mercoledì 12 gennaio 2011

l’Unità 12.1.11
Camusso attacca il manager Fiat e chiede più chiarezza a Confindustria
Landini: quell’accordo cancella il sindacato, anche quello che ha deciso di firmare
Renzi: sto con il manager
«Marchionne insulta l’Italia». L’ad: cerco solo il cambiamento
Susanna Camusso non fa sconti a Marchionne parlando a Chianciano alle Camere del lavoro Cgil riunite: non insulti il suo Paese. La replica: non si scambi il cambiamento con insulti.
di Bianca Di Giovanni


Scintille sul fronte Fiat alla vigilia del referendum a Mirafiori. Dall'assemblea nazionale delle Camere del lavoro a Chianciano Susanna Camusso rilancia la sua sfida a Sergio Marchionne, ribadendo al contempo la sua distanza dall'antagonismo più radicale della Fiom, restando il sostegno convinto della Confederazione allo sciopero del 28 gennaio delle tute blu. Dallo stesso podio Maurizio Landini (Fiom) arringa allo sciopero generale, e chiede alla Confederazione di “far saltare l'accordo”. Insomma, i temi sono incandescenti, e le dinamiche complesse. Per l'intera giornata si snoda il botta e risposta incrociato tra i vari duellanti. «Marchionne la smetta di insultare il suo Paese, in Germania ci sarebbe stata indignazione generale se non si fossero avuti i dettagli del piano industriale», attacca la leader Cgil. «Non si può confondere il cambiamento con gli insulti», replica il manager. Altro che cambiamento: per Landini l'accordo di Mirafiori «cambia la natura del sindacato», dunque segna un passaggio epocale a cui dare risposte straordinarie. Insomma, la Fiom non rientra nella «carreggiata» indicata dalla Cgil (firma tecnica conservare la rappresentanza in fabbrica), anche se la minoranza interna di Fausto Durante fa pressing perché ciò accada. «E' l'unico modo per non abbandonare i lavoratori», dichiara anche lui dalla platea di Chianciano. Per Landini stare dentro o fuori a questo punto non conta: quell'intesa di fatto cancella la rappresentanza anche di chi firma. A questo punto è un gioco di linee parallele che non si intersecano mai. Almeno per il momento.
OLTRE LA CONTRAPPOSIZIONE
Ma Camusso va oltre la sterile contrapposizione. A Chianciano cala la carta che sarà «giocata» dal direttivo sabato prossimo: una nuova proposta sulla rappresentanza su cui chiedere l'intesa a Cisl e Uil. Un accordo con tutte le sigle confederali per «evitare che le imprese diventino caserme». La proposta è stata data ieri sera ai segretari confederali e sabato sarà votata dal direttivo. Come dire: la crisi si supera con le regole, non con gli strappi. Questa la posizione del segretario generale. La quale esordisce con un richiamo a Confindustria sul sistema delle relazioni sindacali, messo sotto pressione in modo inaccettabile. Quello di Torino «più che un accordo separato è stato un accordo ad excludendum – dichiara Camusso – Ora dobbiamo evitare che lo strappo si estenda all'insieme del sistema». Questo è l'anello debole del «castello» costruito da Marchionne: è impensabile che ciascuna azienda si definisca regole proprie, ritagliate in base alle proprie urgenze e contingenze sui mercati. Quante deroghe, quanti strappi servirebbero? Quale rappresentanza vanterebbe allora il sistema Confindustriale? Questa strada è chiaramente impraticabile. Ecco perché è necessario che «l'insieme del sistema agisca e ridefinisca le regole della rappresentanza». In casa confindustriale c'è «imbarazzo», ci sono «atteggiamenti ondivaghi» nel sostenere Fiat. Proprio quella Confindustria con cui è iniziato un fitto dialogo e una fase di disgelo viene chiamata in causa da Camusso. Che avverte: «Il sistema delle relazioni è basato sul riconoscimento reciproco e sulla libertà di decidere i propri rappresentanti. Senza queste premesse non è credibile fare una discussione». Non è un altolà a Marcegaglia, ma ci somiglia molto, «se è vero che il sistema delle imprese crede che bisogna affermare e consolidare l'accordo sulla rappresentanza del '93 – continua Camusso – allora deve esserci una chiarezza in premessa». Come proseguire quei tavoli aperti, se ad ogni passaggio si rischia uno strappo? Questo sottintende Camusso. Quale parità c'è, poi, in un sistema che prevede sanzioni a senso unico, communate solo dalle imprese? Dopo Confindustria, Camusso passa ai suoi “omologhi” in Cisl e Uil. «Bonanni ha detto di essere consapevole di aver fatto un accordo che apre problemi sulla rappresentanza – dichiara – e che non voleva farlo. Se non volevate farlo, allora facciamolo adesso, subito non dopo, perché anche questo fa parte dello stare con i lavoratori». L'appello è forte, insistente. «Chiediamo a Cisl e Uil se sia democrazia escludere qualcuno da una fabbrica – continua Camusso – Non facciamo una battaglia di bandiera e difesa dell'organizzazione, ma una battaglia generale a difesa del sindacato nei luoghi di lavoro».

l’Unità 12.1.11
La bozza Cgil. Intesa efficace se sottoscritta dal 51%
Il segretario generale Cgil vuole discutere di un nuovo modello di rappresentanza con Cisl e Uil. Il documento verrà presentato agli altri sindacati sabato prossimo. La soglia del 5% per le rappresentanze.
di B Di G.


Una lunga discussione in notturna tra i segretari generali (una settantina) e una serie di autorevoli rappresentanti della Confederazione ha chiuso la prima giornata dell'assemblea delle Camere del lavoro. Sul tavolo la proposta sulla rappresentanza elaborata dalla Confederazione, che sabato passerà al vaglio del direttivo.
LA BOZZA
Il testo – dal titolo democrazia e rappresentanza è stato esposto ai componenti della segreteria di Camusso in una riunione iniziata dopo le venti e andata avanti fino alle 23 circa. Secondo una bozza circolata nel pomeriggio (suscettibile quindi di cambiamenti) il testo prevede che siano rappresentative quelle organizzazioni che contano almeno il 5% tra iscritti e voti nelle rsu (rappresentanze sindacali unitarie). Ogni sigla che raggiunge quella consistenza di voti o iscritti avrà il diritto di sedersi ai tavoli aziendali. Un'altra “asticella” segnala la validità di un accordo.
Un'intesa sarà efficace quando le sigle che la sottoscrivono rappresentano il 51% dei lavoratori tra iscritti e voti nelle rsu.
LA VERIFICA DI MANDATO
La novità più consistente riguarda la verifica di mandato. Se prima della firma persistono delle divergenze tra le parti, si chiederà una verifica ai lavoratori. È la mossa del cavallo che consentirà di evitare le intese separate, e quegli “strappi” che potrebbero dilaniare il sistema delle relazioni, come ha avvisato Camusso.
I lavoratori daranno il consenso alla firma se sarà raggiunta la soglia del 50% più uno. A quel punto l'intesa avrà valore erga omnes. In alcune parti questa proposta mutua il sistema già in vigore per il pubblico impiego, ma è relativa esclusivamente al settore privato. Il testo prevede anche la possibilità di un referendum abrogativo, che può essere attivato anche da chi non siede al tavolo, e in ogni caso solo se sull'intesa non è stata nchiesta la verifica preventiva. La stessa bozza prevede anche l'estensione delle rsu in tutti i luoghi di lavoro che abbiano una soglia minima di lavoratori, il cui numero è ancora da definire.
REGOLE CONDIVISE
La mossa di Camusso punta a ricostruire regole condivise su un terreno ormai consumato da strappi e contrapposizioni. La leader Cgil sa bene che Confindustria ha i suoi stessi interessi a ridefinire la cornice, visto che proprio il radicalismo di Marchionne ha messo in crisi la rappresentanza delle imprese.
Tanto più che con Emma Marcegaglia sono aperti diversi tavoli. Sarà quello sulla competitività il contesto in cui poter giocare la partita sulla democrazia in fabbrica. E in quella sede si potrà aprire un discorso più ampio anche con Cisl e Uil. Sarà difficile per Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti negare un confronto sulla rappresentanza, e sul tavolo sulla produttività sono molte le materie su cui cercare compromessi.
MODELLO CONTRATTUALE
A iniziare da quell'accordo sul modello contrattuale firmato anch'esso separatamente dalle altre due sigle. Ma queste, per ora, sono ancora ipotesi lontane. I tempi non sono ancora maturi per una nuova stagione di dialogo.

l’Unità 12.1.11
Bersani vede Fini  «Serve responsabilità»
Ma nel Pd c’è tensione
Il leader dei Democratici critica Casini: «Con i traccheggiamenti ci teniamo Berlusconi». Alla direzione di domani sarà battaglia. Renzi continua a pungere
di Simone Collini


Come rilanciare il partito, le primarie, le alleanze, la Fiat, e poi il testamento biologico, l’appoggio a Lombardo in Sicilia e anche le candidature alle prossime amministrative. Al Pd non mancano le questioni da discutere, e la Direzione di domani rischia di consegnare l’immagine di un partito più che plurale, diviso (e le riunioni “di area” organizzate per oggi dai “rottamatori”, da quelli di Movimento democratico e da Area democratica sono un primo tassello in questo senso). Così, tra gli stessi Democratici c’è anche chi a mezza bocca confessa di tirare un sospiro di sollievo, ora che tutto lascia pensare che non ci sarà nessun voto anticipato, da qui ad aprile. Troppi i nodi da sciogliere e troppo in salita la strada verso una credibile alternativa di governo, soprattutto ora che l’Udc ha offerto un «patto di pacificazione» alla maggioranza.
BERSANI VEDE FINI
Bersani però non si rassegna all’idea di non riuscire a riorganizzare il campo dell’opposizione. Ieri ha incontrato a Montecitorio Fini, al quale ha chiesto che intenzioni abbia realmente il Terzo polo. Per il leader del Pd in un momento così delicato ci vuole «coerenza» perché il rischio altrimenti è rafforzare Berlusconi, senza garantire nessuna governabilità al paese. Anche nei confronti di Casini il segretario del Pd ha usato parole dure, prima la mattina durante la riunione della segreteria e poi la sera davanti alle telecamere del Tg3. «I tatticismi e i tentennamenti di Casini», ha detto ai suoi «possono solo tenere in piedi un governo moribondo e dannoso per gli italiani». E poi, nell’intervista televisiva, ha non solo criticato i «traccheggiamenti quotidiani» del leader centrista, ma ha anche invitato tutti a «prendersi le proprie responsabilità» e a mettere da parte «ogni veto», perché altrimenti il rischio è trovarsi davanti a «un altro decennio berlusconiano, magari con Berlusconi Presidente della Repubblica». L’Udc infatti non solo ha aperto alla maggioranza, ma ha imposto al Pd un aut-aut: scelga, o noi o Vendola e Di Pietro.
Un’impostazione del tutto sbagliata per Bersani, che di fronte ai suoi ha assicurato che il Pd incalzerà i centristi, soprattutto sul piano parlamentare, «per dimostrare che è illusorio pensare a un patto di pacificazione con Berlusconi». Parole filtrate all’esterno del quartier generale dei Democratici, e commentate con un sorriso dal leader Udc: «Capisco le esigenze propagandistiche di tutti». Frecciatine, ma anche chi come D’Alema non vuole rompere i ponti con Casini fa notare al leader centrista che «l’ostacolo principale a questa pacificazione è rappresentato da Berlusconi».
DIREZIONE MOVIMENTATA
Paradossalmente, la mossa di Casini potrebbe facilitare il compito a Bersani, che sa bene che per poter lavorare con qualche possibilità di successo ai tanti fronti esterni deve prima di tutto ricompattare un partito che oggi appare diviso su troppe questioni, prima fra tutte quella delle alleanze. Alla Direzione di domani Bersani rilancerà la proposta di «patto costituente» a tutte le forze politiche e sociali interessate ad andare «oltre Berlusconi», sottolineando che ora sta agli altri decidere se raccoglierla o meno. Un modo per sottrarsi all’accusa di Veltroni di mettere il partito «all’inseguimento» dei centristi (l’altro cofondatore di Movimento democratico però, Beppe Fioroni, vede tutt’altro che di cattivo occhio le aperture a Casini), anche se non è detto che il leader del Pd riuscirà a uscire indenne dalla riunione. Enzo Bianco sottolineerà la necessità di smetterla col sostegno al governo Lombardo in Sicilia, Pippo Civati darà battaglia sulle primarie, Matteo Renzi, che oggi diserterà la «giusta direzione» organizzata a Roma dal “compagno rottamatore” (o ex, visto che i due sono divisi su come debba ora muoversi il popolo che si è riunito alla Leopolda, se cioè debba organizzarsi o meno sul territorio), andrà alla Direzione con piglio piuttosto battagliero: «Io sono dalla parte di Marchionne, dalla parte di chi sta investendo nelle aziende quando le aziende chiudono», ha detto ieri. E domani sarà a Roma, «sperando che Bersani non chiacchieri di aria fritta, ma dei problemi degli italiani, non chiacchieri dell’inciucio con Fini, ma del futuro del Pd, che è credibile se smette di inseguire i falsi problemi e dice agli italiani quali sono le nostre soluzioni per ripartire».
Proprio sulla Fiat la discussione non mancherà, come fa presagire non solo l’uscita di Rosy Bindi («un partito come il nostro deve prendere una posizione»), ma anche il botta e risposta andato in scena durante la riunione della segreteria, con Matteo Orfini che ha parlato di punti dell’accordo che costituiscono «precedenti pericolosi» e con Sergio D’Antoni che ha criticato chi definisce il referendum «un ricatto»: «Io l’accordo l’avrei firmato e al referendum voterei sì».
E a proposito di voto, domani potrebbe esserci discussione anche sull’ipotesi di chiudere o meno la Direzione con una votazione. A volere un pronunciamento sono gli esponenti di Area democratica perché, ha detto Franceschini, «deve uscire una linea politica chiara». Ne farebbero invece a meno quelli di Movimento democratico: «Si vota quando c’è qualcosa di eterno, irrevocabile, irreversibile ha detto Fioroni se il segretario lo chiede, voteremo». E Verini: «Dobbiamo discutere, non solo al chiuso ma col paese. Le conte sono veramente l’ultimo dei problemi».

Repubblica 12.1.11
Bersani contro Marchionne: misuri le parole
"Spieghi gli investimenti". D’Alema: "Vendola a Mirafiori? Sbaglia". Renzi: sto con l’ad
di Goffredo De Marchis


ROMA - La posizione che tiene insieme il Pd sulla Fiat è chiara: venga rispettato l´esito del referendum, dall´azienda e dalla Fiom. Ma le ultime dichiarazioni di Sergio Marchionne seminano nervosismo alla vigilia della direzione del partito che si tiene domani proprio durante le votazioni a Mirafiori. Pier Luigi Bersani non è tenero con l´amministratore delegato: «Saprà misurare le auto, Marchionne, ma non sa misurare le parole», dice al Tg3. Ancora più esplicito il segretario quando conversa davanti alla saletta tv della Camera, prima del collegamento. «Il tono del manager è inaccettabile. Stiamo ancora aspettando che dica come e dove vuole investire i 20 miliardi promessi. E mi farebbe piacere sapere in quale modo sono state utilizzate le risorse pubbliche finite al centro ricerche della Fiat».
Bersani, che ha ricoperto la carica di ministro dell´Industria, spiega che il poco dei fondi destinati dallo Stato alla ricerca finisce in primo luogo al settore aerospaziale. Ma subito dopo viene l´ufficio progetti della fabbrica torinese. Eppure l´innovazione dell´azienda sembra ferma al palo. «Comunque - insiste il leader democratico - resta uno scandalo l´assenza del governo. Il ministro ha un potere insindacabile. Se convoca le parti al tavolo c´è l´obbligo di andare. Si può essere olandesi, cinesi, russi, di Detroit o di Torino, ma bisogna sedersi al tavolo del governo. Ed è clamoroso che non sia successo in una vicenda come questa». Prima della riunione di domani, Bersani parla anche del rapporto con Casini. Non sono parole d´amore. «Lui traccheggia, tentenna. Libero di farlo, ma questo significa tenersi Berlusconi altri dieci anni, magari al Quirinale. Basta traccheggiamenti, l´Udc scelga. Noi andiamo avanti, il Pd presenterà una sua piattaforma, la discuterà con tutte le forze di opposizione. Ma bisogna superare i veti».
La scadenza di Mirafiori, malgrado la posizione unitaria sul referendum, scalda i muscoli democratici. Nella segreteria hanno discusso animatamente Sergio D´Antoni, ex segretario della Cisl, e Matteo Orfini. D´Antoni ha difeso la firma di Fim e Uilm: «E nessuno mi venga a dire che è un ricatto. Tutti i quesiti lo sono». Orfini però ha parlato di «precedenti pericolosi» nell´accordo. Una discussione vera che il Pd cercherà di evitare nella direzione per non dividersi e per lasciare libertà ai lavoratori di decidere senza condizionamenti. Come spiega Massimo D´Alema: «Non posso dire se avrei firmato o meno. Perché non sono un lavoratore della Fiat e quel lavoratore voglio rispettarlo». A Otto e mezzo il presidente del Copasir rifiuta il tifo: «Non sto né con Marchionne né con la Fiom». Ma non accetta che l´accordo sia definito una conquista di modernità: «Quale modernità. Semmai quell´intesa è un´intesa di arretratezza». È un giudizio abbastanza chiaro, da inserire nel contesto di un´azienda che vive sicuramente un momento delicato, in una fase di crisi globale. Per rispetto, però, dopo aver espresso la propria posizione, la politica dovrebbe restare fuori. Ecco perché la visita di Nichi Vendola ai cancelli di Mirafiori, oggi, non piace a D´Alema. «Che un leader politico entri nel confronto tra sindacati in questo modo è un errore. Noi siamo un grande partito nel quale militano i sindacalisti della Fiom ma anche della Fim e della Uilm. Noi non possiamo prendere partito per un sindacato». Matteo Renzi invece tifa e non ha dubbi: «Sto con Marchionne senza se e senza ma. La Fiat tira fuori i soldi invece di chiederne e il Pd non si schiera? Io sto con chi investe».

Corriere della Sera 12.1.11
In Italia da clandestini Scattano le assoluzioni
Torino e Firenze, prime sentenze dopo la direttiva Ue
di Luigi Ferrarella


MILANO — Stranieri irregolarmente in Italia, ma assolti e liberati «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» o «perché il fatto non sussiste» dal 24 dicembre scorso. Solo che il reato evaporato è uno di quelli «considerati dal legislatore italiano un basilare strumento di contrasto all'immigrazione clandestina» , un caposaldo della legge Bossi-Fini: l’ «inosservanza dell'ordine di allontanamento del questore» entro 5 giorni da parte dello straniero già destinatario di un provvedimento di espulsione, punito con la reclusione da 1 a 4 anni. Una fattispecie che ora il Tribunale di Torino— spiega il giudice Quinto Bosio nelle depositate motivazioni dell’assoluzione in abbreviato di un peruviano candidato dal pm a 8 mesi di condanna, e argomentano i giudici Alessandra Salvadori e Diamante Minucci nell’assolvere due cittadini di Egitto e Mauritania — ritiene di poter «disapplicare» , senza nemmeno bisogno di investire la Corte Costituzionale, per «lampante contrasto con la direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo del 16 dicembre 2008» : direttiva che, prevedendo «misure precise, chiare e incondizionate» e avendo «effetti giuridici favorevoli per l'individuo nei confronti dello Stato inadempiente» , è «immediatamente applicabile» (self-executing) in Italia dal 25 dicembre 2010, «giacché il 24 dicembre è infruttuosamente scaduto il termine per la relativa attuazione da parte del legislatore nazionale» . E la Bossi-Fini (di recente amputata dalla Consulta nella parte in cui non prevedeva che la responsabilità penale dello straniero irregolare venisse meno in caso di «giustificato motivo» a trattenersi in Italia oltre i 5 giorni) è disapplicata non solo a Torino, ma anche a Firenze, dove il pm Paolo Barlucchi ravvisa «l’abrogazione implicita» della norma italiana; o a Pinerolo, dove il procuratore Giuseppe Amato archivia uno straniero il cui «arresto deve considerarsi illegittimo» . La direttiva Ue, sui cui effetti dirompenti erano stati il professor Francesco Viganò e il ricercatore Luca Masera a riflettere già mesi fa, e alla quale una circolare del capo della Polizia il 17 dicembre 2010 ha invitato le Prefetture ad adeguarsi per le espulsioni dal 24 dicembre in poi, intende contemperare l’interesse statale all’effettività dell’espulsione di stranieri irregolari con il rispetto della loro libertà personale. E perciò disegna una procedura di rimpatrio «attraverso misure gradatamente coercitive» che «solo come extrema ratio culminano nel trattenimento presso i centri di permanenza temporaneo, o in istituti penitenziari, ove gli stranieri siano tenuti separati dai detenuti ordinari, per un tempo limitato, non eccedente i 18 mesi e strettamente necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio» . Ma questa disciplina «non pare conciliabile» con la previsione nella Bossi-Fini di «una sanzione penale nell'ambito della procedura amministrativa di espulsione» , misura coercitiva «qualitativamente diversa e temporalmente più estesa di quella prevista dalla direttiva Ue» che non ammette «una ipotesi di detenzione sine die finalizzata a rendere effettivo l'allontanamento dell'irregolare» . Se infatti lo straniero non ottempera senza giustificato motivo all'ordine di allontanamento, è punito dalla legge italiana con la reclusione da 1 a 4 anni ed è di nuovo espulso; se resta, è di nuovo punito con la reclusione da 1 a 5 anni ed è ancora espulso, con conseguente nuovo trattenimento e/o nuovo ordine di allontanamento. Ma se non cessa la presenza in Italia dello straniero, in teoria questa sequenza non ha fine con la Bossi-Fini, superando (con un titolo solo formalmente diverso) i 18 mesi indicati dalla direttiva Ue come massimo di detenzione amministrativa. Restano invece compatibili con l’operatività della direttiva Ue, e dunque rimangono in vigore, le espulsioni disposte dall’autorità giudiziaria a conclusione di procedimenti penali: come misura di sicurezza, oppure a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione.

