lunedì 10 gennaio 2011

l'Unità 10.1.11
Paradosso Democratico
di Francesco Piccolo


Il Pd ha una vocazione maggioritaria. Vale a dire che è nato per governare. È moderato, responsabile, alla ricerca di soluzioni concrete. Stando all’opposizione, tutte queste caratteristiche lo debilitano. Altri partiti più piccoli, sono nati per non governare: quelli più a sinistra per opporsi su tutto, quelli più al centro per fare l’ago della bilancia per tutti. Stando all’opposizione, tutte queste caratteristiche li rafforzano. Qui sta il punto non risolto del Pd: è molte volte più grande degli altri; quindi avrebbe il compito di scegliere un candidato, fare un progetto di governo e poi vedere se gli altri aderiscono (oppure una nuova proposta di legge elettorale, e poi vedere se altri sono d’accordo). Ma gli altri hanno dalla loro che se le cose rimangono così, è meglio. E quindi possono ottenere molto di più delle forze che rappresentano. Questo è il motivo principale per cui il Pd nei fatti non fa proposte concrete. Non può forzare, perché ogni volta che forza gli rispondono: no. Eppure, non c’è un altro modo di uscire dall’impasse che forzare i tempi e i modi. Non c’è altro modo che comportarsi da vero partito a vocazione maggioritaria. Se il Pd non può governare (subito) questo paese, si concentri a immaginare un modo per rappresentarne una parte viva e attraente. Altri pian piano si aggregheranno. E un giorno, forse, un progetto concreto della sua parte andrà al governo. E un altro giorno ancora, forse, lo realizzerà. Non è una scorciatoia. Ma non ci sono scorciatoie.

Corriere della Sera 10.1.11
Primarie sì, ma solo di partito Il Pd prova a uscire dall’angolo
Di Pietro: non facciamole. E si rompe l’asse con Vendola
di Maria Teresa Meli


ROMA— Si fa ma non si dice. Il Pd si appresta a mutare radicalmente la natura delle primarie per la scelta del candidato premier, Bersani si accinge a dare retta ai consigli di D'Alema, ma la versione ufficiale è rigorosamente un'altra, dal momento che elettori e militanti, alla sola ipotesi, si sono scatenati sul web. E potrebbero farlo di nuovo. Perciò nella dirigenza del partito si sta facendo strada l'idea di aggirare il problema in questo modo: indicendo le primarie nazionali, ma di partito, non di coalizione. Così si potrebbe spegnere la miccia Vendola senza provocare una nuova rivolta del «popolo» pd. Naturalmente niente di tutto ciò trapela nelle dichiarazioni dei dirigenti democratici. Il segretario continua a rinviare nel tempo la questione: «Prima si affrontano i problemi del Paese, poi si decidono gli schieramenti, quindi le leadership » . E il presidente del Copasir, sulle colonne del Riformista, osserva: «Smettiamo di parlare di procedure e persone. Io non sono contro le primarie. Ma questo strumento di democrazia e partecipazione rischia di essere svilito a metodo di resa dei conti tra apparati di partito. Se Sel vuole l'egemonia nel centrosinistra se la giochi alle elezioni, non con gli Orazi e i Curiazi» . Vendola, che è il vero bersaglio di questa offensiva del Partito democratico, continua a dire che «non si può cancellare il ricorso alle primarie» . Ma, sotto sotto, il presidente della Regione Puglia sa bene che il Pd tenterà in tutti i modi di evitare una sfida tra lui e il segretario, come ha confidato agli amici più stretti: «Hanno paura che alla fine la maggioranza del loro elettorato voti per me» . Perciò Vendola si è fatto prudente e diffidente. Dopo che Bersani gli aveva promesso che le primarie di coalizione si sarebbero fatte, il «governatore» della Puglia si era convinto che i giochi fossero chiusi: «Bersani è una persona perbene, non verrà meno alla parola data» , continuava a ripetere. Ora che invece ha capito che le primarie non sono più scontate Vendola è diventato più sospettoso. Per questa ragione l'intervista di Di Pietro al Riformista in cui il leader dell'Idv chiede di non fare le primarie lo ha messo in allarme. Tra il «governatore» della Puglia e l'ex magistrato c'era un tacito patto su questo tema, patto che invece, dopo questa sortita di Di Pietro, sembra essersi infranto. Per due motivi, a giudizio dei sostenitori di Vendola. Primo, perché l'ex magistrato teme che si candidi alle primarie anche il suo avversario interno, Luigi De Magistris. Secondo, perché ha paura che il Pd lo scarichi nel tentativo di agganciare l'Udc. Ma le primarie sembrano non avere vita facile neanche a livello amministrativo. E infatti nel Partito democratico sono già esplosi due casi. Il primo a Cosenza, dove il sindaco, Salvatore Perugini, ha appreso dai giornali che non sarebbe stato ricandidato, perché così aveva stabilito il Pd locale in una riunione alla quale non era stato invitato. Il fatto che le candidature vengano decise ancora nelle segrete stanze del partito ha indispettito non poco il sindaco di Cosenza, che ha mandato una lettera «riservata e personale» a Bersani, spiegandogli la situazione e sottolineando i rischi di un «Pd a vocazione minoritaria» . Il problema cosentino è reso ancor più complicato dal fatto che Perugini è un ex ppi, cioè è l'esponente di quell'area cattolica che sta vivendo con grande disagio la stagione del partito bersaniano. Il che significa che questo caso potrebbe finire per assumere una valenza nazionale: il sindaco di Cosenza nella sua missiva ha chiesto un incontro a Bersani e gli ex popolari sono sul piede di guerra. Poi c'è Torino, dove l'assessore alla casa e all'ambiente della giunta Chiamparino, Roberto Tricarico, ha annunciato di volersi presentare alle primarie raccogliendo le firme per la sua candidatura anche al di fuori degli iscritti al Pd. Ma il partito si è chiuso a riccio. Insomma, quello delle primarie, soprattutto in caso di elezioni in questa primavera, potrebbe diventare un tema deflagrante per il Partito democratico.

Corriere della Sera 10.1.11
Cgil in piazza con la Fiom «Ma non si può dire solo no»
Bombassei: dal Lingotto nessun ricatto, solo condizioni minime
di Francesca Basso


MILANO — Quando il leader della Fiom Maurizio Landini si è chiuso in riunione ieri con il numero uno della Cgil Susanna Camusso e le rispettive segreterie, per riemergere solo dopo oltre sei ore di discussione, certo non pensava che l’incontro già delicato si sarebbe ulteriormente complicato con il crescere della tensione a Torino. Il vertice, interrotto solo dal comunicato congiunto di secca condanna alle scritte contro Marchionne, si è chiuso all’insegna della moderazione. Landini ha assicurato: «Nessuna spaccatura tra Fiom e Cgil» , il confronto «continuerà» sulle iniziative da intraprendere in futuro. Da parte sua Camusso ha spiegato che «la Cgil è impegnata con la Fiom per la massima riuscita dello sciopero» generale dei metalmeccanici, indetto dalle tute blu contro la Fiat per il 28 gennaio. Insomma, il sindacato si è mostrato in sintonia, ma solo nella valutazione dell’accordo chiesto dal Lingotto: «Continuiamo a giudicarlo negativo — ha ribadito il segretario generale —. I lavoratori dovrebbero votare no» perché viola due principi, la libertà dei lavoratori di scioperare e di organizzarsi sindacalmente. Su come gestire il post-referendum le divergenze rimangono. Al centro del vertice in molti si attendevano la richiesta della Cgil di una firma tecnica all’intesa in caso di vittoria dei «sì» al referendum. Ma Landini ha smorzato la questione, riconfermando tuttavia la posizione della Fiom: «L’eventuale firma tecnica — ha concluso— non è stata particolare oggetto della discussione, perché c’è stato un pronunciamento del comitato centrale della Fiom e per noi quell’accordo resta non firmabile» . Ci ha pensato il segretario generale Camusso a spuntare la polemica, indicando la via d’uscita senza cedere e facendo capire che non si può dire sempre solo no ritirandosi dal confronto: «Il tema non è mai stato una soluzione tecnica — ha detto— ma come garantire la libertà dei lavoratori di avere un sindacato e di eleggere i propri rappresentanti» . Per Camusso resta il problema che Fiat «continua a sostenere un piano industriale che non conosciamo sia per quanto riguarda gli investimenti che la certezza della permanenza in Italia» e agisce con il sostegno del governo che ha rivestito «il ruolo di tifoso e non di soggetto che si domanda che ruolo avere a sostegno dello sviluppo del Paese» . Ieri il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi è tornato sul referendum di giovedì e ha auspicato che «almeno la metà più uno aderisca all’accordo» perché si tratta di «un investimento importantissimo, per Torino, per il Piemonte, per l’Italia intera: consoliderebbe l’investimento nell’industria automobilistica e allo stesso tempo sarebbe garanzia di posti di lavoro e crescita dei salari» . Dello stesso parere è il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei, che siede anche nel Cda di Fiat Industrial, ospite con Landini da Lucia Annunziata a «In 1/2 ora» : «Se fossero solo 2 miliardi su 20 — ha argomentato — non dovremmo buttare via neppure questi perché vorrebbe dire poter garantire posti di lavoro» . Quanto al voto «sotto ricatto» sostenuto da Landini, per Bombassei si tratta solo delle «condizioni minimali» per poter investire. La partita politica è ancora tutta aperta. Oggi Bersani vedrà Landini. D’Alema ieri aveva illustrato la posizione «netta» del Pd, fuori dalla contrapposizione Fiom-Fiat. E Vendola ha lanciato la sua provocazione: «Marchionne è disponibile a distribuire stock option fra gli operai di Pomigliano e Mirafiori?» .

Corriere della Sera 10.1.11
E nel reparto Carrozzerie più nessuno detta la linea
Si giocherà all'ultimo voto
di Marco Imarisio


Torino, I piemontesi fanno di testa loro. Lo diceva, sconsolato, il padre della Cgil Giuseppe Di Vittorio a metà degli anni 50, e da allora non è che il sentire comune all’interno del mondo sindacale sia molto cambiato. Se già Mirafiori è un’isola urbana da due milioni di metri quadrati, gli operai ne rappresentano un arcipelago a parte. Indecifrabile, imprevedibile nelle sue scelte. «Quel che succede là dentro lo sanno solo loro» dice Bruno Vitali, segretario torinese della Fim. «Anche per questo auspico prudenza nei pronostici» . E Roberto Di Maulo, suo corrispettivo Fismic, mette le mani ancora più avanti. «Il reparto Carrozzerie ha sempre detto no, la verità è che questo referendum si giocherà all’ultimo voto» . Domenica mattina, piazza Castello è come un palco di teatro al cambio di rappresentazione. Dopo l’Epifania e il sabato Fiom, con l’allestimento di un cartellone che raccoglie i messaggi di solidarietà firmati da artisti e intellettuali, oggi tocca a quelli del sì, un volantinaggio massiccio nel cuore della città. «Diamo un futuro ai nostri figli» , è lo slogan formato famiglia; «Mirafiori c’è per un futuro di lavoro» quello più ad effetto. Tra gli astanti si percepisce una palese tendenza al ribasso sull’esito della consultazione del 13 e 14 gennaio. L’unico che se la sente di ribadire la propria convinzione di un plebiscito a favore del sì da parte dei 5.500 addetti alle Carrozzerie è Maurizio Peverati, segretario provinciale Uilm, autore nei giorni scorsi della previsione su un 70-80 per cento dei consensi. «Andrà molto bene, ne sono certo, perché la gente prova grande timore per il proprio avvenire. Se vincessimo con pochi voti di scarto sarei molto deluso» . La mercurialità di Mirafiori e delle sue tute blu è scritta nella storia. Non sempre è stato il sindacato «rosso» a trarne benefici. La frase di Di Vittorio fu pronunciata nel 1955 in seguito alla più imprevista delle sconfitte, quando la Fiom venne battuta nelle elezioni della commissione interna Fiat, ed era dalla Prima guerra mondiale che non perdeva una consultazione. I 35 giorni del 1980, spesso paragonati all’odierna vertenza, furono scanditi dalla lotta radicale dei metalmeccanici di Mirafiori, che sposarono la linea della Fiom. Fu Liberato Norcia, operaio delle Carrozzerie iscritto alla Fim, a chiedere ad Enrico Berlinguer come si sarebbe comportato in ca- so di occupazione della fabbrica. E il pomeriggio del 15 ottobre 1980, al teatro Smeraldo, toccò a Giovanni Falcone, delegato delle Carrozzerie, recitare il de profundis per la classe operaia riconoscendo la portata di quella sconfitta. Ma da allora, ognuno per sé. Gli operai che restano, rispetto a trent’anni fa sono meno di un quinto, decidono a mani libere. Nel 2006 le Carrozzerie furono l’unico reparto di Mirafiori a bocciare il contratto nazionale di categoria, firmato anche dalla Fiom, che introdusse la flessibilità dell’orario in base ai picchi di produzione. L’anno seguente arrivò un altro no inatteso, quello all’accordo sul passaggio da 15 a 17 turni, firmato da tutte le sigle. Non andò meglio alla consultazione sulla riforma del Welfare, che alle Carrozzerie andò sotto in maniera pesante. Le percentuali quasi bulgare evocate in questi giorni si sono verificate solo in un paio di occasioni, ormai datate. Nel 1994 l’approvazione del turno di notte per la produzione della Punto raggiunse l’ 81%. L’accordo sullo straordinario festivo del 1997 raccolse il 74%dei sì, arrivati sulle ali degli incentivi alla rottamazione appena varati dal primo governo Prodi. Da quel giorno, gli operai di Mirafiori hanno votato altre 12 volte, con risultati sempre in equilibrio, spesso sorprendenti. Nessuno vuole metterci nome e cognome, ma i pronostici di entrambi gli schieramenti per questo referendum convergono su un 60-40%a favore del sì. «E sarà comunque un voto falsato dal ricatto della Fiat e dalla paura della crisi» dice Giorgio Airaudo, responsabile auto Fiom. L’aria di Torino è ben diversa da quella che si respira a Roma. A dimostrarlo c’è l’atteggiamento della Cgil piemontese, che appoggia tutte le iniziative di protesta, mostrando con la Fiom regionale una sintonia — anche nelle dichiarazioni, come quelle del segretario Alberto Tomasso: «L’accordo separato è un attacco di inaudita gravità ai principi democratici» — che invece non è rinvenibile nei rapporti tra la casa madre e i vertici nazionali dei metalmeccanici. Ma anche questa è una storia dalle radici locali, e alla scelta di appoggiare implicitamente il «no» non è estranea la percezione di un risultato tutt’altro che scontato. A Torino fanno come gli pare, alle Carrozzerie di Mirafiori e non solo.

Corriere della Sera 10.1.11
Una vera libertà contrattuale ha bisogno di una (buona) legge
di Pietro Ichino


Caro direttore, sulla questione della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro il governo ha assunto una posizione molto netta di rifiuto di qualsiasi intervento legislativo, motivandola con l’esigenza di «rispettare e promuovere la libertà di autodeterminazione contrattuale delle parti sociali» e l’autonomia del sistema delle relazioni industriali. Motivazione, questa, sicuramente condivisibile: non c’è dubbio che il first best sia un grande accordo interconfederale firmato da tutti i sindacati e le associazioni imprenditoriali sulle regole in materia di rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva, come quello che il ministro del Lavoro Giugni riuscì a promuovere diciotto anni fa. Il governo, però, sembra non chiedersi che cosa accadrà se— chiusa ormai la stagione del «protocollo Giugni» del 1993— sindacati e imprenditori non riusciranno a raggiungere un nuovo accordo. Ipotesi più che probabile, perché oggi l’ampia intesa tra di essi c’è soltanto sui criteri di misurazione della rappresentatività sindacale nei luoghi di lavoro, ma è lontanissima sulla questione cruciale, che è questa: la coalizione sindacale maggioritaria può negoziare al livello aziendale un accordo di contenuto difforme rispetto al contratto nazionale? Se sì, entro quali limiti e a quali condizioni? E se l’accordo contiene una clausola di tregua, l’impegno a non scioperare contro il contratto vale o no per tutti i dipendenti dell’azienda? La mancanza di una base di regole che diano risposte chiare a questi interrogativi è dannosa per tutti. Lo è per il sindacato minoritario che— come la Fiom alla Fiat — legittimamente ritiene di non dover firmare il contratto collettivo voluto dalla coalizione maggioritaria: con la norma oggi in vigore, quel sindacato perde il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda. Ma la mancanza di regole chiare su questa materia fa danno anche all’impresa e alla coalizione sindacale maggioritaria che il contratto lo firmano, perché le espone all’ostruzionismo della minoranza, esercitato sia con l’azione diretta (stante il potere, del quale oggi dispone chiunque, di proclamare scioperi contro il contratto anche il giorno dopo la sua stipulazione), sia con l’azione giudiziaria (perché non è chiaro quali siano i poteri negoziali della coalizione maggioritaria e i limiti di efficacia dell’ «accordo separato» ). Infine, la mancanza di una disciplina universalmente applicabile su questa materia oggi fa danno anche alla Confindustria, determinando un incentivo per le imprese a rifiutare o revocare l’iscrizione per sottrarsi all’applicazione dei contratti nazionali firmati dalla stessa Confindustria negli anni passati, e alle loro conseguenze in tema di diritti sindacali in azienda. Con il suo rifiuto di un intervento legislativo su questa materia, sia pure in via provvisoria e sussidiaria, il governo paradossalmente finisce per rilanciare il modello della conflittualità permanente Anni 70: la Fiom alla Fiat — come un qualsiasi comitato di base in qualsiasi altra azienda— rimarrà priva dei rappresentanti riconosciuti, ma conserverà intatta la possibilità di scatenare una guerriglia contro il contratto stipulato da altri, a colpi di scioperi e azioni giudiziarie (per le quali si stanno già scaldando i motori). È questo il motivo per cui anche la Cisl dovrebbe dismettere la propria tradizionale opposizione all’intervento legislativo: una norma di legge snella, che stabilisca con chiarezza i diritti di maggioranza e minoranza secondo un principio di democrazia sindacale, non ridurrebbe in alcun modo la libertà contrattuale che la stessa Cisl e la Uil hanno esercitato fino a oggi anche quando erano in minoranza, stipulando «accordi separati» contenenti soltanto aumenti retributivi (questi contratti non presentano alcun problema giuridico e continueranno a poter essere stipulati liberamente); ma consentirebbe l’esercizio della libertà contrattuale anche là dove essa oggi è ostacolata dall’assenza delle regole necessarie: cioè dove si negoziano piani industriali innovativi e sono in gioco modifiche rispetto al contratto nazionale in materia di organizzazione, estensione e distribuzione dei tempi di lavoro, inquadramento professionale, o struttura delle retribuzioni. La realtà è che— come anche i liberisti puri teorizzano— la libertà contrattuale non può essere esercitata senza un ordinamento che stabilisca e garantisca requisiti di validità ed effetti del contratto. Sul piano sindacale oggi questo ordinamento manca. Lasciare le cose come stanno non serve affatto a promuovere l’autonomia negoziale collettiva: al contrario, conserva in vita un insieme incoerente e lacunoso di vecchie norme legislative che è di ostacolo alla libertà di autodeterminazione contrattuale delle parti sociali. senatore del Pd


Corriere della Sera 10.1.11
Veronesi sul biotestamento «Meglio nessuna legge»
«Vogliono rendere obbligatoria la vita artificiale»
di  Mario Pappagallo


«Meglio nessuna legge. Ora come ora, applicando la Convenzione di Oviedo firmata anche dall’Italia, il testamento biologico troverebbe comunque il suo rispetto e la sua applicazione. Basta un notaio. Con la legge in discussione alla Camera, invece, la vita artificiale diventa un obbligo. Un obbligo di Stato contro diritti quali la libera scelta terapeutica, l’autodeterminazione, la responsabilità della propria vita» . Umberto Veronesi, senatore, medico oncologo, ex ministro della Sanità, rilancia la sua battaglia sul testamento biologico. Veronesi, il suo, lo ha sventolato in aula durante uno dei dibattiti sulla legge... «Io l’ho fatto e affidato a persona di mia fiducia. La mia paura non è la morte, ma la perdita delle facoltà mentali, della mia coscienza. Dovesse accadere, già da ora ho deciso liberamente che non voglio trattamenti di sostegno» . Trattamenti di sostegno o accanimento terapeutico? «A me non piace il termine accanimento terapeutico, è un controsenso linguistico. Accanirsi non è terapia. I trattamenti di sostegno, compresa l’alimentazione e l’idratazione artificiale, sono invece quella vita artificiale che io per me rifiuto. Nonostante la mia età (85 anni, ndr), dovesse accadere, potrei restare "morto a cuore battente"anche per altri vent’anni. Non lo vorrei mai, soprattutto per i miei familiari» . Allora meglio senza legge... Oppure, come dovrebbe essere? «Il mio disegno di legge non riguarda il tema dello stato vegetativo permanente nella sua globalità, ma solo il diritto di ognuno di noi di rifiutare questo modo innaturale di terminare la propria vita. Oggi la decisione di come e quando prolungare l’assistenza è completamente nelle mani dei medici, mentre invece è diritto inalienabile di ogni cittadino decidere se iniziare, o quando lasciare, il trattamento di sostegno. Sfugge al legislatore che oggi il prolungamento o l’accorciamento della vita non sono valori in sé, ma lo sono in quanto assecondano il progetto di vita di ognuno di noi» . Quindi, al medico non deve spettare più l’ultima parola? «Il paternalismo è superato in tutti i modelli sociali e, negli ultimi anni, lo stesso è avvenuto nel rapporto medico paziente. La gente sente il bisogno di riappropriarsi di scelte che riguardano la propria esistenza e la sua qualità, in ogni fase. Compresa quella finale. Certo è un principio di responsabilità della vita che pare in contrasto con quello della sacralità della vita (Dio ci dà la vita e Dio ce la toglie). Questo è il grande dilemma. Che però non ci deve mai far dimenticare la laicità dello Stato» . Autodeterminazione invece di affidamento totale... Che cosa è accaduto? «E’ conseguenza dell’ipertecnologica medicina moderna. In passato c’era la paura di morire anzitempo. Oggi c’è quella di sopravvivere oltre il limite naturale della vita, in una condizione artificiale, priva di coscienza e di vita di relazione. Un limbo che pone la società di fronte a dilemmi sconosciuti alla storia e al pensiero» . E a chi difende la sacralità della vita che cosa risponde? «Chi ha fede sceglierà comunque di affidarsi a Dio. O, ancora per fede, rifiuterà trattamenti che potrebbero salvarlo (le trasfusioni di sangue per i Testimoni di Geova). Chi non ha fede, potrà affidarsi ai poteri della scienza medica o scegliere quando e come stabilire dei limiti» .

Corriere della Sera 10.1.11
Il testo a Montecitorio: mantenere la nutrizione

ROMA— Già approvata dal Senato, dal 16 giugno sembrava finita su un binario morto alla Camera, in attesa di un parere della commissione Bilancio. Ma ora, dopo che i temi «eticamente sensibili» sono tornati ad essere uno dei fronti aperti nello scontro tra maggioranza e opposizione, la legge sul testamento biologico torna alla ribalta della cronaca parlamentare. Già domani infatti, nella conferenza dei capigruppo di Montecitorio, si potrebbe decidere di calendarizzarla riavviando quindi il suo iter. A premere per un’accelerazione è la maggioranza, convinta che sul testo— che prevede il mantenimento di idratazione e alimentazione, in quanto «forme di sostegno vitale» — si possa incassare la convergenza di buona parte del Terzo Polo e di una minoranza del Pd. In effetti, tra i parlamentari più attivi nel sostegno alla legge compare l’udc Paola Binetti e, all’interno del Partito Democratico, Giuseppe Fioroni ha già dichiarato che non seguirà l’orientamento della sua formazione politica, in gran parte contraria all’approvazione del testo.

