martedì 11 gennaio 2011

Corriere della Sera 11.1.11
«Nessuno vuole produrre il mio film sull’Italia di oggi»
Bellocchio: ritratto del potere, ho avuto una decina di «no»
di Giuseppina Manin


MILANO — L'ultimo no gli è arrivato proprio ieri. «La mia ultima chance, adesso non saprei più a chi rivolgermi. Credo di aver sentito tutti i produttori e distributori. Ma nessuno, proprio nessuno, vuole produrre il mio nuovo film» . A ricevere tanti no, tutti insieme, non è un regista dilettante ma Marco Bellocchio. Uno dei nostri autori più autorevoli e originali, uno dei pochi nomi di sicuro «appeal» anche all'estero. Il suo film più recente, Vincere!, sulla tormentata vicenda di Ida Dalser, prima moglie di Mussolini, è in questi giorni plurisegnalato per le nomination all'Oscar dalla critica Usa, che premia anche i suoi interpreti, Giovanna Mezzogiorno, miglior protagonista, e Filippo Timi, miglior non protagonista. E nei prossimi giorni il festival «Los Angeles-Italia» gli dedicherà una retrospettiva e un premio speciale. Insomma, in un Paese normale, un regista come lei troverebbe aperte tutte le porte del cinema... Invece. «Invece il mio nuovo progetto ha collezionato il più alto numero di risposte negative. Una decina. Mai successo in tutta la mia carriera» . Sarà colpa del titolo, «Italia mia» . Firmato da lei promette di essere un film «scomodo» , con «i pugni in tasca» . «Certo non pensavo di girare una commedia... Volevo parlare dell'Italia di oggi, e quindi c’è poco da ridere. Un film sul potere, con riferimenti non casuali, ma senza intenzioni di inseguire l'attualità né di fare pamphlet polemici» . Qual era il taglio che voleva dare? «Un taglio molto personale. Il racconto trasfigurato della drammatica realtà che stiamo vivendo. Dove i personaggi non vengono mai chiamati per nome, ma la loro identità si può intuire. Dove si citano situazioni note, finite sulle pagine di tutti i giornali, ma viste dalla gente della strada. Dai giovani, anzi. Che guardano da fuori quel che accade e vivono con smarrimento quel potere che li sovrasta. La protagonista di questo film doveva essere una ragazza» . Dove pensava di girarlo? «In una grande città, forse Roma, forse Milano. Certo non in provincia. Non un film intimista, da fare "in casa"come è stato per Sorelle mai. Italia mia è un film sul potere, e il potere ha bisogno di sfondi adeguati. La storia si sarebbe conclusa in una villa lussuosa in un'isola, forse la Sardegna, forse la Sicilia, a una grande festa dove accadevano cose clamorose. Chiaro che non sarebbe stato a basso costo, 6-7 milioni di euro. Per l'Italia un budget piuttosto elevato. E'una delle ragioni dei vari "no"» . Le altre? «Molto vaghe: non mi piace, non mi interessa... O anche: oggi hanno successo solo le commedie. Ma non quelle che ci avevano resi famosi nel mondo, divertenti e feroci, capaci di su «Italia mia» . Progetto archiviato? «Tutt’altro. Solo rimandato. Ci credo molto e sono certo che, anche se nel frattempo le cose cambiassero, non perderebbe il suo significato. Prima o poi lo girerò» . Nel frattempo? «Tirerò fuori dal cassetto un’altra storia. Non accomodante, ma meno costosa» . Giovedì va in scena a Pietrasanta la versione teatrale dei «Pugni in tasca» . Protagonisti suo figlio Piergiorgio e Ambra Angiolini. «Sono molto coinvolto. Quel film di 45 anni fa ha segnato la mia vita, è stato il mio debutto nel cinema. Vedere mio figlio nel ruolo che allora era di Lou Castel mi emoziona, mi smuove mille ricordi» .

il Giornale 11.1.11
«Ecco perché il mio Duce sbancherà gli Usa»
di Maurizio Caverzan


Il film sul figlio segreto di Mussolini «rischia» di concorrere agli Oscar nella categoria principale. Il regista: «Una grande sorpresa. Di certo contano la qualità dell’opera e la bravura degli attori. Poi c’è il fatto che Mussolini è l’italiano più famoso al mondo...»
«Certo che sono sorpreso. Non me l’aspettavo. Vincere è un film di un anno e mezzo fa. Non abbiamo fatto una particolare campagna promozionale. Ci ha pensato la produzione, ha trovato un distributore americano, io me ne sono disinteressato. Sì, mi dicevano che l’accoglienza era positiva. Che la media dei giudizi della critica era alta. Però...». Smaltite le feste, nella sua casa di Roma Marco Bellocchio sta riflettendo sul suo prossimo film che potrebbe riguardare Tangentopoli. Ma la notizia del «tifo» dei critici del New York Times che, con procedura particolarmente insolita, spingono per la candidatura all’Oscar dell’opera in cui ha raccontato la vicenda di Ida Dalser, l’amante che diede un figlio a Mussolini (Benito Albino) e che finì i suoi giorni in un manicomio, è un gran buon viatico per il 2011. Giovanna Mezzogiorno è già stata nominata «best actress» dai critici americani mentre si saprà solo il 25 gennaio se il film, uscito negli Stati Uniti nel 2010, concorrerà per la conquista della prestigiosa statuetta nella categoria del miglior film assoluto. «Ma no, meglio essere prudenti. Per l’Oscar siamo in zona Cesarini», smorza l’entusiasmo Bellocchio, come a far intendere che l’apprezzamento proveniente da oltreoceano è già in sé una soddisfazione. «Per chi fa un lavoro impicciato e mescolato come il mio, una notizia così è uno stimolo ad andare avanti per la nostra strada».
Ma secondo lei, oltre agli attori, che cosa è piaciuto di più agli americani? La storia o la forma del racconto?
«Entrambe le cose, credo: la bravura degli interpreti e la qualità intrinseca del film. Non dimentichiamo che Mussolini è stato fino a un certo punto del regime un personaggio molto apprezzato e ammirato dalla colonia di italiani in America. Poi purtroppo sono arrivate le leggi razziali e la guerra... Però tra i personaggi italiani forse è il più conosciuto all’estero. Probabilmente è piaciuto anche lo stile narrativo. In tutta sincerità, va detto che il film è stato proiettato soprattutto nelle sale d’essai, non esattamente nei circuiti popolari».
Del cinema italiano gli americani sembrano apprezzare soprattutto il periodo della Seconda Guerra mondiale come dimostrano gli Oscar a Mediterraneo e La vita è bella. Ora si parla di Vincere...
«Questo forse dipende dall’età dei votanti dell’Academy. Sento dire che sono persone anziane, un po’ tradizionaliste. È plausibile che amino il cinema della memoria, della storia, anche se Vincere è tutt’altro che un film nostalgico. È un cinema del presente che parla del passato. Com’era anche Nuovo Cinema Paradiso».
Che cosa pensa dell’attacco di Luca Guadagnino a La prima cosa bella di Paolo Virzì, nostro candidato ufficiale tra i film stranieri?
«C’è una giuria nella quale contano i rapporti di forza. Questa giuria dovrebbe intuire quale opera italiana abbia maggiori chance per puntare all’Oscar. Il film di Guadagnino aveva già ottenuto buoni riscontri. Spesso però prevalgono i gusti dei giurati e la legge del più forte. L’anno scorso, tra Baarìa e Vincere fu scelto Baarìa prodotto da Medusa. Con questo non ho nulla da dire sul film di Virzì, al quale auguro di ottenere il massimo. Tuttavia, la mia esperienza dell’anno scorso è stata questa».
Dunque la nomination della critica americana è una specie di rivincita...
«In un certo senso. Sono anche felice per i riconoscimenti meritati da Giovanna Mezzogiorno. Ma sa, uno dei vantaggi dell’età è anche un certo distacco. Se avessi vent’anni vivrei tutto con maggior spirito di rivalsa».
A proposito di polemiche, il movimento «Tutti a casa» non è troppo ideologizzato?
«Una dose di ideologia forse è rimasta come reperto antico. Però si è attenuata. Ma non dobbiamo dimenticare il contesto in cui viviamo. Anche il cinema subisce i processi della globalizzazione. Si spostano le produzioni all’estero e i nostri lavoratori si sentono abbandonati. In una situazione di smarrimento e di disoccupazione il movimento “Tutti a casa” è affine a quello degli studenti che salgono sui tetti. Poi c’è un gruppo di professionisti che per la loro storia hanno più facilità a trovare un contratto, a trovare un produttore».
Che cosa pensa del fatto che mentre calano i fondi del Fus, crescono gli incassi al cinema italiano?
«Questo bisognerebbe chiederlo agli studiosi, ai sociologici. Forse è la domanda che è diversa. In epoche di crisi e di difficoltà, la gente vuol dimenticare, cerca di evadere, di divertirsi. E il cinema è una via d’uscita sicura».
È la ragione del successo di commedie come «Benvenuti al sud» e «Che bella giornata»...
«Assolutamente. Questa non è la stagione della commedia provocatoria, cattiva, contro il potere. Ma di film concilianti, capaci di mitigare i contrasti. Tuttavia, chi fa cinema d'autore sbaglierebbe a interrompere il proprio percorso».
Lei continua la sua indagine sull’Italia del ’900. Ha raccontato il '68, il terrorismo con «Buongiorno, notte», poi un episodio oscuro dell'epoca di Mussolini. Che ne è del progetto su Craxi e Tangentopoli?
«Un regista non è un giornalista né uno scrittore. Se parto dalla realtà tendo un po’ a stravolgerla. Come uno sportivo anche un regista deve tenersi in esercizio: incontrare gli attori, studiare le riprese, fare i film. Il progetto di Italia mia sulla stagione di Tangentopoli si è imbattuto in alcune risposte negative. Ma c'è ancora qualche speranza. In ogni caso non sarebbe un pamphlet polemico sul passato per parlare del sistema di potere attuale. Nei prossimi giorni saprò se potrò andare avanti. Altrimenti mi dedicherò ad altro».

l’Unità 11.1.11
Il leader pd vede anche Fim e Uilm. D’Alema: «Il governo usa Marchionne contro la sinistra»
Veltroni: «Inaccettabile non far partecipare alla gestione del contratto una sigla sindacale»
Bersani incontra il segretario Fiom
«Il Pd rispetterà l’esito del voto»
di Simone Collini


La Fiom ha chiesto al Pd di prendere «una posizione univoca» sulla Fiat, la Fim e la Uilm hanno fatto un passo oltre e gli hanno chiesto di «sostenere maggiormente l’accordo e il sì al referendum». Ma dopo aver parlato con tutti e tre i leader sindacali dei metalmeccanici, Pier Luigi Bersani ha evitato di schierare il partito. Glielo ha spiegato anche ai leader delle tre sigle sindacali dei metalmeccanici con i quali, separatamente, il leader dei Democratici ha passato l’intero pomeriggio.
Maurizio Landini, che è arrivato al Nazareno auspicando che le ragioni della Fiom sul no all’accordo per lo stabilimento di Mirafiori venissero «capite», si è sentito dire da Bersani che il Pd non darà indicazioni di voto e che poi rispetterà il risultato del referendum, qualunque esso sia, anche se per Landini la consultazione tra i lavoratori si riduce alla decisione «se e a quale albero impiccarsi». Giuseppe Farina e Giovanni Contento, che hanno firmato per la Fim e la Uilm l’accordo con la Fiat, sono andati al quartier generale del Pd lamentando una «eccessiva timidezza» da parte di un partito che dovrebbe invece «uscire dal limbo del super partes». Ma anche di fronte a loro Bersani non ha cambiato linea: il Pd non interferirà con le decisioni dei lavoratori, anche perché se sono da valutare positivamente gli investimenti decisi da Marchionne, c’è però di che essere preoccupati per la carenza di regole per quanto riguarda la democrazia sui luoghi di lavoro e sulla rappresentanza (situazione di cui, in entrambi i colloqui, Bersani ha addossato la responsabilità anche a un «governo assente» e tutt’altro che impegnato nella politica industriale).
RISPETTARE L’ESITO DEL REFERENDUM
«In questi incontri abbiamo ribadito la posizione netta e chiara del Pd», ha spiegato poi Bersani: «Si deve rispettare l’esito del referendum di giovedì e venerdì e si deve mettere mano urgentemente a regole di rappresentanza che garantiscano sia l’esigibilità degli accordi che i diritti individuali e i diritti sindacali di chi dissente». Il Pd nel suo programma, ha fatto sapere, prospetterà riforme strutturali «per evitare che il peso della nuova competizione e degli effetti della globalizzazione si scarichino solo su una parte della società ed in particolare sui lavoratori». Mentre nell’immediato ha ribadito l’interesse affinché gli investimenti nel settore auto si realizzino, chiedendo «che il governo esca finalmente dalla sua latitanza» e finalmente prospetti «una politica industriale e ottenere chiarezza sull’insieme del programma che la Fiat ha annunciato e sugli sviluppi degli investimenti strategici della ricerca».
Il Pd insomma non si schiera nella partita tra Marchionne e la Fiom, anche perché c’è chi come Beppe Fioroni dice che «non ci si può chiedere di essere il partito della Fiom» e anche perché, come sottolinea Massimo D’Alema evidenziando la «mancanza del governo», «non si può affidare la situazione solo a imprenditori e sindacati». Per il presidente del Copasir, che confessa di essere «perplesso verso l’atteggiamento dell’amministratore delegato Fiat («trovo preoccupante che nel governo di una grande azienda non debba trovare posto anche il dissenso»), va sottolineata soprattutto una cosa: «Nell’accordo si chiedono sacrifici ai lavoratori ma non c’è nessuna contropartita politica da parte del governo che usa Marchionne contro la sinistra».
Spiega però Cesare Damiano che questo non schierarsi non significa indifferenza nei confronti di un referendum che, a seconda del risultato, potrà avere conseguenze di un certo tipo. «Se il sì dovesse prevalere sarebbe opportuna una firma all’accordo, tecnica o critica che sia, anche da parte della Fiom. Questo consentirebbe di mantenere tutti i sindacati nel gioco della contrattazione e della rappresentanza». Anche perché, dice Walter Veltroni, se una cosa è certa in tutta questa vicenda è che sarebbe «inaccettabile» se dopo il referendum la Fiat persegua nello «strappo» e la Fiom non partecipi alla gestione del contratto.

l’Unità 11.1.11
Landini non cede: accordo illegittimo non firmeremo mai
Il segretario Fiom convoca la stampa dopo aver incassato il sostegno della Cgil: «Non è la Fiat che decide se noi esistiamo o no, questo lo decidono i lavoratori»
La settimana del referendum su Mirafiori si apre con una Fiom battagliera. Landini: «Non siamo il sindacato dei “no”, abbiamo firmato mille accordi. La partita Fiat non è chiusa, riusciremo a riaprirla con l’aiuto di tutti».
di Massimo Franchi


Per adesso, Marchionne fa bene alla Fiom. Mai visti tanti giornalisti e fotografi per una conferenza stampa, tanta attenzione nella palazzina di Corso Trieste, sede dei metallurgici della Cgil. Lo scontro con l’ad canado-abruzzese ha portato in dote tanti nuovi adepti, se è vero che le elezioni per le Rsu segnano nel dopo Pomigliano un avanzamento del 6%, con un arretramento di Fim e Uilm, vicini di casa a Corso Trieste. Maurizio Landini e i suoi però sono consapevoli che la partita Mirafiori «mette a rischio l’esistenza stessa del sindacato» e allora provano a sfruttare la (mai avuta) attenzione mediatica per trovare tutto l’aiuto di cui hanno bisogno nell’impari sfida con il Lingotto globalizzato. Una «partita che vogliamo riaprire», attacca Landini.
La settimana che porta al referendum su Mirafiori parte con una Fiom battagliera. Dopo la "partita patta" nell'incontro-scontro con la Cgil di domenica, il segretario rilancia la lotta e le ragioni del suo sindacato. Se, è notizia di domenica, la Cgil sosterrà in pieno lo sciopero generale del 28 gennaio, la lotta della Fiom contro «la vergogna di Mirafiori» si allarga coinvolgendo «studenti e confrontandosi con tutte le forze politiche».
Giovedì invece tutta la dirigenza dei metallurgici della Cgil si sposterà ai cancelli di Mirafiori dove è prevista l'assemblea con i lavoratori. «Proprio per rispetto ai 5mila di Mirafiori sui quali non può ricadere la responsabilità di un referendum ricatto dove si dice "O voti Sì o si chiude", ci prendiamo la responsabilità di dire che noi l'accordo non lo firmiamo nemmeno se vincono i Sì spiega Landini -. Lo facciamo perché quell'accordo è illegittimo e cercheremo di dimostrarlo con i nostri legali». Landini poi vuole sfatare il mito di una Fiom sempre contro: «Nel 2010 abbiamo firmato mille accordi che riguardano 230 mila metalmeccanici, dalla Ferrari alla Brembo, dalla Whirpool a quella Lamborghini che è della Wolkswagen. Forse siamo il sindacato che ha firmato più accordi».
GIOVEDÌ AI CANCELLI
Intanto a Torino ieri sono tornati al lavoro 800 operai di Mirafiori: la Fiom ha distribuito loro l'accordo firmato dagli altri sindacati con una copertina di un manifesto del 1969 dal titolo "Se cedi un dito, ti prendono un braccio". «È attualissimo spiega Giorgio Airaudo ed è la sintesi di un contratto che in pochi conoscono: 70 pagine sottoscritte in uno stanzino da delegazioni ristrette sotto il ricatto della Fiat. Era giusto informare i lavoratori, come è giusto chiedere a Marchionne se è vero, come scrive qualcuno, che il contratto Chrysler Fiat prevede che peggio va la Fiat in Italia, meno dovrà sborsare il Lingotto. Ecco, noi cerchiamo di fare un'operazione verità e non giochiamo d'azzardo sulle percentuali dell'esito del referendum». «Di una cosa posso assicurare Marchionne chiosa Landini non è la Fiat che decide se esiste la Fiom, questo lo decidono i lavoratori, i nostri 370mila iscritti, perché esistiamo da 110 anni e da 100 (anno di fondazione della Cgil) abbiamo deciso di essere un sindacato confederale».