Corriere della Sera 12.1.11
Sul fine vita fermiamo il tifo da stadio
di Ignazio Marino


C aro direttore, dopo molti mesi di silenzio, a febbraio il Parlamento esaminerà il disegno di legge sul testamento biologico. Purtroppo è prevedibile che il dibattito sarà affrontato in un clima da stadio, con tifoserie contrapposte, con l’idea di dover vincere su un avversario, con il Pdl che tenterà la resa dei conti con Futuro e libertà, puntando sulla divisione del cosiddetto terzo polo. Come se una legge per definire le scelte relative alla fine della vita riguardasse solo il ristretto cerchio della politica, con le sue assurde dinamiche e i suoi squilibri, e non, invece, tutte le persone che prima o poi con la fine della propria vita dovranno fare i conti. Temo che non sfuggiremo allo scontro ideologico, alle offese e agli insulti in Parlamento, sui giornali e in televisione e non vi sarà alcun confronto pacato su una legge che, al contrario, dovrebbe essere rispettosa di ogni sensibilità. Partendo da questi funesti presupposti, ho letto ieri con interesse la posizione di Umberto Veronesi e, nonostante mi sia impegnato con molta determinazione per fare sì che l’Italia abbia finalmente una legge sul testamento biologico, mi ritrovo a dire che probabilmente Veronesi ha ragione: piuttosto che approvare una legge che impedisce la libertà, forse sarebbe meno dannoso lasciare le cose come stanno e non votare alcuna legge. Meglio lasciare la questione nel limbo attuale in cui ogni giorno all’interno degli ospedali, i medici decidono da soli se proseguire o interrompere le terapie seguendo le indicazioni della medicina e della propria coscienza o parlando in maniera informale con i familiari dei pazienti che non hanno più la capacità di esprimersi e di decidere da soli. Con ogni probabilità Veronesi non sarà ascoltato, perché quella sul testamento biologico è una legge simbolo per la destra e perché in Parlamento si respira l’aria di regolamento di conti. Tuttavia, penso valga la pena fare ancora uno sforzo e cercare, con senso di responsabilità, una soluzione che sia nell’interesse delle persone e di tutti i pazienti. Mettendo da parte ogni arroccamento pretestuoso, si discuta di una legge che rifletta due principi: libertà e rispetto. Basta un emendamento per sostituire interamente la legge attuale e scriverne una più semplice, di un solo articolo. Una legge che dia alle persone la libertà di indicare fino a che punto si intende essere sottoposti alle terapie, nel caso si perda la coscienza e la capacità di esprimersi senza una ragionevole speranza di recupero. E sul punto più delicato, quello che riguarda la nutrizione e l’idratazione artificiale, quel prolungamento per legge di una vita artificiale, come la definisce Umberto Veronesi, perché non scrivere che queste terapie debbano essere sempre offerte e garantite a tutti coloro che non le rifiutino esplicitamente nelle dichiarazioni anticipate di trattamento? Per me, lo ammetto, questa non sarebbe la legge ideale, ma la ritengo una proposta su cui si potrebbe trovare l’accordo di tutti. Il Parlamento abbia il coraggio e la responsabilità di fare un passo indietro per far compiere un passo avanti al Paese. senatore pd e presidente Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale

il Fatto 12.1.11
Niente sesso, sono il Papa
di Paolo Flores d’Arcais


Il discorso che Joseph Ratzinger ha tenuto di fronte “agli Eccellentissimi membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, per la presentazione degli auguri per il nuovo anno” è un vero e proprio manifesto di teocrazia cristiana, anzi “cattolica romana”. Una esplicita dichiarazione di guerra (in nome della Pace, ovviamente: Orwell docet) alla democrazia laica e alle sue storiche e liberali conquiste. La frase di Benedetto XVI che ha fatto il giro del mondo è quella che stigmatizza come “minaccia alla libertà religiosa (…) la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile”. In sé, un’affermazione insensata, oltre ogni ridicolo. Sul Web è stato perciò anche un fiorire di commenti tipo “perché occuparsi di tali sciocchezze? Parlate di problemi seri, piuttosto”. In effetti, se una persona qualsiasi, estratta a sorte, proclamasse che l’educazione sessuale nelle scuole minaccia la libertà religiosa, verrebbe preso per demente, e nemmeno dei più innocui, visto che proprio mentre il Papa esponeva i suoi anatemi agli “Eccellentissimi membri”, i giornali erano pieni dell’ultima statistica sul dramma dell’“analfabetismo sessuale” degli adolescenti, moltissimi dei quali ritengono che una lavanda vaginale con la Coca Cola garantisca contro una gravidanza indesiderata, e la stessa cosa avvenga se l’amore lo si fa in piedi. Ma Ratzinger non è un individuo qualsiasi, visto il potere che esercita. Crescente presso troppi governi, anche se in caduta libera presso i credenti. Di quanto ha detto bisogna perciò occuparsi con assoluta serietà.
PRIMA osservazione: Benedetto XVI ha pronunciato la sua geremiade contro le libertà laiche in un discorso che si apriva ricordando le violenze e le stragi contro i cristiani in Egitto e in altri paesi a egemonia islamica, che hanno insanguinato questo inizio di anno. Queste ultime sì, minacce alla libertà religiosa, e anzi minacce realizzate. In una parola terrorismo religioso, più o meno coperto dai rispettivi governi.
Far seguire, “spostandosi da Oriente ad Occidente”, un elenco di “altre minacce” alla libertà religiosa, produce perciò un inquietante “effetto amalgama”, retoricamente calcolato, per cui sarebbe “terrorismo”, magari soft, anche quello dei governi democratici, delle cui laiche nefandezze il professor Ratzinger sciorina il catalogo.
Il Sommo Pontefice felicemente regnante non tollera che nelle scuole l’insegnamento sia “neutrale”, perché “in realtà” rifletterebbe “un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione”. E quale altra “antropologia”, diversa dalla libertà/responsabilità di ciascuno, potrebbe mai trasmettere una democrazia, il cui fondamento è la sovranità – esercitata in comune – di ogni cittadino? Perciò, lasciamo pure da parte l’educazione sessuale (il Papa evidentemente preferisce adolescenti che credono che la masturbazione provochi cecità: qualsiasi fola, pur di reprimere la sirena del piacere, in una ossessione sessuofobica di cui non c’è traccia nelle parole di Gesù ma che trae origine da una fissazione nevrotica di san Paolo). Parliamo di educazione civica. Dovrebbe essere forse la principale materia d’insegnamento, perché i valori della Costituzione (se democratica come la nostra, ovviamente: per quelle alla Putin e alla Gheddafi il discorso si rovescia) sono l’unico ethos comune a cui tutti dovrebbero essere educati – quali che siano per il resto le diverse convinzioni religiose, politiche, morali di ciascuno – se si vuole una civile convivenza . È proprio l’educazione a interiorizzare la Costituzione l’unico insegnamento davvero neutrale, l’unico rispettoso di tutte le altre differenze. Senza quella educazione comune la convivenza all’insegna della “sovranità popolare”, fondata cioè sull’autonomia di tutti e di ciascuno, rischia di ricadere in una guerra civile potenziale permanente fra “appartenenze” conflittuali di fede, sangue, suolo, ideologie.
MA RATZINGER , quale ethos comune, quale insieme minimo (ma esigente) di valori, non vuole la Costituzione democratica e la sua interiorizzazione educativa, per la quale sono egualmente sovrani l’ateo e il cattolico, l’ebreo e il valdese, il buddista e il maomettano. Vuole una “antropologia” informata “alla fede e alla retta ragione”. La sua, insomma. Pretende, perciò, che vengano abrogate le “leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto”, intendendo con questi ultimi i magistrati che dovessero dare ragione a Englaro e Welby. Come se una democrazia-democrazia, cioè una democrazia di tutti, e non solo dei fan di una “retta ragione” di clericale “bacio della pantofola”, non conoscesse semmai il problema opposto: diritti degli individui (in primo luogo donne) calpestati dall’uso politicamente incentivato di tali obiezioni.L’anatema si estende ovviamente all’Europa che ritiene discriminatorio (verso le altre religioni e verso gli atei) il simbolo cristiano negli edifici pubblici) e ai “pretesi nuovi diritti, attivamente promossi da certi settori della società”, che sono solo “l’espressione di desideri egoistici e non trovano il loro fondamento nell’autentica natura umana”.
Senza perifrasi: Ratzinger vuole che le leggi dello Stato obbediscano alla legge di Dio, l’unica che promuova l’autentica natura umana. E di entrambe il portavoce è, fai un pronostico, il Papa stesso. Si chiama teocrazia. È incompatibile con la democrazia. Radicalmente. Anche se nessuno degli infiniti finti liberali che infestano i media italiani lo dirà mai.


Repubblica 12.1.11
La (mala) educazione sessuale
Il rischio dell´ignoranza adolescenti di oggi impreparati e imprudenti come i loro genitori
di Maria Novella de Luca


Ratzinger condanna l´educazione sessuale "che allontana dalla fede" e riaccende il dibattito Ma in Italia, in assenza di una legge adeguata, l´insegnamento nelle classi non è mai decollato. Ed è affidato più a Internet che ai professori. Con qualche conseguenza, avvertono gli esperti: i ragazzi sono sempre più soli, spaesati e senza strumenti Un preside: "I giovani vogliono parlare, sapere, imparare a proteggersi, che senso ha invece la legge del silenzio?"

La legge non c´è, i corsi nemmeno, e i ragazzi si arrangiano, come possono, dove possono. C´è sempre qualcuno un po´ più grande che spiega "come si fa", ma soprattutto c´è la Rete, unica, grande ma spesso improvvisata fonte di informazione. In particolare se parliamo di sesso, di sessualità, di educazione sessuale, che in Italia non c´è, non si fa, la legge che ne prevedeva l´insegnamento è ferma dal 1975 in Parlamento, le scuole fino ad ora finanziavano corsi e lezioni con i propri fondi, ma adesso con i nuovi tagli basta, fermi tutti, ci possono pensare i prof di Religione o quelli di Scienze, magari i genitori...
Il risultato è invece un grande silenzio, i giovanissimi vivono e sperimentano l´amore senza rete, l´età del primo rapporto, dicono le statistiche, è di 14 anni, ma è difficile proteggersi e preservarsi se si è poco più che bambini.
Eppure con parole nette e senza appello due giorni fa Benedetto XVI ha affermato che "l´educazione sessuale è contro la fede", bocciando quegli stati che di sesso e di contraccezione parlano a scuola, come avviene in realtà in quasi tutta l´Europa, Italia esclusa. E la risposta alle parole del Pontefice è stata la riapertura nel nostro Paese di un dibattito che non si è mai spento, di una legge attesa da 35 anni, ma anche di roventi polemiche che continuano ad accompagnare ogni installazione di distributori di condom nei licei, ogni corso di sessualità un po´ più esplicito.
Invece, secondo una recente indagine della Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia, il 64% degli studenti delle scuole superiori vorrebbe un corso di educazione sessuale a scuola, e il 44% sarebbe felice di poter parlare di questi temi a casa. Pur di sapere, conoscere, capire. «Siamo di fronte ad un pericoloso salto all´indietro - ammette Anna Sampaolo, coordinatrice dei corsi di educazione sessuale per l´Aied - perché sempre più scuole ci chiedono i nostri corsi, ma sempre meno istituti possono finanziarli. Parlare di sessualità ai bambini e agli adolescenti è sempre stato difficile in Italia, nonostante l´enorme interesse che poi questi incontri suscitano, e l´impossibilità di varare una legge che ne promulgasse l´insegnamento a scuola ne è la prova più evidente. Ma fino a qualche anno fa molti presidi riuscivano a mettere in piedi seminari e lezioni, oggi non più. Invece la cosa più bella è che in questi incontri si discute di affettività, di relazioni tra maschi e femmine, di rispetto per il proprio corpo, di sesso certo, ma come risultante di tutto questo... Forse chi ci attacca e pensa che noi parliamo soltanto di aborto - prosegue Anna Sampaolo - dovrebbe venire ad ascoltare, a vedere. La verità è che i ragazzi sono disperatamente alla ricerca di qualcuno con cui confrontarsi, ma anche pieni di false informazioni e credenze, che si passano tra di loro o, peggio, acquisiscono su Internet". Così se la verginità resta un tema-problema centrale sia per i maschi sia per le femmine, ben poche ragazze sanno dove sia (e cosa sia) l´imene, leggende dure a morire come i lavaggi con l´aceto e la coca cola contro le gravidanze indesiderate compaiono nei forum per teen-ager, e il profilattico resta ancora per gran parte dei maschi (anche adulti) una fastidiosa barriera al piacere totale.
Non si sa se sia vero o meno, come afferma il Papa, che i corsi di educazione sessuale allontanino dalla fede. Di certo quando nelle scuole vengono organizzati sono un successo. Così come è accaduto al liceo scientifico "Giovanni Keplero" di Roma, dove circa un anno fa, tra feroci polemiche riprese anche dalla Bbc, è stato installato un distributore di profilattici a "prezzo politico".
«Contro di me si è scatenato il diluvio - dice oggi il preside del "Keplero" Antonio Panaccione - mi hanno accusato di tutto, anche di traviare i giovani. Invece quel distributore, che è ancora lì, nessuno l´ha danneggiato e i ragazzi comprano regolarmente i preservativi a 2 euro a scatola, era soltanto una parte di un programma assai più vasto sulla protezione delle malattie sessualmente trasmissibili, che si è concluso proprio ieri. Un progetto finanziato dalla provincia di Roma, con gli esperti della Lila, la lega italiana contro l´Aids, che hanno formato un gruppo di studenti, i quali a loro volta hanno fatto lezione ai loro coetanei. Un´esperienza straordinaria di peer education, seria, scientifica, del resto tra i giovani il contagio da Aids è di nuovo una realtà, così come le gravidanze delle adolescenti. Gli stessi genitori - aggiunge Panaccione - all´inizio ostili, preoccupati, poi si sono resi conto dell´importanza di parlare di rapporti sicuri, e di quanto fossero maturi i loro figli. Davvero non capisco questo attacco del Papa, a quanti secoli indietro ci vogliono portare? I giovani vogliono parlare, sapere, imparare a proteggersi, che senso ha invece la legge del silenzio?».
Nessuno forse, a giudicare dalle conseguenze dell´amore senza rete praticato dagli adolescenti, e da vent´anni di disinteresse sui "contagi sessuali" seguito alle battenti campagne degli anni Ottanta contro l´Aids. Il risultato è che malattie che si pensavano scomparse, come la clamidia, la sifilide, la gonorrea, per non parlare dei sieropositivi under 20, sono tornate a presentarsi. Ma se di tutto questo non si parla a scuola, se i consultori sono in via di smantellamento, se i genitori girano gli occhi dall´altra parte, a chi si devono rivolgere i ragazzi? Giorgio Vittori, primario di Ginecologia e Ostetricia all´ospedale San Carlo di Nancy di Roma, ex presidente della Sigo, non ha dubbi: «Sono la scuola e la famiglia che devono fare informazione, gli adolescenti sono una categoria a rischio, oggi le criticità sono due, un incontro troppo precoce con il sesso, che può portare a gravidanze indesiderate, al contagio di malattie anche gravi, e poi lo spostamento troppo in avanti della programmazione di un figlio. Il tema non è profilattico sì, o profilattico no. Il punto è educare i giovani a proteggersi, e fin dalla scuola avere un reale messaggio sulla vita riproduttiva».
Eppure tutto questo non basta. Anzi c´è molto altro. Perché l´adolescenza è un´età sfuggente, ombrosa, bellissima ma imprevedibile. Infatti, dice Chiara Mezzalama, psicoterapeuta dell´infanzia, «in quest´età si gioca con il rischio, con la morte, con la voglia di sentirsi grandi, e c´è quindi una voglia di azzardo impossibile da controllare». Altra cosa però è l´ignoranza. Il non avere né luoghi né risorse. «I ragazzi non sanno dove andare, e nelle scuole stesse non è facile fare educazione sessuale, anche per la diffidenza delle famiglie, che non voglio parlare di questi temi ma non si fidano degli estranei. Così ai giovanissimi - aggiunge Chiara Mezzalama - non resta che la Rete. E il rischio qui è grande. Perché questa generazione è ormai abituata ai rapporti virtuali, disincarnati, senza fisicità, e quando invece i ragazzi si trovano nell´incontro sono del tutto impreparati agli ostacoli della realtà, al passaggio del corpo. Se poi consideriamo che l´accesso alla pubertà avviene sempre prima, è evidente come questa precocità altro non sia che una grande fragilità. L´educazione sessuale invece - conclude Mezzalama - può aiutare a rimettere insieme il corpo e le emozioni, portare alla conoscenza di sé. Ma ci vorrebbero luoghi, scuole, consultori, invece manca tutto...».

Repubblica 12.1.11
Il rischio dell’ignoranza adolescenti di oggi impreparati e imprudenti come i loro genitori
di Chiara Saraceno


L´anatema del pontefice contro l´educazione sessuale perché «contro la fede e la retta ragione» ricorda tanto quelli che nel passato sono stati lanciati, anche dalla stessa chiesa Cattolica e da qualche pontefice, contro l´istruzione dei ceti subalterni (e delle donne): perché foriera di pericolose tentazioni a pensare con la propria testa. Non si capisce infatti che cosa c´entri con la fede, e ancor meno la retta ragione - qualsiasi cosa si intenda con quell´aggettivo che qualifica, e limita, il concetto stesso di ragione. L´educazione sessuale, come educazione alla conoscenza del proprio corpo, della sessualità come attività integralmente umana, che riguarda il corpo, ma anche il cervello e le relazioni, dovrebbe essere una parte importante dell´educazione dei bambini e degli adolescenti. Ne trarrebbero giovamento anche molti adulti.
Chi si oppone all´educazione sessuale, oltre ad avere una visione negativa, o puramente strumentale, della sessualità, sembra ritenere che legittimare un discorso educativo su di essa di per sé solleticherebbe istinti e pulsioni che altrimenti rimarrebbero dormienti e solleciterebbe all´attività sessuale soggetti che invece dovrebbero astenersi. Con un paradossale rovesciamento dei rapporti causa effetto, secondo gli oppositori dell´educazione sessuale la conoscenza libererebbe le pulsioni, invece che essere queste il motivo di interrogativi che meriterebbero risposta, di esperienze che richiederebbero riflessione. Meglio una bambina che diventa mamma a tredici anni, come è successo poco tempo fa, che adolescenti che sono accompagnati riflessivamente nella esperienza eccitante, ma anche complicata e non priva di dubbi e sofferenze, del corpo proprio e altrui che muta, del desiderio che si presenta prepotentemente, dell´attrazione ricambiata o rifiutata.
Il risultato di questa resistenza all´educazione sessuale, supinamente fatta propria, con poche e temporanee eccezioni, dai ministri dell´istruzione che si sono succeduti nella storia della repubblica, è una singolare ignoranza sessuale diffusa a tutte le età, ma particolarmente tra i più giovani e perciò più vulnerabili. Gli adolescenti di oggi non sembrano sapere molto di più di quelli di un tempo su come evitare una gravidanza o una malattia venerea. Contrariamente a quanto pensa il pontefice e i suoi sostenitori, questa ignoranza non impedisce che si abbiano rapporti sessuali in età sempre più precoce, al contrario. Ma li abbandona alla irriflessività, all´imprudenza, a volte anche alla sopraffazione e alla pura strumentalità reciproca, spesso asimmetrica tra i sessi. Come mostrano diverse ricerche sulla sessualità degli adolescenti, spesso i maschi dichiarano di fare sesso "perché ne hanno bisogno", perché ogni tanto devono "sfogarsi", mentre le ragazze dicono di farlo "per far piacere al loro compagno", come "prova d´amore" - ahimè non molto diversamente dai loro nonni e nonne, pur in un contesto apparentemente più libero. Siamo sempre all´atto sessuale come remedium concupiscentiae, anche se non necessariamente solo entro il matrimonio. Del resto, questa sessualità agita in un contesto culturale ignorante e irriflessivo, e perciò anche profondamente misogino, è responsabile anche dello squallore di tanta pubblicità e televisione.
Stupisce che il papa abbia posto questo tema al centro del suo discorso di inizio anno. Quasi che non ce ne fossero altri più importanti, sia dal punto di vista spirituale che dell´etica pubblica e privata - come ha drammaticamente ricordato la morte per freddo del neonato di Bologna, ultimo di una lunga fila di bambini che muoiono ogni giorno nel mondo e troppo spesso anche in Italia per povertà, disattenzione, violenza. Ma siamo ormai abituati ad un ordine di priorità che, nella sua ossessione per la sessualità e la difesa della "vita", sembra aver perso la bussola. Come scriveva sull´Avvenire nel 1996 un cattolico come Gorrieri in risposta ad una delle tante chiamate a raccolta in nome della vita, "i settanta-ottanta anni che stanno in mezzo (tra il nascere e il morire) non presentano alcun problema che interpelli la coscienza cristiana?" Tuttavia, dal punto di vista della formazione culturale e civile delle nuove generazioni, è un tema niente affatto irrilevante, anche se in senso opposto a quello auspicato dal pontefice.

