l’iniziativa di Bersani, che con una lettera al “Messaggero” ha rilanciato un «appello alle forze progressiste e moderate» per discutere «una riforma repubblicana» e interventi per il fisco, il lavoro, il welfare che favoriscano una «riscossa». «L’Italia non può più accettare di essere narcotizzata dal chiacchiericcio politicista e da un divario fra politica e società che accumula sfiducia e passività. Dobbiamo cambiare l’agenda. Dobbiamo parlare finalmente dell’Italia e degli italiani». Parole commentate positivamente da esponenti della maggioranza e da franceschiniani, ma non da quelli di Modem.
OK DA IDV E UDC
Bersani non si è però impensierito troppo di questo. Piuttosto, ha incassato con soddisfazione le aperture al suo appello provenienti dalle altre forze politiche dell’opposizione.
«L’Idv concorda con l’appello di Bersani, lo accoglie e lo condivide ha detto Di Pietro anche noi ci auguriamo di poter costruire insieme una coalizione che ponga al centro del programma le politiche per affrontare la questione sociale e la grave crisi economica». E parole di apprezzamento sono arrivate anche dal segretario dell’Udc Cesa, per il quale le riflessioni di Bersani «partono da problemi concreti che dovrebbero stare a cuore a tutte le forze politiche e sociali responsabili». Una sola «avvertenza» rivolge l’esponente centrista al leader del Pd: «Evitiamo nuovi dogmatismi ed estendiamo questo confronto a quanti nella maggioranza si rendono conto che è necessario un cambio». Per Bersani, che si aspettava anche una risposta più tiepida da parte di Sel (Miglionre chiede di chiarire i contenuti) e Fli («Bersani pone problemi reali, ma non serve una piattaforma delle opposizioni bensì un confronto aperto con governo e maggioranza», ha detto Urso stando bene attento a non prestare il fianco ai berlusconiani) si è trattato comunque di «un primo passo importante».

Corriere della Sera 8.1.11
Bersani: «Patto tra le opposizioni» Ma Veltroni riapre il fronte interno
Udc e Idv: bene. L’ex leader: serve un dibattito vero. Il segretario forse non andrà al Lingotto
di  M. Gu.


Allargare il campo di forze che si oppongono alla destra e cambiare, uniti, l’agenda del Paese, bloccato da un troppo lungo «sonno delle riforme» . La «riscossa» di Pier Luigi Bersani, con una lettera appello a tutte le «forze progressiste e moderate» , riporta sulla scena le scelte delle opposizioni. Di Pietro e Casini aprono al segretario del Pd, mentre più fredda è la reazione dei finiani e di Sel, il partito di Vendola. E alla fine del mese Bersani vedrà tutti i leader delle opposizioni, Fini compreso. La lettera del segretario al Messaggero arriva in un momento di tensione con la minoranza. I veltroniani ci leggono l’idea di una «santa alleanza» contro Berlusconi e rilanciano la vocazione maggioritaria, un Pd che ambisca a farcela con le proprie forze. Walter Veltroni smentisce di aver mai chiesto un congresso («non so di cosa si parli» ), respinge «l’infondatezza di spifferi» sul suo conto e polemizza sulle «sgraziate risposte» che Bersani avrebbe fornito riguardo all’indiscrezione. E a sua volta, per bocca di Maurizio Migliavacca, il leader nega di aver mai detto che gli operai della Fiat inseguirebbero «coi forconi» chi mai dovesse presentarsi davanti ai cancelli della fabbrica per chiedere assise anticipate. Il congresso no, anche perché la base, sul web, è pronta alla rivolta. Ma Veltroni conferma l’esigenza di «un dibattito vero, sincero, unitario» sulle «difficoltà del Pd a costruire una alternativa riformista credibile» . Ed è per questo, spiega, che il 22 gennaio al Lingotto proverà a «risvegliare l’orgoglio riformista» . Un «Pd pride» che, attacca l’ex segretario, fermi gli «estenuanti inseguimenti di alleanze» , rese «difficili» proprio dalla incerta identità del Pd. Parole che al Nazareno suonano come una dichiarazione di guerra, tanto che Bersani, per il quale era pronta una sedia in prima fila, medita di dare forfait al Lingotto. EppureWalter Verini assicura che la nota di Veltroni intendeva placare gli animi: «Prima ancora che alle sigle di partito bisognerebbe rivolgersi al Paese. Il problema del Pd non è il congresso, ma la linea» . E anche Stefano Ceccanti, il senatore— professore che di congresso è stato il primo a parlare, respinge la proposta di Bersani: «Non si può riproporre lo schema del "tutti senza Berlusconi". La linea è debole. Dobbiamo tornare alla vocazione maggioritaria pura» . Idea che scandalizza un dalemiano come Matteo Orfini, esponente della segreteria: «Fantastico, andiamo da soli per riconsegnare il Paese a Berlusconi?» . Al di là delle polemiche, Bersani è soddisfatto per le reazioni dei possibili alleati alla sua proposta di «patto per la crescita» e «riforma repubblicana» . Il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, apprezza riflessioni che partano da «problemi concreti che dovrebbero stare a cuore a tutte le forze responsabili» , però chiede a Bersani di estendere il confronto anche a quanti, nella maggioranza, «si rendono conto che è necessario un cambio di passo» . Sempre dal polo della nazione Adolfo Urso, Fli, chiede che l’agenda sia discussa in Parlamento «senza steccati né pregiudizi» , anche con il governo. Di Pietro è pronto a costruire una coalizione col Pd, mentre Sel rimprovera a Bersani «vecchie liturgie» che non rispondono alle parole chiave «Marchionne, Gelmini, Tremonti» .

Repubblica 8.1.11
In programma incontri con Fini e Casini: "Anche loro devono decidersi, entro fine mese tireremo le somme"
Il segretario avverte la minoranza "Situazione seria, basta beghe interne"
di Giovanna Casadio


I rottamatori proporranno un documento pro primarie anche ai veltroniani
Nella direzione di giovedì il leader chiederà una moratoria: la linea c´è ed è chiara

ROMA - Una tela difficile da tessere. Ma Pier Luigi Bersani ritiene di potercela fare. Una tela a due fili: la partita interna al Pd e quella esterna, dell´alleanza strategica anche con Casini e Fini. E se dovesse scommettere su quale delle due avrà più facilmente la meglio, c´è da credere che il segretario democratico non si senta tranquillo in casa, con i "rottamatori" sul piede di guerra e Veltroni belligerante a fasi alterne. Nella relazione con la quale aprirà la direzione di giovedì, indirizzerà alla minoranza veltroniana (che si riunisce al Lingotto, a Torino, il 22 gennaio) un paio di messaggi chiari: «La situazione è troppo seria per concentrarci sul nostro ombelico. La linea del partito può piacere o non piacere ma è precisa e definita». Farà un appello per una moratoria delle beghe interne. Non è la prima volta, ma questa è la fase più cruciale.
Se c´è una cosa che irrita Bersani, più della richiesta di un congresso anticipato a tempo debito, è il mantra dei Modem - il movimento di Veltroni, Fioroni e Gentiloni - sulla «bussola che non c´è», sulla «linea da riplasmare», e «la strategia da ridefinire», sulla sconfitta del 14 dicembre (quando Berlusconi ha ottenuto la fiducia per tre voti) come segno che il «tutti contro il Cavaliere non paga». Veltroni vuole un partito auto-centrato su se stesso, per non finire subalterno ai Casini o ai Vendola di turno? Bersani risponde con l´agenda per la riscossa italiana, la riforma repubblicana e il patto per la crescita. Un invito a tutte le opposizioni, su cui sa di avere anche il sostegno di D´Alema. Matteo Renzi e Pippo Civati gli buttano tra i piedi una "direzione parallela" provocatoriamente convocata 24 ore prima di quella del partito, da cui uscirà un documento per «primarie sempre»? Il segretario in direzione dichiarerà che nessuno mai si è sognato di bloccare le primarie di Torino, Bologna e Napoli, già mezzo avviate. Ma che nessuno neppure deve impiccarsi a uno strumento, le primarie (dal quale peraltro Bersani stesso trae la sua forza), scambiandolo per una bacchetta magica, poichè la sfida è abbattere Berlusconi coinvolgendo Casini e Fini. Bersani rilancia.
Ecco, Fini e Casini, l´altro filo della tela. Non potranno a lungo menare il can per l´aia. Alla fine del mese, dopo l´Assemblea programmatica che il Pd ha convocato a Napoli il 28 gennaio, il segretario tirerà le reti. Nella sua agenda ha previsto un incontro con Fini, poi con Casini, con Rutelli e quindi con Di Pietro, Vendola...Anche Raffaele Lombardo, il governatore, è della partita, peraltro Di Pietro soffia sul "caso Sicilia". Intanto sarà chiaro a fine mese quale sarà la fine di questa legislatura e poi, ha detto Bersani, «i leader di Fli e dell´Udc devono mettersi davanti alle loro responsabilità e impegnarsi non a un´alleanza per sempre, ma a un patto per fare uscire insieme a noi l´Italia dal pantano. Oppure spiegare a cos´altro pensano». Tre settimane in cui può accadere di tutto o tutto restare nella nebbia.
I "rottamatori" ironizzano sulla capacità bersaniana di farsi dire di no. «Ci prova, ci prova, a furia di farsi dire sempre di no diventa simpatico...», Pippo Civati sarà alla "giusta direzione", la loro riunione a Roma. Renzi, che non ci sarà, gli ha raccomandato: «Attenzione non facciamoci mettere nel tritacarne delle liti del partito». Civati potrebbe portare il giorno dopo in direzione un documento pro-primarie e chiedere ai veltroniani e al gruppo di Ignazio Marino di sottoscriverlo. «Dipende da cosa dirà il segretario». Pro rottamatori è Fioroni: «Matteo ha la mia storia, è una risorsa, questi ragazzi sono oro colato, altro che trattarli come Stalin con Trosky...». Tenuto conto, tra l´altro, che i sondaggi danno al Pd poco consenso tra i giovani.

Repubblica 8.1.11
Pd, Veltroni corregge il tiro "Non è tempo di congressi"
Bersani, patto tra opposizioni. Terzo polo: sì condizionato
Il segretario propone un´intesa anche alle forze sociali sui problemi del Paese
di G. C.


ROMA - Non è tempo di congressi. Veltroni corregge il tiro. Dice che parlare di un congresso straordinario è prematuro. Ma l´ex segretario, e ora leader della minoranza del Pd, non rinuncia alla battaglia «sull´identità di programma del partito». E afferma che ci vuole un vero dibattito sulle difficoltà dei Democratici. Non gli sono piaciute le ricostruzioni di Repubblica e su queste risponde. A Torino, dove ha convocato il 22 gennaio un "Lingotto 2", assicura che si parlerà delle cinque idee-chiave per l´Italia. Né gli sono piaciute le reazioni «sgraziate» a quanto è stato riportato sull´offensiva dei veltroniani. Smussa anche Bersani. Arturo Parisi invece rilancia: «Ci vorrebbe davvero un congresso ma vero, e sarebbe il primo».
L´obiettivo del segretario Pd è riprendere l´iniziativa politica. Lo fa con una "chiamata" alle opposizioni sia di centro che di centrosinistra e alle forze sociali per «la riscossa italiana». Con una lunga lettera al Messaggero propone un patto repubblicano per affrontare i problemi dell´economia, del lavoro e quelli istituzionali. Di Pietro ci sta (anche se attacca sul "caso Sicilia"), mentre dal Terzo Polo arriva un sì con molti paletti. «Chi si oppone a Berlusconi sa che bisogna guardare oltre Berlusconi » e che perciò è necessaria «una riorganizzazione della democrazia parlamentare» e «a un nuovo patto fondamentale in campo economico e sociale su terreni fondativi come quello della fiscalità e delle relazioni sociali».
Di Pietro risponde subito positivamente: «Idv concorda, lo accoglie e lo condivide. E ci auguriamo di potere lavorare con il Pd con più forza e più coesione». A condividere le intenzioni è anche Lorenzo Cesa, il segretario dell´Udc, per il quale però il confronto deve esserci anche con l´attuale maggioranza di centrodestra: «Evitiamo nuovi dogmatismi ed estendiamo questo confronto a quanti nella maggioranza si rendono conto che è necessario un cambio di passo». Per i centristi insomma il terzo Polo nasce per «affrontare le emergenze» e non vuole farsi rinchiudere a priori in alcun fronte. Ancora più esplicito è Adolfo Urso, di Fli: «Sulle proposte è giusto un confronto, ma in Parlamento e senza steccati, né pregiudizi, in un confronto aperto e costruttivo con il governo e le forze della maggioranza». No quindi a un tavolo ad hoc, a una «piattaforma delle opposizioni che rischia di essere sterile e di alimentare nuove e inutili contrapposizioni». Contropropone «un percorso condiviso du alcuni obiettivi concreti e raggiungibili per realizzare nei prossimi mesi le riforme strutturali necessarie alla crescita e allo sviluppo». E a Urso replica Giorgio Merlo, ex Popolare: «Bersani ha detto bene, ma Urso dovrebbe chiarirsi le idee».
Il Terzo Polo ha probabilmente in mente un´altra strategia. Benedetto Della Vedova, portavoce di Fli, spiega che non sarebbe uno scandalo se sui singoli provvedimenti pezzi della maggioranza e pezzi dell´opposizione votassero all´unisono, creando nei fatti quel governo tecnico di cui si era parlato prima della fiducia ottenuta da Berlusconi per soli tre voti. Uno scenario che il Pdl vede come fumo negli occhi.
Nelle file democratiche a tenere banco è anche la questione delle primarie che per il segretario andrebbero congelate: sarebbe questo il corollario dell´alleanza strategica che sta a cuore a Bersani. I "rottamatori" di Renzi e Civati su questo danno battaglia. Provocatoriamente riuniranno una "direzione parallela" un giorno prima di quella ufficiale fissata per giovedì prossimo. Sul suo blog Civati cita Fini in difesa appunto dei "rottamatori": «Che cosa fai, ci cacci?». È la risposta a quanto era trapelato, ovvero un Bersani seccato dall´ennesima provocazione e la segreteria irritata: «In altri tempi si sarebbero aperte procedure disciplinari...». Anche Ivan Scalfarotto e Ignazio Marino sono disposti a barricate sulle primarie.
(g.c.)