l’Unità 11.1.11
Cari delegati, come staremo dentro Mirafiori?
Il segretario della Cgil risponde alla lettera dei delegati della fabbrica pubblicata dall’Unità. «Il modello Marchionne non va bene, la Cgil rispetterà le scelte dei lavoratori»
di Susanna Camusso


Care compagne, Cari compagni, che la CGIL sia con voi e con le lavoratrici e i lavoratori di Mirafiori e Pomigliano per tenere aperta la prospettiva di un cambiamento e che sia con voi nel dire no all’accordo voluto da Fiat e sottoscritto da altri, non vi è alcun dubbio.
E non è certo solidarietà, ma la profonda convinzione che il Modello Marchionne propone condizioni di lavoro che non vanno bene, sottrae diritti, mette in discussione la libertà dei lavoratori di essere rappresentati.
No a quegli accordi è senza alcun dubbio il sentire di tutta la CGIL.
Per questo, per rispettare ed essere a fianco dei lavoratori abbiamo detto di votare no, ci sembrava insufficiente criticare e giudicare l’uso del referendum, tema tutto vero, che viene, se mi permettete, un momento dopo lo stare insieme ai lavoratori e alle lavoratrici. Un minuto dopo il provare ad aiutarli a dire no.
Con grande rispetto per il travaglio che i lavoratori e le lavoratrici di Mirafiori avranno, proponendogli il no, e rispettando chi sceglierà il si.
Perché la funzione di un sindacato è organizzare, tutelare i lavoratori, proporgli le vie del cambiamento, del miglioramento delle loro condizioni.
Proprio perché questa è la nostra funzione, diciamo no a quell’accordo che peggiora le condizioni di lavoro e viola diritti che riteniamo indisponibili.
Se questa è la nostra funzione, direi la nostra ragion d’essere, la domanda che segue e che proponiamo a tutte e tutti è quella della ricerca della soluzione migliore.
Se dovesse prevalere il si, se venisse sconfitta la nostra idea di votare no, ma comunque anche se si ritenesse non valido il referendum, si applicherà quell’accordo; come ottempereremo allora alla nostra funzione di rappresentanza dei lavoratori, come ricostruiremo le condizioni del cambiamento?
Questa la domanda che dobbiamo proporci proprio perché siamo insieme e vicini. Insieme oggi nel giudicare, ma pronti ad interrogarci per traguardare un futuro dentro le aziende Fiat.
Sicuramente possiamo, vogliamo, dobbiamo incontrarci per fare insieme le riflessioni che la vertenza propone a tutti noi.
Vi so in questi giorni impegnati nelle assemblee e nella campagna elettorale, organizzeremo per i giorni successivi.
Con affetto.

il Fatto 11.1.11
Il Vangelo secondo Marchionne
di Marco Politi


Quanto c’è di cristiano nelle nuove regole imposte da Marchionne a Mirafiori? L’interrogativo potrebbe suonare paradossale, ma si pone dal momento che il firmatario-guida del documento, Raffaele Bonanni, è il leader del sindacato che si richiama consapevolmente alla Dottrina sociale della Chiesa. Tanto più che la Cisl in anni passati si è spesa per portare gli altri sindacati confederali a festeggiare il 1º maggio in piazza San Pietro e, più recentemente, si è schierata con la Conferenza episcopale in quel Family Day, che sabotò la legge sulle coppie di fatto. 
Nel crollo delle ideologie il sindacato di matrice cattolica ha sempre voluto attingere al patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, arricchito da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Giovanni Paolo II ha dedicato al tema lavoro molta parte del suo magistero. All’inizio – sul piano geopolitico – l’attenzione era focalizzata sul diritto dei lavoratori polacchi di organizzarsi in un sindacato “indipendente” (sebbene da subito, negli anni Ottanta, difendesse a São Paolo anche i diritti dei sindacati brasiliani, guidati dall’allora trotzkista Lula). Tuttavia, dopo il crollo dell’impero sovietico, Wojtyla ha continuato negli anni Novanta a occuparsi energicamente dell’argomento a fronte di un capitalismo che lui chiamava “radicale”, cioè tendente a sopraffare ogni regola. 
Lontanissimo e anzi avverso ad ogni concezione di antagonismo di classe, Karol Wojtyla ha messo al centro della sua riflessione il carattere del lavoro come “dimensione fondamentale dell’esistenza”, rigettando quel tipo di prassi in cui “l’uomo viene trattato come strumento di produzione” e il lavoro come semplice “merce”. E usando questi termini – cattolici – sottolineava che il pericolo non andava relegato all’epoca dell’industrializzazione primitiva, ma appartiene al tempo presente laddove prevalga una “civiltà unilateralmente materialistica”. 
IL PERICOLO di trattare l’uomo come mera “forza lavoro” – scriveva nella sua enciclica Laborem Exercens – “esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell'economismo materialistico”. Ciò che colpisce nel documento Mirafiori, esaltato come innovativo, simbolo di modernità, spartiacque di una nuova era da coloro che quasi certamente non lo hanno nemmeno letto, è precisamente il fatto che non c’è nulla di innovativo. Non è una rivoluzione nel-l’organizzazione della produzione o nell’individuazione di nuovi metodi di valorizzazione della persona-operaio. Non è neanche una rivoluzione o, più modestamente, un passo in avanti sulla via della partecipazione dei prestatori d’opera alla gestione   dell’azienda: nel senso della Mitbestimmung, la cogestione tedesca, letteralmente “codeterminazione”. La vera carta che la Cisl per la sua tradizione potrebbe giocare e di cui non c’è traccia nel documento Mirafiori.
Il punto non è dunque di schierarsi aprioristicamente per l’una   o l’altra componente sindacale, il punto è di valutare le norme del contratto.
E qui, in tema di rappresentanza, la divaricazione con la dottrina sociale della Chiesa è totale. Sosteneva Giovanni Paolo II che il diritto di associarsi è fondamentale perché ha come scopo la “difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni”. Cioè di assicurare la “tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione”. Il corollario, nella vicenda Solidarnosc, era che non toccava al proprietario dell’azienda – lo Stato in questo caso – decidere chi potesse parlare o no a nome dei lavoratori.
Leggendo il testo Mirafiori (e sono gli articoli su cui Bonanni tiene un profilo bassissimo, perché sa che gridano vendetta al cospetto   di Dio… per usare un linguaggio biblico) si vede che tutti i paragrafi sotto il titolo “Sistema di relazioni sindacali” sanciscono il radicale smantellamento della presenza in azienda di qualsiasi organizzazione sindacale, che dissenta dal contratto firmato. Chi ha il 51%, cancella gli altri.
ORA UN CONTO è accettare democraticamente i risultati di un referendum, un conto è imbavagliare totalmente un soggetto sindacale che la pensa diversamente. L’articolo 1 permette la costituzione di rappresentanti sindacali soltanto alle Organizzazioni firmatarie. Chi non è Organizzazione firmataria NON usufruisce di permessi sindacali (art. 2), NON può convocare un’assemblea (art. 3), NON ha diritto a un locale per esercitare le funzioni di rappresentanza sindacale (art. 5), NON fa più parte del sistema per cui l’azienda trattiene direttamente dallo   stipendio i contributi sindacali versandoli alle rappresentanze. L’abolizione della legge 1993 sull’elezione dei delegati in azienda (festeggiata dai ministri berlusconiani Sacconi e Romani) e la clausola di umiliazione, per cui chi aderisce dopo deve ottenere il consenso di “tutti” i firmatari, completano un impianto che cozza contro la libera partecipazione dei prestatori d’opera e l’organizzazione sindacale dentro l’azienda come “indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate”. (Laborem Exercens)
Per chi ritenesse che gli anni passano, Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate del 2009 sottolinea come segno caratteristico dell’epoca contemporanea la diminuzione delle libertà sindacali e della capacità negoziale dei sindacati. Tuttavia che si arrivasse a dividere i “bianchi” dai “neri” neanche un papa poteva prevederlo.

l’Unità 11.1.11
Ratzinger al corpo diplomatico: «A minacciare la libertà religiosa non ci sono solo le persecuzioni»
Dito puntato contro il bando di feste e simboli religiosi: no al monopolio dello Stato nella scuola
Il Papa: l’educazione sessuale è una minaccia alla fede
Libertà religiosa senza condizionamenti. A questo e alla Chiesa perseguitata nel mondo Benedetto XVI dedica il suo discorso ai diplomatici accreditato presso la Santa Sede. Le accuse alla laicità dell’Occidente.
di Roberto Monteforte


Lo Stato faccia un passo indietro sui temi dell’educazione, compresa quella sessuale e civile che «potrebbero mettere in discussione le libertà di fede» e soprattutto, riconosca l’apporto positivo della religione alla società. «Dietro concezioni apparentemente neutre si trasmettono «concezioni antropologiche contrarie alla fede e alla retta ragione». Non basta la semplice libertà di culto. I cristiani devono poter vivere in modo coerente i principi della propria fede e poter «operare liberamente nella società». Per questo ne vanno rispettati anche feste e simboli, come il Crocifisso, che devono poter essere esposti pubblicamente. Troppo spazio al pluralismo e alla tolleranza che va a discapito della religione che finisce per subisce «una crescente emarginazione» ed essere percepita come «senza importanza, estranea alla società moderna o addirittura destabilizzante». Sono passaggi del discorso tenuto ieri da Papa Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
LE ACCUSE ALL’OCCIDENTE
È il Papa che parla ai rappresentati «politici» del mondo intero. È a loro che spiega cosa intenda per libertà religiosa a rischio, in particolare nel secolarizzato Occidente da riconquistare alla fede. Ma ripropone anche il quadro, «sottovalutato» delle violenze e delle persecuzioni subite dalle comunità cristiane nel mondo.
«La religione non costituisce per la società un problema, non è un fattore di turbamento o di conflitto. E la Chiesa non cerca privilegi, né vuole intervenire in ambiti estranei alla sua missione, ma semplicemente esercitare la sua missione con libertà». Questa è la sua rassicurazione. Chiarissimo è stato l’allarme lanciato contro quella laicità che non considera «positiva». Il suo è un’affondo. Mette in guardia da chi mette in contrasto il diritto alla libertà religiosa con «i nuovi diritti» e il riferimento è a famiglia e diritti per le coppie omosessuali e di fatto, aborto, fine vita. Sarebbero in realtà niente di più che «l’espressione di desideri egoistici» che «non trovano il loro fondamento nella autentica natura umana» di cui la Chiesa parrebbe essere l’unica detentrice. Chiede coerenza ai Paesi
«democratici». La libertà religiosa non va proclamata in astratto, ma «praticata con coerenza e a tutti i livelli», altrimenti si finisce «per commettere grandi ingiustizie verso cittadini che desiderano professare e praticare liberamente la loro fede».
Il messaggio del Papa è «planetario», quindi rivolto a situazioni diverse. Come nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 ̊ gennaio insiste nel denunciare le persecuzioni alle comunità cristiane, dall’Iraq all’Egitto e la sottovalutazione internazionale sul prezzo di sangue pagato per la libertà religiosa minacciata. Ricorda il nesso tra dimensione religiosa e percorsi di pace. Invoca dai governi del Medio Oriente «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose», che lo sottolinea «debbono poter godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell'insegnamento e dell'educazione e nell’uso dei media». Il pontefice plaude all’iniziativa dell’Unione europea su questo punto. Nel suo drammatico elenco include «la legge contro la blasfemia in Pakistan».

Corriere della Sera 11.1.11
Giuseppe De Rita: «Giusto, quelle lezioni trasformano la vita in un fatto tecnico»
di  Paolo Conti


ROMA — Giuseppe De Rita, da quarant’anni anima indiscussa del Censis, è da sempre un cattolico consapevole e attento. Ma da sociologo abituato ad analizzare i fenomeni, inserisce anche la fede in un panorama di comportamenti collettivo, ampio e articolato. E in più non rinuncia al dono dell’ironia: «Il Papa ha parlato dell’educazione sessuale "imposta"e l’ha definita di fatto un ostacolo alla libertà religiosa? Beh, allora, come direbbe monsignor Fisichella, bisognerebbe contestualizzare» . Infatti il discorso di Benedetto XVI va contestualizzato, c’è di mezzo un riferimento molto preciso alla realtà spagnola, come ha chiarito poi padre Federico Lombardi... «Così è già più chiaro, altrimenti il discorso rischia di restare molto criptico. Però, nello stesso tempo, anche se il Pontefice si stava riferendo a una particolare e locale realtà, poiché si rivolgeva al Corpo diplomatico, inevitabilmente le sue parole hanno assunto un valore generale e universale, come sempre capita ai discorsi pubblici di un Papa» . De Rita si rifiuta di mettersi nei panni del successore di Pietro («non ho l’autorità per commentare le sue parole...» ), ma azzarda una sua personale lettura di quelle espressioni: «Io intendo così quelle parole. La dimensione della fede cattolica è la "creaturalità". Ovvero l’uomo, la persona vista come creatura di Dio. Quindi il frutto di una creazione che vede sia nella nascita che nella morte la presenza divina. Qui è il punto fondamentale della nostra fede cattolica» . E cosa c’entra tutto questo con l’educazione sessuale, professor De Rita? «C’entra moltissimo, così come c’entra il problema dell’eutanasia. E quindi ecco emergere il problema della libertà religiosa. In questo senso. Se io impongo l’insegnamento dell’educazione sessuale e riduco tutto a un embrione che può essere fecondato quando e come vuole l’uomo, o che può essere destinato anche al concepimento e alla nascita con l’intervento di un padre omosessuale, o ancora può essere uno dei tanti embrioni "inseriti", ecco che la "creaturalità"sparisce completamente dall’orizzonte di una persona umana mentre riceve un’educazione» . Una condanna della contemporaneità, professor De Rita? «Ma quale condanna? Semplice constatazione. Il meccanismo della società dei nostri giorni è sempre lo stesso: sottrarre l’uomo a qualsiasi aggancio con la fede, ridurre quella dimensione a un fatto privato, consegnare al singolo individuo la piena disponibilità della propria vita: nascita, sessualità, morte» . Ma davvero è una prospettiva così negativa? «Insisto, non sto formulando un giudizio, ma analizzando il fenomeno. E’ inevitabile che il Papa, capo della cattolicità, segnali che il problema esiste per i fedeli e per una prospettiva di libertà religiosa» . Il professor De Rita appare scettico persino sull’utilità dell’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole: «Personalmente ritengo che individuare nella scuola l’unica agenzia fornitrice di certi servizi è un errore. Educazione sessuale, educazione musicale, educazione stradale, educazione civica... Penso al contrario che una scuola degna di questo nome dovrebbe insegnare poche cose basilari ma benissimo, in modo approfondito e adeguato. Poi, per il resto...» . Non crede invece, professore, che una corretta educazione sessuale nelle scuole potrebbe per esempio evitare la diffusione dell’Aids? «Quella malattia è epidemica in certe aree del mondo che conosciamo bene. In Europa i risultati migliori si ottengono con le grandi campagne di sensibilizzazione. E con i mezzi di massa. Molto meglio un "mettetevi il preservativo..."detto in tv. Cosa c’entrano le scuole con tutto questo?» . E qui il discorso si potrebbe chiudere se De Rita non proponesse una prospettiva: «L’uomo contemporaneo non sosterrà il peso di tutte queste responsabilità sulle sue sole spalle. Tra trenta, quarant’anni assisteremo alla riscoperta di una fede magari meno popolare e diffusa di quella che abbiamo conosciuto fino a oggi, ma più consapevole, profonda. La sola coscienza individuale non può bastare a fronteggiare tanti, e così essenziali, problemi esistenziali...» .

