giovedì 13 gennaio 2011

l’Unità 13.1.11
Il segretario Pd: «È pagato per fare gli interessi del Paese, non per far fuggire le industrie»
Oggi la Direzione Modem all’attacco, mentre i rottamatori avvertono: le primarie non si toccano
Bersani: Berlusconi vergognoso E rilancia il patto repubblicano
Oggi la direzione Pd. Bersani ribadirà l’idea di un patto da proporre al Paese e a tutte le opposizioni. «Ma non faremo il giro delle sette chiese..». Modem: «La sua linea ha fallito». Parisi e Civati: le primarie non si toccano.
di Andrea Carugati


«È una vergogna incredibile». Pier Luigi Bersani attacca a testa bassa il presidente del Consiglio per le sue parole sulla Fiat. «Lui non se ne accorge perchè è miliardario, ma noi paghiamo al premier uno stipendio, anche se a lui sembrerà misero, per occuparsi dell’Italia e per fare gli interessi dell’Italia. Non per fare andare via le aziende». Parole che naturalmente mettono tutti d’accordo nel Pd, dove pure sul caso Fiat le divisioni non mancano. E oggi nella direzione il segretario le affronterà, ribadendo la sua linea di queste settimane, («condivisa dalla grande maggioranza del Pd»), «sì agli investimenti no all’esclusione della Fiom», punterà su una nuova legge sulla rappresentanza e ribadirà che «si tratta di questioni complesse, che non si possono risolvere come un quiz». «Vendola ha una linea chiara, ma è sbagliata», spiegano gli uomini del segretario. Dal fronte Modem annunciano battaglia: «La segreteria ha scelto un rapporto privilegiato con la Cgil. Ma noi dobbiamo essere il partito della Fim-Cisl, che in Fiat ha più iscritti della Fiom», attacca Gentiloni.
PROPOSTA A TUTTE LE OPPOSIZIONI
Non è l’unico terreno su cui ci sarà una discussione serrata. Sulle alleanze Bersani ribadirà la sua linea di un «patto repubblicano» da proporre a tutte le opposizioni ma soprattutto al Paese, invitando Fini e Casini ad «avere più coraggio», perché l’intervista di ieri del presidente della Camera «contiene un’analisi della situazione simile alla nostra, solo che lo sbocco non può comprendere anche il Cavaliere che è l’artefice del disastro», spiegano al Nazareno. Insomma, il discorso col Terzo polo, per il segretario, non è affatto chiuso. «Ma non faremo il giro delle sette chiese per vedere se qualcuno apre le porte», ha anticipato ieri Bersani. «Noi proporremo un progetto, ognuno poi si assumerà le proprie responsabilità». «Nella direzioneha aggiunto non parleremo di politicismi, ma di Italia, denunceremo che la colpa più grave del berlusconismo è aver ribaltato l’agenda del Paese».
I Modem (che hanno deciso di organizzarsi in associazione con tanto di presidente, due vice e un tesoriere) sono sul chi vive: «Se Bersani archivia la linea fallimentare dell’ultimo anno e decide di concentrarsi sul Pd e sulle sue proposte non possiamo che apprezzare. Del resto è chiaro che Fini e Casini hanno già risposto no alle sue ipotesi di alleanza», spiega un esponente di Modem. Per i veltroniani un voto oggi in direzione sarebbe una «inutile forzatura», ma il segretario è deciso a chiedere che la direzione voti la sua relazione. «Un modo per fare chiarezza», dicono quelli di Areadem, la corrente di Franceschini, che da giorni spinge per questa soluzione.
TENSIONI SULLE PRIMARIE
Il capitolo primarie. Su questo fronte a incalzare sono i rottomatari di Civati, che ieri hanno tenuto la loro “controdirezione”, l’area Marino e i parisiani, che oggi presenteranno in direzione un documento dai contenuti netti: «Il Pd deve respingere ogni veto alle primarie posto da parte di qualche alleato, effettivo o potenziale».
Su questo la relazione di Bersani sarà di apertura: «Per salvarle vanno riformate», dirà il segretario, «non possono essere fonte di divisioni o strumento di conservazione del ceto politico». Nel mirino soprattutto le primarie locali, casi come quelli di Torino in cui il Pd si presenta con 5 candidati. Quanto alla sfida nazionale, ribadirà il segretario, «prima viene il progetto, poi la coalizione e infine le primarie, che non possono diventare uno strumento per restringere l’alleanza». Tema quest’ultimo su cui è scontato il no dei rottamatori, che ieri hanno mostrato dei vecchi video di D’Alema e Bersani che elogiano le primarie di coalizione e hanno criticato le ipotesi di alleanza con l’Udc, oltre a premere per una linea anti-Marchionne (in polemica con Renzi, assente). Ieri anche un centinaio di parlamentari bersaniani ha deciso di dar vita a un coordinamento stabile di sostegno alla linea del leader («Ma non siamo una falange acrtica») con gruppi anche a livello locale.

l’Unità 13.1.11
Camusso: il premier produce solo danni «È contro i giovani»
Il segretario generale Cgil sferzante sulle dichiarazioni di Berlusconi. E poi lancia l’allarme. «Se una generazione dice di sé che le è stato tolto tutto vuol dire che quella generazione è persa»
di Bianca De Giovanni


Se davvero il presidente del consiglio la pensa così, è meglio che se ne vada. Che lo dica anche il mondo delle imprese e della politica». Durissima la replica di Susanna Camusso all'ultima uscita di Silvio Berlusconi. Quell'appoggio incondizionato del premier alla scelta della Fiat di andarsene all'estero in caso di vittoria dei no al referendum a Mirafiori, che si terrà oggi e domani. «In nessun Paese il presidente del consiglio si augura che il più grande gruppo industriale vada via – insiste Camusso – Pare che Berlusconi faccia a gara con Marchionne a chi fa più danni. A proposito di voler bene all'Italia».
L'amore per il Paese per la leader Cgil si coniuga tutto attorno ai più deboli, quelli che non hanno voce: giovani, migranti, anziani senza servizi e senza reddito. A loro è dedicata l'ultima giornata dell'assise di Chianciano su territorio e contratto sociale. Ovvero, sul lavoro collegato alla cittadinanza, alla dignità della vita. Sfilano sul podio giovanissimi studenti, assieme alla segretaria dei pensionati Carla Cantone, parla il responsabile Filcams Franco Martini dei lavoratori atipici del commercio, i relatori raccontano di precarietà, di mancanza di futuro, di diritti calpestati. Proprio come a Mirafiori. Proprio come il giorno prima Maurizio Landini. Tutti, come gli operai, chiedono lavoro e diritti. Nessuno scambio.
A tutti loro il governo non dà risposte. Tanto che le conclusioni del segretario terminano proprio con la sferzata all'esecutivo. «Abbiamo sentito che alla Befana il ministro dell' Economia ha scoperto che la crisi c'è ancora – dichiara – Vorremmo che passi finalmente dalle scoperte alle azioni per contrastarla». E ancora. «Oggi il ministro dell'Economia parla anche di declino e fa una lunga digressione su leggi e delegificazioni (ieri sul Corriere della Sera, ndr) – procede Camusso – Alla fine tutto si scarica su un'unica proposta: cambiare la Costituzione. Vorremmo che il governo faccia una proposta per governare, e non per cambiare il Paese».
L'assemblea di Chianciano segna l'inizio di un altro anno difficile. Per l'occupazione si prevedono altri record negativi. E per la Cgil il filo conduttore resta il lavoro, in cui si concretizza anche l'unità del Paese. «Non ci sono aree del paese al riparo – spiega Camusso – la lotta per la legalità, per i diritti, perché si faccia pulizia anche nelle false cooperative, contro i salari ridotti, la battaglia per far tornare l'idea del diritto e non del favore unifica tutta l'Italia».
Così come la lotta per i diritti unifica le generazioni. Questa è l'altra sfida culturale. «Non c'è scambio tra i diritti di chi c'era prima e chi viene dopo», continua il segretario. Semmai occorre interrogarsi sulle responsabilità nei confronti dei più giovani, le responsabilità di quella politica che ha costruito il debito. O meglio i debiti. «Quello previdenziale, visto che il sistema attuale non coprirà le esigenze dei futuri anziani – elenca Camusso – quello del sistema dell'istruzione, che esce indebolito, quello del lavoro pubblico svilito. Un settore, il pubblico, in cui la riforma Brunetta inserisce un' idea opposta di una politica pubblica efficiente e qualificata». «Rivendichiamo – aggiunge il segretario il diritto di eleggere le Rsu. I settori pubblici avrebbero dovuto votare le Rsu e non hanno potuto farlo». Tutti questi debiti pesano sui più giovani. «Se una generazione dice di sé che le è stato tolto tutto – avverte Camusso – e che non ha più niente da perdere, vuol dire che quella generazione è persa». Ma la responsabilità torna sempre al governo, che ha fatto fino ad ora 11 provvedimenti di politica economica, tutti di tagli e di depressione. Se oggi si domanda perché il Paese è ancora in crisi e non cresce si interroghi: se continua a tagliare permette al Paese di crescere o lo deprime ulteriormente?».