Corriere della Sera 8.1.11
Fioroni: «Non voterò come il partito sul biotestamento»
di Monica Guerzoni


«Il problema del Pd non è il congresso, ma il progetto politico» . Bersani non ha un progetto, onorevole Beppe Fioroni? «Il patto per una nuova agenda politica è interessante e mi trova d’accordo, ma il problema è capire se abbiamo la testa rivolta in avanti o se continuiamo a guardare indietro. Servono più coraggio e meno paura, meno nostalgia. Altrimenti il patto per il dopo-Berlusconi non serve a niente. Sul lavoro, per dire di una delle questioni più urgenti, c’è bisogno di innovare e di cambiare» . Condivide la svolta pro-Marchionne di Veltroni? «Noi non possiamo chiuderci nella ridotta di Vendola e della Fiom, dobbiamo tagliare il cordone con la conservazione e imboccare la strada del cambiamento. Veltroni rompe una tradizione consolidata a sinistra e dice, in sostanza, quel che io vado affermando da un anno, riproponendo elementi che fanno parte della dottrina sociale della Chiesa» . Il 22 gennaio Veltroni parlerà al Lingotto, culla del Pd. Non è una dichiarazione di guerra a Bersani? «Sia chiaro che per me il Lingotto non è un ritorno al passato, ma al futuro. È il rilancio dello spirito originario del Pd da parte di una pluralità di voci e la proposta di un progetto che dica parole non tentennanti su lavoro, famiglia, fisco, sicurezza, giovani e sapere. Solo con proposte chiare si definiscono naturalmente gli alleati possibili e si evita di rieditare le solite alleanze di tutti contro Berlusconi» . Bersani verrà a Torino? «Il Lingotto è aperto a tutti, ma i confronti si fanno negli organismi dirigenti» . Il Pdl medita di portare al voto la legge sul testamento biologico. Voi cattolici ex popolari la appoggerete? «Bersani ha fatto bene a non inserire nella sua proposta alle opposizioni temi sensibili come il diritto alla vita» . Quindi è vero, il rischio di una spaccatura è concreto. «Di certo il mio voto non sarà uguale a quello del Pd. La mia posizione è molto chiara. Sul fine vita non serve una legge che imponga dogmi e che, nel tentativo di dettare norme uguali per tutti, dimentichi la specificità del malato come persona» . Quando il ddl arriverà in Aula voterete con la maggioranza, a rischio di prefigurare una scissione? «E’ chiaro che io rappresento l’orientamento non prevalente nel Pd e rivendico libertà di coscienza. Ma non vedo il problema. Non sarà il banco di prova della rottura, ma della libertà e della pluralità del Pd. Ricordo che io votai con l’allora centrodestra la legge 40 sulla fecondazione assistita e con me tutti i popolari» . Fu uno psicodramma, per il centrosinistra... «Io questo dramma non me lo ricordo. Su questi temi anche la destra si divide, parte di Fli voterà in un modo e anche nella maggioranza ci saranno dei distinguo. La differenza tra noi e loro è che la destra strumentalizza questi temi delicati con finalità politiche, mentre il centrosinistra ha sempre rispettato la libertà di coscienza» . Come risponderete all’ondata di critiche sulla mancanza di unità che arriveranno dagli elettori? «Non può essere una tessera di partito a decidere sui temi della vita e della morte. Anche perché molti elettori del Pd, cattolici e non, ci votano perché sanno che saremo rispettosi delle loro convinzioni profonde. Il Pd non può tornare indietro da una tradizione consolidata. Qualora venisse leso il bene non alienabile della libertà di coscienza allora sì, che potrebbe prefigurarsi una rottura» .

Corriere della Sera 8.1.11
«I santi umbri nello statuto». E il Pd si spacca
Fa discutere la proposta di monsignor Paglia sui riferimenti a Francesco e Benedetto
di Marco Gasperetti


PERUGIA — Il presidente della Provincia, Marco Vinicio Guasticchi (Pd), quei santi li vorrebbe nello statuto provinciale e in quello regionale, immediatamente. Non beati qualunque, ma personaggi blasonati e rigorosamente di nascita umbra. Che poi sono sostanzialmente due: San Francesco d’Assisi e San Benedetto da Norcia. «Martedì porteremo l’idea in consiglio comunale— annuncia Guasticchi—, discuteremo e voteremo. Sono certo che la proposta passerà a larga maggioranza» . L’idea di inserire Francesco e Benedetto nella Magna carta delle istituzioni locali è stata lanciata per la prima volta da monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e presidente della Conferenza episcopale umbra. Prendendo spunto dalla visita che il Papa farà in Umbria a fine settembre, il prelato ha chiesto di scrivere negli statuti un riferimento ai due giganti della Chiesa. Idea subito rilanciata con entusiasmo dalla consigliera regionale dell’Udc Sandra Monacelli. Se ne discuterà in commissione statuto. Non senza qualche dubbio trasversale, però, e pure qualche mal di pancia, anche all’interno del Pd. Come spiega il capogruppo dei democratici in consiglio regionale, Renato Locchi: «Cambiare lo statuto? Il mio partito non ne ha ancora discusso. Comunque, personalmente, ritengo che già lo statuto attuale contenga riferimenti alla religiosità umbra e che vada bene così» . Insomma, polemiche in vista. L’Umbria ha un’alta percentuale di laici e anticlericali (le logge massoniche non si contano), di marxisti, post marxisti e libertari. E proprio nell’anno dei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia, a Perugia si ricorda l’ultimo massacro delle truppe papaline del 20 giugno 1859. A rovinare la festa ci si è messa pure Rifondazione Comunista, nella maggioranza sia alla Regione che alla Provincia. Il segretario regionale, Stefano Vinti, è contrario a ogni revisione e ironizza: «Sarebbe discriminante nei confronti degli altri santi umbri. Però se si vuole inserire nello statuto lo spirito di Francesco lo si faccia citando l’acqua, che lui chiamava sorella, e che dovrebbe essere pubblica e non un business da affidare a società per azioni» . Dalla poltrona di leader della Provincia, Marco Vinicio Guasticchi però non si dà per vinto. «Francesco è un umbro patrono d’Italia, Benedetto è un umbro patrono d’Europa — spiega — e i loro valori, come la tolleranza religiosa e l’amore per il creato e dunque l’ambiente e la natura, sono di grande attualità» . E a chi critica l’iniziativa come anti-laica, risponde monsignor Paglia: «Senza questi due figli dell’Umbria la laicità non esisterebbe. Benedetto per la cultura e Francesco per la tolleranza e il dialogo, rappresentano valori universali e laici. Guai a tagliare i rami sui quali siamo seduti» .

Corriere della Sera 8.1.11
Pd, meglio lo scontro che il logoramento
Bersani, Veltroni e il tempo che scade
di Pierluigi Battista


Il Pd diviso Il Pd diviso Pier Luigi Bersani teme che, se adottasse la linea di Veltroni, il Pd verrebbe inseguito dagli operai di Mirafiori muniti di poco dialoganti forconi. Ma il terrore del Partito democratico dovrebbe essere la rassegnata indifferenza dell’elettorato, non la sua ira. L’abbandono. La percezione di una cronica irrilevanza. E allora meglio lo scontro aperto nel partito, piuttosto che il mesto logoramento accompagnato da una sorda guerriglia permanente.
Tutto sta a testimoniare che nel Pd sia sul punto di sfibrarsi anche l’ultimo filo che dovrebbe legare un gruppo dirigente nel rispetto della lealtà reciproca. Lo scambio degli ultimi giorni tra il segretario Bersani e l’ex segretario Veltroni è costellato di asprezze senza precedenti. Le parole si fanno feroci, ultimative, irriguardose persino. Matteo Renzi parla con baldanza di «rottamazione» degli attuali dirigenti appesantiti dalle sconfitte e dell’anagrafe. Gli altri giovani (Civati, e non solo lui) convocano contro-riunioni e descrivono la sede deputata alla discussione del vertice del partito come una «catacomba» polverosa e popolata di mummie politiche. Nel Pd sembra che non si vogliano più bene l’un l’altro. Le vecchie componenti si consumano nel rancore e nel risentimento. Quelle nuove ne approfittano non per portare nelle stanze chiuse del partito un linguaggio nuovo e fresco, ma per mimare giovanilmente le stesse idiosincrasie dei «vecchi» da rottamare. Sembra un partito che non sa ritrovare più la sua anima. E proprio mentre il centrodestra al governo, che pure appare galvanizzato dal trionfo parlamentare del 14 dicembre, è incrinato da scontri, tensioni, rivalità non sanate ancora da eventuali prossimi rinforzi. Il centrodestra è in affanno. Ma il Pd sembra avere le idee troppo confuse. L’impatto con il caso Marchionne è stato devastante. Ha messo in luce un partito lacerato tra un’anima innovatrice e moderna e una nostalgica e ancorata al passato oggi rappresentato dalla Fiom. Esita, incerto davanti al bivio fatale. Susanna Camusso, leader della Cgil, sfida apertamente la Fiom, impone una discussione politica aspra ma chiarificatrice. Però nel Pd tutto resta nel vago. Se Veltroni, anziché avvitarsi nella solita e inconcludente diatriba sulle primarie, parla del caso Fiat e suggerisce una linea meno arroccata in difesa, la segreteria del partito vive questo dissenso come un affronto personale e una provocazione narcisistica del suo predecessore. Il contrario dell’atteggiamento franco e coraggioso della Camusso. Ma a questo punto una discussione aperta e leale, senza forconi ma anche senza le astuzie oramai usurate di un dibattito cifrato e inquinato da inestinguibili ostilità personali, sarebbe la scelta più vitale per un partito la cui debolezza — è utile ribadirlo — costituisce una tragedia per la democrazia italiana. Una democrazia senza un’opposizione che sia in grado con la sua forza di mettere sanamente «paura» alla maggioranza è destinata a restare zoppa. Provoca disperazione, o frammentazione, o apatia. Lascia totale campo libero alla maggioranza che, seppure divisa e in affanno, gioca con la sicurezza che, comunque vadano le cose, alle prossime elezioni il destino è già segnato: naturalmente a suo favore e a scapito di un partito come il Pd che, assieme alla sua declamata «vocazione maggioritaria» , non riesce più a trasmettere agli elettori la percezione di un’alternativa credibile. Il feticcio dell’ «unità» , contrariamente a ciò che sembra dettato dal buon senso, è nocivo e paralizzante. Il dramma del Pd non è che sia troppo diviso, ma è che è incapace di comunicare con chiarezza le cose essenziali che intende proporre. Il ricorso alle primarie ha creato il clima di un congresso permanente che non è in grado di concludersi con un vincitore riconosciuto da tutti, anche da chi ne ha contrastato democraticamente il cammino. Solo così il Pd si potrà (ri) guadagnare la fiducia di chi, volendo opporsi a Berlusconi, vuole però anche vedere nel partito che incarna l’alternativa una forza autentica, che derivi dall’autorevolezza, oltre che, come è ovvio, dai numeri elettorali. Meglio uno scontro vero, per ripartire, che la paralisi dei veti contrapposti. Altrimenti, addio per sempre alla «vocazione maggioritaria» .