Avvenire 11.1.11
«Fine vita, legge necessaria»
Dal governo ferma risposta alle provocazioni dell’oncologo Veronesi
Sacconi: c’è il diritto-dovere di pronunciarsi Roccella: il testo è basato su evidenze scientifiche
di Luca Liverani


Su un tema così importante co­me il 'fine vita' il legislatore non può far finta di nulla. Per­ché il Parlamento ha il diritto-dove­re di pronunciarsi, dice il ministro Sacconi. Perché il testo in discussio­ne è basato su evidenze scientifiche e non di fede, fa eco il sottosegreta­rio Roccella. E perché è possibile le­giferare garantendo la libera scelta, aggiunge il ministro Bondi. Alla vi­gilia della giornata decisiva per la ca­lendarizzazione del disegno di leg­ge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento – oggi a Montecitorio la riunione dei capigruppo – il gover­no risponde compatto alla provoca­zione dell’oncologo Umberto Vero­nesi, eletto al Senato nelle liste del Pd, secondo il quale il vuoto legisla­tivo attuale è meglio del tentativo di creare un quadro normativo.
«Credo lo stesso professor Veronesi converrà che comunque il Parla­mento abbia il diritto-dovere di e­sprimersi », dice dunque il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. E de­ve farlo, spiega, «su una materia per la quale il provvedimento della ma­gistratura ha avuto un carattere co­stitutivo costituzionalmente discu­tibile. È bene che della legge si di­scuta nella sede propria del Parla­mento con serenità, laicamente».
Veronesi, prosegue Sacconi, «dice cose condivisibili a proposito del­l’accanimento terapeutico», ma «l’e­sperienza ci consegna una positiva consuetudine di rapporti tra il pa­ziente », quando può, o «i familiari e il medico». Allora la legge non sarà «superflua se consolida, recependo­la, questa buona consuetudine». Di­verso, puntualizza Sacconi, «è il diritto naturale ai sostegni vitali»: idratazione e alimentazione «nemmeno per la mozione presentata dal Pd al Senato so­no considerate tera­pie ». Solo in un caso, «quello di E­luana Englaro, si è posto il problema di sottrarre una persona, così viva che a nessuno verrebbe in mente l’e­spianto degli organi, all’idratazione e all’alimentazione. E in questo ca­so si è reso necessario un percorso di forte determinazione nella con­duzione a morte che non possiamo non definire eutanasico».
Eugenia Roccella confessa il suo stu­pore perché «un grande medico co­me Veronesi possa parlare di 'vita artificiale' per gli stati vegetativi o addirittura di qual­siasi persona 'priva di coscienza e di vi­ta di relazione', de­finizione che inclu­derebbe molte for­me di disabilità o l’Alzheimer». Per il sottosegretario alla Salute «non è sulla fede, ma sulle cono­scenze scientifiche che il progetto di legge sul biotestamento si basa». La ricerca, infatti, ha dimostrato come molte persone apparentemente non coscienti «mostrano invece un’atti­vità cerebrale inaspettata». E «non è affatto escluso che si possano trova­re nuove terapie» come suggerireb­bero alcuni 'risvegli' ottenuti «con nuove e semplici tecniche». Né l’au­todeterminazione, poi, «può essere un criterio assoluto scisso dal con­testo scientifico, medico e relazio­nale », altrimenti qualunque pazien­te potrebbe esigere «un trattamen­to che il medico giudica inappro­priato o dannoso». «Una legge è opportuna», concorda il ministro dei Beni culturali. Sandro Bondi è convinto che «su alcune questioni ancora controverse sia an­cora possibile trovare soluzioni che, pur non intaccando i principi fon­damentali della fede, garantiscano la libera determinazione individua­le ». Sul tema dell’accanimento, Bon­di ritiene che la scelta «debba esse­re valutata con umana sensibilità dai medici in collaborazione con la fa­miglia, tenendo naturalmente pre­sente la volontà testamentaria o e­spressa direttamente dalla persona».

l’Unità 11.1.11
Avanti popolo... Una grande mostra celebra i 90 anni del partito nato a Livorno nel 1921
Una vicenda intrecciata con l’identità italiana finita nel 1991 che ha lasciato un’impronta decisiva
Pci, quel «partitone rosso» che ci aiutò a sentirci una nazione
Un percorso multimediale tra il Congresso di Livorno del 1921 e il Congresso di Rimini del 1991, che segna la fine del Pci e la nascita della Quercia. E tanti dibattiti sul più grande partito della sinistra italiana.
di Bruno Gravagnuolo


Il Pci nella storia d’Italia. Qualcuno vorrebbe espellere il primo dalla seconda. E in primis la destra più dura che è andata al governo tre volte in questi venti anni. Poi la storiografia revisionista e neodefeliciana più intransigente, come nel caso del «terzista» Galli della Loggia che in materia di Pci non fa mostra di «terzietà»: una zavorra per l’Italia che bloccò la sua modernità. Punto.
E invece, proprio nell’anniversario del Congresso di Livorno (tra il 15 e il 21 gennaio 1921) arriva adesso una grande mostra a Roma, costellata di altre iniziative in corso d’anno, che intende rimettere a posto i fondamentali della memoria. Per registrare il peso e l’incidenza di una vicenda collettiva, esaurita ufficialmente il 4 febbraio 1991(con la nascita del Pds a Rimini) ma inseparabile dall’identità civile stessa del nostro stato-nazione, di cui sempre quest’anno si celebrano i 150 anni. E allora vi raccontiamo in anteprima la mostra, a cura della Fondazione Istituto Gramsci e del Centro Studi di Politica Economica (Cespe) che aprirà i battenti il 14 all’Acquario Romano, Casa dell’Architettura Piazza Manfredo Fanti 47(conferenza stampa alle 11 del 12) e che si intitola appunto: «Avanti Popolo. Il Pci nella storia d’Italia»).
Intanto la mostra è un ipertesto, un percorso multimediale. Allestito in loco lungo sei stazioni cronologiche inclusive di sei periodi chiave dela storia Pci, intrecciata a quella italiana. Ciascuna stazione, unita alle altre da una pista in plexigas a immagini, si vale di un certo numero di bacheche(sei serie di teche). Con dentro materiale documentario originale, fatto di lettere autografe, volumi, giornali, e sempre riferito al periodo in questione. Poi, per ogni stazione, due schermi «touchscreen» consentiranno, valendosi di 36 parole chiave, di accedere al merito e ai dettagli della storia narrata, tra rimandi circolari e cortocircuiti audiovisivi.
A parte, novità assoluta, l’esposizione degli originali manoscritti dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (31, a parte i due intonsi non in mostra), vero e proprio «Graal» teorico del Pci, anima pulsante di idee che ne fece quel che fu (benché la loro ricchezza sia ancora una miniera inesauribile e funzionante). Al piano superiore dell’«Acquario» ci sarà una sezione sulla satira, con le provocazioni di Altan e Staino, inseparabili dal vissuto del «partitone rosso», che sapeva ridere di sé stesso e scommetteva sulla satira (su di sé oltre che sull’avversario).
Altre cose in mostra. Il manoscritto gramsciano sulla Questione meridinale del 1926. Messaggi radiotrasmessi e autografi di Togliatti, lettere di Badoglio a Togliatti, lettera di Togliatti a Sraffa del 1937, con richiesta di istruzioni per la prima pubblicazione dei Quaderni. Una scelta delle edizioni e pubblicazioni gramsciane all’estero. Tutte le tessere Pc. d’I. e Pci dal 1921 al 1991. Fotoromanzi degli anni 50 per incitare al voto gli emigranti (precoce intuizione «mid-cult» del valore mediatico dell’immaginario di massa). Un Dvd con testimonianze e interviste a far da filo conduttore. Persino, si va in ordine sparso, un servizio da caffé del Migliore. Un ciclostile paracadutato dagli Alleati, per stampare l’Unità clandestina, matrice eroica di tante copie segrete dell’Unità ricopiate pazientemente a mano. Il tutto ovviamente è disposto non a caso e con rigore, da un comitato scientifico di storici men giovani e più giovani(Giuseppe Vacca, Silvio Pons, Francesco Giasi, Ermanno Taviani, Luisa Righi, Emanuele Bernardi, Gian Luca Fiocchi). E da un architetto, Alessandro d’Onofrio che ha lavorato al Maxxi con la Zadid.
Vediamo alcuni dei concetti chiave che informano la mostra. Prima di tutto, visualmente per così dire, c’è l’intento di mettere in luce la capillarità di un radicamento dentro la società civile, a costruirla e orientarla. Facendo leva sul simbolico, sui media di allora, sul folklore, sulla cultura alta e bassa, e sulle istituzioni minute del quotidiano. Secondo l’indicazione gramsciana, volta a prefigurare già dentro la società civile la futura società autoregolata: non in chiave classista e chiusa, ma con un «blocco storico» di ceti progressivi attorno agli operai. Fu anche in virtù di ciò, oltre alle fondamentali innovazioni strategiche togliattiane, che il Pci «fece Italia», Costituzione democratica, cittadinanza. E pedagogia aperta all’internazionalizzazione della cultura (altro che zdanovismo in quell’Italia censoria e bacchettona!). E tuttavia la mostra non è autocelebrativa. Perché l’altro suo aspetto è la «dilemmaticità» del Pci partito «anfibio»: nazionale e transnazionale con riferimento all’Urss, fino e oltre il 1956. «Doppia lealtà», nella quale il Pci scavò, alla ricerca di una sua via, oltre la tenaglia dei blocchi contrapposti, e per schiudere un varco né leninista né socialdemocratico (con il torto di aver sottovalutato le possibilità dinamiche di quest’ultimo approdo). Come che sia, fu così che il Pci, scuola di massa per le classi subalterne, divenne l’erede del Risorgimento democratico. Come per altro verso la Dc. Ed è per questo che gli va reso onore, perchè senza quel Pci, oggi saremmo ancor meno una nazione.

Corriere della Sera 11.1.11
Se l’orrore della Shoah stravolge la memoria
Il dolore e la vergogna che i sopravvissuti rimuovono
di Paolo Mieli