Corriere della Sera 13.1.11
Primarie e lavoro, per il Pd il rischio della «conta»
Pressing su Bersani per evitare di andare al voto sulla sua relazione. Il sondaggio chiesto da Gentiloni
di Maria Teresa Meli


ROMA— Magari alla fine proveranno tutti per l’ennesima volta a fare finta che non sia successo niente, che il partito è unito, che sulla Fiat non c’è alcuna divisione, che sulle primarie non ci son problemi, e via di questo passo. Ma stavolta sarà molto difficile riuscire a stendere un velo pietoso o meno sulle lacerazioni del Partito democratico che oggi riunisce la sua Direzione. Nel Pd la tensione è altissima. Come dimostra la decisione di uno dei leader della minoranza, Paolo Gentiloni, di commissionare un sondaggio a Nando Pagnoncelli. Obiettivo: capire le reazioni dell’elettorato di centrosinistra di fronte alla nascita di un nuovo soggetto politico che riprenda i valori originari del Partito democratico. Risultato delle rilevazioni: una formazione di questo tipo avrebbe potenzialità elettorali altissime, ma buona parte del popolo del Pd non reagirebbe bene a una scissione. Alla Direzione ci sarà anche Matteo Renzi. Di passaggio, perché alle undici e mezzo ha da fare: impegni istituzionali con il ministro Bondi e conferenza stampa — sempre istituzionale — con Gianni Letta. Tanto quel che doveva dire già lo ha detto: uno scontro elettorale tra Berlusconi e Bersani non è proponibile. Si rassicuri, però, il leader del Pd, che il sindaco di Firenze non farebbe il segretario «neanche morto» . Lui aspira a fare il candidato premier, ora che le elezioni si allontanano. Alla riunione arriverà anche un altro sindaco: Sergio Chiamparino. Che è fuori della grazia di dio per l’atteggiamento assunto da Bersani e D’Alema sulla Fiat: troppo appiattito sulla Cgil. Già, la Direzione non potrà eludere il caso Mirafiori. Su cui il partito è spaccato. Trasversalmente, perché Enrico Letta e i suoi, che pure fanno parte d e l l a m a g -gioranz a , l a pensano La galassia come Veltroni e Chiamparino Paolo Fioroni fanno «Modem e non come Bersani e D’Alema. E infatti poco hanno gradito l’idea del segretario di far votare oggi la sua relazione, perché per loro sarà imbarazzante approvare un testo in cui sulla Fiat si usa lo stesso linguaggio della Cgil. Per questa ragione ancora ieri sera c’era un forte pressing sul segretario per non mettere ai voti la relazione, come vuole invece Franceschini, che spera così di prefigurare una nuova maggioranza interna. Il fronte che ha sostenuto Bersani al congresso appare diviso anche su un altro punto. Le primarie. Il segretario non fa mistero di volerle «riformare» . La presidente Rosy Bindi teme che questo sia un modo per cancellarle. Perciò per farsi votare da tutta la sua maggioranza il leader del Pd sarà costretto a uno slalom oratorio. La minoranza, ieri mattina, gli ha fatto sapere tramite Maurizio Modem Mi -gliavacca che sarebbe assai meglio, anche per lui, soprassedere e Beppe parte dei 75 Veltroni e non votare. «Ciò detto — osserva Beppe Fioroni — facciano quel che vogliono. Se hanno bisogno di votare per far vedere che esistono, affari loro. Noi ci esprimeremo contro» . E contro voteranno anche Ignazio Marino, i rottamatori di Civati e gli ulivisti di Parisi, molto preoccupati per la morte annunciata delle primarie. Walter Veltroni, che ieri ha riunito la componente dei 75, come ha avuto modo di spiegare in quell’incontro, vede comunque un Bersani «all’angolo» , dopo che sia Casini che Fini hanno respinto la sua offerta di un accordo. E anche per questo è probabile che oggi, in Direzione, il segretario dia una «registrata» alla strategia delle alleanze. Ieri il leader ha già messo le mani avanti: «Non farò il giro delle sette chiese» . Come a dire che non andrà con il cappello in mano da tutti i potenziali alleati del Pd. I veltroniani, però, sono convinti che la strategia, al di là delle parole, resterà la stessa. Ne sono sicuri da quando hanno saputo che il gruppo dirigente del loro partito ha già offerto la candidatura alla premiership del centrosinistra a Casini (il quale Casini, però, non ha dato risposte). Dunque, questo il quadro alla vigilia di una Direzione che si preannuncia non facile. E le difficoltà sono testimoniate anche dalla decisione di ieri dei bersaniani di strutturarsi in corrente per puntellare il segretario.

Repubblica 13.1.11
Pd, Bersani tenta la tregua con Veltroni
Ma in direzione la maggioranza vuole la conta. Scontro tra i "rottamatori"
di Goffredo De Marchis


ROMA - La direzione del Partito democratico, rinviata a dicembre, si riunisce oggi proprio quando la Consulta decide sul legittimo impedimento e gli operai di Mirafiori cominciano a votare il referendum. Pier Luigi Bersani dovrà affrontare il secondo tema, la chiusura di Casini e Fini al progetto di un´alleanza democratica per andare oltre Berlusconi e le primarie messe in discussione dal vertice del Pd. Sulla Fiat la minoranza di Veltroni, Fioroni e Gentiloni chiede parole più chiare, più nette di quelle pronunciate fin qui. Sulle primarie sono i prodiani guidati da Arturo Parisi a pretendere una difesa dello strumento ma difficilmente troveranno un sostegno nel Movimento democratico veltroniano e nell´area di Ignazio Marino, difensore delle primarie ma che ieri ha ottenuto dal segretario una riunione ad hoc per studiare nel profondo il fenomeno. Alla direzione, protagonista sarà anche Matteo Renzi che ha disertato la contro riunione dei rottamatori tenuta ieri ma ha deciso di partecipare al parlamentino del Pd. Del resto sarà a Roma per incontrare Gianni Letta e discutere dei fondi destinati al David. Non vuole incappare in nuove polemiche come quelle seguite alla sua visita ad Arcore.
La porta in faccia sbattuta da Udc e Fli viene dribblata da Bersani così: «Noi stiamo costruendo il nostro progetto, il nostro programma. Non faremo il giro della sette chiese bussando a tutte le porte. Pensiamo che serva una convergenza, poi vedremo». In sostanza, il segretario centrerà la barra sul Pd, sul suo profilo autonomo e questo risultato sarà incassato dai veltroniani come un cambio di rotta e un successo delle loro posizioni. Sono le premesse di una tregua tra maggioranza e minoranza di Modem. Premesse che possono saltare se si arriverà a un voto finale sulla relazione del segretario. Dario Franceschini chiede un pronunciamento chiaro, una conta. Veltroni è contrario. Bersani prova a mediare. I suoi fedelissimi sono favorevoli al voto. Ieri hanno costituito anche una corrente di sostegno al segretario guidata da Oriano Giovannelli. Ma la tregua regge solo senza conta. E Modem si riserva la sua stoccata per la riunione del Lingotto.
Nella direzione entrerà giocoforza la sentenza della Corte costituzionale su Berlusconi. Ma all´ordine del giorno dei problemi interni ci sono anche la Fiat e le primarie. Nichi Vendola è chiarissimo: «Non vedo come il Pd possa rinunciare alle primarie. Se lo fa salta il partito», dice in un´intervista al settimanale "Gli altri". I rottamatori orfani di Renzi si sono riuniti ieri per difenderle. E per difendere le ragioni del no alla strategia di Marchionne. Pippo Civati ammette la freddezza con il sindaco di Firenze. «Abbiamo posizioni diverse sulla Fiat. Ma noi - dice rispondendo a Renzi - non faremo né una corrente né una correntina». La loro controdirezione ha avuto molti toni critici verso la segreteria. Francesco Siciliano ha letto il discorso di Pericle agli ateniesi. Civati ha ricordato che la rottamazione significa tenere il Pd «aperto e plurale». Renzi però continua a mettere in guardia i suoi compagni di viaggio: «Chi vuole giocare la carta della rottamazione non può pensare di fare una minicorrente del Pd, uno spiffero del partito». E sul suo futuro dice: «Io segretario? Manco morto». Come leader vede bene Nicola Zingaretti: «Può fare bene il capo del centrosinistra o il sindaco di Roma».

il Riformista 13.1.11
Bersani attacca Fiat e fonda la sua corrente
Retroscena. Il leader battezza (in contumacia) la sua componente. D’Alema per- pIlesso. Oggi la possibile conta in direzione. Si rischia lo scontro su Mirafiori e primarie
di Tommaso Labate

qui
http://www.scribd.com/doc/46786875

il Riformista 13.1.11
Veltroni pensa già al Lingotto bis. Gentiloni: «Noi appiattiti sulla Cgil»
di Ettore Colombo

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il Riformista 13.1.11
Un governo con Casini un partito con Vendola
di Goffredo Bettini



l’Unità 13.1.11
Intervista a Matteo Renzi
«Ma io sto con Marchionne. Il primo diritto è lavorare»
Il sindaco di Firenze: «Il mondo è cambiato e l’Italia rincorre. Il vero ricatto è non poter comprare i libri di scuola ai figli perché si è in cassa integrazione»
di Marco Bucciantini