Corriere della Sera 12.1.11
Il fine non giustifica i mezzi: la forza della non violenza
La lezione di Gandhi cambiò la storia del Novecento
di Michelguglielmo Torri


A oltre sessant’anni dalla sua morte violenta per mano di un fanatico indù, Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma («grande anima» ), rimane il più noto fra i figli dell’India. È una fama che deriva dall’idea che il Mahatma abbia inventato — e, soprattutto, abbia applicato con successo — un metodo di lotta, la non violenza, che è, al contempo, eticamente alto e politicamente efficace. Sarebbe infatti stata la non violenza a rendere possibile quella grandiosa rivoluzione che, alla metà del secolo scorso, portò alla trasformazione dell’India da colonia a Stato indipendente, e al passaggio di quel Paese da un regime autoritario ad un sistema democratico. In cosa consiste la non violenza gandhiana, definita dal suo inventore satyagraha, «fermezza nella verità» ? L’elemento primario è che, lungi dall’essere una forma di «non resistenza» , la non violenza è un metodo di lotta. Esso parte dalla convinzione che vi sia un imperativo etico assoluto di combattere il male. In tale lotta, bisogna usare strumenti non violenti, dato che vi è un rapporto diretto tra i mezzi ed i fini. Un fine nobile, quindi, non giustifica un mezzo indegno, quale la violenza, perché tra il mezzo e il fine c’è lo stesso rapporto di continuità che c’è tra il seme e la pianta: da un seme velenoso non può che nascere una pianta velenosa. Ciò detto, vale la pena di sottolineare che, in tempi diversi della sua vita, Gandhi espresse chiaramente la propria convinzione che, fatta salva la superiorità della non violenza, la resistenza al male, anche se con metodi violenti, è da preferirsi alla non resistenza. Concretamente, la non violenza gandhiana si articolava in tre strategie: il rifiuto di collaborare con istituzioni inique; la costruzione di istituzioni alternative a quelle inique; l’attiva disobbedienza alle leggi ingiuste. L’attuazione di queste strategie doveva poi essere accompagnata dalla volontaria accettazione delle pene e delle sofferenze che ciò comportava. Secondo Gandhi, lo spettacolo di una sofferenza ingiustamente subita è destinato a portare ad una presa di coscienza, da parte dei responsabili della violenza, dell’iniquità del loro comportamento. La non violenza, cioè, alla fine causa un «cambiamento del cuore» nei rei di sofferenze inferte ingiustamente, portandoli ad accettare la giustizia della causa di chi applica la non violenza. Questo è l’aspetto teorico, apparentemente ingenuo, del satyagraha. La non violenza, però, si basa sull’acuta percezione che un sistema di potere, per essere in grado di funzionare, deve avere la collaborazione passiva o attiva delle persone ad esso sottoposte. Nel momento in cui questa collaborazione si interrompe, il sistema è inevitabilmente destinato ad entrare in crisi. Questo sarebbe appunto ciò che accadde in India: le successive campagne non violente condotte da Gandhi (nel 1919, nel 1920-22, nel 1930-33, nel 1940 e nel 1942) ridussero ad un guscio vuoto il sistema di potere coloniale. Quindi, quando, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, gli inglesi decisero di andarsene, non fecero che accettare l’inevitabile. In realtà, le ragioni di questa decisione non sono riconducibili solo alla «forza irresistibile» della non violenza: economicamente, il dominio dell’India non era più di nessuna utilità; gli Usa e l’Urss, emersi come i veri vincitori della Seconda guerra mondiale, erano entrambi ostili alla continuazione degli imperi coloniali europei; l’economia inglese era uscita a pezzi dalla guerra e non era in grado di farsi carico dei costi economici di un’azione militare in India; il pubblico inglese voleva concentrarsi sulla ricostruzione in patria. Rimane però il fatto che i movimenti gandhiani svolsero due ruoli cruciali: il primo consistette nel delegittimare il dominio inglese in India (ma anche fuori dall’India, Usa e Inghilterra compresi); il secondo fu di creare, forgiata in circa trent’anni di lotta, una nuova classe dirigente, che si dimostrò all’altezza della sfida rappresentata dal governo di una nazione che centocinquant’anni di colonialismo avevano lasciato povera e arretrata. Che il satyagraha fosse un modello da seguire nella lotta non solo per l’indipendenza, ma anche per la costruzione di uno Stato democratico, è una percezione che incominciò a diffondersi fuori dall’India già al tempo della lotta per l’indipendenza. Giorgio Borsa, l’autore del primo studio italiano su Gandhi (originariamente comparso nel 1942), amava ricordare come il suo interesse per il Mahatma fosse nato, negli anni Trenta, dal desiderio di capire come fosse stato possibile, in India, mobilitare centinaia di migliaia di persone in una lotta non violenta, quando nel medesimo periodo, in Italia, gli sforzi di Giustizia e Libertà, di cui Borsa faceva parte, si erano rivelati incapaci di mobilitare manifestazioni di dissenso antifascista invero modeste. Da allora, la non violenza gandhiana ha trovato applicazione fuori dall’India in una serie di casi, a volte con successo, a volte no. Fra quelli di maggior successo vi sono stati, negli anni Sessanta del secolo scorso, il movimento per i diritti civili degli afroamericani guidato da Martin Luther King; quello — meno noto ma ugualmente importante— per i diritti civili dei messicoamericani, guidato da César Chávez; e, infine, quello che, negli anni Ottanta, portò all’abbattimento della dittatura di Ferdinand Marcos nelle Filippine. Ma, in definitiva, la non violenza non è uno strumento irresistibile, utilizzabile in qualsiasi contesto (anche se questo si può dire di qualsiasi altro strumento di lotta politica). Riflettere sull’insegnamento gandhiano, senza aspettarsi di aver finalmente trovato la chiave universale per risolvere in modo equo, rapido e indolore qualsiasi conflitto, è tuttavia un modo di porsi il problema di come sconfiggere il male, senza usare strumenti che rendano a priori impossibile il raggiungimento di tale obiettivo. Si tratta, cioè, di uno sforzo — intellettuale e a volte pratico— che vale ancora e sempre la pena di fare.

Corriere della Sera 12.1.11
L’umanità come scopo: l’imperativo morale di Kant
I diritti, senza i doveri, perdono il loro vero senso
di Giovanni Reale


Immanuel Kant (1724-1804) è considerato una pietra miliare nel pensiero occidentale. La sua concezione dell’ «Io penso» è stata determinante in età moderna e contemporanea. La Scuola neokantiana di Marburg, fra l’Ottocento e il Novecento (soprattutto con Hermann Cohen e Paul Natorp, uno dei maestri di Martin Heidegger), ha avuto notevoli influssi, riproponendo Kant insieme a Platone, riletto in ottica kantiana. Ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso, nell’Università di Marburg (che ho frequentato nel 1954, 1955 e 1956), sentivo ripetere che i due pensatori che hanno raggiunto i vertici del pensiero filosofico sono Platone e Kant. Va detto, però, che la lettura di Kant è fra le più ardue, per il suo stile involuto. Ricordo che il professore che a Marburg mi insegnava il tedesco ed era uno specialista di letteratura non gradiva leggere con me opere kantiane, perché riteneva insopportabili certi lunghissimi suoi periodi zeppi di frasi incidentali, in quanto — mi diceva con significativa metafora— non aveva dita sufficienti per tenere sotto controllo quegli incisi e congiungere l’inizio con la fine del periodo. Alla base di ogni grande filosofo sta quella acutezza di pensiero con la quale vengono individuati i grandi problemi di fondo dell’uomo. Kant nella Critica della ragion pura (1781) scriveva: «Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si unifica nelle tre domande che seguono: 1) Che cosa posso sapere? 2) Che cosa devo fare? 3) Che cosa mi è lecito sperare?» . La risposta di Kant al primo problema (che ha avuto influssi straordinari) oggi non regge più nella sua originaria formulazione, in quanto si fondava sul modello della scienza come forma di conoscenza incontrovertibile, mentre l’epistemologia contemporanea ha capovolto quel modello. Ma non poche sue riflessioni restano valide. A parte le dettagliate critiche alla metafisica in generale, che egli riduceva a quella codificata soprattutto da Christian Wolff, resta assai stimolante ciò che ha detto sulla funzione regolativa delle tre grandi idee su cui la metafisica in tutte le sue forme ha sempre discusso: le idee di anima, di cosmo e di Dio. Di tali idee la ragione non può fare a meno, in quanto esse hanno un uso regolativo, e valgono come modelli per regolare i dati dell’esperienza e per dare loro unità. L’idea di anima ci aiuta a unificare i vari fenomeni concernenti l’uomo, come se (als ob) dipendessero da un unico principio; l’idea di cosmo ci aiuta a unificare i vari fenomeni naturali, come se (als ob) dipendessero unitariamente da principi intelligibili; l’idea di Dio ci aiuta a pensare la totalità delle cose, come se (als ob) dipendesse da una intelligenza suprema. Le idee della ragione sono dunque strutturali e ineliminabili, e di esse l’uomo non potrà mai fare a meno. Il secondo problema «che cosa devo fare?» riguarda la vita morale. E in questo ambito Kant ha espresso pensieri che rimangono irrinunciabili. In primo luogo, ha precisato che a ciò che sta al di là del fenomeno, se l’uomo non può giungere mediante la scienza (che non può conoscere se non il fenomeno), può pervenire mediante l’etica. Kant ha approfondito il senso della «legge morale » in modo esemplare, e ha mostrato come proprio mediante essa l’uomo instauri rapporti positivi con la realtà meta-fenomenica. Si può ben dire che l’etica di Kant contiene pensieri metafisici assai forti in una particolare ottica. La legge morale, e in particolare quello che egli chiama «imperativo categorico» , non riguarda le cose che si devono fare, ma l’intenzione e il modo con cui si devono fare. Si impone soprattutto la formulazione della Fondazione della metafisica dei costumi (1785): «Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo, e mai come semplice mezzo» . Molti dei mali che oggi ci opprimono potrebbero essere sanati, se l’uomo considerasse davvero la persona — in se stesso e negli altri — mai come mezzo, ma sempre come fine. Un altro concetto esemplare di Kant è quello di «dovere» , «nome grande e sublime» , in quanto esprime «ciò che innalza l’uomo al di sopra di se stesso (come parte del mondo sensibile)» , e quindi gli fa capire di appartenere non solo al mondo sensibile ma anche al soprasensibile: «Non c’è da meravigliarsi — scrive Kant — che l’uomo, in quanto appartenente a entrambi i mondi, debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema destinazione, non altrimenti che con venerazione e con il più profondo rispetto» . E l’uomo di oggi, che crede solo nei suoi «diritti» , potrebbe imparare da Kant che i diritti, se si dimenticano i «doveri» , perdono per intero il loro vero senso. E così le idee di libertà, di anima e di Dio diventano, da semplici esigenze della ragion pura, anche «postulati della ragion pratica» , che si devono ammettere per dar ragione della vita morale, e che se «non ampliano la conoscenza speculativa, danno alle Idee della ragione speculativa in generale (per mezzo del loro rapporto con i principi pratici) una realtà oggettiva, e autorizzano concetti di cui, altrimenti, non si potrebbe presumere di affermare neppure la possibilità» . Al terzo problema la risposta che dà Kant è una conseguenza logica della risposta data al secondo: è lecito sperare in una felicità, in proporzione al modo in cui ci si è resi degni di essa con la vita morale in questo mondo. A conclusione della Critica della ragion pratica (1788), Kant scrive: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me» . Di fronte all’infinità del cielo stellato, noi, come realtà fisica, siamo infinitamente piccoli. Invece «la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità, e perfino dell’intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all’infinito» . A giusta ragione, la frase iniziale è stata incisa anche sulla tomba di Kant, in quanto esprime in maniera emblematica la cifra spirituale del grande filosofo.

Repubblica 12.1.11
Trovare nel Corano l’Islam dell’amicizia
di Barbara Spinelli


Le stragi dei cristiani in una cattedrale di Baghdad e nella chiesa copta Al-Qaddissin a Alessandria d´Egitto sono segni non equivocabili, che qualcosa di grave sta succedendo in terre musulmane: la lenta e brutale estromissione dei cristiani, anche i più refrattari al proselitismo, i più inseriti nel luogo che abitano, non molto diversa dalla cacciata degli ebrei dai paesi arabi dopo il ´48. Non importa, qui, chiedersi come mai quella cacciata scosse l´Europa meno dell´odierna oppressione di cristiani. Forse perché la martirologia cristiana ha riti consolanti antichi. Forse cominciamo appena a comprendere la catastrofe che fu la fine dell´impero asburgico, il nazionalismo identitario e le persecuzioni delle minoranze che essa generò dopo la prima guerra mondiale. Mentre ancora non comprendiamo, sino in fondo, i disastri nati dalla caduta dell´impero ottomano: che produsse nazionalismi etnici e religiosi e fu occasione, per i colonizzatori, di ridisegnare frontiere a vanvera, di usare i popoli dividendoli o accostandoli senza criterio. È uno dei motivi per cui quel continente ha Stati spesso falliti. L´ossificazione di vecchi confini impedisce di ricostruire le istituzioni, l´imperio della legge.
Ma la divisione più grave è quella che colpisce i cuori, che nelle religioni del Libro sono la sede non dei sentimenti ma della mente, del raziocinio. Tanto più essenziale è divenuto capire l´Islam: perché è ormai la seconda religione in occidente.
Perché il soffrire dei cristiani nei Paesi musulmani assume proporzioni calamitose. Perché col tempo non cresce negli uni e negli altri l´unica dote che salvi: il sapere, il conoscersi reciproco. Questo degrado s´è esteso quando l´Islam è entrato, brutale, nella vita d´Occidente dopo l´11 settembre 2001.
Fu allora che molti, ansiosi di compiacersi più che di sapere, corsero a cercar lumi in saggi che descrivevano, in particolare, la disfatta dell´Islam (i libri di Bernard Lewis, di Samuel Huntington, lo stesso testo ben più antico dell´imperatore Paleologo citato nel 2006 a Ratisbona da Benedetto XVI). I più ispirati erano forse quelli che si chinavano su letteratura o testi originali: si pensi, in Italia, all´erudizione di Pietro Citati, o alla sapienza indagata da Sabino Chialà, monaco di Bose, o alla precisione con cui è stato riproposto il Corano, nel 2010 per Mondadori, dal curatore Alberto Ventura e dalla traduttrice Ida Zilio-Grandi.
Ma per scrutare un grande monoteismo è al testo base che urge tornare: al Corano, anche se tante sono le prescrizioni che vengono abrogate man mano che il Libro si snoda, provocando perenni conflitti d´interpretazione. Dobbiamo cominciare seriamente a leggerlo noi e forse anche i musulmani, che a volte lo dimenticano come i cristiani o gli ebrei sovente dimenticano i propri Libri.
Usiamo pensare, ad esempio, che nell´Islam non esistano la misericordia, la pietà, l´aiuto agli ultimi, il perdono. Non è vero, soprattutto quando in questione è la giustizia uguale per tutti. Certo, una separazione fra legge di Dio e leggi laiche è ardua nell´Islam, ma costantemente, nel Corano, la giustizia è definita «la cosa più prossima alla pietà». Nella sura 4:135 si intima: «Agite con ferma giustizia quando testimoniate davanti a Dio, anche se è contro voi stessi o contro i vostri genitori o contro i vostri parenti, siano essi poveri o ricchi, agli uni e agli altri Dio è più vicino di voi, dunque non seguite le passioni che vi fanno errare dalla rettitudine». Dio ordina di non seguire neppure l´impulso opposto, odiando gli avversari: «L´odio che nutrite contro un popolo miscredente non vi induca a essere ingiusti». Uccidere in assenza di premesse (la presenza di un assassino, un corruttore della terra) «è come uccidere l´intera umanità». Incolpevoli, nei preganti di Baghdad e Alessandria è stata uccisa, secondo la sura 5:32, l´intera umanità.
Anche se col passare dei secoli si dilatò nell´Islam la diffidenza verso ebrei e cristiani (non a causa della fede delle genti del Libro, non per l´aderenza alle loro Scritture, giudicate antesignane del Corano), il rispetto è grande perché il Dio è unico (Allah è traduzione del nome di Dio, tendiamo a scordarlo). L´accusa, risentita, non è di adempiere le Scritture, tutte e tre sacre, ma di adulterarle e credersi figli di Dio «più degli altri uomini» (5:18). Rigettate sono le idolatrie, le passioni incontrollate. L´uso della ragione (nel Corano discernimento, perspicacia) è intenso nell´Islam.
Illuminanti a questo proposito i detti islamici di Gesù, raccolti da Chialà per l´edizione Lorenzo Valla (2009). Vorremmo citarne qualcuno. «Inguaribile è lo stupido, come sabbia dalla quale niente germoglia». Gesù ammette di aver guarito il lebbroso e il cieco nato: invece «ho curato lo stupido, ma mi ha spossato» (362). E prima ancora, nel detto 303: «Non mi è stato impossibile riportare in vita i morti, ma mi è stato impossibile guarire lo stupido». Rumi racconta che Gesù fuggiva a gambe levate, se incontrava uno stupido. Stupido perché del tutto privo di discernimento, di giustizia, è il massacro dei cristiani d´Iraq e Egitto. Tanti morti, e Cristo dipinto imbrattato di sangue a Alessandria: con quale risultato? Con quale giardino radioso in vista, per il giorno in cui morte ti coglie? Gli stessi musulmani alessandrini sono sgomenti, e si offrono di presidiare loro le chiese.
Il Corano è contrario agli anatemi, alle scomuniche: il giudizio di miscredenza viene solo da Dio. La gentilezza ha uno spazio ampio nel Libro, così come vasto spazio è dedicato alle donne, che hanno meno diritti ma sono pur sempre soggetti giuridici («Può darsi che voi disprezziate qualcosa in cui Dio ha posto un bene grande», sura 4:19). Quanto agli anatemi, la sura 2:256 è chiara: «Non c´è costrizione nella fede». Nella storia dell´Islam non potrebbero esistere conversioni forzate.
Che cosa guida allora, se non stupidità, ignoranza, e una vendetta ripetutamente scoraggiata dal Libro, la mano degli assassini o la mente degli indifferenti musulmani che sì malamente accolgono le condanne di Benedetto XVI, considerandole empie interferenze? Sembra guidarli l´incapacità radicale di mettere faccia a faccia fede e ragione, non a discapito l´una dell´altra. Un grande poeta dell´XI secolo, Abu L-Ala Al-Ma´arri, divideva la terra in «due sorti di persone: quelle che hanno la ragione senza religione, e quelle che hanno la religione e mancano di ragione».
Mille anni sono passati da allora, e ancor più dalla stesura del Corano: terzo grandioso tentativo monoteista di ingentilire la storta e cupa umanità. L´ultimo decennio di violenze, invece di stordire ancor più le menti, può esser l´occasione di tentare una memoria meno ostruita, un sapere meno trasandato. Dieci anni sono poco per iniziare a capire, e ognuno deve fare lo sforzo partendo da sé, perché le memorie comuni sono spesso una truffa, come accade in Italia attorno alla Resistenza. È un compito alto, difficile: per noi e anche per i musulmani. Nessuno è sconfitto, se si rimette a pensare.
Il Corano non pretende cose impossibili dall´uomo («è una religione facile», diceva Muhammad), ma è severo quando parla di giustizia, pietà, ragione. Il sincretismo, oltre a non essere auspicato, è impossibile perché troppe sono le soperchierie che gli uni hanno fatto agli altri. Anche in religione, come in politica, dovrebbe esserci quella riconciliazione che memore del passato costruisca un futuro diverso. Gli arabi e persiani fra loro, gli arabi e gli ebrei in guerra continua, non hanno ancora prodotto (se si escludono, agli esordi dello Stato d´Israele, figure come Hannah Arendt o Judah Magnes), persone capaci di condividere un futuro storico, una federazione laica di etnie e religioni diverse, evitando i tranelli minimalisti della memoria condivisa.