L’ 8 febbraio del 1972 si concluse in Germania il processo a carico del settantacinquenne agente di polizia in pensione Walther Becker. Il motivo per cui Becker era finito sul banco degli imputati non era riconducibile all’essere lui stato nel secondo dopoguerra un poliziotto, bensì al ruolo ben più importante che aveva ricoperto tra il 1941 e il 1945 alla guida del dipartimento di polizia nel distretto polacco di Radom (tre milioni di abitanti di cui oltre il dieci per cento ebrei). Becker era accusato di aver svolto un ruolo di primo piano nella liquidazione del ghetto di Wierzbnik il 27 ottobre del 1942, allorché tra i sessanta e gli ottanta ebrei erano stati uccisi sul posto, mille e seicento erano stati inviati in tre campi di lavoro a Starachowice e altri quattromila erano stati mandati a morire nelle camere a gas di Treblinka. Nel corso del dibattimento il pubblico ministero poté presentare decine di sopravvissuti, i quali testimoniarono che quel giorno Becker aveva personalmente picchiato e ucciso numerosi ebrei e aveva ordinato l’assassinio di altri. Uno di loro ricordò di aver visto quell’uomo afferrare per i piedi un bambino ancora in fasce e sfondargli il cranio contro un muro accanto all’entrata del cortile presso la piazza del mercato. Ma, a sorpresa, il giudice prosciolse l’imputato e Becker uscì da quell’aula di tribunale da uomo libero. Tutte le testimonianze a suo carico, spiegò poi il giudice, non coincidevano l’una con l’altra. In alcuni casi gli erano stati attribuiti misfatti che non si sa bene se fossero stati realmente compiuti. Misfatti riferibili a «un’immagine archetipica dell’Olocausto» che, a guerra finita, era stata «incorporata nei ricordi» dei superstiti. Alcune testimonianze erano palesemente discutibili e avevano ingenerato nel giudice il sospetto che gli accusatori avessero accusato Becker «di atti specifici commessi da altri uomini che non erano riusciti a identificare» . La corte stabilì che i testi, tutti, erano «consciamente o inconsciamente propensi» a «proiettare» sull’imputato il loro «comprensibile» odio per il regime nazista. Ma di prove inconfutabili non ce n’erano. Quest’episodio ha suscitato l’interesse di Christopher R. Browning spingendolo a scrivere un saggio, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice che, nella traduzione di Paolo Falcone, l’editore Laterza si accinge ora a pubblicare in Italia. «Se Becker era sfuggito alla giustizia tedesca» , scrive Browning, «sentivo che almeno meritava di finire nell’inferno degli storici» . Ma lungo il cammino della sua ricerca, l’autore ha scoperchiato un vaso che porta allo scoperto problemi, se è possibile, maggiori di quelli provocati dalla sentenza del ’ 72. Diciamo subito che il suo libro non è né revisionista né tanto meno negazionista. Però analizza le testimonianze di 292 sopravvissuti, rese tra il 1945 e il 2008, mettendone in evidenza anche rimozioni e contraddizioni. Per giungere a una conclusione che inchioda sì le croci uncinate a terribili responsabilità, ma ha il coraggio di soffermarsi anche su alcuni conti che non tornano nel ricordo delle vittime. Questo libro assomiglia per certi versi allo straordinario I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne (Mondadori), in cui Jan Gross rivelava che ad uccidere i mille e seicento israeliti (i sopravvissuti furono solo sette!) di Jedwabne, un villaggio della Polonia nordorientale, non erano stati i tedeschi, ma esclusivamente i loro «vicini di casa» polacchi. «È impossibile costruire un sicuro senso della nostra autonomia nazionale sulla base di menzogne» , aveva spiegato Gross. «Da parte mia», » , aggiunge Browning, «ritengo che non possiamo sorvolare su queste problematiche solo perché abbiamo delle remore a usare le testimonianze oculari dei sopravvissuti» . Quali problematiche? E che genere di remore? I problemi sono quelli derivanti da alcune contraddizioni della memoria. Ad esempio c’è la questione dei ricordi rimossi. «Sono certo che molti sopravvissuti dell’Olocausto» , afferma Browning, «hanno rimosso — hanno dovuto rimuovere— ricordi traumatici e potenzialmente demoralizzanti» , che all’epoca avrebbero reso loro la vita ancor più difficile e in seguito non sono mai stati recuperati. Si sta parlando dei «dolorosi segreti» : il furto di un tozzo di pane a un compagno di prigionia, l’abbandono di un membro della propria famiglia o di un amico, l’euforia che prendeva quando ci si salvava perché «qualcun altro» veniva portato al macello. Cose comprensibili, più che comprensibili, ma che generavano risentimenti, mai del tutto scomparsi. Di qui le remore. C’è una sorta di tacito consenso per cui questi ricordi di eventi e comportamenti, che potrebbero non essere compresi da chi non ha vissuto in quei gironi infernali, non vanno divulgati; anche perché il semplice raccontarli potrebbe risultare imbarazzante e doloroso per alcuni membri della comunità. E in alcuni casi ci costringe a rivedere il reale andamento dei fatti. Ma se addirittura la Corte suprema israeliana, sulla base di una più attenta rivisitazione delle testimonianze dei sopravvissuti di Treblinka, ha avuto il coraggio di rovesciare la sentenza di condanna di John Demjanjuk, presunto «Ivan il terribile» del campo di Sobibor, è giusto che chi si occupa di quel lontano passato, quando è il caso, faccia lo stesso. Senza voler eguagliare il giudice di Amburgo che assolse Becker, conclude Browning, lo storico ha il dovere di «concedere» che l’utilizzo di quelle testimonianze sui campi di lavoro e quelli di sterminio «comporta seri problemi» . I ricordi della vita della comunità ebraica di Wierzbnik-Starachowice prima della guerra sono già contraddittori. Alcuni hanno memoria di un’intensa vita religiosa e associativa, altri no. Alcuni serbano il ricordo di una forte presenza del sionismo, altri no. Alcuni riferiscono che nel settembre del ’ 39, allo scoppio del conflitto, molti avrebbero voluto trasferirsi nella zona occupata dai sovietici, altri lo negano sostenendo che in quell’area era ancora vivo il ricordo della guerra precedente, quando antisemiti erano i russi, mentre i tedeschi erano «amici» . Cosa c’è di interessante in questi contrasti? Che portano in primo piano il tema della sottovalutazione, in una parte consistente delle comunità ebraiche, del pericolo rappresentato dal nazismo. Circostanza ancor oggi difficile da accettare per chi, proprio per aver non correttamente valutato i rischi, in quell’immane tragedia avrebbe poi perso gran parte della propria famiglia. Ma questo non è niente. C’è, prima delle deportazioni, il ruolo degli Judenrat, i consigli composti da ebrei a cui i nazisti affidarono il compito di amministrare le comunità israelitiche. Gran parte di questi consigli «si poneva un duplice obiettivo: accontentare le richieste dei tedeschi per impedire che le comunità subissero gravi rappresaglie ed escogitare strategie di mitigazione e di sopravvivenza» . In alcuni di essi «emersero personalità con un atteggiamento dominante verso gli ebrei e compiacente verso i tedeschi» . Gli esempi più famosi di «ebrei che abbracciarono zelantemente il principio nazista di dominio» furono quelli di Moshe Merin dell’Alta Slesia orientale e di Chaim Rumkowski di Lodz. Ma ci furono anche casi diversi, con qualche episodio di autentico eroismo, ad esempio quello di Froyim Szachter, capo dello Judenrat di Bodzentyn. Quando i tedeschi gli chiesero informazioni su presunti borsaneristi, lui mise in guardia uno dei sospettati, che riuscì a fuggire. Per questo motivo fu arrestato e trasferito prima a Kielce poi ad Auschwitz, dove trovò la morte. I nazisti fecero di tutto per mettere gli abitanti della Polonia contro gli ebrei. Nel ’ 41, in seguito a un agguato della resistenza polacca contro militari tedeschi, Becker dispose, come rappresaglia, un’impiccagione pubblica di cittadini presi a caso. Le vittime, tra cui alcune donne e almeno una bambina, vennero portate al mercato, costrette a salire su degli sgabelli e a infilare la testa nei cappi. A eseguire l’impiccagione furono obbligati alcuni giovani ebrei, a volto coperto, nel ruolo di boia. La polizia ebraica ebbe il compito di sovrintendere alla regolarità delle esecuzioni. In se- guito fu fatta trapelare l’identità dei «macellai ebrei» . Da quel momento persino i parenti ebbero paura di farsi vedere in loro compagnia per timore di ritorsioni. E quella non fu l’unica volta in cui gli israeliti furono trasformati in carnefici. Un ebreo sopravvissuto, Peretz Cymerman, dopo la guerra ha provato a togliersi il peso di quell’atto, che pure non poteva in alcun modo essergli imputato, raccontando che gli impiccati erano membri dell’Armia Krajowa, un movimento nazionalista decisamente antisemita, responsabile dell’uccisione di numerosi ebrei nascosti: «Sapevo di impiccare persone che se lo meritavano» , si giustificò. Ma lo storico ha accertato che gli omicidi di ebrei da parte dell’Armia Krajowa furono in ogni caso successivi al 1941. Il 1941 è un anno cruciale. Il 22 giugno l’esercito tedesco lancia l’offensiva contro l’Unione Sovietica, l’Operazione Barbarossa, e inizia lo sterminio sistematico di tutti gli ebrei delle zone conquistate. Nel marzo del 1942 prenderà il via la politica di uccisione di tutti gli israeliti, la «Soluzione finale» . A questo punto, nota lo storico, «è assai probabile che coloro che giudicarono le intenzioni dei tedeschi in maniera più pessimistica siano sopravvissuti in numero molto maggiore rispetto a coloro che le negarono aggrappandosi a speranze poco realistiche» . Dal che si deduce che la memoria è monopolizzata da quelli che capirono prima degli altri e si comportarono di conseguenza. Il 27 ottobre del ’ 42 fu il giorno dell’Aktion, cioè la liquidazione del ghetto e la distruzione della comunità ebraica di Wierzbnik. Vecchi e disabili furono uccisi sul posto, gli altri finirono nel campo di lavoro. Grazie al corruttibile Leopold Rudolf Schwertner, responsabile del personale non tedesco nelle industrie di Starachowice, molti ebrei riuscirono a comprare la loro «schiavitù» , cioè l’autorizzazione a lavorare — ovviamente senza essere retribuiti — nelle fabbriche fuori dal lager. Questo genere di operai era proprietà delle SS, che li noleggiavano quotidianamente agli imprenditori. Ma per gli ebrei questi «permessi» erano l’unica occasione per salvarsi dai campi di sterminio. Quanto al campo, il responsabile della polizia ebraica era Jeremiah Wilczek. I giudizi su di lui sono tutti negativi, qualcuno definisce la sua polizia «peggiore di quella dei tedeschi» . Suo figlio Abraham è accusato anche di aver segnalato ai nazisti quali suoi correligionari avrebbero dovuto picchiare per ottenere le informazioni che cercavano. Secondo qualche testimone, però, in un secondo tempo Abraham guidò un tentativo di resistenza nel campo e questo lo riscattò. Ma nessuno ha riabilitato suo padre che, quando il campo di Starachowice fu contagiato da un’epidemia di tifo, indicava ai nazisti chi sospettava essere febbricitante, candidandolo così all’esecuzione sommaria. Il tifo produsse nel campo un clima di terrore e provocò un’ecatombe di malati (o di presunti tali che furono uccisi per paura del contagio) decimando la forza lavoro. Il resto lo fece l’odio intestino che si produsse all’interno della comunità. «Il sistema dei campi» , osserva Browning, «era progettato non solo per dividere i prigionieri, ma anche per metterli uno contro l’altro in una lotta darwiniana per la sopravvivenza; numerosi resoconti di sopravvissuti confermano la logica apparentemente inesorabile di gioco a somma zero, in cui un prigioniero otteneva un guadagno solo a discapito di un altro prigioniero» . Poi, nella primavera del ’ 43, la situazione migliorò. Il nuovo responsabile della sicurezza del campo, Kurt Otto Baumgarten, assieme al suo superiore, Walter Kolditz succeduto all’efferato Willi Althoff, capì che «negoziando ed estorcendo denaro agli operai ebrei, piuttosto che ammazzandoli, poteva incrementare la produzione della fabbrica e arricchirsi» . Himmler era contrario alla pratica dei campi di lavoro forzato ebraici, ma, dal momento che il tasso di assenteismo tra gli operai ebrei era nettamente inferiore rispetto a quello degli operai polacchi e quindi la loro percentuale di produzione era di molto superiore, l’autorità nazista in loco concesse la prosecuzione di quell’attività. Gli ebrei temevano più di ogni altra cosa di finire nella lista degli «inadatti al lavoro» , per le conseguenze letali di quel genere di selezione. E quindi facevano l’impossibile per lavorare sempre di più e sempre meglio. Quando le donne ebree sostituirono le operaie polacche nel settore in cui si producevano detonatori per bombe, la quota giornaliera venne immediatamente raddoppiata da 250 a 500. Gli ebrei avevano comprato la loro schiavitù con l’acquisto dei permessi di lavoro e, per salvare la vita, fornirono manodopera indispensabile per lo sforzo bellico, «prolungando in questo modo la dominazione tedesca» . Le guardie ucraine, nonostante tra loro vi fosse un alto tasso di antisemitismo, dietro compenso consentivano ai prigionieri di uscire di nascosto dal campo, per recuperare i loro soldi e gioielli dai polacchi a cui li avevano affidati alla vigilia della deportazione. E i polacchi in quel momento quasi sempre si comportarono correttamente, a differenza di quel che avrebbero fatto nel dopoguerra, allorché rifiutarono di riconsegnare agli ebrei i loro beni. In quel frangente comunque nel campo poté entrare del denaro. E il denaro creò piccoli privilegi, talvolta fu utile per salvare dei bambini. Ma, in conseguenza di ciò, provocò anche risentimento: chi perse qualche congiunto covò rabbia nei confronti di quelli che, corrompendo, si erano salvati. Si creò la categoria dei Prominenten, cioè di quegli ebrei che occupavano posizioni di una qualche influenza, a cui in più di un caso si concedevano le donne in cerca di protezione e di aiuto. Nei primi mesi del ’ 44 Kolditz fu sostituito alla guida del campo da Willi Schroth, che— sempre facendosi pagare — consentì a nascondere i bambini. Ma tutto cominciò a cambiare quando nell’aprile del ’ 44 giunse al campo un nutrito gruppo di ebrei provenienti da Lublino, i quali «rimasero sbalorditi» che esistesse un posto come quello in cui famiglie ebree— uomini, donne e bambini — vivevano ancora insieme. I lublinesi denunciarono quasi subito all’interno della comunità dei reclusi quel clima di corruzione. Contemporaneamente i partigiani iniziarono a sferrare attacchi sempre più audaci alle guardie ucraine che accompagnavano i prigionieri al lavoro, non già per liberarli ma per impossessarsi delle armi. È l’inizio della fine. Nel luglio del 1944 le truppe dell’Armata Rossa oltrepassano il confine polacco. E viene il momento della chiusura del campo di Starachowiche (anche se i sovietici resteranno bloccati sei mesi sulle rive della Vistola e libereranno la zona solo nel gennaio del 1945). Gli oltre mille prigionieri vengono trasferiti, lungo un viaggio di 220 chilometri, ad Auschwitz Birkenau. La disposizione nei vagoni è opera di quel Becker di cui si è detto all’inizio, che mette gli ebrei «importanti» in un carro speciale. Nel corso del viaggio diciotto di quei Prominenten, tra i quali Wilczek, perdono la vita: per la mancanza d’aria, ufficialmente; ma secondo alcune (molte) testimonianze perché uccisi dai lublinesi. Una vendetta terribile. Giunti a Birkenau, anche lì i sopravvissuti trovano reclusi che si informano (per «regolare i conti» ) delle circostanze in cui alcuni dei nuovi arrivati erano stati dei privilegiati. Altre vendette. E qui la memoria si confonde, nel senso che alcuni di loro ricordano cose che non sono accadute, probabilmente per cancellarne altre molto dolorose. «L’incorporazione a posteriori di immagini ampiamente diffuse» , sostiene Browning, «contribuì forse a creare ricordi nitidi di eventi che in realtà non si verificarono» . Sono i capitoli più delicati del libro, quelli in cui l’autore si misura coraggiosamente con alcune questioni sollevate dalla letteratura negazionista. Ad Auschwitz quel che resta di quella comunità sprofonda nel baratro dell’Olocausto. Ma non finisce qui. I pochi evasi devono evitare di imbattersi nei partigiani polacchi dell’Armia Krajowa, che li respingono o, nel caso finiscano a contatto con alcune unità più radicali, li deruba e li uccide su due piedi. E quando la Polonia viene liberata, di ebrei continuano ad esserne uccisi a centinaia (valga per tutti il pogrom di Kielce del luglio 1946). Li si accusa, adesso, di essere complici dei comunisti. «Le sofferenze patite dagli ebrei durante l’Olocausto minacciavano di oscurare la rivendicazione della Polonia di una doppia vittimizzazione per mano sia di Hitler che di Stalin» , osserva Browning. Il ritorno dei sopravvissuti è avvertito come una insidia dai nuovi proprietari: «Il rifiuto di restituire i beni degli ebrei, dettato dalla semplice avidità, viene legittimato come un atto di patriottismo e di resistenza anticomunista» . I processi agli aguzzini dei Lager hanno poi dell’incredibile e le condanne sono per lo più incredibilmente miti. L’autore scopre che il passato del giudice Wolf Dietrich Ehrhardt, che presiede al processo Becker, non è affatto immacolato come questi lascia credere. E spiega altresì che le testimonianze degli ebrei risultano contraddittorie a causa del peso di quel che è stato scritto lungo tutto il libro. Il fatto è che «l’Olocausto nell’Europa dell’Est non può essere inteso semplicemente come un’aggressione dei tedeschi nei confronti degli ebrei, con il resto della popolazione considerata alla stregua di spettatori» . E noi oggi «non abbiamo il diritto di dare giudizi morali superficiali» , dal momento che in quei campi «il normale mondo morale venne completamente stravolto, in quanto l’assioma fondamentale, "non fare del male", spesso perse di senso» . Il potere nazista «costrinse gli ebrei a un gioco a somma zero in cui ogni prigioniero aveva un ruolo attivo o qualche scelta, ma tutte le scelte avevano conseguenze negative per molti e nessuna scelta garantiva la salvezza» . Se aiutavi qualcuno, di solito era a scapito di qualcun altro. Un mondo, come ha detto Lawrence Langer, di «scelte senza scelta» . Browning riferisce la testimonianza di un sopravvissuto di Starachowice che ancora oggi non riesce a perdonare un suo correligionario di non aver impedito che fosse mandata a morte la sua sorellina. L’uomo a cui non concedeva il perdono era un agente della polizia ebraica, che era cresciuto nella sua stessa strada a Wierzbnik ed era stato da bambino suo compagno di giochi. Secondo lui l’agente di polizia del campo avrebbe potuto salvare la sua giovanissima sorella, dal momento che «c’era un mucchio di gente di fuori che avrebbe potuto mandare al suo posto» . L’agente ebreo è ai suoi occhi ancora oggi quasi più «responsabile» dei nazisti che gli uccisero la sorella. Ecco per quali vie il peso della memoria si è ritorto contro le vittime. Vanificando i processi del dopoguerra contro i carnefici. E giungendo perfino a confondere le carte attraverso le quali si fa la storia. Solo adesso si comincia a dipanare quei nodi e sono benvenuti libri come quello di Browning, che avviano questa fondamentale operazione.

Corriere della Sera 11.1.11
Quell’avventuriero all’inferno: un viaggio al termine dell’abisso
Una paura che nasce da spettacoli mostruosi. Come Nembrot, gigante di 28 metri
di Giorgio De Rienzo


Q uando Dante e Virgilio passano dall’ottavo cerchio dei fraudolenti al nono dei traditori, trovano il pozzo dei giganti. I giganti sporgono dal pozzo, piantano i piedi sul fondo dell’inferno. Ecco Nembrot: dalla cinta in su e «dal loco in giù dov’omo affibbia ’ l manto» , conta «trenta gran palmi» . Appare Anteo: esce dalla roccia con il solo busto, «sanza la testa» , per «ben cinque alle» . Alcuni studiosi si sono preoccupati subito di misurare questi giganti: 25 (o 28) metri sarebbe alto Nembrot, sei o sette Anteo. Ma non è questa l’unica volta in cui Dante dà misure precise. Nel Canto XXX, mastro Adamo si dispera per la condanna all’immobilità, perché non può andare in cerca d’uno dei suoi corruttori. Altrimenti — dice — lo avrebbe trovato di sicuro, «con tutto ch’ella volge undici miglia» . Nel Canto XXIX, nella nona bolgia, Dante indugia. Perché, domanda Virgilio, continui a trattener lo sguardo fra l’ombre «triste smozzicate» ? E aggiunge: «Pensa, se tu annoverar le credi, /che miglia ventidue la valle volge» . C’è chi, considerando queste misure di due successive bolge, una il doppio dell’altra, ha tentato di dare precise dimensioni all’intero inferno. Ma già Galileo, dopo aver provato una misurazione, ne aveva concluso che l’inferno dantesco fosse di fatto immisurabile, perché «nelle sue tenebre offuscato» . Le profondità, le lontananze, le immensità di questo spazio si valutano più che sui numeri sul ritmo dei versi, sugli echi delle parole. Dante e Virgilio sono sull’argine di Flegetonte, camminano al riparo dalla pioggia di fuoco, che è martirio orrendo ai sodomiti. Giungono a un punto, da cui si sente il «rimbombo» dell’acqua che precipita dal settimo all’ottavo cerchio. È un rumore sordo, ancora indistinto qui, per la lontananza: poco più di un ronzio simile a quello che fanno le api intorno agli alveari. Si frammette un indugio narrativo. Sullo sfondo di questo «rimbombo» si leva il «gridare» di Iacopo Rusticucci, il quale parla a nome di tre fiorentini illustri e chiede ansioso notizie sulla patria. Ma dopo l’indugio Dante e Virgilio riprendono il cammino: e torna il suono dell’acqua. Ora è più forte, tale da sovrastare le voci dei due poeti. Poi lo scroscio del precipitare in basso del fiume diverrà insostenibile. Ebbene, attraverso il motivo sonoro prende immagine, nel Canto XVI, la profondità tremenda dello spazio infernale. E questa sensazione di abisso che incombe, senza venire mai esplicitamente espressa, questo senso di un imminente precipitare in basso, fanno passare in secondo ordine tutto il resto. Lo spazio dell’inferno dantesco propone spesso grandiose scenografie. Si pensi solo, nella nona bolgia, alla macabra sfilata delle mutilazioni di coloro che aizzarono discordie civili e religiose. O si pensi alla pietosa scena d’immenso ospedale della decima bolgia, con la moltitudine sterminata dei corpi languenti dalle membra marce, cascanti e fetide, con i mucchi di figure doloranti e sfinite. Più spaventoso tuttavia è il paesaggio infernale nelle sue più stilizzate rappresentazioni e nelle improvvise cancellazioni. Viene in mente il quadro spettrale della selva dei suicidi, come quello subito seguente della «landa desolata» dove giacciono i bestemmiatori. Ma viene in mente soprattutto il paesaggio del terzo cerchio, annullato nel quadro di un deserto popolato soltanto da suoni disumani, cancellato dallo spropositato rilievo che assume Cerbero. Ho indugiato sullo spazio, con lo scopo di dare figura all’aspetto più essenziale della lettura di Dante, di sottolineare cioè il valore di viaggio e d’avventura dell’ «Inferno» : di seguire, in altre parole, il suo filo narrativo. Perché attraverso questo viaggio si narra l’avventura morale di Dante: si racconta cioè il suo spavento d’anima. Dante è visibilmente personaggio della Commedia. Ne abbiamo un ritratto indimenticabile, nel II Canto. È l’immagine di un uomo che, mentre si accinge all’ «alto passo» , avverte un’assoluta solitudine: si scopre «sol uno» , mentre «lo giorno se n’andava, e l’aere bruno /toglieva li animai che sono in terra /da le fatiche loro» . Ed è l’immagine insieme di un uomo che precipita nel dubbio, che «disvuol ciò che volle» , per poi precipitare in un dibattersi tra «virtù» e «viltade» . Assisteremo, lungo i trentaquattro canti, alle metamorfosi di questo personaggio. Ne conosceremo la faziosità e la durezza intransigente, con tutto l’ingombro di un «io» che si scatena nelle invettive politiche. Ne conosceremo la gracilità e la paura dell’ «error» , i dubbi e le compiacenze di poeta. Incontreremo il silenzio di Dante, sopraffatto dallo smarrimento nella selva dei suicidi, e la pietà di fronte allo scempio dell’umanità voluta per gl’indovini dalla giustizia divina. Tanto protagonismo fa parte del personaggio Dante nella Commedia, ma non ne esaurisce il ritratto. Manca lo spavento d’anima di fronte al peccato del poeta. La paura di Dante, quella rappresentata, è quasi sempre di maniera. Basta pensare all’episodio di Gerione del Canto XVII. Virgilio, già in groppa al «fiero animale» , esorta Dante a essere «forte e ardito» . Ma Dante trema e si fa pallido come avesse la febbre quartana e una volta in groppa al mostro infantilmente sente il bisogno dell’abbraccio di Virgilio. Bisogna fare attenzione. Questa paura è una semplice nozione: non determina angoscia. La paura nell’ «Inferno» sta infatti nell’oggetto che la determina, non nel soggetto che la prova. Sta allora qui nello spettacolo della animalità mostruosa di Gerione, sta nell’orrore del vuoto, del buio e dell’assenza: nel farsi «spenta ogne veduta» . È una situazione di alta ricorrenza nell’ «Inferno» . La paura del poeta si affida all’oggettività delle realtà descritte, soprattutto quando non si crea una comunicazione di sentimenti forti tra lui e altri personaggi. La nota comune è quella di una negazione totale di umanità. Nell’insistenza su una figurazione totalmente negativa c’è appunto lo spavento d’anima di Dante: insieme con la sua indignazione morale.