Corriere della Sera 10.1.11
E Londra studia una tassa per i genitori che divorziano
Due obiettivi: frenare le separazioni e finanziare la struttura pubblica
di Paola De Carolis  


Una tassa per le coppie con figli che decidono di separarsi. Questa la manovra che Maria Miller, sottosegretario per il Lavoro e le Pensioni, si prepara ad annunciare nei prossimi giorni. Stando al domenicale Sunday Telegraph, che ieri ha anticipato la notizia, l’obiettivo è quello di fornire un ulteriore deterrente per genitori intenzionati a divorziare. Per ora, ha sottolineato un portavoce del dicastero, si tratta soltanto di una proposta: «L’idea è di consultare il pubblico su possibili cambiamenti per assicurare un efficente mantenimento dei figli» . Contributi, rate e scadenze sono attualmente competenza della Child Maintenance Enforcement Commission, un ente paragovernativo finanziato da soldi pubblici il cui futuro, con i tagli del governo Cameron, non è per niente sicuro. Dietro la possibilità di trasferire il costo del servizio sui divorziandi c’è inevitabilmente la necessità di dare un giro di vite alle spese, ma c’è in parte anche una presa di posizione dell’esecutivo sul matrimonio. Come aveva annunciato la stessa Miller al congresso dei Tory di Brighton, l’anno scorso, i conservatori «sono apertamente a favore del matrimonio, un’unione che fornisce una solida struttura per le nostre vite» . Ed è questo il tono della proposta: «Il divorzio deve essere l’ultima opzione, un passo che si decide di compiere quando è stata tentata ogni via per una riconciliazione» , ha detto il sottosegretario. In Gran Bretagna naufraga un matrimonio su tre. L’istituzione in sé è in crisi, con un calo del 5 per cento negli ultimi cinque anni. Privatamente la chiesa anglicana— ha scritto recentemente la stampa britannica — spera che le nozze il 29 aprile tra il principe William e Kate Middleton possano riportarla in auge. Inevitabilmente sono i figli a pagare il prezzo del divorzio. Secondo la Child Support Agency, il totale delle quote per il mantenimento non pagate al momento ha raggiunto i 3,8 miliardi di sterline. «Data la situazione, sembra chiaro che sia necessario rivedere interamente il sistema, renderlo più efficace, più veloce e meno burocratico» , ha sottolineato il portavoce del ministero. In assenza dei dettagli ufficiali della proposta del dicastero, il Sunday Telegraph ha fornito alcuni primi particolari. La cosidetta tassa sul divorzio potrebbe assomigliare alle imposte sui mutui o sui prestiti e essere applicata a entrambi i genitori, a seconda del reddito. La proposta, ha anticipato ancora il giornale, incontrerà sicuramente l’opposizione dei gruppi per la difesa dei diritti, in quanto verrà vista come un ulteriore ostacolo per le donne «intrappolate» in relazioni violente e vittime di abusi, mentre dovrebbe incontrare il favore dell’ala radicale del partito conservatore, che a malincuore ha dovuto dire addio alla proposta elettorale di offrire sgravi fiscali alle coppie sposate o legate da unioni civili (i Liberaldemocratici hanno infatti vietato l’iniziativa). Altra novità potrebbe essere l’abolizione della Child Maintenance Enforcement Commission: l’agenzia paragovernativa è finita infatti da tempo nel mirino dei censori del Cancelliere, incaricati di trovare risparmi in tutta la pubblica amministrazione. I suoi compiti verrebbero trasferiti direttamente al ministero del Lavoro e delle Pensioni. I piani prevedono inoltre un maggior accento su forme di «intervento rapido» in caso di unioni a rischio «esplosione» . Le coppie saranno dunque invitate a richiedere il sostegno di specialisti e misure cautelari extra verranno messe a disposizione per la protezione dei bambini.

Corriere della Sera 10.1.11
Ma nessuno resterà assieme per risparmiare
di Cesare Rimini


Una tassa, un’imposta, una ammenda, una multa, una sanzione pecuniaria insomma... pagare per divorziare. Un deterrente per le coppie che hanno figli. È come dire ai coniugi senza prole: voi potete anche fare quello che volete perché giocate con la vostra vita, ma se avete bambini, la legge vi invita concretamente a dimostrare senso di responsabilità. Quale sarà la sanzione prevista dal progetto di legge britannica? E soprattutto quanti divorzi si eviteranno per non pagare la «tassa» prevista? Siamo facili profeti: la nuova legge scoraggerà pochi divorzi. La massima «pagare per divorziare» avrà un modesto successo di numeri, perché i costi di un divorzio e le conseguenze economiche sono già talmente pesanti (soprattutto in tempi di crisi come questi) che la nuova «tassa sul divorzio» avrà, probabilmente, poca influenza. Le coppie che stanno insieme per il rispetto dovuto ai figli non sono tante, e non sarà certo la preoccupazione della sanzione pecuniaria a risaldare l’unione o a evitare la frana. E poi, che coppia di genitori è quella che sta insieme per evitare una «tassa» ? Sembra doveroso invece sottolineare il secondo aspetto del progetto britannico: la concretezza economica. La «tassa sul divorzio» dovrebbe servire per finanziare il sistema che gestisce e controlla sul piano sociale l’affidamento e il mantenimento dei figli dei divorziati. Ci sono i giudici, gli assistenti sociali, le strutture che devono seguire i figli in difficoltà per il divorzio che è sulla loro testa. Sembra che lo Stato voglia dire a dei genitori poco responsabili: «Questo guaio l’avete fatto voi, almeno concorrete alle spese che la società deve affrontare a tutela dei vostri figli» . Facciamo la legge anche in Italia?      

Repubblica 10.1.11
La corsa delle minorenni alla pillola del giorno dopo
L´allarme dei medici: il 27% dei teenager italiani non usa nessun anticoncezionale
di Caterina Pasolini


Giovani, imprudenti e confusi sul sesso è boom per la pillola del giorno dopo
Il 55 per cento delle confezioni venduto a minorenni

SONO appassionati e tecnologici, conoscitori della realtà virtuale più che del loro corpo. Navigano in rete come professionisti ma in amore e sesso improvvisano e rischiano. Sono i teenager italiani del nuovo secolo: il 27 per cento non usa alcun anticoncezionale e la percentuale sale al 35 per cento tra le sole ragazze.
I risultati si vedono, lanciano l´allarme i medici degli ospedali dove ogni week end arrivano a decine ragazzine impaurite a chiedere la pillola del giorno dopo, mentre si moltiplicano le malattie sessuali tra i giovanissimi. Perché i nipoti del ‘68 e del femminismo invece di prevenire si affidano sempre di più alla contraccezione di emergenza che negli ultimi anni ha visto un vero e proprio boom. Fino ad arrivare a 370mila confezioni. Acquistate e usate, per il 55 % dei casi da minorenni.
Di adolescenti impauriti, con idee confuse in materia di sesso e procreazione ne ha visti tanti andare a chiedere la pillola del giorno dopo il professor Emilio Arisi. Fondatore dei primi consultori in Italia, è consigliere della Sigo, la società italiana ginecologi che ogni anno organizza corsi nelle scuole per «rompere la barriera dell´ignoranza. Perché ho conosciuto ragazzini convinti che la Coca Cola fosse un anticoncezionale, che se facevano l´amore in piedi non sarebbero rimaste incinta, che una lavanda al limone salvava da un rapporto non protetto», racconta. E punta il dito contro le istituzioni, la mancanza di corsi di educazione sessuale nelle scuole, comuni in Europa e qui realtà solo per buona volontà di alcuni.
«Il boom della pillola del giorno dopo è dovuta anche al fatto che molti genitori non sono in grado di parlare ai figli di anticoncezionali, di sesso», dice il professor Carlo Flamigni che ha scritto un libro dedicato proprio alla pastiglia - «osteggiata dai medici cattolici pur non essendo un abortivo perché in Italia sappiamo fare solo la morale e non dare informazioni» - e autore di un volume sulla Contraccezione (edizioni Asino d´oro, il ricavato andrà all´Aied).
«Si arriva alla contraccezione di emergenza di massa in Italia perché non esiste educazione pubblica e perché la vecchia generazione non è che usi molto preservativi o pillola: le donne che prendono la pastiglia anticoncezionale da noi sono il 16% rispetto al 40% di alcuni paesi del nord Europa e il 32% è rimasta al coito interrotto. E il messaggio che passa alle giovani generazioni in famiglia finisce per essere che al pillola fa male, che ingrassa. Falsità». Così i teenager si arrangiano: nel 22 % del casi si affidano al coito interrotto, nel 27% al preservativo e solo il 18% alla pillola.
La professoressa Alessandra Graziottin, direttore centro di ginecologia all´ospedale San Raffaele Resnati e collaboratrice e dei programmi Sigo, spiega il boom della pillola del giorno dopo con un´ignoranza dovuta «alla resistenza storica del mondo cattolico ma anche al fatto che non abbiamo insegnato ai giovani il senso di responsabilità, anche nel sesso. Responsabilità nei confronti della propria salute e di quella della propria compagna, del proprio futuro. Insomma che se uno fa all´amore deve pensarci, a come non avere figli a non trasmettere malattie».
Più comprensivo con i ragazzi lo psicologo Charmet: «Difficile per loro irruenti, immaturi per età, che non hanno casa né rapporti spesso stabili, programmare incontri e anticoncezionali. Comunque è vero che i giovani si sentono immuni da rischi, non hanno il senso delle conseguenze dei loro gesti. Finalmente liberi dal senso del peccato e dal timore di castighi legati al sesso». Ma forse, a furia di visite a tappeto nelle scuole, qualcosa sta cambiando. Gli ultimi dati segnalano un calo del 4,7% nelle vendite della pillola del giorno dopo mentre cresce lievemente il consumo di quella anticoncezionale tra le giovanissime fino al 18%.

Corriere della Sera 10.1.11
Un piano nazista per Gerusalemme
di Michele Sarfatti


La Germania nazista programmò lo sterminio degli ebrei di Gerusalemme e Tel Aviv? Secondo il libro di Klaus-Michael Mallmann e Martin Cüppers, ora tradotto in inglese col titolo Nazi Palestine. The Plans for the Extermination of the Jews in Palestine (Enigma Books), tale progetto venne realmente pianificato, anche se al dunque non fu messo in pratica. Siamo nel momento della formidabile avanzata delle forze italo-tedesche lungo la costa meridionale del Mediterraneo, oltre la Libia. Il 29 giugno 1942 conquistano Marsa Matruh e il giorno dopo raggiungono la piccola località di El Alamein. Nelle settimane seguenti provano a debellare gli inglesi ivi attestati, ma senza successo. Stesso esito ha l’offensiva di fine agosto. Infine la battaglia di ottobre-novembre vede il successo Alleato e l’avvio di una rapida e questa volta definitiva controffensiva. Mallmann e Cüppers documentano che nella prima metà di luglio di quell’anno Himmler decise la creazione di un commando speciale della Polizia di sicurezza -Servizio di sicurezza della Direzione generale per la sicurezza del Reich, posto direttamente sotto i suoi ordini, da aggregare all’Afrika Korps. Un documento del 13 luglio precisò che il suo incarico era di «adottare, sotto la propria responsabilità, provvedimenti esecutivi contro la popolazione civile» , senza aggiungere ulteriori dettagli (pagina 117). Va osservato che l’incarico era di natura tale da dovere essere svolto in Paesi di nuova occupazione, non quindi nella Libia già italiana. Il 29 luglio il commando fu condotto ad Atene, in attesa di essere trasferito a destinazione. Quest’ultimo spostamento però non fu mai effettuato e nella seconda metà di settembre il commando venne riportato a Berlino, per essere poi dislocato il 24 novembre nella Tunisia appena occupata. Come si può notare, la cronologia del commando speciale si inquadra perfettamente in quella delle operazioni militari generali: dapprima si ritenne che molto presto esso sarebbe stato necessario, poi si prese atto che la situazione era mutata, almeno temporaneamente, infine lo si utilizzò in una regione non molto dissimile (si direbbe che lo si era addestrato proprio per situazioni mediterranee meridionali e orientali). Come i due storici hanno riconosciuto in un dibattito con Tom Segev svoltosi sul quotidiano «Haaretz» nel 2008, nessuno dei documenti da loro reperiti menziona né la progettazione, né la volontà di sterminare gli ebrei d’Egitto e soprattutto di Palestina. A loro parere però quel mandato era necessariamente compreso nelle consegne del 13 luglio, in quanto fortemente simili a quelle date agli Einsatzkommando che compirono agghiaccianti eccidi di massa della popolazione ebraica nell’Europa settentrionale e orientale. A me pare tuttavia che ciò non sia sufficiente ad attestare l’esistenza di un vero e proprio «piano» . Similmente, nel capitolo sulla Tunisia si afferma che l’Einsatzkommando non riuscì a organizzare uccisioni di massa degli ebrei di quel Paese (pagina 174), senza però offrire né prove dell’esistenza dell’incarico né riflessioni sull’asserito fallimento. E però, detto tutto ciò, resta il fatto che proprio i documenti reperiti da Mallmann e Cüppers ci spingono a interrogarci ancora una volta su cosa sarebbe potuto accadere agli ebrei di Gerusalemme e Tel Aviv se Hitler e Mussolini nell’estate autunno 1942 avessero travolto la linea difensiva inglese a El Alamein. Pare irreale ipotizzare un nuovo blocco prima di Alessandria. Forse avrebbero rapidamente superato il canale di Suez (puntando magari verso il Caucaso, per congiungersi con i reparti in discesa dal fronte russo). Forse la Palestina sarebbe stata assegnata alla Germania, forse all’Italia, magari con il coinvolgimento di forze simpatizzanti locali. Nessuna di queste ipotesi può avere riscontri e risposte serie, ciò tuttavia non ci deve impedire di considerare che la sconfitta nazifascista a El Alamein costituì un evento vitale per gli ebrei egiziani e palestinesi.                        

esce "Il Romanzo di Costantinopoli" di Silvia Ronchey
Repubblica 10.1.11
Il trionfo di Costantinopoli
Le storie sublimi di una città al centro del mondo
di Pietro Citati


Per mille e cento anni fu considerata il cuore della civiltà. Luogo di grandi opere, di commerci e spiritualità. Vasto e teatrale. Il racconto in un volume di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini
Fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo, quella di Cristo e quella di Maria
La chiesa di Santa Sofia era ritenuta dai turchi "il modello del Paradiso"
Gli architetti cercavano qualcosa di stravagante, di bizzarro e di illusionistico

Per mille e cento anni, Costantinopoli fu il cuore del mondo. Per mare e per terra, svedesi, danesi, tedeschi, inglesi, russi discendevano verso il Bosforo; e persiani, arabi, amalfitani, veneziani, genovesi, normanni risalivano verso il Bosforo. All´alba, quando i viaggiatori si alzavano per contemplare Costantinopoli, la città era nascosta, o mascherata, o lasciava confusamente trasparire le infinite abitazioni. Attorno alle navi si stringeva una luminosa nebbia bianca, qualcosa di folto, umido e lattiginoso: il primo segno di Costantinopoli.
Verso mezzogiorno, quando cominciò a soffiare una brezza, la spessa nebbia lattiginosa si diradò. Poi scomparve. All´improvviso, tutto fu chiarore, splendore, irradiazione, trionfo. La folla degli oggetti luminosi abbagliarono gli occhi che non riuscivano a contemplarli tutti insieme; e la visione era raddoppiata e moltiplicata nelle acque del mare. Tra queste innumerevoli visioni di Costantinopoli, una si distinse tra tutte: quella dell´estate 1203 quando le navi veneziane arrivarono a Santo Stefano: «Nessuno poteva immaginare esserci nel mondo –scrisse Geoffroy de Villehardouin - una città tanto ricca, quando vedemmo quelle alte mura e quelle torri possenti, dalle quali è racchiusa tutt´intorno in un cerchio, quei ricchi palazzi in così gran numero e quelle alte chiese, e nessuno avrebbe potuto crederlo se non l´avesse visto con i suoi occhi». Tutti provarono stupore. «L´illustre e venerabile città brillava stranamente di un´infinità di meraviglie», insisté Geoffroy de Villehardouin. Sulla riva della città si levavano centinaia di statue: statue che i primi imperatori avevano saccheggiato dai tesori dell´Occidente e dell´Oriente, che col passare degli anni diventarono segrete, fantastiche, incomprensibili, o soggette a qualsiasi interpretazione.
La più bella era, probabilmente, una statua di bronzo alta trenta piedi che sorgeva nel Foro di Costantino. Molti l´attribuirono a Fidia. La veste a pieghe giungeva ai piedi per proteggere dagli sguardi umani le membra divine. Com´era bella quella figura misteriosa! Il capo era quietamente inclinato, il collo nudo e lungo, il corpo si chinava mollemente, le vene corrugavano la fronte, i capelli intrecciati e legati dietro il capo sfuggivano all´elmo, ciocche scendevano sul viso, gli occhi gettavano dardi, la mano sinistra sollevava le pieghe della veste. Il bronzo imitava ogni particolare del corpo, si piegava, si modulava, diventava viso, collo, capelli, abiti; e sembrava trasformarsi in voce e parola. Tutta la figura senza vita fioriva di vita, «facendo fluire negli occhi tutta la forza dell´ardore». Nessuno - scriveva Niceta Coniate - aveva mai visto una «donna di così invincibile dolcezza».
* * *
Nel Foro, sopra una grande colonna di porfido, sorgeva una colossale statua bronzea di Costantino: aveva la forma di Apollo-Helios, come una volta a Roma, molti secoli prima, era stato rappresentato Nerone davanti alla Domus Aurea. Portava uno scettro nella destra, un globo nella sinistra e una corona di raggi lucente sul capo. Tre secoli più tardi, la figura dell´imperatore Giustiniano appariva a cavallo, molto più piccola. Nella parte superiore, c´era Cristo avvolto da un disco col sole, la luna, una stella sorretta da due angeli: benediva con una mano e con l´altra reggeva una croce. Giustiniano montava un destriero focosissimo, che si impennava uscendo dalla cornice: una vittoria reggeva la palma del trionfo, mentre la terra, seminuda, teneva la staffa del cavallo in un gesto di sottomissione.
La città di Costantinopoli veniva raffigurata nelle tre forme della luna pagana: Artemide, Selene, Ecate: l´acqua lunare la circondava, come nell´ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio. La luna pagana era Maria cristiana, che irradiava il mondo di candore luminoso. Uno degli imperatori bizantini adorò Maria con una mania profondissima: la rimirava di continuo, la divorava con gli sguardi, le erigeva intorno gli arredi di una reggia, dispiegava drappi di porpora. Così Costantinopoli fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo e quella del Sole, quella di Cristo, di Artemide, di Maria: lo splendore più ardente si mescolava con lo splendore più delicato; il chiarore più freddo con quello più prossimo.
* * *
Santa Sofia, "la chiesa senza pari", "il modello del Paradiso", come dicevano i turchi, era stata inaugurata nel 360: distrutta in una rivolta del 404, ricostruita nel 415, di nuovo distrutta nel 532; e di nuovo definitivamente inaugurata il 27 dicembre 537. Sopra una grandissima lastra bianca, la mano della natura aveva inciso segni, venature, rilievi, screziature, che disegnavano a loro volta le figure umane di Gesù Cristo, Maria e Giovanni Battista. La pietra sembrava illusione: il sasso immagine umana; e tutto era variegato, suscitando in chi vedeva stupore e sgomento. Gli architetti avevano rivestito il pavimento di lastre di marmo colorato, o di sottilissime luci policrome. Se dal pavimento si guardava Santa Sofia, la volta sembrava un infinito cielo stellato, e se dalla cupola si guardava il pavimento, ecco, le pietre tumultuavano, ondeggiavano, oscillavano, sembravano un ardimentoso mare in tempesta.
Quando qualcuno penetrava sotto la cupola di Santa Sofia, la sua mente si innalzava verso Dio, nella convinzione che Egli fosse lì accanto, lì prossimo, e che amasse risiedere nel luogo che aveva prescelto. Santa Sofia, scriveva mirabilmente Procopio, era uno spettacolo bellissimo, quasi eccessivo per chi lo vedeva, e assolutamente incredibile per chi ne sentiva parlare. Era luce e riflesso. Sembrava «che la luce non venisse da fuori, ma che un bagliore accecante nascesse nel suo interno». Tutto il soffitto era rivestito d´oro puro, per aggiungere maestà alla bellezza, eppure lo splendore dell´oro era sopraffatto dal barbaglio della pietra preziosa. Fasci di luce penetravano da finestre diverse, convergendo verso un punto diafano, oppure incrociandosi ad altezze varie, le lame di luce scivolavano lungo le pareti e si allungavano sul pavimento. Questa mobile irradiazione accresceva, agli occhi di tutti, l´effetto irreale e inverosimile della visione.
In alto, in alto, Santa Sofia culminava in un quarto di sfera, al di sopra della quale si elevava un´altra semisfera, «di bellezza meravigliosa ma anche spaventosa», perché, diceva Procopio, tutto sembrava instabile, inquieto e incerto e in procinto di crollare al suolo. «Chi potrebbe descrivere lo splendore delle colonne e delle pietre che le abbelliscono? Sembrava di essere capitato in un superbo prato fiorito. Allo sguardo ammirato si offriva la tonalità purpurea, verde, rosso acceso, bianco brillante delle pietre, per non parlare dei marmi che la natura, come una pittrice, aveva screziato di tinte d´ogni sorta». Ciò che sorprendeva nelle vette di Santa Sofia, era l´estrema cangiabilità del sacro, la mobilità incessante dell´eterno, simile alle irradiazioni degli angeli evocate nei libri dello Pseudo-Dionigi l´Areopagita. Settantadue tonalità diverse brillavano, secondo la natura della pietra, delle perle e dei materiali più diversi.
Maometto II aveva conquistato Costantinopoli penetrando in Santa Sofia nel dicembre 1453. La sua era una tremenda passione erotica. Non sapeva allontanare dal suo cuore il pensiero dell´amatissima città. Conversava con l´immagine della sua sposa, contemplava la sua bellezza, parlava di quando l´avrebbe conquistata, congiungendosi nel suo grembo. Adorava la «lunga e profonda fessura odorosa del Corno d´oro»: un´immensa vagina di acqua, di terra e di alberi. Provava la stessa passione per Santa Sofia. Quando volle godere lo spettacolo delle opere d´arte, salì sulla superficie concava della cupola, come Gesù -"il soffio di Dio"- ascese al quarto cielo. Dopo aver ammirato il mare ondoso del pavimento, raggiunse la cima. Così sia Costantinopoli sia Santa Sofia, diventarono la più intima delle sue passioni.
In apparenza, Costantinopoli era vastità, grandezza, teatralità, sublimità, tragedia, ineffabilità – tutto portato all´estremo, fino a inebriare ed estasiare gli abitanti della capitale. In realtà gli architetti, gli artefici, i truccatori cercavano qualcosa di profondamente diverso, come accadeva a Bagdad e a Ctesifonte: qualcosa di stravagante e di illusionistico, di bizzarro e di eccentrico.
Secondo il famoso racconto di Liutprando, un albero di bronzo dorato era disposto davanti al trono imperiale: i rami erano gremiti di uccelli di ogni specie e colore, anch´essi in bronzo dorato; e ciascuno degli uccelli emetteva il canto inconfondibile della sua specie. In quel momento gli ambasciatori si prosternarono tre volte a terra, secondo un costume che risaliva ad Alessandro Magno. Il trono imperiale appariva dapprima disteso, poi si innalzò e in un attimo torreggiò altissimo nella grande stanza, custodita da leoni di immensa grandezza che sferzavano il pavimento con la coda e ruggivano con la bocca aperta.
L´imperatore di Costantinopoli era in primo luogo il signore delle forme e delle apparenze e delle liturgie. Quando nasceva, si sposava o aveva figli, la città era in festa per sette giorni e su tutte le piazze si mangiava e beveva a spese del sovrano. Le strade erano purificate: durante le processioni si spargevano fiori sul selciato, sulle finestre e sui balconi: si esponevano le suppellettili più preziose e si ostentava vasellame d´oro e d´argento. Un tappeto di bellissima lana rappresentava una coda di pavone: le stoffe di seta, tinte con porpora di Tiro, erano ricamate con l´ago; si esaltava lo scarlatto fiammante, il cupo viola, il delicato splendore del verde. I fabbricanti degli oggetti di lusso – orefici, importatori di seta, mercanti di lino, profumieri, autori di bronzi niellati - affermavano al mondo intero il prestigio di Bisanzio. Come scriveva lo storico turco, «si mescolavano le bellezze greche, franche, russe, ungheresi, cinesi»: le belle dai morbidi capelli, le fanciulle simili alle stelle della Lira, fresche come il gelsomino, alte e sottili come il cipresso, con la fronte simile alla luna e le ciglia al Sagittario.
In momenti straordinariamente solenni, l´imperatore lasciava da solo il palazzo e passava il Bosforo in una galera imperiale. Quando raggiungeva la giusta distanza dal ponte, conosceva la visione spettacolare e grandiosa della città. Allora, si alzava sulla sedia: restava in piedi guardando verso est con le mani alzate al cielo, faceva tre volte il segno della croce sulla città e poi rivolgeva una preghiera a Dio: «Signore Gesù Cristo mio Dio, nelle tue mani affido questa tua città: preservala, Ti prego, dall´assalto di ogni avversità e tribolazione, dalla guerra e dalle invasioni straniere. Conservala inviolata dalla cattura e dal saccheggio, perché è in Te che abbiamo riposto la nostra speranza e Tu sei signore di misericordia e padre di pietà e Dio di ogni consolazione e a Te spetta avere grazia e preservarci e salvarci dalle difficoltà e dai pericoli ora e per sempre e nell´eterno dell´eterno». Mai, come in quel momento, l´imperatore aveva rivolto al cielo una preghiera così commovente: così tenera, delicata e quasi indifesa.
* * *
Il Romanzo di Costantinopoli di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini (Einaudi, pagg. XXXI- 956, euro 28) è un libro bellissimo. Contiene testi bizantini, francesi, inglesi, americani, turchi, arabi, italiani, tedeschi: scelti con grazia e intarsiati con rara raffinatezza.