L’ultimo intervento di una serie abbastanza vasta è stato sulla Fiat. Come sempre, è stato diretto, «sì, sono un po’ tranchant, il politichese non lo mastico». Matteo Renzi, sindaco di Firenze, è sovraesposto, e non finge di esserne seccato. Come Nichi Vendola, vive da protagonista il suo ruolo, evade dal territorio ed è partecipe di tutti gli argomenti e dibatte su tutti i mezzi di comunicazioni. Questa maniera è «berlusconiana», per chi lo contesta da dentro il Pd, ed è invece vincente, a leggere i sondaggi che lo classificano primo per gradimento fra i sindaci italiani. «Ma il più bravo di tutti è Chiamparino, è il migliore amministratore d’Italia. Sarebbe bello se il partito non avesse paura di sindaci o governatori che sono apprezzati e raccolgono consenso. Fra pochi mesi il mandato di Chiamparino scade, merita un ruolo ai vertici del partito». Vedremo. Ma è di Fiat che bisogna parlare. Il Pd non ha una voce sola, e qualcuna arriva fioca, «e qualcun’altra è schiava della logica del “ma anche”, o del titubante: né con la Fiom né con Marchionne, magari per voler stare sia di qui che di qua. Bastava imporre una posizione chiara e giustamente articolata: è importante l'investimento, e va tutelata la rappresentanza sindacale». Sindaco, sia “tranchant”.
«Sto con Marchionne. La Fiat fa un investimento sul proprio futuro e per la prima volta non chiede i soldi allo Stato e agli italiani. Questo è un fatto nuovo e anche io mi pongo davanti alla scelta in modo nuovo, senza retaggi passati».
I diritti non sono retaggi.
«Non voglio mica la fabbrica cinese. Però questi accordi li hanno firmati e praticati vent’anni fa in Germania, e adesso le loro industrie reggono sui mercati. Non mi pare che in Germania manchino i diritti».
C’è però un’asimmetria inaccettabile: se vince Marchionne, la fabbrica va avanti, se vince la Fiom la Fiat fugge via. Non le pare un ricatto?
«Se davvero c’è un ricattatore in giro sa chi é? La globalizzazione. Non è Marchionne che minaccia: è il mercato che decide cosa conviene fare, e dove. Si può discutere se è giusto o meno, ma è legittimo per chi fa impresa decidere di farla meglio che può. E questo non è un referendum sull’amministratore delegato, ma una scelta sul futuro della Fiat».
Ma sul tavolo non ci sono solo due possibilità. C’è la terza: porto la fabbrica all’estero. Così non è un voto libero: non è un altro diritto quello di voto che viene leso?
«Il primo diritto dei lavoratori è avere un lavoro. Che l’accordo garantisce, e promette di creare. Conosco le ferite di un territorio che ha perso le fabbriche, faccio il sindaco e mi confronto ogni giorno con la disperazione e l’umiliazione psicologica di chi sta a casa, anche in cassa integrazione. Se non puoi pagare il libro di scuola a tuo figlio, sei già sotto ricatto. Salviamo quei posti di lavoro, poi discutiamo di tutto, dei vecchi e dei nuovi diritti». Stock option e residenza fiscale in Svizzera. Non è facile simpatizzare per il padrone...
«Non do un giudizio sulla persona, che non conosco. Ma mi guardo intorno e vedo che le cose sono cambiate: vent'anni fa la Fiat non avrebbe potuto andar via dall’Italia, oggi sì. Allora, il Brasile era un paese emergente ma problematico, adesso è una potenza, grazie a Lula. E la Cina e l’India assieme sono il 30% dell’economia mondiale. Non è solo mercato sfrenato: sempre in Cina, quando sono nato le università erano chiuse. Oggi i loro ingegneri girano il mondo. E noi li rincorriamo. C’è una ristrutturazione globale che mi pare sfuggire alla Fiom: non firma mai, anche la Camusso ha ben presente il problema di un sindacato duro e puro. E su Marchionne voglio togliermi un sassolino».
Lo tolga.
«Su lui ha investito Barack Obama. Decise di aumentare i fondi pubblici per la Chrysler proprio in conclusione dell’accordo con la Fiat. È un reazionario anche Obama?».
Oggi c’è la direzione del Pd e lei ci sarà: di cosa vorrebbe si parlasse? «Non certo di alleanze, trame parlamentari, meglio Fini o Vendola... Vorrei che il partito ingranasse la marcia e partisse sicuro. Discutendo sui contenuti veri, come questo che stiamo maneggiando: qual è il modello economico verso il quale andiamo. Vorrei che il mio partito non restasse rannicchiato all'ombra del sindacato. Il Pd deve avere la voglia e l’ambizione di convincere il 50% più uno degli italiani. Dobbiamo appassionare la gente, e non parlare del nostro ombelico».
Mai una parola buona per il Pd...
«Invece io voglio bene al Pd e voglio ricordare che nelle grandi città qui, e solo qui, a Firenze, il Pd è maggioranza assoluta in consiglio comunale». Come stanno i rottamatori?
«Devono stare attenti a non diventare una microcorrente mariniana in sedicesimo. È il virus che ammala il Pd e quando ascolto parole sulle primarie dalla mattina alla sera o sento parlare di candidature e organigrammi, temo che la malattia possa attaccare anche i giovani. Poi mi consolo quando vedo un mio coetaneo che non fa parte dei rottamatori comportarsi da tale, nel senso che do al termine: Matteo Richetti, il presidente del consiglio regionale dell'Emilia Romagna, è l’unico che ha portato a casa l'abolizione del vitalizio dei consiglieri. Non è un rottamatore, ma ha rottamato».
Lei associa il buono alla giovinezza. Il suo senilicidio non rischia di scadere nella generalizzazione? «Non ho mai diviso il partito in giovani e vecchi. Non è un fatto anagrafico. Ma continuerò a ripetere a chi è in Parlamento da 30 anni che è giusto farsi da parte, per lasciare il posto a qualcun altro. Non a me: il sindaco di Firenze è il mio mestiere, il più bello che possa fare».

il Fatto 13.1.11
Rottamato anche lui
Matteo Renzi voleva pensionare i vecchi del Pd Ma ora molla i suoi e, dopo Arcore, corre da Vespa
di Giampiero Calapà e David Perluigi


Matteo Renzi, sindaco di Firenze, viaggia come un treno ad alta velocità sul binario della politica nazionale e in poco tempo passa dalla “rivoluzione” dei Rottamatori del Pd, a quella anti–operaia di Sergio Marchionne, per rompere proprio sul confronto Fiat–Fiom il fronte dei “giovani contro la nomenclatura”. Infatti, Renzi al nuovo incontro dei Rottamatori ieri a Roma neppure ci è andato. Aveva di meglio da fare, cioé presentare il nuovo tomo di Bruno Vespa a Palazzo Vecchio, sede istituzionale della città di Firenze. Dopo il viaggio ad Arcore a dicembre (era andato a chiedere 17 milioni di euro per Firenze, ma nel milleproroghe neppure un centesimo) la   presentazione del libro di Vespa appare come un cursus disonorum di tutto rispetto.
OGGI, IN PIÙ, Renzi sarà, nella sua funzione di sindaco, a Palazzo Chigi, al fianco di Gianni Letta e del ministro Bondi, per presentare una card per i musei fiorentini, oltre ad annunciare novità sugli introiti per il completamento dei lavori ai Grandi Uffizi. Ma per non farsi mancare niente, nelle vesti di esponente del Pd, parteciperà alla direzione del partito, dopo essersi allineato di fatto sulle posizioni dei vertici Fiat proprio come i “vecchi” Veltroni e Fassino. È il 10 gennaio: il Sole 24 Ore, quotidiano di Confindustria, pubblica un sondaggio di Ipr Marketing: Matteo Renzi è il sindaco più amato dagli italiani. Due giorni dopo, intervistato dal TgLa7 di Enrico   Mentana lo stesso Renzi si schiera al fianco dei vertici Fiat: “Io sono dalla parte di Sergio Marchionne. Dalla parte di chi sta investendo nelle aziende quando le aziende chiudono. Dalla parte di chi prova a mettere quattrini per agganciare anche Mirafiori alla Locomotiva America”. Concetti che in realtà il sindaco di Firenze aveva già espresso il 31 dicembre proprio al quotidiano di Confindustria: “Io sto dalla parte di chi scommette sul lavoro, della Fiat, di Marchionne”. E ieri ha ribadito: “Sto con Obama, che scommette su Marchionne. Barack è reazionario?”.
Spiazzati, però, i ragazzi che si sono riconosciuti in “Prossima fermata: Italia”, ieri stretti attorno a Pippo Civati a Roma, per una seconda puntata di politica tra dj e video cult, dopo l’evento di novembre alla Stazione Leopolda   di Firenze. Civati prova a usare la carota con l’amico Matteo: “Non è qui? Non solo per Vespa (doveva presentare anche un libro dello storico Paul Ginsborg, ndr): domani alla direzione del partito andremo insieme”. Però, sulla Fiat ha solo il bastone: “Ha fatto pasticci con le dichiarazioni di questi giorni, dire che sta con Marchionne senza se e senza ma...”, spiega uno sconsolato e perplesso Civati. Francesco Nicodemo, consigliere comunale a Napoli, racconta: “Avevamo due autobus, ma dopo questa spaccatura abbiamo litigato e da Napoli siamo venuti con tre macchine”. 
DA FIRENZE, intanto, dal palco condiviso con Vespa, Renzi prova a ricucire lo strappo: “Non mi sono riavvicinato a Bersani, credo non gradirebbe nemmeno più di tanto, né mi sono allontanatodaglialtri”,ma“lasinistradeve cercare di non appiattire le proprie politiche economiche su quello che dice il sindacato di turno, in questo caso la Fiom. Perché se il mondo del lavoro è sotto ricatto, il ricatto non è di Marchionne ma della globalizzazione”. Vespa, invece, ha indicato in Renzi il futuro del Pd: “Lui e Vendola hanno lanciato un Opa (offerta pubblica di acquisto, ndr) sul Pd, ma il sindaco di Firenze è in vantaggio”. E Renzi ha apprezzato: “Penso che ci sia bisogno di uscire dal gruppo dirigente attuale: io non rientro nei ranghi e non creo una minicorrente, mi candido a dare una mano, ma facendo il   sindaco”, tanto da arrivare ad indicare nell’ex nemico Nicola Zingaretti una possibile futura guida del partito: “Uno a cui non faranno mai fare il leader sono io, Zingaretti ha caratteristiche di mediazione più forti delle mie, tanto che mette d’accordo D’Alema e Travaglio”. Ritorniamo a Roma e   Civati rassicura Renzi: “Non siamo una corrente, normale avere posizioni diverse”, mentre Nicodemo sbotta: “Non doveva definirci una corrente e stasera doveva essere qui”. Pensare che solo a novembre, dalla Leopolda di Firenze, Renzi diceva: “Ho fatto ogni sforzo per far venire Bersani qui”. La politica si capovolge in fretta. Renzi scatena, inoltre, per   la seconda volta, dopo la polemica sulla neve che bloccò Firenze, il suo mondo prediletto, quello di Internet.
Ieri non si contavano le critiche su Facebook (“Dopo Arcore hai pranzato anche con Marchionne?”). E, sempre sul web, è scoppiata una polemica con Gad Lerner. Sul blog del giornalista, tra i commenti dei lettori è comparsa la frase “Renzi come Lando Conti”, il sindaco di Firenze ucciso dalle Br nel 1985. Renzi si è detto “disgustato”. Lerner aveva scritto: “Mi pare destinato al più classico salto della quaglia”, verso il centrodestra; dopo il commento Lerner ha espresso “solidarietà, non ne sapevo nulla, lo invito alla prossima puntata dell’Infedele”. I Rottamatori, intanto, un po’ orfani di Renzi, domani chiederanno le primarie alla direzione del partito con lo slogan: “Sono stanco di essere preso per il culo dai giovani di Vendola”.