l’Unità 8.1.11
I gangster del mercato
di Moni Ovadia


Il diktat di Marchionne agli operai della Fiat è solo la punta dell’iceberg di un sistematico attacco all’autonomia della democrazia che mira a sottomettere le società planetarie al potere esclusivo dell’economia. Il processo di disgregazione dell’indipendenza della politica dalle pretese totalitarie dei potentati economico-finanziari è iniziato all’indomani del crollo del comunismo. La sconfitta del sistema che si proponeva come alternativa al capitalismo, ha dato il segnale a quei potentati che il terreno era sgombro e che era tempo di abbandonare ogni remora per partire all’attacco delle pretese democratiche di vigilare sui mercati per prevenirne abusi e degenerazioni illiberali. Fatta carne da macello di ogni mediazione socialdemocratica la grande manovra per la conquista planetaria è partita con una vasta campagna ideologica travestita da scienza economica. I grandi economisti dell’iperliberismo selvaggio, dai Chicago Boys del premio nobel Milton Friedman fino all’ultrareazionario Robert Lucas, hanno edificato una micidiale ideologia assolutista basandola su pseudo assiomi e spacciandola per scienza rigorosa. Giulio Tremonti, il nostro superministro dell’economia in tempi recenti ebbe a definirla mercatismo, a me, qualche anno prima, è capitato, en passant, di definirla mercatolatria e di proporre per i suoi teorici l’appellativo di stalinisti del mercato. Le teorie di questi geni hanno predisposto poderosi strumenti scientifici atti a santificare la finanza speculativa responsabile dell’ultima devastante crisi. La crisi non ha neppure sfiorato il credo ideologico dei gangster della finanza. Grazie al soccorso dei soldi pubblici sono pronti a ricominciare, perché il loro scopo ultimo è quello di sostituire le società dei diritti con società anomiche, cioé senza norme e fondate sul ricatto dei ricchi.

Repubblica 8.1.11
Se è la Fiat a dettare la legge
di Carlo Galli


La vicenda Fiat Mirafiori ha un´intrinseca complessità: rinvia a questioni in materia di lavoro, come la legge – o un accordo tra le parti sociali – sulla rappresentanza sindacale.
Rinvia a considerazioni tattiche sull´opportunità di firme più o meno tecniche, sull´esigenza – di cui un sindacato può farsi carico – di restare in fabbrica anche a prezzo di sottoscrivere un accordo svantaggioso; e rinvia anche a temi di politica industriale, come le responsabilità dell´azienda nelle difficoltà della Fiat. Ma non vi è dubbio che il nucleo di problemi più scottante è quello che verte sul rapporto fra politica (democratica) ed economia. E da questo punto di vista tutti sanno che siamo arrivati a un cambio di orizzonte, a una trasformazione di paradigma; che cioè il caso Fiat è oggi il baricentro su cui convergono le linee di tensione, di crisi o di evoluzione, del sistema-Italia.
Lo sa il governo, che saluta con favore l´isolamento della Fiom, gli scontri dentro la Cgil, l´imbarazzo del Pd, le ammaccature subite dalla stessa Confindustria; che per bocca del ministro del Lavoro, ex socialista, si compiace della drastica riduzione del controllo sociale sull´impresa – cioè del venir meno della strategia della concertazione inaugurata da Ciampi nel 1993 – ; che plaude alla sconfitta delle ideologie, in quanto foriera della modernizzazione del Paese; che propone un´immagine di sé che non è neppure quella del comitato d´affari della borghesia, ma dell´esecutore dei desiderata di un manager.
Lo sanno gli sconfitti, cioè i sindacati, che vedono il proprio ruolo ridotto ad accettare (alcuni) o a rifiutare (altri) linee strategiche e operative elaborate unilateralmente dall´azienda. Che subiscono cioè la trasformazione della dialettica – di una situazione in cui gli attori sono due – in plebiscito, dove la volontà che conta è solo quella di chi pone le domande, e mette la controparte nella posizione subalterna di prendere o lasciare.
Lo sa il vincitore, Marchionne, che ha fatto passare tutte le proprie richieste. Per prima, l´interpretazione della globalizzazione come di una forza cieca e inesorabile, di una svolta del senso della storia, che non può essere gestita ma solo assecondata, e solo nella direzione che l´azienda ritiene più conveniente per sé; accanto a questa, l´annuncio di una nuova epoca delle relazioni tra capitale e lavoro, non più conflittuali ma obbligatoriamente cooperative – e non nel senso della cogestione, ma di una collaborazione asimmetrica, in cui la forza lavoro rinuncia alla propria soggettività politica in cambio dell´impiego, e di qualche ipotetico aumento in busta paga - ; infine, la più aperta e provocatoria, ovvero la pretesa di mano libera, da parte dell´impresa, nel perseguire le proprie strategie: "la Fiat non può essere condizionata". Accordi e contratti vengono lacerati; l´iniziativa è di una sola parte, di un uomo solo. Il blitz della Decisione, la potenza dell´Incondizionato, spezzano la trama dei rapporti reciproci, dei conflitti e delle mediazioni, l´intreccio delle relazioni tra soggetti diversi, portatori di interessi diversi, in una società complessa. Da oggi il mondo è più semplice: il dispositivo intrinsecamente autoritario della decisione e del plebiscito sostituisce la trattativa, le regole condivise. La salvezza della Fiat è la legge suprema: per la Fiat, per i sindacati, per l´Italia.
Che dietro questo decisionismo ci siano le difficoltà di un´azienda è evidente; ma che quelle che sono debolezze su scala globale vengano rovesciate in potenza unilaterale su scala interna, è una mossa di micidiale efficacia e novità. Significa che il ruolo della politica – per ovvia corresponsabilità del governo – non è più quello di dare forma ed equilibrio a una complessità, di gestire le contingenze e le crisi con riguardo alla molteplicità degli attori in gioco, ma quello di certificare ex post l´esito della legge del più forte; che gli interessi generali del Paese coincidono a priori con quelli della Fiat; che la sovranità – che la Costituzione attribuisce al popolo – si sposta verso chi è capace di impugnare vittoriosamente la decisione; che, almeno tendenzialmente, la Repubblica viene a essere fondata non sul lavoro, ma sul profitto e sullo sviluppo, che è appunto il lavoro visto dall´azienda, privato della centralità dell´uomo.
è davvero, questo, un passaggio epocale; è il momento in cui nel tessuto della nostra democrazia, che finora si è auto-interpretata, nonostante tutto, come liberale e sociale, fa irruzione la globalizzazione, che si propone come l´aperto predominio delle logiche economiche sulle logiche politiche democratiche. Si sta perdendo, insomma, più o meno da parte di tutti, l´occasione per rilanciare la politica come governo democratico della società, e si prende la strada di un ‘realismo´ scivoloso: legittimare l´esistente come necessario, inchinarsi al presunto spirito del tempo, qualunque cosa ciò significhi, mentre si rinuncia allo sforzo critico di stare nel proprio tempo nel modo migliore.

il Fatto 8.1.11
Il film alla rovescia del caso Fiat
Zipponi (Idv): “Non comprerà Chrysler, accadrà il contrario”
di Luca Telese


“Il vero film sulla Fiat non è quello che stiamo vedendo. C’è un trucco macroscopico, bisogna aguzzare l’intelligenza per capirlo”. Maurizio Zipponi, deus ex machina dell’Idv sui problemi del lavoro, è l’uomo che più di tutti ha combattuto perché il suo partito prendesse posizione contro l’accordo Fiat. Adesso, con la sua voce pacata di sempre, illustra il colpo di scena che guida la sua analisi: “Il coro degli apologeti di Marchionne, la logica del muro contro muro, occulta la verità su questa trattativa”.
Onorevole Zipponi, a cosa si riferisce?
Semplice: tutto lascia intendere che non sia la Fiat a comprare la Chrysler, come ci raccontano i media , ma la Chrysler a comprare la Fiat. Se non si capisce questo non si capisce nulla. 
É suggestivo, ma arduo da dimostrare...
Lei dice? Proviamo a mettere in un ordine diverso gli elementi concreti già sul tavolo e a leggerli diversamente.
Da dove partiamo?
Da chi mette i soldi davvero, per esempio.
Chi?
Il governo Obama. Ponendo come vincolo a Marchionne di proteggere la produzione in America. Nulla di male: è quello che nel mondo fanno tutti, a partire da Sarkozy, con l’unica eccezione di Berlusconi.
Il governo italiano sostiene la cassa integrazione, attraverso l’Inps.
E non è grottesco? Negli altri paesi si danno soldi per produrre, nel nostro si paga per non produrre. Con costi altissimi.
Però non si licenzia.
A Mirafori sono fermi, a turno, da un anno. Temo che lavoreranno   nella settimana del voto, e poi rischino di finire in cassa integrazione per sempre.
Mi dica gli altri elementi.
Anziché parlare dei modelli che non ci sono, o forse non si faranno mai, parliamo invece di quelli nuovi che si faranno di sicuro, e vediamo dove si faranno.
Mi faccia l’appello.
Ho i piani industriali ufficiali: la nuova Multipla si fa in Serbia, dove c’è un aiuto di stato. La nuova Ulysse e la 500 elettrica si fanno in America, come la nuova Thema e le Lancia derivate dai modelli Chrysler. Il Doblò che la Fiat darà alla Opel si farà in Turchia, la nuova citycar si farà in Brasile... Dove sono le auto italiane?
C’è la nuova Ypsilon.
Era annunciata per un anno fa, ed era già slittata di un anno. Si farà quest’anno?
Nulla in Italia, vuol dire?
Grandi prodotti per ora no, il listino non viene aggiornato. 
Faccio l’avvocato del diavolo: Marchionne ha comprato la prima quota di Chrysler senza spendere un euro.
Ecco il punto! Proviamo invece a ribaltare: la Chrysler, che era, ed è tecnicamente fallita, e senza know-how, ha avuto gratis dalla Fiat, i brevetti per produrre nuove macchine subito, senza spendere un euro. É sicuro che ci guadagni   la Fiat?
Ma allora chi ci guadagnerebbe, secondo lei?
Marchionne con le stock option, di certo. E soprattutto la famiglia Agnelli che fa cassa liberandosi dell’auto e diluendo la sua quota di controllo, come già aveva ipotizzato ai tempi della trattativa con la Gm.
Perché voi dipietristi difendete la Fiom?
Perché mi pare che sia stato scelto come un capro espiatorio perfetto.
Perché?
Perché se l’obiettivo era produrre, aveva già accettato di fare macchine e di aumentare i turni di lavoro a 18!
E invece?
Oggi la vera priorità della Fiat è la partita finanziaria, non la produttività.
Che scenario immagina?
Che se a Mirafiori vince la linea Marchionne, una delle possibilità   più concrete è che l’auto se ne vada da Torino e dall’Italia dopo cento anni!
E sarebbero tutti d’accordo?
Io so che dentro Banca Intesa, c’è perplessità rispetto a una anzienda che vuole i soldi della banche per comprare e delocalizzare la produzione fuori.
Perché il centrosinistra dovrebbe opporsi?
Perché dobbiamo spiegare ai lavoratori che la Lega anti-Fiat è diventata la stampella di questa curiosa   operazione: usare il soldi della finanza del nord per mettere il know how italiano al servizio dell’auto americana.
L’ha stupita la scelta del Pd?
Mi ha addolorato, che è diverso. Purtroppo alcune cose vengono da lontano...
Cioè?
Posso raccontarle un aneddoto   illuminante: nel 1988 mi trovai per la Cgil in una trattativa durissima per l’Iveco. Il dirigente Fiat ogni tanto apriva una porta, e andava in una stanza.
E questo che voleva dire?
Scoprimmo che in quella stanza c’era Piero Fassino, che in parallelo concedeva cose per cui noi stavamo battagliando.
Come finì?
A urli. Sono un pacifico ma fu un miracolo non picchiarsi.
Anche nell’Idv vi siete divisi, Donadi è pro-Fiat.
Giudico i politici dalle scelte decisive. In Italia ci sono due alternative proibite: andare contro le gerarchie ecclestiastiche e andare contro la Fiat.
Perché me lo dice?
Di Pietro ha dimostrato il suo coraggio, prendendo una posizione impopolare. Ma se permette - visto questo scenario - lungimirante.