Con Marco è nato un bel rapporto. Sono contenta di aver fatto il personaggio del suo primo, vero viaggio nell´universo femminile
In Usa hanno amato il film di Bellocchio. E pensare che l´anno in cui corse per il miglior film straniero l´Italia preferì "Baaria"
Repubblica 10.1.11
Aria di Oscar
Giovanna Mezzogiorno per i critici Usa è "the best"
di Maria Pia Fusco


Non ho affanni. Sto lavorando a un progetto televisivo ma mi piacerebbe anche tornare a fare teatro, il primo amore
Con Marco è nato un bel rapporto. Sono contenta di aver fatto il personaggio del suo primo, vero viaggio nell´universo femminile
In Usa hanno amato il film di Bellocchio. E pensare che l´anno in cui corse per il miglior film straniero l´Italia preferì "Baaria"

"Volcanically beautiful", "Bellezza esplosiva". Mica male come apprezzamento, soprattutto se scritto sul "New York Times" e riferito ad un´attrice italiana. Giovanna Mezzogiorno è stata inserita tra le migliori interpreti nelle previsioni per gli Oscar per il ruolo di Ida Dalser in "Vincere" che a sua volta figura tra i migliori film da candidare, insieme a Filippo Timi come attore non protagonista. Non solo: è di ieri il premio dell´associazione dei critici americani che l´ha nominata "best actress". «È un gran bella soddisfazione, anche perché è passato tanto tempo, è come la scia lunga dopo le critiche stupende al film in America. Certo, ci aspettavamo che poi l´Italia lo nominasse per gli Oscar, ma fu scelto "Baària". Nessuna recriminazioni, le logiche di certe decisioni sfuggono ai più», dice l´attrice, per la quale il film di Bellocchio è stato importante anche per la vita privata: sul set ha conosciuto Alessio Fugolo, l´uomo che poi ha sposato.
Perché "Vincere" piace tanto agli americani?
«Credo che li abbia sorpresi, non si aspettano dall´Italia un film così duro, brutale, che non fa sconti ed è provocatorio perfino dal punto di vista delle immagini e del linguaggio. Lo considerano una specie di capolavoro, che non ha furbizie o ammiccamenti né le immagini da cartolina alle quali il cinema italiano li ha abituati».
Che rapporto c´è stato con Marco Bellocchio?
«Posso dire con sicurezza che è nata una profonda fiducia reciproca, senza la quale un film così non sarebbe stato possibile. Io so che lui sa di avere in me una grandissima alleata. Con lui avevo fatto un provino per "La balia", non era andato bene. Una cosa che mi rende felice è che il primo film di Marco su una donna è proprio "Vincere". Con il personaggio di Ida Dalser fa un viaggio nella maternità, nella sessualità e in tutta la complessità dell´universo femminile».
Suo padre, Vittorio Mezzogiorno aveva lavorato con Bellocchio in "La condanna" e alla fine era esploso contro la presenza sul set dello psicanalista Massimo Fagioli. Ricorda qualcosa di quel periodo?
«Sono solo ricordi di figlia, avevo 13, 14 anni e in quel periodo ero a Roma con mio padre e andavo spesso sul set, facevo i compiti nella sua roulotte. Ricordo la fatica che faceva a lavorare, ma non avevo la maturità per confrontarmi con lui su questioni professionali. Nell´esperienza personale non ho avuto strascichi di quell´avventura. Del resto io ho incontrato un "altro" Bellocchio rispetto a quegli anni e il successo in America mi fa piacere soprattutto per lui, è una grande soddisfazione e anche una rivincita per Cannes, dove fu un grande dispiacere per tutti noi non aver avuto premi. Ma l´anno scorso sono stata in giuria a Cannes e ho capito che le logiche dei premi sono difficilmente spiegabili, le scelte sono il frutto di equilibri e compromessi».
Lei potrebbe recitare in inglese e francese, ma lavora soprattutto nel cinema italiano. È una scelta?
«Negli ultimi anni ho preferito stare qui soprattutto per motivi famigliari. Lavoro da 15 anni, credo di aver dato il mio contributo al cinema italiano, ma senza sacrificare la mia vita. Sono stata molto con mia madre. L´anno scorso si è aggravata ed è mancata alla fine di ottobre. Sono felice di esserle stata vicino»
Con sua madre, l´attrice Cecilia Sacchi, lei ha ideato il premio Vittorio Mezzogiorno.
«Ci tengo tantissimo, e non solo per il ricordo di mio padre. Penso che in questo momento così difficile per l´Italia e con una politica così indifferente alla cultura, sia importante, nel nostro piccolo, continuare a lottare per la qualità. E sono tante in giro per il nostro paese le compagnie di valore, come il Teatro di Legno che abbiamo premiato quest´anno con la giovane attrice Lucia Mascino. Il premio è ospitato dal Festival di Giffoni e insieme vogliamo fare tante altre cose. Non bisogna arrendersi».
Il suo ultimo film è "Basilicata coast to coast", un piccolo cult.
«Mi sono divertita moltissimo, dopo "Vincere", dopo "La Prima linea" avevo bisogno di una boccata d´ossigeno. Per me ormai alternare film intensi e duri con la leggerezza delle commedie è diventata una vera necessità».
E adesso?
«Sto lavorando ad un progetto per la televisione. Mi piacerebbe anche tornare a lavorare in teatro, il primo amore. Però non ho nessun affanno».
È vero che è tifosa del Napoli?
«Le mie città preferite sono Napoli e Milano. Napoli la sento mia per via di mio padre, c´è il suo imprinting nei primi dieci anni della mia vita. Poi mi sono spostata verso il nord, Milano è la città di mia madre. Tifosa scatenata forse no, ma se il Napoli vince sono contenta».

domenica 9 gennaio 2011

QUESTA MATTINA BENEDETTA TOBAGI A PAGINA 3  SU RADIO 3 HA CITATO LEFT A PROPOSITO DEL SERVIZIO SCRITTORI D’ITALIA

Repubblica 9.1.10
Bersani, appello all’unità delle opposizioni
"Destra nel caos, chi alza la testa come Fini e Tremonti viene bombardato"
Messaggio alla Lega: pronti a discutere sul federalismo ma basta diversivi
di Giovanna Casadio


ROMA - Bersani batte di nuovo sul tasto dell´unità di tutte le opposizioni. «Il centrodestra non ha prospettive, è nella confusione - denuncia il segretario del Pd - Da dieci anni siamo indietro in tutte le classifiche. Le opposizioni si devono organizzare perché è ora di guardare oltre Berlusconi e i progressisti e i moderati devono incontrarsi per aprire una fase nuova». È l´appello a Casini e Fini per un «patto repubblicano», fatto nei giorni scorsi e rilanciato ieri al Tg2.
E poi, lo stile del personalismo populista berlusconiano è quello delle campagne contro Fini o Tremonti. Sono vicende che «insegnano un paio di cosucce» sul Pdl - osserva Bersani - prima fra tutte che «chi alza la testa lì muore, viene bombardato». Ancora più indispensabile è quindi che le forze d´opposizione «facciano una riflessione sulle responsabilità che hanno». Parole dure. Provocano un fuoco di fila di reazioni nel centrodestra. Il ministro Bondi - sulla cui testa pende la mozione di sfiducia - liquida l´appello del leader democratico come «slogan senza fondamento nella realtà». Per Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl a Montecitorio, Bersani è «truculento» e teme «di essere sconfitto da Vendola». Ma il pressing del segretario Pd non tralascia nessuna delle contraddizioni in cui si dibatte la maggioranza. Proprio su quelle i Democratici puntano per accelerare l´implosione del governo. A cominciare dal federalismo su cui la Lega gioca il tutto per tutto. «Noi abbiamo una nostra idea di federalismo quindi siamo pronti a discutere, ma Bossi la deve smetterla con i diversivi e spiegare perché la Lega ha votato tutte le leggi della cricca che sono il record del centralismo e del malaffare». Ai lumbàrd chiede poi come mai, nonostante tanto parlare di federalismo, i Comuni non sono mai stati peggio. La strategia di Bersani, di alleanza con il Terzo Polo, scommette sulla distanza irrecuperabile di Casini e di Fini da Berlusconi. In particolare sul leader Udc - sospettato di tornare prima o poi a flirtare con il governo - il segretario Pd ha fiducia: «Casini ha fatto le sue scelte da tempo e mi parrebbe davvero improbabile che tornasse indietro in modo radicale». Tuttavia avverte: «Da quel lato c´è l´illusione che Berlusconi sia condizionabile. Ma Berlusconi non tratta, compra».
È nella direzione di giovedì prossimo che il Pd dovrà sancire questa strategia. Riunione non facile. Sulla linea e l´identità del partito le posizioni di Bersani e quelle di Veltroni sono distanti con un ultimo scontro su un eventuale congresso straordinario - a tempo debito - se non ci sono elezioni anticipate. Tuttavia il segretario conferma che andrà al "Lingotto 2" la convention di Veltroni il 22 gennaio a Torino: «Se sono gradito...». A fare da cartina al tornasole delle tensioni è la questione primarie, di cui Bersani parlerà in direzione. Sulle primarie sono state raccolte le firme in una petizione online lanciata tra gli altri dai "rottamatori" di Renzi e Civati. Ma già domani il leader Pd deve cercare di sbrogliare il "caso Sicilia". Il Pd di Caltagirone è stato commissariato, per decisione del segretario regionale Giuseppe Lupo. Lupo finora aveva sempre mediato, ma ha ritenuto provocatorio il referendum contro l´appoggio Pd al governatore Lombardo. Enzo Bianco si indigna; giudica grave il commissariamento e chiede a Bersani di intervenire. Il Pd in Sicilia su Lombardo è spaccato. Da Caltagirone fanno sapere che il referendum oggi lo faranno comunque. Di Pietro critica le alleanze siciliane del Pd. Però rompere con il "terzopolista" Lombardo, sarebbe per il Bersani come smentire nei fatti la linea cercata a livello nazionale. Altro fronte caldo nel Pd è sul testamento biologico.

Corriere della Sera 9.1.11
Bersani, scontro con la minoranza E Veltroni pensa alla «carta Renzi»
L’amarezza dell’ex leader: basta che io respiri e subito mi si colpisce
di Maria Teresa Meli


La strategia delle alleanze
Bersani propone un patto tra «moderati e riformisti» , cioè terzo polo, Pd e, se ci stanno, Idv e Sel. I veltroniani insistono invece sulla «vocazione maggioritaria»

Lo scontro sulle primarie
Il «mito fondativo» agita il Pd per il suo uso confuso a livello locale e per la difficoltà a farle in caso di alleanza con i centristi. Bersani vuole rivederle, la minoranza fa muro

Le divisioni sul caso Fiat
L’intesa su Mirafiori divide il Pd perfino all’interno della maggioranza (Letta favorevole, Fassina critico), mentre Veltroni la sostiene. Una linea comune sembra impossibile

Fine vita, fronti opposti
Altro tema che può lacerare: Fioroni e gli ex ppi voteranno con il centrodestra, Marino chiede a Bersani una netta indicazione di voto o un referendum da indire tra gli iscritti

ROMA— «Basta che io respiri che subito mi si colpisce» . È amareggiato Walter Veltroni per le polemiche che lo hanno investito a causa di una richiesta mai fatta, ossia quella del congresso anticipato. Agli amici e ai collaboratori l’ex leader del Pd non ha nascosto il suo stato d’animo: «Io non farei mai a Bersani quello che lui fece a me, quando si candidò alla segreteria che io ero ancora segretario. Ma la questione è un’altra: mi domando che partito sia quello in cui il dibattito viene demonizzato o represso» . Veltroni tocca il cuore di quello che per la minoranza interna sta diventando il problema dei problemi. «Quando io parlo di libertà di coscienza — spiega Beppe Fioroni, un altro dei leader dei 75 — non mi riferisco solo ai temi etici, ma anche— e soprattutto — alla necessità di un partito libero e plurale. Invece mi pare che la maggioranza del Pd sia fatta di molti Stalin, basta vedere come hanno trattato i rottamatori di Matteo Renzi. Ma per noi questa diventa la battaglia delle battaglie. Quindi, o Bersani giovedì in Direzione ci dà delle risposte su questo tema oppure nasceranno problemi seri» . Quanto seri? Molto, se si pensa a qual è in questo momento la dialettica interna alla minoranza, divisa tra chi, come Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini vorrebbe un congresso per cambiare linea e segretario, e chi, invece, come la maggior parte degli esponenti che vengono dalla Margherita, ritiene che non ci sia più niente da fare e che sia meglio uscire da questo Pd e inventare qualcosa di nuovo. Veltroni finora non ha sposato nessuna delle due tesi. Ma è più probabile che alla fine, con Fioroni e Gentiloni, vesta i panni del padre nobile, sponsorizzando non la sua candidatura in alternativa a Bersani, ma quella di un altro esponente. Quel Renzi che la maggioranza del Pd odia e teme e che sta tessendo la sua rete anche attraverso incontri importanti, dalla Banca d’Italia alla segreteria di Stato vaticana. Intanto comunque le diverse componenti della minoranza stanno cercando spazi di manovra comuni. In questo senso è probabile che in Direzione i veltroniani, i rottamatori e i sostenitori di Ignazio Marino presentino insieme un ordine del giorno a difesa delle primarie, che Bersani e D’Alema vorrebbero evitare per scongiurare il pericolo di una vittoria di Nichi Vendola. Dunque i rapporti tra maggioranza e minoranza restano piuttosto tesi, prova ne è il fatto che finora né il segretario né il capogruppo Dario Franceschini ha firmato la mozione presentata da Veltroni e Fioroni sugli attentati ai cristiani, che arriverà mercoledì nell’aula di Montecitorio. Si tratta di un documento che certo non divide il partito, quindi l’atteggiamento di Bersani e Franceschini è dovuto solo alla grande freddezza di questi giorni tra la maggioranza del Pd e i 75. È difficile, però, che il segretario in Direzione scelga la linea della contrapposizione, tanto è vero che assai probabilmente sarà al Lingotto, il 22 gennaio. In questo momento al leader i toni muscolari non convengono. Fondamentalmente per due motivi. Il primo riguarda la difficoltà di Bersani a mettere a punto la strategia del Pd. Il segretario incontrerà sia Casini che Fini, ai quali continua a rivolgersi pensando a un’alleanza tra il suo partito e il terzo polo, ma in realtà sia dall’Udc che da Fli ha già avuto risposte sconfortanti. In questo contesto andare allo scontro con la minoranza potrebbe essere penalizzante. Ma c’è un’altra ragione che suggerisce a Bersani di comportarsi con prudenza, nonostante una parte dei suoi voglia andare allo scontro. E riguarda il fatto che la maggioranza è divisa su alcuni temi importanti. Sulla Fiat, per esempio, il responsabile economico Stefano Fassina e il vicesegretario Enrico Letta non parlano la stessa lingua. Mentre sulle primarie la presidente Rosy Bindi non sposa le posizioni del leader: lei le difende a spada tratta. Insomma, andare al muro contro muro rischierebbe di acuire le divisioni nella maggioranza. Anche se non è escluso che alla fine i risentimenti prevalgano sulla ragione politica: chi ci ha parlato racconta che Bersani sia ancora irritato con Veltroni per la sua netta presa di posizione sulla Fiat, che ha reso ancora più evidente la mancanza di una linea chiara degli attuali gruppi dirigenti del Pd su questo tema.

Repubblica 9.1.10
La frontiera dell’odio
Gli insulti nei blog dell´ultradestra: "È una venduta comunista"
di Vittorio Zucconi


Una moderata: aveva votato per il rifinanziamento dell´occupazione e delle guerra in Iraq e Afghanistan, aveva applaudito la decisione di utilizzare la Guardia Nazionale
Il suo collegio elettorale è quello al confine con il Messico dove ogni notte transitano e spesso muoiono i clandestini che tentano di entrare nel Paese dei loro sogni

ERA da poco passato mezzogiorno, nell´Arizona dove il sangue bolle più in fretta del tè e le pistole parlano più forte della legge, quando Gabrielle Giffords, una parlamentare democratica, è stata abbattuta da un proiettile in testa sparato a bruciapelo all´aperto, durante un comizio. Almeno altre diciotto persone presenti sono state raggiunte nella tempesta di proiettili sparate da una pistola mitragliatrice.
Cinque sono morte e tra loro un bambino di nove anni. Ore e ore di intervento disperato al cervello dell´onorevole Giffords nell´ospedale della città di Tucson, l´hanno lasciata in condizione critiche, prima data per morta, poi in fin di vita, poi con buone prospettive di sopravvivere secondo l´annuncio del chirurgo.
È stato un mezzogiorno di fuoco autentico, da western della nuova politica impazzita, davanti a un negozio di alimentari in un modesto shopping center, in queste località un tempo chiamate «territori del New Mexico», non per caso utilizzate dal cinema come fondale per la storia di violenza e di giustizia sommaria che hanno costruito la frontiere del west e del sud ovest. Nei dubbi, e nelle speranze, che ancora circondano la sorte di questa donna rieletta alla Camera dei Deputati appena tre mesi or sono dopo una furibonda battaglia elettorale contro uno dei più fanatici campioni del «partito del tè» più estremo che ha richiesto tre giorni di riconteggio per assegnarle il seggio per pochi voti, l´attentato sembra quasi una notizia attesa, un evento tragicamente prevedibile nel clima arroventato di odio che gli ultimi anni, e l´avvento del movimentismo degli ultrà della destra gonfi di rabbia, hanno generato.
Il collegio elettorale della Giffords è l´ottavo, che copre la terra quasi di nessuno fra i Messico e l´Arizona, il luogo dal quale transitano ogni notte, e spesso muoiono, i clandestini che corrono fra i cactus e i serpenti a sonagli seguendo le guide, i coyote, che spesso li abbandono a morire di sete. L´avversario della Giffords, il repubblicano Jesse Kelly, aveva ottenuto l´investitura della santa patrona dei nuovo ultrà, la cacciatrice di renne Sarah Palin, e poche settimane prima del voto aveva organizzato una «pubblica sparatoria» invitando i partecipanti a «eliminare la Giffords anche con i fucili». Non è lui, Kelly lo sconfitto, ad essere stato arrestato come sospetto per la sparatoria, e l´identità del possibile attentatore che doveva possedere armi automatiche per compiere una tale strage, è tenuta segreta. Ma questa, nell´Arizona dell´estrema frontiera davanti all´immigrazione legale e illegale, nello stato dove tutto si arroventa come la sabbia del deserto di Sonora che separa Tucson dal Messico, è la febbre che sta divorando di rabbia e di odio i cittadini e sta infettando l´America. E la storia americana insegna che appiccare incendi di rabbia e di odio ideologico o razziale inevitabilmente conduce all´omicidio politico.
L´indignazione e le condanne ufficiali che hanno accompagnato le ore di attesa per l´esito dell´intervento sulla Giffords e la sorte dei molti feriti gravi, la definizione di «attacco spregevole» venuta dal presidente Obama che è stato avvertito mentre assisteva con la figlia Malia a un incontro di basket e di «gesto insensato contro tutti noi» diffusa dal nuovo presidente della Camera appena insediata, il repubblicano moderato John Boehner non cambiano e non cambieranno nulla in quell´Arizona che vive il dramma insolubile dell´immigrazione e la lotta politica nel forno di passioni eccitate dalla diffusioni universale di armi. Insieme con l´Alaska e il Vermont, l´Arizona permette il trasporto di armi da fuoco nascoste senza licenza e le armi hanno il difetto di sparare e uccidere facilmente.
L´incontro politico, il piccolo comizio che la Giffords aveva organizzato in un anonimo centro commerciale di Tucson, una città di un milione di abitanti dove ormai i «bianchi non di origine ispanica» sono il 49% della popolazione, dunque minoranza, non aveva nessuna pretesa di speciale protesta, ma semmai di conferma della popolarità della deputata, forte di una posizione che ovunque apparirebbe fortemente centrista, ma che nell´allucinazione xenofoba o anti democratica che ha afferrato tanti cittadini, dovevano sembrare scandalosamente di sinistra.
Tra il pubblico che assisteva all´incontro, c´erano bambini, madri con neonati, latinos e persino un giudice della Corte Federale, la più alta magistratura. Anche il bambino e il giudice sono stati uccisi.
La piccola Kennedy dell´Arizona, la deputata, è sposata con un ufficiale dell´aeronautica in servizi attivo, Kelly, che ha combattuto in Iraq ed è parte della squadra di aviatori impiegati dalla Nasa per spedizioni nello spazio. Aveva sempre votato per il rifinanziamento dell´occupazione e delle guerra in Iraq e Afghanistan, aveva applaudito la decisione di utilizzare la Guardia Nazionale, l´esercito territoriale che ogni Stato arma, per controllare la frontiera con il Messico ad appena 100 chilometri da Tucson, ma era - e forse questa è la «colpa» che ha mosso il criminale - dichiaratamente ambientalista, favorevole al finanziamento pubblico delle ricerche sulle staminali embrionali e contraria alla inaudita legge dell´Arizona che permette alla polizia di arrestare chiunque appaia, si noti, appaia come un immigrato senza documenti. Questo in una città e in uno stato, dove il 33 per cento della popolazione, una persona su tre, ha sangue latino nelle vene. In Arizona, nella contea di Mariposa, regna da anni come un commissario politico, il famigerato sceriffo Arpajo, implacabile persecutore di forestieri.
Sui blog dei fanatici di destra, come nella campagna elettorale furibonda condotta dal campione sconfitto del "partito del tè", la Giffords era stata variamente descritta come «un clown», un «perfetto esempio degli idioti che ci governano da Washington», una «comunista venduta ai trafficanti di uomini», «un´assassina di bambini non nati» (gli embrioni) o, trattandosi di una donna, come l´immancabile «puttana delle lobby».
Si saprà domani soltanto quali danni abbia fatto il proiettile che attraversato il cranio di Gaby Giffords, anche se il capo del team di neurochirurghi che l´hanno operata sono «ottimisti» sulla sopravvivenza di una donna colpevole di null´altro che di non essere una fanatica xenofoba. Sembra quasi una piccola ricompensa del destino, il fatto che il capo dei chirurghi che potrebbero averle salvato la vita sia un straniero, un immigrato venuto da lontano.

l’Unità 9.1.10
Nel pomeriggio si terrà la segreteria unitaria tra il sindacato di Corso Italia e i metalmeccanici
Ma le posizioni di Camusso e Landini restano distanti: «Non firmeremo» ripetono le tute blu
Fiom e Cgil cercano la «quadra» su Mirafiori
Nel primo pomeriggio si riunirà la segreteria unitaria di Fiom e Cgil per cercare una difficile posizione comune sulla vertenza Mirafiori. Ma Landini ribadisce: «Non firmeremo comunque l’accordo».
di Luigina Venturelli


Ultimo tentativo per affrontare uniti la settimana sindacale più impegnativa degli ultimi mesi e, probabilmente, la più significativa dell’anno appena iniziato. Oggi pomeriggio si riuniscono a Roma le segreterie della Fiom e della Cgil, in cerca di una posizione comune tanto difficile quanto necessaria sulla vertenza Fiat.
Maurizio Landini e Susanna Camusso, al momento, condividono il giudizio fortemente negativo sull’accordo separato per Mirafiori, che il 13 e 14 gennaio verrà sottoposto al referendum dei lavoratori: un’intesa dai «contenuti peggiorativi» rispetto a quella per Pomigliano per ciò che riguarda turni, pause e malattie, ed «inaccettabile» sotto il profilo della democrazia, puntando all’esclusione della fabbrica delle sigle non firmatarie.
Ma sul che fare a consultazione conclusa, nel caso non scontanto ma certo probabile di un responso positivo, le posizioni restano divergenti. La leader confederale propone una firma tecnica dell’accordo che prenda comunque atto della volontà espressa dagli operai e che rimedi all’esclusione dallo stabilimento del sindacato più rappresentativo. Il segretario generale delle tute blu, invece, rifiuta categoricamente l’ipotesi: «Non esistono firme tecniche» ha ribadito anche ieri, tanto meno ad un testo che sottopone i lavoratori ad un «ricatto» per mantenere il posto in fabbrica.
«Abbiamo chiesto l’incontro alla Cgil perchè non siamo solo di fronte a un brutto accordo ma a una novità assoluta, alla messa in discussione dell'esistenza del sindacato confederale. È a rischio il sistema della rappresentanza democratica, questa vicenda non riguarda solo i metalmeccanici, dobbiamo decidere che cosa fare» ha affermato Landini. Ma le speranze che la segreteria unitaria Fiom-Cgil finisca con un comunicato congiunto di sintesi non sono molte. E la sua partecipazione alla trasmissione di Lucia Annunciata su Rai3, a confronto con il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei, poche ore prima del vertice con Camusso, è un ulteriore segnale della decisione con cui i metalmeccanici portano avanti le proprie posizioni. Eppure un ultimo tentativo andrà fatto. In caso contrario, il sindacato di Corso d’Italia e la categoria delle tute blu saranno costrette a fare i conti e misurare le rispettive forze nel direttivo convocato per sabato prossimo.
LA FIOM ANCORA IN PIAZZA
Intanto la Fiom continua la mobilitazione contro l’intesa siglata da Fim, Uilm, Ugl e Fismic lo scorso 23 dicembre. Ieri piazza Castello, il salotto buono di Torino, è stata tappezzata con centinaia di messaggi di solidarietà ai lavoratori in lotta, arrivati tramite l’appello lanciato da un gruppo di intellettuali sulla rivista Micromega (35mila le adesioni finora raccolte). «Il lavoro non è una merce e non può essere trattato come un oggetto in saldo» hanno ripetuto i militanti del sindacato, che anche nei prossimi giorni proseguirà il volantinaggio contro l’accordo per Mirafiori (15mila gli opuscoli stampati finora). Il 12 e 13 gennaio, invece, nello stabilimento di Mirafiori si svolgeranno le assemblee per spiegare ai dipendenti i contenuti del documento. Mentre mercoledì sera, alla vigilia del referendum, le tute blu della Fiom sfileranno in fiaccolata attraverso il centro di Torino: «Sarà una fiaccolata per la libertà del lavoro e per fare in modo che i lavoratori non si sentano soli» ha spiegato il responsabile Auto nazionale, Giorgio Airaudo.
LA CAMPAGNA PER IL SÌ E si mobilitano anche le sigle formatarie dell’accordo, che oggi saranno nelle vie cittadine dello shopping affollate per i saldi per un volantinaggio a sostegno del sì: «Diamo un futuro a Mirafiori e ai nostri figli. Vota e fai votare sì. Senza lavoro non hai diritti». Poi, da domani mattina, la campagna referendaria si sposterà ai cancelli e all’interno dello storico stabilimento Fiat.