Corriere della Sera 11.1.11
Una paura che nasce da spettacoli mostruosi. Come Nembrot, gigante di 28 metri
Le ombre di Paolo e Francesca tormentate da una bufera piacevole
Il vento che li travolge non è molto diverso dalla brezza voluttuosa della passione
di Paola Capriolo


«L’ inferno sono gli altri» , recita una celebre frase di Sartre; ma Dante sembra avere di quel luogo una concezione opposta. L’inferno per lui è essenzialmente solitudine: la solitudine metafisica dell’io confinato in se stesso, escluso per sempre da qualsiasi comunione con la divinità, e anche quella concreta, quasi fisica, di chi si trova a sostenere nel più assoluto isolamento, pur tra la folla dei compagni di pena, il tormento della dannazione, la coscienza della colpa, il ricordo del proprio mondo perduto. Solitarie e isolate sono persino le ombre dei «peccatori carnali» , o almeno di quelli tra loro che persero la vita a causa della propria passione: nel vento tempestoso che li trascina, procedono in fila indiana come le gru Didone, abbandonata una volta di più dal suo Enea, Elena e Paride, a rispettosa distanza l’una dall’altro, Tristano senza Isotta, Semiramide e Cleopatra, non più scortate dalla folta schiera degli amanti di cui fecero collezione sulla terra... In questo lungo e sconsolato corteo, soltanto due ombre procedono «insieme» , affiancate, o forse ancora più unite, confuse nello stesso turbine che, invece di travolgerle brutalmente, sembra sospingerle con speciale leggerezza. Non c’è da stupirsi che Dante, colpito dalla vistosa eccezione che rappresentano, voglia parlare proprio con quei due e li chiami a sé sovrastando con la voce il rombo della bufera. Loro obbediscono, o piuttosto, acconsentono: non per quella smania disperata di farsi ascoltare, di raccontare la propria storia, di avere notizie; insomma, di comunicare ancora una volta con il mondo dei vivi, che domina tanti dei dannati incontrati dal poeta durante il suo pellegrinaggio all’inferno, ma per gentilezza, quasi per condiscendenza. Quanto a loro, non hanno bisogno di nessuno, nemmeno della testimonianza che Dante potrà recare quassù appassionando tutta la posterità al loro dolce e tragico destino. Sono troppo presi l’uno dall’altra per poter curarsi di queste cose; presi come lo furono in vita, quando leggevano insieme la storia di Lancillotto e Ginevra e tra loro si intrecciava un fitto gioco di sguardi, e i pensieri, i sentimenti, i respiri, segretamente si corrispondevano in modo sempre più preciso e simmetrico, come se Paolo fosse diventato lo specchio di Francesca, Francesca lo specchio di Paolo. Questa corrispondenza, questa simmetria, sono governate da una potenza chiamata amore: ben diversa, parrebbe, da quel lussurioso «talento» che finisce col soverchiare la ragione di personaggi come Cleopatra e Semiramide, eppure non meno pericolosa. Francesca ne pronuncia il nome tre volte, ed è come se volesse ripeterlo all’infinito. L’amore ci afferra fulmineamente, di sorpresa, purché il nostro cuore sia abbastanza nobile da poterlo accogliere; l’amore si propaga dall’io al tu con la violenza contagiosa di un incendio, impossibile resistere, impossibile non contraccambiarlo; l’amore è aspirazione all’unità assoluta, quell’unità che Paolo e Francesca hanno trovato (ma altri, come il Tristano e l’Isotta wagneriani, cercheranno consapevolmente) in una morte comune. La tradizione cortese, certo; i poeti provenzali, il Dolce stil novo. Francesca, al pari di Dante, ha ben presente tutto questo quando parla d’amore nei termini più sottili e raffinati che la cultura dell’epoca le mette a disposizione; eppure le sue parole dicono altro, sono pervase, sillaba dopo sillaba, dal soffio travolgente di quel vento che spira nelle regioni dell’inferno per punire, sì, gli amanti, ma forse anche per offrire loro l’immagine più piena e fedele della loro passione. Ne tremano tutte, come Paolo tremava quando baciò per la prima volta la bocca di lei. Anche l’uomo vivo che ora l’ascolta ha conosciuto questo tremito, e ne ha conosciuto e creato sino a raggiungere la perfezione il riflesso letterario, prima che Beatrice si trasumanasse nella mistica figura dalla veste di fiamma, adorna delle tre virtù teologali, pronta a comunicare al poeta un più alto e sacro tremore quando l’accoglierà nel giardino dell’Eden per fargli da guida su per le sfere celesti, e prima che Amore diventasse per lui tutt’altra cosa, una faccenda non più tra l’io e il tu, ma tra l’uomo e Dio. È l’amore così inteso a tenere insieme il mondo è l’amore a muovere il sole e le altre stelle; ma se questa è la conclusione della Divina Commedia, quasi al suo inizio troviamo Paolo e Francesca con i loro trasalimenti carnali, con il loro aggrapparsi ostinatamente, nel cuore dell’inferno, alla terrena speranza di non essere mai separati l’uno dall’altra. Il più umano e comprensibile dei desideri, e tuttavia lontanissimo sia dalla cosmologia scolastica con la sua armonia di sfere «amorosamente» collegate dal filo della trascendenza divina, sia dall’idea platonica (ma anche stilnovistica) dell’amore come forma di perfezionamento spirituale. Più vicino, se mai, alla visione empedoclea evocata nel dodicesimo Canto dell’ «Inferno» che fa dell’amore una potenza non ordinatrice, ma distruttiva: un’attrazione incoercibile che spinge gli elementi a mescolarsi, annullando i confini tra gli esseri sino a ritrasformare il mondo nel caos da cui era nato. Di nuovo, dietro Paolo e Francesca sembra di veder profilarsi l’ombra di Isotta e di Tristano, con il loro appassionato e annichilente tentativo di superare ogni distinzione tra l’io e il tu. «Una morte» : appunto. E se possiamo ravvisare una sorta di segreto compenso nella pena inflitta agli adulteri danteschi, è forse perché la rapinosa bufera che tormenta i loro corpi non ci appare del tutto dissimile, pur nella sua crudeltà, da quell’onda di brezza voluttuosa, da quel profondo e onniavvolgente respiro del tutto, in cui Isotta si immerge per raggiungere nel nulla il suo Tristano. Perché, altrimenti, quei due sarebbero così «leggieri» ? Beatamente leggeri, verrebbe da dire, a dispetto di tutte le punizioni infernali, come una coppia di colombe che si lasci trasportare dolcemente dall’aria verso il proprio nido.

Corriere della Sera 11.1.11
Quel male oscuro che toglie fame e sete
di Dacia Maraini


V edere come si può ridurre una ragazza affetta da anoressia stringe il cuore. Io che ho vissuto in un campo di concentramento per due anni patendo la fame piu nera, faccio fatica a pensare che un tale digiuno crudele possa risultare da un atto di volontà, in tempi di abbondanza. Eppure queste ragazze— e pare che il fenomeno sia in costante aumento, prima al 90%femminile, ora anche in parte maschile — sono tenaci e determinate nel privarsi di cibo. Ma il corpo, quando non viene nutrito a sufficienza, prende a mangiare se stesso. Quando non si ingeriscono per mesi, per anni, proteine e vitamine, la pelle comincia a seccare, i muscoli a contrarsi; i denti tendono a cariarsi; le ossa perdono consistenza; i capelli tendono a cadere; il ciclo mestruale nelle donne sparisce; il desiderio sessuale entra in letargo. Rimane solo, sfolgorante e duro come il diamante, un progetto di volontà astratta e furente. Abbiamo visto le immagini terribili della bella Isabelle Caro, coraggiosamente esposta agli scatti di Toscani per una campagna contro l’anoressia, l’abbiamo sentita raccontare con voce sempre dolce e padrona di sé, la sua voglia di vivere. Ma poi abbiamo saputo della sua morte. Il luogo comune vuole che queste ragazze siano indotte al dimagrimento radicale per inseguire una idea di dieta dettata dalla moda giovanile. Ma per l’appunto, si tratta di un luogo comune, superficiale e approssimativo come tutti i luoghi comuni. Non ci si addentra con tanta determinazione in un processo di regressione e di morte, per delle ragioni così futili. Il male sta altrove ed è evidentemente molto più grave e profondo. Studiando la vita di Santa Caterina da Siena, su cui mi è capitato di scrivere un testo teatrale, ho ritrovato nella giovanissima mistica le stesse pratiche: rigetto del cibo e uso del vomito quando il cibo ingerito per dovere era indesiderato. In tempi di intensa religiosità, le ragioni del digiuno venivano giustificate con il bisogno di distaccarsi dagli appetiti terreni, il bisogno di raggiungere la perfezione di un corpo che fa a meno del cibo, fa a meno del sesso, fa a meno di qualsiasi appetito che non sia quello di Dio. Ma le parole chiave sono ancora quelle: purezza, volontà, amore astratto per un corpo disincarnato. Il che poi vuol dire rifiuto della vita e delle sue dolcezze. Solo la morte può rendere il corpo puro e assoluto, libero da ogni bisogno. «Le mie braccia diventano leggere — dice una anoressica pelle e ossa— mi sembra di avere le ali» . Anche Caterina da Siena progettava di volare verso il suo sposo. E faceva sì che il proprio giovane corpo diventasse ogni giorno più leggero, ogni giorno più concavo e privo di necessità. Non voglio sostituire i giudizi degli esperti, ma rischio troppo se azzardo un parallelo? Come Caterina da Siena perseguiva la purezza, l’ascesi e l’amore tenerissimo per un suo sposo segreto che l’attendeva in cielo con le braccia aperte, non è possibile che queste ragazze esprimano con il loro rifiuto drastico del cibo e del sesso una sete drammatica e prepotente di spiritualità che i nostri tempi non sanno più dare?

lunedì 10 gennaio 2011

l'Unità 10.1.11
Paradosso Democratico
di Francesco Piccolo


Il Pd ha una vocazione maggioritaria. Vale a dire che è nato per governare. È moderato, responsabile, alla ricerca di soluzioni concrete. Stando all’opposizione, tutte queste caratteristiche lo debilitano. Altri partiti più piccoli, sono nati per non governare: quelli più a sinistra per opporsi su tutto, quelli più al centro per fare l’ago della bilancia per tutti. Stando all’opposizione, tutte queste caratteristiche li rafforzano. Qui sta il punto non risolto del Pd: è molte volte più grande degli altri; quindi avrebbe il compito di scegliere un candidato, fare un progetto di governo e poi vedere se gli altri aderiscono (oppure una nuova proposta di legge elettorale, e poi vedere se altri sono d’accordo). Ma gli altri hanno dalla loro che se le cose rimangono così, è meglio. E quindi possono ottenere molto di più delle forze che rappresentano. Questo è il motivo principale per cui il Pd nei fatti non fa proposte concrete. Non può forzare, perché ogni volta che forza gli rispondono: no. Eppure, non c’è un altro modo di uscire dall’impasse che forzare i tempi e i modi. Non c’è altro modo che comportarsi da vero partito a vocazione maggioritaria. Se il Pd non può governare (subito) questo paese, si concentri a immaginare un modo per rappresentarne una parte viva e attraente. Altri pian piano si aggregheranno. E un giorno, forse, un progetto concreto della sua parte andrà al governo. E un altro giorno ancora, forse, lo realizzerà. Non è una scorciatoia. Ma non ci sono scorciatoie.

Corriere della Sera 10.1.11
Primarie sì, ma solo di partito Il Pd prova a uscire dall’angolo
Di Pietro: non facciamole. E si rompe l’asse con Vendola
di Maria Teresa Meli


ROMA— Si fa ma non si dice. Il Pd si appresta a mutare radicalmente la natura delle primarie per la scelta del candidato premier, Bersani si accinge a dare retta ai consigli di D'Alema, ma la versione ufficiale è rigorosamente un'altra, dal momento che elettori e militanti, alla sola ipotesi, si sono scatenati sul web. E potrebbero farlo di nuovo. Perciò nella dirigenza del partito si sta facendo strada l'idea di aggirare il problema in questo modo: indicendo le primarie nazionali, ma di partito, non di coalizione. Così si potrebbe spegnere la miccia Vendola senza provocare una nuova rivolta del «popolo» pd. Naturalmente niente di tutto ciò trapela nelle dichiarazioni dei dirigenti democratici. Il segretario continua a rinviare nel tempo la questione: «Prima si affrontano i problemi del Paese, poi si decidono gli schieramenti, quindi le leadership » . E il presidente del Copasir, sulle colonne del Riformista, osserva: «Smettiamo di parlare di procedure e persone. Io non sono contro le primarie. Ma questo strumento di democrazia e partecipazione rischia di essere svilito a metodo di resa dei conti tra apparati di partito. Se Sel vuole l'egemonia nel centrosinistra se la giochi alle elezioni, non con gli Orazi e i Curiazi» . Vendola, che è il vero bersaglio di questa offensiva del Partito democratico, continua a dire che «non si può cancellare il ricorso alle primarie» . Ma, sotto sotto, il presidente della Regione Puglia sa bene che il Pd tenterà in tutti i modi di evitare una sfida tra lui e il segretario, come ha confidato agli amici più stretti: «Hanno paura che alla fine la maggioranza del loro elettorato voti per me» . Perciò Vendola si è fatto prudente e diffidente. Dopo che Bersani gli aveva promesso che le primarie di coalizione si sarebbero fatte, il «governatore» della Puglia si era convinto che i giochi fossero chiusi: «Bersani è una persona perbene, non verrà meno alla parola data» , continuava a ripetere. Ora che invece ha capito che le primarie non sono più scontate Vendola è diventato più sospettoso. Per questa ragione l'intervista di Di Pietro al Riformista in cui il leader dell'Idv chiede di non fare le primarie lo ha messo in allarme. Tra il «governatore» della Puglia e l'ex magistrato c'era un tacito patto su questo tema, patto che invece, dopo questa sortita di Di Pietro, sembra essersi infranto. Per due motivi, a giudizio dei sostenitori di Vendola. Primo, perché l'ex magistrato teme che si candidi alle primarie anche il suo avversario interno, Luigi De Magistris. Secondo, perché ha paura che il Pd lo scarichi nel tentativo di agganciare l'Udc. Ma le primarie sembrano non avere vita facile neanche a livello amministrativo. E infatti nel Partito democratico sono già esplosi due casi. Il primo a Cosenza, dove il sindaco, Salvatore Perugini, ha appreso dai giornali che non sarebbe stato ricandidato, perché così aveva stabilito il Pd locale in una riunione alla quale non era stato invitato. Il fatto che le candidature vengano decise ancora nelle segrete stanze del partito ha indispettito non poco il sindaco di Cosenza, che ha mandato una lettera «riservata e personale» a Bersani, spiegandogli la situazione e sottolineando i rischi di un «Pd a vocazione minoritaria» . Il problema cosentino è reso ancor più complicato dal fatto che Perugini è un ex ppi, cioè è l'esponente di quell'area cattolica che sta vivendo con grande disagio la stagione del partito bersaniano. Il che significa che questo caso potrebbe finire per assumere una valenza nazionale: il sindaco di Cosenza nella sua missiva ha chiesto un incontro a Bersani e gli ex popolari sono sul piede di guerra. Poi c'è Torino, dove l'assessore alla casa e all'ambiente della giunta Chiamparino, Roberto Tricarico, ha annunciato di volersi presentare alle primarie raccogliendo le firme per la sua candidatura anche al di fuori degli iscritti al Pd. Ma il partito si è chiuso a riccio. Insomma, quello delle primarie, soprattutto in caso di elezioni in questa primavera, potrebbe diventare un tema deflagrante per il Partito democratico.