Repubblica 12.1.11
La malattia della paura
di Adriano Prosperi


Dopo la Peste Nera del 1348 il bacillo non scomparve: depotenziato ma ancora attivo continuò per secoli a riaffacciarsi e a mietere vittime. Accade oggi qualcosa del genere anche col bacillo dell´antisemitismo.
Perfino dopo la Shoah ci sono menti che continuano a esserne infestate. È un bacillo più antico di quello della peste. Col tempo non si è indebolito, al contrario. Il caso del lettore di Hitler e di Marx autore della strage di Tucson potrà essere sembrato a qualcuno quello di un isolato paranoico. Ma quando si scoprono liste nazi-americane di nomi del «giudaismo internazionale», compresi moltissimi italiani, quello che vediamo apparire è qualcosa di antico, che conosciamo bene.
La lista dei nomi è un ingrediente familiare. In Italia una lista di 1.650 nomi corrispondenti a circa 9.800 famiglie ebraiche fu pubblicata in appendice all´edizione 1938 dei «Protocolli dei Savi anziani di Sion». Moltissimi di quei nomi li ritroviamo nell´elenco de «Il libro della memoria» di Liliana Picciotto Fargion. Qui ciascuno di loro riguarda una persona reale ed è seguito dalle date dell´arresto, della deportazione e della morte, qualche rara volta della liberazione dai lager. La lista del ‘38, destinata a eliminare il «pericolo ebraico», come desiderano anche gli autori della lista emersa dal sito americano, aveva dunque espletato la sua funzione.
L´idea del «pericolo ebraico» è una malattia sorda, un´antica ossessione cristiana europea che l´età contemporanea ha visto mutare geneticamente e trasformarsi nella più mostruosa delle aberrazioni. Ma già il bacillo antico conteneva il dato essenziale, quello della paura di un nemico nascosto fra di noi che trama contro di noi. Una paura alimentata da poteri religiosi e politici. Per «proteggere» la maggioranza il potere aveva a disposizione strumenti facili. Gli ebrei erano anche allora «abbastanza pochi da non potersi difendere», come disse Andrew H. Jackson aprendo il processo di Norimberga. E pochi e semplici erano stati all´inizio gli strumenti dell´identificazione: il primo fu il segno sull´abito, imposto da Papa Innocenzo III nel 1215; altri ne seguirono. La barriera del battesimo svolgeva la funzione fondamentale nel distinguere chi aveva diritti e chi no. Ma quando gli ebrei si battezzarono in massa nella Spagna del 1492, la differenza da religiosa divenne di sangue: si compilarono liste di nomi per individuare chi discendeva da ebrei.
Con la svolta della Rivoluzione francese e dell´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge la paura degli ebrei non scomparve: al contrario, si ingigantì. Ormai indistinguibili dagli altri cittadini, divennero il prototipo del nemico invisibile dalle molte facce: il capitalista affamatore del popolo, il plutocrate alleato della massoneria, l´intellettuale disgregatore della società, il segreto promotore di ogni rivoluzione, da quella francese a quella russa. Ancora una volta la leva della paura si dimostrò uno strumento capace di sollevare il mondo e di metterlo nelle mani delle nuove forme del potere politico nell´età delle masse. E gli ingredienti antichi trovarono nuovi impieghi, diventando strumenti di individuazione non più del diverso religioso ma del nemico totale, di colui che si impadroniva delle leve della ricchezza e del sapere. I capi politici dei partiti socialdemocratici e di socialismo nazionale ne fecero ampio uso.
La minaccia dell´invasione di professionisti e intellettuali ebrei in fuga dalla Germania fu usata per agire sull´opinione pubblica di paesi come la Francia e la Svizzera. A guerra finita il ministro e banchiere H. Schlacht processato a Norimberga fu capace di sostenere ancora a sua difesa che era stato necessario impedire agli ebrei di «avere una percentuale così alta nelle cariche governative e nelle posizioni culturali della Germania».

Repubblica 12.1.11
Google contro Popper
Il metodo scientifico ai tempi di Internet
di Elisabeth Pisani


Per il genetista Kwiatkowski lo schema indicato dall´epistemologo ormai è superato
La vecchia guardia teme i processi investigativi che prendono le mosse dagli algoritmi
Con l´aumento delle informazioni raccolte dal computer le ricerche diventano sempre più "aperte", senza un´ipotesi di partenza
Big Data permette allo studioso di scavare sempre più a fondo e di porsi domande nuove

Sto prendendo parte alla conferenza "Science Online", dalla quale è completamente assente il consueto lessico scientifico che mi è familiare, fatto di calcoli a campione, di sperimentazioni con gruppi di controllo e placebo, di test statisticamente significativi. Qui si parla invece di scremare ed estrapolare dati, di terabyte, di petabyte (unità di misura dell´informazione o della quantità di dati, ndr), e di algoritmi. Questo è il linguaggio di Big Data, quell´oceano di informazioni generate da telescopi sempre più grandi, da tecniche di sequenziamento genico ogni giorno più economiche, da un numero in costante aumento di utenti di Facebook. Come ha scritto Martin Rees, presidente della Royal Society, Big Data ci permetterà di scavare sempre più a fondo, di estrapolare sempre più dati, di farci strada verso scoperte e intuizioni finora inimmaginabili. Ci consentirà di porci nuove domande, quelle che non avremmo potuto neppure formulare quando la scienza dipendeva dal lavoro di poche persone, chiuse in un unico laboratorio, impegnate in una ricerca in un ambito delimitato e circoscritto. Alcuni credono che Big Data cambierà addirittura il modo col quale ci rivolgiamo le domande. Ormai i giorni della scienza che conoscevamo, quella che si imperniava su ipotesi e supposizioni, sono definitivamente alle spalle.
David McCandless - scrittore, designer, curatore del blog Information is Beautiful - mostra al pubblico della conferenza un grafico che evidenzia i mesi da gennaio a dicembre. Il tracciato per i primi mesi dell´anno procede su e giù ma in autunno scende vistosamente, per poi sfiorare un altro forte picco verso il basso proprio prima di Natale. McCandless sfida il pubblico a indovinare a che cosa si riferisca il grafico. Le vendite di cioccolato? Quelle dei biglietti d´auguri? Indica allora una didascalia nella diapositiva: "Periodi di picco massimo nella rottura delle relazioni". Le relazioni affettive si guastano e si rompono a causa dello stress imputabile al fatto di trascorrere insieme le feste, spiega McCandless, e a causa delle tensioni che nascono dal doversi ritrovare in famiglia. I dati che presenta sono stati raccolti scremando oltre 10mila aggiornamenti casuali su Facebook relativi alle caselle: "situazione complicata" o "situazione conclusa".
Quando nel 2008 Wired Magazine dichiarò che l´epoca dei petabyte avrebbe spazzato via ogni metodo scientifico, la pagina dei commenti si riempì di smentite indignate e infervorate. La questione da allora è rimasta a covare sotto la cenere. Perché la vecchia guardia si sente così intimorita all´idea di una scienza che parta da algoritmi? Gli epidemiologi come me raccolgono le informazioni sullo scoppio di epidemie, sui comportamenti a rischio e sull´ambiente, e le utilizzano per individuare quali siano le minacce per la salute pubblica. È legittimo preoccuparsi che i computer diano vita ad abbinamenti travisati e ci spingano verso una strada sbagliata. Io temo, però, che in realtà la nostra vera paura sia che Google finisca col fare il nostro mestiere meglio di noi.
Ma prima di chiamare le prefiche affinché vengano a piangere al capezzale della scienza basata su ipotesi, potremmo darle un´occhiata più ravvicinata e cercare di conoscerla meglio. A prima vista, la storia della ricerca quantitativa (e l´enorme corpus della ricerca qualitativa) indica che molte grandi scoperte ebbero origini insolite. Ne parlo a Simon Schaffer, professore di storia della scienza a Cambridge, che intuisce la mia angoscia esistenziale e mi dice: «Le tue domande tradiscono una certa nostalgia nei confronti dell´ideale sperimentale, quello per il quale gruppetti molto ristretti di uomini molto brillanti elaborano previsioni molto illuminanti. Poi, giacché hanno letto Karl Popper, mandano uomini più giovani e più poveri di loro in giro a raccogliere dati, col fine di cercare di mettere alla prova e confutare le loro stesse supposizioni. Il che non avviene assolutamente mai».
Non posso certo confessare che Conoscenza oggettiva, un punto di vista evoluzionistico di Karl Popper - il filosofo austro-britannico della scienza - goda di un posto di riguardo sul mio comodino. Anche se ho faticato davvero molto a cercare di capire per quale motivo il suo modello di Idea-Sperimentazione-Analisi-Confutazione/Conferma-Nuova Idea sia diventato un riferimento imprescindibile della ricerca scientifica.
«Se un´affermazione è scientifica, deve essere verificabile. Questa è la sintesi delle tesi normative di Karl Popper ed è molto convincente, quantunque trascuri completamente di descrivere che cosa fecero in realtà personalità come Darwin, Pasteur, Newton o Boyle. Loro si impegnarono e si dettero da fare personalmente, sporcandosi le mani e procedendo a valutazioni dirette» dice Schaffer. Dominic Kwiatkowski, genetista che insegna a Oxford e studia le correlazioni tra i geni e le malattie, concorda sul fatto che il modello di Popper non riflette la realtà: «Un´ipotesi non nasce dalle elucubrazioni di un individuo sprofondato in una poltrona di pelle con in mano un bicchiere di whisky. Scaturisce dai dati esistenti». Pertanto, quella che in una fase sperimentale iniziale può sembrare un´informazione priva di ipotesi, può rivelarsi per un altro esperimento più circoscritto qualcosa di formulabile in un´ipotesi. Le galline e le uova, insomma.
«Gli scienziati sono troppo imbarazzati se devono ammettere che spesso brancolano tra le informazioni e talvolta incappano in una scoperta per puro caso», dice Chris Hilton, capo archivista alla Wellcome Library, specializzata in storia della scienza. Nel campo delle scienze biomediche, nelle quali ci inginocchiamo all´altare della sperimentazione casuale con gruppo di controllo, la supremazia dell´ipotesi è scritta direttamente nei nostri codici comportamentali. È proibito non averne. «Ma senza ipotesi non vuol dire senza rigore: significa soltanto che non si deve iniziare a trarre le proprie conclusioni ancora prima di iniziare», dice Kwiatkowski.
D´altra parte Big Data non può mettere a rischio la scienza basata sulle ipotesi se questa non è mai esistita veramente. Perché, allora, contorcersi le mani e preoccuparsi per il profluvio di informazioni? Beh, a quanto pare anche contorcersi le mani è un atteggiamento vecchio come il cucco. La scienza è sempre stata in evoluzione, e pertanto ogni scienziato si ritrova a cavalcioni sulla cresta dell´onda delle informazioni, da dove tiene d´occhio lo tsunami che sta per abbattersi su di lui, e si domanda se esso spazzerà via il suo mondo. La sua prima reazione è quella di mettere in ridicolo la nuova immensa ondata di informazioni, liquidandola come caotica, ingestibile, qualcosa che è impossibile contestualizzare e che pertanto riteniamo subito essere intrinsecamente antiscientifica.
L´epoca del petabyte ha costretto i finanziatori a rivedere le loro modalità di investimento nella scienza. «Big Data non è nulla di nuovo. Ma questo rinnovato interesse potrebbe aiutarci a riorganizzare l´immagine di quello che fanno gli scienziati» dice Schaffer. Il Welcome Trust, una delle più grandi associazioni umanitarie al mondo che finanzia la ricerca nel settore sanitario, di recente ha reso noto un nuovo modello di finanziamento, che non impone a chi lo riceve di pianificare uno studio intorno a un´ipotesi specifica. La ricerca speculativa ha appena portato un premio Nobel per la fisica a due scienziati dell´Università di Manchester, che hanno utilizzato un po´ di nastro adesivo per tirar fuori uno strato del superconduttore grafene dalla grafite che si trova nelle matite. Ciò, a sua volta, ha portato Martin Reed, presidente della Royal Society, il cui mandato quinquennale scade a dicembre, a esercitare pressioni per ottenere altri finanziamenti per progetti "aperti" di ricerca.
Un grande vantaggio della ricerca con Big Data è che gli algoritmi, le estrapolazioni, le scremature e la fusione dei dati possono essere effettuati di norma a basso costo.
Una delle cose utili che potrebbero trovare coloro che estrapolano dati sono ipotesi che altri verificheranno in modo più deduttivo. Ciò non può che avere implicazioni precise ai fini delle modalità con le quali riconosciamo o premiamo l´attività degli scienziati. Roni Zeiger di Google afferma: «Se tramite un´analisi di dati inediti qualcuno concepisce un centinaio di ipotesi, e dieci di queste si rivelano in seguito avallate dal lavoro di altri scienziati, di sicuro allora dovrebbero essere riconosciute e premiate. Credo debba esserci un´evoluzione nelle modalità di assegnazione dei premi in funzione dell´impatto che hanno le singole persone».
Ci servono modalità nuove per separare il grano dal loglio, e premiare la scienza speculativa e collaborativa. Finché le cose non si stabilizzeranno, vedremo molto, moltissimo loglio. «È del tutto logico che vi siano scoperte da fare allorché si mette insieme una grande quantità di dati, ma queste scoperte saranno l´esito di un processo molto rigoroso» dice Kwiatkowski. E fa notare che un simile rigore, tuttavia, non è ancora così diffuso: «Al suo inizio, ogni nuova rivoluzione genera una gran quantità di cose inutili e superflue. Alla fine degli anni Novanta la gente affermava che Internet non sarebbe servita a niente, forse solo a vendere cosmetici. Oggi abbiamo Google. Essere liberi da un´ipotesi non significa essere liberi da un modello: un modello serve sempre, come pure serve sempre l´interpretazione, anche quando non si ha un´ipotesi».
© 2010 Prospect Magazine
Distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Anna Bissanti

l’Unità 12.1.11
Cercando le impronte del Big Bang, il satellite Planck scopre venti nuove galassie
Primo rendiconto a un anno e mezzo dal lancio. Ecco cosa ha «trovato» il satellite Planck nell’universo, seguendo le impronte risalenti al tempo in cui le galassie si stavano formando...
di Cristiana Pulcinelli


Planck è un satellite, ma è anche un cercatore di fossili. O meglio, di impronte fossili. Come i paleontologi ricostruiscono la statura, il peso, la forma degli arti di un animale estinto dalla sua orma, così i cosmologi cercano di capire le caratteristiche del Big Bang dall’impronta che quell’evento da cui tutto ha avuto origine oltre 13 miliardi di anni fa ha lasciato nell’universo. L’impronta del Big Bang è la radiazione fossile, o radiazione cosmica di fondo, che ha cominciato a disperdersi circa 380.000 anni dopo l’inizio dell’espansione rapidissima dell’universo. Per osservare questa radiazione, Planck fa una mappatura dell’intera volta celeste ogni sei mesi.
Ècosìcheaunannoemezzodal suo lancio, il satellite oggi ci fornisce un catalogo di oggetti cosmici completo come non si era mai avuto finora, ottenuto grazie a immagini particolarmente precise e nitide. Planck ha individuato oltre 15.000 sorgenti galattiche e extragalattiche. Si tratta di un’ampia varietà di oggetti astronomici: da stelle avvolte nella polvere a ammassi di galassie. È come avere a disposizione l’elenco dei personaggi del dramma che si sta recitando nell’universo, spiegano i cosmologi. Per continuare con la metafora del teatro, si può dire che quello dell’universo è un palcoscenico sul quale va in scena un dramma in tre atti. Quello che riescono a cogliere i telescopi ottici, le galassie che ci circondano, è poco più che l’atto finale. Con le sue misure a lunghezze d’onda che vanno dal radio all’infrarosso, Planck è invece in grado di risalire indietro nel tempo, e mostrarci i due atti precedenti. I risultati presentati ieri riguardano l’atto di mezzo, quando le galassie si stavano ancora formando. E le sorprese non mancano: un gas oscuro che ricopre il 63% del cielo; una regione di galassie avvolte nella polvere e distanti miliardi di anni da noi, in cui si formavano stelle a un ritmo vorticoso, da 10 a 1000 volte più rapido di quello che possiamo osservare oggi nella nostra galassia; le immagini di 189 ammassi di galassie di cui 20 mai visti prima.
I RISULTATI IN 25 ARTICOLI
Tutti questi dati sono stati forniti ieri durante una conferenza stampa che si è svolta simultaneamente a Roma, Parigi e Seattle. I risultati delle osservazioni di Planck sono raccolti in ben 25 articoli pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. C’è da sottolineare che il 30% delle firme sono di ricercatori italiani. L’Italia ha infatti partecipato in modo determinante al progetto sia per quanto riguarda l’aspetto scientifico, sia per quanto riguarda l’aspetto tecnologico: alcune componenti fondamentali sono state fatte da industrie del nostro paese. Planck è stato lanciato a maggio del 2009 insieme a un altro satellite, Herschel. Si è poi posizionato a 1.5 milioni di chilometri dalla Terra e da lì ha cominciato le sue osservazioni. Al progetto dell’Agenzia Spaziale Europea hanno partecipato circa 100 istituzioni, tra cui l’Agenzia spaziale italiana e l’Istituto Nazionale di Astrofisica. Il satellite dovrebbe finire la sua missione nel 2012, ma si prevede che verrà prorogata.

Corriere della Sera 12.1.11
Luci e grappoli galattici: ecco com’era l’universo
di Claudio Colombo


MILANO — L’Universo come non lo abbiamo mai visto, freddo e profondo, tempestato da puntini luminosi che una specie di «flash» cosmico ha immortalato dopo mesi di osservazioni. È l’immagine che gli astrofisici di tutto il mondo sognavano di vedere: qualcosa di molto vicino all’origine del Tutto. L’ha scattata un fotografo speciale che fluttua nello spazio a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra: si chiama Planck, è un satellite che l’Agenzia spaziale europea ha lanciato nel maggio 2009. Segni particolari: resiste e lavora a temperature sbalorditive (meno 230 ° centigradi) e porta con sé molta Italia. Planck ha infatti a bordo due sofisticati strumenti: uno, Lfi (Low frequency instrument), è governato da Reno Mandolesi, scienziato dell’Istituto nazionale di astrofisica a Bologna, mentre l’altro (Hfi, High frequency instrument) è gestito dall’Istituto spaziale di astrofisica di Orsay, in Francia. Le fotografie di Planck rivelano un «catalogo» del cielo che mostra quasi 200 «grappoli» galattici, 20 dei quali inediti: ammassi doppi, tripli e quindi di taglie gigantesche, mai intraviste prima. Le immagini più suggestive (sono i puntini della fotografia) riguardano popolazioni di galassie in stato embrionale, da cui poi si generarono immense isole stellari avvolte nelle polveri, mentre gli astri si coagulavano con una straordinaria velocità, da dieci a mille volte superiore a quella osservata nella nostra galassia. «È la prima mappa a tutto cielo ottenuta con nove frequenze diverse, da 30 GHz a 857 GHz — spiega Reno Mandolesi —: in essa sono racchiuse le sorgenti della nostra galassia e anche quelle extragalattiche, circa 15 mila, un materiale sul quale lavoreranno per anni a tutti i telescopi da Terra e dallo spazio. Immagino l’Universo come un carciofo: siamo solo al primo sfoglio; il secondo ci farà capire che cosa accadde dopo "soli"380 mila anni dal Big Bang» . Il satellite Planck ha contribuito anche a sciogliere l’enigma delle emissioni anomale. Ancora Mandolesi: «Si tratta di minutissimi granuli di polvere di dimensioni nanometriche che abbiamo analizzato nei loro spettri» . Planck continuerà a lavorare fino al 2012, cioè fino a quando è garantita la riserva di elio per il raffreddamento. «Questa è la dimostrazione— commenta Enrico Saggese, presidente dell’Agenzia spaziale italiana — che gli investimenti nell’alta tecnologia producono grandi risultati. È solo offrendo opportunità di alto livello che si evita la fuga all’estero dei nostri migliori cervelli» . Il satellite è costato 700 milioni di euro, 50 l’investimento italiano. Soldi ben spesi, se aiutano a capire chi siamo e da dove veniamo.