l’Unità 9.1.10
«Siamo lavoratori liberi, non merci. Lottiamo insieme»
I delegati Fiom di Mirafiori scrivono alla segretaria generale: «Teniamo aperta la vertenza con il Lingotto comunque vada la consultazione. Non ci servono escamotage tecnici»
27 delegati e esperti Fiom-Cgil carrozzeria di Mirafiori


Cara Susanna Siamo le delegate e i delegati della Fiom-Cgil delle carrozzerie di Mirafiori. In questi giorni si parla molto del nostro stabilimento, del suo futuro, di come garantire un investimento da un miliardo di euro, e si dà per scontato che le lavoratrici e i lavoratori non possano far altro che accettare l’ultimatum che la Fiat ha già imposto ai sindacati che hanno firmato l’intesa. Parliamo di ultimatum perché la trattativa non si è mai avviata, e la Fiat non ha mai modificato la sua impostazione fino al testo conclusivo nonostante le proposte alternative che noi, il nostro sindacato, ma anche le altre sigle hanno formulato. Nulla di rilevante è stato recepito.
Noi che siamo operaie e operai di quella fabbrica pensiamo invece che non possiamo cedere a quell’ultimatum, che dobbiamo in tutti i modi provare a riaprire la trattativa perche con l’organizzazione del lavoro che ci propongono si peggiora la no-
stra condizione e si aumentano i rischi per la salute, impedendo ai lavoratori di difendersi, limitando il diritto allo sciopero, e trasformando il ruolo e la natura del sindacato di fabbrica che non sarà più determinato dalle lavoratrici e dai lavoratori. E tutto ciò fuori dal contratto nazionale di lavoro, lasciando ogni lavoratore da solo di fronte all’impresa e costringendolo a mettere il proprio tempo, anche quello dedicato agli affetti e al tempo libero, a disposizione del mercato e della competizione una volta per tutte, senza più contrattazione. Una trasformazione dell’umanità che lavora in merce. Ma noi siamo donne e uomini liberi, cittadine e cittadini, non merci!
Noi pensiamo che quell’accordo, firmato a fabbrica chiusa e senza rispettare la richiesta dei lavoratori di essere consultati prima di una firma sindacale, vada rigettato e che la consultazione voluta dalla Fiat con la minaccia della chiusura di Mirafiori sia una consultazione non libera, a cui noi lavoratrici e lavoratori della Cgil non ci sottraiamo, perché innanzitutto su di noi ricadono le conseguenze di quell’intesa e perché la consultazione non può essere svalutata, anche quando viene brandita contro le lavoratrici e i lavoratori, visto anche come oggi si svaluta nella nostra fabbrica lo strumento dell’assemblea, che viene considerata dagli altri sindacati un luogo inutile, di confusione da non convocare neanche per illustrare l’intesa. Ed è per tutto ciò che abbiamo deciso con il nostro sindacato, la Fiom-Cgil, di non firmare ed è sempre per questi motivi che chiediamo al nostro sindacato di tenere aperta la vertenza con la Fiat comunque vada la consultazione di Marchionne: a noi non servono escamotage tecnici.
Perché secondo noi le lavoratrici e i lavoratori da Pomigliano a Mirafiori, sia quelli che hanno potuto o potranno dire di no sia quelli che non hanno potuto o non potranno farlo, hanno diritto al sostegno di tutto il nostro sindacato e alla prosecuzione di una vertenza che riaffermi pienamente i principi e i valori della Costituzione repubblicana e riconquisti per tutti il contratto nazionale, il diritto a scegliersi i propri delegati e il proprio sindacato e a migliorare la propria condizione di vita e di lavoro nella solidarietà confederale.
Non è accettabile che l’unico modo per mantenere o attrarre il lavoro in Italia sia pagato esclusivamente dal lavoro, che già sopporta tutti i costi della crisi, ma soprattutto non è credibile perché il costo del lavoro per unità di prodotto vale in Fiat auto circa l’8%. Come è possibile che non intervenendo su tutti gli altri fattori economici e strutturali, anche del Paese (qualità, logistica, infrastrutture,tecnologie e innovazione), come ha ricordato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si ottengano i risultati auspicati?
I temi posti oggi a noi sono temi che riguardano tutto il mondo del lavoro e la società perché sono in discussione il valore del lavoro, gli spazi democratici e di coesione sociale, le libertà individuali e collettive, e il futuro oltre la crisi che noi vogliamo immaginare migliore per noi e per quei nostri figli, che in questi mesi hanno riempito le piazze e rianimato la democrazia italiana chiedendo futuro, libertà, cittadinanza e democrazia dalla scuola al lavoro.
Ci piacerebbe nei prossimi giorni incontrarti per dirti che noi vogliamo sentire tutta la Cgil vicina in questo scontro, che noi non abbiamo né voluto né cercato. Noi stiamo facendo la nostra parte per noi, le nostre famiglie, le nostre lavoratrici e i nostri lavoratori: facciamolo insieme.
Un abbraccio fraterno.

Repubblica 9.1.11
"La strategia di Marchionne impoverisce la democrazia e aumenta le disuguaglianze"
Peter Olney: negli Usa subito lo stesso ricatto
di Federico Rampini


La localizzazione degli stabilimenti dipende anche dalla politica industriale: la Cina la fa, l´Occidente non più

ROMA - «Sergio Marchionne recita in Italia un copione già scritto qui negli Stati Uniti. Alla Fiat si riproduce l´attacco ai sindacati che da anni è in atto nelle imprese americane. Guai a sottovalutarne la gravità: la rappresentanza dei lavoratori, l´organizzazione sindacale, sono l´ultimo baluardo contro l´imbarbarimento della società e l´impoverimento della democrazia. Anche i referendum di fabbrica sotto un clima d´intimidazione, li conosciamo bene». Peter Olney è uno dei maggiori leader sindacali americani. Dirige la Unione più potente della West Coast, Ilwu, organizza categorie che vanno dai portuali ai dipendenti dei trasporti e della logistica. E´ anche un teorico con una visione globale, una sorta di Bruno Trentin americano: da giovane studiò anche Scienze politiche all´università di Firenze e ha insegnato all´università di Berkeley. La posta in gioco nel caso Fiat gli è familiare.
In Italia Marchionne sembra a suo modo un "rivoluzionario", che osa sfidare tabù consolidati, lei invece lo considera come "déjà vu"?
«Il chief executive di Fiat-Chrysler non fa che ripetere tutte le mosse dei top manager di General Motors, Ford. Il ricatto ai lavoratori usa un linguaggio a cui siamo abituati: gli operai vengono descritti come dinosauri, relitti di un´era al tramonto, costretti ad accettare i diktat dall´alto perché altrimenti poco competitivi, quindi condannati a perdere il posto. In quanto ai referendum sotto ricatto, di recente se n´è tenuto uno alla fabbrica della Nissan nel Tennessee, per decidere proprio sulla questione della rappresentanza sindacale. Dopo una campagna di pressioni, minacce, intimidazioni da parte dell´azienda, i lavoratori hanno finito per piegare la testa e votare contro il sindacato. Oggi il sindacato americano riparte proprio da questo: vogliamo imporre un codice di condotta, che impedisca alle aziende di impaurire i lavoratori manipolando le consultazioni referendarie».
Tra i metalmeccanici americani il sindacato ha perso terreno paurosamente. In che misura paga l´effetto delle delocalizzazioni?
«Noi le delocalizzazioni le abbiamo addirittura in casa. La minaccia più concreta non è il trasferimento di fabbriche all´estero, ma in quegli Stati Usa del Sud dove viene impiegata solo manodopera non sindacalizzata, a condizioni nettamente peggiori. Tra il 1993 e il 2008 il Michigan, culla storica dell´industria automobilistica, ha perso 83.000 metalmeccanici. Nello stesso periodo il Tennessee ne ha guadagnati 91.000. Toyota, Hyundai, Volkswagen hanno scelto gli Stati della "cintura nera meridionale", South Carolina, Mississippi, Tennessee, per tagliar fuori il sindacato. United Auto Workers, la confederazione dei metalmeccanici, è scesa da un milione di iscritti 30 anni fa a 400.000 oggi. Nell´ultima recessione l´Uaw ha dovuto accettare salari dimezzati, da 30 a 14 dollari orari per i nuovi assunti. E´ il modello che Marchionne sta importando da voi».
Ma la dottrina Marchionne ha dalla sua una sorta di ineluttabilità. Con la globalizzazione, è insostenibile la sopravvivenza di fabbriche che non reggono i confronti internazionali. Chi fa l´interesse degli azionisti prima o poi dovrà chiuderle e trasferire la produzione altrove.
«Se io ho studiato nelle stesse Business School dei top manager, è anche perché ero stanco di subire l´egemonia culturale di queste analisi. Le decisioni sulla localizzazione degli stabilimenti sono nella realtà più complesse di quanto vogliano farci credere. Soprattutto in settori ad alta intensità di capitale, con tecnologie sempre più sofisticate, i differenziali salariali non sono il criterio decisivo. Entrano in gioco altri fattori: l´accesso ai mercati nazionali, la disponibilità di infrastrutture, la qualità dei centri di ricerca e design. Infine una parola passata di moda: le politiche industriali dei governi. In Occidente parlarne oggi sembra una follìa? Però il governo cinese la politica industriale la fa, eccome».
Al di là del settore metalmeccanico, quanto è grave il declino del sindacato in America? Con quali conseguenze politiche?
«Nel 1955 le Unions organizzavano il 35% della manodopera delle imprese private, oggi siamo appena al 7%. I sindacati sono anzitutto un fattore di redistribuzione, così è caduto ogni argine alle diseguaglianze sociali. Nel 1955 un chief executive guadagnava 25 volte più del suo operaio, oggi guadagna 450 volte il salario operaio. Conseguenze politiche: nel 2008 Barack Obama ha avuto uno scarto del 18% in più tra i lavoratori sindacalizzati. L´appartenenza sindacale, con quel che significa in termini di diritti di cittadinanza, porta con sé una visione del mondo, un sistema di valori. Senza sindacato la società diventa una clessidra: in alto si concentra il potere, in basso c´è un vasto esercito di lavoratori impoveriti e impotenti, viene a mancare un centro».

Corriere della Sera 9.1.11
Vertice con la Fiom, la mossa di Camusso
La Cgil punta sugli esiti del referendum in caso di netta vittoria dei sì
di Antonella Baccaro


ROMA— Non sarà forse l’incontro che si terrà oggi, alle tredici, fra le segreterie di Cgil e Fiom a far emergere una linea di mediazione sul referendum circa l’accordo alla Fiat di Mirafiori. Tra la linea della confederazione, guidata da Susanna Camusso, e quella della categoria, diretta da Maurizio Landini, la distanza sembra sempre la stessa di qualche giorno fa. Camusso sarebbe favorevole a firmare l’accordo di Mirafiori, se il referendum del 13 e 14 gennaio prossimi dovesse ratificarlo. Landini, in caso di vittoria dei «sì» , l’ha ribadito anche ieri, non intende firmare l’accordo siglato da tutti gli altri sindacati, anche se questo significa automaticamente restare fuori da tutti i tavoli. «La firma tecnica non esiste -ha ribadito ieri il presidente del comitato centrale della Fiom, Giorgio Cremaschi -. Peraltro se si legge bene il testo dell’accordo per Mirafiori si capisce che tecnicamente non è praticabile» . Come se ne esce? Camusso sembrerebbe ormai orientata a aspettare l’esito del referendum, muovendosi di conseguenza. Paradossalmente se il numero dei «sì» fosse schiacciante, il leader del maggior sindacato potrebbe aver miglior gioco a far passare la sua linea della firma per adesione. Ma senza imposizioni dall’alto. L’unico modo di far cambiare idea a Landini potrebbe essere quello di non fargliela cambiare, ma piuttosto provocare un movimento che parta dal basso, dalla Fiom torinese e dalle Rsu di Mirafiori, di spinta verso la firma per adesione. Firma che, se proprio dovesse essere necessario, potrebbe apporre proprio la Fiom a livello locale o aziendale, pur di non essere costretta a restare fuori dalla fabbrica. Pura fantasia? Può darsi, ma al momento la Cgil non sembra aver altre carte da giocare prima del referendum. Piuttosto Camusso si prepara al dopo, al 15 gennaio, quando tenterà di far approvare al direttivo la sua proposta sulla rappresentanza e la democrazia, quella che dovrebbe rendere sempre vincolante l’esito dei referendum sugli accordi e non solo, come adesso, quando si tratta di questioni confederali. Anche Landini è proiettato sul dopo-referendum e nell’incontro con la Camusso vorrebbe discutere dell’eventualità di uno sciopero generale da mettere in campo dopo lo sciopero di categoria del prossimo 28 gennaio. Intanto gli opposti schieramenti si preparano al referendum: il fronte del «sì» ha organizzato un volantinaggio nel centro di Torino. Landini invece oggi si confronterà nella trasmissione «In 1/2ora» , su Rai3, con il vicepresidente di Confindustria e membro del consiglio d’amministrazione della nuova Fiat, Alberto Bombassei. Proprio la presenza di Landini sulla tv pubblica ha suscitato la reazione degli altri sindacati, che hanno chiesto la possibilità di un contraddittorio. A Lucia Annunziata, conduttrice della trasmissione, il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, ha attribuito «una particolare simpatia per le ragioni della Fiom, ma -ha avvertito -deve ricordarsi che lavora per il servizio pubblico» .

Corriere della Sera 9.1.11
Marchionne e lo stipendio del dipendente Fiat
di Massimo Mucchetti


I n questi giorni si riparla dei compensi di Sergio Marchionne. Sono troppi? Sono giustificati? Vale la pena di seguire il consiglio di Raffaele Mattioli: fare i conti prima di fare filosofia. E vale la pena di farli come se si dovesse rispondere al Dodd-Frank Act, la riforma finanziaria di Obama che farà testo anche in Chrysler. I numeri, dunque. Dal giugno 2004 al 2009, i compensi annuali, compreso l’accantonamento per la liquidazione riportato in nota, ammontano a 35,6 milioni di euro. Fa una media di 6,3 milioni l’anno che, per comodità nei conteggi successivi, ipotizziamo essere anche la paga del 2010 non ancora nota. Poi, come ricorda Andrea Malan sul Sole 24 Ore, ecco 4 milioni di azioni gratuite disponibili a fine 2012, ovvero 69,8 milioni alle quotazioni del 7 gennaio. Infine, 19,42 milioni di stock option esercitabili quest’anno al prezzo medio di 9,64 euro che, alla stessa data, valevano 143,8 milioni, di cui 115 immediatamente realizzabili. In 79 mesi al vertice della Fiat, Marchionne totalizza un valore pari a 255,5 milioni. Ovvero 38,8 milioni l’anno. E ora il confronto. Secondo il Dodd Frank Act, la paga del capo va paragonata al salario mediano versato dal gruppo. La legge italiana non esige questa notizia. Ci dobbiamo perciò arrangiare con il costo del lavoro pro capite che, nel quinquennio 2005-2009, equivale a 37.406 euro (e dal 2006 al 2009 cala dell’ 8%). Morale: ogni anno Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. C’è forse bisogno di un gesto, suggerisce Cirino Pomicino su Libero. Le imposte. Marchionne ha conservato la residenza fiscale nel cantone svizzero di Zug. Sull’Espresso, Maurizio Maggi ipotizza un certo risparmio sulle imposte che il top manager dovrebbe versare se trasferisse la residenza nel Paese dove forma il suo reddito. Non è stato smentito. Infine, il titolo Fiat e le regole. L’azione ordinaria raggiunge l’apice l’ 8 luglio 2007, a quota 23,44 euro. La prima tranche di stock option, concessa nel 2004 ed esercitabile al prezzo di 6,583 euro, viene a maturazione nel 2008 e resta valida fino al 31 gennaio 2011. Ma nel corso del 2008 le quotazioni crollano da 15,5 a 4,8 euro. E così, nella primavera seguente, il periodo d’esercizio delle stock option viene spostato in avanti: dal primo gennaio 2011 alla stessa data del 2016. Il 10 giugno 2009 la Fiat firma l’accordo Chrysler, che già incorpora l’idea dello sdoppiamento del gruppo, che parte adesso. L’aggiornamento delle opzioni è scelta legittima, ma anche discussa, perché attenua il rischio implicito in questa parte variabile della retribuzione. Il farlo durante la gestazione di decisioni price sensitive alimenta il dubbio di un’asimmetria informativa a favore del beneficiario rispetto al mercato. Nelle start up della Silicon Valley le stock option hanno avuto un ruolo, ma nelle imprese mature? Enrico Cuccia e Cesare Romiti non vollero mai azioni di Mediobanca e di Fiat: per non essere condizionati da interessi personali e restare del tutto liberi di decidere, magari sbagliando, per il bene dell’impresa. Che va oltre quello dei suoi soci pro tempore.

il Fatto 9.1.11
Opposizione al lavoro
di Furio Colombo


Comincio con una piccola storia vera che alcuni raccontano ancora al Senato americano. Anni Ottanta: il senatore Cohen, del Maine riceve una pressante telefonata dal presidente Reagan. Il Senato stava per decidere su una grande fornitura di armi all’Arabia Saudita. Reagan voleva essere sicuro del voto favorevole di Cohen, parlamentare repubblicano. Si dice che il senatore, sempre rigorosamente dalla parte di Israele, abbia detto: “Presidente, non posso perdere la faccia”. E si dice che Reagan abbia prontamente risposto: “Senatore, lei perderà la faccia, ma non se ne pentirà”.
Ecco, questa è la situazione del Pd sulle questioni di Mirafiori e Pomigliano. Tutto suggerisce che pesanti ammonimenti raggiungano da settimane la variegata leadership del Pd, uno schieramento “millestorie”, noto al Paese sia per un onorevole passato in difesa del lavoro (la cui evocazione viene evitata con cura) sia per la quotidiana, intensa partecipazione ai talk-show di ogni rete e di ogni formato. È facile presumere che quegli ammonimenti – che immagino a volte gentili, a volte brutali – vengano da un cerchio estraneo alla politica e alle istituzioni e vicino al realistico mondo del business. Credo che i pressanti messaggi si alternino in tre modi. Primo: abbiamo già vinto, fatevi trovare dalla parte giusta. Secondo: mettetevi davanti al carro, sembrerete i portatori del nuovo. Terzo: spiegate che alla globalizzazione non si resiste. Vantate il modello “internazionale” o “americano”. Ciascuno dei tre messaggi si conclude con la frase Reagan-Cohen, non detta, ma risonante in tutta la vicenda: “Perderete la faccia, ma non ve ne pentirete”.
Perdercila faccia
CONTA poco il vero esito della vicenda storica (il senatore Cohen non ha ceduto a Reagan e non ha perduto la faccia). Invece, in un mondo di molta solitudine e pochi mezzi per la politica, evidentemente incoraggia il calore del club dei potenti, anche se la promessa non è di aiutarti, ma solo di non metterti al bando come “conservatore” e “difensore del vecchio”, aggiungendo il dileggio dei media indipendenti a quelli di proprietà familiare. Penso che sarebbe buona politica, sia dei“valori”cheelettorale,sottrarsi subito al gelido abbraccio di Marchionneestaredallapartedei lavoratori, che non ha mai portato sfortuna a chi si è impegnato all’opposizione.
Questo “stare dalla parte del lavoro” non vuol dire perdere, ma acquistare visibilità e capacità di smettere di fare il pubblico più o meno plaudente alla complicata vicenda. Porta ad assumere il ruolo – distinto e indipendente dalle altre parti – di protagonista. Per esempio, quando si tratta di decidere che fare del referendum, un partito può dire – anzi dovrà dire – che un esito democratico si rispetta sempre. Dunque il “no” non può essere punito con il ritiro degli investimenti. E il “sì” non puòessererifiutatocomesefosse il prezzo del tradimento. Ma solo chi è parte del dramma ha voce. Gli applausi degli spalti non contano. Se mai astensione (del Pd, dal confronto lavoro-impresa) porta astensione (nel rapporto partiti-elettori).
Gli imprenditori con Marchionne?
QUI OCCORRE inserire un’osservazione che è mancata finora nell’informazione italiana. Avrete fatto caso che, mentre intorno agli operai che, per restare in gioco, devono accettare ogni genere di restrizione e di umiliazione persino simbolica, si è formata una folla che incita e grida che questo è il nuovo lavoro, non si nota invece un gran movimento di imprese e di imprenditori, che si raccolgono intorno a Marchionne per consacrarlo leader della nuova rivoluzione industriale? Ma anche: nel mondo esangue della politica non c’è rapporto fra la concitata partecipazione del pubblico Pd – che dagli spalti dei non protagonisti manda incitazioni affinché gli operai Fiat aderiscano al “nuovo” – e il quasi silenzio degli spalti di destra. Pensate alla cauta distanza da Marchionne del ministro berlusconiano (Sviluppo economico) Romani, rispetto agli “ola” ripetuti, con punte di entusiasmo, dalla curva della ex sinistra. Ma una riflessione va dedicata al silenzio imprenditoriale. Marchionne è il Bolivar di molti ex operaisti. Ma non è il Bolivar delle imprese. O, almeno, non ancora. Sul terreno confuso del confronto-scontro di Pomigliano e Torino restano parole che dobbiamo raccogliere. Sono lavoro, mercato, capitale straniero, regole internazionali. Lavoro. La frase ricorrente è “prendere atto di come è cambiato il lavoro”. Strana frase, in bocca a presunti competenti. Non è cambiato il lavoro, non ci sono varianti tecnologiche o di sequenza, come al tempo in cui sono entrati in fabbrica i robot. Per l’operaio la giornata è identica e intatta, a meno che si cambino le regole, come sta imponendo Marchionne. Togliere o aggiungere 10 minuti a una pausa non cambia il lavoro. Cambia la vita e la resistenza fisica dell’operaio.
Regole internazionali. Dette anche “nuovi standard di relazioni industriali”. Avete fatto caso che nessun giornale o Tv – per non guastare la festa – ha mandato un inviato con troupe in Germania, Francia, Svezia o anche General Motors, per osservare, misurare, confrontare e poi dimostrare che solo gli operai Fiat sono degli allegri perdigiorno? Non lo hanno fatto perché non si può fare. Il lavoro è identico e monotono ovunque. Anche questa è globalizzazione. Se mai cambia l’organizzazione ma questo è il compito dei manager. Nessun operaio può aumentare da solo la produttività.
Mercato. Con imprudenza e incompetenza ne ha parlato – tutto solo – il ministro Sacconi: “I cambiamenti,nell’organizzazione del lavoro e della produzione sono imposti dall’andamento del mercato”. Benedetto uomo, come fa a non sapere che il mercato del lavoro (operaio cerca, operaio offre, imprenditore tira a pagare di meno e così via) non ha niente a che fare con il prodotto sul mercato (impresa-cliente) e con la produzione (manager-ingegnere-tecnologia-costo su grandissimi numeri)? Non gli ha mai detto nessuno che il costo del lavoro umano è la voce più piccola di tutti i costi dell’automobile?
Steve Jobs non va in Germania
CAPITALE straniero. Con la globalizzazione o no, Steve Jobs – con il suo prodigioso iPad – va a Taiwan a cercare lavoro senza sosta e senza prezzo. Non andrebbe mai in Germania. Allo stesso modo, il lavoro inglese si sposta in India, non in Svezia. Ed è stato Marchionne ad indicare la Serbia, non la Svizzera, come il suo ambiente operaio preferito. L’Italia è uno dei 6 o 7 Paesi più industrializzati, dunque più costosi del mondo, a cominciare dagli alberghi. Perché fingere di essere lo Sri Lanka e rimpiangere (anche voci autorevoli lo fanno) che non arrivino capitali stranieri in fuga da costi troppo alti altrove? Come può un adulto competente e responsabile sostenere che si deve tagliare pausa mensa e respiro agli operai in un Paese in cui centinaia di fabbriche sono state abbandonate e svuotate e tutto ciò non è mai avvenuto (si invocano smentite) a causa del costo del lavoro?
L’auto Usa diventa piccola. E l’Italia?
MENTRE scrivo noto che il New York Times (7 gennaio, pagine B1, B2, B6 praticamente tutta l'apertura del settore “Industria e Affari”) pubblica un lungo articolo da Detroit dal titolo “Detroit diventa piccola”. È un tributo alla Toyota. È un tributo ai nuovi modelli di auto piccole e “amiche dell’ambiente”. Nuovi modelli, ecco il segreto della rinascita, sostiene il New York Times.
Nessuna notizia degli altri costruttori, conclude il giornale. Dunque, possiamo dire noi, nessuna traccia del dramma italiano che sta dilaniando industriali, sindacati, mezzi di comunicazione, partiti e cultura e appare misteriosamente, solo in Italia, come un’alternativa tra vita e morte. Ma dall’Italia risponde, quasi contestualmente, un breve editoriale del Sole 24 Ore prima pagina, senza firma, dunque autorevole. Spiega, con la trattenuta ed educata esasperazione di chi ha già spiegato mille volte, la futilità di schierarsi contro la volontà di Marchionne. Precisa: “Lo fanno solo i club intellettuali dei parrucconi”.