Corriere della Sera 10.1.11
Cgil in piazza con la Fiom «Ma non si può dire solo no»
Bombassei: dal Lingotto nessun ricatto, solo condizioni minime
di Francesca Basso


MILANO — Quando il leader della Fiom Maurizio Landini si è chiuso in riunione ieri con il numero uno della Cgil Susanna Camusso e le rispettive segreterie, per riemergere solo dopo oltre sei ore di discussione, certo non pensava che l’incontro già delicato si sarebbe ulteriormente complicato con il crescere della tensione a Torino. Il vertice, interrotto solo dal comunicato congiunto di secca condanna alle scritte contro Marchionne, si è chiuso all’insegna della moderazione. Landini ha assicurato: «Nessuna spaccatura tra Fiom e Cgil» , il confronto «continuerà» sulle iniziative da intraprendere in futuro. Da parte sua Camusso ha spiegato che «la Cgil è impegnata con la Fiom per la massima riuscita dello sciopero» generale dei metalmeccanici, indetto dalle tute blu contro la Fiat per il 28 gennaio. Insomma, il sindacato si è mostrato in sintonia, ma solo nella valutazione dell’accordo chiesto dal Lingotto: «Continuiamo a giudicarlo negativo — ha ribadito il segretario generale —. I lavoratori dovrebbero votare no» perché viola due principi, la libertà dei lavoratori di scioperare e di organizzarsi sindacalmente. Su come gestire il post-referendum le divergenze rimangono. Al centro del vertice in molti si attendevano la richiesta della Cgil di una firma tecnica all’intesa in caso di vittoria dei «sì» al referendum. Ma Landini ha smorzato la questione, riconfermando tuttavia la posizione della Fiom: «L’eventuale firma tecnica — ha concluso— non è stata particolare oggetto della discussione, perché c’è stato un pronunciamento del comitato centrale della Fiom e per noi quell’accordo resta non firmabile» . Ci ha pensato il segretario generale Camusso a spuntare la polemica, indicando la via d’uscita senza cedere e facendo capire che non si può dire sempre solo no ritirandosi dal confronto: «Il tema non è mai stato una soluzione tecnica — ha detto— ma come garantire la libertà dei lavoratori di avere un sindacato e di eleggere i propri rappresentanti» . Per Camusso resta il problema che Fiat «continua a sostenere un piano industriale che non conosciamo sia per quanto riguarda gli investimenti che la certezza della permanenza in Italia» e agisce con il sostegno del governo che ha rivestito «il ruolo di tifoso e non di soggetto che si domanda che ruolo avere a sostegno dello sviluppo del Paese» . Ieri il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi è tornato sul referendum di giovedì e ha auspicato che «almeno la metà più uno aderisca all’accordo» perché si tratta di «un investimento importantissimo, per Torino, per il Piemonte, per l’Italia intera: consoliderebbe l’investimento nell’industria automobilistica e allo stesso tempo sarebbe garanzia di posti di lavoro e crescita dei salari» . Dello stesso parere è il vicepresidente di Confindustria Alberto Bombassei, che siede anche nel Cda di Fiat Industrial, ospite con Landini da Lucia Annunziata a «In 1/2 ora» : «Se fossero solo 2 miliardi su 20 — ha argomentato — non dovremmo buttare via neppure questi perché vorrebbe dire poter garantire posti di lavoro» . Quanto al voto «sotto ricatto» sostenuto da Landini, per Bombassei si tratta solo delle «condizioni minimali» per poter investire. La partita politica è ancora tutta aperta. Oggi Bersani vedrà Landini. D’Alema ieri aveva illustrato la posizione «netta» del Pd, fuori dalla contrapposizione Fiom-Fiat. E Vendola ha lanciato la sua provocazione: «Marchionne è disponibile a distribuire stock option fra gli operai di Pomigliano e Mirafiori?» .

Corriere della Sera 10.1.11
E nel reparto Carrozzerie più nessuno detta la linea
Si giocherà all'ultimo voto
di Marco Imarisio


Torino, I piemontesi fanno di testa loro. Lo diceva, sconsolato, il padre della Cgil Giuseppe Di Vittorio a metà degli anni 50, e da allora non è che il sentire comune all’interno del mondo sindacale sia molto cambiato. Se già Mirafiori è un’isola urbana da due milioni di metri quadrati, gli operai ne rappresentano un arcipelago a parte. Indecifrabile, imprevedibile nelle sue scelte. «Quel che succede là dentro lo sanno solo loro» dice Bruno Vitali, segretario torinese della Fim. «Anche per questo auspico prudenza nei pronostici» . E Roberto Di Maulo, suo corrispettivo Fismic, mette le mani ancora più avanti. «Il reparto Carrozzerie ha sempre detto no, la verità è che questo referendum si giocherà all’ultimo voto» . Domenica mattina, piazza Castello è come un palco di teatro al cambio di rappresentazione. Dopo l’Epifania e il sabato Fiom, con l’allestimento di un cartellone che raccoglie i messaggi di solidarietà firmati da artisti e intellettuali, oggi tocca a quelli del sì, un volantinaggio massiccio nel cuore della città. «Diamo un futuro ai nostri figli» , è lo slogan formato famiglia; «Mirafiori c’è per un futuro di lavoro» quello più ad effetto. Tra gli astanti si percepisce una palese tendenza al ribasso sull’esito della consultazione del 13 e 14 gennaio. L’unico che se la sente di ribadire la propria convinzione di un plebiscito a favore del sì da parte dei 5.500 addetti alle Carrozzerie è Maurizio Peverati, segretario provinciale Uilm, autore nei giorni scorsi della previsione su un 70-80 per cento dei consensi. «Andrà molto bene, ne sono certo, perché la gente prova grande timore per il proprio avvenire. Se vincessimo con pochi voti di scarto sarei molto deluso» . La mercurialità di Mirafiori e delle sue tute blu è scritta nella storia. Non sempre è stato il sindacato «rosso» a trarne benefici. La frase di Di Vittorio fu pronunciata nel 1955 in seguito alla più imprevista delle sconfitte, quando la Fiom venne battuta nelle elezioni della commissione interna Fiat, ed era dalla Prima guerra mondiale che non perdeva una consultazione. I 35 giorni del 1980, spesso paragonati all’odierna vertenza, furono scanditi dalla lotta radicale dei metalmeccanici di Mirafiori, che sposarono la linea della Fiom. Fu Liberato Norcia, operaio delle Carrozzerie iscritto alla Fim, a chiedere ad Enrico Berlinguer come si sarebbe comportato in ca- so di occupazione della fabbrica. E il pomeriggio del 15 ottobre 1980, al teatro Smeraldo, toccò a Giovanni Falcone, delegato delle Carrozzerie, recitare il de profundis per la classe operaia riconoscendo la portata di quella sconfitta. Ma da allora, ognuno per sé. Gli operai che restano, rispetto a trent’anni fa sono meno di un quinto, decidono a mani libere. Nel 2006 le Carrozzerie furono l’unico reparto di Mirafiori a bocciare il contratto nazionale di categoria, firmato anche dalla Fiom, che introdusse la flessibilità dell’orario in base ai picchi di produzione. L’anno seguente arrivò un altro no inatteso, quello all’accordo sul passaggio da 15 a 17 turni, firmato da tutte le sigle. Non andò meglio alla consultazione sulla riforma del Welfare, che alle Carrozzerie andò sotto in maniera pesante. Le percentuali quasi bulgare evocate in questi giorni si sono verificate solo in un paio di occasioni, ormai datate. Nel 1994 l’approvazione del turno di notte per la produzione della Punto raggiunse l’ 81%. L’accordo sullo straordinario festivo del 1997 raccolse il 74%dei sì, arrivati sulle ali degli incentivi alla rottamazione appena varati dal primo governo Prodi. Da quel giorno, gli operai di Mirafiori hanno votato altre 12 volte, con risultati sempre in equilibrio, spesso sorprendenti. Nessuno vuole metterci nome e cognome, ma i pronostici di entrambi gli schieramenti per questo referendum convergono su un 60-40%a favore del sì. «E sarà comunque un voto falsato dal ricatto della Fiat e dalla paura della crisi» dice Giorgio Airaudo, responsabile auto Fiom. L’aria di Torino è ben diversa da quella che si respira a Roma. A dimostrarlo c’è l’atteggiamento della Cgil piemontese, che appoggia tutte le iniziative di protesta, mostrando con la Fiom regionale una sintonia — anche nelle dichiarazioni, come quelle del segretario Alberto Tomasso: «L’accordo separato è un attacco di inaudita gravità ai principi democratici» — che invece non è rinvenibile nei rapporti tra la casa madre e i vertici nazionali dei metalmeccanici. Ma anche questa è una storia dalle radici locali, e alla scelta di appoggiare implicitamente il «no» non è estranea la percezione di un risultato tutt’altro che scontato. A Torino fanno come gli pare, alle Carrozzerie di Mirafiori e non solo.

Corriere della Sera 10.1.11
Una vera libertà contrattuale ha bisogno di una (buona) legge
di Pietro Ichino


Caro direttore, sulla questione della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro il governo ha assunto una posizione molto netta di rifiuto di qualsiasi intervento legislativo, motivandola con l’esigenza di «rispettare e promuovere la libertà di autodeterminazione contrattuale delle parti sociali» e l’autonomia del sistema delle relazioni industriali. Motivazione, questa, sicuramente condivisibile: non c’è dubbio che il first best sia un grande accordo interconfederale firmato da tutti i sindacati e le associazioni imprenditoriali sulle regole in materia di rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva, come quello che il ministro del Lavoro Giugni riuscì a promuovere diciotto anni fa. Il governo, però, sembra non chiedersi che cosa accadrà se— chiusa ormai la stagione del «protocollo Giugni» del 1993— sindacati e imprenditori non riusciranno a raggiungere un nuovo accordo. Ipotesi più che probabile, perché oggi l’ampia intesa tra di essi c’è soltanto sui criteri di misurazione della rappresentatività sindacale nei luoghi di lavoro, ma è lontanissima sulla questione cruciale, che è questa: la coalizione sindacale maggioritaria può negoziare al livello aziendale un accordo di contenuto difforme rispetto al contratto nazionale? Se sì, entro quali limiti e a quali condizioni? E se l’accordo contiene una clausola di tregua, l’impegno a non scioperare contro il contratto vale o no per tutti i dipendenti dell’azienda? La mancanza di una base di regole che diano risposte chiare a questi interrogativi è dannosa per tutti. Lo è per il sindacato minoritario che— come la Fiom alla Fiat — legittimamente ritiene di non dover firmare il contratto collettivo voluto dalla coalizione maggioritaria: con la norma oggi in vigore, quel sindacato perde il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda. Ma la mancanza di regole chiare su questa materia fa danno anche all’impresa e alla coalizione sindacale maggioritaria che il contratto lo firmano, perché le espone all’ostruzionismo della minoranza, esercitato sia con l’azione diretta (stante il potere, del quale oggi dispone chiunque, di proclamare scioperi contro il contratto anche il giorno dopo la sua stipulazione), sia con l’azione giudiziaria (perché non è chiaro quali siano i poteri negoziali della coalizione maggioritaria e i limiti di efficacia dell’ «accordo separato» ). Infine, la mancanza di una disciplina universalmente applicabile su questa materia oggi fa danno anche alla Confindustria, determinando un incentivo per le imprese a rifiutare o revocare l’iscrizione per sottrarsi all’applicazione dei contratti nazionali firmati dalla stessa Confindustria negli anni passati, e alle loro conseguenze in tema di diritti sindacali in azienda. Con il suo rifiuto di un intervento legislativo su questa materia, sia pure in via provvisoria e sussidiaria, il governo paradossalmente finisce per rilanciare il modello della conflittualità permanente Anni 70: la Fiom alla Fiat — come un qualsiasi comitato di base in qualsiasi altra azienda— rimarrà priva dei rappresentanti riconosciuti, ma conserverà intatta la possibilità di scatenare una guerriglia contro il contratto stipulato da altri, a colpi di scioperi e azioni giudiziarie (per le quali si stanno già scaldando i motori). È questo il motivo per cui anche la Cisl dovrebbe dismettere la propria tradizionale opposizione all’intervento legislativo: una norma di legge snella, che stabilisca con chiarezza i diritti di maggioranza e minoranza secondo un principio di democrazia sindacale, non ridurrebbe in alcun modo la libertà contrattuale che la stessa Cisl e la Uil hanno esercitato fino a oggi anche quando erano in minoranza, stipulando «accordi separati» contenenti soltanto aumenti retributivi (questi contratti non presentano alcun problema giuridico e continueranno a poter essere stipulati liberamente); ma consentirebbe l’esercizio della libertà contrattuale anche là dove essa oggi è ostacolata dall’assenza delle regole necessarie: cioè dove si negoziano piani industriali innovativi e sono in gioco modifiche rispetto al contratto nazionale in materia di organizzazione, estensione e distribuzione dei tempi di lavoro, inquadramento professionale, o struttura delle retribuzioni. La realtà è che— come anche i liberisti puri teorizzano— la libertà contrattuale non può essere esercitata senza un ordinamento che stabilisca e garantisca requisiti di validità ed effetti del contratto. Sul piano sindacale oggi questo ordinamento manca. Lasciare le cose come stanno non serve affatto a promuovere l’autonomia negoziale collettiva: al contrario, conserva in vita un insieme incoerente e lacunoso di vecchie norme legislative che è di ostacolo alla libertà di autodeterminazione contrattuale delle parti sociali. senatore del Pd


Corriere della Sera 10.1.11
Veronesi sul biotestamento «Meglio nessuna legge»
«Vogliono rendere obbligatoria la vita artificiale»
di  Mario Pappagallo


«Meglio nessuna legge. Ora come ora, applicando la Convenzione di Oviedo firmata anche dall’Italia, il testamento biologico troverebbe comunque il suo rispetto e la sua applicazione. Basta un notaio. Con la legge in discussione alla Camera, invece, la vita artificiale diventa un obbligo. Un obbligo di Stato contro diritti quali la libera scelta terapeutica, l’autodeterminazione, la responsabilità della propria vita» . Umberto Veronesi, senatore, medico oncologo, ex ministro della Sanità, rilancia la sua battaglia sul testamento biologico. Veronesi, il suo, lo ha sventolato in aula durante uno dei dibattiti sulla legge... «Io l’ho fatto e affidato a persona di mia fiducia. La mia paura non è la morte, ma la perdita delle facoltà mentali, della mia coscienza. Dovesse accadere, già da ora ho deciso liberamente che non voglio trattamenti di sostegno» . Trattamenti di sostegno o accanimento terapeutico? «A me non piace il termine accanimento terapeutico, è un controsenso linguistico. Accanirsi non è terapia. I trattamenti di sostegno, compresa l’alimentazione e l’idratazione artificiale, sono invece quella vita artificiale che io per me rifiuto. Nonostante la mia età (85 anni, ndr), dovesse accadere, potrei restare "morto a cuore battente"anche per altri vent’anni. Non lo vorrei mai, soprattutto per i miei familiari» . Allora meglio senza legge... Oppure, come dovrebbe essere? «Il mio disegno di legge non riguarda il tema dello stato vegetativo permanente nella sua globalità, ma solo il diritto di ognuno di noi di rifiutare questo modo innaturale di terminare la propria vita. Oggi la decisione di come e quando prolungare l’assistenza è completamente nelle mani dei medici, mentre invece è diritto inalienabile di ogni cittadino decidere se iniziare, o quando lasciare, il trattamento di sostegno. Sfugge al legislatore che oggi il prolungamento o l’accorciamento della vita non sono valori in sé, ma lo sono in quanto assecondano il progetto di vita di ognuno di noi» . Quindi, al medico non deve spettare più l’ultima parola? «Il paternalismo è superato in tutti i modelli sociali e, negli ultimi anni, lo stesso è avvenuto nel rapporto medico paziente. La gente sente il bisogno di riappropriarsi di scelte che riguardano la propria esistenza e la sua qualità, in ogni fase. Compresa quella finale. Certo è un principio di responsabilità della vita che pare in contrasto con quello della sacralità della vita (Dio ci dà la vita e Dio ce la toglie). Questo è il grande dilemma. Che però non ci deve mai far dimenticare la laicità dello Stato» . Autodeterminazione invece di affidamento totale... Che cosa è accaduto? «E’ conseguenza dell’ipertecnologica medicina moderna. In passato c’era la paura di morire anzitempo. Oggi c’è quella di sopravvivere oltre il limite naturale della vita, in una condizione artificiale, priva di coscienza e di vita di relazione. Un limbo che pone la società di fronte a dilemmi sconosciuti alla storia e al pensiero» . E a chi difende la sacralità della vita che cosa risponde? «Chi ha fede sceglierà comunque di affidarsi a Dio. O, ancora per fede, rifiuterà trattamenti che potrebbero salvarlo (le trasfusioni di sangue per i Testimoni di Geova). Chi non ha fede, potrà affidarsi ai poteri della scienza medica o scegliere quando e come stabilire dei limiti» .