il Fatto 13.1.11
Il kamasutra del Partito democratico
Tante posizioni diverse: c’è chi è con la Fiat e chi contro, chi segue la Cisl e chi la Fiom. E Bersani è sempre più solo
di Wanda Marra


Il partito dei distinguo, delle battaglie a colpi di interviste e di lettere ai giornali, delle micro-divisioni interne e delle scissioni annunciate e mai consumate, oggi va all’ennesima direzione. Annunciata come decisiva, ma che probabilmente alla fine servirà solo a sancire gli equilibri in campo. All’ordine del giorno, prima di tutto la Fiat, sulla quale Pier Luigi Bersani, con un indubbio equilibrismo, cerca di “veicolare” una posizione unitaria all’interno del partito: rispetto per l'esito del referendum, richiesta di garanzie all’azienda sul piano industriale, legge sulla rappresentanza sindacale e affondo sul governo “latitante”. Posizione che Bersani, e con lui Area Democratica, guidata da Dario Franceschini, ritiene maggioritaria nel partito. “Ma finchè - spiega un dirigente di maggioranza - non si fissa la linea con un voto, sulla Fiat come sugli altri nodi, il Pd apparirà   privo di voce o con mille voci”. E infatti, se D’Alema detta la linea “volgarizzando” la posizione del segretario (“Nè con la Fiat, nè con la Fiom”), lo   spregiudicato Sindaco di Firenbe, Matteo Renzi si guadagna ancora una volta le luci della ribalta schierandosi con Marchionne “senza se e senza ma”, Matteo Orfini parla di punti dell’accordo che prefigurano “precedenti pericolosi” e Sergio Cofferati annuncia che scenderà in piazza con la Fiom.
SENTIRE il responsabile economico, Stefano Fassina dire che nel partito ci sono posizioni largamente condivise per l’ennesima volta sembra davvero definire un clima da burletta. Anche se c’è chi - come Livia Turco - drammatizza i toni: “E’ una sofferenza terribile, ma oggi voterei sì”, dice in un’intervista al Secolo XIX. 
Mentre Anna Finocchiaro, a Ballarò, alla fine si sbilancia e si esprime per il no. Evidentemente Bersani è abbastanza sicuro che alla fine i distinguo confluiranno nella posizione evidentemente meno scomoda, quella del ni, che oggi la direzione voterà la sua relazione, come hanno chiesto Franceschini e i suoi (contrari invece i veltroniani). Il segretario dovrebbe ribadire la sua linea (lanciata   non in una riunione di partito, ma in un’intervista al Messaggero): “Noi puntiamo a presentare alle opposizioni un progetto per il Paese, non faremo il giro delle sette chiese bussando a porte per vedere se qualcuno ci apre. Per noi i problemi   sono tali che serve una convergenza di forze per andare oltre il berlusconismo”. Tradotto, quello che il segretario (e D’Alema) volevano era un’alleanza che andasse da Vendola a Fini.
PECCATO che questa possibilità sembra già tramontata. “Su cosa - ironizza l’ex Ministro   Beppe Fioroni - si dovrebbe votare? Sulla lettera di Bersani al Messaggero? Ma allora dovremmo emendarla, visto che sia Casini che Fini hanno risposto negativamente”. Peraltro Farefuturo solo un paio di giorni fa ha dedicato un articolo al “risiko di D’Alema” esortando il Terzo Polo a non farsi trascinare in un   progetto che salverebbe i Democratici e affonderebbe Fli. Da non sottovalutare il capitolo primarie. Nessuno (o quasi) lo dice chiaro e tondo ma nessuno (o quasi) le vuole: Vendola (che ieri in un’intervista agli Altri ha dichiarato che senza il partito muore) e le divisioni interne fanno troppa paura, evidentemente   . E Se Bersani oggi dirà che “nessuno vuole abolirle, ma per salvarle bisogna riformarle”, Arturo Parisi, insieme a diversi parlamentari del Pd ha promosso un appello a favore. Intanto, per non smentirsi, ieri i Democratici hanno dato vita pure a una “corrente” di maggioranza, a favore di Bersani.

l’Unità 13.1.11
Biotestamento. C’è un giudice a Firenze
Giustizia e cittadini si muovono. E la politica?
di Maurizio Mori


Quella dell’autodeterminazione è ormai un’onda inarrestabile che tracima da tutte le parti. Nei media col successo di Beppino Englaro e di Mina Welby al programma di Fazio e Saviano nel novembre scorso; nella gente che spinge i Comuni italiani ad istituire i Registri del testamento biologico; nei tribunali col riconoscimento dell’autonomia del paziente come diritto capace di espandersi fino ad ammettere il trasferimento di titolarità a persone di propria fiducia: questo è quanto ha deciso ieri il Tribunale di Firenze accogliendo la richiesta di un cittadino di 70 anni che ha affidato al proprio amministratore di soste-
gno le volontà di fine vita. La notizia costituisce un ulteriore tassello che completa il più ampio discorso in atto su come affrontare il fine vita. Un tempo il problema non si poneva perché la morte sopraggiungeva imprevedibile e il morire era breve. Oggi, invece, sempre più spesso ne conosciamo il suo arrivo e possiamo intervenire per procrastinarla o prolungarla. Di qui l’esigenza di regolare questo nuovo territorio affiorato. E, per farlo, di riferirsi ai principii e valori etici che prendono corpo nei dettati costituzionali, visto che le norme specifiche sono in via di definizione.
Più che insistere sugli aspetti giuridici e tecnici della questione, è bene chiarire il fondamento etico filosofico che sta alla base della sentenza di ieri del Tribunale di Firenze e delle altre richieste in materia. Il punto di partenza è che il consenso informato costituisce il presupposto e il fondamento dell’attività clinica. Non è permesso tagliare neanche un capello senza il consenso dell’interessato, perché la volontà è ciò che presiede e regola gli interventi sul proprio corpo. Se la persona cosciente e capace di intendere e di volere ha il diritto di rifiutare le terapie non volute, non si vede perché questo diritto venga meno ove l’interessato diventi incapace. La perdita di coscienza non dissolve né volatilizza la volontà dell’interessato. Essa permane anche quando l’individuo non è più in grado di manifestarla. Si opererebbe una discriminazione non riconoscendo all’individuo la possibilità di fare in modo che la propria volontà si prolunghi anche dopo la perdita della coscienza. È per questo che l’amministratore di sostegno, il testamento biologico e le altre forme di direttive anticipate riscuotono tanto successo nei cittadini: anche tra chi ha fede religiosa, tanto che molti ferventi cattolici criticano il ddl Calabrò e il sostegno dato dalla Chiesa.
Per l’autonomia alla fine della vita i cittadini stanno facendo molto coi Registri comunali, i giudici moltissimo coi loro interventi qualificati: speriamo che anche i parlamentari facciano la loro parte per bocciare lo scempio del disegno di legge Calabrò.

l’Unità 13.1.11
Una sentenza del Tribunale di Firenze per il ricorso di un 70enne assistito dalla figlia avvocato
Con questo provvedimento la moglie potrà opporsi ai trattamenti nella fase terminale
Un amministratore per il malato che rifiuta alcune terapie
Un passo avanti sul tema del testamento biologico: il tribunale di Firenze dà ragione a un anziano che chiede di poter avere un «amministratore di sostegno» di sua fiducia per rifiutare alcuni trattamenti.
di Mariavittoria Giannotti