«Il Risorgimento può essere interpretato in molti modi, ma ce n´è uno che sottolinea la continuità ideale tra l´unità del paese e i valori culturali della modernità ed ha la sua icona nella bandiera dei tre colori. I tre colori e i tre principi: libertà eguaglianza fraternità»
Repubblica 9.1.11
E la bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella
di Eugenio Scalfari


Un secolo e mezzo è trascorso da quando nel cortile di Palazzo Carignano a Torino il Parlamento subalpino proclamò la nascita dello Stato italiano. L´anniversario si presta ad alcune riflessioni, rese ancor più attuali e necessarie dopo il discorso di Giorgio Napolitano a Reggio Emilia, luogo storico del Risorgimento, perché fu lì che la bandiera tricolore sventolò per la prima volta, portatavi dall´armata napoleonica che aveva fondato la repubblica Cisalpina su un territorio strappato all´Austria e ai Savoia, più o meno corrispondente a quello che la Lega usa chiamare Padania.
Riflettere sulle condizioni dell´Italia dopo 150 anni di storia unitaria, dei quali 85 di monarchia e 65 di repubblica, si presta anche ad un consuntivo che riguarda al tempo stesso le condizioni economiche e politiche del paese e i suoi valori culturali e morali.
Il tema consentirebbe molte citazioni, poiché i protagonisti sono tanti e ancor più quelli che hanno studiato quelle vicende, ma prometto di non farne alcuna e di dire ciò che penso con parole mie salvo una di Ingeborg Bachmann, che traggo dal bel libro di Marcello Fedele Né uniti né divisi. Eccola: «In ogni testa c´è un mondo e ci sono delle aspirazioni che escludono qualsiasi altro mondo e qualsiasi altra aspirazione. Eppure noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine».
Si direbbe che il nostro presidente della Repubblica abbia avuto presenti quelle parole quando ha ammonito che trasformare uno Stato centralizzato in uno Stato delle autonomie è un´impresa e una sfida di grande rilievo che ha bisogno della collaborazione di tutti. Ma osservando quanto accade sotto i nostri occhi si direbbe anche che delle due proposizioni della Bachmann sopracitate, la seconda sia stata del tutto cancellata dallo spirito della nazione, mentre la prima domina la scena della politica, dell´economia e del sociale.
Si direbbe cioè che si stia svolgendo da anni una lotta di tutti contro tutti per la conquista dell´egemonia e del potere, il suo rafforzamento e la sua estensione, senza più alcun disegno del bene comune. Una lotta che esclude e non include, nella quale ciascuno dei protagonisti si sente depositario della verità e della legalità; ciascuno le plasma a proprio piacimento e se ne vale come armi contundenti; ciascuno si esprime in termini ultimativi chiedendo una resa o la cancellazione degli altri.
Quando un Paese in tempi di tempesta dà questo spettacolo di sé, vuol dire che siamo arrivati ad un punto di svolta estremamente rischioso. Ho usato fin qui il verbo al condizionale, sembrerebbe, si direbbe, ma si tratta di un´inutile cautela: la situazione di pericolo e di fragilità che stiamo attraversando richiede il verbo all´indicativo: il pericolo c´è, è evidente e palpabile.
Quando un terzo della generazione giovane è escluso dal lavoro; quando le diseguaglianze di reddito e di ricchezza sono arrivate a livelli intollerabili; quando la distanza tra Nord e Sud raggiunge livelli del 40-50 per cento per quanto riguarda l´occupazione, il reddito, le infrastrutture, la criminalità, gli sprechi amministrativi, l´assistenza sanitaria, l´efficienza educativa, l´economia sommersa; quando tutto questo avviene e si aggrava giorno dopo giorno senza che la classe dirigente se ne dia carico e vi ponga riparo, ebbene, occorre che l´allarme sia lanciato affinché gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani di buona volontà si uniscano scrollando dalle loro spalle indifferenza e delusione e prendano in mano il proprio destino e quello della comunità, parlino tra loro e si ascoltino. Per risalire la china in cui siamo precipitati, «abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine».
* * *
Il Risorgimento, quel tratto di storia patria che ebbe come prologo la repubblica napoletana del 1799, continuò con i moti carbonari del 1821, con la fondazione della Giovane Italia del ‘30, con i moti del ‘31, con le Cinque Giornate milanesi del ‘48 e poi con la prima guerra d´Indipendenza, la repubblica di Roma del ‘49, l´insurrezione di Venezia, la sconfitta di Novara, la guerra del ‘59 in alleanza con la Francia, la spedizione garibaldina del ‘60 e infine la proclamazione dello Stato unitario nel marzo del ‘61, fu un esempio della collaborazione degli uni con gli altri affinché qualcosa andasse a buon fine.
Le aspirazioni erano diverse, come è normale che sia. I Savoia e Cavour volevano un regno del nord Italia, i Lombardi volevano l´autonomia e l´indipendenza, Carlo Cattaneo voleva il federalismo dei municipi e gli Stati Uniti d´Italia basato su tre o quattro entità territoriali confederate, Mazzini voleva la Repubblica unitaria in una Europa democratica e pacifica, Garibaldi voleva la rivoluzione popolare, l´indipendenza e l´unità conquistate dal basso, la fratellanza e un´idea di socialismo, ma voleva soprattutto l´Italia unita, fosse pure sotto Vittorio Emanuele.
Cavour era probabilmente il solo ad avere una visione d´insieme e gli strumenti per guidare pragmaticamente quel movimento i cui molteplici fili passavano tutti tra le sue mani. Aveva una diplomazia, un esercito, denaro, spie e una passione. Usò spregiudicatamente Garibaldi, pose il problema italiano nel consesso europeo radunato a Plombiers, usò la contessa di Castiglione e Costantino Nigra per stipulare l´alleanza con Napoleone III, volle il matrimonio tra la figlia del re e Girolamo Bonaparte, mandò i bersaglieri in Crimea. Cercò perfino di utilizzare Mazzini e Cattaneo. Cercò di bloccare l´impresa dei Mille ritenendola prematura, ma quando le Camicie Rosse salparono da Quarto fece di tutto perché la squadra navale inglese ne favorisse l´arrivo a Marsala. Alla fine mise in marcia l´esercito verso il Sud e lo fece seguire dai plebisciti di annessione.
Certo, fu un´annessione cui seguì l´atroce guerra civile del brigantaggio e del borbonismo cattolico. Atroce da ambo le parti, con un solco sanguinoso che inquinò la raggiunta unità per molti anni, aggravato da un centralismo sul modello piemontese, dalle tasse e dalla leva militare. Dall´ostilità del Vaticano e del mondo cattolico e dall´assenza delle «plebi» contadine.
La questione meridionale fu posta all´attenzione del Paese pochi anni dopo, da Giustino Fortunato e poi da Nitti cui si affiancò la prima leva del meridionalismo con la grande inchiesta sul Mezzogiorno di Franchetti.
Era un punto di vista documentato, ma difficilmente avrebbe potuto trasformarsi in una questione nazionale: anche il Nord aveva necessità e urgenze di modernizzazione e le fece valere con una forza direttamente proporzionale alle industrie e alle banche che ne rappresentavano il tessuto produttivo e finanziario. I confini territoriali e la grande pianura solcata dal Po e dai suoi affluenti fecero il resto, un polo di attrazione che trasferì dal Sud al Nord risorse, talenti e maggior attenzione dei governi.
Sarebbe fazioso tacere che un movimento di capitali dal Nord al Sud vi fu: la rete dei trasporti, la rete dell´elettricità, capitali e lavori pubblici: lo Stato non lesinò, ma il grosso di quelle risorse fu intercettato dalle clientele meridionali, in gran parte latifondiste e agrarie. L´alleanza politica fu tra la classe dirigente settentrionale e le clientele del Sud. Le plebi - come allora le chiamavano - presero la via della grande emigrazione verso la Francia e verso le Americhe.
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Io credo che il dibattito revisionista sul Risorgimento, che fu aperto a sinistra da Gramsci e dalla parte cattolica da Sturzo, sia stato utile e culturalmente fecondo. I continuatori furono liberali e radicali: Luigi Einaudi, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni.
Non altrettanto fecondo è stato il revisionismo più recente, che si trasformò in una denigrazione sistematica del moto risorgimentale con una venatura abbastanza evidente anche se dissimulata di nordismo. Fece da apripista al leghismo becero che ormai è un potere in grado di condizionare l´intero assetto politico del paese.
Il leghismo dalle mani pulite rappresenta un fenomeno corruttivo molto profondo: tollera, anzi puntella il potere delle «cricche» con uno scambio politico ormai chiarissimo: fate i vostri comodi nel Centro, nel Sud, nelle istituzioni ma in contropartita riconoscete che il Nord è cosa nostra, il federalismo siamo noi a gestirlo e a farne le leggi e i decreti di attuazione.
Così un partito che vale il 12 per cento in termini nazionali ma il 30 per cento nella Padania, è diventato non solo il possessore della golden share nella politica nazionale, ma la forza che sta costruendo un federalismo secessionista con la complice benevolenza del berlusconismo, tanto più eminente quantitativamente e tanto più fragile come potere forte. C´è da discutere se la Lega sia costola del berlusconismo o viceversa. Propendo per il viceversa: il berlusconismo è nordista non meno della Lega, ma da Torino a Treviso, con la sola eccezione del potere aggregato di Formigoni, è Bossi che governa. Se continua così, Berlusconi diventerà il proconsole di Bossi nell´Italia centromeridionale. Le premesse ci sono tutte e Tremonti ne è consapevole e fa parte del gioco.
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Dice Napolitano che, nonostante queste torsioni costituzionali che deformano il volto della democrazia, il moto risorgimentale sboccato nell´Unità ha di gran lunga migliorato le condizioni non solo del Nord ma anche del Sud. È certamente così in termini assoluti, ma non lo è in termini relativi e infatti è lo stesso Presidente a segnalare - da qualche tempo con accresciuto vigore - quelle criticità. In specie se riguardano i giovani. Se la media nazionale della disoccupazione giovanile segna un pauroso 30 per cento, nel Sud tocca il 40 con punte del 50. Un abisso, nel quale la gioventù meridionale rischia di scomparire diventando un esercito di disperati abbandonato a se stessi, senza futuro e senza presente. La coesione sociale è ormai una lastra di vetro che può infrangersi con conseguenze letali per tutto il Paese.
Proprio mentre si celebra l´unità d´Italia, la separazione tra le istituzioni e il popolo ha superato i livelli di guardia e non è un caso se la sola istituzione che raccoglie il massimo consenso sia proprio quella che ha sede al Quirinale: un´istituzione che però ha il solo potere della parola e della testimonianza, così come si era già visto quando toccò a Ciampi lo stesso compito.
Il Risorgimento può essere interpretato in molti modi, ma ce n´è uno che sottolinea la continuità ideale tra l´unità del paese e i valori culturali della modernità ed ha la sua icona nella bandiera dei tre colori. I tre colori e i tre principi: libertà eguaglianza fraternità.
La rinuncia a quei tre colori e a quei tre principi significherebbe la fine dell´unità perché su di essi si basa il patto costituzionale. Il federalismo agganciato a quei tre principi è un avanzamento; senza di essi ed anche senza uno solo di essi il federalismo disgrega il patto costituzionale, disgrega la convivenza, disgrega l´economia e la coesione sociale.
Facciamo voti perché ciò non avvenga, ma l´esito dipende da ciascuno di noi e dalla sua volontà di battersi affinché quei tre colori e i principi che rappresentano non siano cancellati dalla nostra storia.

il Fatto 9.1.11
Pedofilia, solo promesse dal Vaticano
A Malta l’ennesimo caso di vittime degli abusi di preti senza giustizia
di Marco Politi


Attendono ancora giustizia le vittime maltesi degli abusi commessi da sacerdoti. È un caso esemplare, perché dimostra che in Vaticano la macchina dei rinvii continua ad essere attiva.
Era il 18 aprile scorso quando la Bbc riferiva delle lacrime di Benedetto XVI (giunto nell’isola) durante l’incontro con un gruppo di persone violentate. Ma le sanzioni della Chiesa non sono arrivate.
Ora le vittime si sono rivolte direttamente al Papa con una lettera pubblicata da Repubblica: “Stiamo ancora soffrendo e siamo senza giustizia dopo sette anni. Per favore, ci aiuti, La preghiamo molto”.
Le vittime sono ex allievi dell’orfanotrofio di Santa Venera. I preti accusati Charles Pulis, Joe Bonnet e Conrad Sciberras (a suo tempo trasferito ad Albano Laziale) sono stati favoriti dall’estrema lentezza della giustizia civile ed ecclesiastica.
Sul piano civile, dopo sette anni dagli avvenimenti, si è conclusa l’istruttoria ma non è iniziato il processo. Sul piano ecclesiastico i superiori dell’ordine di san Paolo (cui gli accusati appartengono) hanno fatto sì che i tre preti fossero allontanati dal contatto con minori. Non solo: l’inchiesta interna dell’arcivescovado di Malta ha appurato e dichiarato che le accuse “risultano fondate”.
Poi tutto si è inceppato. In una lettera spedita l’ottobre scorso alle vittime, i missionari dell’ordine di san Paolo specificano: “Abbiamo trasmesso gli atti a Roma”. Silenzio dalla Congregazione per la Dottrina della fede, cui spetta la parola decisiva. Eppure le nuove norme emanate dal Vaticano luglio scorso offrono la possibilità di saltare le procedure normali dei processi ed emanare una sentenza con “decreto extragiudiziale”.
IL SILENZIO del Vaticano rischia di mettere in forse la credibilità di Benedetto XVI, che a partire dalla sua Lettera agli irlandesi del marzo scorso si è speso solennemente per una politica di totale rigore. Allora Benedetto XVI affermò che la preoccupazione primaria doveva essere la sorte delle vittime e non un “malriposto” intento di difendere l’onorabilità dell’istituzione ecclesiastica. Ancora a dicembre il Papa si è rivolto alla Curia, sottolineando il “danno per tutta la vita” arrecato alle vittime dai preti pedofili. Alla durezza delle dichiarazioni non corrisponde, tuttavia, un eguale rigore nel procedere contro i colpevoli, nell’accertare fatti ancora nascosti, nel risarcire le vittime. Il Vaticano non ha aperto gli archivi per appurare gli insabbiamenti degli anni Ottanta e Novanta, e non ha creato un “osservatorio globale”, come proposto da alcuni vescovi, per monitorare la situazione a livello mondiale. Si avverte palpabilmente l’azione di freno della macchina vaticana e soprattutto della “struttura italiana”.
Continua a prevalere la posizione di quei prelati, convinti che è meglio “quaeta non movere”, in italiano più semplicemente: non svegliare il can che dorme. Dunque, il più possibile non attivarsi per scoprire i delitti. La situazione dell’Italia – territorio direttamente sottoposto alla giurisdizione del pontefice – è paradossale. La Chiesa italiana, a differenza di altre Chiese europee, non si è data linee guida per affrontare il fenomeno, non ha promosso una commissione d’inchiesta, non ha nominato un responsabile nazionale per seguire gli abusi, non ha attivato un numero verde. Il prete anti-pedofili don Noto aveva proposto di creare in ogni diocesi un “Vicario per l’infanzia” : niente.
Nei giorni scorsi si è tornati a parlare di (ex) don Gelmini per un ricovero in ospedale. Gelmini, accusato di abusi, è stato pressato dalle autorità ecclesiastiche perché chiedesse la riduzione allo stato laicale.
Così, ora che è un normale cittadino, l’istituzione ecclesiastica se ne può lavare le mani e non cercare nemmeno di rispondere delle sue azioni.
NON È un bell’esempio per eventi (la comunità fondata da Gelmini è ad Amelia, in Umbria) accaduti ad appena cento chilometri da piazza San Pietro. Intanto la Cei non ha reso noti i nomi dei cento preti coinvolti, su cui già esistono dossier: cifra comunicata dallo stesso vertice della Conferenza episcopale.
L’effetto freno si avverte anche nelle affermazioni contenute nel recente libro-intervista di Benedetto XVI “Luce del mondo”. Il Papa da un lato sostiene che gli autori di abusi vanno “puniti”, però poi aggiunge: “Quanto i casi debbano essere resi pubblici, è una questione a parte…”. Non è un pungolo alla trasparenza.

Repubblica 9.1.11
La rivolta di chi non ha più niente da perdere
di Tahar Ben Jelloun


È contro i regimi che hanno represso il dissenso che migliaia di tunisini e algerini sono scesi in piazza

Il capo dello Stato tunisino, Ben Ali, è un ex ufficiale di polizia; e a quanto pare sua moglie, Leila Trabelsi, che gioca un ruolo importante nell´ombra, ha un passato di parrucchiera. Un giorno, mentre mi trovavo in Tunisia, innervosito e a disagio per la presenza della polizia, mi lamentai con un amico di quel clima di alta sorveglianza. E lui, sorridendo, rispose: «Che altro ti aspettavi da un Paese governato da un ex poliziotto e da una ex parrucchiera?»
Ma al di là dell´aneddoto, Ben Ali, al potere dal 1987, dopo un colpo di stato "morbido", si era dapprima lanciato in una lotta senza quartiere contro gli islamisti, per poi dedicarsi alla crescita del Paese. Non ha però mai tollerato nessun tipo di critica, né di contestazione o di opposizione politica. Ha governato il Paese col pugno di ferro, imbavagliando la stampa e tenendo i cittadini sotto sorveglianza. Ad autorizzare la sua posizione rigida, che rifiuta ogni concessione, è stato l´appoggio pressoché unanime della Francia in particolare e degli Stati europei in generale. Tutto funziona secondo la sua volontà: il commercio estero è prospero, i turisti affluiscono in massa; dunque, perché cambiare politica? E soprattutto, perché cedere ai contestatori?
C´è stato bisogno di una scintilla, di una ventata di follia, di un dramma umano per spingere la popolazione a scendere in piazza per manifestare contro questo regime poliziesco: il 17 dicembre un ambulante 26enne si è cosparso di benzina per immolarsi sulla pubblica piazza di Sidi Bouzid, una cittadina nella zona centrale del Paese. E´ deceduto tre settimane dopo. I poliziotti avevano confiscato arbitrariamente la sua carretta di frutta e verdura; e lo sdegno lo ha spinto a farla finita. Il suo non è stato però un gesto impulsivo: da molto tempo subiva i soprusi e il disprezzo dei poliziotti. E´ contro questo disprezzo che migliaia di tunisini hanno manifestato per diversi giorni. Quattro i morti: due suicidi e due manifestanti uccisi da colpi di arma da fuoco. Il regime di Ben Ali si è così screditato, e non dovrebbe più poter contare sulla benevolenza degli europei.
Se in Algeria la situazione non è migliore, il contesto delle sommosse di questi ultimi due giorni è però diverso. L´Algeria vive in uno stato di tensione permanente da ormai vent´anni – da quando il processo elettorale che stava portando alla vittoria il partito islamista "Front Islamique du salut" fu interrotto. Seguì una guerra civile, costata oltre 100.000 morti. Il terrorismo che si richiama all´islam esiste tuttora, e non ha cessato di commettere crimini ai danni della popolazione civile. Oggi è stato il brusco aumento dei prezzi dell´olio e dello zucchero a scatenare le proteste di una popolazione che si sente depredata, umiliata e sfruttata. Non si comprende perché un Paese ricco come l´Algeria (grazie alla manna del petrolio e del gas, lo Stato dispone di ben 155 miliardi di dollari di riserve di cambio) debba avere una popolazione così povera.
L´Algeria è un Paese ferito, che risente ancora dei postumi della guerra di liberazione. E benché lo Stato si confonda con l´esercito, non riesce a garantire la sicurezza dei cittadini. Gli attacchi dei sedicenti commando islamici si ripetono quasi ogni settimana. Un giovane su tre non trova lavoro. A mezzo secolo dall´indipendenza il Paese continua a soffrire, e non riesce a usare le sue immense ricchezze per avviare uno sviluppo razionale a beneficio di tutti gli strati della popolazione. Eppure l´Algeria può vantare molti intellettuali di qualità, giornalisti di grande talento e coraggio e alcuni formidabili economisti; e ha una popolazione ospitale, buona, generosa, che ama la vita. Ma le cose non funzionano; c´è il peso della storia, in uno Stato non consolidato; i grossolani appetiti di alcuni militari, la corruzione. La Kabilia (la parte berbera dell´Algeria) non ha mai cessato di contestare il potere centrale, che risponde sempre con la repressione. Manca la fiducia tra i politici e i cittadini. E a tutto ciò si aggiunge l´avanzata dell´islamismo identitario e contestatore. E´ nata così una situazione esplosiva, illustrata dalle manifestazioni di questi ultimi giorni. Come in Egitto, come in Tunisia, la gente non ne può più di subire umiliazioni (l´ormai celebra hogra) e scende in piazza al grido di Kifaya! («basta»).
Se in Tunisia e in Algeria il potere non accetta di essere messo in discussione, se al clamore popolare sa rispondere solo con azioni repressive e spargimento di sangue, è perché non ha compreso nulla di quanto accade ai livelli più profondi; e non si rende conto che presto o tardi sarà spazzato via dall´ira di chi non ha più nulla da perdere.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Corriere della Sera 9.1.11
Intervista a Abdelwahab Meddeb
«Una rivolta giovanile, forse sfruttata dall’Islam. Ma i regimi non crollano»
di Lorenzo Cremonesi


«Crisi, rivolte, malcontento, rabbia giovanile per la disoccupazione? Certo, sono tutti fenomeni che disturbano i regimi algerino e tunisino. Come del resto preoccupano presidenti, re, dittatori, emiri e governanti a vario titolo nel mondo arabo. Ma non facciamo la cosa più grande di quanto sia. Non c’è nessun pericolo vero di rivolta interna. Non c’è rivoluzione in vista. Siete voi giornalisti occidentali che amate rendere più drammatiche le situazioni di quanto non siano in realtà. Bouteflika resterà al suo posto, così il presidente tunisino Ben Ali, o l’egiziano Mubarak» . Sembra quasi divertito Abdelwahab Meddeb a gettare acqua sul fuoco. Nato a Tunisi nel 1946, trasferito a Parigi, scrittore, poeta, docente universitario, le sue analisi ironiche e sottili sono uno strumento prezioso per la comprensione del Medio Oriente. Non vede il rischio di una deriva islamista che possa pescare consensi dal fuoco delle rivolte? «Può essere che ci provino. Anzi, lo faranno senz’altro. È opinione comune ritenere che Al Qaeda o i suoi gruppi affiliati stiano crescendo, sempre in agguato, sempre pronti a colpire. Tutte storie. Fandonie. I gruppi radicali sono stati ampiamente battuti, almeno nelle zone del Maghreb dove oggi sono in corso le rivolte giovanili. I regimi arabi hanno imparato tante cose dalla caduta dello Scià in Iran nel 1979. E la prima è stata: non lasciare spazio ai fondamentalisti. Che siano sciiti come Khomeini o sunniti alla Osama Bin Laden poco importa. In Tunisia un cittadino ogni dieci lavora a qualche titolo per i servizi di sicurezza. In Algeria gli islamici sono stati fatti a pezzi negli anni Novanta. Li hanno massacrati, usando ogni mezzo, senza alcun limite umanitario o etico. In Siria lo stesso: il massacro di Hama nel 1982 è stato gigantesco» . La stampa algerina insiste sui fallimenti del regime di un Paese ricco che non è in grado di dare lavoro ai suoi cittadini. «E ha ragione. Un crimine che grida vendetta al cielo. Ma ciò ha poche conseguenze. Poiché in Medio Oriente non ci sono democrazie. Non c’è libertà come la possiamo pensare in Europa. Talvolta i regimi locali parlano di libertà di stampa, opinione pubblica, elezioni. Tutto fumo negli occhi. Si tratta di emirati, talvolta travestiti da democrazie. Ma non c’è alternanza, le elezioni sono una farsa totale. Bouteflika ha fallito nel far sì che gli algerini possano godere dei benefici di un Paese tra i più ricchi del mondo. Un recente studio americano ha dimostrato che il 90 per cento delle ricchezze del sottosuolo resta inesplorato. Parlo non solo di gas e petrolio, ma di potenziali miniere d’oro, uranio, e altri metalli preziosi. Eppure nessuno ne pagherà le conseguenze. Tutto resterà come prima, nonostante la relativa libertà di denuncia da parte della stampa locale» . E le rivolte? «Stupidaggini, un sassolino nella scarpa. Paragonabile alle rivolte degli studenti in Francia o in Italia durante le ultime settimane. Qualcuno a Parigi o Roma ha pensato seriamente potessero fare cadere Sarkozy o Berlusconi? No. Lo stesso a Tunisi e Algeri. Lo sanno bene anche cinesi e americani, che continuano a investire nei nostri Paesi» . Cosa vuole dire? «Nonostante le gravissime inefficienze locali, a Pechino e Washington credono si debba sfruttare questi giacimenti. Paradossalmente in Algeria ci sono migliaia di immigrati cinesi che lavorano nel campo estrattivo. Gli americani fanno di più: investono sugli immigrati algerini in Usa, li utilizzano come teste di ponte per penetrare il mercato. Hanno imparato a lavorare con lo Stato-mafia che domina nella nostra regione. Un celebre intellettuale tunisino, Mahmoud Messadi, che fu anche ministro dell’Educazione sotto Bourguiba, sosteneva ironico che anche i regimi arabi più progressisti nati dalla decolonizzazione non erano altro che emirati modernizzati. Sono sempre stato d’accordo con lui e non cambio idea oggi» . L. Cr.