Avvenire 12.1.11
La confessione degli ultimi catari
Scampate anche alle crociate, le idee dei «puri» sopravvissero oltre il Duecento e il loro influsso aiuta a capire la caccia alle streghe e il successo della Riforma
di Franco Cardini


Un saggio analizza le dichiarazioni rese all’inquisitore Jacques Fournier – poi papa Benedetto XII – e registra vasti contatti, dalla Linguadoca al Piemonte, con valdesi, «fraticelli» e dolciniani Originarie della Persia, le sette manichee penetrarono nella penisola anatolica e in quella balcanica sino al loro impiantarsi, nel corso del XII secolo, un po’ in tutta l’Europa meridionale
Tra XII e XIII secolo, l’Europa rischiò di mutar profondamente la propria anima cristiana. Avrebbe forse continuato, se le cose fossero andate altrimenti da come andarono – e sarebbe potuto accadere – a ispirarsi al Cristo: ma si sarebbe trattato in realtà di qualcosa di molto diverso dal Gesù di Nazareth che conosciamo attraverso il Vangelo. Per comprendere la portata di quegli avvenimenti bisognerebbe forse risalire al III secolo e al profeta mesopotamico-persiano Mani, che ispirandosi a un cristianesimo profondamente permeato della cultura religiosa mazdea – che era allora la religione ufficiale dell’Impero persiano – elaborò un sistema che si sarebbe incontrato più tardi con il neoplatonismo e che consisteva nel ritenere l’universo percorso incessantemente da a forza di due principii, quello della Verità, della Luce e del Bene e quello della Menzogna, dell’Oscurità e del Male: l’uno signore dello Spirito, l’altro padrone della Materia. Il manicheismo, pur avversato nell’Impero romano come in quello persiano, riuscì a penetrare in entrambi, a fondersi in vario modo con altri culti (incluso quello cristiano) e a espandersi dall’Africa all’Egitto alla Persia all’India all’Asia centrale.
Affrontando e superando molte persecuzioni e mutando spesso nome, le sette manichee riuscirono a sopravvivere anche al Medioevo: assistiamo al loro progredire, con nomi diversi ('pauliciani', 'bogomili') nella penisola anatolica e in quella balcanica sino al loro impiantarsi, nel corso del XII secolo, un po’ in tutta l’Europa meridionale: dalla Toscana del centro-nord alla Francia meridionale all’area pirenaica. Furono allora conosciuti col nome di 'catari', dalla parola greca che significa 'puro'. E la 'purezza' era il centro del loro credo. Predicavano nel nome di Dio, incentrandosi soprattutto sul Vangelo di Giovanni e sulla lotta dello Spirito contro la Materia, del Bene contro il Male. In un tempo nel quale la cristianità latina era percorsa dal brivido dei movimenti religiosi che auspicavano una piena purificazione dei costumi della società e lottavano contro la corruzione del clero auspicando un ritorno alla Chiesa delle origini, i catari riuscirono a fare molti adepti. Ma quella catara era una dottrina iniziatica. Al di sopra dei semplici 'credenti', che si ritenevano buoni e semplici cristiani, v’era l’élite dei 'perfetti', asceti­predicatori ch’erano passati attraverso la cerimonia del consolamentum e che, sempre austeramente vestiti di abiti scuri, pallidi e smagriti per i frequanti digiuni, non toccavano cibi carnei o frutto di unione sessuale (quindi nemmeno uova e latticini) e spingevano sovente il loro rigore fino all’'endura', a lasciarsi cioè morire di fame. Essi erano i depositari dell’ultimo, supremo nucleo dell’insegnamento cataro: tutta la Creazione, in quanto trionfo della Materia che imprigionava lo Spirito nelle forme viventi, era malvagia; il Dio creatore era il Signore Malvagio; la riproduzione della vita il massimo peccato, in quanto perpetuava la prigionia dello Spirito nella Materia. Il catarismo, data la sua somiglianza apparente con il cristianesimo e la sua equivoca ricerca di purificazione, guadagnò a sé la maggioranza di intere regioni, dalla Lombardia alla Provenza e alla Linguadoca: e proprio in tali aree della Francia meridionale furono necessarie una crociata, durata tra 1208 e 1244, che ebbe peraltro aspetti crudelissimi e un lungo lavoro inquisitoriale per ricondurre all’obbedienza e all’ortodossia cattolica. Ma epigoni della fede catara continuarono a sussistere e a predicare a lungo, tra i Pirenei e le Alpi, variamente fondendosi con altri gruppi eterodossi o diluendosi in un cristianesimo venato di credenze folcloristiche dalle quali, di lì a qualche decennio, si sarebbero sviluppate le credenze stregoniche. Già negli anni Settanta uno storico francese, Emmanuel Le Roy Ladurie, studiando i registri dell’inquisitore Jacques Fournier vescovo di Pamiers – che sarebbe poi divenuto papa Benedetto XII – aveva esaminato la vita spirituale e le superstizioni del paese pirenaico di Montaillou. Ora, le le confessioni degli ultimi catari della regione occitanica del Sabartès rese al Fournier e contenute in un codice della Biblioteca Apostoilica Vaticana, il Ms. Vat. Lat. 4030 – ch’è stato tradotto integralmente in francese da J. Douvernoy in tre volumi (1978), ma non ha avuto finora edizione italiana – sono state esaminate e studiate dalla medievista Elena Bonoldi Gattermeyer, studiosa dell’Università Statale di Milano che già ha pubblicato una monografia su Bianca di Castiglia, madre del re di Francia san Luigi, e che ora ci presenta il risultato delle sue indagini nel volume Il processo agli ultimi catari. Inquisitori, confessioni, storie ( Jaca Book, pagine 336, euro 24,00). Ne risulta un quadro in parte nuovo e che, per altri versi, conferma quel che studiosi anche italiani – citiamo per tutti Grado Giovanni Merlo – avevano già notato anche, ad esempio, per certe aree del Piemonte: tra Duecento e la prima metà del Trecento il catarismo era tutt’altro che sradicato, anzi era diffuso in tutta l’area occitanica e nelle regioni vicine, dove avrebbe avuto contatti con il valdismo, con il moviemento dei 'fraticelli' e con altre componenti dell’inquieto nonconformismo religioso tardomedievale (si pensi al dolcinianesimo nel Novarese).
Dalle confessioni rese al Fournier emerge la viva e concreta realtà di uomini e donne di tutti i ceti sociali – aristocratici, mercanti, artigiani, contadini, pastori, chierici e religiosi – che nelle loro confessioni descrivevano a forti tratti un complesso mondo di 'vinti', che purtroppo ci è noto solo attraverso gli interrogatori condotti dai vincitori (e questo è senza dubbio un grave limite delle nostre conoscenze) e che ha duramente lottato per mantenere e per testimoniare il suo credo religioso. Ci si si trova così dinanzi a una fede complessa e per molti versi oscura, ma profondamente radicata nell’universo occitanico con il suo idioma, le sue tradizioni, insomma, come si direbbe oggi, la sua 'identità'. Non a caso, anche in tempi moderni, l’indipendentismo occitano (che i governi francesi, a differenza di quel che – a parte il periodo franchista – hanno fatto quelli spagnoli con l’analogo indipendentismo catalano, hanno duramente represso) ha potuto esprimersi anche attraverso la creazione di una 'Chiesa neocatara'. La Bonoldi Gattermeyer ci aiuta a recuperare un pezzo sconosciuto o poco noto di un’Europa 'profonda' e 'negata', senza la quale non si capiscono tuttavia né certe resistenze nazionali, né il fenomeno della caccia alle streghe, né l’affermarsi nel Cinquecento della Riforma protestante.

martedì 11 gennaio 2011

Corriere della Sera 11.1.11
«Nessuno vuole produrre il mio film sull’Italia di oggi»
Bellocchio: ritratto del potere, ho avuto una decina di «no»
di Giuseppina Manin


MILANO — L'ultimo no gli è arrivato proprio ieri. «La mia ultima chance, adesso non saprei più a chi rivolgermi. Credo di aver sentito tutti i produttori e distributori. Ma nessuno, proprio nessuno, vuole produrre il mio nuovo film» . A ricevere tanti no, tutti insieme, non è un regista dilettante ma Marco Bellocchio. Uno dei nostri autori più autorevoli e originali, uno dei pochi nomi di sicuro «appeal» anche all'estero. Il suo film più recente, Vincere!, sulla tormentata vicenda di Ida Dalser, prima moglie di Mussolini, è in questi giorni plurisegnalato per le nomination all'Oscar dalla critica Usa, che premia anche i suoi interpreti, Giovanna Mezzogiorno, miglior protagonista, e Filippo Timi, miglior non protagonista. E nei prossimi giorni il festival «Los Angeles-Italia» gli dedicherà una retrospettiva e un premio speciale. Insomma, in un Paese normale, un regista come lei troverebbe aperte tutte le porte del cinema... Invece. «Invece il mio nuovo progetto ha collezionato il più alto numero di risposte negative. Una decina. Mai successo in tutta la mia carriera» . Sarà colpa del titolo, «Italia mia» . Firmato da lei promette di essere un film «scomodo» , con «i pugni in tasca» . «Certo non pensavo di girare una commedia... Volevo parlare dell'Italia di oggi, e quindi c’è poco da ridere. Un film sul potere, con riferimenti non casuali, ma senza intenzioni di inseguire l'attualità né di fare pamphlet polemici» . Qual era il taglio che voleva dare? «Un taglio molto personale. Il racconto trasfigurato della drammatica realtà che stiamo vivendo. Dove i personaggi non vengono mai chiamati per nome, ma la loro identità si può intuire. Dove si citano situazioni note, finite sulle pagine di tutti i giornali, ma viste dalla gente della strada. Dai giovani, anzi. Che guardano da fuori quel che accade e vivono con smarrimento quel potere che li sovrasta. La protagonista di questo film doveva essere una ragazza» . Dove pensava di girarlo? «In una grande città, forse Roma, forse Milano. Certo non in provincia. Non un film intimista, da fare "in casa"come è stato per Sorelle mai. Italia mia è un film sul potere, e il potere ha bisogno di sfondi adeguati. La storia si sarebbe conclusa in una villa lussuosa in un'isola, forse la Sardegna, forse la Sicilia, a una grande festa dove accadevano cose clamorose. Chiaro che non sarebbe stato a basso costo, 6-7 milioni di euro. Per l'Italia un budget piuttosto elevato. E'una delle ragioni dei vari "no"» . Le altre? «Molto vaghe: non mi piace, non mi interessa... O anche: oggi hanno successo solo le commedie. Ma non quelle che ci avevano resi famosi nel mondo, divertenti e feroci, capaci di su «Italia mia» . Progetto archiviato? «Tutt’altro. Solo rimandato. Ci credo molto e sono certo che, anche se nel frattempo le cose cambiassero, non perderebbe il suo significato. Prima o poi lo girerò» . Nel frattempo? «Tirerò fuori dal cassetto un’altra storia. Non accomodante, ma meno costosa» . Giovedì va in scena a Pietrasanta la versione teatrale dei «Pugni in tasca» . Protagonisti suo figlio Piergiorgio e Ambra Angiolini. «Sono molto coinvolto. Quel film di 45 anni fa ha segnato la mia vita, è stato il mio debutto nel cinema. Vedere mio figlio nel ruolo che allora era di Lou Castel mi emoziona, mi smuove mille ricordi» .

il Giornale 11.1.11
«Ecco perché il mio Duce sbancherà gli Usa»
di Maurizio Caverzan


Il film sul figlio segreto di Mussolini «rischia» di concorrere agli Oscar nella categoria principale. Il regista: «Una grande sorpresa. Di certo contano la qualità dell’opera e la bravura degli attori. Poi c’è il fatto che Mussolini è l’italiano più famoso al mondo...»
«Certo che sono sorpreso. Non me l’aspettavo. Vincere è un film di un anno e mezzo fa. Non abbiamo fatto una particolare campagna promozionale. Ci ha pensato la produzione, ha trovato un distributore americano, io me ne sono disinteressato. Sì, mi dicevano che l’accoglienza era positiva. Che la media dei giudizi della critica era alta. Però...». Smaltite le feste, nella sua casa di Roma Marco Bellocchio sta riflettendo sul suo prossimo film che potrebbe riguardare Tangentopoli. Ma la notizia del «tifo» dei critici del New York Times che, con procedura particolarmente insolita, spingono per la candidatura all’Oscar dell’opera in cui ha raccontato la vicenda di Ida Dalser, l’amante che diede un figlio a Mussolini (Benito Albino) e che finì i suoi giorni in un manicomio, è un gran buon viatico per il 2011. Giovanna Mezzogiorno è già stata nominata «best actress» dai critici americani mentre si saprà solo il 25 gennaio se il film, uscito negli Stati Uniti nel 2010, concorrerà per la conquista della prestigiosa statuetta nella categoria del miglior film assoluto. «Ma no, meglio essere prudenti. Per l’Oscar siamo in zona Cesarini», smorza l’entusiasmo Bellocchio, come a far intendere che l’apprezzamento proveniente da oltreoceano è già in sé una soddisfazione. «Per chi fa un lavoro impicciato e mescolato come il mio, una notizia così è uno stimolo ad andare avanti per la nostra strada».
Ma secondo lei, oltre agli attori, che cosa è piaciuto di più agli americani? La storia o la forma del racconto?
«Entrambe le cose, credo: la bravura degli interpreti e la qualità intrinseca del film. Non dimentichiamo che Mussolini è stato fino a un certo punto del regime un personaggio molto apprezzato e ammirato dalla colonia di italiani in America. Poi purtroppo sono arrivate le leggi razziali e la guerra... Però tra i personaggi italiani forse è il più conosciuto all’estero. Probabilmente è piaciuto anche lo stile narrativo. In tutta sincerità, va detto che il film è stato proiettato soprattutto nelle sale d’essai, non esattamente nei circuiti popolari».
Del cinema italiano gli americani sembrano apprezzare soprattutto il periodo della Seconda Guerra mondiale come dimostrano gli Oscar a Mediterraneo e La vita è bella. Ora si parla di Vincere...
«Questo forse dipende dall’età dei votanti dell’Academy. Sento dire che sono persone anziane, un po’ tradizionaliste. È plausibile che amino il cinema della memoria, della storia, anche se Vincere è tutt’altro che un film nostalgico. È un cinema del presente che parla del passato. Com’era anche Nuovo Cinema Paradiso».
Che cosa pensa dell’attacco di Luca Guadagnino a La prima cosa bella di Paolo Virzì, nostro candidato ufficiale tra i film stranieri?
«C’è una giuria nella quale contano i rapporti di forza. Questa giuria dovrebbe intuire quale opera italiana abbia maggiori chance per puntare all’Oscar. Il film di Guadagnino aveva già ottenuto buoni riscontri. Spesso però prevalgono i gusti dei giurati e la legge del più forte. L’anno scorso, tra Baarìa e Vincere fu scelto Baarìa prodotto da Medusa. Con questo non ho nulla da dire sul film di Virzì, al quale auguro di ottenere il massimo. Tuttavia, la mia esperienza dell’anno scorso è stata questa».
Dunque la nomination della critica americana è una specie di rivincita...
«In un certo senso. Sono anche felice per i riconoscimenti meritati da Giovanna Mezzogiorno. Ma sa, uno dei vantaggi dell’età è anche un certo distacco. Se avessi vent’anni vivrei tutto con maggior spirito di rivalsa».
A proposito di polemiche, il movimento «Tutti a casa» non è troppo ideologizzato?
«Una dose di ideologia forse è rimasta come reperto antico. Però si è attenuata. Ma non dobbiamo dimenticare il contesto in cui viviamo. Anche il cinema subisce i processi della globalizzazione. Si spostano le produzioni all’estero e i nostri lavoratori si sentono abbandonati. In una situazione di smarrimento e di disoccupazione il movimento “Tutti a casa” è affine a quello degli studenti che salgono sui tetti. Poi c’è un gruppo di professionisti che per la loro storia hanno più facilità a trovare un contratto, a trovare un produttore».
Che cosa pensa del fatto che mentre calano i fondi del Fus, crescono gli incassi al cinema italiano?
«Questo bisognerebbe chiederlo agli studiosi, ai sociologici. Forse è la domanda che è diversa. In epoche di crisi e di difficoltà, la gente vuol dimenticare, cerca di evadere, di divertirsi. E il cinema è una via d’uscita sicura».
È la ragione del successo di commedie come «Benvenuti al sud» e «Che bella giornata»...
«Assolutamente. Questa non è la stagione della commedia provocatoria, cattiva, contro il potere. Ma di film concilianti, capaci di mitigare i contrasti. Tuttavia, chi fa cinema d'autore sbaglierebbe a interrompere il proprio percorso».
Lei continua la sua indagine sull’Italia del ’900. Ha raccontato il '68, il terrorismo con «Buongiorno, notte», poi un episodio oscuro dell'epoca di Mussolini. Che ne è del progetto su Craxi e Tangentopoli?
«Un regista non è un giornalista né uno scrittore. Se parto dalla realtà tendo un po’ a stravolgerla. Come uno sportivo anche un regista deve tenersi in esercizio: incontrare gli attori, studiare le riprese, fare i film. Il progetto di Italia mia sulla stagione di Tangentopoli si è imbattuto in alcune risposte negative. Ma c'è ancora qualche speranza. In ogni caso non sarebbe un pamphlet polemico sul passato per parlare del sistema di potere attuale. Nei prossimi giorni saprò se potrò andare avanti. Altrimenti mi dedicherò ad altro».

l’Unità 11.1.11
Il leader pd vede anche Fim e Uilm. D’Alema: «Il governo usa Marchionne contro la sinistra»
Veltroni: «Inaccettabile non far partecipare alla gestione del contratto una sigla sindacale»
Bersani incontra il segretario Fiom
«Il Pd rispetterà l’esito del voto»
di Simone Collini


La Fiom ha chiesto al Pd di prendere «una posizione univoca» sulla Fiat, la Fim e la Uilm hanno fatto un passo oltre e gli hanno chiesto di «sostenere maggiormente l’accordo e il sì al referendum». Ma dopo aver parlato con tutti e tre i leader sindacali dei metalmeccanici, Pier Luigi Bersani ha evitato di schierare il partito. Glielo ha spiegato anche ai leader delle tre sigle sindacali dei metalmeccanici con i quali, separatamente, il leader dei Democratici ha passato l’intero pomeriggio.
Maurizio Landini, che è arrivato al Nazareno auspicando che le ragioni della Fiom sul no all’accordo per lo stabilimento di Mirafiori venissero «capite», si è sentito dire da Bersani che il Pd non darà indicazioni di voto e che poi rispetterà il risultato del referendum, qualunque esso sia, anche se per Landini la consultazione tra i lavoratori si riduce alla decisione «se e a quale albero impiccarsi». Giuseppe Farina e Giovanni Contento, che hanno firmato per la Fim e la Uilm l’accordo con la Fiat, sono andati al quartier generale del Pd lamentando una «eccessiva timidezza» da parte di un partito che dovrebbe invece «uscire dal limbo del super partes». Ma anche di fronte a loro Bersani non ha cambiato linea: il Pd non interferirà con le decisioni dei lavoratori, anche perché se sono da valutare positivamente gli investimenti decisi da Marchionne, c’è però di che essere preoccupati per la carenza di regole per quanto riguarda la democrazia sui luoghi di lavoro e sulla rappresentanza (situazione di cui, in entrambi i colloqui, Bersani ha addossato la responsabilità anche a un «governo assente» e tutt’altro che impegnato nella politica industriale).
RISPETTARE L’ESITO DEL REFERENDUM
«In questi incontri abbiamo ribadito la posizione netta e chiara del Pd», ha spiegato poi Bersani: «Si deve rispettare l’esito del referendum di giovedì e venerdì e si deve mettere mano urgentemente a regole di rappresentanza che garantiscano sia l’esigibilità degli accordi che i diritti individuali e i diritti sindacali di chi dissente». Il Pd nel suo programma, ha fatto sapere, prospetterà riforme strutturali «per evitare che il peso della nuova competizione e degli effetti della globalizzazione si scarichino solo su una parte della società ed in particolare sui lavoratori». Mentre nell’immediato ha ribadito l’interesse affinché gli investimenti nel settore auto si realizzino, chiedendo «che il governo esca finalmente dalla sua latitanza» e finalmente prospetti «una politica industriale e ottenere chiarezza sull’insieme del programma che la Fiat ha annunciato e sugli sviluppi degli investimenti strategici della ricerca».
Il Pd insomma non si schiera nella partita tra Marchionne e la Fiom, anche perché c’è chi come Beppe Fioroni dice che «non ci si può chiedere di essere il partito della Fiom» e anche perché, come sottolinea Massimo D’Alema evidenziando la «mancanza del governo», «non si può affidare la situazione solo a imprenditori e sindacati». Per il presidente del Copasir, che confessa di essere «perplesso verso l’atteggiamento dell’amministratore delegato Fiat («trovo preoccupante che nel governo di una grande azienda non debba trovare posto anche il dissenso»), va sottolineata soprattutto una cosa: «Nell’accordo si chiedono sacrifici ai lavoratori ma non c’è nessuna contropartita politica da parte del governo che usa Marchionne contro la sinistra».
Spiega però Cesare Damiano che questo non schierarsi non significa indifferenza nei confronti di un referendum che, a seconda del risultato, potrà avere conseguenze di un certo tipo. «Se il sì dovesse prevalere sarebbe opportuna una firma all’accordo, tecnica o critica che sia, anche da parte della Fiom. Questo consentirebbe di mantenere tutti i sindacati nel gioco della contrattazione e della rappresentanza». Anche perché, dice Walter Veltroni, se una cosa è certa in tutta questa vicenda è che sarebbe «inaccettabile» se dopo il referendum la Fiat persegua nello «strappo» e la Fiom non partecipi alla gestione del contratto.

l’Unità 11.1.11
Landini non cede: accordo illegittimo non firmeremo mai
Il segretario Fiom convoca la stampa dopo aver incassato il sostegno della Cgil: «Non è la Fiat che decide se noi esistiamo o no, questo lo decidono i lavoratori»
La settimana del referendum su Mirafiori si apre con una Fiom battagliera. Landini: «Non siamo il sindacato dei “no”, abbiamo firmato mille accordi. La partita Fiat non è chiusa, riusciremo a riaprirla con l’aiuto di tutti».
di Massimo Franchi