il Fatto 8.1.11
Pd, dalla Fiat non si scappa
di Paolo Flores d’Arcais


Il Partito democratico riunisce la sua direzione mercoledì 12, e i “rottamatori” di Civati e Renzi il giorno prima riuniscono la loro. L’assemblea che hanno indetto ha per titolo, infatti, “La giusta direzione”, una trovata carina, giocando sulle parole, con la quale vogliono alludere alla necessità di una diversa linea politica, ma insieme – e soprattutto – legittimarsi come la “vera” direzione del partito degli elettori, a delegittimazione di quella ufficiale di Bersani and co., obsoleta, autoreferenziale e perciò in caduta libera di consensi.
VEDREMO se fanno sul serio.   Una “giusta direzione”, per essere tale, ha bisogno di un prerequisito irrinunciabile: farla finita con lo slalomismo e il ponziopilatismo che ormai da troppi anni (a dire il vero fin dalla sua nascita) caratterizza le (non) scelte del Pd. La sequenza delle date, del resto, non perdona: l’11 i “rottamatori”, il 12 la direzione ufficiale del Pd, ma il 13 e il 14 il referendum di Mirafiori, che dovrà pronunciarsi sul diktat di Marchionne, con un voto degli operai che si svolge nei tempi, alle condizioni, con il clima mediatico e psicologico pretesi e imposti da Marchionne stesso. Perciò: direzione ufficiale del Pd, e “giusta direzione” dei rottamatori, devono in primo luogo decidere se intendono parlare ai cittadini o se vogliono perdurare nel “diabolicum   ” del parlarsi addosso. Il tema della prossima settimana, in Italia, è il referendum di Mirafiori, chi svicola, chi non prende posizione, può illudersi di fare politica, di essere una presenza pubblica, di contare qualcosa, in realtà si è già condannato all’insignificanza. Cosa diranno perciò rottamatori   e “ufficiali” sul diktat marchionnesco che toglie il diritto di sciopero e abroga la rappresentanza degli operai e delle organizzazioni sindacali che al diktat sono contrarie? Cosa diranno della rivolta sindacale e morale che contro questo obbrobrio anticostituzionale è stata promossa dalla Fiom di Landini , e ha ottenuto l’immediato e appassionato avvallo dell’ultimo grande (e moderato!) leader sindacale della Cgil, Sergio Cofferati (che della Fiom fu sempre critico)? Cosa diranno della svolta che alla Cgil sta imprimendo Susanna Camusso (di svolta ormai si tratta, visto che la “firma tecnica” a cui vuole costringere la Fiom è incompatibile con lo statuto della Cgil, come ha ricordato proprio Cofferati, che quello statuto lo conosce indubitabilmente)? Sulla vicenda Marchionne-Fiom non ci si può esimere dall’evangelico “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal demonio” (Matteo, 5,37), visto che è Marchionne ad aver posto la questione in termini ultimativi   (oltre che ricattatori): aut aut, prendere o lasciare, mangiare questa minestra o saltare dalla finestra. Senza margini per trattative, e neppure   per discussioni verbali. È perciò patetico sentire le lamentose giaculatorie dei distinguo con cui i D’Alema e i Bersani cercano di tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, la “modernità” e le supposte “valenze positive” del diktat di Marchionne con il dovere di riconoscere la rappresentanza anche degli operai Fiom (e magari di tutti gli operai, non vi pare?).
La cancellazione della Fiom non è infatti un “optional” nel pacchetto di Marchionne, ma ne rappresenta il cuore (nero), la ragione sociale, la quintessenza alchemica.
L’IRRINUNCIABILE, insomma. È stato autorevolmente ricordato, infatti, che il costo del lavoro degli operai di Mirafiori incide sul prodotto finale per circa  il 7%, e che dunque non è l’ulteriore giro di vita sulla fatica alla catena imposto ai lavoratori che renderà più competitiva – fosse anche di un’anticchia – l’autovettura che arriverà nelle concessionarie. Al limite, Marchionne domani potrebbe ripristinare quei dieci minuti di “respiro” che ha voluto togliere a chi alla catena si spreme (l’agenzia sanitaria europea considera che per tutelare le condizioni elementari di salute dovrebbe essere obbligatoria una pausa di dieci minuti ogni ora!), quello su cui non può transigere è la soppressione di ogni potenziale di conflittualità operaia organizzata, cioè un sindacato degno di questo nome. Ma proprio perché questa è la reale posta in gioco, la lotta dei metalmeccanici di Landini dovrebbe   essere la lotta di tutti i democratici italiani. Se la soppressione di fatto di un sindacato-sindacato passa a Mirafiori, sarà l’inizio dell’esondazione per seppellire i diritti in tutti i luoghi di lavoro.
MA NELLA società non ci sono compartimenti stagni: se un diritto costituzionale viene spazzato via in un comparto dell’esistenza fondamentale come il lavoro, il rischio del contagio è certezza. Del resto l’epidemia anticostituzionale si è scatenata da tempo, contro i giornalisti-giornalisti, i magistrati-magistrati, e insomma i cittadini-cittadini, con le leggi berlusconiane solo provvisoriamente fermate dalle lotte della società civile (quello che ne resta).
La politica di “un colpo al cerchio e uno alla botte”, che sembra essere ormai l’unica stella polare dei dirigenti Pd, in realtà non è affatto equidistante (neppure l’equidistanza, del resto,   quando si tratta di valori fondamentali, sarebbe una virtù). Implica il “sì” al diktat Marchionne, un “sì” che i Bonanni e altri “sindacalisti da compagnia” vogliono all’80%. “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”, questo è il progetto, insomma.
Se ai terminator mediatici di regime non sapranno opporre neppure la chiarezza di un “no” a Marchionne, i Civati e altri Renzi si saranno rottamati da soli.

l’Unità 8.1.11
Istat Il tasso dei senza lavoro under 25 vola al 28,9%, mai così alto. Aumentano anche gli inattivi
Il Pd : «Urgente avviare una fase di riforme con un patto costituente. Ormai ci stiamo avvitando»
La disoccupazione è giovane Dato record dal 2004
Un esercito di disoccupati, soprattutto giovani. Il tasso aumenta ancora, al livello record del 28,9%. Il Pd: dati drammatici, serve un patto costituente. Sacconi si consola: le donne occupate compensano i giovani.
di La. Ma.


La disoccupazione è ai massimi, ma a preoccupare è soprattutto quella giovanile, che a novembre ha raggiunto il livello record del 28,9%, con un aumento del 2,4% rispetto a un anno prima, e dello 0,9 su ottobre. Cresce anche il numero dei cosiddetti inattivi, le persone che hanno rinunciato o non possono più cercare lavoro. Il tasso generale della disoccupazione si è attestato sull’8,7%, ovvero la stessa percentuale registrata ad ottobre, anche se sui decimali si registra un lievissimo miglioramento. Nel complesso, le persone in cerca di occupazione sono 2 milioni e 175mila (+5,3% rispetto al novembre 2009).
I dati Istat, insomma, continuano a scattare la stessa fotografia di un’emergenza nazionale che non sfuma e per la quale, insistono opposizione e sindacati, serve un piano straordinario: «Il governo pensa ad altro, è in crisi, inadeguato e inefficace dice Fulvio Fammoni per la Cgil Un piano straordinario per l’occupazione e lo sviluppo sarà al centro della mobilitazione della Cgil in tutte le città d’Italia». Dal Pd l’appello alle forze politiche di confrontarsi per avviare una fase di riforma per la crescita e il lavoro «con un patto di natura costituente», dice il responsabile lavoro Stefano Fassina. «La fase è straordinaria, ci stiamo avvitando in una spirale di stagnazione, elevata disoccupazione, fragilità degli equilibri di finanza pubblcia». Anche la Cisl parla di emergenza, e sottolinea due dati «estremamente negativi»: l’ulteriore esplosione del tasso di disoccupazione giovanile che raggiunge l’apice mai toccato del 29%, e l’aumento dell’1,5% delle donne disoccupate rispetto al mese precedente, pur se temperato dalla crescita delle donne occupate e dal conseguente calo delle donne inattive. Tanto che dal governo sia il ministro Carfagna sia il collega Sacconi riescono a commentare con toni soddisfatti. «Le donne occupate compensano la quota persa dei giovani», dice il ministro del Welfare, che nei prossimi giorni incontrerà le Regioni per definire l’impiego degliammortizzatrori in deroga. In realtà, se si parla di donne, aumenta sia l’occupazione (+1,4% su base annua, tasso al 46,3%), sia la disoccupazione, il cui tasso è al 10%, in crescita su mese e su anno (+0,3%). Il tasso di occupazione maschile, invece, è al 67,4%, in calo dello 0,7% nell’ultimo anno.
E, secondo gli artigiani della Cgia di Mestre, in realtà il tasso di disoccupazione è oltre il 10%, superando quello ufficiale dell’Istat, se si contano anche i cosiddetti sfiduciati, che in questi ultimi due anni di crisi sono usciti dalle statistiche ufficiali perchè hanno deciso di non cercare più un posto di lavoro, e che a novembre risultavano essere 402mila.
EUROSTAT
Ed ecco i dati diffusi da Eurostat relativi all’eurozona: la disoccupazione a novembre è rimasta stabile rispetto a ottobre, a quota 10,1%. Nel novembre 2009 il dato era stato pari a 9,9%. Stabile il tasso di disoccupazione anche per l’Ue a 27, a novembre fermo al 9,6% come a ottobre. Nel novembre 2009 era al 9,4%. Eurostat stima i disoccupati nell’Ue a 23,24 milioni, di cui 15,92 nell’eurozona. Rispetto al novembre del 2009 c’è stato un aumento di 347mila persone nell’eurozona e di 606mila nell’Ue-27. I paesi in cui si sono registrati i tassi più bassi di disoccupazione sono l’Olanda (4,4%), il Lussemburgo (4,8%) e l’Austria (5,1%), mentre i più alti si sono registrati in Spagna (20,6%), Lituania (18,3%) e Lettonia (18,2%).

l’Unità 8.1.11
Sit in a Roma Molti dei lavoratori fuggiti da Rosarno vivono in un centro sociale della Capitale
Dopo le promesse sono ancora schiavi. Lo striscione: «Le vostre arance non cadono dal cielo»
I neri di Rosarno al ministero «Un anno e niente è cambiato»
Ad un anno dalla «caccia al nero» di Rosarno, alcuni dei migranti fuggiti della Calabria si sono dati appuntamento per protestare sotto il ministero delle Politiche Agricole contro le loro condizioni di lavoro.
di Luciana Cimino