Corriere della Sera 9.1.11
Una rivolta che taglia i ponti con il passato
di Massimo Nava


Il problema non è il quando, ma dove si fermerà il contagio. La rivolta dei giovani che infiamma in queste ore Algeria e Tunisia e che rischia di estendersi al Maghreb offre chiavi di lettura sorprendenti rispetto alla dinamica politica della recente storia di questi Paesi.
Scende in piazza una nuova generazione, estranea alla cultura dell’indipendenza e dell’anticolonialismo dei padri, ancora non inquadrabile nei partiti d’opposizione, poco sensibile alle sirene dell’islam radicale. È una generazione di giovanissimi, consapevole del proprio stato, che si mobilita nei licei e nelle università, che si collega e trapassa i confini con cellulari e cybercafe, che dialoga con la diaspora in Europa. Una generazione che chiede un futuro di progresso e democrazia e che vuole farla finita con il paradosso di vivere in miseria in Paesi ricchi, le cui materie prime assicurano benessere e perpetuità soltanto alle oligarchie al potere. Una generazione che, pur nel rispetto delle tradizioni nazionali in cui è cresciuta, ambisce laicamente a stili di vita europei, urbani e occidentali, quelli che assorbe e conosce attraverso la televisione, il turismo, l’immigrazione di padri e fratelli maggiori, i legami culturali con la Francia, l’Italia e l’Europa del Sud. La rivolta ricorda la fiammata di violenza delle banlieues parigine più che ribellioni del passato: questi giovani chiedono di esistere, di far parte di un nuovo Maghreb, progredito e democratico, vanamente promesso, di non essere costretti a scegliere l’emigrazione in alternativa alla fame e all’assenza di prospettive in casa propria. Per queste ragioni, la rivolta obbliga a una riflessione sul fallimento di un ambizioso disegno: l’Unione per il Mediterraneo. Lanciato a Parigi con grandi entusiasmi, nell’estate del 2008, è rimasto sulla carta, paralizzato da visioni divergenti nelle capitali europee, vecchi paternalismi, scarsa volontà politica di un’Europa ripiegata sulla propria crisi. L’Unione avrebbe aperto prospettive di cooperazione economica e sviluppo solidale, di scambi universitari e di dialogo fra culture e religioni, a tutto vantaggio delle nuove generazioni maghrebine e in definitiva dell’Europa stessa che avrebbe tutto l’interesse a non limitarsi alla sfera degli affari e a estendere la propria capacità di attrazione e d’influenza nel Sud del Mediterraneo, la parte dell’Africa che non ha ancora voltato le spalle all’Europa per guardare alla Cina. Massimo Nava

Repubblica 9.1.11
Quando c’era il Pci
Livorno 1921 la prima rivoluzione
di Nello Ajello


Novant´anni fa con lo strappo drammatico dai socialisti, nacque il Partito comunista italiano. Dopo settant´anni esatti, quell´esperienza si chiuse. Mentre una mostra dell´Istituto Gramsci celebra l´anniversario, ecco la cronaca dei due congressi che travolsero la sinistra
Volano accuse di ogni tipo "Pagnottisti", "stipendiati", urla la platea all´indirizzo dei sindacalisti "Voi ricevete i rubli", è la risposta

Livorno, 15 gennaio 1921, teatro Goldoni. La destinazione del XVII Congresso del Partito socialista è un ripiego: Firenze, destinata in origine a ospitarlo, è a serio rischio di assalti fascisti. Una foto di Carlo Marx invade il fondo del palcoscenico. Fiori e piante adornano platea e palchi. Millecinquecento soldati e duemila fra guardie regie e carabinieri proteggono (o sorvegliano?) i tremila delegati. «In città l´animazione è grandissima», scrive il Corriere della sera. «I comunisti "puri" non hanno ancora designato i loro candidati, ma saranno l´avv. Terracini, relatore, l´on. Bombacci, l´ing. Bordiga e il prof. Gramsci, direttore dell´Ordine nuovo».
L´esito del congresso appare segnato: scissione. Non a caso il quotidiano milanese ha citato per prima, tra le frazioni convenute a Livorno, quella comunista "pura". È questa a richiamare l´attenzione. L´ingegnere Amadeo Bordiga, un napoletano di trentadue anni, direttore della rivista Il Soviet, animato da una «logica rigorosa fino all´eccesso» - così lo descriverà Togliatti - ha già riscosso il consenso dell´intera sua corrente.
A partire dal gruppo torinese capeggiato da Gramsci, che assai più tardi entrerà con Bordiga in un cruciale antagonismo: per il momento è chiaro che, se si vuol dare vita al partito comunista, occorre accettare le direttive bordighiane. Ed esse ammettono solo «il dilemma fra la dittatura borghese e quella dittatura del proletariato» che vige nella «gloriosa Russia dei Soviet». In mezzo a quel bivio, niente.
L´intransigenza di Bordiga riscuote l´appoggio di Gregorij Zinoviev in nome della Terza Internazionale, detta Komintern, il cui bollettino riferisce: i comunisti italiani «affermano di avere con sé il 75-90 per cento del partito». Scissione, dunque, subito. Lo stesso Gramsci ha formulato un roseo paragone: trentamila comunisti sono bastati in Russia per fare la rivoluzione, da noi i numeri paiono assai più favorevoli. Terracini, il relatore, è d´accordo. In realtà, ecco il rapporto fra le correnti che uscirà dal Goldoni: ai massimalisti o "centristi", raccolti intorno a Serrati, vanno novantottomila voti, a cinquantottomila ammontano i comunisti di Bordiga e quattordicimila sono i riformisti al seguito di Turati. Ma ormai è deciso: il Partito comunista italiano va creato in ogni modo.
Netta anche la scelta dei militanti della nuova generazione. La proclama dalla tribuna Secondino Tranquilli (si chiamerà poi Ignazio Silone): «La gioventù socialista chiede ai rappresentanti comunisti di bruciare qui il fantoccio dell´unità».
La scena madre più veemente trova l´interprete nell´anziano Turati. Durissimo verso i comunisti, egli prende a parlare fra grida di «Viva la Russia!» e conclude con la platea in piedi. Christo Kabakciev, delegato del Komintern, invoca, all´opposto, l´espulsione dei riformisti. Volano accuse di ogni tipo. «Pagnottisti», «stipendiati», urlano i comunisti all´indirizzo dei sindacalisti. «Voi ricevete i rubli», è la risposta. Definito «rivoluzionario da temperino» da uno dei presenti, Nicola Bombacci estrae una pistola: a fatica lo calmano Bordiga e Terracini. «Non per nulla», commenterà il Corriere della sera, «i congressi si tengono nei teatri».
Gramsci non parla. «Non esistevano altoparlanti per voci deboli come la sua», testimonierà Alfonso Leonetti. Ma Camilla Ravera riferisce che per l´amico Antonio quei giorni sono stati un supplizio: i riformisti gli hanno rivolto troppe «ingiuste parole» fra le quali, si saprà, l´assurda accusa di essere stato «un ardito di guerra» nel 1915-18. Freddo e sprezzante si mostra Bordiga. Il suo «non è un addio, è un ripudio». È lui che, la mattina del 21 gennaio, invita coloro che hanno votato la mozione comunista ad abbandonare la sala. «Sono convocati alle 11 al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista», appunto. Uscendo, i "convocati" cantano l´Internazionale. Gli risponde, da dentro, l´Inno dei Lavoratori.
Il San Marco è più un relitto che un teatro. Lo illumina qualche rara lampada. Non c´è una sedia. Si gela. Dal tetto piombano scrosci di pioggia. Le relazioni sono succinte. Scheletrici gli interventi. Alla fine il capo delegato della III Internazionale osserva: «Il taglio del partito è avvenuto in modo non soddisfacente». Gramsci si sfoga: è il «trionfo della reazione». Da lontano, anche Lenin parla di «successo della reazione capitalistica», in linea con gli attacchi che ha già mossi a Bordiga nell´Estremismo, malattia infantile del comunismo. Mussolini esprime la sua esultanza in due articoli sul Popolo d´Italia, 16 e 22 gennaio. «La rivoluzione», scrive, «resta sospesa per l´assenza degli attori». «Invece della rivoluzione», insiste, «la scissione. Il partito che doveva regalare il paradiso al proletariato si spezza».
Alla lacerazione congressuale tiene dietro il riflusso, proprio mentre s´aggrava l´attacco dei fascisti alle sedi operaie. Ma neppure gli eventi dell´ottobre ´22, apriranno gli occhi a chi dirige il neonato P.c.d´I (Partito comunista d´Italia). Bordiga archivierà la marcia su Roma come la normale soluzione d´una crisi di governo o al massimo come la «legalizzazione d´uno stato di fatto». Verranno respinti gli inviti dello stesso Kominform a unire socialisti e comunisti contro lo squadrismo. Il Congresso di Lione, 1926, avvierà il tramonto di Bordiga, ma «il fossato aperto nel 1920-21», sono parole dello storico Paolo Spriano, «non si colmerà neppure con l´epoca dei Fronti popolari o con la guerra antifascista o con la morte di Stalin, né tanto meno con il XX Congresso del Pcus». I decenni si sommeranno ai decenni. Che cosa si vuole che insegni la Storia?

Repubblica 9.1.11
Rimini 1991 l'ultima scissione
di Michele Smargiassi


Mentre Rifondazione se ne va, il neonato Pds elegge il primo segretario. Il risultato è scontato: Occhetto Poi, la gelata: gli eredi della falce e martello restano divisi sul nome

Rimini, lunedì 4 febbraio 1991, ore 15. In un freddo capannone della Fiera, l´atto fondativo del partito post-comunista italiano è un bicchierino di Johnnie Walker buttato giù d´un colpo da Achille Occhetto, semplice delegato di Bologna. L´incredibile, anche se non l´impensabile, è accaduto: alla sua prima votazione, il Consiglio nazionale di un Pds ancora in fasce non ha eletto segretario il suo fondatore. Dieci voti meno del quorum di 274. Il Pds nasce decapitato, rancoroso e sconcertato. Si materializza un trafelato Walter Veltroni: «Achille, ci riconvochiamo e rivotiamo». E lui, gelido: «Cercatevi un altro segretario». Monta sull´auto blu, sparisce nell´aventino di Capalbio. Staccando i telefoni.
Nessuno canta vittoria. Non gli scissionisti di Rifondazione Comunista, che in un albergo del lungomare trepidano fondando un partito dal futuro altrettanto incerto. Non i "miglioristi", il cui avvertimento a Occhetto è andato fuori misura, sgretolando il bersaglio. Un patatrac, uno psicodramma che sarà rappezzato solo una settimana più tardi, a Roma.
Il tessitore sarà Massimo D´Alema che riuscirà a reinsediare sul trono un re ormai indebolito. Quindici mesi dopo la svolta della Bolognina, dieci mesi dopo il congresso dei pianti e degli abbracci di Bologna, la drammatica eppure emozionante eutanasia del Pci bene o male è terminata. Quando una Rimini umida e nebbiosa e perfino spruzzata di neve accoglie un migliaio di delegati del ventesimo e ultimo congresso comunista italiano i giochi sono già fatti: nel falò emotivo di 10.500 congressi di sezione il 72,3 per cento dei militanti ha scelto di sostituire la Falce-e-martello con la Quercia. Nella Perla dell´Adriatico si va per una cerimonia funebre destinata a mutarsi in un battesimo, ma liturgia e responsori sembrano già scritti. Il clima è sereno e ottimista, si vendono le spille con la Quercia, si organizzano cene di pesce e puntate in discoteca, i cronisti esibiscono la novità tecnologica del momento: i telefoni cellulari.
Ma questo è solo l´avanscena. I rapporti di potere nel nuovo partito, che aprirà alla novità scandalosa delle correnti, sono in realtà ancora fluidi, tutti da contrattare. Sulla carta Occhetto dispone di una maggioranza schiacciante: la sua mozione ha raccolto il 68,2 per cento, che la fuoriuscita di una larga parte del "fronte del no" di Cossutta e Garavini (26,5 per cento) renderà ancora più imponente, unica opposizione interna la "terza mozione" di Bassolino e Asor-Rosa col 5,2. Ma nascosti nel correntone occhettiano, al riparo da conte premature, stanno i "riformisti" di Giorgio Napolitano, stimati attorno al 15 per cento, che puntano a condizionare il segretario da destra.
Però forse nulla succederebbe senza i bagliori che vengono da Oriente. La prima Guerra del Golfo è scoppiata, le luci verdastre su Bagdad delle dirette Cnn incombono sul congresso più del fosco rosso del comunismo morente. Il 21 gennaio gli italiani hanno visto in tivù l´occhio pesto del capitano Cocciolone catturato da Saddam, i pacifisti sono in piazza e il Pds che ancora non c´è è già spaccato in due. Occhetto, che spera di trattenere Ingrao nella "Cosa" nuova, non vuole rinunciare alla richiesta di ritiro delle navi italiane e di tregua unilaterale. I miglioristi vedono in quella mozione lo spettro terribile di un Pds che nasce su un patto a sinistra, che li esclude.
Giovedì 31 gennaio Occhetto sale sul palco a tolda di nave disegnato dall´architetto De Ponte. Le scenografie sovietiche sono un ricordo, c´è molto verde-grigio e poco rosso che sfuma nell´arancio, bassa la tribuna della presidenza, la platea è un´arena. Parla per due ore e venti, «portiamo Gramsci con noi», dice «alternativa» dice «socialismo». Ma per la prima volta in un congresso del Pci non applaudono tutti. Il satirico Cuore è spietato: «Al congresso tutti d´accordo purché non si parli di politica». Il segretario Psi Bettino Craxi, seduto in tribuna accanto a Martelli e Amato, crocifigge Occhetto: «Confuso. Tina Anselmi ha più chance di lui di entrare nell´Internazionale socialista». I miglioristi sono sempre più nervosi. Venerdì il confronto ravvicinato tra Napolitano e Ingrao è epico, ma la battaglia vera non si fa sul palco. I carpentieri improvvisano nuove sale riunioni per il moltiplicarsi di riunioni riservate. «Qui fanno tutto le correnti» si allarma Paolo Flores d´Arcais, che con Massimo Cacciari guida gli "esterni", i "cofondatori" della "sinistra diffusa" sempre più marginali.
Le tattiche si alternano ai colpi di mano: svegliato nel cuore della notte, Occhetto strappa a delegati assonnati ed esausti l´approvazione a scatola chiusa dello statuto. Dove è nascosta la trappola: un Consiglio di oltre cinquecento membri, con vincolo della maggioranza assoluta per l´elezione del segretario. Un commosso Garavini intanto annuncia l´addio dei rifondatori, ma la scissione accolta nella spoglia "Sala E" al canto di Bandiera rossa e grida di «Viva il comunismo» a questo punto è la cosa più scontata del congresso. Con lui se ne vanno Cossutta, Serri, Salvato. Ingrao, soffrendo, resta nel Pds. Con lui un sindacalista di nome Fausto Bertinotti. Il nuovo partito nasce sulle note di De Gregori, La storia siamo noi, alle sette di sera di domenica, con l´affitto degli hangar fieristici ormai scaduto, mentre gli operai smontano le scenografie. Ma è con la mozione del Golfo, sulla quale riformisti e ingraiani si astengono, che Occhetto misura la sua forza: 59,9 per cento. Esultano incauti i "quarantenni", Mussi, Veltroni, Fassino, Petruccioli: «Siamo autosufficienti!». Incauti: il siluro di rivalsa è già puntato su un Occhetto che, lunedì mattina, pregusta tranquillo l´apoteosi in una hangar di fortuna pericolosamente decimato dalle partenze dei delegati. «Visto? Stavolta non ho pianto», scherza coi cronisti, «però, L´Unità poteva fare il titolo in rosso oggi...», «segretario della Quercia, suona imponente, no?» Poco lontano, terrea, la presidente del Congresso Giglia Tedesco ha già in mano i risultati dello scrutinio. E non sa come diglielo.

Corriere della Sera 9.1.11
Gli affari e la democrazia
Se Pechino compra tutto
di Francesco Giavazzi


M olti continuano a credere che aprire i nostri mercati ai prodotti cinesi, accettando Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio, sia stato un errore, l’origine lontana della crisi che stiamo vivendo. Altri pensano invece che sarà proprio la Cina a salvarci dalla crisi, sostituendosi agli Usa come nuovo motore della crescita mondiale. Spesso questa contraddizione risiede nelle medesime persone. Il ministro Tremonti da anni tuona contro la globalizzazione, ma parlando alla Scuola del Partito comunista cinese ha detto: «Il mondo è ormai multipolare» . Ed ha aggiunto: «Dobbiamo rispettare forme politiche diverse dalla nostra» , un duro colpo per chi, dalle prigioni cinesi, lotta per la libertà di critica. Dal timore per la Cina siamo passati alla speranza che Pechino acquisti i nostri titoli pubblici. Si stima che a fine giugno il governo cinese detenesse 630 miliardi di obbligazioni dell’Eurozona, il 7,4%del totale e il 28%di quelle detenute fuori dalla zona. Alcuni temono che questi titoli siano uno strumento di pressione che la Cina userà nel momento opportuno. È venuto il tempo di riflettere in modo meno episodico sui nostri rapporti con Pechino. Occorre innanzitutto rendersi conto che il governo cinese è meno sicuro della propria forza di quanto spesso si pensi. Sostiene l’euro perché teme un mondo bipolare che lo lasci solo di fronte agli Usa. Un mese fa diffidò dal recarsi a Oslo per la consegna del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo (che a Oslo non c’era perché in carcere). Gli europei invece ci andarono, ma Pechino non si vendicò: anzi, pochi giorni dopo fece un comunicato di forte sostegno all’euro. Prysmian, l’ex divisione cavi della Pirelli, ha lanciato un’offerta pubblica su Draka, una società olandese. A Draka erano interessati anche i cinesi, ma la gara l’hanno vinta gli italiani. Il governo di Pechino ha accettato lo smacco con spirito sportivo, non ha minacciato di vendere i Btp che detiene. Il surplus cinese (oltre 200 miliardi di euro) è in gran parte il riflesso della pirateria informatica. Il valore delle esportazioni supera quello delle importazioni anche perché i cinesi copiano la maggior parte del software che usano. Se acquistassero le licenze, il saldo sarebbe molto più vicino al pareggio. La tutela dei diritti di proprietà è la prima cosa da chiedere a Pechino. Garanzie su questo punto potrebbero creare le condizioni per eliminare l’embargo sulla vendita ai cinesi di tecnologie duali, cioè utilizzabili sia per scopi civili che militari, una loro vecchia richiesta. Per alcune aziende europee, ad esempio Alenia Thales, la società italo-francese che produce satelliti, si aprirebbe un mercato enorme, oggi precluso. Per stabilire nuovi rapporti con la Cina dobbiamo innanzitutto smetterla di pensare che la globalizzazione è il diavolo. Ma al tempo stesso essere consci della nostra forza che è la tecnologia, ma anche la democrazia. Rinunciare alle nostre convinzioni, passare sotto silenzio le violazioni dei diritti civili e di proprietà ha solo l’effetto di indebolirci agli occhi dei cinesi.

Corriere della Sera 9.1.11
I cinesi grandi creditori d’Europa Comprati bond per 630 miliardi
I prestiti di Pechino ad Atene, Dublino e Lisbona e gli investimenti strategici
di Marco Del Corona Giuseppe Sarcina


Il sorpasso è vicino. Nel grande portafoglio cinese presto saranno custoditi più bond europei che titoli di Stato americani. Ieri il vicepremier cinese Li Keqiang era ancora sulla via del ritorno a Pechino con le borse gonfie di contratti tedeschi e spagnoli, che ecco arrivare una dichiarazione del vicepresidente della Banca Popolare cinese, Gang Yi. «L’euro e i mercati finanziari europei sono una parte importante del sistema finanziario globale e sono stati, sono e saranno uno dei settori di investimento più importanti per le riserve cinesi in valuta estera» . I bond del Dragone Negli ultimi giorni sulla stampa internazionale e tra gli economisti sono girati parecchi numeri. C’è chi ha tenuto una sorta di contabilità doppia, incrociando affari e politica. Esemplare, da questo punto di vista, l’accordo su due voci, siglato martedì 4 gennaio a Madrid da Li Keqiang e dal primo ministro José Luis Rodriguez Zapatero. Da una parte intese commerciali per un controvalore di 7,3 miliardi di euro; dall’altra l’impegno di Pechino a sottoscrivere titoli di Stato spagnoli per circa 6 miliardi di euro (secondo quanto rivelato dal quotidiano «El País» ). Ma è solo l'ultimo passaggio. Da settimane a Lisbona non si fa che parlare di un soccorso cinese a sostegno della traballante finanza pubblica portoghese. E nei mesi scorsi l’intervento di Pechino ha sicuramente dato una mano a tenere in piedi la Grecia. E subito dopo l’Irlanda. Certo, le mosse degli investitori cinesi diventano visibili solo quando c’è burrasca sui mercati. Ma sarebbe fuorviante pensare che a Pechino interessino solo i titoli europei più scalcagnati (o se si preferisce i «junk bond» della finanza mondiale). Qualche tempo fa, sulla stampa internazionale («Financial Times» , «La Tribune» ) sono circolate stime che, dopo aver visto all’opera Li Keqiang, assumono un significato più profondo. Lo stock del debito pubblico europeo in mani cinesi oggi sarebbe pari a circa 630 miliardi di euro, vale a dire circa 819 miliardi di dollari. Il dato sull’esposizione americana, invece, è ufficiale: nell’ottobre 2010 Pechino (riserve dirette più il patrimonio dei fondi sovrani controllati dal governo) possedeva titoli statunitensi per un valore di 910 miliardi di dollari. Ora, i segnali che arrivano, ormai da mesi, dal grande Paese orientale sono inequivocabili. Vendere bond americani e comprare altro. Anche (non solo) titoli di Stato europei. I numeri (oltre che la logica) dicono che nel portafoglio del Dragone cominciano a essere rappresentate tutte le emissioni disponibili, compresi quindi i buoni del Tesoro della Repubblica federale tedesca o della Repubblica francese. Un euro per la Merkel Attenzione, però, ai diversi angoli di osservazione. Visto da Pechino questo lavoro di «conversione» riguarda solo una parte della liquidità cinese, che rimane in parte prevalente parcheggiata in dollari. Come spiega al «Corriere» l’economista Wang Yuanlong, già capo dell’Ufficio ricerche dalla Bank of China e oggi esperto del centro studi Tianda: «Non saranno mai cifre enormi. Quello di Pechino è un gesto che darà comunque fiducia all’economia europea. Un’ipotetica scomparsa della moneta comune sarebbe contro gli interessi cinesi. Significherebbe tornare al dollaro come unica moneta di riferimento, mentre il presidente Hu Jintao ripete che Pechino punta a una riforma del sistema monetario globale. Dunque sostenere l’euro e l’Europa è nel triplice interesse della Cina, dell’Unione Europea e della comunità internazionale» . Una rappresentazione plastica di questo «triplice interesse» si è vista venerdì scorso a Berlino, dove Li Keqiang è stato vezzeggiato dai leader delle più importanti multinazionali tedesche (e quindi europee): Volkswagen, Daimler Benz, Siemens, Basf, Bayer, Deutsche Bank (firmati protocolli commerciali per 8,7 miliardi di euro). La Germania ha più bisogno dei mercati, che dei soldi cinesi. Ma per la cancelliera Angela Merkel la «spugna orientale» può diventare decisiva per prosciugare il debito di vari Paesi dell’Unione Europea che sta mettendo a rischio la stabilità dell’euro. La mappa degli affari Il dividendo economico incassato dal governo cinese sarà molto alto e probabilmente porterà ad avvicinare i flussi di capitali industriali in entrata e in uscita. Secondo le cifre fornite dal viceministro Xu Xianping gli investimenti diretti dell'Europa in Cina, alla fine del 2009, erano pari a 6,8 miliardi di euro. Il flusso inverso (dalla Cina verso l’Europa), invece, si fermava a quota 6,8 miliardi di dollari, un decimo, con 1.400 imprese cinesi, precisa Xu Xianping, «che danno lavoro a circa 15 mila dipendenti locali» . Uno studio dell’istituto britannico Chatham House segnala che il 50%delle risorse cinesi prende la strada di Gran Bretagna e Germania (l’Italia assorbe una quota pari al 4%). Ma da tempo Pechino sta allargando il compasso e ora è molto difficile tenere il conto delle ultime iniziative. La più clamorosa (forse): l'affare Volvo. La casa automobilistica svedese è stata ceduta dalla Ford al prezzo di 1,8 miliardi di dollari alla cinese Geely, guidata dall'imprenditore Li Shufu. In Svizzera c'è stata l'acquisizione della Addax Petroleum Corporation da parte del gruppo petrolifero Sinopec per 7,2 miliardi di dollari (nel 2009). In Grecia la Cosco, il più grande gruppo di trasporto marittimo cinese e fra i più grandi al mondo, sta costruendo un terminal per navi transoceaniche al Pireo, il porto di Atene. In Irlanda dovrebbe essere approvato il piano per insediare un distretto manifatturiero cinese nel centro del Paese (ad Athlone, investimento di 50 milioni di euro). Simile il progetto di un parco industriale formato da piccole e medie imprese orientali a Chateauroux, cento chilometri a sud di Parigi. Mezza Bulgaria, dalla strade alle telecomunicazioni, dovrebbe essere sistemata dalle multinazionali di Pechino, come la Huawei. In Italia, infine, Cina non significa solo il tessile «low cost» di Prato, i centri massaggi di Milano o le bancarelle dei mercati rionali. Società cinesi sono già leader nel solare, aumentano il loro peso specifico nella farmaceutica, nella cantieristica in altri settori con discreto contenuto tecnologico. La Quianjiang ha comprato le moto di Benelli; la Haier i frigoriferi di Meneghetti (in provincia di Padova) e poi si è insediata nel distretto di Varese; la Zoomlion ha rilevato la Cifa (macchine utensili per l'edilizia). Si potrebbe continuare per ore, basterebbe riferire del pellegrinaggio all'Expo di Shanghai intrapreso da tutti i governi europei (dal Belgio alla Romania), in cerca di investimenti cinesi da riportare a casa. L'esclusiva di Pechino Ancora una volta, però, è utile guardare lo scenario con gli occhi di Pechino. Con la sua economia avanzata e fortemente integrata sull’intero continente, l'Europa è certo un teatro privilegiato dell’espansione cinese, ma in un contesto allargato a tutto il mondo, Mare Artico compreso. Non è un caso se tra le dieci operazioni cinesi all’estero nel 2010 (acquisizioni o fusioni) solo due siano europee: la Volvo appunto (quarta in classifica per importanza), preceduta dalla conquista dell’australiana Arrow Energy a opera dell’alleanza tra PetroChina e l'olandese Shell, per 3,1 miliardi di dollari. Al primo posto della lista, compilata dall’agenzia ufficiale «Xinhua» , figura l’acquisizione di un’unità brasiliana della madrilena Repsol da parte del colosso petrolifero pubblico Sinopec (7 miliardi di dollari), al secondo posto l'acquisto di quote dell'argentina Bridas (energia). Come dire: attenzione adesso a non immaginare un asse preferenziale Unione Europea Cina. È un errore che hanno già fatto gli americani nel 2008. Pechino parla e, soprattutto, fa affari con tutti.