Per adesso, Marchionne fa bene alla Fiom. Mai visti tanti giornalisti e fotografi per una conferenza stampa, tanta attenzione nella palazzina di Corso Trieste, sede dei metallurgici della Cgil. Lo scontro con l’ad canado-abruzzese ha portato in dote tanti nuovi adepti, se è vero che le elezioni per le Rsu segnano nel dopo Pomigliano un avanzamento del 6%, con un arretramento di Fim e Uilm, vicini di casa a Corso Trieste. Maurizio Landini e i suoi però sono consapevoli che la partita Mirafiori «mette a rischio l’esistenza stessa del sindacato» e allora provano a sfruttare la (mai avuta) attenzione mediatica per trovare tutto l’aiuto di cui hanno bisogno nell’impari sfida con il Lingotto globalizzato. Una «partita che vogliamo riaprire», attacca Landini.
La settimana che porta al referendum su Mirafiori parte con una Fiom battagliera. Dopo la "partita patta" nell'incontro-scontro con la Cgil di domenica, il segretario rilancia la lotta e le ragioni del suo sindacato. Se, è notizia di domenica, la Cgil sosterrà in pieno lo sciopero generale del 28 gennaio, la lotta della Fiom contro «la vergogna di Mirafiori» si allarga coinvolgendo «studenti e confrontandosi con tutte le forze politiche».
Giovedì invece tutta la dirigenza dei metallurgici della Cgil si sposterà ai cancelli di Mirafiori dove è prevista l'assemblea con i lavoratori. «Proprio per rispetto ai 5mila di Mirafiori sui quali non può ricadere la responsabilità di un referendum ricatto dove si dice "O voti Sì o si chiude", ci prendiamo la responsabilità di dire che noi l'accordo non lo firmiamo nemmeno se vincono i Sì spiega Landini -. Lo facciamo perché quell'accordo è illegittimo e cercheremo di dimostrarlo con i nostri legali». Landini poi vuole sfatare il mito di una Fiom sempre contro: «Nel 2010 abbiamo firmato mille accordi che riguardano 230 mila metalmeccanici, dalla Ferrari alla Brembo, dalla Whirpool a quella Lamborghini che è della Wolkswagen. Forse siamo il sindacato che ha firmato più accordi».
GIOVEDÌ AI CANCELLI
Intanto a Torino ieri sono tornati al lavoro 800 operai di Mirafiori: la Fiom ha distribuito loro l'accordo firmato dagli altri sindacati con una copertina di un manifesto del 1969 dal titolo "Se cedi un dito, ti prendono un braccio". «È attualissimo spiega Giorgio Airaudo ed è la sintesi di un contratto che in pochi conoscono: 70 pagine sottoscritte in uno stanzino da delegazioni ristrette sotto il ricatto della Fiat. Era giusto informare i lavoratori, come è giusto chiedere a Marchionne se è vero, come scrive qualcuno, che il contratto Chrysler Fiat prevede che peggio va la Fiat in Italia, meno dovrà sborsare il Lingotto. Ecco, noi cerchiamo di fare un'operazione verità e non giochiamo d'azzardo sulle percentuali dell'esito del referendum». «Di una cosa posso assicurare Marchionne chiosa Landini non è la Fiat che decide se esiste la Fiom, questo lo decidono i lavoratori, i nostri 370mila iscritti, perché esistiamo da 110 anni e da 100 (anno di fondazione della Cgil) abbiamo deciso di essere un sindacato confederale».

l’Unità 11.1.11
Cari delegati, come staremo dentro Mirafiori?
Il segretario della Cgil risponde alla lettera dei delegati della fabbrica pubblicata dall’Unità. «Il modello Marchionne non va bene, la Cgil rispetterà le scelte dei lavoratori»
di Susanna Camusso


Care compagne, Cari compagni, che la CGIL sia con voi e con le lavoratrici e i lavoratori di Mirafiori e Pomigliano per tenere aperta la prospettiva di un cambiamento e che sia con voi nel dire no all’accordo voluto da Fiat e sottoscritto da altri, non vi è alcun dubbio.
E non è certo solidarietà, ma la profonda convinzione che il Modello Marchionne propone condizioni di lavoro che non vanno bene, sottrae diritti, mette in discussione la libertà dei lavoratori di essere rappresentati.
No a quegli accordi è senza alcun dubbio il sentire di tutta la CGIL.
Per questo, per rispettare ed essere a fianco dei lavoratori abbiamo detto di votare no, ci sembrava insufficiente criticare e giudicare l’uso del referendum, tema tutto vero, che viene, se mi permettete, un momento dopo lo stare insieme ai lavoratori e alle lavoratrici. Un minuto dopo il provare ad aiutarli a dire no.
Con grande rispetto per il travaglio che i lavoratori e le lavoratrici di Mirafiori avranno, proponendogli il no, e rispettando chi sceglierà il si.
Perché la funzione di un sindacato è organizzare, tutelare i lavoratori, proporgli le vie del cambiamento, del miglioramento delle loro condizioni.
Proprio perché questa è la nostra funzione, diciamo no a quell’accordo che peggiora le condizioni di lavoro e viola diritti che riteniamo indisponibili.
Se questa è la nostra funzione, direi la nostra ragion d’essere, la domanda che segue e che proponiamo a tutte e tutti è quella della ricerca della soluzione migliore.
Se dovesse prevalere il si, se venisse sconfitta la nostra idea di votare no, ma comunque anche se si ritenesse non valido il referendum, si applicherà quell’accordo; come ottempereremo allora alla nostra funzione di rappresentanza dei lavoratori, come ricostruiremo le condizioni del cambiamento?
Questa la domanda che dobbiamo proporci proprio perché siamo insieme e vicini. Insieme oggi nel giudicare, ma pronti ad interrogarci per traguardare un futuro dentro le aziende Fiat.
Sicuramente possiamo, vogliamo, dobbiamo incontrarci per fare insieme le riflessioni che la vertenza propone a tutti noi.
Vi so in questi giorni impegnati nelle assemblee e nella campagna elettorale, organizzeremo per i giorni successivi.
Con affetto.

il Fatto 11.1.11
Il Vangelo secondo Marchionne
di Marco Politi


Quanto c’è di cristiano nelle nuove regole imposte da Marchionne a Mirafiori? L’interrogativo potrebbe suonare paradossale, ma si pone dal momento che il firmatario-guida del documento, Raffaele Bonanni, è il leader del sindacato che si richiama consapevolmente alla Dottrina sociale della Chiesa. Tanto più che la Cisl in anni passati si è spesa per portare gli altri sindacati confederali a festeggiare il 1º maggio in piazza San Pietro e, più recentemente, si è schierata con la Conferenza episcopale in quel Family Day, che sabotò la legge sulle coppie di fatto. 
Nel crollo delle ideologie il sindacato di matrice cattolica ha sempre voluto attingere al patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, arricchito da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Giovanni Paolo II ha dedicato al tema lavoro molta parte del suo magistero. All’inizio – sul piano geopolitico – l’attenzione era focalizzata sul diritto dei lavoratori polacchi di organizzarsi in un sindacato “indipendente” (sebbene da subito, negli anni Ottanta, difendesse a São Paolo anche i diritti dei sindacati brasiliani, guidati dall’allora trotzkista Lula). Tuttavia, dopo il crollo dell’impero sovietico, Wojtyla ha continuato negli anni Novanta a occuparsi energicamente dell’argomento a fronte di un capitalismo che lui chiamava “radicale”, cioè tendente a sopraffare ogni regola. 
Lontanissimo e anzi avverso ad ogni concezione di antagonismo di classe, Karol Wojtyla ha messo al centro della sua riflessione il carattere del lavoro come “dimensione fondamentale dell’esistenza”, rigettando quel tipo di prassi in cui “l’uomo viene trattato come strumento di produzione” e il lavoro come semplice “merce”. E usando questi termini – cattolici – sottolineava che il pericolo non andava relegato all’epoca dell’industrializzazione primitiva, ma appartiene al tempo presente laddove prevalga una “civiltà unilateralmente materialistica”. 
IL PERICOLO di trattare l’uomo come mera “forza lavoro” – scriveva nella sua enciclica Laborem Exercens – “esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell'economismo materialistico”. Ciò che colpisce nel documento Mirafiori, esaltato come innovativo, simbolo di modernità, spartiacque di una nuova era da coloro che quasi certamente non lo hanno nemmeno letto, è precisamente il fatto che non c’è nulla di innovativo. Non è una rivoluzione nel-l’organizzazione della produzione o nell’individuazione di nuovi metodi di valorizzazione della persona-operaio. Non è neanche una rivoluzione o, più modestamente, un passo in avanti sulla via della partecipazione dei prestatori d’opera alla gestione   dell’azienda: nel senso della Mitbestimmung, la cogestione tedesca, letteralmente “codeterminazione”. La vera carta che la Cisl per la sua tradizione potrebbe giocare e di cui non c’è traccia nel documento Mirafiori.
Il punto non è dunque di schierarsi aprioristicamente per l’una   o l’altra componente sindacale, il punto è di valutare le norme del contratto.
E qui, in tema di rappresentanza, la divaricazione con la dottrina sociale della Chiesa è totale. Sosteneva Giovanni Paolo II che il diritto di associarsi è fondamentale perché ha come scopo la “difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni”. Cioè di assicurare la “tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione”. Il corollario, nella vicenda Solidarnosc, era che non toccava al proprietario dell’azienda – lo Stato in questo caso – decidere chi potesse parlare o no a nome dei lavoratori.
Leggendo il testo Mirafiori (e sono gli articoli su cui Bonanni tiene un profilo bassissimo, perché sa che gridano vendetta al cospetto   di Dio… per usare un linguaggio biblico) si vede che tutti i paragrafi sotto il titolo “Sistema di relazioni sindacali” sanciscono il radicale smantellamento della presenza in azienda di qualsiasi organizzazione sindacale, che dissenta dal contratto firmato. Chi ha il 51%, cancella gli altri.
ORA UN CONTO è accettare democraticamente i risultati di un referendum, un conto è imbavagliare totalmente un soggetto sindacale che la pensa diversamente. L’articolo 1 permette la costituzione di rappresentanti sindacali soltanto alle Organizzazioni firmatarie. Chi non è Organizzazione firmataria NON usufruisce di permessi sindacali (art. 2), NON può convocare un’assemblea (art. 3), NON ha diritto a un locale per esercitare le funzioni di rappresentanza sindacale (art. 5), NON fa più parte del sistema per cui l’azienda trattiene direttamente dallo   stipendio i contributi sindacali versandoli alle rappresentanze. L’abolizione della legge 1993 sull’elezione dei delegati in azienda (festeggiata dai ministri berlusconiani Sacconi e Romani) e la clausola di umiliazione, per cui chi aderisce dopo deve ottenere il consenso di “tutti” i firmatari, completano un impianto che cozza contro la libera partecipazione dei prestatori d’opera e l’organizzazione sindacale dentro l’azienda come “indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate”. (Laborem Exercens)
Per chi ritenesse che gli anni passano, Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate del 2009 sottolinea come segno caratteristico dell’epoca contemporanea la diminuzione delle libertà sindacali e della capacità negoziale dei sindacati. Tuttavia che si arrivasse a dividere i “bianchi” dai “neri” neanche un papa poteva prevederlo.

l’Unità 11.1.11
Ratzinger al corpo diplomatico: «A minacciare la libertà religiosa non ci sono solo le persecuzioni»
Dito puntato contro il bando di feste e simboli religiosi: no al monopolio dello Stato nella scuola
Il Papa: l’educazione sessuale è una minaccia alla fede
Libertà religiosa senza condizionamenti. A questo e alla Chiesa perseguitata nel mondo Benedetto XVI dedica il suo discorso ai diplomatici accreditato presso la Santa Sede. Le accuse alla laicità dell’Occidente.
di Roberto Monteforte


Lo Stato faccia un passo indietro sui temi dell’educazione, compresa quella sessuale e civile che «potrebbero mettere in discussione le libertà di fede» e soprattutto, riconosca l’apporto positivo della religione alla società. «Dietro concezioni apparentemente neutre si trasmettono «concezioni antropologiche contrarie alla fede e alla retta ragione». Non basta la semplice libertà di culto. I cristiani devono poter vivere in modo coerente i principi della propria fede e poter «operare liberamente nella società». Per questo ne vanno rispettati anche feste e simboli, come il Crocifisso, che devono poter essere esposti pubblicamente. Troppo spazio al pluralismo e alla tolleranza che va a discapito della religione che finisce per subisce «una crescente emarginazione» ed essere percepita come «senza importanza, estranea alla società moderna o addirittura destabilizzante». Sono passaggi del discorso tenuto ieri da Papa Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
LE ACCUSE ALL’OCCIDENTE
È il Papa che parla ai rappresentati «politici» del mondo intero. È a loro che spiega cosa intenda per libertà religiosa a rischio, in particolare nel secolarizzato Occidente da riconquistare alla fede. Ma ripropone anche il quadro, «sottovalutato» delle violenze e delle persecuzioni subite dalle comunità cristiane nel mondo.
«La religione non costituisce per la società un problema, non è un fattore di turbamento o di conflitto. E la Chiesa non cerca privilegi, né vuole intervenire in ambiti estranei alla sua missione, ma semplicemente esercitare la sua missione con libertà». Questa è la sua rassicurazione. Chiarissimo è stato l’allarme lanciato contro quella laicità che non considera «positiva». Il suo è un’affondo. Mette in guardia da chi mette in contrasto il diritto alla libertà religiosa con «i nuovi diritti» e il riferimento è a famiglia e diritti per le coppie omosessuali e di fatto, aborto, fine vita. Sarebbero in realtà niente di più che «l’espressione di desideri egoistici» che «non trovano il loro fondamento nella autentica natura umana» di cui la Chiesa parrebbe essere l’unica detentrice. Chiede coerenza ai Paesi
«democratici». La libertà religiosa non va proclamata in astratto, ma «praticata con coerenza e a tutti i livelli», altrimenti si finisce «per commettere grandi ingiustizie verso cittadini che desiderano professare e praticare liberamente la loro fede».
Il messaggio del Papa è «planetario», quindi rivolto a situazioni diverse. Come nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1 ̊ gennaio insiste nel denunciare le persecuzioni alle comunità cristiane, dall’Iraq all’Egitto e la sottovalutazione internazionale sul prezzo di sangue pagato per la libertà religiosa minacciata. Ricorda il nesso tra dimensione religiosa e percorsi di pace. Invoca dai governi del Medio Oriente «misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose», che lo sottolinea «debbono poter godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell'insegnamento e dell'educazione e nell’uso dei media». Il pontefice plaude all’iniziativa dell’Unione europea su questo punto. Nel suo drammatico elenco include «la legge contro la blasfemia in Pakistan».

Corriere della Sera 11.1.11
Giuseppe De Rita: «Giusto, quelle lezioni trasformano la vita in un fatto tecnico»
di  Paolo Conti


ROMA — Giuseppe De Rita, da quarant’anni anima indiscussa del Censis, è da sempre un cattolico consapevole e attento. Ma da sociologo abituato ad analizzare i fenomeni, inserisce anche la fede in un panorama di comportamenti collettivo, ampio e articolato. E in più non rinuncia al dono dell’ironia: «Il Papa ha parlato dell’educazione sessuale "imposta"e l’ha definita di fatto un ostacolo alla libertà religiosa? Beh, allora, come direbbe monsignor Fisichella, bisognerebbe contestualizzare» . Infatti il discorso di Benedetto XVI va contestualizzato, c’è di mezzo un riferimento molto preciso alla realtà spagnola, come ha chiarito poi padre Federico Lombardi... «Così è già più chiaro, altrimenti il discorso rischia di restare molto criptico. Però, nello stesso tempo, anche se il Pontefice si stava riferendo a una particolare e locale realtà, poiché si rivolgeva al Corpo diplomatico, inevitabilmente le sue parole hanno assunto un valore generale e universale, come sempre capita ai discorsi pubblici di un Papa» . De Rita si rifiuta di mettersi nei panni del successore di Pietro («non ho l’autorità per commentare le sue parole...» ), ma azzarda una sua personale lettura di quelle espressioni: «Io intendo così quelle parole. La dimensione della fede cattolica è la "creaturalità". Ovvero l’uomo, la persona vista come creatura di Dio. Quindi il frutto di una creazione che vede sia nella nascita che nella morte la presenza divina. Qui è il punto fondamentale della nostra fede cattolica» . E cosa c’entra tutto questo con l’educazione sessuale, professor De Rita? «C’entra moltissimo, così come c’entra il problema dell’eutanasia. E quindi ecco emergere il problema della libertà religiosa. In questo senso. Se io impongo l’insegnamento dell’educazione sessuale e riduco tutto a un embrione che può essere fecondato quando e come vuole l’uomo, o che può essere destinato anche al concepimento e alla nascita con l’intervento di un padre omosessuale, o ancora può essere uno dei tanti embrioni "inseriti", ecco che la "creaturalità"sparisce completamente dall’orizzonte di una persona umana mentre riceve un’educazione» . Una condanna della contemporaneità, professor De Rita? «Ma quale condanna? Semplice constatazione. Il meccanismo della società dei nostri giorni è sempre lo stesso: sottrarre l’uomo a qualsiasi aggancio con la fede, ridurre quella dimensione a un fatto privato, consegnare al singolo individuo la piena disponibilità della propria vita: nascita, sessualità, morte» . Ma davvero è una prospettiva così negativa? «Insisto, non sto formulando un giudizio, ma analizzando il fenomeno. E’ inevitabile che il Papa, capo della cattolicità, segnali che il problema esiste per i fedeli e per una prospettiva di libertà religiosa» . Il professor De Rita appare scettico persino sull’utilità dell’educazione sessuale obbligatoria nelle scuole: «Personalmente ritengo che individuare nella scuola l’unica agenzia fornitrice di certi servizi è un errore. Educazione sessuale, educazione musicale, educazione stradale, educazione civica... Penso al contrario che una scuola degna di questo nome dovrebbe insegnare poche cose basilari ma benissimo, in modo approfondito e adeguato. Poi, per il resto...» . Non crede invece, professore, che una corretta educazione sessuale nelle scuole potrebbe per esempio evitare la diffusione dell’Aids? «Quella malattia è epidemica in certe aree del mondo che conosciamo bene. In Europa i risultati migliori si ottengono con le grandi campagne di sensibilizzazione. E con i mezzi di massa. Molto meglio un "mettetevi il preservativo..."detto in tv. Cosa c’entrano le scuole con tutto questo?» . E qui il discorso si potrebbe chiudere se De Rita non proponesse una prospettiva: «L’uomo contemporaneo non sosterrà il peso di tutte queste responsabilità sulle sue sole spalle. Tra trenta, quarant’anni assisteremo alla riscoperta di una fede magari meno popolare e diffusa di quella che abbiamo conosciuto fino a oggi, ma più consapevole, profonda. La sola coscienza individuale non può bastare a fronteggiare tanti, e così essenziali, problemi esistenziali...» .

Avvenire 11.1.11
«Fine vita, legge necessaria»
Dal governo ferma risposta alle provocazioni dell’oncologo Veronesi
Sacconi: c’è il diritto-dovere di pronunciarsi Roccella: il testo è basato su evidenze scientifiche
di Luca Liverani


Su un tema così importante co­me il 'fine vita' il legislatore non può far finta di nulla. Per­ché il Parlamento ha il diritto-dove­re di pronunciarsi, dice il ministro Sacconi. Perché il testo in discussio­ne è basato su evidenze scientifiche e non di fede, fa eco il sottosegreta­rio Roccella. E perché è possibile le­giferare garantendo la libera scelta, aggiunge il ministro Bondi. Alla vi­gilia della giornata decisiva per la ca­lendarizzazione del disegno di leg­ge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento – oggi a Montecitorio la riunione dei capigruppo – il gover­no risponde compatto alla provoca­zione dell’oncologo Umberto Vero­nesi, eletto al Senato nelle liste del Pd, secondo il quale il vuoto legisla­tivo attuale è meglio del tentativo di creare un quadro normativo.
«Credo lo stesso professor Veronesi converrà che comunque il Parla­mento abbia il diritto-dovere di e­sprimersi », dice dunque il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. E de­ve farlo, spiega, «su una materia per la quale il provvedimento della ma­gistratura ha avuto un carattere co­stitutivo costituzionalmente discu­tibile. È bene che della legge si di­scuta nella sede propria del Parla­mento con serenità, laicamente».
Veronesi, prosegue Sacconi, «dice cose condivisibili a proposito del­l’accanimento terapeutico», ma «l’e­sperienza ci consegna una positiva consuetudine di rapporti tra il pa­ziente », quando può, o «i familiari e il medico». Allora la legge non sarà «superflua se consolida, recependo­la, questa buona consuetudine». Di­verso, puntualizza Sacconi, «è il diritto naturale ai sostegni vitali»: idratazione e alimentazione «nemmeno per la mozione presentata dal Pd al Senato so­no considerate tera­pie ». Solo in un caso, «quello di E­luana Englaro, si è posto il problema di sottrarre una persona, così viva che a nessuno verrebbe in mente l’e­spianto degli organi, all’idratazione e all’alimentazione. E in questo ca­so si è reso necessario un percorso di forte determinazione nella con­duzione a morte che non possiamo non definire eutanasico».
Eugenia Roccella confessa il suo stu­pore perché «un grande medico co­me Veronesi possa parlare di 'vita artificiale' per gli stati vegetativi o addirittura di qual­siasi persona 'priva di coscienza e di vi­ta di relazione', de­finizione che inclu­derebbe molte for­me di disabilità o l’Alzheimer». Per il sottosegretario alla Salute «non è sulla fede, ma sulle cono­scenze scientifiche che il progetto di legge sul biotestamento si basa». La ricerca, infatti, ha dimostrato come molte persone apparentemente non coscienti «mostrano invece un’atti­vità cerebrale inaspettata». E «non è affatto escluso che si possano trova­re nuove terapie» come suggerireb­bero alcuni 'risvegli' ottenuti «con nuove e semplici tecniche». Né l’au­todeterminazione, poi, «può essere un criterio assoluto scisso dal con­testo scientifico, medico e relazio­nale », altrimenti qualunque pazien­te potrebbe esigere «un trattamen­to che il medico giudica inappro­priato o dannoso». «Una legge è opportuna», concorda il ministro dei Beni culturali. Sandro Bondi è convinto che «su alcune questioni ancora controverse sia an­cora possibile trovare soluzioni che, pur non intaccando i principi fon­damentali della fede, garantiscano la libera determinazione individua­le ». Sul tema dell’accanimento, Bon­di ritiene che la scelta «debba esse­re valutata con umana sensibilità dai medici in collaborazione con la fa­miglia, tenendo naturalmente pre­sente la volontà testamentaria o e­spressa direttamente dalla persona».