A un anno dai tragici fatti della piana calabrese, gli immigrati di Rosarno sono tornati a far sentire la loro voce con una doppia manifestazione nella cittadina che 12 mesi fa fu teatro dei violenti scontri e a Roma, con un sit-in sotto il Ministero delle Politiche Agricole. Da allora molto è cambiato ma non le loro condizioni. I migranti sono stati dispersi (dalla Puglia a Castel Volturno, da Cassibile all’Agro Pontino) ma delle promesse fatte all’indomani della terribile “caccia al negro” che seguì la rivolta dei braccianti non ve ne è traccia. Sono rimasti schiavi, di uno schiavismo che non si può neanche definire “moderno” perché della modernità non ha niente e la catena che una volta era di ferro oggi si chiama ricatto da permesso di soggiorno e da lavoro. Dei circa 150 lavoratori ospitati dal centro sociale ex Snia Viscosa, nel popolare quartiere capitolino del Prenestino, la maggior parte ha avuto il permesso per motivi umanitari, che ha durata, però, solo di un anno. Provengono da Mali, Costa d'Avorio, Guinea, Burkina, Ghana, Senegal e spesso sono laureati o diplomati ma in Italia si sono ritrovati a raccogliere pomodori e arance a nero per 20 euro al giorno sotto la mannaia del caporalato. Ieri, con il supporto di associazioni come l’Osservatorio Antirazzista, in circa un centinaio hanno srotolato striscioni sotto il ministero dell’Agricoltura. «Le vostre arance non cadono dal cielo», c’era scritto su uno di questi a sottolineare come i prodotti della nostra agricoltura siano ottenuti al più grazie a forza lavoro sotto pagata e senza diritti. «Dopo un anno le cose non sono cambiate – denuncia Sang, 43 anni, una moglie e 6 figli in Gambia e un passato e un presente da bracciante nel Foggiano e in Calabria – la rivolta ha messo in luce in quali condizioni viviamo e lavoriamo ma ancora siamo precari, ancora le nostre case sono abbandonate e senza servizi ancora il lavoro è a nero». «Abbiamo bisogno di documenti, di un lavoro regolare e che non sia sottopagato – continua – anche se adesso c’è un dialogo con le istituzioni la situazione non cambia mai». E aggiunge: «in Italia c’è razzismo, non affittano case dignitose a noi neri». Abu, 30 anni è fuggito dalla guerra in Costa D’Avorio. «Io sono fortunato perché ho il lavoro da magazziniere anche se sono laureato in informatica gestionale spiega ma sono venuto a manifestare per i miei compagni, bisogna cambiare questo sistema del ricatto del permesso di soggiorno, noi vogliamo il lavoro, senza lavoro non si può vivere, ma anche dignità». Forte tra i manifestanti è la delusione per il fallimento dell’accordo tra Provincia di Roma, Coldiretti e Confagricoltura volto a promuovere l’inserimento lavorativo regolare nelle aziende agricole romane. A fronte di una richiesta di manodopera di diverse centinaia di persone sono stati fatti solo 4 contratti. «È stata la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che nelle campagne del Lazio se si assume lo si fa a nero e non si riesce a promuo-
vere il lavoro regolare», commenta Veronica dell’Osservatorio Antirazzista. Tuttavia migranti, centri sociali e associazioni non si fermeranno. Per domenica hanno annunciato una raccolta delle arance che crescono spontanee per le vie di Roma e poi «torneremo alla Provincia per chiedere di dare seguito al protocollo di aprile, se non si prendono la responsabilità le parti istituzionali e quelle del mondo produttivo agricolo non può cambiare», aggiunge Marco dell’Osservatorio. Intanto una delegazione di manifestanti è stata ricevuta ieri mattina dal Mipaaf. Nella piattaforma la richiesta di condizioni di accoglienza dignitose e assistenza sanitaria per i lavoratori delle campagne, l’apertura di un tavolo presso gli enti locali con le associazioni datoriali per «scardinare un sistema produttivo paraschiavistico», la creazione di un sistema di etichettatura etica per i prodotti della filiera che garantisca non solo la qualità organolettica ma anche quella sociale. Inoltre i lavoratori di Rosarno hanno chiesto che venga garantito il permesso di soggiorno a chi denuncia il caporale o condizioni di lavoro irregolare, come già avviene in altri paesi europei.

il Fatto 8.1.11
Rosarno, l’omaggio degli africani alla madre dell’eroe antimafia
di Enrico Fierro


Ancora una volta “gli immigrati hanno salvato Rosarno”. E forse, come dice fin dal titolo il bel libro che Antonello Mangano ha scritto per Terrelibere, salveranno anche l’Italia. Sicuramente ieri hanno salvato la faccia della Calabria. Perché sono scesi in piazza rivendicando i loro diritti in tanti (almeno 500) e con civiltà hanno chiesto di vivere e lavorare in modo dignitoso e nel rispetto di leggi e contratti. Anche in terre dove tutto, anche l’aria che si respira, è controllato dalla mafia e condizionato dalla mala–politica. Sono scesi in piazza un anno dopo “i fatti di Rosarno”. La rivolta dei braccianti neri, la caccia all’uomo   e la scoperta che in un punto sperduto d’Italia uomini venuti da lontano alla ricerca di un pezzo di pane, vivevano (vivono) come bestie.
AMMASSATI nei capannoni di una fabbrica fallita (uno dei tanti esempi dell’inganno industriale della Calabria), tra cartoni ed escrementi, topi e sporcizia, sfruttati da caporali senza scrupoli e imprenditori agricoli con foreste di pelo sulla coscienza, rifiutati da una popolazione di bianchi che in quelle facce nere e scavate forse rivedeva i volti raccontati da Franco Costa-bile, calabrese e poeta maledetto, morto suicida a 41 anni: “Il bracciante la sera si guarda nella bettola il manifesto   del piroscafo e degli uccelli bianchi. Lui e il suo cuore non vanno d’accordo”. Non c’erano piroscafi un anno fa per i braccianti neri cacciati da Rosarno, ma pullman, torpedoni della vergogna che dovevano portar via, lontano dalla Calabria, quegli uomini sfruttati e sottrarli così ai linciaggi. “Non dovete ringraziarmi, noi siamo tutti uguali”. Nell’indifferenza della gente di Rosarno (al corteo organizzato dalla Cgil e dall’associazione Rete Radici di bianchi se ne sono visti pochi): una donna quasi novantenne, la veste nera di un lutto che la avvolge da trent’anni, l’unica a pronunciare parole giuste e straordinariamente moderne. Si chiama Caterina ed è la   mamma di Peppe Valarioti, eroe civile della Calabria, ucciso dalla ‘ndrangheta l’11 giugno 1980.
VALARIOTI si era occupato di arance e braccianti, di cooperative e speculazioni sui contributi comunitari e aveva capito che la ‘ndrangheta dei Pesce, dei Bellocco e degli altri mammasantissima che da sempre dominano nella Piana di Gioia Tauro, aveva messo le mani sul business degli agrumi. Lo uccisero e la sua morte, come tante altre morti civili nelle terre di ‘ndrangheta, è rimasta impunita. I braccianti neri hanno voluto fermarsi sotto la casa di Peppe, hanno stretto la mano dell’anziana madre, hanno scambiato con lei qualche parola. È toccato ancora una volta a loro, ritessere il filo di una memoria che a Rosarno   e in Calabria in troppi hanno velocemente cancellato. Quella di uomini, sindacalisti e dirigenti politici, che non molti anni fa si sono battuti per la giustizia e il lavoro, contro i boss della ‘ndrangheta e i politici corrotti. Uomini morti giovani con in testa il sogno di una politica dalle mani pulite sempre.
Ieri i neri di Rosarno, gli ultimi della Terra in una terra che la sua classe dirigente precipita sempre più giù nelle classifiche nazionali, hanno reso omaggio a questa storia. Nella Calabria dei consiglieri che si inginocchiano di fronte ai boss, baciano le loro mani, trattano pacchetti di voti per la Regione e per il Parlamento è una buona notizia. Una grande lezione di civiltà. Una piccola speranza per la Calabria.

l’Unità 8.1.11
Senza stranieri in Italia
il 62% di imprese in meno negli ultimi dieci anni
Lo studio condotto sui dati del registro delle imprese evidenzia l’aumento esponenziale degli ultimi dieci anni: stranieri i titolari di due su tre delle nuove attività. Le percentuali più alte a Roma e Milano.
di Virginia Lori


Negli ultimi 10 anni, senza il contributo degli stranieri, in Italia ci sarebbero quasi 285 mila imprese in meno, ovvero quasi 2 imprese su 3 delle 455 mila nuove società attive tra il 2000 e il 2010 (si tratta per la precisione del 62,6 percento circa del totale). È quanto emerge da un’indagine della Camera di Commercio di Milano sui dati del registro delle imprese al terzo trimestre 2010, in confronto con lo stesso periodo del 2000. Non è solo sul fronte del tasso di natalità che gli stranieri danno una mano all’Italia, o alla copertura di mansioni o mestieri sempre meno diffusi tra gli italiani. Sono proprio i migranti a far registrare il fenomeno numericamente più rilevante sul fronte dell’aumento delle attività imprenditoriali, che sempre più spesso parlano altre lingue rispetto all’italiano. Dal 2000 al 2010 le imprese controllate da cittadini stranieri sono cresciute del 200,7 percento, rispetto a una crescita media del 9,4 percento, che scende al 3,6 percento se si considerano le imprese con titolari italiani.
In particolare, lo studio dei dati del registro delle imprese evidenzia che, in termini di numero di aziende, senza il contributo degli stranieri sarebbero in rosso ben otto regioni rispetto ad una di solo 2 anni fa.
Nel dettaglio il Piemonte che ha registrato crescita del 6,4 percento in dieci anni scenderebbe a -0,1 percento senza imprese straniere. Lo stesso accade per la Liguria (da +7 percento a -0,6 percento) e l’Emilia Romagna (da +5,5 percento a -1,4 percento).
Devono ringraziare gli imprenditori nati all’estero anche la Basilicata, la Puglia, la Sicilia, le Marche e il Veneto. A queste si aggiungono 26 province, rispetto alle 21 del 2008. Tra le prime venti province in cui l’incidenza delle imprese straniere è maggiore la prima è Prato, in cui le imprese straniere rappresentano ormai oltre un quinto del totale, a seguire Roma (al secondo posto, con un apporto delle imprese straniere pari al 12,4 percento del totale), poi Firenze al terzo (10 percento).
Ma se si passa a parlare di numeri assoluti, la classifica è leggermente diversa: tra le grandi città Milano è prima in Italia per numero di imprese etniche (circa 40mila), seguita da Roma (circa 36mila) e Torino (oltre 21mila).

l’Unità 8.1.11
Intervista a Emma Bonino
«Attaccano i cristiani perché vogliono colpire l’Islam moderato»
Per la dirigente Radicale la bomba contro la chiesa copta in Egitto così come gli attentati in Iraq rientrano in un disegno eversivo che va oltre lo scontro fra religioni. I jihadisti cercano l’egemonia nel mondo musulmano
di Umberto De Giovannangeli


Se guardo alla strage di Alessandria e penso alla situazione egiziana, la mia impressione è che l'obiettivo strategico degli islamisti militanti non siano i copti, i cristiani, ma la classe dirigente araba, a cominciare da Mubarak che viene considerato “un fantoccio nelle mani dell'Occidente”, un “amico d'Israele e traditore della causa palestinese». A sostenerlo è Emma Bonino, vice presidente del Senato, profonda conoscitrice dell' Egitto. «Quello in corso sottolinea la leader Radicale non è uno scontro di civiltà né un conflitto di religione, ma l'ennesimo scontro tra l'Islam militante, jihadista e l'Islam più aperto, ragionevole..». E al ministro Frattini che si fa paladino del principio «accordi in cambio di diritti» dei cristiani nel mondo arabo e musulmano, la vice presidente del Senato ribatte: «La sua mi pare una visione limitata e limitante». E in questa intervista a l’Unità ne spiega il perché.
Quale idea si è fatta dei drammatici avvenimenti che hanno scosso un Paese che Lei conosce e ama: l'Egitto...
«Quello che penso è che il terrorismo internazionale di matrice fondamentalista sia un problema che se anche nasce all'interno dell'Islam, non ha alcuna attinenza, se non strumentale, al dato religioso. L'obiettivo strategico dei terroristi è quello di liberare l'Islam dalle classi dirigenti “empie”, e “asservite all'Occidente”. Prendiamo, ad esempio, la strage di Alessandria...».
Qual è la lettura politica a suo avviso più appropriata?
«La mia impressione è che l'obiettivo vero, strategico, dei terroristi e dei loro mandanti non siano i copti, i cristiani, ma la classe dirigente araba, a cominciare da Hosni Mubarak considerato un “fantoccio nelle mani dell' Occidente”. Insomma, non è in corso uno scontro di civiltà tra Occidente e Oriente, ma una duplice resa dei con-
ti all'interno delle varie “anime” politiche e identitarie dell'Islam...» Quali? «Restiamo all'Egitto. La prima sfida è quella tra gli islamisti militanti, i jihadisti, e la leadership araba di Mubarak, più “secolarizzata” e dialogante con l'Occidente. Ma poi c'è un'altra sfida, non meno significativa: essa riguarda l'egemonia sul variegato arcipelago fondamentalista. L'ala militare islamista ha sempre osteggiato il percorso “entrista”, istituzionalizzato, politico dei Fratelli Musulmani, ritenendo essere questa una strategia fallimentare, facendo peraltro leva anche sull’insuccesso dei Fratelli musulmani nelle recenti elezioni legislative. Con gli attentati e sviluppando una azione destabilizzante, l'ala militare islamista vuol dimostrare di essere la vera alternativa al “regime fantoccio” di Mubarak».
Uno scontro tra l’Islam combattente e quello più «ragionevole», e non uno scontro di civiltà o una guerra di religione... Ma c’è chi non è d’accordo con questa sua lettura. L’ultimo in ordine di tempo è il presidente francese Nicolas Sarkozy. Cito testualmente: «Nei Paesi arabi è in atto un piano di epurazione per i cristiani d’Oriente...».
«Sono molto scettica rispetto a questa lettura. Il tema è estremamente delicato, per le sue premesse e soprattutto per le sue conseguenze, e dunque merita di essere trattato con grande rigore e chiarezza. Che una delle conseguenze di questo scontro in atto all’interno dell’Islam, sia una situazione di grande instabilità, di paura, che può produrre anche degli esodi di quanti se sentano minacciati, questo è un fatto grave e incontestabile. Ma non è la ragione, la motivazione di questi attacchi. Il discorso vale per l’Egitto, ma a ben vedere, anche all’Iraq. Gli islamisti combattenti fanno anche calcoli politici. Il loro non è il terrore per il terrore. Costoro colpiscono nelle zone “fragili” -è il caso dell’Iraqo in zone consolidate che stanno però attraversando una fase di transizione complessa, e questo è il caso dell’Egitto. E in Egitto cercano di provocare la reazione delle componenti socialmente più deboli, e in queste c’è anche la minoranza copta. I jihadisti cercano di cavalcare il malessere socialee ciò vale non solo in Egitto, ma anche in Iraq o nel Maghreb per imporsi come unica alternativa all’esistente».
Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sull’onda della strage di Alessandria si è fatto sostenitore del principio «accordi in cambio di diritti» riferendosi ai diritti delle minoranze cristiane sotto attacco nel mondo arabo e musulmano. Come valuta questo approccio?
«Mi sembra una visione limitata e limitante. Sia chiaro: la libertà religiosa, da laici quali noi Radicali siamo, ci sta molto a cuore. E sia altrettanto chiaro: non intendo dire che in nessuna parte del mondo c’è una persecuzione dei cristiani in quanto tali. Dico però che, guardando ad esempio all’Egitto o all’Iraq, per non parlare dei Talebani in Afghanistan, l’obiettivo che l’Islam combattente intende perseguire con l’arma del terrore è un altro: liquidare l’Islam dialogante, più ragionevole. Mi augurerei che si riflettesse su questa lettura che non è solo mia ma di molti intellettuali arabi, oltre che di donne e uomini impegnati in associazioni e movimenti della società civile, e di chi, in Europa, conosce davvero quel mondo».