Repubblica 9.1.11
L’antiebraismo
di Mario Pirani


Non leggevamo dai tempi del peggiore antiebraismo cattolico una frase come quella che macchia la prima pagina del Corriere del 7 gennaio a firma di Vittorio Messori, il quale, analizzando le radici dell´odio anticristiano esplose con il massacro islamico perpetrato nella Cattedrale copta di Alessandria d´Egitto, conclude, secondo l´antico copione giustificatorio del Genocidio, addossandone, ancora una volta, la colpa originaria agli ebrei. E questo perché, cito testualmente, «tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l´intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti, quasi alla pari della Mecca».
Una affermazione - si badi bene - che non pone l´irrisolta contesa israelo-palestinese tra le cause della tensione nel Medio Oriente ma investe e agglutina tutto nella esistenza e presenza degli ebrei, rei per loro natura di ogni aggressione e ogni male. Si torna così ben prima del Concilio, ben prima della cancellazione delle imprecazioni pasquali contro i «perfidi giudei», delle condanne al rogo come propalatori della peste. Così se oggi in Pakistan i fondamentalisti islamici trucidano cattolici ed induisti o in Turchia pugnalano i pochi sacerdoti legati a Roma o in Egitto i copti sono da tempo sotto offesa, la colpa è del popolo deicida.
La spiegazione è quella di sempre, esposta spietatamente da Lutero, il quale, richiamandosi ai colpi inferti agli ebrei, disse: «Ciò che Dio stesso non corregge per nulla attraverso così terribili colpi, non potremo certo correggere noi né con le parole né con gli atti. Essi sono cani assetati di sangue di tutta la cristianità e assassini di cristiani per volontà accanita e gli piace talmente farlo che sovente sono stati bruciati vivi sotto l´accusa di avere avvelenato le acque e i pozzi, rapito bambini e averli smembrati e fatti a pezzi con lo scopo di raffreddare la loro rabbia con del sangue cristiano».
Chissà se il governatore egiziano del Sinai, adombrando la mano del Mossad dietro gli squali che qualche settimana fa aggredirono a Sharm el Sheikh alcuni turisti stranieri, per deviare il flusso vacanziero verso le spiagge israeliane di Eilat, si sia rifatto a Lutero o accontentato del più modesto Messori?

Repubblica 9.1.11
Chiese e minareti
Cristo tra i diavoli del Cairo
di Monika Bulaj


Gli esorcisti che ridanno la fertilità alle donne musulmane, i miserabili tra i rifiuti del quartiere di Muqattam, le catacombe dove pregano centinaia di fedeli, San Giorgio e la Vergine insieme a Maometto, i Sufi e gli imam. Dopo l´attentato di Alessandria, viaggio nella metropoli d´Africa dove vivono e sopravvivono i copti

In Egitto, se vuoi liberarti dal male, è dai cristiani che devi andare. I musulmani lo sanno. Il popolo cerca la Croce, Maria Vergine, San Giorgio e soprattutto i santoni della chiesa copta. È questa promiscuità millenaria, sconosciuta all´Occidente e alla Chiesa di Roma, che gli attentatori di Alessandria hanno voluto colpire. Per arrivare ai santuari cristiani il popolo d´Egitto sfida i suoi tabù, entra nel luogo più contaminato del Cairo, Muqattam, quartiere cristiano dove si ruminano i rifiuti della metropoli, un Acheronte dalle rive putrefatte che si spande fin sul Nilo come il respiro di un dormiente. Lì dentro, i cristiani d´Egitto selezionano avanzi delle cucine cairote, sacchi di plastica, bucce di melone contese da ratti, capre e bambini.
Qui, sotto una gigantesca roccia, opera il più grande esorcista del Cairo. Il suo nome è Abuna Semaan. In mezzo a un semicerchio di coristi che innalzano inni, lui caccia i diavoli, ridà la fertilità alle donne sterili e fa camminare i paralitici. Grida, spruzza acqua sul viso degli indemoniati che lanciano urla disumane, vanno in convulsione, svengono. Poi li copre con un velo, posa su di loro una croce d´avorio e sussurra segrete formule; e tutto avviene su un palco, davanti a centinaia di persone, amplificato da altoparlanti. Per battere i diavoli l´Egitto cerca i cristiani, e la domanda è tale che il Papa dei copti, la Chiesa di San Marco, il barbuto Shenouda Terzo, ha scritto un manuale di lotta ai demoni a uso dei monaci. Muqattam è un inferno che solo di notte finge di essere città vera, con luci di botteghe, ancheggiare di donne su tacchi a spillo tra sterco di asini e pipì di bambini. Gli unici maiali del Cairo razzolano qua, e con loro i macellai che li squartano, accanto ai manifesti della Sacra Famiglia. Nel ghetto dei copti i simboli della fede si ostentano senza paura. Enormi crocefissi scolpiti, tatuaggi sui polsi. Qui la spazzatura diventa alchimia, trasfigurazione, ricchezza e divisione di classe. I più poveri selezionano il marciume, i meno poveri separano bottiglie o pezzi di plastica da trasformare in combustibile, i più facoltosi vendono carta, metalli, mobili e tessuti. Ma Maria Vergine abita anche fuori, nel labirinto della città vecchia, sul retro dell´università Al Azhar, in un passaggio di asini e cammelli, tra i vicoli dove un astioso imam tuona sulle schiene di centinaia di uomini. Anche qui, governa l´odore: il monastero a Lei dedicato lo trovo seguendo una vena di profumo d´incenso, inatteso nel fumo dei kebab e la puzza di orina. Mi prende con un incantesimo di resina e foreste, mi conduce per mano sul retro di un altissimo muro senza finestre, né croci né scritte. Trovo una porticina che dà su una buia scala piena di fumo, che scende, tra rigagnoli di sorgente, fino alle catacombe dei cristiani. Scendo ancora, entro in un´altra tempesta acustica, estranea all´urlo onnipresente dei muezzin in superficie. Prima i ventilatori che tagliano i raggi di luce come scimitarre; poi i novizi che cantano inni come marce militari; poi la preghiera di centinaia di fedeli in un labirinto di cunicoli. Intorno, decine di schermi moltiplicano immagini di devozione, gli stessi dove, un anno fa, a Pasqua, ho visto, ripetuta all´infinito, l´immagine di un gigantesco martello che batteva il cuore di Gesù, fino a fargli sprizzare sangue in un´aureola di fulmini.
La più grande metropoli africana, con le sue migliaia di minareti, è cresciuta attorno a nuclei cristiani come questo, aggrappati a una fede che non si arrende, militante e miracolistica. È il mondo dei copti, antico di secoli più dell´Islam. Un popolo di otto milioni di anime oggi di nuovo sotto assedio. Il confronto non potrebbe essere più diretto che qui, nel quartiere musulmano attorno all´università di Al Azhar, tra i più duri del Cairo, ostile anche ai fedeli più illuminati dell´Islam, come i Sufi e le loro confraternite di canto e danza.
I monaci d´Egitto si alzano alle tre, quando si svuotano i battelli dei night club sul Nilo, si tirano sulle teste cappucci neri con dodici stelle, si salutano tra loro sfiorandosi le mani che poi alzano alla fronte in segno di rispetto. Per sopravvivere ai secoli duri dell´Islam conquistatore, si sono nascosti nelle catacombe e negli eremi del deserto, poi sono riemersi all´inizio del Diciannovesimo secolo portandosi dietro sapienze antichissime come la botanica. Alcuni di loro vagano nel deserto, per esercitare la Siah, che vuol dire ubiquità ed è un momento della strada all´ascesi.
Ed ecco il monastero del Patriarca Bula, forse il più antico dell´umanità, poco lontano dalle rive del Mar Rosso. Lì dentro i monaci vivono nel terrore di un assalto di estremisti islamici, eppure accolgono pellegrini musulmani che si mettono in coda per farsi miracolare dal vecchio Abuna Fanaus; colui che da solo - negli anni bui - difese questo luogo sacro. E poi la chiesa di San Giorgio al Cairo, con le sue catene taumaturgiche al cui tocco guariscono i malati di ogni fede. È questa simbiosi antica che Al Qaeda ha voluto colpire.

Corriere della Sera 9.1.11
Incollati al computer e inadatti all’impegno
Adolescenti digitali
Vivere solo qui ed ora nello spazio di un bit
di Vittorino Andreoli


Dopo aver descritto sul «Corriere» le principali caratteristiche della mente della digital generation e quindi gli elementi che la differenziano dalle generazioni dei padri e ancor più dei nonni, ora ci dedichiamo alle specificità del suo comportamento. Non esiste sempre una sequenza lineare con la mente che spinge o produce i differenti modi di agire. Si conoscono comportamenti che si attuano come se la mente non li guidasse e ne diventasse essa stessa testimone. Vi appartengono tutti i movimenti automatici: quelli innati come togliere una mano dal fuoco oppure quelli appresi come il muovere le gambe su acceleratore e freno in auto, diventati automatici a seguito di un uso continuo. La dissociazione tra mente e corpo può legarsi però anche a un modo di pensare, alle filosofie. Gli adolescenti di oggi sono degli empiristi e quindi agiscono senza progettare l’azione e senza nemmeno chiedersi quali ne siano il senso e le conseguenze. Ciò li differenzia dalle generazioni razionaliste portate invece a un primum cogitare, deinde agire. Il che significa vivere nella immaginazione ciò che poi si sperimenterà nel mondo esterno. Se per gli adolescenti non è facile parlare di filosofie nel senso di sistemi di pensiero critici e precisamente organizzati, non vi è dubbio che la loro tendenza a considerare e vivere soltanto il presente (il qui e ora) senza nemmeno percepire più il passato e il futuro li allontana molto dalle programmazioni. Il passato è dato, dal punto di vista comportamentale, da tutte le esperienze già fatte e che quindi diventano utili indicazioni anche per il cosa fare. Il futuro è lo spazio dell’immaginazione che permette le cosiddette ipotesi e quindi i prevedibili accadimenti che seguono a quello specifico agire. La digital generation non ha radici: è come se il mondo fosse iniziato con la loro venuta e inoltre è come se tutto finisse tra un attimo, proprio perché la percezione del futuro è miope se non addirittura cieca. La prima conseguenza di questi rilievi riguarda l’impegno. Lo si definisce come partecipazione e coinvolgimento nell’eseguire un progetto per tutto il tempo di applicazione richiesto. E per questo si parla di costanza, di determinazione. L’impegno ha dunque indubbiamente bisogno di un tempo futuro, ma necessita anche della percezione di una dimensione dell’io che non si limiti a ciò che ora sono, bensì giunga a come potrò essere domani. È questa la differenza tra io attuale e io ideale: ciascuno di noi ha una rappresentazione di come vorrebbe essere, di che cosa vorrebbe fare. È ciò che dà un senso al «cosa vuoi fare da grande» . Questa dimensione manca nella digital generation: vive in un mondo, quello digitale, che c’è quando si accende il computer, finisce quando lo si spegne. Se dopo un attimo lo riaccende, riappare ma ha caratteristiche che non hanno alcun legame né di continuità logica né di vissuto con il precedente, per cui si tratta di un nuovo mondo che però dura la frazione del tempo in cui si mostra e si consuma. L’adolescente ha quindi un comportamento del tipo stimolo-risposta: se c’è uno stimolo è possibile una risposta, ma se manca egli è nel vuoto. E a uno stesso stimolo non dà una e una sola risposta, ma può variare ed essere del tutto casuale. Ciò non significa che manchi l’interesse, ma semplicemente che dura l’attimo presente. Non si può affermare che manchi il gusto, ma piuttosto che duri poco e che cambi nel «prossimo presente» . Questa espressione, prossimo presente, può apparire una contraddizione, ma non per la digital generation che vive solo di «presenti» . Il tempo è quindi definibile come una frammentazione di attimi presenti. L’impegno è difficilmente duraturo, manca sia dell’approfondimento sia del coinvolgimento. Vi è una disponibilità a fare un lavoro purché non abbia nulla che vada al di fuori del frammento di tempo impegnato. Nell’ambito della scuola esistono certamente degli adolescenti che in quella interrogazione (stimolo) rispondono in una maniera corretta o errata secon- do la valutazione degli insegnanti, ma è altamente probabile che ciò non sia affatto da leggere come impegno o disimpegno continuo, bensì come una prestazione-risposta e null’altro. Stanno scomparendo i lavori fissi, quelli di tutta una vita, le carriere. Ebbene al di là delle ragioni economiche e produttive che possono aver causato questo importante cambiamento rispetto al passato, si deve aggiungere che essi non interessano affatto i giovani. Non ne percepiscono nemmeno il dramma della scomparsa. Hanno la mente «adatta» a lavori di breve durata e possibilmente mutevoli, per mantenere le caratteristiche di stimoli nuovi. Una delle ricadute di questo scenario la si avverte in maniera notevole sulle relazioni interumane, sui legami. Si può affermare che la digital generation vive le emozioni, ma non i sentimenti. In forma ancora più esplicita si tratta di una generazione incapace di legami sentimentali. L’emozione è la percezione di un cambiamento dentro di sé a seguito di uno stimolo: un evento, una immagine, un incontro. L’emozione è dunque una risposta acuta, dura fino a che è presente lo stimolo. I sentimenti sono modificazioni interiori che durano a lungo e possono diventare eterni come conseguenza di un legame con un’altra persona: un legame interpersonale, tra due o più individui. Vi è il sentimento dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà. La loro caratteristica è di mantenersi attivi anche quando la persona a cui si è legati non è presente. La presenza (mentale) dell’assente, di chi non è sensorialmente visto o sentito. D opo queste definizioni, seppur semplificate, si coglie come si rendano possibili nella digital generation le emozioni, ma come siano ardui i sentimenti. Ne deriva che con il mondo digitale (computer, Internet) sono possibili emozioni e molto forti, non invece le relazioni sentimentali. Anche quando si chatta con un certo John di Montréal, egli forse nemmeno esiste e, se c’è, si tratta di uno dei tanti oggetti virtuali. È questo il quadro generale, con ovviamente modulazioni e variazioni singole, che dà la misura e i limiti della vita affettiva degli adolescenti di oggi. Questo non porta solo ai rapidissimi e molteplici contatti tra un adolescente e un altro, con il miglior compagno che diventa tra un istante il peggiore, ma riguarda anche i rapporti con i genitori e con gli insegnanti. Potremmo dire che si tratta di «legami» istituiti non usando una corda per scalare l’Everest, ma fili di ragno o di seta. Nel momento in cui ci si lega, si sa esattamente che si rompe il filo che doveva unire. Sulla precarietà dei legami affettivi nel mondo adolescenziale non è nemmeno utile insistere, tanto è evidente. Non si può ignorare comunque che ormai è in atto una precarietà anche dei legami adulti, un vincolo matrimoniale dura mediamente 4 o 5 anni, ma nei «legami» adolescenti si parla semmai di giorni. Il vivere emotivamente e non sentimentalmente porta a cercare emozioni sempre più intense, ma non indirizza alla continuità dei sentimenti. Ed è invece su questa specifica caratteristica che si sostiene la sicurezza: una vera terapia alla paura. Le emozioni non producono sicurezza ma solo novità, eccezionalità, che hanno più a che fare con la quantità. La digital generation ha bisogno di emozioni sempre più forti come producessero una sorta di assuefazione per cui bisogna aumentare la quantità di una droga, onde avere lo stesso effetto che in precedenza si otteneva con una dose inferiore. Siamo giunti così a sottolineare una delle determinanti più significative per il comportamento: la insicurezza. Non abbiamo dubbio alcuno che la digital generation è insicura e pertanto fragile, presa sovente dal meccanismo della paura. La paura è una caratteristica biologica della specie, che fa percepire i rischi e quindi i pericoli individuati o semplicemente temuti, perché immaginari. La conseguenza di questa condizione esistenziale, almeno la più eclatante, è data dalla violenza. Sembrerà un paradosso per chi razionalmente ritiene che un gesto violento sia il risultato di una deliberata volontà di nuocere e non invece di una delle risposte possibili proprio alla insicurezza e alla paura. Dallo studio dei casi estremi, di quegli adolescenti cioè che hanno manifestato una violenza che ha provocato morte, ho appreso chiaramente che «se vuoi capire la violenza devi prima sapere che cos’è la paura» . Questa conclusione dovrebbe far meditare la generazione adulta e mostrare la inutilità di quegli interventi che pensano di risolvere la violenza adolescenziale attraverso severi autoritarismi e pene. L’insicurezza è la condizione per sentirsi fuor d’acqua, in pericolo, come se ogni cosa e ogni persona che si vede attorno fossero lì per attuare i pericoli percepiti. La paura, quando è molto intensa, ricorda il delirio: quella percezione per cui tutto il mondo sembra muoversi contro di «me» . L’altra risposta alla paura è data dalla fuga che in molte specie viventi è motoria, in quella umana si traduce per lo più psicologicamente, in un allontanarsi dal mondo come accade nella depressione. La violenza della digital generation è legata all’insicurezza. Il livello a cui è giunta, che non è ancora estremo, lo si deve coniugare necessariamente anche alla violenza del mondo digitale. Usando un videogioco del tipo «killer» , si può giungere a uccidere 900 sagome umane nei 3 minuti della sua durata e il punteggio record si lega proprio a quanti morti si sono fatti. Il capitolo se il mondo digitale produca più stimoli violenti di quanti non ne sedi meriterebbe una lunga disamina. Ma è certo che sia la violenza virtuale sia quella espressa nel mondo concreto sono uno specchio della paura e della insicurezza. Questa considerazione riporta agli eroi e naturalmente a quelli nuovi della digital generation. L’eroe è colui che compie un gesto eccezionale, come bisogno estremo per vincere una profondissima insicurezza. Anche le guerre di trincea hanno mostrato che il motore degli assalti scattava quando la paura diventava insopportabile. Talora la scena era quella di un cerbiatto che attacca un leone. L’insicurezza dà un vissuto anche di fallimento, di non essere all’altezza degli altri, oscurato dalla poca stima di sé che emerge dal confronto con gli altri. La reazione violenta in questo caso si chiama «bullismo» e consiste in una performance eccezionale, che richiama quella di un compagno di classe realizzata in matematica o in fisica, ma che si svolge in domini del tutto estranei e anomali al luogo. Siamo così giunti a un altro aspetto del comportamento che è certamente il più drammatico e che merita proprio per questo la massima attenzione: la percezione della morte e l’uccidere. È questo un argomento verso cui sono molto sensibile, poiché la distorta percezione della morte negli adolescenti è ormai un tema della patologia e della cura. Si sono attivate le home life, le case della vita, come risposta alla voglia di morire. Perdendo il significato del tempo che passa, di conseguenza la morte perde ogni valore escatologico e diventa un gesto. Come se si muovesse la mano per colpire o allontanare una mosca che si è fastidiosamente appoggiata sul proprio naso. D’altra parte come è possibile dare un senso alla morte per degli empiristi che sanno considerare solo le esperienze? Della morte non c’è esperienza: l’uomo la «conosce» solo quando egli non esiste più. La digital generation sembra non tenere conto della morte, non pensarci nemmeno quando uno ammazza una persona o se stesso. Si uccide per togliere un ostacolo. Ogni concezione della morte è il risultato di un procedere della mente astratto e proiettato nel tempo fino all’eterno. Tutto questo lo abbiamo visto, non è più parte del procedere della mente delle nuove generazioni. Se non si capisce il significato della morte, non è possibile nemmeno cogliere il dramma di chi la teme, di quanti se la sentono attaccata addosso. E chi ne parla in un piano educativo constata di non venire nemmeno percepito, eppure questo è un tema necessario nel campo dell’educazione, che noi abbiamo definito «insegnare a vivere» . Queste note comportamentali degli adolescenti del tempo presente sono una premessa a riprendere il tema dell’educazione in famiglia e a scuola, con grande impegno e motivazioni poiché crescere appare per la digital generation veramente faticoso. Il mio compito si ferma alla descrizione del mondo adolescenziale dal punto di vista del funzionamento della mente e dei comportamenti, per lasciare alle famiglie e alla scuola i loro compiti specifici e insostituibili.