l’Unità 11.1.11
Avanti popolo... Una grande mostra celebra i 90 anni del partito nato a Livorno nel 1921
Una vicenda intrecciata con l’identità italiana finita nel 1991 che ha lasciato un’impronta decisiva
Pci, quel «partitone rosso» che ci aiutò a sentirci una nazione
Un percorso multimediale tra il Congresso di Livorno del 1921 e il Congresso di Rimini del 1991, che segna la fine del Pci e la nascita della Quercia. E tanti dibattiti sul più grande partito della sinistra italiana.
di Bruno Gravagnuolo


Il Pci nella storia d’Italia. Qualcuno vorrebbe espellere il primo dalla seconda. E in primis la destra più dura che è andata al governo tre volte in questi venti anni. Poi la storiografia revisionista e neodefeliciana più intransigente, come nel caso del «terzista» Galli della Loggia che in materia di Pci non fa mostra di «terzietà»: una zavorra per l’Italia che bloccò la sua modernità. Punto.
E invece, proprio nell’anniversario del Congresso di Livorno (tra il 15 e il 21 gennaio 1921) arriva adesso una grande mostra a Roma, costellata di altre iniziative in corso d’anno, che intende rimettere a posto i fondamentali della memoria. Per registrare il peso e l’incidenza di una vicenda collettiva, esaurita ufficialmente il 4 febbraio 1991(con la nascita del Pds a Rimini) ma inseparabile dall’identità civile stessa del nostro stato-nazione, di cui sempre quest’anno si celebrano i 150 anni. E allora vi raccontiamo in anteprima la mostra, a cura della Fondazione Istituto Gramsci e del Centro Studi di Politica Economica (Cespe) che aprirà i battenti il 14 all’Acquario Romano, Casa dell’Architettura Piazza Manfredo Fanti 47(conferenza stampa alle 11 del 12) e che si intitola appunto: «Avanti Popolo. Il Pci nella storia d’Italia»).
Intanto la mostra è un ipertesto, un percorso multimediale. Allestito in loco lungo sei stazioni cronologiche inclusive di sei periodi chiave dela storia Pci, intrecciata a quella italiana. Ciascuna stazione, unita alle altre da una pista in plexigas a immagini, si vale di un certo numero di bacheche(sei serie di teche). Con dentro materiale documentario originale, fatto di lettere autografe, volumi, giornali, e sempre riferito al periodo in questione. Poi, per ogni stazione, due schermi «touchscreen» consentiranno, valendosi di 36 parole chiave, di accedere al merito e ai dettagli della storia narrata, tra rimandi circolari e cortocircuiti audiovisivi.
A parte, novità assoluta, l’esposizione degli originali manoscritti dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (31, a parte i due intonsi non in mostra), vero e proprio «Graal» teorico del Pci, anima pulsante di idee che ne fece quel che fu (benché la loro ricchezza sia ancora una miniera inesauribile e funzionante). Al piano superiore dell’«Acquario» ci sarà una sezione sulla satira, con le provocazioni di Altan e Staino, inseparabili dal vissuto del «partitone rosso», che sapeva ridere di sé stesso e scommetteva sulla satira (su di sé oltre che sull’avversario).
Altre cose in mostra. Il manoscritto gramsciano sulla Questione meridinale del 1926. Messaggi radiotrasmessi e autografi di Togliatti, lettere di Badoglio a Togliatti, lettera di Togliatti a Sraffa del 1937, con richiesta di istruzioni per la prima pubblicazione dei Quaderni. Una scelta delle edizioni e pubblicazioni gramsciane all’estero. Tutte le tessere Pc. d’I. e Pci dal 1921 al 1991. Fotoromanzi degli anni 50 per incitare al voto gli emigranti (precoce intuizione «mid-cult» del valore mediatico dell’immaginario di massa). Un Dvd con testimonianze e interviste a far da filo conduttore. Persino, si va in ordine sparso, un servizio da caffé del Migliore. Un ciclostile paracadutato dagli Alleati, per stampare l’Unità clandestina, matrice eroica di tante copie segrete dell’Unità ricopiate pazientemente a mano. Il tutto ovviamente è disposto non a caso e con rigore, da un comitato scientifico di storici men giovani e più giovani(Giuseppe Vacca, Silvio Pons, Francesco Giasi, Ermanno Taviani, Luisa Righi, Emanuele Bernardi, Gian Luca Fiocchi). E da un architetto, Alessandro d’Onofrio che ha lavorato al Maxxi con la Zadid.
Vediamo alcuni dei concetti chiave che informano la mostra. Prima di tutto, visualmente per così dire, c’è l’intento di mettere in luce la capillarità di un radicamento dentro la società civile, a costruirla e orientarla. Facendo leva sul simbolico, sui media di allora, sul folklore, sulla cultura alta e bassa, e sulle istituzioni minute del quotidiano. Secondo l’indicazione gramsciana, volta a prefigurare già dentro la società civile la futura società autoregolata: non in chiave classista e chiusa, ma con un «blocco storico» di ceti progressivi attorno agli operai. Fu anche in virtù di ciò, oltre alle fondamentali innovazioni strategiche togliattiane, che il Pci «fece Italia», Costituzione democratica, cittadinanza. E pedagogia aperta all’internazionalizzazione della cultura (altro che zdanovismo in quell’Italia censoria e bacchettona!). E tuttavia la mostra non è autocelebrativa. Perché l’altro suo aspetto è la «dilemmaticità» del Pci partito «anfibio»: nazionale e transnazionale con riferimento all’Urss, fino e oltre il 1956. «Doppia lealtà», nella quale il Pci scavò, alla ricerca di una sua via, oltre la tenaglia dei blocchi contrapposti, e per schiudere un varco né leninista né socialdemocratico (con il torto di aver sottovalutato le possibilità dinamiche di quest’ultimo approdo). Come che sia, fu così che il Pci, scuola di massa per le classi subalterne, divenne l’erede del Risorgimento democratico. Come per altro verso la Dc. Ed è per questo che gli va reso onore, perchè senza quel Pci, oggi saremmo ancor meno una nazione.

Corriere della Sera 11.1.11
Se l’orrore della Shoah stravolge la memoria
Il dolore e la vergogna che i sopravvissuti rimuovono
di Paolo Mieli


L’ 8 febbraio del 1972 si concluse in Germania il processo a carico del settantacinquenne agente di polizia in pensione Walther Becker. Il motivo per cui Becker era finito sul banco degli imputati non era riconducibile all’essere lui stato nel secondo dopoguerra un poliziotto, bensì al ruolo ben più importante che aveva ricoperto tra il 1941 e il 1945 alla guida del dipartimento di polizia nel distretto polacco di Radom (tre milioni di abitanti di cui oltre il dieci per cento ebrei). Becker era accusato di aver svolto un ruolo di primo piano nella liquidazione del ghetto di Wierzbnik il 27 ottobre del 1942, allorché tra i sessanta e gli ottanta ebrei erano stati uccisi sul posto, mille e seicento erano stati inviati in tre campi di lavoro a Starachowice e altri quattromila erano stati mandati a morire nelle camere a gas di Treblinka. Nel corso del dibattimento il pubblico ministero poté presentare decine di sopravvissuti, i quali testimoniarono che quel giorno Becker aveva personalmente picchiato e ucciso numerosi ebrei e aveva ordinato l’assassinio di altri. Uno di loro ricordò di aver visto quell’uomo afferrare per i piedi un bambino ancora in fasce e sfondargli il cranio contro un muro accanto all’entrata del cortile presso la piazza del mercato. Ma, a sorpresa, il giudice prosciolse l’imputato e Becker uscì da quell’aula di tribunale da uomo libero. Tutte le testimonianze a suo carico, spiegò poi il giudice, non coincidevano l’una con l’altra. In alcuni casi gli erano stati attribuiti misfatti che non si sa bene se fossero stati realmente compiuti. Misfatti riferibili a «un’immagine archetipica dell’Olocausto» che, a guerra finita, era stata «incorporata nei ricordi» dei superstiti. Alcune testimonianze erano palesemente discutibili e avevano ingenerato nel giudice il sospetto che gli accusatori avessero accusato Becker «di atti specifici commessi da altri uomini che non erano riusciti a identificare» . La corte stabilì che i testi, tutti, erano «consciamente o inconsciamente propensi» a «proiettare» sull’imputato il loro «comprensibile» odio per il regime nazista. Ma di prove inconfutabili non ce n’erano. Quest’episodio ha suscitato l’interesse di Christopher R. Browning spingendolo a scrivere un saggio, Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowice che, nella traduzione di Paolo Falcone, l’editore Laterza si accinge ora a pubblicare in Italia. «Se Becker era sfuggito alla giustizia tedesca» , scrive Browning, «sentivo che almeno meritava di finire nell’inferno degli storici» . Ma lungo il cammino della sua ricerca, l’autore ha scoperchiato un vaso che porta allo scoperto problemi, se è possibile, maggiori di quelli provocati dalla sentenza del ’ 72. Diciamo subito che il suo libro non è né revisionista né tanto meno negazionista. Però analizza le testimonianze di 292 sopravvissuti, rese tra il 1945 e il 2008, mettendone in evidenza anche rimozioni e contraddizioni. Per giungere a una conclusione che inchioda sì le croci uncinate a terribili responsabilità, ma ha il coraggio di soffermarsi anche su alcuni conti che non tornano nel ricordo delle vittime. Questo libro assomiglia per certi versi allo straordinario I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne (Mondadori), in cui Jan Gross rivelava che ad uccidere i mille e seicento israeliti (i sopravvissuti furono solo sette!) di Jedwabne, un villaggio della Polonia nordorientale, non erano stati i tedeschi, ma esclusivamente i loro «vicini di casa» polacchi. «È impossibile costruire un sicuro senso della nostra autonomia nazionale sulla base di menzogne» , aveva spiegato Gross. «Da parte mia», » , aggiunge Browning, «ritengo che non possiamo sorvolare su queste problematiche solo perché abbiamo delle remore a usare le testimonianze oculari dei sopravvissuti» . Quali problematiche? E che genere di remore? I problemi sono quelli derivanti da alcune contraddizioni della memoria. Ad esempio c’è la questione dei ricordi rimossi. «Sono certo che molti sopravvissuti dell’Olocausto» , afferma Browning, «hanno rimosso — hanno dovuto rimuovere— ricordi traumatici e potenzialmente demoralizzanti» , che all’epoca avrebbero reso loro la vita ancor più difficile e in seguito non sono mai stati recuperati. Si sta parlando dei «dolorosi segreti» : il furto di un tozzo di pane a un compagno di prigionia, l’abbandono di un membro della propria famiglia o di un amico, l’euforia che prendeva quando ci si salvava perché «qualcun altro» veniva portato al macello. Cose comprensibili, più che comprensibili, ma che generavano risentimenti, mai del tutto scomparsi. Di qui le remore. C’è una sorta di tacito consenso per cui questi ricordi di eventi e comportamenti, che potrebbero non essere compresi da chi non ha vissuto in quei gironi infernali, non vanno divulgati; anche perché il semplice raccontarli potrebbe risultare imbarazzante e doloroso per alcuni membri della comunità. E in alcuni casi ci costringe a rivedere il reale andamento dei fatti. Ma se addirittura la Corte suprema israeliana, sulla base di una più attenta rivisitazione delle testimonianze dei sopravvissuti di Treblinka, ha avuto il coraggio di rovesciare la sentenza di condanna di John Demjanjuk, presunto «Ivan il terribile» del campo di Sobibor, è giusto che chi si occupa di quel lontano passato, quando è il caso, faccia lo stesso. Senza voler eguagliare il giudice di Amburgo che assolse Becker, conclude Browning, lo storico ha il dovere di «concedere» che l’utilizzo di quelle testimonianze sui campi di lavoro e quelli di sterminio «comporta seri problemi» . I ricordi della vita della comunità ebraica di Wierzbnik-Starachowice prima della guerra sono già contraddittori. Alcuni hanno memoria di un’intensa vita religiosa e associativa, altri no. Alcuni serbano il ricordo di una forte presenza del sionismo, altri no. Alcuni riferiscono che nel settembre del ’ 39, allo scoppio del conflitto, molti avrebbero voluto trasferirsi nella zona occupata dai sovietici, altri lo negano sostenendo che in quell’area era ancora vivo il ricordo della guerra precedente, quando antisemiti erano i russi, mentre i tedeschi erano «amici» . Cosa c’è di interessante in questi contrasti? Che portano in primo piano il tema della sottovalutazione, in una parte consistente delle comunità ebraiche, del pericolo rappresentato dal nazismo. Circostanza ancor oggi difficile da accettare per chi, proprio per aver non correttamente valutato i rischi, in quell’immane tragedia avrebbe poi perso gran parte della propria famiglia. Ma questo non è niente. C’è, prima delle deportazioni, il ruolo degli Judenrat, i consigli composti da ebrei a cui i nazisti affidarono il compito di amministrare le comunità israelitiche. Gran parte di questi consigli «si poneva un duplice obiettivo: accontentare le richieste dei tedeschi per impedire che le comunità subissero gravi rappresaglie ed escogitare strategie di mitigazione e di sopravvivenza» . In alcuni di essi «emersero personalità con un atteggiamento dominante verso gli ebrei e compiacente verso i tedeschi» . Gli esempi più famosi di «ebrei che abbracciarono zelantemente il principio nazista di dominio» furono quelli di Moshe Merin dell’Alta Slesia orientale e di Chaim Rumkowski di Lodz. Ma ci furono anche casi diversi, con qualche episodio di autentico eroismo, ad esempio quello di Froyim Szachter, capo dello Judenrat di Bodzentyn. Quando i tedeschi gli chiesero informazioni su presunti borsaneristi, lui mise in guardia uno dei sospettati, che riuscì a fuggire. Per questo motivo fu arrestato e trasferito prima a Kielce poi ad Auschwitz, dove trovò la morte. I nazisti fecero di tutto per mettere gli abitanti della Polonia contro gli ebrei. Nel ’ 41, in seguito a un agguato della resistenza polacca contro militari tedeschi, Becker dispose, come rappresaglia, un’impiccagione pubblica di cittadini presi a caso. Le vittime, tra cui alcune donne e almeno una bambina, vennero portate al mercato, costrette a salire su degli sgabelli e a infilare la testa nei cappi. A eseguire l’impiccagione furono obbligati alcuni giovani ebrei, a volto coperto, nel ruolo di boia. La polizia ebraica ebbe il compito di sovrintendere alla regolarità delle esecuzioni. In se- guito fu fatta trapelare l’identità dei «macellai ebrei» . Da quel momento persino i parenti ebbero paura di farsi vedere in loro compagnia per timore di ritorsioni. E quella non fu l’unica volta in cui gli israeliti furono trasformati in carnefici. Un ebreo sopravvissuto, Peretz Cymerman, dopo la guerra ha provato a togliersi il peso di quell’atto, che pure non poteva in alcun modo essergli imputato, raccontando che gli impiccati erano membri dell’Armia Krajowa, un movimento nazionalista decisamente antisemita, responsabile dell’uccisione di numerosi ebrei nascosti: «Sapevo di impiccare persone che se lo meritavano» , si giustificò. Ma lo storico ha accertato che gli omicidi di ebrei da parte dell’Armia Krajowa furono in ogni caso successivi al 1941. Il 1941 è un anno cruciale. Il 22 giugno l’esercito tedesco lancia l’offensiva contro l’Unione Sovietica, l’Operazione Barbarossa, e inizia lo sterminio sistematico di tutti gli ebrei delle zone conquistate. Nel marzo del 1942 prenderà il via la politica di uccisione di tutti gli israeliti, la «Soluzione finale» . A questo punto, nota lo storico, «è assai probabile che coloro che giudicarono le intenzioni dei tedeschi in maniera più pessimistica siano sopravvissuti in numero molto maggiore rispetto a coloro che le negarono aggrappandosi a speranze poco realistiche» . Dal che si deduce che la memoria è monopolizzata da quelli che capirono prima degli altri e si comportarono di conseguenza. Il 27 ottobre del ’ 42 fu il giorno dell’Aktion, cioè la liquidazione del ghetto e la distruzione della comunità ebraica di Wierzbnik. Vecchi e disabili furono uccisi sul posto, gli altri finirono nel campo di lavoro. Grazie al corruttibile Leopold Rudolf Schwertner, responsabile del personale non tedesco nelle industrie di Starachowice, molti ebrei riuscirono a comprare la loro «schiavitù» , cioè l’autorizzazione a lavorare — ovviamente senza essere retribuiti — nelle fabbriche fuori dal lager. Questo genere di operai era proprietà delle SS, che li noleggiavano quotidianamente agli imprenditori. Ma per gli ebrei questi «permessi» erano l’unica occasione per salvarsi dai campi di sterminio. Quanto al campo, il responsabile della polizia ebraica era Jeremiah Wilczek. I giudizi su di lui sono tutti negativi, qualcuno definisce la sua polizia «peggiore di quella dei tedeschi» . Suo figlio Abraham è accusato anche di aver segnalato ai nazisti quali suoi correligionari avrebbero dovuto picchiare per ottenere le informazioni che cercavano. Secondo qualche testimone, però, in un secondo tempo Abraham guidò un tentativo di resistenza nel campo e questo lo riscattò. Ma nessuno ha riabilitato suo padre che, quando il campo di Starachowice fu contagiato da un’epidemia di tifo, indicava ai nazisti chi sospettava essere febbricitante, candidandolo così all’esecuzione sommaria. Il tifo produsse nel campo un clima di terrore e provocò un’ecatombe di malati (o di presunti tali che furono uccisi per paura del contagio) decimando la forza lavoro. Il resto lo fece l’odio intestino che si produsse all’interno della comunità. «Il sistema dei campi» , osserva Browning, «era progettato non solo per dividere i prigionieri, ma anche per metterli uno contro l’altro in una lotta darwiniana per la sopravvivenza; numerosi resoconti di sopravvissuti confermano la logica apparentemente inesorabile di gioco a somma zero, in cui un prigioniero otteneva un guadagno solo a discapito di un altro prigioniero» . Poi, nella primavera del ’ 43, la situazione migliorò. Il nuovo responsabile della sicurezza del campo, Kurt Otto Baumgarten, assieme al suo superiore, Walter Kolditz succeduto all’efferato Willi Althoff, capì che «negoziando ed estorcendo denaro agli operai ebrei, piuttosto che ammazzandoli, poteva incrementare la produzione della fabbrica e arricchirsi» . Himmler era contrario alla pratica dei campi di lavoro forzato ebraici, ma, dal momento che il tasso di assenteismo tra gli operai ebrei era nettamente inferiore rispetto a quello degli operai polacchi e quindi la loro percentuale di produzione era di molto superiore, l’autorità nazista in loco concesse la prosecuzione di quell’attività. Gli ebrei temevano più di ogni altra cosa di finire nella lista degli «inadatti al lavoro» , per le conseguenze letali di quel genere di selezione. E quindi facevano l’impossibile per lavorare sempre di più e sempre meglio. Quando le donne ebree sostituirono le operaie polacche nel settore in cui si producevano detonatori per bombe, la quota giornaliera venne immediatamente raddoppiata da 250 a 500. Gli ebrei avevano comprato la loro schiavitù con l’acquisto dei permessi di lavoro e, per salvare la vita, fornirono manodopera indispensabile per lo sforzo bellico, «prolungando in questo modo la dominazione tedesca» . Le guardie ucraine, nonostante tra loro vi fosse un alto tasso di antisemitismo, dietro compenso consentivano ai prigionieri di uscire di nascosto dal campo, per recuperare i loro soldi e gioielli dai polacchi a cui li avevano affidati alla vigilia della deportazione. E i polacchi in quel momento quasi sempre si comportarono correttamente, a differenza di quel che avrebbero fatto nel dopoguerra, allorché rifiutarono di riconsegnare agli ebrei i loro beni. In quel frangente comunque nel campo poté entrare del denaro. E il denaro creò piccoli privilegi, talvolta fu utile per salvare dei bambini. Ma, in conseguenza di ciò, provocò anche risentimento: chi perse qualche congiunto covò rabbia nei confronti di quelli che, corrompendo, si erano salvati. Si creò la categoria dei Prominenten, cioè di quegli ebrei che occupavano posizioni di una qualche influenza, a cui in più di un caso si concedevano le donne in cerca di protezione e di aiuto. Nei primi mesi del ’ 44 Kolditz fu sostituito alla guida del campo da Willi Schroth, che— sempre facendosi pagare — consentì a nascondere i bambini. Ma tutto cominciò a cambiare quando nell’aprile del ’ 44 giunse al campo un nutrito gruppo di ebrei provenienti da Lublino, i quali «rimasero sbalorditi» che esistesse un posto come quello in cui famiglie ebree— uomini, donne e bambini — vivevano ancora insieme. I lublinesi denunciarono quasi subito all’interno della comunità dei reclusi quel clima di corruzione. Contemporaneamente i partigiani iniziarono a sferrare attacchi sempre più audaci alle guardie ucraine che accompagnavano i prigionieri al lavoro, non già per liberarli ma per impossessarsi delle armi. È l’inizio della fine. Nel luglio del 1944 le truppe dell’Armata Rossa oltrepassano il confine polacco. E viene il momento della chiusura del campo di Starachowiche (anche se i sovietici resteranno bloccati sei mesi sulle rive della Vistola e libereranno la zona solo nel gennaio del 1945). Gli oltre mille prigionieri vengono trasferiti, lungo un viaggio di 220 chilometri, ad Auschwitz Birkenau. La disposizione nei vagoni è opera di quel Becker di cui si è detto all’inizio, che mette gli ebrei «importanti» in un carro speciale. Nel corso del viaggio diciotto di quei Prominenten, tra i quali Wilczek, perdono la vita: per la mancanza d’aria, ufficialmente; ma secondo alcune (molte) testimonianze perché uccisi dai lublinesi. Una vendetta terribile. Giunti a Birkenau, anche lì i sopravvissuti trovano reclusi che si informano (per «regolare i conti» ) delle circostanze in cui alcuni dei nuovi arrivati erano stati dei privilegiati. Altre vendette. E qui la memoria si confonde, nel senso che alcuni di loro ricordano cose che non sono accadute, probabilmente per cancellarne altre molto dolorose. «L’incorporazione a posteriori di immagini ampiamente diffuse» , sostiene Browning, «contribuì forse a creare ricordi nitidi di eventi che in realtà non si verificarono» . Sono i capitoli più delicati del libro, quelli in cui l’autore si misura coraggiosamente con alcune questioni sollevate dalla letteratura negazionista. Ad Auschwitz quel che resta di quella comunità sprofonda nel baratro dell’Olocausto. Ma non finisce qui. I pochi evasi devono evitare di imbattersi nei partigiani polacchi dell’Armia Krajowa, che li respingono o, nel caso finiscano a contatto con alcune unità più radicali, li deruba e li uccide su due piedi. E quando la Polonia viene liberata, di ebrei continuano ad esserne uccisi a centinaia (valga per tutti il pogrom di Kielce del luglio 1946). Li si accusa, adesso, di essere complici dei comunisti. «Le sofferenze patite dagli ebrei durante l’Olocausto minacciavano di oscurare la rivendicazione della Polonia di una doppia vittimizzazione per mano sia di Hitler che di Stalin» , osserva Browning. Il ritorno dei sopravvissuti è avvertito come una insidia dai nuovi proprietari: «Il rifiuto di restituire i beni degli ebrei, dettato dalla semplice avidità, viene legittimato come un atto di patriottismo e di resistenza anticomunista» . I processi agli aguzzini dei Lager hanno poi dell’incredibile e le condanne sono per lo più incredibilmente miti. L’autore scopre che il passato del giudice Wolf Dietrich Ehrhardt, che presiede al processo Becker, non è affatto immacolato come questi lascia credere. E spiega altresì che le testimonianze degli ebrei risultano contraddittorie a causa del peso di quel che è stato scritto lungo tutto il libro. Il fatto è che «l’Olocausto nell’Europa dell’Est non può essere inteso semplicemente come un’aggressione dei tedeschi nei confronti degli ebrei, con il resto della popolazione considerata alla stregua di spettatori» . E noi oggi «non abbiamo il diritto di dare giudizi morali superficiali» , dal momento che in quei campi «il normale mondo morale venne completamente stravolto, in quanto l’assioma fondamentale, "non fare del male", spesso perse di senso» . Il potere nazista «costrinse gli ebrei a un gioco a somma zero in cui ogni prigioniero aveva un ruolo attivo o qualche scelta, ma tutte le scelte avevano conseguenze negative per molti e nessuna scelta garantiva la salvezza» . Se aiutavi qualcuno, di solito era a scapito di qualcun altro. Un mondo, come ha detto Lawrence Langer, di «scelte senza scelta» . Browning riferisce la testimonianza di un sopravvissuto di Starachowice che ancora oggi non riesce a perdonare un suo correligionario di non aver impedito che fosse mandata a morte la sua sorellina. L’uomo a cui non concedeva il perdono era un agente della polizia ebraica, che era cresciuto nella sua stessa strada a Wierzbnik ed era stato da bambino suo compagno di giochi. Secondo lui l’agente di polizia del campo avrebbe potuto salvare la sua giovanissima sorella, dal momento che «c’era un mucchio di gente di fuori che avrebbe potuto mandare al suo posto» . L’agente ebreo è ai suoi occhi ancora oggi quasi più «responsabile» dei nazisti che gli uccisero la sorella. Ecco per quali vie il peso della memoria si è ritorto contro le vittime. Vanificando i processi del dopoguerra contro i carnefici. E giungendo perfino a confondere le carte attraverso le quali si fa la storia. Solo adesso si comincia a dipanare quei nodi e sono benvenuti libri come quello di Browning, che avviano questa fondamentale operazione.