Un settantenne in buona salute. Sua figlia, avvocato. E una moglie pronta a svolgere un compito molto delicato: quello di farsi portavoce delle volontà del marito, nel malaugurato caso in cui questi non potesse più esprimere il suo parere sulle cure a cui essere sottoposto, perché incosciente. Sono questi i protagonisti di un importante passo avanti nella battaglia legale sul testamento biologico. Il tribunale fiorentino ha infatti accolto il ricorso presentato dal 70enne che, assistito dalla figlia, l’avvocato Sibilla Santoni, aveva richiesto «la nomina di un amministratore di sostegno autorizzato, per il tempo di eventuale perdita della capacità auto-determinativa ad opporsi ad alcuni trattamenti sanitari». E la sua richiesta è stata accolta. La moglie, da lui espressamente nominata, potrà intervenire – in caso di necessità per impedire ai medici trattamenti come la respirazione artificiale, ma anche l’alimentazione e l’idratazione forzate. Ma la libertà di scelta del paziente non è l’unico tema affrontato nel decreto del giudice fiorentino – che si pone sulla scia di un’analoga sentenza del tribunale di Modena, che risale al 2008 -: l’amministratore di sostegno potrà chiedere «ai sanitari di somministrare, con la maggiore tempestività, le cure palliative più efficaci al fine di annullare ogni sofferenza, compreso l’uso di farmaci oppiacei, anche se questi dovessero anticipare la fine della vita». Un passo avanti importante, in un paese dove la terapia del dolore, in molti casi, è ancora un miraggio per troppi. «Le patologie considerate nel presente ricorso scrive il giudice fiorentini si caratterizzano per il rispetto del normale percorso biologico sotto il profilo della non interferenza con il suo corso. Non viene contemplata, infatti, alcuna ipotesi che configuri fenomeni eutanasistici». Ovviamente, il ricorrente potrà cambiare liberamente idea come e quando vorrà sia sul fronte dei trattamenti sanitari che sulle cure di fine vita. Ma, al momento, le sue decisioni che hanno ricevuto un avallo anticipato di un giudice – sono tutelate e affidate a una persona di fiducia. Che ora potrebbe decidere di nominare il marito come suo tutore, nel caso in cui sia lei a non avere la possibilità di esprimersi. «Chiunque – spiega l’avvocato Santoni, che in passato si era vista respingere quattro ricorsi dallo stesso tribunale – potrà seguire lo stesso iter scelto da mio padre. Lui aveva già espresso la sua decisione in passato e si era rivolto a un notaio, ma temeva che questo non fosse sufficiente a garantirgliene l’applicazione. Per questo, ha optato per il ricorso. Il Tribunale di Firenze ha evidenziato che la libertà di scegliere a quali trattamenti sanitari essere sottoposti è garantita da numerose norme costituzionali» e che «eventuali leggi che non rispettassero tali norme sarebbero prima facile incostituzionali, oltre che non democratiche». La strada, ormai, pare aperta. «Presenteremo altri ricorsi nella speranza che vengano accolti» annuncia. La sentenza del Tribunale di Firenze non è certo passata inosservata. Quello del testamento biologico è, da tempo, un argomento che scotta e che divide le forze politiche. La legge che dovrebbe normare la possibilità di scelta degli italiani sui trattamenti sanitari a cui essere sottoposti in caso di gravissime patologie e sulle cure di fine vita è ancora in discussione: la ripresa dei lavori, in Parlamento, è una questione di giorni. «La figura dell'amministratore di sostegno è nata, nell'intenzione del legislatore, per tutelare e sostenere persone non autosufficienti nel loro diritto a vivere, non certo per introdurre il diritto a morire o forme di eutanasia» sostiene il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, che parla di «un uso improprio» di questo strumento da parte di alcuni magistrati. Immediata la replica di Ignazio Marino, senatore Pd, che invita la politica a fare un passo indietro, evitando «i toni da stadio» su questioni così delicate: «Il sottosegretario è spaventata dall'autonomia del paziente ed è comprensibile poiché, in fondo, sa che la proposta di legge che sostiene è contro il testamento biologico. I cittadini ricorrono ai tribunali perché‚ si sentono minacciati da chi, solo perché‚ ha vinto le elezioni, vuol legiferare sulla fine della vita in maniera restrittiva, non rispettando la liberà di scelta delle terapie». E se Paola Binetti dell'Udc deplora «il tempismo perfetto» della sentenza e Maurizio Lupi (Pdl), bolla la sentenza come «l'anticamera dell'eutanasia», Antonio Palagiano, dell’Idv, ricorda che «la libertà di scelta deve essere alla base di uno Stato laico come il nostro e la sentenza di Firenze non fa altro che ribadire questo semplice e fondamentale concetto sancito già chiaramente dalla nostra carta costituzionale».

l’Unità 13.1.11
Così i tribunali suppliscono al deficit della «politica vera»
La soluzione ideale sarebbe una legislazione prudente e non invasiva rispettosa della sfera più intima della persona ma in questo momento una simile legge è irragiungibile
di Luigi Manconi


Le parole di Pio XII Nel ’57 il Papa parlava di «soppressione del dolore» consentita
Gli atei «devoti» Molti contemporanei non comprendono il dramma del “fine vita”

Il felice tempismo, se così si può dire, della sentenza del tribunale di Firenze che ha accolto la richiesta di nomina di un “amministratore di sostegno” per far rispettare le Direttive anticipate di volontà di un cittadino segnala uno dei molti paradossi italiani. Mentre il centrodestra affida al ddl sul Testamento biologico – sciaguratamente presentato come una sorta di “test sui valori” – il compito invero assai poco valoriale di puntell are il proprio traballante governo, la volontà dei cittadini va in tutt’altra direzione. E trova ascolto, provvidenzialmente, nei tribunali.
Provvidenzialmente, anche se sarebbe preferibile una diversa soluzione: ovvero una legislazione prudente e non invasiva, limitata nelle sue facoltà e non prescrittiva, rispettosa della sfera più intima della persona e del principio dell’autonomia individuale. Ma una simile legge, con gli attuali rapporti di forza parlamentari, appare irraggiungibile: ed è altamente probabile che, in sua vece, ne venga varata una totalmente opposta. Ovvero una normativa (già approvata al Senato) autoritaria e illiberale, statolatrica e, in ultima istanza, immorale, prodotto dell’ideologia di un centrodestra che si vorrebbe ironia della sorte e dell’ignoranza liberale e “cattolicissimo”. Un centrodestra, fatto di “atei devoti” e simoniaci, che piega i temi etici alle urgenze del mercato politico; e che ignora come, ad esempio, Pio XII, e già nel 1957, pronunciava parole quali queste: «La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente, anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita? Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì».
Si confrontino queste parole con quelle del centrodestra e con quelle di molti “cattolici ubbidienti” e di alcuni alti prelati e si misuri la regressione intellettuale in atto. Che è anche regressione morale: e proprio perché quel Papa così controverso, in ragione anche di una personalità particolarmente tormentata, rivelava in ciascuna di quelle parole tutta la drammaticità delle scelte di “fine vita”, che i futili “atei devoti” contemporanei non riescono a cogliere. In presenza di una simile protervia di gran parte del Parlamento e di un così vistoso deficit di politica vera è inevitabile che sia l’amministrazione della giustizia a svolgere una funzione di supplenza. Tanto più che la domanda dei cittadini è particolarmente intensa e diffusa.
Un paio di anni fa le associazioni A Buon Diritto e Luca Coscioni raccolsero in poche settimane migliaia e migliaia di Testamenti biologici, compilati e inviati online. Per questo la sentenza di Firenze è così importante. E non è la sola. Recentemente, nell’ottobre del 2009, il giudice tutelare del tribunale di Cagliari ha provveduto alla nomina di una “amministratrice di sostegno” in conformità alle richieste della ricorrente. Se istanze simili si moltiplicassero, sarebbe assai difficile, anche per il più sprezzante dei parlamenti, ignorare tale giurisprudenza.

l’Unità 13.1.11
Intervista ad Amos Luzzatto
«Liste di ebrei. L’antisemitismo continua a esistere»
L’ex presidente delle comunità ebraiche italiane:
«Provo rabbia e indignazione per i nomi sul sito neonazista ma non sorpresa. Le radici del razzismo sono ancora forti»
di Umberto De Giovannangeli


Il monito. «Da tempo sollecito l’opinione pubblica a non considerare la Shoah come memoria di un oscuro passato»
I ricordi. «Ero piccolo quando passavano le camicie brune e si diceva: in Italia non può accadere nulla di terribile»

Rabbia. Dolore. Inquietudine. Tutto, tranne che sorpresa. Perché non smetterò mai di denunciare che le radici politiche, storiche e culturali dell'antisemitismo continuano ad esistere e a ramificare». Ad affermarlo è una delle figure più autorevoli e rappresentative dell'ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. (Ucei). Professor Luzzatto, a cosa è improntata la sua prima reazione alla notizia del sito neonazista statunitense che ha pubblicato una lista di ebrei italiani?
«Rabbia. Indignazione. Inquietudine. Tutto ma non sorpresa. Da molto tempo sollecito l'opinione pubblica, in particolare in questi giorni in cui si ricorda la Shoah, a non comportarsi come se si trattasse della memoria di un oscuro passato che si è totalmente dileguato. Ritengo e ripeto che le radici politiche, storiche e culturali dell'antisemitismo continuano ad esistere e a ramificare, a volte, ma non sempre, sotto mentite sembianze. Per questo motivo, e soprattutto perché ogni ripresa di ideologie razziste rappresenta un pericolo effettivo per lo sviluppo di una democrazia di civile convivenza, mi sono permesso, anche di recente, forse con un tanto di provocazione, di affermare in pubblico che non mi dispiacerebbe di cambiare il nome della Giornata della Memoria in Giornata per la vigilanza in difesa della democrazia».
Il mondo politico si è trovato unito nel condannare questo atto. Ma bastano le parole di condanna?
«No, non possono bastare. E, a mio avviso, non bastano neppure atti estemporanei per educare i giovani a condannare queste manifestazioni. Credo invece che dobbiamo costruire assieme una cultura di convivenza fattiva fra lingue, tradizioni, religioni diverse; una convivenza che si nutra della curiosità nei confronti dell'altro, come di mondi a noi apparentati che non conosciamo sul serio e per i quali la conoscenza puntuale sarebbe certamente un arricchimento per tutti».
C'è nell'opinione pubblica una sufficiente consapevolezza di quanto da Lei denunciato? «Una consapevolezza matura e completa direi di no, anche perché in caso contrario sarebbe difficile spiegarsi questi periodici ritorni di fiamma del razzismo, dell'antisemitismo, del rifiuto delle culture altrui». Lei, per età e per l'impegno di una vita, rappresenta la memoria storica di ciò che le «liste» hanno rappresentato per il popolo ebraico. Sul piano personale, cosa ha significato per Lei, vedere di nuovo una lista di ebrei da colpire?
«In quei terribili anni ero un bambino, ma ricordo bene quando, indicando le prime camicie brune con la svastica che giravano per l'Italia, tanta gente diceva: fanno cose terribili a casa loro ma qui da noi non può succedere. E invece...».
In precedenza, Lei ha fatto riferimento all'antisemitismo mascherato in forme nuove. Qual è quella che teme di più, la più insidiosa?
«Ce ne è una che più delle altre può avere influenza. Ed è la trasformazione delle critiche al Governo israeliano che come tutti gli altri governi al mondo può essere sottoposto a critiche, come a elogi in un giudizio sostanzialmente negativo di tutti gli ebrei del mondo e di tutte le epoche, usando la polemica politica come uno strumento di attacco indiscriminato e generalizzato che trasforma la polemica politica in attacco razzistico». In precedenza, Lei ha segnalato l'importanza di un lavoro sui giovani. Cominciando da dove? «Cominciando dalla scuola e dall' insegnamento della storia che deve unire in una sintesi gli eventi passati con la conoscenza critica e approfondita del presente, dei suoi problemi e delle sue difficoltà».
Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria. Qual è a suo avviso il modo migliore per ricordare? «Posso dirle qual è il mio modo di farlo: quando uscendo dall’Italia, nel 1939, pur adolescente, avevo la netta sensazione di lasciare un Paese dove ero nato e al quale ero legato, ma che si stava trasformando in un vulcano in eruzione. Non potevo certamente prevedere nei dettagli quello che avrebbero portato gli anni successivi. Devo aggiungere che mi trovavo a Tel Aviv alla fine dell’estate dell’anno successivo e nel momento dell’improvviso bombardamento terroristico degli aerei italiani, nel quale per poco non sono rimasto vittima, ebbi finalmente la chiara, irrevocabile certezza di essere diventato un nemico da sopprimere per il mio stesso Paese natale. Gli anni successivi furono molto peggiori. Per via indiretta, venni a sapere che buona parte dei miei familiari, tra cui due vecchie zie, erano stati deportati nei campi di sterminio nazisti. Della maggior parte di loro non ho più saputo nulla, scomparsi, come se fossero stati inghiottiti...Soltanto dopo la fine della guerra ho incontrato di nuovo i pochi superstiti, in particolare due mie prime cugine sopravvissute ad Auschwitz. Una vive a Venezia, e ho la fortuna di poter condividere con lei ciò che resta della nostra vita».