Corriere della Sera 8.1.11
Povertà e disoccupazione: nel Paese di Camus il rischio è l’Islam radicale
di Antonio Ferrari


Concentrati sulla crisi economica che assedia l’Occidente e spaventati dall’impatto che sta avendo sulla nostra vita, quasi ci eravamo dimenticati della sponda sud del Mediterraneo, e in particolare del Maghreb, che gli istituti internazionali premiano con elogi eccessivi alla crescita del Pil, ma dove in realtà la povertà trionfa. L’Algeria, la dolce e fiera Algeria che abbiamo imparato ad amare leggendo le pagine di Albert Camus, vive la sua ennesima stagione di violenza e di tensione sociale. La rivolta del pane, o magari la rivolta del cuscus, come si racconta per soddisfare un pizzico di civetteria etnica, rivela i contorni di una bugia: che tutto andava bene e che si marciava verso un crescente progresso, come ripeteva la propaganda del regime. In realtà il Paese è sempre in cerca di quell’equilibrio che era riuscito a immaginare, più che a ottenere, dopo la rivoluzione. Una rivoluzione vera, che ha cambiato profondamente l’Algeria, regalandole una difficile indipendenza, a differenza della confinante e in questi giorni altrettanto tribolata Tunisia, che non ha conosciuto la rivoluzione, ma al massimo ha vissuto il sussulto di quel «colpo di stato» sanitario che ha «pensionato» il presidente Habib Bourguiba e portato al potere Ben Ali. L’Algeria, in sostanza, è più democratica della Tunisia, però va detto che il Paese del presidente Abdelaziz Bouteflika, che affronterà le prossime elezioni nel 2014, dopo aver proposto ambiziosi piani di sviluppo, si è trovato a fronteggiare quel pericolo che la crescente democratizzazione aveva favorito: la consolidata presenza nella vita politica, ma in particolare in quella sociale, di un Islam radicale che, considerate le debite differenze, è presente e attivissimo in quasi tutti i Paesi del Nord Africa. Se si può fare un paragone con la «rivolta del pane» del 1988, che spinse il potere a inviare i carri armati in piazza provocando una carneficina, 162 morti e migliaia di feriti, si può dire che allora il Paese, guidato da Chadli Benjeddid, aveva sfidato le incrostazioni della storia, aprendo le porte a tutte le forze nuove, e sapendo che con questo avrebbe favorito la creazione e il consolidamento del Fis (Fronte islamico di salvezza) che, da allora, ha potuto condizionare tutte le scelte del Paese. Algeri, con la sua casbah ruspante e affascinante, ben diversa dalle più laccate suggestioni delle analoghe aree delle città del Marocco, ha rappresentato e continua a rappresentare il confronto sociale più duro e sostanzialmente più vero dell’intera regione. Bouteflika aveva promesso benessere diffuso. Ma la disoccupazione, che le stime ufficiali collocano attorno all’ 11 per cento, è in realtà vicina al 25 per cento. Per un Paese che per il 75 per cento è composto da giovani con meno di 30 anni è un dato non solo allarmante ma esplosivo. Eppure in questa strana Repubblica, dove nelle grandi città si respira la violenza del confronto sociale, vi sono nel Sud molte zone inaccessibili, blindate e protette, dove si produce e si esporta la grande ricchezza energetica del Paese. Quando il vertice politico decise di avviare un grande e pluriennale progetto di opere pubbliche (strade, autostrade, viadotti) si guardò ai costi più che alla volontà di favorire l’occupazione giovanile. Parte della manodopera fu «fornita» dalla Cina, o meglio da interi contingenti di detenuti cinesi, impacchettati e allettati da questa «trasferta di libertà» in cambio di pochi spiccioli, sapendo che a fine lavoro ci sarebbe stato il ritorno in patria. In Sudan, per analoghi progetti in zone proibitive, il governo di Pechino aveva promesso in cambio la libertà ai detenuti più intrepidi e coraggiosi, che ovviamente ogni giorno rischiavano la vita. Le tensioni e le violenze di queste ore, che coinvolgono Algeria e Tunisia mentre in Egitto il conflitto ha cercato di coinvolgere cristiani e musulmani, segnalano un profondo malessere. Anche istituzionale. Se al Cairo, dopo il presidente Mubarak, vi sono molte ipotesi di successione, per Algeri e Tunisi, guidate da due anziani e forse logori leader, non vi sono chiare indicazioni per il futuro. Il rischio che l’estremismo possa approfittarne è purtroppo altissimo.

Il nuovo saggio di Michele Ciliberto, La democrazia dispotica
il Fatto 8.1.11
Vizi antichi
Quelle derive dispotiche tra Marx e B.
Nel saggio di Ciliberto il mondo che i terzisti ignorano
di Riccardo Chiaberge


Non dite al liberalissimo Piero Ostellino che quasi due secoli fa il liberale Alexis de Tocqueville aveva capito cose che lui mostra di non avere ancora capito adesso. Per esempio che nelle nazioni sviluppate, la democrazia fondata sul sacro e indiscutibile “verdetto popolare” scivola facilmente in una sorta di dispotismo “dolce”, in una “servitù regolata, mi-te e pacifica”, che si combina “meglio di quanto si immagini con alcune forme esteriori della libertà”. Questo perché, scriveva il pellegrino francese nel 1835 di ritorno dal nuovo mondo, “i nostri contemporanei sono continuamente tormentati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno né dell’altro di questi istinti contrari   , cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini”.
È FIN TROPPO banale, col senno di poi, leggere in queste parole un’anticipazione profetica di quello che è oggi il Popolo della libertà. Ma sarebbe una forzatura ridicola e insidiosa, che si può agevolmente ribaltare in chiave autoconsolatoria: se la democrazia era già in crisi nell’America dell’Ottocento, se la dittatura della maggioranza esiste dai tempi di Tocqueville, se fin da allora i cittadini abdicano volentieri   al “libero arbitrio” per diventare sudditi, perché inveire contro il populismo del Cavaliere? Non siamo di fronte a un bubbone scoppiato all’improvviso, ma a un fenomeno che rientra nella normale epidemiologia dei sistemi politici moderni, e non resta che prenderne atto, come ci invitano a fare quasi quotidianamente i soloni “liberali” del Corriere della Sera, tanto inflessibili con “la piazza” quanto indulgenti verso il Palazzo (Grazioli). 
NELLA pubblicistica italiana di oggi sono frequenti i tentativi di annacquare il ventennio berlusconiano nel brodo di presunti e indifferenziati trend mondiali (Populista? Lo è pure Sarkozy. Legge bavaglio? Guardate l’Ungheria!) o peggio di nobilitarlo andandone a ripescare lontane ascendenze storiche, e spogliandolo così della sua allarmante eccezionalità.
Si sottrae felicemente a questo andazzo il bel saggio di Michele Ciliberto, La democrazia dispotica (Laterza, pagg. 224, euro 18,00) da oggi in libreria: un excursus corroborante lungo duecento anni di metamorfosi e degenerazioni dei sistemi democratici, dal potere carismatico alle derive plebiscitarie, rilette attraverso i classici del pensiero politico – Tocqueville appunto, ma anche Marx, Croce, Burckhardt, Max Weber. Un ottimo navigatore   per non perdersi negli acquitrini del populismo mediatico e trovare al più presto un’uscita di emergenza. Dopo aver premesso che “le patologie della democrazia non cominciano ovviamente con il berlusconismo”, Ciliberto invita a diffidare dei paralleli storici: “Nei classici ci sono osservazioni   che contribuiscono a illuminare il nostro presente, ma esse sono valide... da un punto di vista ‘morfologico’, non sul piano strettamente ‘empirico’. Così il “dispotismo dolce” di Tocqueville , il modello weberiano del “leader carismatico” o la “democrazia dell’illibertà” di Marx non sono applicabili meccanicamente al satrapo di Arcore: un’anomalia postmoderna tutta italiana, che nessun pensatore moderno, per quanto geniale e lungimirante, avrebbe potuto presagire. Secondo Ciliberto, 65   anni, cattedra di Storia della filosofia alla Normale di Pisa, l’uso privatistico dello Stato da parte del Cavaliere si muove nel solco del dispotismo classico: sostituzione dell’arbitrio alla legge, utilizzo dei “valvassori” in Parlamento per varare una sfilza di provvedimenti ad personam (ben trentasette), gestione proprietaria del partito e delle candidature,   specialmente femminili. Nel suo caso, però, tutto questo “si esprime in uno stile di vita e in modelli antropologici che hanno intorpidito – e penetrato – la società italiana in modo così profondo da non provocare più proteste o critiche in una larga parte della popolazione”. Ecco dove sta l’originalità di Berlusconi: nell’aver trasformato ”in una sorta di senso comune diffuso l’uso in chiave personale e privatistica della legge”. Una novità dirompente, che rende il suo dispotismo inedito e pressoché unico nel panorama mondiale. A sostenerlo sono stati i processi di trasformazione avvenuti nelle viscere del paese: “In questi ultimi vent’anni – denuncia il filosofo della Normale – l’Italia si è ripiegata, chiudendosi in se stessa, dando sfogo agli istinti peggiori sia verso   l’esterno che all’interno”. I fatti li conosciamo bene: blocco della mobilità sociale a scapito delle giovani generazioni, retorica del “cambiamento” e del nuovo (vedi riforma Gelmini e della giustizia) a cui fa riscontro la completa paralisi dell’economia, e poi ancora acuirsi delle diseguaglianze, livellamento verso il basso dei redditi popolari, affermazione di un   potere centrale di tipo personalistico che si impone “come l’unico luogo in cui la comunità nazionale possa identificarsi”, dequalificazione della classe politica e parlamentare (“la peggiore senza alcun dubbio della storia repubblicana”). E, ciò che è più grave, “una crisi strutturale del principio del ‘pubblico’   – come valore comune, condiviso quale principio di democrazia e di eguaglianza tra i cittadini – dalla quale sono state potenziate nuove forme di razzismo”. È un clima che ricorda per tanti aspetti quello descritto da Tocqueville nella Democrazia in America: la società basata sull’eguaglianza “senza legami comuni” genera un “indebolimento antropologico… spingendo l’uomo a concentrarsi solo su se stesso e sul suo benessere personale”, il che “fa dell’indifferenza una specie di virtù pubblica”. Una collettività passiva, apatica, che è libera solo nell’attimo in cui votando sceglie il proprio padrone, e per tornare serva subito dopo. Ma almeno su un punto il nuovo dispotismo si distingue nettamente dal vecchio: che non parla alle classi, ai movimenti collettivi   , ai partiti o ai sindacati, ma agli individui. Individui isolati, chiusi nel loro particolare “e pronti, nella crisi, a dislocarsi, sul piano politico, a destra o a sinistra, a seconda delle loro convenienze”. È di questo “volgo disperso” che il Cavaliere ha saputo abilmente intercettare gli umori, restando in sella per quasi vent’anni. Chi e come riuscirà a disarcionarlo?
PIÙ CHE NELLE diagnosi, il vecchio dottor Tocqueville può esserci d’aiuto per le terapie. Di fronte alla palude del dispotismo “dolce”, il visconte francese era arrivato a rimpiangere i momenti rivoluzionari, che sono comunque un indice di vitalità sociale. 
Ma senza arrivare a tanto (dietro ogni rivoluzione si profila l’ombra della ghigliottina, e il Novecento coi suoi massacri ci dovrebbe essere servito di lezione), invoca la necessità di “contrafforti” che limitino il potere. L’associazionismo, la partecipazione politica, e perché no anche il conflitto. Tutti modi per ricostituire vincoli spezzati e salvaguardare la libertà.
Gli scudi di gommapiuma branditi dagli studenti (con sopra le copertine dei libri) sono un valido contrafforte rispetto al dispotismo che svilisce la cultura.
È il contrasto tra élite vecchie e nuove, insegnava Piero Gobetti, il vero sale della democrazia liberale. Il consenso passivo, il tanto sbandierato “verdetto popolare” può diventare la sua tomba.