Corriere della Sera 11.1.11
Quell’avventuriero all’inferno: un viaggio al termine dell’abisso
Una paura che nasce da spettacoli mostruosi. Come Nembrot, gigante di 28 metri
di Giorgio De Rienzo


Q uando Dante e Virgilio passano dall’ottavo cerchio dei fraudolenti al nono dei traditori, trovano il pozzo dei giganti. I giganti sporgono dal pozzo, piantano i piedi sul fondo dell’inferno. Ecco Nembrot: dalla cinta in su e «dal loco in giù dov’omo affibbia ’ l manto» , conta «trenta gran palmi» . Appare Anteo: esce dalla roccia con il solo busto, «sanza la testa» , per «ben cinque alle» . Alcuni studiosi si sono preoccupati subito di misurare questi giganti: 25 (o 28) metri sarebbe alto Nembrot, sei o sette Anteo. Ma non è questa l’unica volta in cui Dante dà misure precise. Nel Canto XXX, mastro Adamo si dispera per la condanna all’immobilità, perché non può andare in cerca d’uno dei suoi corruttori. Altrimenti — dice — lo avrebbe trovato di sicuro, «con tutto ch’ella volge undici miglia» . Nel Canto XXIX, nella nona bolgia, Dante indugia. Perché, domanda Virgilio, continui a trattener lo sguardo fra l’ombre «triste smozzicate» ? E aggiunge: «Pensa, se tu annoverar le credi, /che miglia ventidue la valle volge» . C’è chi, considerando queste misure di due successive bolge, una il doppio dell’altra, ha tentato di dare precise dimensioni all’intero inferno. Ma già Galileo, dopo aver provato una misurazione, ne aveva concluso che l’inferno dantesco fosse di fatto immisurabile, perché «nelle sue tenebre offuscato» . Le profondità, le lontananze, le immensità di questo spazio si valutano più che sui numeri sul ritmo dei versi, sugli echi delle parole. Dante e Virgilio sono sull’argine di Flegetonte, camminano al riparo dalla pioggia di fuoco, che è martirio orrendo ai sodomiti. Giungono a un punto, da cui si sente il «rimbombo» dell’acqua che precipita dal settimo all’ottavo cerchio. È un rumore sordo, ancora indistinto qui, per la lontananza: poco più di un ronzio simile a quello che fanno le api intorno agli alveari. Si frammette un indugio narrativo. Sullo sfondo di questo «rimbombo» si leva il «gridare» di Iacopo Rusticucci, il quale parla a nome di tre fiorentini illustri e chiede ansioso notizie sulla patria. Ma dopo l’indugio Dante e Virgilio riprendono il cammino: e torna il suono dell’acqua. Ora è più forte, tale da sovrastare le voci dei due poeti. Poi lo scroscio del precipitare in basso del fiume diverrà insostenibile. Ebbene, attraverso il motivo sonoro prende immagine, nel Canto XVI, la profondità tremenda dello spazio infernale. E questa sensazione di abisso che incombe, senza venire mai esplicitamente espressa, questo senso di un imminente precipitare in basso, fanno passare in secondo ordine tutto il resto. Lo spazio dell’inferno dantesco propone spesso grandiose scenografie. Si pensi solo, nella nona bolgia, alla macabra sfilata delle mutilazioni di coloro che aizzarono discordie civili e religiose. O si pensi alla pietosa scena d’immenso ospedale della decima bolgia, con la moltitudine sterminata dei corpi languenti dalle membra marce, cascanti e fetide, con i mucchi di figure doloranti e sfinite. Più spaventoso tuttavia è il paesaggio infernale nelle sue più stilizzate rappresentazioni e nelle improvvise cancellazioni. Viene in mente il quadro spettrale della selva dei suicidi, come quello subito seguente della «landa desolata» dove giacciono i bestemmiatori. Ma viene in mente soprattutto il paesaggio del terzo cerchio, annullato nel quadro di un deserto popolato soltanto da suoni disumani, cancellato dallo spropositato rilievo che assume Cerbero. Ho indugiato sullo spazio, con lo scopo di dare figura all’aspetto più essenziale della lettura di Dante, di sottolineare cioè il valore di viaggio e d’avventura dell’ «Inferno» : di seguire, in altre parole, il suo filo narrativo. Perché attraverso questo viaggio si narra l’avventura morale di Dante: si racconta cioè il suo spavento d’anima. Dante è visibilmente personaggio della Commedia. Ne abbiamo un ritratto indimenticabile, nel II Canto. È l’immagine di un uomo che, mentre si accinge all’ «alto passo» , avverte un’assoluta solitudine: si scopre «sol uno» , mentre «lo giorno se n’andava, e l’aere bruno /toglieva li animai che sono in terra /da le fatiche loro» . Ed è l’immagine insieme di un uomo che precipita nel dubbio, che «disvuol ciò che volle» , per poi precipitare in un dibattersi tra «virtù» e «viltade» . Assisteremo, lungo i trentaquattro canti, alle metamorfosi di questo personaggio. Ne conosceremo la faziosità e la durezza intransigente, con tutto l’ingombro di un «io» che si scatena nelle invettive politiche. Ne conosceremo la gracilità e la paura dell’ «error» , i dubbi e le compiacenze di poeta. Incontreremo il silenzio di Dante, sopraffatto dallo smarrimento nella selva dei suicidi, e la pietà di fronte allo scempio dell’umanità voluta per gl’indovini dalla giustizia divina. Tanto protagonismo fa parte del personaggio Dante nella Commedia, ma non ne esaurisce il ritratto. Manca lo spavento d’anima di fronte al peccato del poeta. La paura di Dante, quella rappresentata, è quasi sempre di maniera. Basta pensare all’episodio di Gerione del Canto XVII. Virgilio, già in groppa al «fiero animale» , esorta Dante a essere «forte e ardito» . Ma Dante trema e si fa pallido come avesse la febbre quartana e una volta in groppa al mostro infantilmente sente il bisogno dell’abbraccio di Virgilio. Bisogna fare attenzione. Questa paura è una semplice nozione: non determina angoscia. La paura nell’ «Inferno» sta infatti nell’oggetto che la determina, non nel soggetto che la prova. Sta allora qui nello spettacolo della animalità mostruosa di Gerione, sta nell’orrore del vuoto, del buio e dell’assenza: nel farsi «spenta ogne veduta» . È una situazione di alta ricorrenza nell’ «Inferno» . La paura del poeta si affida all’oggettività delle realtà descritte, soprattutto quando non si crea una comunicazione di sentimenti forti tra lui e altri personaggi. La nota comune è quella di una negazione totale di umanità. Nell’insistenza su una figurazione totalmente negativa c’è appunto lo spavento d’anima di Dante: insieme con la sua indignazione morale.

Corriere della Sera 11.1.11
Una paura che nasce da spettacoli mostruosi. Come Nembrot, gigante di 28 metri
Le ombre di Paolo e Francesca tormentate da una bufera piacevole
Il vento che li travolge non è molto diverso dalla brezza voluttuosa della passione
di Paola Capriolo


«L’ inferno sono gli altri» , recita una celebre frase di Sartre; ma Dante sembra avere di quel luogo una concezione opposta. L’inferno per lui è essenzialmente solitudine: la solitudine metafisica dell’io confinato in se stesso, escluso per sempre da qualsiasi comunione con la divinità, e anche quella concreta, quasi fisica, di chi si trova a sostenere nel più assoluto isolamento, pur tra la folla dei compagni di pena, il tormento della dannazione, la coscienza della colpa, il ricordo del proprio mondo perduto. Solitarie e isolate sono persino le ombre dei «peccatori carnali» , o almeno di quelli tra loro che persero la vita a causa della propria passione: nel vento tempestoso che li trascina, procedono in fila indiana come le gru Didone, abbandonata una volta di più dal suo Enea, Elena e Paride, a rispettosa distanza l’una dall’altro, Tristano senza Isotta, Semiramide e Cleopatra, non più scortate dalla folta schiera degli amanti di cui fecero collezione sulla terra... In questo lungo e sconsolato corteo, soltanto due ombre procedono «insieme» , affiancate, o forse ancora più unite, confuse nello stesso turbine che, invece di travolgerle brutalmente, sembra sospingerle con speciale leggerezza. Non c’è da stupirsi che Dante, colpito dalla vistosa eccezione che rappresentano, voglia parlare proprio con quei due e li chiami a sé sovrastando con la voce il rombo della bufera. Loro obbediscono, o piuttosto, acconsentono: non per quella smania disperata di farsi ascoltare, di raccontare la propria storia, di avere notizie; insomma, di comunicare ancora una volta con il mondo dei vivi, che domina tanti dei dannati incontrati dal poeta durante il suo pellegrinaggio all’inferno, ma per gentilezza, quasi per condiscendenza. Quanto a loro, non hanno bisogno di nessuno, nemmeno della testimonianza che Dante potrà recare quassù appassionando tutta la posterità al loro dolce e tragico destino. Sono troppo presi l’uno dall’altra per poter curarsi di queste cose; presi come lo furono in vita, quando leggevano insieme la storia di Lancillotto e Ginevra e tra loro si intrecciava un fitto gioco di sguardi, e i pensieri, i sentimenti, i respiri, segretamente si corrispondevano in modo sempre più preciso e simmetrico, come se Paolo fosse diventato lo specchio di Francesca, Francesca lo specchio di Paolo. Questa corrispondenza, questa simmetria, sono governate da una potenza chiamata amore: ben diversa, parrebbe, da quel lussurioso «talento» che finisce col soverchiare la ragione di personaggi come Cleopatra e Semiramide, eppure non meno pericolosa. Francesca ne pronuncia il nome tre volte, ed è come se volesse ripeterlo all’infinito. L’amore ci afferra fulmineamente, di sorpresa, purché il nostro cuore sia abbastanza nobile da poterlo accogliere; l’amore si propaga dall’io al tu con la violenza contagiosa di un incendio, impossibile resistere, impossibile non contraccambiarlo; l’amore è aspirazione all’unità assoluta, quell’unità che Paolo e Francesca hanno trovato (ma altri, come il Tristano e l’Isotta wagneriani, cercheranno consapevolmente) in una morte comune. La tradizione cortese, certo; i poeti provenzali, il Dolce stil novo. Francesca, al pari di Dante, ha ben presente tutto questo quando parla d’amore nei termini più sottili e raffinati che la cultura dell’epoca le mette a disposizione; eppure le sue parole dicono altro, sono pervase, sillaba dopo sillaba, dal soffio travolgente di quel vento che spira nelle regioni dell’inferno per punire, sì, gli amanti, ma forse anche per offrire loro l’immagine più piena e fedele della loro passione. Ne tremano tutte, come Paolo tremava quando baciò per la prima volta la bocca di lei. Anche l’uomo vivo che ora l’ascolta ha conosciuto questo tremito, e ne ha conosciuto e creato sino a raggiungere la perfezione il riflesso letterario, prima che Beatrice si trasumanasse nella mistica figura dalla veste di fiamma, adorna delle tre virtù teologali, pronta a comunicare al poeta un più alto e sacro tremore quando l’accoglierà nel giardino dell’Eden per fargli da guida su per le sfere celesti, e prima che Amore diventasse per lui tutt’altra cosa, una faccenda non più tra l’io e il tu, ma tra l’uomo e Dio. È l’amore così inteso a tenere insieme il mondo è l’amore a muovere il sole e le altre stelle; ma se questa è la conclusione della Divina Commedia, quasi al suo inizio troviamo Paolo e Francesca con i loro trasalimenti carnali, con il loro aggrapparsi ostinatamente, nel cuore dell’inferno, alla terrena speranza di non essere mai separati l’uno dall’altra. Il più umano e comprensibile dei desideri, e tuttavia lontanissimo sia dalla cosmologia scolastica con la sua armonia di sfere «amorosamente» collegate dal filo della trascendenza divina, sia dall’idea platonica (ma anche stilnovistica) dell’amore come forma di perfezionamento spirituale. Più vicino, se mai, alla visione empedoclea evocata nel dodicesimo Canto dell’ «Inferno» che fa dell’amore una potenza non ordinatrice, ma distruttiva: un’attrazione incoercibile che spinge gli elementi a mescolarsi, annullando i confini tra gli esseri sino a ritrasformare il mondo nel caos da cui era nato. Di nuovo, dietro Paolo e Francesca sembra di veder profilarsi l’ombra di Isotta e di Tristano, con il loro appassionato e annichilente tentativo di superare ogni distinzione tra l’io e il tu. «Una morte» : appunto. E se possiamo ravvisare una sorta di segreto compenso nella pena inflitta agli adulteri danteschi, è forse perché la rapinosa bufera che tormenta i loro corpi non ci appare del tutto dissimile, pur nella sua crudeltà, da quell’onda di brezza voluttuosa, da quel profondo e onniavvolgente respiro del tutto, in cui Isotta si immerge per raggiungere nel nulla il suo Tristano. Perché, altrimenti, quei due sarebbero così «leggieri» ? Beatamente leggeri, verrebbe da dire, a dispetto di tutte le punizioni infernali, come una coppia di colombe che si lasci trasportare dolcemente dall’aria verso il proprio nido.

Corriere della Sera 11.1.11
Quel male oscuro che toglie fame e sete
di Dacia Maraini


V edere come si può ridurre una ragazza affetta da anoressia stringe il cuore. Io che ho vissuto in un campo di concentramento per due anni patendo la fame piu nera, faccio fatica a pensare che un tale digiuno crudele possa risultare da un atto di volontà, in tempi di abbondanza. Eppure queste ragazze— e pare che il fenomeno sia in costante aumento, prima al 90%femminile, ora anche in parte maschile — sono tenaci e determinate nel privarsi di cibo. Ma il corpo, quando non viene nutrito a sufficienza, prende a mangiare se stesso. Quando non si ingeriscono per mesi, per anni, proteine e vitamine, la pelle comincia a seccare, i muscoli a contrarsi; i denti tendono a cariarsi; le ossa perdono consistenza; i capelli tendono a cadere; il ciclo mestruale nelle donne sparisce; il desiderio sessuale entra in letargo. Rimane solo, sfolgorante e duro come il diamante, un progetto di volontà astratta e furente. Abbiamo visto le immagini terribili della bella Isabelle Caro, coraggiosamente esposta agli scatti di Toscani per una campagna contro l’anoressia, l’abbiamo sentita raccontare con voce sempre dolce e padrona di sé, la sua voglia di vivere. Ma poi abbiamo saputo della sua morte. Il luogo comune vuole che queste ragazze siano indotte al dimagrimento radicale per inseguire una idea di dieta dettata dalla moda giovanile. Ma per l’appunto, si tratta di un luogo comune, superficiale e approssimativo come tutti i luoghi comuni. Non ci si addentra con tanta determinazione in un processo di regressione e di morte, per delle ragioni così futili. Il male sta altrove ed è evidentemente molto più grave e profondo. Studiando la vita di Santa Caterina da Siena, su cui mi è capitato di scrivere un testo teatrale, ho ritrovato nella giovanissima mistica le stesse pratiche: rigetto del cibo e uso del vomito quando il cibo ingerito per dovere era indesiderato. In tempi di intensa religiosità, le ragioni del digiuno venivano giustificate con il bisogno di distaccarsi dagli appetiti terreni, il bisogno di raggiungere la perfezione di un corpo che fa a meno del cibo, fa a meno del sesso, fa a meno di qualsiasi appetito che non sia quello di Dio. Ma le parole chiave sono ancora quelle: purezza, volontà, amore astratto per un corpo disincarnato. Il che poi vuol dire rifiuto della vita e delle sue dolcezze. Solo la morte può rendere il corpo puro e assoluto, libero da ogni bisogno. «Le mie braccia diventano leggere — dice una anoressica pelle e ossa— mi sembra di avere le ali» . Anche Caterina da Siena progettava di volare verso il suo sposo. E faceva sì che il proprio giovane corpo diventasse ogni giorno più leggero, ogni giorno più concavo e privo di necessità. Non voglio sostituire i giudizi degli esperti, ma rischio troppo se azzardo un parallelo? Come Caterina da Siena perseguiva la purezza, l’ascesi e l’amore tenerissimo per un suo sposo segreto che l’attendeva in cielo con le braccia aperte, non è possibile che queste ragazze esprimano con il loro rifiuto drastico del cibo e del sesso una sete drammatica e prepotente di spiritualità che i nostri tempi non sanno più dare?