Corriere della Sera 10.1.11
Il testo a Montecitorio: mantenere la nutrizione

ROMA— Già approvata dal Senato, dal 16 giugno sembrava finita su un binario morto alla Camera, in attesa di un parere della commissione Bilancio. Ma ora, dopo che i temi «eticamente sensibili» sono tornati ad essere uno dei fronti aperti nello scontro tra maggioranza e opposizione, la legge sul testamento biologico torna alla ribalta della cronaca parlamentare. Già domani infatti, nella conferenza dei capigruppo di Montecitorio, si potrebbe decidere di calendarizzarla riavviando quindi il suo iter. A premere per un’accelerazione è la maggioranza, convinta che sul testo— che prevede il mantenimento di idratazione e alimentazione, in quanto «forme di sostegno vitale» — si possa incassare la convergenza di buona parte del Terzo Polo e di una minoranza del Pd. In effetti, tra i parlamentari più attivi nel sostegno alla legge compare l’udc Paola Binetti e, all’interno del Partito Democratico, Giuseppe Fioroni ha già dichiarato che non seguirà l’orientamento della sua formazione politica, in gran parte contraria all’approvazione del testo.

Corriere della Sera 10.1.11
E Londra studia una tassa per i genitori che divorziano
Due obiettivi: frenare le separazioni e finanziare la struttura pubblica
di Paola De Carolis  


Una tassa per le coppie con figli che decidono di separarsi. Questa la manovra che Maria Miller, sottosegretario per il Lavoro e le Pensioni, si prepara ad annunciare nei prossimi giorni. Stando al domenicale Sunday Telegraph, che ieri ha anticipato la notizia, l’obiettivo è quello di fornire un ulteriore deterrente per genitori intenzionati a divorziare. Per ora, ha sottolineato un portavoce del dicastero, si tratta soltanto di una proposta: «L’idea è di consultare il pubblico su possibili cambiamenti per assicurare un efficente mantenimento dei figli» . Contributi, rate e scadenze sono attualmente competenza della Child Maintenance Enforcement Commission, un ente paragovernativo finanziato da soldi pubblici il cui futuro, con i tagli del governo Cameron, non è per niente sicuro. Dietro la possibilità di trasferire il costo del servizio sui divorziandi c’è inevitabilmente la necessità di dare un giro di vite alle spese, ma c’è in parte anche una presa di posizione dell’esecutivo sul matrimonio. Come aveva annunciato la stessa Miller al congresso dei Tory di Brighton, l’anno scorso, i conservatori «sono apertamente a favore del matrimonio, un’unione che fornisce una solida struttura per le nostre vite» . Ed è questo il tono della proposta: «Il divorzio deve essere l’ultima opzione, un passo che si decide di compiere quando è stata tentata ogni via per una riconciliazione» , ha detto il sottosegretario. In Gran Bretagna naufraga un matrimonio su tre. L’istituzione in sé è in crisi, con un calo del 5 per cento negli ultimi cinque anni. Privatamente la chiesa anglicana— ha scritto recentemente la stampa britannica — spera che le nozze il 29 aprile tra il principe William e Kate Middleton possano riportarla in auge. Inevitabilmente sono i figli a pagare il prezzo del divorzio. Secondo la Child Support Agency, il totale delle quote per il mantenimento non pagate al momento ha raggiunto i 3,8 miliardi di sterline. «Data la situazione, sembra chiaro che sia necessario rivedere interamente il sistema, renderlo più efficace, più veloce e meno burocratico» , ha sottolineato il portavoce del ministero. In assenza dei dettagli ufficiali della proposta del dicastero, il Sunday Telegraph ha fornito alcuni primi particolari. La cosidetta tassa sul divorzio potrebbe assomigliare alle imposte sui mutui o sui prestiti e essere applicata a entrambi i genitori, a seconda del reddito. La proposta, ha anticipato ancora il giornale, incontrerà sicuramente l’opposizione dei gruppi per la difesa dei diritti, in quanto verrà vista come un ulteriore ostacolo per le donne «intrappolate» in relazioni violente e vittime di abusi, mentre dovrebbe incontrare il favore dell’ala radicale del partito conservatore, che a malincuore ha dovuto dire addio alla proposta elettorale di offrire sgravi fiscali alle coppie sposate o legate da unioni civili (i Liberaldemocratici hanno infatti vietato l’iniziativa). Altra novità potrebbe essere l’abolizione della Child Maintenance Enforcement Commission: l’agenzia paragovernativa è finita infatti da tempo nel mirino dei censori del Cancelliere, incaricati di trovare risparmi in tutta la pubblica amministrazione. I suoi compiti verrebbero trasferiti direttamente al ministero del Lavoro e delle Pensioni. I piani prevedono inoltre un maggior accento su forme di «intervento rapido» in caso di unioni a rischio «esplosione» . Le coppie saranno dunque invitate a richiedere il sostegno di specialisti e misure cautelari extra verranno messe a disposizione per la protezione dei bambini.

Corriere della Sera 10.1.11
Ma nessuno resterà assieme per risparmiare
di Cesare Rimini


Una tassa, un’imposta, una ammenda, una multa, una sanzione pecuniaria insomma... pagare per divorziare. Un deterrente per le coppie che hanno figli. È come dire ai coniugi senza prole: voi potete anche fare quello che volete perché giocate con la vostra vita, ma se avete bambini, la legge vi invita concretamente a dimostrare senso di responsabilità. Quale sarà la sanzione prevista dal progetto di legge britannica? E soprattutto quanti divorzi si eviteranno per non pagare la «tassa» prevista? Siamo facili profeti: la nuova legge scoraggerà pochi divorzi. La massima «pagare per divorziare» avrà un modesto successo di numeri, perché i costi di un divorzio e le conseguenze economiche sono già talmente pesanti (soprattutto in tempi di crisi come questi) che la nuova «tassa sul divorzio» avrà, probabilmente, poca influenza. Le coppie che stanno insieme per il rispetto dovuto ai figli non sono tante, e non sarà certo la preoccupazione della sanzione pecuniaria a risaldare l’unione o a evitare la frana. E poi, che coppia di genitori è quella che sta insieme per evitare una «tassa» ? Sembra doveroso invece sottolineare il secondo aspetto del progetto britannico: la concretezza economica. La «tassa sul divorzio» dovrebbe servire per finanziare il sistema che gestisce e controlla sul piano sociale l’affidamento e il mantenimento dei figli dei divorziati. Ci sono i giudici, gli assistenti sociali, le strutture che devono seguire i figli in difficoltà per il divorzio che è sulla loro testa. Sembra che lo Stato voglia dire a dei genitori poco responsabili: «Questo guaio l’avete fatto voi, almeno concorrete alle spese che la società deve affrontare a tutela dei vostri figli» . Facciamo la legge anche in Italia?      

Repubblica 10.1.11
La corsa delle minorenni alla pillola del giorno dopo
L´allarme dei medici: il 27% dei teenager italiani non usa nessun anticoncezionale
di Caterina Pasolini


Giovani, imprudenti e confusi sul sesso è boom per la pillola del giorno dopo
Il 55 per cento delle confezioni venduto a minorenni

SONO appassionati e tecnologici, conoscitori della realtà virtuale più che del loro corpo. Navigano in rete come professionisti ma in amore e sesso improvvisano e rischiano. Sono i teenager italiani del nuovo secolo: il 27 per cento non usa alcun anticoncezionale e la percentuale sale al 35 per cento tra le sole ragazze.
I risultati si vedono, lanciano l´allarme i medici degli ospedali dove ogni week end arrivano a decine ragazzine impaurite a chiedere la pillola del giorno dopo, mentre si moltiplicano le malattie sessuali tra i giovanissimi. Perché i nipoti del ‘68 e del femminismo invece di prevenire si affidano sempre di più alla contraccezione di emergenza che negli ultimi anni ha visto un vero e proprio boom. Fino ad arrivare a 370mila confezioni. Acquistate e usate, per il 55 % dei casi da minorenni.
Di adolescenti impauriti, con idee confuse in materia di sesso e procreazione ne ha visti tanti andare a chiedere la pillola del giorno dopo il professor Emilio Arisi. Fondatore dei primi consultori in Italia, è consigliere della Sigo, la società italiana ginecologi che ogni anno organizza corsi nelle scuole per «rompere la barriera dell´ignoranza. Perché ho conosciuto ragazzini convinti che la Coca Cola fosse un anticoncezionale, che se facevano l´amore in piedi non sarebbero rimaste incinta, che una lavanda al limone salvava da un rapporto non protetto», racconta. E punta il dito contro le istituzioni, la mancanza di corsi di educazione sessuale nelle scuole, comuni in Europa e qui realtà solo per buona volontà di alcuni.
«Il boom della pillola del giorno dopo è dovuta anche al fatto che molti genitori non sono in grado di parlare ai figli di anticoncezionali, di sesso», dice il professor Carlo Flamigni che ha scritto un libro dedicato proprio alla pastiglia - «osteggiata dai medici cattolici pur non essendo un abortivo perché in Italia sappiamo fare solo la morale e non dare informazioni» - e autore di un volume sulla Contraccezione (edizioni Asino d´oro, il ricavato andrà all´Aied).
«Si arriva alla contraccezione di emergenza di massa in Italia perché non esiste educazione pubblica e perché la vecchia generazione non è che usi molto preservativi o pillola: le donne che prendono la pastiglia anticoncezionale da noi sono il 16% rispetto al 40% di alcuni paesi del nord Europa e il 32% è rimasta al coito interrotto. E il messaggio che passa alle giovani generazioni in famiglia finisce per essere che al pillola fa male, che ingrassa. Falsità». Così i teenager si arrangiano: nel 22 % del casi si affidano al coito interrotto, nel 27% al preservativo e solo il 18% alla pillola.
La professoressa Alessandra Graziottin, direttore centro di ginecologia all´ospedale San Raffaele Resnati e collaboratrice e dei programmi Sigo, spiega il boom della pillola del giorno dopo con un´ignoranza dovuta «alla resistenza storica del mondo cattolico ma anche al fatto che non abbiamo insegnato ai giovani il senso di responsabilità, anche nel sesso. Responsabilità nei confronti della propria salute e di quella della propria compagna, del proprio futuro. Insomma che se uno fa all´amore deve pensarci, a come non avere figli a non trasmettere malattie».
Più comprensivo con i ragazzi lo psicologo Charmet: «Difficile per loro irruenti, immaturi per età, che non hanno casa né rapporti spesso stabili, programmare incontri e anticoncezionali. Comunque è vero che i giovani si sentono immuni da rischi, non hanno il senso delle conseguenze dei loro gesti. Finalmente liberi dal senso del peccato e dal timore di castighi legati al sesso». Ma forse, a furia di visite a tappeto nelle scuole, qualcosa sta cambiando. Gli ultimi dati segnalano un calo del 4,7% nelle vendite della pillola del giorno dopo mentre cresce lievemente il consumo di quella anticoncezionale tra le giovanissime fino al 18%.

Corriere della Sera 10.1.11
Un piano nazista per Gerusalemme
di Michele Sarfatti


La Germania nazista programmò lo sterminio degli ebrei di Gerusalemme e Tel Aviv? Secondo il libro di Klaus-Michael Mallmann e Martin Cüppers, ora tradotto in inglese col titolo Nazi Palestine. The Plans for the Extermination of the Jews in Palestine (Enigma Books), tale progetto venne realmente pianificato, anche se al dunque non fu messo in pratica. Siamo nel momento della formidabile avanzata delle forze italo-tedesche lungo la costa meridionale del Mediterraneo, oltre la Libia. Il 29 giugno 1942 conquistano Marsa Matruh e il giorno dopo raggiungono la piccola località di El Alamein. Nelle settimane seguenti provano a debellare gli inglesi ivi attestati, ma senza successo. Stesso esito ha l’offensiva di fine agosto. Infine la battaglia di ottobre-novembre vede il successo Alleato e l’avvio di una rapida e questa volta definitiva controffensiva. Mallmann e Cüppers documentano che nella prima metà di luglio di quell’anno Himmler decise la creazione di un commando speciale della Polizia di sicurezza -Servizio di sicurezza della Direzione generale per la sicurezza del Reich, posto direttamente sotto i suoi ordini, da aggregare all’Afrika Korps. Un documento del 13 luglio precisò che il suo incarico era di «adottare, sotto la propria responsabilità, provvedimenti esecutivi contro la popolazione civile» , senza aggiungere ulteriori dettagli (pagina 117). Va osservato che l’incarico era di natura tale da dovere essere svolto in Paesi di nuova occupazione, non quindi nella Libia già italiana. Il 29 luglio il commando fu condotto ad Atene, in attesa di essere trasferito a destinazione. Quest’ultimo spostamento però non fu mai effettuato e nella seconda metà di settembre il commando venne riportato a Berlino, per essere poi dislocato il 24 novembre nella Tunisia appena occupata. Come si può notare, la cronologia del commando speciale si inquadra perfettamente in quella delle operazioni militari generali: dapprima si ritenne che molto presto esso sarebbe stato necessario, poi si prese atto che la situazione era mutata, almeno temporaneamente, infine lo si utilizzò in una regione non molto dissimile (si direbbe che lo si era addestrato proprio per situazioni mediterranee meridionali e orientali). Come i due storici hanno riconosciuto in un dibattito con Tom Segev svoltosi sul quotidiano «Haaretz» nel 2008, nessuno dei documenti da loro reperiti menziona né la progettazione, né la volontà di sterminare gli ebrei d’Egitto e soprattutto di Palestina. A loro parere però quel mandato era necessariamente compreso nelle consegne del 13 luglio, in quanto fortemente simili a quelle date agli Einsatzkommando che compirono agghiaccianti eccidi di massa della popolazione ebraica nell’Europa settentrionale e orientale. A me pare tuttavia che ciò non sia sufficiente ad attestare l’esistenza di un vero e proprio «piano» . Similmente, nel capitolo sulla Tunisia si afferma che l’Einsatzkommando non riuscì a organizzare uccisioni di massa degli ebrei di quel Paese (pagina 174), senza però offrire né prove dell’esistenza dell’incarico né riflessioni sull’asserito fallimento. E però, detto tutto ciò, resta il fatto che proprio i documenti reperiti da Mallmann e Cüppers ci spingono a interrogarci ancora una volta su cosa sarebbe potuto accadere agli ebrei di Gerusalemme e Tel Aviv se Hitler e Mussolini nell’estate autunno 1942 avessero travolto la linea difensiva inglese a El Alamein. Pare irreale ipotizzare un nuovo blocco prima di Alessandria. Forse avrebbero rapidamente superato il canale di Suez (puntando magari verso il Caucaso, per congiungersi con i reparti in discesa dal fronte russo). Forse la Palestina sarebbe stata assegnata alla Germania, forse all’Italia, magari con il coinvolgimento di forze simpatizzanti locali. Nessuna di queste ipotesi può avere riscontri e risposte serie, ciò tuttavia non ci deve impedire di considerare che la sconfitta nazifascista a El Alamein costituì un evento vitale per gli ebrei egiziani e palestinesi.                        

esce "Il Romanzo di Costantinopoli" di Silvia Ronchey
Repubblica 10.1.11
Il trionfo di Costantinopoli
Le storie sublimi di una città al centro del mondo
di Pietro Citati


Per mille e cento anni fu considerata il cuore della civiltà. Luogo di grandi opere, di commerci e spiritualità. Vasto e teatrale. Il racconto in un volume di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini
Fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo, quella di Cristo e quella di Maria
La chiesa di Santa Sofia era ritenuta dai turchi "il modello del Paradiso"
Gli architetti cercavano qualcosa di stravagante, di bizzarro e di illusionistico