l’Unità 13.1.11
Eventi Il 27 gennaio lo speciale su La7 con il nuovo monologo dell’autore di «Vajont»
Sfide «Ausmerzen» è un lavoro dedicato agli esperimenti dei nazisti sui malati di mente
L’affabulatore Paolini e l’Olocausto dei matti
Paolini torna su La7 con un monologo dedicato agli esperimenti che i nazisti facevano sui malati di mente. Un orrore compiuto non dalle Ss, «ma dai medici di famiglia, dagli psichiatri... brava gente, si suppone».
di M. G. G.


Buco nero. Lo spettacolo nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano

«La vicino nessuno è normale» è scritto sull’ingresso dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, un buco nero che a Milano ha inghiottito i disabili mentali dagli anni Trenta ai Novanta. Oggi con l’apertura delle porte dei manicomi dopo la rivoluzione di Basaglia e grazie, per esempio, a Olinda onlus che qui opera si è cercato di fondare una città là dove non c’è, di trasformare il Paolo Pini in un luogo di cultura e di vita partecipata.
Per presentare il suo nuovo speciale che La7 racconta il direttore di rete Lillo Tombolini trasmetterà in prima serata alle 21.10, il 26 gennaio, vigilia del Giorno della Memoria, Marco Paolini, che ne sarà il protagonista, non poteva scegliere un luogo più giusto. Non solo perché lo speciale che si avvarrà anche del-
la collaborazione di Gad Lerner che condurrà un approfondimento con gli ospiti in sala, andrà in scena e in onda al Paolo Pini, ma proprio per il tema di questo suo nuovo lavoro che ha un titolo tedesco Ausmerzen, che significa «sradicare, estirpare, eliminare» e che riguarda, come dice il sottotitolo, «vite indegne di essere vissute». «Proprio come – ci dice Paolinifacevano i pastori che prima della transumanza eliminavano le bestie più deboli». Ausmerzen racconta l’eliminazione di disabili mentali secondo le «regole» dell’eugenetica che i nazisti applicarono prima e durante la seconda guerra mondiale .
«Una storia che – sottolinea Paolini – non è stata fatta dalle SS, ma dalle classe medica, dai medici di famiglia, dagli psichiatri, si presuppone tutta brava gente. Quello che racconto ti mette proprio di fronte a cosa la “brava gente” riesce a fare con uno slittamento progressivo verso il male quando il livello della coscienza sociale si abbassa. Per esempio eliminare gli esseri cosiddetti inutili, i mangiapane a tradimento, i più deboli a cominciare, dai bambini affetti da turbe mentali che venivano schedati e poi eliminati».
IN NOME DELLA PUREZZA
L’idea di questo nuovo monologo viene da lontano: il fratello di Marco, Mario, è pedagogista e lavora da anni nel campo della disabilità mentale. Da lì i due fratelli sono partiti per raccontare «un Olocausto minore, certo,ma pur sempre un Olocausto. Avevamo incominciato pensando di girare un documentario intervistando medici, psichiatri su questa eutanasia in nome della purezza delle specie in Germania dove la repressione del più debole era ormai un pensiero che da inaccettabile era diventato prassi».
NIENTE STIVALI LUCIDI
Una storia che a Paolini sembra ancora più mostruosa visto che non riguarda «orrori compiuti da soldati con gli stivali lucidi e la fascia delle SS sul braccio, ma addirittura dai familiari che consegnavano i loro bambini e i loro parenti malati, un peso per la società, ai dottori. Ho confrontato questo testo, come già avevo fatto con Vajont, con il pubblico in piccoli spazi, quasi sempre fuori dai teatri, ascoltando le loro riflessioni. Per scriverlo ci siamo serviti fra l’altro delle testimonianze di Alice Ricciardi von Platten, un medico di campagna tedesco, presente al processo di Norimberga del ‘46, non quello dei grandi gerarchi del nazismo, ma quello che si teneva in una sala più piccola contro i medici responsabili di questi misfatti, testimonianze raccolte in un libro nel 1947 che non ha raccolto una grande attenzione fino a quando in Germania non si è sentita la necessità di fare i conti con la memoria e con la propria coscienza».
Marco Paolini che nel corso degli anni è ormai diventato il narratore di una memoria che non accetta di essere accantonata, che non accetta le mezze verità, racconterà dunque questa «storia tedesca» al pubblico presente al Paolo Pini e ai telespettatori d i La7.
Dice Gad Lerner: «Considero un traguardo partecipare a questo speciale con Marco Paolini. Ho letto il testo e ci sono rimasto inchiodato fino alla fine. Una sfida certamente per La7, ma da noi i successi di share hanno spesso coinciso con la qualità alta delle proposte».

il Fatto 13.1.11
Germania
Il ritorno di Adolf Hitler
Berlino apre il Museo storico per raccontare il rapporto tra il Führer   e la nazione: un successo inatteso che ha fatto prolungare la mostra
di Marco Dolcetta