Esce per la Utet la Storia della Shoah in Italia
Corriere della Sera 8.1.11
L’Italia del giusti e dei persecutori
di Frediano Sessi


D ue volumi con 1.270 pagine di testi e di apparato iconografico, cinquanta tra collaboratori e curatori che hanno scritto altrettanti saggi, con una ricca bibliografia: questi i dati numerici dell’opera edita dalla Utet a cura di Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anne Matard Bonucci ed Enzo Traverso Storia della Shoah in Italia (vol. I, Le premesse, le persecuzioni, lo sterminio; vol. II, Memorie, rappresentazioni, eredità, in vendita solo attraverso le agenzie Utet, www. utet. it). I due volumi, che saranno presentati a Milano il 26 gennaio presso il teatro Parenti, si collocano accanto ai percorsi storico-interpretativi già proposti nella precedente Storia della Shoah (5 tomi, pubblicati da Utet tra il 2005 e il 2006). E offrono una lettura corale, sebbene utilmente non sempre monocorde, della tragedia degli ebrei italiani o che si trovavano in territorio italiano al momento dell’avvio delle deportazioni; con l’obiettivo dichiarato di mettere in rilievo le responsabilità del fascismo per l’Olocausto, e di gettare uno sguardo critico alla storia dell’Ottocento per ricostruire il percorso compiuto dal razzismo e dall’antisemitismo in Italia. «L’Olocausto in Italia — scrivono i curatori— costituisce una sorta di prisma in cui si rifrangono e attraverso cui leggere aspetti diversi della storia culturale, religiosa e politica dell’Italia degli ultimi due secoli, soprattutto delle sue dimensioni più deteriori e oscure» . Dall’antigiudaismo cattolico, promosso e propagandato dal periodico gesuita «Civiltà Cattolica» , alla vena antisemita del fascismo che affonda le sue radici nel razzismo biologico, dall’indagine sulle colpe di quella parte della società italiana che fece da spettatrice alla tragedia dei connazionali ebrei, ai silenzi e ritardi della Resistenza, fino alla ricostruzione delle azioni di coloro che si collocano ormai tra i «giusti» per il coraggio con cui seppero offrire protezione e soccorso alle vittime. E ancora, dalle tappe che tra Ottocento e Novecento segnarono l’avvento della nazione e insieme dell’emancipazione degli ebrei, al lento affermarsi delle tecniche e delle procedure dello sterminio «sotto gli occhi di tutti» tra collaborazione e delazione (come recitano i due saggi di Mimmo Franzinelli e di Valeria Galimi). Il secondo volume poi ci introduce in un dibattito e all’interno di ricerche poco conosciute dai non specialisti, che cercano di disegnare «il lungo percorso di costruzione della memoria del genocidio ebraico in seno alla società italiana» . Rappresenta il dato vero di novità dell’opera e si articola in tre parti. La prima «ricostruisce i tempi e i riti della memoria, le prime testimonianze, la diffusione delle notizie sui campi» , il modo con cui il Paese ha saputo metabolizzare e rielaborare il ritorno dei deportati e le notizie sulla loro esperienza, con saggi di grande interesse di Filippo Focardi, Marcello Flores e Paola Bertilotti. La seconda parte, attenta alla «evoluzione della comunità ebraica nel mondo politico, della Chiesa e delle istituzioni del dopoguerra» , con un intervento di Antonio Carioti che ricostruisce il percorso e la permanenza dell’antisemitismo nell’evoluzione della destra italiana e il bel saggio di Gadi Luzzatto Voghera sul rapporto problematico e irrisolto tra sinistra e questione ebraica. Infine, nella terza parte viene sollecitata una riflessione sull’impatto che la Shoah ha prodotto nella cultura italiana e più in specifico nella letteratura, nell’arte, nel cinema e nella televisione, senza dimenticare il fenomeno del negazionismo e del riduzionismo italiani, ben ricostruito e indagato da Valentina Pisanty, e il saggio in chiusura «attorno al giorno della memoria» di David Bidussa, stimolante per la sua problematicità critica. Sebbene nell'opera manchino apporti specifici su alcuni temi del dibattito europeo, quali la didattica della Shoah o il ruolo del testimone e della testimonianza nella costruzione della memoria nazionale, questa Storia della Shoah in Italia merita un posto d’onore tra i libri di riferimento della materia.

Corriere della Sera 8.1.10
Elogio dello scetticismo contro la cattiva politica
Bertrand Russell: ma il dubbio non significa disimpegno
di Giulio Giorello


«Avevo intenzione di presentarmi candidato liberale alle elezioni politiche, e mi dissero di provare in una circoscrizione. Mi rivolsi alla locale associazione liberale, che si espresse favorevolmente. Ma nel corso di una discussione interna mi venne rinfacciato che io ero agnostico. Mi chiesero se la cosa si sarebbe risaputa, e io risposi che era probabile. Mi domandarono allora se sarei stato disposto ad andare di tanto in tanto in chiesa, e io risposi di no: scelsero un altro candidato» . Così Bertrand Russell nel 1910. Comunque, quella sconfitta personale gli pareva poca cosa rispetto alle malefatte della storia. «Dante fu esiliato per propaganda sovversiva; Shakespeare, a giudicare dai Sonetti, non avrebbe ottenuto dai funzionari americani il permesso di entrare negli Stati Uniti» . Infine, «sappiamo tutti che Galileo e Darwin furono uomini molto cattivi; e Spinoza, fino a un secolo dopo la sua morte, fu considerato un mostro di perfidia» . Di che cattiveria sta mai parlando Bertrand Russell — filosofo, logico e matematico — nei suoi Saggi scettici, raccolti nel 1928? È la «cattiveria» di tutti coloro che hanno il coraggio di sfidare la costellazione dei pregiudizi stabiliti! Invece, la virtù dei «buoni» consiste soprattutto «nel rafforzare lo status quo celebrandone i pregi» , e per i «buoni» ci sono tanti modi di servire. Per esempio, «estromettere dalla vita politica gli indesiderabili per mezzo di scandali. Quando un uomo dalle opinioni un po’ sovversive si avventura nella politica, coloro che hanno a cuore la conservazione delle nostre istituzioni non devono far altro che tener d’occhio la sua attività privata fino a che non scoprono qualcosa che, se rivelata, gli rovinerebbe la carriera» . Scritte più di settant’anni fa, queste parole calzano a pennello per non poche situazioni dell’Europa odierna. Il fatto è — ci insegna Russell — che «i criteri di bontà generalmente riconosciuti dalla pubblica opinione non sono esattamente quelli che ci vorrebbero per fare del mondo un posto più felice» . Ciò non riguarda soltanto le modalità delle azioni del singolo individuo, bensì anche il contesto delle scelte pubbliche. Con amarezza Russell constatava come gli appelli di leader e di partiti politici «se ottengono buona fortuna, si rivelino nell’attuale democrazia dannosi» — non foss’altro perché l’abilità del politico «consiste nell’indovinare che cosa la popolazione possa credere torni a suo vantaggio» , mentre qualunque esperto scientifico dovrebbe piuttosto indicare che cosa sia realmente vantaggioso. Anzi, il peso delle tradizioni, i pregiudizi delle classi dominanti, gli stessi strumenti messi a punto dall’evoluzione per selezione naturale non garantiscono minimamente che i due livelli coincidano. Ma riconoscere la debolezza della politica non è lo stesso che proclamare l’impotenza della ragione? Per di più, ritenere «che lo Stato democratico sia tutt’uno col popolo... è un’illusione» . Lo Stato è un insieme di funzionari disposti a favorire delle modifiche solo quando queste portano all’aumento del potere dei burocrati. Russell era dunque un bizzarro critico della «sovranità democratica» , perché gli dava più fastidio il sostantivo (sovranità) che l’aggettivo (democratica). Non esitava a denunciare i difetti delle democrazie reali: la propaganda politica che assume sempre più le modalità dello slogan pubblicitario; il controllo dei media da parte delle oligarchie del potere; il circolo vizioso tra invadenza dei partiti e corruzione; il sistema educativo mirante a tramutare le giovani generazioni in schiere di sudditi e non di cittadini. Anche qui, si rivelino o no azzeccate le profezie «nere o rosee» che Russell ha formulato, c’è molto su cui riflettere per capire l’Occidente dei nostri giorni. Ma come uscire dal dilemma tra ragione e sentimento, tra legge generale e caso individuale, tra aspirazione al bene ed elogio dell’anticonformismo? Per Russell l’unica ricetta è diventare scettici. Il primo obiettivo è liberare gli individui da ogni assolutismo in campo etico-politico, persino in materia di matrimonio e morale. Però, non si tratta soltanto di smentire la pretesa che «una consuetudine sia migliore o peggiore di un’altra» o dimostrare che quel che chiamiamo peccato è tale soltanto nell’ambito di certi limiti geografici. Il filosofo sapeva bene che lo scetticismo investe non solo la pretesa dell’agire virtuoso ma anche quella di conoscere oltre ogni ragionevole dubbio. Diventando scettici si sarebbe probabilmente ottenuto «un crollo delle entrate dei chiaroveggenti, dei bookmakers, dei vescovi e di tutte quelle altre persone che vivono sulle speranze irrazionali di coloro che non hanno fatto nulla per meritarsi una buona sorte in questo o nell'altro mondo»; » ; ma non si rischiava anche di liquidare qualsiasi appello alla verità da parte di quegli «esperti» il cui dovere è quello di smantellare le illusioni dispiegate dai «politici» ? Non potrebbe lo scetticismo rivelarsi così il più subdolo alleato del potere? L’unico modo per evitare un esito del genere era per Russell seguire il modello dell’impresa scientifica. Poiché «tutte le nostre opinioni hanno almeno una penombra di vago e di falso» , occorre «prestare ascolto a tutte le parti, cercare di accertare tutti i fatti rilevanti, controllare le nostre inclinazioni discutendo con persone che seguano una tendenza opposta alla nostra, e coltivare la disposizione a scartare ogni ipotesi che si sia dimostrata inadeguata... Ogni uomo di scienza è pronto ad ammettere che ciò che per il momento passa per conoscenza scientifica avrà bisogno di venire corretto col progredire delle scoperte, ma resta abbastanza vicino alla verità perché serva a moltissimi scopi pratici, anche se non a tutti» . Dunque, è la stessa scienza che ci allontana dall’originario universo di certezze che avevamo da bambini; e lo scetticismo è il metodo delle persone mature: questo stato di consapevolezza intellettuale può costare anche molto sotto il profilo affettivo. L’importante è non fermarsi nemmeno nella facile posizione di chi fa del dubbio un pretesto per non impegnarsi. Russell, invece, era uno di quelli che sapevano che per essere scettici fino in fondo si dev’essere scettici anche nei riguardi dello scetticismo.