Per mille e cento anni, Costantinopoli fu il cuore del mondo. Per mare e per terra, svedesi, danesi, tedeschi, inglesi, russi discendevano verso il Bosforo; e persiani, arabi, amalfitani, veneziani, genovesi, normanni risalivano verso il Bosforo. All´alba, quando i viaggiatori si alzavano per contemplare Costantinopoli, la città era nascosta, o mascherata, o lasciava confusamente trasparire le infinite abitazioni. Attorno alle navi si stringeva una luminosa nebbia bianca, qualcosa di folto, umido e lattiginoso: il primo segno di Costantinopoli.
Verso mezzogiorno, quando cominciò a soffiare una brezza, la spessa nebbia lattiginosa si diradò. Poi scomparve. All´improvviso, tutto fu chiarore, splendore, irradiazione, trionfo. La folla degli oggetti luminosi abbagliarono gli occhi che non riuscivano a contemplarli tutti insieme; e la visione era raddoppiata e moltiplicata nelle acque del mare. Tra queste innumerevoli visioni di Costantinopoli, una si distinse tra tutte: quella dell´estate 1203 quando le navi veneziane arrivarono a Santo Stefano: «Nessuno poteva immaginare esserci nel mondo –scrisse Geoffroy de Villehardouin - una città tanto ricca, quando vedemmo quelle alte mura e quelle torri possenti, dalle quali è racchiusa tutt´intorno in un cerchio, quei ricchi palazzi in così gran numero e quelle alte chiese, e nessuno avrebbe potuto crederlo se non l´avesse visto con i suoi occhi». Tutti provarono stupore. «L´illustre e venerabile città brillava stranamente di un´infinità di meraviglie», insisté Geoffroy de Villehardouin. Sulla riva della città si levavano centinaia di statue: statue che i primi imperatori avevano saccheggiato dai tesori dell´Occidente e dell´Oriente, che col passare degli anni diventarono segrete, fantastiche, incomprensibili, o soggette a qualsiasi interpretazione.
La più bella era, probabilmente, una statua di bronzo alta trenta piedi che sorgeva nel Foro di Costantino. Molti l´attribuirono a Fidia. La veste a pieghe giungeva ai piedi per proteggere dagli sguardi umani le membra divine. Com´era bella quella figura misteriosa! Il capo era quietamente inclinato, il collo nudo e lungo, il corpo si chinava mollemente, le vene corrugavano la fronte, i capelli intrecciati e legati dietro il capo sfuggivano all´elmo, ciocche scendevano sul viso, gli occhi gettavano dardi, la mano sinistra sollevava le pieghe della veste. Il bronzo imitava ogni particolare del corpo, si piegava, si modulava, diventava viso, collo, capelli, abiti; e sembrava trasformarsi in voce e parola. Tutta la figura senza vita fioriva di vita, «facendo fluire negli occhi tutta la forza dell´ardore». Nessuno - scriveva Niceta Coniate - aveva mai visto una «donna di così invincibile dolcezza».
* * *
Nel Foro, sopra una grande colonna di porfido, sorgeva una colossale statua bronzea di Costantino: aveva la forma di Apollo-Helios, come una volta a Roma, molti secoli prima, era stato rappresentato Nerone davanti alla Domus Aurea. Portava uno scettro nella destra, un globo nella sinistra e una corona di raggi lucente sul capo. Tre secoli più tardi, la figura dell´imperatore Giustiniano appariva a cavallo, molto più piccola. Nella parte superiore, c´era Cristo avvolto da un disco col sole, la luna, una stella sorretta da due angeli: benediva con una mano e con l´altra reggeva una croce. Giustiniano montava un destriero focosissimo, che si impennava uscendo dalla cornice: una vittoria reggeva la palma del trionfo, mentre la terra, seminuda, teneva la staffa del cavallo in un gesto di sottomissione.
La città di Costantinopoli veniva raffigurata nelle tre forme della luna pagana: Artemide, Selene, Ecate: l´acqua lunare la circondava, come nell´ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio. La luna pagana era Maria cristiana, che irradiava il mondo di candore luminoso. Uno degli imperatori bizantini adorò Maria con una mania profondissima: la rimirava di continuo, la divorava con gli sguardi, le erigeva intorno gli arredi di una reggia, dispiegava drappi di porpora. Così Costantinopoli fondeva in sé tutte le luci possibili: quella di Apollo e quella del Sole, quella di Cristo, di Artemide, di Maria: lo splendore più ardente si mescolava con lo splendore più delicato; il chiarore più freddo con quello più prossimo.
* * *
Santa Sofia, "la chiesa senza pari", "il modello del Paradiso", come dicevano i turchi, era stata inaugurata nel 360: distrutta in una rivolta del 404, ricostruita nel 415, di nuovo distrutta nel 532; e di nuovo definitivamente inaugurata il 27 dicembre 537. Sopra una grandissima lastra bianca, la mano della natura aveva inciso segni, venature, rilievi, screziature, che disegnavano a loro volta le figure umane di Gesù Cristo, Maria e Giovanni Battista. La pietra sembrava illusione: il sasso immagine umana; e tutto era variegato, suscitando in chi vedeva stupore e sgomento. Gli architetti avevano rivestito il pavimento di lastre di marmo colorato, o di sottilissime luci policrome. Se dal pavimento si guardava Santa Sofia, la volta sembrava un infinito cielo stellato, e se dalla cupola si guardava il pavimento, ecco, le pietre tumultuavano, ondeggiavano, oscillavano, sembravano un ardimentoso mare in tempesta.
Quando qualcuno penetrava sotto la cupola di Santa Sofia, la sua mente si innalzava verso Dio, nella convinzione che Egli fosse lì accanto, lì prossimo, e che amasse risiedere nel luogo che aveva prescelto. Santa Sofia, scriveva mirabilmente Procopio, era uno spettacolo bellissimo, quasi eccessivo per chi lo vedeva, e assolutamente incredibile per chi ne sentiva parlare. Era luce e riflesso. Sembrava «che la luce non venisse da fuori, ma che un bagliore accecante nascesse nel suo interno». Tutto il soffitto era rivestito d´oro puro, per aggiungere maestà alla bellezza, eppure lo splendore dell´oro era sopraffatto dal barbaglio della pietra preziosa. Fasci di luce penetravano da finestre diverse, convergendo verso un punto diafano, oppure incrociandosi ad altezze varie, le lame di luce scivolavano lungo le pareti e si allungavano sul pavimento. Questa mobile irradiazione accresceva, agli occhi di tutti, l´effetto irreale e inverosimile della visione.
In alto, in alto, Santa Sofia culminava in un quarto di sfera, al di sopra della quale si elevava un´altra semisfera, «di bellezza meravigliosa ma anche spaventosa», perché, diceva Procopio, tutto sembrava instabile, inquieto e incerto e in procinto di crollare al suolo. «Chi potrebbe descrivere lo splendore delle colonne e delle pietre che le abbelliscono? Sembrava di essere capitato in un superbo prato fiorito. Allo sguardo ammirato si offriva la tonalità purpurea, verde, rosso acceso, bianco brillante delle pietre, per non parlare dei marmi che la natura, come una pittrice, aveva screziato di tinte d´ogni sorta». Ciò che sorprendeva nelle vette di Santa Sofia, era l´estrema cangiabilità del sacro, la mobilità incessante dell´eterno, simile alle irradiazioni degli angeli evocate nei libri dello Pseudo-Dionigi l´Areopagita. Settantadue tonalità diverse brillavano, secondo la natura della pietra, delle perle e dei materiali più diversi.
Maometto II aveva conquistato Costantinopoli penetrando in Santa Sofia nel dicembre 1453. La sua era una tremenda passione erotica. Non sapeva allontanare dal suo cuore il pensiero dell´amatissima città. Conversava con l´immagine della sua sposa, contemplava la sua bellezza, parlava di quando l´avrebbe conquistata, congiungendosi nel suo grembo. Adorava la «lunga e profonda fessura odorosa del Corno d´oro»: un´immensa vagina di acqua, di terra e di alberi. Provava la stessa passione per Santa Sofia. Quando volle godere lo spettacolo delle opere d´arte, salì sulla superficie concava della cupola, come Gesù -"il soffio di Dio"- ascese al quarto cielo. Dopo aver ammirato il mare ondoso del pavimento, raggiunse la cima. Così sia Costantinopoli sia Santa Sofia, diventarono la più intima delle sue passioni.
In apparenza, Costantinopoli era vastità, grandezza, teatralità, sublimità, tragedia, ineffabilità – tutto portato all´estremo, fino a inebriare ed estasiare gli abitanti della capitale. In realtà gli architetti, gli artefici, i truccatori cercavano qualcosa di profondamente diverso, come accadeva a Bagdad e a Ctesifonte: qualcosa di stravagante e di illusionistico, di bizzarro e di eccentrico.
Secondo il famoso racconto di Liutprando, un albero di bronzo dorato era disposto davanti al trono imperiale: i rami erano gremiti di uccelli di ogni specie e colore, anch´essi in bronzo dorato; e ciascuno degli uccelli emetteva il canto inconfondibile della sua specie. In quel momento gli ambasciatori si prosternarono tre volte a terra, secondo un costume che risaliva ad Alessandro Magno. Il trono imperiale appariva dapprima disteso, poi si innalzò e in un attimo torreggiò altissimo nella grande stanza, custodita da leoni di immensa grandezza che sferzavano il pavimento con la coda e ruggivano con la bocca aperta.
L´imperatore di Costantinopoli era in primo luogo il signore delle forme e delle apparenze e delle liturgie. Quando nasceva, si sposava o aveva figli, la città era in festa per sette giorni e su tutte le piazze si mangiava e beveva a spese del sovrano. Le strade erano purificate: durante le processioni si spargevano fiori sul selciato, sulle finestre e sui balconi: si esponevano le suppellettili più preziose e si ostentava vasellame d´oro e d´argento. Un tappeto di bellissima lana rappresentava una coda di pavone: le stoffe di seta, tinte con porpora di Tiro, erano ricamate con l´ago; si esaltava lo scarlatto fiammante, il cupo viola, il delicato splendore del verde. I fabbricanti degli oggetti di lusso – orefici, importatori di seta, mercanti di lino, profumieri, autori di bronzi niellati - affermavano al mondo intero il prestigio di Bisanzio. Come scriveva lo storico turco, «si mescolavano le bellezze greche, franche, russe, ungheresi, cinesi»: le belle dai morbidi capelli, le fanciulle simili alle stelle della Lira, fresche come il gelsomino, alte e sottili come il cipresso, con la fronte simile alla luna e le ciglia al Sagittario.
In momenti straordinariamente solenni, l´imperatore lasciava da solo il palazzo e passava il Bosforo in una galera imperiale. Quando raggiungeva la giusta distanza dal ponte, conosceva la visione spettacolare e grandiosa della città. Allora, si alzava sulla sedia: restava in piedi guardando verso est con le mani alzate al cielo, faceva tre volte il segno della croce sulla città e poi rivolgeva una preghiera a Dio: «Signore Gesù Cristo mio Dio, nelle tue mani affido questa tua città: preservala, Ti prego, dall´assalto di ogni avversità e tribolazione, dalla guerra e dalle invasioni straniere. Conservala inviolata dalla cattura e dal saccheggio, perché è in Te che abbiamo riposto la nostra speranza e Tu sei signore di misericordia e padre di pietà e Dio di ogni consolazione e a Te spetta avere grazia e preservarci e salvarci dalle difficoltà e dai pericoli ora e per sempre e nell´eterno dell´eterno». Mai, come in quel momento, l´imperatore aveva rivolto al cielo una preghiera così commovente: così tenera, delicata e quasi indifesa.
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Il Romanzo di Costantinopoli di Silvia Ronchey e Tommaso Braccini (Einaudi, pagg. XXXI- 956, euro 28) è un libro bellissimo. Contiene testi bizantini, francesi, inglesi, americani, turchi, arabi, italiani, tedeschi: scelti con grazia e intarsiati con rara raffinatezza.

Con Marco è nato un bel rapporto. Sono contenta di aver fatto il personaggio del suo primo, vero viaggio nell´universo femminile
In Usa hanno amato il film di Bellocchio. E pensare che l´anno in cui corse per il miglior film straniero l´Italia preferì "Baaria"
Repubblica 10.1.11
Aria di Oscar
Giovanna Mezzogiorno per i critici Usa è "the best"
di Maria Pia Fusco


Non ho affanni. Sto lavorando a un progetto televisivo ma mi piacerebbe anche tornare a fare teatro, il primo amore
Con Marco è nato un bel rapporto. Sono contenta di aver fatto il personaggio del suo primo, vero viaggio nell´universo femminile
In Usa hanno amato il film di Bellocchio. E pensare che l´anno in cui corse per il miglior film straniero l´Italia preferì "Baaria"

"Volcanically beautiful", "Bellezza esplosiva". Mica male come apprezzamento, soprattutto se scritto sul "New York Times" e riferito ad un´attrice italiana. Giovanna Mezzogiorno è stata inserita tra le migliori interpreti nelle previsioni per gli Oscar per il ruolo di Ida Dalser in "Vincere" che a sua volta figura tra i migliori film da candidare, insieme a Filippo Timi come attore non protagonista. Non solo: è di ieri il premio dell´associazione dei critici americani che l´ha nominata "best actress". «È un gran bella soddisfazione, anche perché è passato tanto tempo, è come la scia lunga dopo le critiche stupende al film in America. Certo, ci aspettavamo che poi l´Italia lo nominasse per gli Oscar, ma fu scelto "Baària". Nessuna recriminazioni, le logiche di certe decisioni sfuggono ai più», dice l´attrice, per la quale il film di Bellocchio è stato importante anche per la vita privata: sul set ha conosciuto Alessio Fugolo, l´uomo che poi ha sposato.
Perché "Vincere" piace tanto agli americani?
«Credo che li abbia sorpresi, non si aspettano dall´Italia un film così duro, brutale, che non fa sconti ed è provocatorio perfino dal punto di vista delle immagini e del linguaggio. Lo considerano una specie di capolavoro, che non ha furbizie o ammiccamenti né le immagini da cartolina alle quali il cinema italiano li ha abituati».
Che rapporto c´è stato con Marco Bellocchio?
«Posso dire con sicurezza che è nata una profonda fiducia reciproca, senza la quale un film così non sarebbe stato possibile. Io so che lui sa di avere in me una grandissima alleata. Con lui avevo fatto un provino per "La balia", non era andato bene. Una cosa che mi rende felice è che il primo film di Marco su una donna è proprio "Vincere". Con il personaggio di Ida Dalser fa un viaggio nella maternità, nella sessualità e in tutta la complessità dell´universo femminile».
Suo padre, Vittorio Mezzogiorno aveva lavorato con Bellocchio in "La condanna" e alla fine era esploso contro la presenza sul set dello psicanalista Massimo Fagioli. Ricorda qualcosa di quel periodo?
«Sono solo ricordi di figlia, avevo 13, 14 anni e in quel periodo ero a Roma con mio padre e andavo spesso sul set, facevo i compiti nella sua roulotte. Ricordo la fatica che faceva a lavorare, ma non avevo la maturità per confrontarmi con lui su questioni professionali. Nell´esperienza personale non ho avuto strascichi di quell´avventura. Del resto io ho incontrato un "altro" Bellocchio rispetto a quegli anni e il successo in America mi fa piacere soprattutto per lui, è una grande soddisfazione e anche una rivincita per Cannes, dove fu un grande dispiacere per tutti noi non aver avuto premi. Ma l´anno scorso sono stata in giuria a Cannes e ho capito che le logiche dei premi sono difficilmente spiegabili, le scelte sono il frutto di equilibri e compromessi».
Lei potrebbe recitare in inglese e francese, ma lavora soprattutto nel cinema italiano. È una scelta?
«Negli ultimi anni ho preferito stare qui soprattutto per motivi famigliari. Lavoro da 15 anni, credo di aver dato il mio contributo al cinema italiano, ma senza sacrificare la mia vita. Sono stata molto con mia madre. L´anno scorso si è aggravata ed è mancata alla fine di ottobre. Sono felice di esserle stata vicino»
Con sua madre, l´attrice Cecilia Sacchi, lei ha ideato il premio Vittorio Mezzogiorno.
«Ci tengo tantissimo, e non solo per il ricordo di mio padre. Penso che in questo momento così difficile per l´Italia e con una politica così indifferente alla cultura, sia importante, nel nostro piccolo, continuare a lottare per la qualità. E sono tante in giro per il nostro paese le compagnie di valore, come il Teatro di Legno che abbiamo premiato quest´anno con la giovane attrice Lucia Mascino. Il premio è ospitato dal Festival di Giffoni e insieme vogliamo fare tante altre cose. Non bisogna arrendersi».
Il suo ultimo film è "Basilicata coast to coast", un piccolo cult.
«Mi sono divertita moltissimo, dopo "Vincere", dopo "La Prima linea" avevo bisogno di una boccata d´ossigeno. Per me ormai alternare film intensi e duri con la leggerezza delle commedie è diventata una vera necessità».
E adesso?
«Sto lavorando ad un progetto per la televisione. Mi piacerebbe anche tornare a lavorare in teatro, il primo amore. Però non ho nessun affanno».
È vero che è tifosa del Napoli?
«Le mie città preferite sono Napoli e Milano. Napoli la sento mia per via di mio padre, c´è il suo imprinting nei primi dieci anni della mia vita. Poi mi sono spostata verso il nord, Milano è la città di mia madre. Tifosa scatenata forse no, ma se il Napoli vince sono contenta».