Uno spettro si aggira per la Germania: la pulsione popolare a conoscere (e capire) chi era Hitler. E quale misterioso feeling aveva con la nazione dei padri e dei nonni...
In questo spirito, ovvero il Geist, molti tedeschi di tutte le estrazioni, età, professione e credo politico, affollano la mostra di Hitler. Accanto al maestoso museo di Pergamo con la porta babilonese di Isthar e l’altare del tempio di Zeus, nell’isola dei musei, nel cuore della grande Berlino Imperiale. “Il rimosso si muove”: così dice Pauli Peter-Lotchez, saggista, storico e scrittore berlinese. “È un progressivo riemergere di parole, di gesti, colori e immagini; prima una Germania, poi Berlino capitale e quindi ora la corsa ad Est: per milioni di tedeschi la Germania Est da redimere ora è la pomerania, via fino a Königsberg, che i russi chiamavano Kaliningrad”. 
IN QUESTO CLIMA esce una mostra innovativa su Adolf Hitler che si è aperta per la prima volta dal dopoguerra in un grande museo, e ha esplorato il rapporto tra il Führer e la nazione tedesca. “Hitler e i tedeschi: Nazione e il crimine”, a Berlino - Museo Storico Tedesco, è stata elogiata per aver rotto i tabù e aprire nuovamente il dibattito su come Hitler riuscì con successo a sedurre una nazione. “Che ci piaccia o no resta il nostro più forte marchio di fabbrica”, ha ricordato Karl Schnorr, un ingegnere di 68 anni in pensione. “Forse è tempo che ce lo scrolliamo di dosso, ma prima dobbiamo capire come abbiamo creduto con lui così totalmente”. L’apertura coincide con uno studio pubblicato in queste settimane in cui un tedesco su 10 ha professato che   una figura come “Führer” governerebbe la “Germania con una mano dura”, mentre il 35% ha detto che considera il paese “pericolosamente favorevole” con gli stranieri.
La mostra si propone di spiegare come la persona di Hitler e dei suoi ideali si siano infiltrati, ai suoi tempi, negli angoli più nascosti della vita dei tedeschi. Tra le centinaia di reperti ci sono raccolte di cimeli nazisti e propaganda, tra cui sottobicchieri, cartoline, carte da gioco, soldatini di piombo e paralumi. Ma in un riflesso della delicatezza della materia non ci sono oggetti cui Hitler potrebbe aver toccato. “Queste reliquie avrebbero portato con sé il rischio di incoraggiare un culto Führer”, ha detto Simon Erpel, uno dei curatori. “Ci è stata offerta la sua valigetta da un collezionista, ma l’abbiamo rifiutata per questo motivo”. In un paese   dove il saluto nazista è vietato, come il Mein Kampf e le svastiche, il nervosismo dei curatori è palpabile. Così come la decisione di non ascoltare le registrazioni audio dei suoi discorsi, come nessuna immagine di Hitler da solo. Accanto ai tre (enormi) ritratti di lui in diverse fasi della sua vita, che aprono la mostra c’è un fotomontaggio del suo volto contro un teschio. Dietro ogni immagine stampata su tela ci sono le immagini dei suoi sostenitori, soldati in marcia e lavoratori disoccupati. Un film di propaganda che mostra la visita di Mussolini a Berlino nel 1937 si contrappone a estratti dal film satirico di Charlie Chaplin Il grande dittatore. “Siamo pienamente consapevoli   di ciò che stiamo facendo e abbiamo pianificato tutto questo con molta attenzione”, ha detto il professor Hans-Ulrich Thamer, il curatore capo. “La ragione per cui questo sta accadendo ora è che ogni generazione ha la necessità di porre domande. Il demone è morto tempo fa, ciò che resta sono molte impressioni contraddittorie e spiegazioni. La generazione attuale si avvicina a questo con una nuova apertura curiosa”, ha detto. Ammassati in un armadio c’è una serie di busti di Hitler in bronzo e terracotta. “Abbiamo   posto particolare attenzione in modo che nessuno può facilmente avvicinarsi a loro”, ha detto Thamer. Accanto a lui Diana Dlkmer, fotografa: “Oggi capisco meglio mio padre e mia madre”.
LA MOSTRA – che alle spalle ha sei anni di preparazione è stata costruita anche con l’apporto del biografo britannico Ian Kershaw – abbraccia la tesi che il leader nazista è riuscito a mobilitare le speranze dei tedeschi e sconfiggere paure, ma che la sua capacità di sedurre aveva poco a che fare con le sue caratteristiche personali. “Era un personaggio apparentemente poco attraente, e guardi cosa ha combinato” ha detto il professor Hans-Ulrich Thamer, curatore insieme con il dottor Simone Erpel e Klaus-Jürgen Sembach. 
Dopo 65 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Hitler e il nazionalsocialismo restano un tema scottante. Ogni generazione si pone lo stesso interrogativo: come è stato possibile? Come Hitler e il nazionalsocialismo, responsabili della guerra e di stermini di massa, hanno avuto fino alla fine il consenso di gran parte della nazione? Perché così tanti   tedeschi erano pronti a sostenere il nazionalsocialismo? La mostra cerca risposte, ma lo fa non solo guardando a Hitler, ma anche alla società tedesca e all’importanza che per essa ha avuto la dittatura nazista. Il giovane Hitler era una figura modesta, poco appariscente. Nulla in lui sembrava predestinarlo a una carriera politica. Eppure, ha avuto un gran seguito ed è diventato rapidamente uno degli uomini più potenti d’Europa. Il suo potere non si può spiegare con le sue qualità personali. Sono più importanti le condizioni politico-sociali del periodo e la situazione in cui si trovavano i tedeschi. Hitler mobilizzò le paure e le speranze sociali e si impegnò a raggiungere obiettivi politici. Prometteva lavoro, ascesa, benessere e il ritorno della grandezza nazionale. La politica nazionalsocialista mise tutto ciò nella retorica della “comunità del popolo”. 
Ogni giorno è la stessa storia, affermano gli stupefatti guardiani del museo. Improvvisamente nella eccitazione generale, il silenzio. Il mormorio si tace, le teste si voltano lontano   da una porcellana con il ritratto di Hitler, dagli apparecchi radio e dalle descrizioni delle SA e del NSDAP. Per due, tre secondi, tutti guardano incantati nel centro della stanza, da dove proviene il rumore. A un padre di famiglia è caduto il chip del guardaroba sul pavimento. Questo leggero rumore ha spaventato tutti.
 Tutti, infatti, sono tesi nell’interrato del museo di storia tedesca. I visitatori, gli addetti alla sicurezza, tutti. È un momento particolare perfino per l’edificio gravido di storia, nel centro di Berlino. Non si tratta di una mostra qualsiasi. 
LA GRANDE questione è: si può spingere Hitler al centro e spostare al margine la colpa dei tedeschi? Sul nazionalsocialismo e sulle persecuzioni contro gli ebrei ci sono state centinaia di mostre. Ora ce n’è una anche su Hitler. L’olocausto è ai margini; in un angolo, quasi nascosti, gli abiti dei prigionieri dei lager.
Eppure la mostra è meno su Hitler che sui tedeschi e la loro ammirazione per il Führer. Seicento pezzi d’esposizione mostrano la popolarità di Hitler: ci sono lettere di alunni, un tappeto fatto a mano da donne evangeliste, un album fotografico che documenta l’entusiasmo del 1933. 
La personalità di Hitler non è presa in considerazione dalla mostra. Ma solo il suo nome, attrae. Dopo 4 ore, già 2000 persone hanno visitato la mostra. Pensionati, studenti, berlinesi, turisti. Assieme a loro, oltre 100 corrispondenti esteri e 30 squadre di cameramen, di cui quattro dal Giappone. L’agitazione dei media ha a che fare anche con i timori che la mostra diventi un luogo di culto della destra radicale. I busti di Hitler, tappeti con le svastiche, giocattoli nazisti, tutta roba che piacerebbe ai neonazi. Nel museo l’attenzione è più alta del normale. Quasi tutti i pezzi esposti sono in vetrine di vetro, non si può toccare quasi niente. Ogni giorno a mezzogiorno la mostra è completamente piena.   In molti spazi c’è bisogno di spingere. Un’indicazione che l’argomento è lungi dall’essere esaurito, e una lezione che accompagna la mostra, dal titolo “Siamo ben lungi dall'aver finito con Hitler”.

il Fatto 13.1.11
La passione delle armi
L’abuso delle pistole è un elemento viscerale dell’America profonda. E nessuno vuole davvero affrontarlo
di Massimo Cavallini


Miami. Sherlock Holmes usava partire, per sciogliere il mistero d’ogni omicidio, dal primo degli elementi a disposizione: l’arma del delitto. Ed assai utile (elementare Watson) è seguire questa basilare linea di condotta anche nel caso del massacro nel Tuscany Village di Tucson, Arizona. Non, ovviamente, per scoprire un assassino il cui allucinato sorriso ci fulmina da giorni dalle prime pagine dei giornali, ma per cogliere la più cruda ed essenziale tra le verità che l’attacco armato contro la deputata Gabrielle Giffords racconta dell’America ed all’America. 
LE CRONACHE della strage ci hanno fin dal primo istante detto, a tal proposito, due cose. La prima: che quell’arma – la stessa usata, il 16 aprile del 2007, nel massacro del Virginia Tech, 32 morti ammazzati – era una Glock 19, pistola semiautomatica per l’occasione alimentata da uno speciale caricatore che le ha consentito - che ha consentito all’omicida - di sparare, in rapidissima successione, 31 colpi. E - seconda cosa - che quell’arma era stata dall’omicida acquistata il 30 di novembre in un negozio all’ingrosso, lo Sportsman’s Warehouse di Tucson, con la stessa facilità con cui avrebbe potuto comprare un paio di scarpe. La storia è, in fondo, tutta qui. Come, in una classica testimonianza di coda di paglia, la destra americana - indignata per i tentativi di “strumentalizzare il caso per fini politici” - va da giorni ossessivamente   ripetendo, Jared Lee Loughner non era che un pazzo, uno squilibrato, una mente allucinata che già aveva dato prova del suo stato di alienazione. Indiscutibile. Così come indiscutibile è il fatto che quel pazzo, quella mente allucinata che, un anno fa, non aveva passato i test psichici per entrare nell’esercito, quello squilibrato che, mesi or sono, era stato espulso da scuola perché considerato pericoloso da professori e compagni, non ha, lungo il cammino che lo separava dalla strage del Tuscany Village, incontrato alcuna forma di istituzione, di solidarietà o di socialized medicine (come l’America conservatrice suole spregiativamente chiamare l’assistenza pubblica) in grado di curarlo o, almeno, di metterlo in condizioni di non nuocere. Ha, invece, incontrato un’arma letale (già usato in altre stragi) con la quale ha ucciso 6 persone, ferendone in modo grave altre 14, tra le quali (vero obiettivo dell’attacco) una deputata democratica della House of Representatives, un   giudice federale e una bambina di 9 anni che assisteva all’incontro di Gabrielle Giffords con i suoi elettori come parte d’un corso di educazione civica (tema: come funziona la democrazia).
Welcome to the United States of America. O meglio: benvenuti nelle viscere di quell’America armata e violenta che la Nra (National Rifle Association, poderosa lobby dei fabbricanti e dei possessori di armi da fuoco, nonché riconosciuto bastione dell’ideologia conservatrice) è riuscita in questi anni a modellare a propria immagine e somiglianza. Nel 1994 la Glock 19 potenziata era stata, insieme   ad altre armi da guerra, messa al bando dall’Amministrazione Clinton. Ma 10 anni dopo, alla scadenza del bando, era regolarmente tornata sul mercato, grazie soprattutto alle pressioni della Nra, all’appassionata campagna di pressoché tutta la destra americana e alla resa preventiva di tutti gli altri. Perché quella resa? I politologi sono soliti attribuirla a due fattori – la disfatta democraticanelleelezionidimezzo termine del ’94 e la sconfitta di Al Gore nel Tennessee, suo Stato d’origine, nelle presidenziali del 2000 - che hanno a loro dire inoculato, tra i democratici più   “pragmatici” (Obama incluso), l’idea che la battaglia per il controllo della diffusione di armi sia (come vuole una notissima poesia di Coleridge) un mortifero albatros, una classica causa persa, una zavorra capace di affondare ogni campagna.
IL MASSACRO è, a tutti gli effetti, figlio di questa vittoria (della Nra) e di quella resa. Una resa totale che in nessun luogo è oggi più evidente che in Arizona (dove nel 2008 la nuova governatrice, la repubblicana Jan Brewer, ha aperto al libero porto d’armi anche bar, ristoranti e campus universitari). E che si è, nell’ultimo decennio, immancabilmente tradotta, pressoché ovunque, in senso comune. Nel 1994, più del 70% degli americani appoggiava una più rigida regolamentazione, a livello federale, della vendita delle armi da fuoco. Oggi – in un paese che, pure, da Colombine alla Virginia Tech, ha conosciuto decine di altre “stragi della follia” – solo il 44% crede nella necessità, o nell’efficacia, di una politica   di gun control. Ed il trionfo dell’America conservatrice - della sua cultura e della sua versione di “libertà” - è misurabile, oggi, lungo tutto l’arco della storia di questa ennesima mattanza. Nessuno – in un paese dove, nel nome della libertà, la salute è considerata una merce – ha curato Loughner. E proprio perché nessuno lo ha mai curato, Jared ha potuto passare   , entrato nell’emporio d’armi dello Sportsman’s Warehouse, gli ormai farseschi rimasugli dei controlli stabiliti da una legge – sempre quella approvata nel ’94, regnante Clinton – che impone la verifica dei precedenti psichici e criminali dei compratori.
LA DESTRA USA ha, dunque ragione. Il massacro di Tucson è l’opera di un pazzo perduto dietro fantasmi che nulla hanno a che fare con la battaglia delle idee. Per loro Loughner va considerato un figlio di nessuno. O, al massimo, figlio di quel “Manifesto del Partito Comunista” che – insieme al Mein Kampf, ad “Alice nel paese della meraviglie”, alle opere di Ayn Rand ed alla “Fattoria degli animali” - era, a quanto pare, nella lista delle sue letture preferite. Resta da stabilire di chi sia figlio, invece, l’annuncio con il quale il molto sano di mente Jesse Kelly – ovvero, ii candidato repubblicano (e del Tea Party) che, a novembre, per 2 soli punti perse la corsa per il seggio congressuale occupato dalla Giffords - invitò   i “liberi cittadini” della Pima County all’atto finale della sua campagna elettorale. “Targeting Victory”, mirando alla vittoria, recitava l’invito. E spiegava come i partecipanti avrebbero potuto prender parte a un gara di tiro al bersaglio con il fucile mitragliatore M16. Quale bersaglio? La stessa Giffords, naturalmente, Obama, la sua riforma sanitaria, che la Giffords aveva avuto la sfrontatezza di appoggiare…
Che Dio benedica l’America.