Corriere della Sera 9.1.11
Mondrian oltre la natura
Un rarefatto mondo di bianchi al posto dei sentimenti
di Arturo Carlo Quintavalle


P oche volte una mostra è apparsa così attuale come quella dedicata dal Centre Pompidou a Piet Mondrian e a De Stijl, poche volte una rivoluzione nata da un gruppo ristretto di intellettuali ha avuto un peso così evidente fuori dei confini, dalla Germania della Bauhaus alla Russia dei Costruttivisti, alla Francia. L’esposizione si articola in due tempi, anche fisicamente divisi negli spazi del museo: quello di Mondrian e quello del gruppo De Stijl fondato nel 1917 da Theo Van Doesburg. Mondrian è dunque il pittore della riduzione delle forme sul piano, delle linee verticali e orizzontali, dell’uso solo dei tre colori primari, oppure questo è solo il punto di arrivo di una ricerca complessa? «Per poter esprimere compiutamente lo stile l’arte deve affrancarsi dall’aspetto naturale delle cose, così da non rappresentarle: soltanto allora potrà esprimere con un’apparenza astratta la tensione della forma, l’intensità del colore e l’armonia presentata dalla natura» . Così Mondrian nel 1917 nel saggio Il neoplasticismo in pittura. E prima? Il pittore nasce nel 1872, formazione accademica, dipinge agli inizi sopra tutto paesaggi riscoprendo il fascino della grande pittura del Seicento olandese, da Van Goyen, con Ruisdael: un basso orizzonte, uno largo cielo. Mondrian conosce inoltre la ricerca di Hodler e quella jugend di Toorop e anche quella ossessivamente tesa di Munch e la trasferisce nei cieli nubilosi, nei soli ottusi, nei controluce, nelle forme che si specchiano nelle acque delle vedute fra 1907 e 1908. Ma tutto questo non sarebbe comprensibile senza un Autoritratto (1908-09), matita su carta, volto visto di fronte, occhi enormi spalancati, come una maschera del Fayum: Mondrian è un illuminato, nel segno di Rudolf Steiner, di Helena Blavatsky, della teosofia. Poi, certo, il viaggio a Parigi e (fra 1911 e 1912) il dialogo con Picasso e Braque cubisti, evidente qui in dipinti come Il grande nudo, Melo in fiore, Albero in fiore (tutti del 1912). Ma Mondrian— teosofo— vuole staccarsi dal naturale, da qui il processo di progressiva astrazione attraverso disegni e dipinti: alberi, fari, campanili (Campanile zeelandese, 1911), facciate di chiese diventano neri tratti come in Composizione nell’ovale del 1914. Mentre i pittori del gruppo restano ancorati al cubismo come Bart Van der Leck e Theo Van Doesburg, Mondrian va oltre: se il mondo è dispersione, diversità il pittore deve cercare l’assoluto; da una parte, la filosofia di Schopenhauer, dall’altra Steiner: «In natura — scrive— l’universale si rivela soltanto come tendenza all’assoluto, come slancio verso il retto, il piano, il puro, l’equilibrato» (1917). I dipinti si organizzano secondo due assi, verticale e orizzontale, l’uso dei colori si limita ora ai tre primari, giallo rosso e blu e ai non-colori, bianco nero. Quando Theo Van Doesburg, con Mondrian, fonda la rivista «De Stijl» (1917-1931) tutto quello che non è geometria, dunque assoluto, è definito «barocco» : «Lo scopo (della nuova arte) — scrive Theo nel 1917 — era la distruzione della pittura barocca... della curva... il mondo chiaroscurato doveva essere sostituito da un mondo bianco» e il mondo chiaroscurato è quello della pittura sentimentale, descrittiva, mentre la rivoluzione inizia da Cézanne e da Van Gogh. Nel 1917 sia Mondrian che Theo dipingono per rettangoli di colori fondamentali mentre il gruppo cresce: si aggregano pittori, architetti, scultori. L’ordine che aveva avuto origine nelle pitture di Mondrian diventa quello delle strutture e degli arredi: come nella Casa Rietveld-Schròder a Utrecht (1914) di Gerrit Rietveld e nella sua «Sedia rossa e blu» (1918); come nel Café De Unie a Rotterdam (1925) di Jacobus Pietro Oud e nella Weissenhof a Stuttgart (1927) in diretto rapporto con la Bauhaus a Dessau e coi progetti di Walter Gropius. La rivoluzione è nella geometria assoluta delle forme, nella riduzione dei colori ai fondamentali, nel rapporto stretto fra architettura, design, pittura, vetrate come quelle di Van Doesburg e di Huszar delle quali in mostra è un ampio saggio. Ma nel 1925 ecco la crisi: Mondrian lascia De Stijl: Van Doesburg introduce nelle sue opere la diagonale qualificando l’esperienza del neoplasticismo di Mondrian come «eccessivamente dogmatica e non di rado gretta» (1926). Da adesso le strade divergono. Mondrian lascia Parigi per Londra durante la guerra e arriva infine a New York: è omaggio alla grande città uno dei suoi ultimi dipinti: New York City (1942) che trasforma nel segno della musica jazz le antiche strutture. Mondrian morirà nel 1944 sognando sempre un’arte pura; Theo Van Doesburg era morto nel 1931 ma la rivoluzione di De Stijl aveva cambiato il modo di pensare l’architettura della città. Saranno Walter Gropius e Mies van der Rohe a portare questa rivoluzione negli Usa e, da lì, nel mondo.

Corriere della Sera 9.1.11
La «Divina Commedia» : un’opera biologica e musicale
Il poeta Mandel’stam interpretò il capolavoro di Dante su base scientifica
di Sandro Modeo


Il grande poeta russo Osip Mandel’-stam scrive il Discorso su Dante nel 1933, cinque anni prima di morire in un gulag presso Vladivostok. Come ogni saggio davvero innovativo, il suo (uscito solo nel ’ 67) non è equilibrato ed ecumenico, ma radicale e arbitrario; anche se l’arbitrio è sostenuto con una logica interna inesorabile. — per Mandel’stam, Dante deve essere anzitutto liberato dalla sua fama. Poeta difficile ma appagante per i suoi contemporanei, è stato poi sopraffatto dalle vaghezze dell’arcano e dall’ossessione esegetica: «Presi dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia» . «Danza» è termine decisivo, che evoca sia la musica sia la fisica (le «danze» degli atomi) e si lega a un altro termine, «onda» , che — ricorda Mandel’stam — «permea tutta la nostra teoria del suono e della luce» . La Commedia sarebbe così — nella sua essenza profonda — un incontro di musica e scienza, unificate e cadenzate dalla struttura rigorosa e flessibile, esatta e dinamica— dal tessuto «resistentissimo» e «liquido» , come fosse seta — del verso dantesco. La prospettiva musicale serve a mostrare come la narrazione lineare del poema (il «viaggio» col suo portato allegorico psicologico) sia inseparabile dalla sua orchestrazione; come ne sia, anzi, un’emanazione. E’ così possibile, secondo l’uso romantico, astrarre da quel tessuto la singola «aria» di un personaggio (come fa Mandel’stam stesso nel paragonare la confessione di Ugolino a un lancinante largo per violoncello, fitto di chiaroscuri affettivi), ma non è possibile scorporarla dal suo fondale timbrico e tonale. Non a caso, viene evocato più volte il nome di Bach, come se Dante, al tempo in cui non esisteva l’organo sei-settecentesco — ma solo i suoi «prototipi-embrioni» —, ne impiegasse già la «potenza smisurata» e tutti i registri e colori. Qui— sviluppando Mandel’stam— ci si può spingere oltre. Il legame Dante-Bach non è infatti avvertibile solo nella comune concezione «contrappuntistica» e nell’equivalenza tra la terzina e il «fugato» , ma in una sorprendente omologia tra il Paradiso e l’ultimo Bach delle Variazioni Goldberg, dell’Offerta musicale e soprattutto dell’Arte della fuga. I due universi condividono nell’insieme la struttura radiale (evidenziata da Glenn Gould nelle Goldberg) e la luce nivea e diafana, la progressiva rarefazione della materia; e nel dettaglio, l’intreccio di riflessi e rifrazioni, con la figura dello specchio di certe fughe bachiane (una il rovescio simmetrico dell’altra) che si ritrova sia nella microstruttura del verso dantesco (vedi il chiasmo sulla Trinità, in XIV, 28-29: «Quell’uno e due e tre che sempre vive/e regna sempre in tre e due e uno» ) sia nella macrostrutttura del montaggio: nell’XI canto il domenicano Tommaso elogia San Francesco, e nel XII il francescano Bonaventura elogia San Domenico. Strettamente connessa a quella musicale, la prospettiva scientifica permette a Mandel'stam alcune analogie penetranti, come quella «cristallografica» , che equipara la Commedia a un immenso poliedro di 14.000 facce (tante quante i versi), lavorato da migliaia di api in un brulichio cooperativo crescente con la complessità del favo, e in cui ogni ape lavora al particolare senza perdere di vista l’insieme. E’ una comparazione «dantesca» , un vero omaggio, cui il poeta russo fa seguire un chiarimento sul carattere non solo descrittivo, ma estetico e conoscitivo, delle similitudini nella Commedia. Un pensiero metaforico che ritroveremo a quel grado solo in uno scrittore-scienziato (Robert Musil) che condivide con Dante anche la dialettica tra «anima ed esattezza» e il carattere del suo non-protagonista: il Dante-personaggio spaesato e tormentato descritto da Mandel’-stam sarebbe— senza la protezione della Provvidenza — un antefatto dell’Uomo senza qualità. Ma anche qui, grazie alla sua esortazione di metodo («Il futuro dell’esegesi dantesca appartiene alle scienze naturali» ), Mandel’stam ci spinge ad andare oltre. A usare le scienze per decifrare non solo la tessitura del verso (l’ «orchestra chimica» ) ma anche la sua dimensione cognitiva: lui stesso cita del resto il canto XXVI del Paradiso, dove risalta il rapporto tra la luce e la fisiologia dell’occhio. Prendiamo, per esempio, due sequenze chiave del Purgatorio. Nel canto XXV lascia meravigliati la descrizione— per bocca di Stazio e basata su Alberto Magno— degli stadi dell’embrione dopo il concepimento: simile a «spungo marino» (incrocio di spugna e fungo) dispiega tutte le sue membra, ma il passaggio decisivo avviene solo quando si è sviluppato il cervello («l’articular del cerebro è perfetto» ) e l’intervento divino immette l’ «anima intellettiva» , base della consapevolezza (di un essere «che vive e sente e sé in sé rigira» ). Oggi sappiamo quanto sia diversa l’embriogenesi -l’azione concertata della selezione, degli interruttori genetici e della scrematura neurale -; eppure, la descrizione dantesca sembra già contenerla per slancio immaginativo e grazia poetica: per tacere del fatto — casuale, ma non per questo meno emozionante —, che la neurobiologia ha dimostrato come le proteine di connessione dei nostri neuroni (del nostro pensiero) coincidano proprio con quelle di adesione cellulare in certe spugne. Nel canto XVI — all’esatto centro del poema — Dante chiede invece conto a Marco Lombardo della crudeltà-opacità umane (perché il mondo sia «diserto/ d’ogne virtute» ) e gli viene risposto che la mente infantile è una tabula rasa soggetta -se non educata— a piaceri ingannevoli e pericolosi, e che quei piaceri -diventati nell’adulto infrazioni e crimini — dovrebbero essere contrastati da un diritto purtroppo mal amministrato («Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» ). La sintesi è una terzina-invettiva densa come un trattato («Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che ’ l mondo ha fatto reo/e non natura che n’voi sia corrotta» ) in cui cade ogni alibi per le nostre azioni, per il nostro «libero voler» . Oggi sappiamo che il libero arbitrio e la volontà sono molto più limitati di quanto pensasse Dante (basti ricordare che tante scelte istintive affiorano alla coscienza dopo mezzo secondo) e che non sono così elevate le possibilità di plasmare la natura (i vincoli biologici) con la cultura. Ma questo, anziché ridurle, acuisce le nostre responsabilità, a partire da quelle educative. E poi, se anche la nostra libertà fosse solo un’illusione, la forza di quella sequenza la persuasività visionaria e musicale, ancora una volta, del verso dantesco riuscirebbe a darle la consistenza di una speranza.

Corriere della Sera Salute 9.1.11
L’adolescenza difficile spiegata attraverso il rapporto fra tre generazioni
di  Margherita De Bac


U na stanza senza arredi. Cinque sedie disposte a semicerchio. Una è occupata da Maurizio Andolfi, neuropsichiatra infantile. Le altre da una famiglia. I genitori e i due figli, Andrea e Giampiero. Sono lì per Andrea, adolescente combina-guai. Violento, manesco, prepotente nei confronti di mamma, papà e del fratello maggiore che subisce le sue angherie quotidiane. Andolfi incalza con domande semplici ma penetranti. Si pone sullo stesso piano di Andrea. Circoscrive l'origine della sua smania di dimostrare una forza che probabilmente non possiede, ma che gli serve per nascondere il suo vero bisogno: ricevere affetto, abbracci. Tutto quel sostegno che il padre, cresciuto in collegio, non ha avuto. La storia finisce bene. Andrea viene "recuperato": oggi lavora all'estero, ha una bella famiglia e sorride nelle ultime immagini di un filmato i cui dialoghi sono riportati nel libro di Andolfi e della psicologa e psicoterapeuta Anna Mascellati: Storie di adolescenza, esperienze di terapia familiare (Raffaello Cortina Editore). Il caso di Andrea è un esempio di un intervento clinico di tipo sistemico-relazionale nell'ambito di una cornice trigenerazionale. La terapia ha infatti tra i suoi punti chiave il confronto tra le generazioni: figli, genitori e nonni. Un libro che si rivolge agli specialisti ma soprattutto ai genitori, in cui vengono raccontati quarant'anni di lavoro sui ragazzi. Gli autori rispondono a una serie di domande attraverso l'esposizione dei casi e la narrazione dei loro incontri. Cosa significa essere adolescenti in un'epoca di frequenti divisioni familiari? Perché oggi i genitori sono confusi e spesso incapaci di affrontare un figlio problematico? L'adolescenza è una "malattia", come sembrano pensare alcuni genitori, o semplicemente la fase del ciclo vitale più difficile da comprendere? Come aiutare i nostri ragazzi quando sono depressi? O quando sono violenti o cadono nella trappola delle dipendenze? Già la lettura dei titoli dei brevi capitoli che aprono il libro è illuminante: «L’adolescenza non è solo l'età dello svincolo: accanto al bisogno di separazione è presente l'esigenza di appartenere, di non distaccarsi dalla famiglia» ; «L'adolescente ha scolpita dentro di sé la storia familiare» ; «È il braccio armato dei conflitti familiari» ; «I suoi segnali verbali sono contraddittori» ; «La cultura del branco è direttamente connessa all'assenza del padre nella nostra società» ... Andolfi insegna Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari alla Sapienza e dirige l'Accademia di psicoterapia della Famiglia a Roma. Ha percorso un lungo cammino accanto a genitori con figli "impossibili", rabbiosi, tristi o distruttivi. Tutti accomunati dalla ricerca disperata di amore. Ma anche di "contenimento". «Se provassimo a recuperare i padri nelle loro funzioni di genitori competenti — dicono gli autori del libro— ci accorgeremmo che le cose potrebbero cambiare e di molto, specie nella crescita dei figli maschi che altrimenti vengono catturati solo dal materno» .

Avvenire 9.1.11
Apocalisse Tra poesia e profezia
di Mario Luzi


Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo 'svelamento' inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare. Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nell’alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini? Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste

Nell’Apocalisse siamo continuamente posti di fronte a figurazioni. Tutto accade figurativamente al ritmo delle dinamiche maestose sequenze figurali. Lo spettatore assiste muto alle mutazioni mirifiche, intento primamente a coglierne il senso, giacché è stabilito a priori che siano munite di un potere di ammonimento e di svelamento. Alla nostra cultura è innegabile però che quel linguaggio filmato parli anche esteticamente, e questa parola va intesa in senso molto comprensivo. A questo aspetto sensibile del testo contribuiscono sia i numeri che le forme e i colori delle figurazioni. Mi rendo conto che è impossibile per noi riportarci al livello della suscettibilità originaria, voglio dire del tempo e della cultura da cui il testo proviene. I numeri o i colori? Chi prevale nella nostra emozione? La numerologia non è così intrinseca al nostro pensiero come lo era nel mondo veterotestamentario. Le forme e i colori hanno nella cultura a cui apparteniamo preso il sopravvento e agiscono anche sui più distratti di noi. Non ha tempo perché li comprende tutti, non distingue fra passato e presente e vale per il futuro imminente e lontano: questo si dice nella letteratura di chiosa e di commento. Anche questa mens con le sue conseguenti misure è da ricuperare o conquistare da noi dell’Occidente, figli di una civiltà sostanziata di tempo e di storia. Credo che sia il primo passo, anzi un vero balzo, il più difficile da compiere per portarsi al livello. Chi scrive deve cercare di farlo e di farlo fare. Ecco un primo effetto apocalittico generato dall’Apocalisse.
La prospettiva temporale applicata all’Apocalisse non regge, slitta, sfugge da ogni parte. Non è omogenea con il singolare tenore di quel profetare la misura coerente del tempo umano - e altro non ne conosciamo. Tuttavia se c’è un accentrarsi e precipitare delle epoche nella vita di Cristo come in un baricentro cosmico, a me pare si raggiunga un incremento di pathos se la nostra mente si sente presa come in un duro fermaglio tra la prima e la definitiva parusìa del Cristo.
Tutto è detto e fatto in attesa di questa, in questo intervallo. Tutto quell’accumulo di simboli che si organizza in allegorie più o meno trasparenti rischia di sedurre in un gioco superiore la mente se essa perde di vista il rapporto con la situazione reale storica e metastorica a cui il testo si riferisce. È proprio quello che accade a noi.
Tuttavia c’è un clima di grande inquietudine, di timore, di attesa spaventata del giudizio che si comunica al lettore moderno: nonché una minaccia catastrofica che incombe, un ordine punitivo negli avvenimenti. Più difficile è ritenere questo una necessaria affermazione del Dio vittorioso, del pantocrator bizantino. Un Cristo vindice che ritroviamo nella tradizione pre-giottesca e pre-cavalliniana. Cristo è offeso, è al di là della misericordia. È una giustizia assoluta che deve prevalere. Cristo, generosa elargizione del Padre all’umanità, ha avuto tra gli uomini un’accoglienza che esige castigo, punizione. Questo è comprensibile alla logica di fondo del giudaismo divenuto cristiano, ma il Cristianesimo rompe quella logica. Che cosa si vuole disvelato e nello stesso tempo occultato all’uomo mediante questa profezia? L’uomo, abbiamo detto, è chiamato in causa come spettatore di un trionfo e di un potere sovrumano. Eppure questa primaria ostensione di gloria e di forza lo concerne direttamente come oggetto della sua autorità e del suo giudizio.

L’umanità è l’elemento vile su cui si rovesciano le calamità e i castighi e le catastrofi volute dall’ordine e dalla sua parata. Si può presumere che il fine dell’Apocalisse sia l’affermazione di una grande disparità tra il divino e l’umano. E, sì, può essere vero che il simbolismo enfatico nelle sue alternanze e nelle sue sorprese continue porti a concludere ciò che asserisce in conclusione la Bibbia della scuola di Gerusalemme, cioè che l’Apocalisse è la grande epopea «de l’espérance chrétienne, le chant de triomphe de l’Église persécutée». Si può anche arguire che sia in corso un grandioso paragone di cui viene detto e celebrato l’esito finale di trionfo. Satana è presente ma solo come antagonista corruttore di anime. Confesso che il minore e più convenzionale aspetto dell’opera mi pare il preannuncio degli eventi futuri, un aspetto che tuttavia, data la tradizione, non poteva mancare. Probabilmente lo stato perenne di instabilità e di inquietudine, di precarietà e di attesa imminente nell’umanità sono l’epicentro dell’aspirazione. Non c’è niente di durevole sulla scena umana: e il ritualismo simbolico della scena celeste è una contrapposizione. Allerta, ammonimento, memoria confermata, messa a fuoco della lezione di un passato recente? Il Vangelo integrato in una teologia stabilita dalla prescienza? Questo si dibatte tra i commentatori dell’Apocalisse. Ma è sempre eccezionale intimazione e imperioso richiamo a una verità che è stata e sarà. Cataclisma del tempo. Ordine dell’eterna, non umana e trionfale stabilità del divino. Resta per me il mistero della indegnità e colpevolezza pregiudiziale dell’uomo. L’uomo è oggetto di rampogna e di obbrobrio preliminare. Per lui è sempre pronta e imprevedibile la punizione. Punizione per la sua scelleratezza o punizione per essere?
Conflagrazioni immense sono presunte, assestamenti cosmici nei quali confliggono male e bene. L’azione di Satana è fortissima, il Tuo regno deve continuamente venire ( advenire ). Solo se riusciamo a tenere stretto questo nesso tra il pericolo imminente e le offerte di scampo, il testo dell’Apocalisse può avere presa su di noi. Esso non è commemorativo, non è incitativo, ma trasfigura una situazione permanente della Chiesa, o meglio dei devoti a Cristo, dell’uomo mortale.
Perché l’umanità deve subire tante prove, perché le cornucopie degli angeli versano tutti quei guai sulla specie degli uomini?
Qual è il loro debito, che cosa devono espiare? Questo, torno a ripetere, è il grumo oscuro che è difficile sciogliere. Intanto sulla miseria e le pene degli uomini si snoda la ritualità trionfalistica della Chiesa celeste.
Essa, Gerusalemme sovrannaturale, scenderà sulla terra; fino ad allora la giustizia non ci sarà. Siamo dunque associati al dramma del mondo? Siamo chiamati ad esserne parte? O dobbiamo per meraviglia assistere a una definitiva vittoria? Certo il superiore evento con la sua rivelazione si sviluppa per l’uomo in forme e prodigi che come tali si presentano. L’uomo è dunque un attante, sia pure non proto ma deutero-agonista. A che titolo di dignità, abiezione, a che grado di responsabilità e mistero? Ben poco di 'apocalittico' rimane nella nostra corrente accezione di apocalisse, che intendiamo comunemente come catastrofe, abnormità mostruosa, rottura incommensurabile dell’ordine e dello schema. Tuttavia un senso profondo rimane a legittimare questa correlazione. I termini di una tragedia generale dell’uomo possono essere variati, ma permangono gli effetti di una incalcolabile causalità. L’apocalisse che abbiamo vissuto nel secolo scorso, nelle sue varie fasi, non ci dice gran che in quanto a svelamento ed è anche troppo banale come prefigurazione del futuro. Abbiamo visto soprattutto la distruzione dell’uomo come creatura; la sua cancellazione come entità distinta, la sua nullificazione come individuo in sé compiutbo e dunque la sua riduzione a numero, la sua svalutazione totale come essere vivente. Abbiamo visto questo prima nel processo aggregativo del capitalismo trionfante, sotto l’aspetto di massificazione; l’abbiamo visto sotto l’aspetto di genocidio nazista, nell’universo concentrazionario sovietico; nell’immane scempio perpetrato dai Khmer rossi. Ogni volta la grevità assoluta e irreparabile dell’accaduto schiacciava il nostro pensiero e non lasciava margine per alcun simbolo e per la sua interpretazione. L’uomo nell’occhio del ciclone come noi siamo clamorosamente stati è forse il meno idoneo a ricevere il conforto e l’ammonimento della profezia? Della profezia che lo riguarda?
Di riflesso nasce tuttavia il sospetto che la profezia in realtà non lo riguardi e che la grande ostensione sia nel cielo per i celesti e sia al termine di una contesa capitale in cui il Male sia stato vinto e a Satana rimanga un forte ma angusto potere. L’umanità è vista del resto in grandi ammassamenti ed è oggetto di recriminazione in sé. A questo punto è bene concederci un’ampia e indefinita premessa sulla nostra natura prima di avanzare nel nostro tema: una di quelle premesse philosophiques di cui erano maestri i pensatori illuministi. Ognuno nel proprio campo riprendeva alla base il principio sulle origini del linguaggio, sull’ineguaglianza tra gli uomini, eccetera. In questo caso sui caratteri della religiosità umana sarebbe la materia della riflessione di fondo.
L’eccezionalità dell’Apocalisse infatti è l’effetto dell’enfasi di prodigi e di aspettative impliciti nella religione come tale. Chi riceve senza particolare reattività l’Apocalisse, sia essa o no il testo giovanneo che la tradizione ha lasciato alla sua difficile identità, si investe dell’essenza del sacro come di un primordio necessario. Ci sarà certo da tener conto di una predilezione profetica della mente israelitica, di un filone della poiesis particolarmente caro alla sensibilità e alla fantasia degli Ebrei, tuttavia si entra nel religioso, forse nel religioso al quadrato, quando sprofondiamo nelle pagine dell’uomo di Patmos. Dunque la prima convinzione soggiacente a ogni altra che nel testo si esprime è la certezza di un ordine soprannaturale. La seconda è che l’ordine oltre di noi o meglio l’ordinamento celeste non si limita ad affermare ostensivamente e simbolicamente la sua perfezione ma coinvolge l’umanità.
Purtroppo è un grande debito che l’umanità deve pagare per essere degna. La terza è piuttosto un sentimento: il sentimento dell’antagonismo. Per quanto l’opera sia concepita come trionfo finale dell’assoluta giustizia nel grande conflitto, la presenza del Male, la potenza avversa hanno molta forza di contrapposizione. Il regno di Dio deve avvenire, la figurazione fantastica del monstrum è un’altra richiesta dell’umano al religioso nella specie della minaccia e della consolazione, di ciò che incombe, di ciò che è con noi dalla nostra parte. A parte i riferimenti alle difficili sanguinose vicende della Chiesa nascente che molti esegeti ritrovano, l’Apocalisse è da considerarsi un exemplum ora rituale ora pitico davvero ispirato al sacro ed al santo. Il paradosso che colpisce la nostra mens (la nostra mentalità occidentale) è che lo 'svelamento' inerente alla nozione stessa di apocalisse si sviluppi in una serie di visioni da decifrare.
Eppure questa fusione di manifestato e di occultato entra nella alta poesia dell’Europa a partire da Dante, che non la riesuma, piuttosto ne prolunga la tradizione poco divulgata ma costante nella cultura religiosa.