Repubblica 8.1.11
"A Malta preti pedofili protetti dalla Chiesa"
di Davide Carlucci


Benedetto XVI incontrò ad aprile una delegazione "Ma da allora nulla è cambiato"
Il processo per gli abusi all´orfanotrofio di Saint Joseph non si è ancora concluso

La lettera l´hanno scritta nell´italiano pidgin, contaminato dall´inglese, che tuttora si parla a Malta. Ma il messaggio, indirizzato al Papa, è chiarissimo: «Noi ci ritroviamo molto dispiaciuti perché questi preti da oggi girano per le strade vestiti ancora da preti».
Le vittime degli abusi con le quali Benedetto XVI pregò ad aprile durante la sua visita pastorale nell´arcipelago al centro del Mediterraneo si riferiscono ai responsabili delle violenze: nonostante le scuse e le lacrime di Ratzinger, i religiosi sono ancora al loro posto. «Perché la Chiesa di Malta protegge ancora questi scandali? Perché i preti hanno ammesso nel 2003 e tutto va avanti come se non fosse successo niente?».
Tutto è rimasto come prima, dicono gli ex ragazzi dell´orfanotrofio di Santa Venera, costretti un tempo a vestirsi da donna o ad assecondare, di notte, le perversioni sessuali dei sacerdoti. Della fermezza del Papa - che il 20 dicembre, parlando alla Curia romana, si è di nuovo scagliato contro gli abusi commessi dai sacerdoti, che «sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita» - oltre il canale di Sicilia non arrivano che flebili echi. Il processo penale contro i sacerdoti, dopo sette anni, non si è ancora concluso. E proprio in questi giorni l´avvocato che assiste i sacerdoti sotto accusa, Gianella Caruana Curran, ha depositato un´istanza alla Corte costituzionale maltese contestando la "sovraesposizione mediatica" dei loro assistiti, non ancora giudicati: un artificio legale, a istruttoria conclusa, per prendere tempo in vista della sentenza. Dopo la visita del Papa, infatti, i sacerdoti hanno continuato in aula a proclamarsi innocenti, nonostante nei primi interrogatori avessero ammesso tutto alla polizia. Non è neppure cominciato, invece, il processo ecclesiastico. Eppure la "investigatio previa", l´indagine interna condotta dal "Response team" della Curia maltese che segue i casi di pedofilia, si è già conclusa, come hanno spiegato con una lettera spedita alle vittime a ottobre, i missionari di San Paolo, l´ordine a cui appartengono i preti accusati, Charles Pulis, Conrad Sciberras (trasferito poi in Italia, ad Albano Laziale) e Joe Bonnet. Nella missiva si spiega che si è presa la precauzione di non far entrare i sacerdoti a contatto con bambini. Quanto alle accuse «risultano fondate, per questo abbiamo trasmesso gli atti a Roma».
Ma le vittime degli abusi non contestano Benedetto XVI. Al contrario, tornano a ringraziarlo per il tempo che ha dedicato loro durante la visita nell´isola. E lo implorano: «Stiamo ancora soffrendo e siamo senza giustizia dopo sette anni. Per favore, ci aiuti Lei, la preghiamo molto». Il timore di Lawrence Grech, uno dei sei firmatari dell´appello, è che alla fine il loro caso finisca per essere insabbiato. «A Malta Chiesa, potere politico e magistratura sono una cosa sola - dice - Tant´è vero che un ministro è venuto in aula a testimoniare a favore dei sacerdoti. Pochi, anche nell´opposizione, vogliono difenderci: la gente è molto religiosa e ha paura di toccare i preti. Ma noi non riusciamo a dimenticare. E neppure a parlarne con i nostri figli».
La loro lettera è arrivata anche nelle mani di monsignor Charles Scicluna, il promotore di giustizia della congregazione per la dottrina della fede cattolica delegato da Ratzinger di occuparsi dei casi di pedofilia. Scicluna, anche lui maltese, preferisce però astenersi da commenti. Ma a stento riesce a nascondere la «mortificazione» per i tempi estenuanti con cui la vicenda è stata trattata dalle autorità e dalla Curia della sua nazione. Una lentezza che rischia di vanificare tutti gli sforzi di Benedetto XVI di far pulizia all´interno della Chiesa, alimentando le frustrazioni delle vittime.

l’Unità 8.1.11
Conversando con Clint Eastwood
«No, non c’è religione quando incontriamo la morte»
di Alberto Crespi


L’appuntamento è alle 21 di giovedì sera. Davanti a un telefono negli studi di RadioRai, la storica sede di via Asiago. Chicca Ungaro, della Warner Italia, ha fornito alla casa madre di Burbank il numero della messa in onda e ci ha tranquillizzati: alle 21, Clint chiamerà. Intorno alle 20.30, cominciamo ad aggirarci intorno a quel telefono. C’è tutta Hollywood Party – perché l’intervista con Clint Eastwood, in finta diretta da Los Angeles, è per la trasmissione di cinema di Radio3 della quale chi scrive è uno dei conduttori. C’è Giovanni Piperno, il bravo documentarista che in questa settimana ha esordito come conduttore; c’è Efisio Mulas in arte Claudio De Pasqualis, personaggio leggendario della trasmissione. Siamo tutti lì di fronte a un telefono che forse suonerà. Il pessimismo congenito ci mette in fibrillazione. E se Clint cambia idea? E se casca la linea? E se chiama ma risponde a monosillabi? Se ci dice «make my day», come l’ispettore Callaghan, e poi spara un colpo di 44 Magnum? Finché quel telefono non suona, non ci crediamo.
Alle 20.59 il telefono suona. È una giovane assistente di Clint. Ci chiede se parla effettivamente con la Rai. Ovviamente! «Clint sarà all’apparecchio tra 5 minuti, restate in linea». Passano 4 minuti e mezzo ed ecco quella voce, inconfondibile: «Hallo, Clint Eastwood speaking». L’intervista si fa: su Radio3 è andata in onda ieri sera, e siamo felici di riproporvela, ringraziando di nuovo Chicca Ungaro della Warner, Francesca Levi e tutta la redazione di Hollywood Party.
Prima, una premessa: capito come funziona, con Hollywood? Nessuno ti darà mai un numero diretto di Clint Eastwood, e quindi nessuno potrà mai chiamare Clint a casa sua per chiedergli, che so?, cosa pensa di Berlusconi o dei cinepanettoni o delle mutande di Belen Rodriguez. È Clint che chiama te, con precisione svizzera. Ma quando ti chiama, è tuo. A totale, partecipe, gentilissima disposizione. E se l’ufficio stampa ti dice che avrai 15 minuti di tempo, può capitare (giovedì sera è capitato) che Clint si diverta, che ascoltare la lingua italiana lo faccia sentire giovane («Negli anni ’60, quando lavoravo con Sergio Leone, l’avevo un po’ imparata. Mi fa piacere rinfrescarla»), che le domande non lo infastidiscano e che quindi stia al telefono più di mezz’ora. Quello che segue è il resoconto, solo per voi, di quella mezz’ora. Prima di tutto, mister Eastwood, grazie di cuore per i capolavori che ci sta regalando da anni. «Grazie a voi. Mi fa piacere sentire queste parole da un italiano, perché l’Italia ha un posto speciale nel mio cuore. Non dimenticherò mai gli anni stupendi che ho passato nel vostro paese lavorando con Leone: da allora, mi sono sempre sentito un po’ italiano». Cosa ha pensato quando ha letto il copione di «Hereafter»? Ha deciso subito di fare il film, o ha esitato di fronte a un tema così alto? Parlare della vita dopo la morte, al cinema, non è cosa di tutti i giorni.
«Proprio per questo non ho esitato a fare il film. Mi sembrava affrontasse in modo provocatorio e stimolante un tema importante, ponendo molte domande e senza dare risposte facili. Era un copione unico... e internazionale, perché la curiosità su ciò che accade dopo la morte appartiene a tutti gli esseri umani. Ed è curioso scoprire che i racconti di coloro che hanno avuto quel tipo di esperienze, come i sopravvissuti dal coma, sono tutti molto simili».
Lo sceneggiatore, Peter Morgan, si è documentato ispirandosi a storie vere? «Non credo. È partito dall’idea delle tre storie parallele. Poi la morte è divenuta un collante, un modo drammaturgicamente forte per far sì che le storie si incrocino alla fine».
È un film assolutamente laico. Si parla di aldilà, ma senza riferirsi a nessuna religione. «Il copione era così, per questo mi è piaciuto. Non è schierato. Penso che basare la storia su una delle religioni istituzionali avrebbe distratto dal tema vero, che è poi l’impatto della morte sulla quotidianità di queste persone. Inoltre, schierarsi con una religione avrebbe reso il film troppo categorico. Se uno crede in un dio particolare, sa già quel che è giusto e quel che è sbagliato».
Sa che Radio Vaticana ha recensito il film in modo molto positivo? «No. Ma mi fa piacere saperlo. Sono contento quando qualcuno, fosse anche il Papa, apprezza il mio lavoro».
Hanno detto che il film «insegna ad affrontare la morte con forza e quiete». Belle parole, no? «Sì, non male. Forza e quiete... sì, è bello a dirsi, ma è molto difficile quando arriva il momento. Certo se uno ha una fede forte, tutto è più facile. Chi è agnostico, ha più difficoltà». Dopo l’aldilà, lei torna ad occuparsi di storia americana. A che punto è il progetto del film su Edgar J. Hoover, il fondatore dell’Fbi? «Cominciamo le riprese il mese prossimo, con Leonardo DiCaprio nel ruolo di Hoover. È un bellissimo copione scritto da un giovane molto in gamba, Dustin Lance Black (è lo sceneggiatore di Milk, ndr). Hoover è stato un personaggio importante della nostra storia, quindi cercheremo di ritrarlo in modo onesto. Al tempo stesso è stato molto controverso, sia per la sua attività politica che per la sua vita privata, e il film si occuperà di entrambi questi aspetti».
Sui suoi rapporti con Sergio Leone si sa tutto. Che ricordo ha di Vittorio De Sica, l’altro grande italiano con cui ha lavorato? «Ho girato con lui Le streghe, un film a episodi prodotto da Dino De Laurentiis, con Silvana Mangano. Ero un grande fan di Vittorio sin dai
tempi di Ladri di biciclette. Fu una bella esperienza. Era un personaggio affascinante e un regista straordinariamente efficiente. Girava solo ed esclusivamente ciò che gli serviva. Aveva tutto il film in testa».
Era anche un grande attore. Lei, tornando indietro, si dedicherebbe più alla regia che alla recitazione? «Sono felice della mia carriera di attore. Al tempo stesso, quando nel ’70 ho cominciato a dirigere il mio primo film, Brivido nella notte, pensavo già che avrei potuto star dietro la macchina da presa, anziché davanti, a far lo stupido... Ma nel complesso, è andata come volevo. Solo che a un certo punto ho deciso che volevo chiudere la carriera d’attore con un ruolo bello, in un film di successo. Quando ho girato Million Dollar Baby, ho pensato che era un bel finale. Poi è arrivata la chance di Gran Torino ed era un finale ancora migliore. Ma se capita un altro ruolo altrettanto bello, sono pronto».
Anche diretto da un altro regista?
«Perché no? Solo che i ruoli belli per un attore della mia età sono rari. In realtà sono proprio i bei film ad essere rari. Oggi è tutta azione, fantascienza, effetti speciali. Ai miei tempi c’era più varietà».
Un’ultima domanda che non possiamo non farle. Se dipendesse esclusivamente da lei, dal suo gusto, farebbe ancora un western? «Farei SOLO western. È il genere che amo. Sono cresciuto guardando i film di John Ford, di Anthony Mann, di Howard Hawks... e sono diventato un attore facendo prima i western in tv, come Rawhide, e poi la reinterpretazione italiana del genere nei film di Leone. L’ultimo che ho girato è stato Gli spietati, che era una bellissima storia. Ecco, dovrei trovare un’altra storia così forte, e magari innovativa, che mi porti su strade diverse da quelle già battute. Se la trovo, sono pronto a tornare nella prateria».

Nelle sale. «Hereafter», un viaggio laico e commovente nell’aldilà

L’occasione di intervistare Eastwood è naturalmente la presenza nei cinema italiani, da mercoledì scorso, del suo ultimo film, «Hereafter». Distribuito dalla Warner, è una riflessione sulla morte e sull’aldilà molto laica, che incrocia tre storie – in Francia, Stati Uniti e Inghilterra – accomunate dal contatto con l’oltretomba, o dal desiderio di entrare in comunicazione con i morti. Potrebbe sembrare una storia tetra, o vagamente New Age, ma il copione di Peter Morgan («The Queen», «Frost/Nixon», «I due presidenti») e la regia di Eastwood affrontano il tema in modo molto lineare, concreto, quasi terra terra. Ne esce un film credibile e commovente, che potrebbe sembrare inusuale per Eastwood se questo grande regista non avesse già affrontato il tema della morte – e dei molti modi, dignitosi e non, di morire – in film come «Million Dollar Baby», «Gli spietati» e «Letters from Iwo-Jima».
AL.C.