l’Unità 13.1.11
«Avanti popolo», domani al via la mostra su quel Pci dentro la storia degli italiani
Ieri a Roma al Palazzo dell’Architettura conferenza stampa per la mostra dedicata al Pci nella storia d’Italia. Percorso in plexigas con 36 parole chiave, grafica, immagini e sei serie di teche con documenti mai esposti.
di Bruno Gravagnuolo


Al via la mostra sulla nascita del Pci a 90 anni dal Congresso di Livorno e a 20 dalla sua fine al Congresso di Rimini del 1991. L’appuntamento per «Avanti popolo! Il Pci nella storia d’Italia», a cura del Gramsci e del Cespe è per domani, ore 11, all’Acquario Romano, Casa dell’Architettura, Piazza Manfredo Fanti 37 ( aperta a Roma fino al 6 febbraio). Ieri mattina all’Acquario la conferenza stampa di presentazione, con Silvio Pons, direttore del Gramsci, l’architetto Alessandro D’Onofrio che ha allestito il percorso e gli storici Francesco Giasi ed Ermanno Taviani, che hanno illustrato il materiali iconografici e filmici che costellano l’iniziativa. La spiegazione del materiale grafico è stata fatta da B. Magno.
Tra le novità non segnalate fino ad oggi, c’è la rassegna di opere eseguite da 34 grafici che hanno ripensato tutta la storia del Pci. Una rassegna collocata al piano superiore dell’Acquario, in corrispondenza con altri due allestimenti. Quello dedicato a oltre 40 edizioni straniere delle Opere di Gramsci
e quello incentrato sul confronto sul Pci tra Bobo e Cipputi, alias Staino e Altan. Più che conferenza stampa è stata una visita guidata lungo la pista di plexigas ideata da Onofri, attorniata da schermi e costellata da immagini (con due schermi touchscreen didattici ai lati). Un percorso multimediale su due livelli che si vale di 36 parole chiave per entrare dentro la storia del Pci (oltre a quelle più canoniche ci sono «Esilio» e «Galera» come università clandestina del Pci). Pons in particolare ha segnalato il nesso tra «nazionale e internazionale» nella vita del partito e l’impossibilità di scindere, proprio in questa luce, il ruolo del Pci dall’identità civile e politica dell’Italia moderna. Concetto operativo della mostra e realtà storica non smentibile. Perchè il Pci, pur tra ambivalenze, fu proprio questo: erede dei democratici del Risorgimento, erede del movimento socialista, coofondatore della democrazia repubblicana in quanto protagonista della Resistenza. E artefice per la sua parte della Costituzione. Naturalmente, come si è visto e intravisto, la mostra non avrà un carattere eminenentemente celebrativo, ma anche e giustamente problematico: i ritardi del Pci, l’Urss, le occasioni mancate, il 1956, l’Ungheria. Tutti nodi che culmineranno nella svolta di Occhetto del 1989 protrattasi fino al 1991 e che è oggetto del tassello finale della mostra. Nell’insieme un invito a discutere. Non semplicemente su «come eravamo» ma sul perché oggi siamo quel che siamo. Anche grazie al Pci.

il Fatto 13.1.11
Carta non canta quasi più
Le testate giornalistiche sono in calo con percentuali che vanno dal 7 al 14%. De Benedetti: siamo tornati al 1939
di Davide Vecchi


Bergamo. “De Benedetti ha ragione: i giornalisti devono lavorare in tutte le piattaforme dell’azienda editoriale senza chiedere soldi in più. A patto però che in cambio venga loro riconosciuta una partecipazione agli utili di tutte le attività dell’ingegnere, non solo del gruppo Espresso”. A Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti, le parole dell’Ingegnere editore di Repubblica non sono piaciute. Lunedì, invitato insieme a Fedele Confalonieri (Mediaset) e Pier Gaetano Marchetti (Rcs) ad aprire il congresso della Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi) a Bergamo, Carlo De Benedetti ha invitato i giornalisti a non lamentarsi della multimedialità. “Invece di   chiedere aumenti i giornalisti dovrebbero ringraziare gli editori, che gli danno la possibilità di essere visibili su una pluralità di piattaforme. Chiedono più soldi per la multimedialità, ma loro interesse è avere la maggior visibilità possibile”. Secondo Roberto Natale, presidente della Fnsi, l’ingegnere “ha un’idea particolare della nostra professione, la visibilità di cui parla non serve a nulla. Gli imprenditori devono mettersi in testa che devono essere riconosciuti compensi adeguati e guardare con realismo all’enorme problema del precariato”.
DICE NATALE: “Abbiamo pubblicato uno studio dal quale emerge che di 108 mila iscritti all’albo professionale 49mila hanno un reddito, di questi 22 mila sono dipendenti, a termine o a tempo indeterminato, altri   27 mila sono autonomi e tra loro appena la metà percepisce un reddito superiore a 5 mila euro lordi annui. Cosa se ne fanno della visibilità?”, si chiede Natale. Lo stupore della stretta di mano tra De Benedetti e Confalonieri, rivali nella vicenda Lodo Mondadori, è passato presto. E’ bastato sentirli parlare per capire che sono d’accordo anche nella gestione del lavoro giornalistico. I rispettivi gruppi, così come Rcs e altri, hanno goduto di uno stato di crisi che ha permesso una riduzione dell’ organico e dei costi. Uno studio pubblicato dal Sole 24 Ore, traduce in freddi numeri i pesanti tagli fatti, nonostante i forti incentivi economici da parte del governo (come finanziamento pubblico) che garantiscono ai gruppi di rimanere in attivo. Due gruppi continuano ad avere il margine operativo netto negativo: Il Sole 24Ore (-29 milioni ) e Class (-3 milioni). Solo Cairo e l’Espresso hanno margini rispetto al fatturato a due cifre: 14,9 per   cento e 11,9 per cento. Monda-dori al 7,5 per cento. Mentre Caltagirone e Rcs sono sotto alla media con, rispettivamente, il 3,4 e il 2,5 per cento.
Eppure, complessivamente, nel 2008 gli editori hanno spesato 46 milioni di esodi incentivati, nel 2009 ben 176 milioni, pari all’11 per cento dei costo totale del lavoro. Con finanziamenti pubblici, rimborsi e aiuti, stato di crisi concordate con le redazioni per ridurre i giornalisti assunti (vicino ormai al 20 per cento in meno di due anni fa), tagli draconiani degli investimenti materiali, crollati del 75 per cento, i conti rimangono quasi in perdita. E le copie vendute diminuiscono.
Tra agosto 2009 e lo stesso mese 2010 (ultimi dati disponibili) il quotidiano di Confindustria ha perso il 14,1 per cento, Il Corriere della Sera segna un meno   12,9 per cento, La Repubblica e La Stampa, perdono rispettivamente 7,8 e 7,2 per cento. Persino De Benedetti ha riconosciuto che i livelli di vendite “sono tornati al 1939, con un fatturato in dieci anni diminuito del 40 per cento”. Natale gli suggerisce di “cominciare a cercare la qualità, ad avvicinarsi ai giovani   e riconoscere ai giornalisti compensi adeguati”. Anche perché la categoria ha già dato.
Oggi, infatti, il Sole 24 Ore non sarà in edicola. L'assemblea di redazione ha votato all'unanimità di bloccare l'uscita del giornale dopo aver scoperto che il direttore Gianni Riotta aveva approvato due nuovi contratti di   collaborazione che sono stati considerati l'ennesima violazione dello stato di crisi. Mentre si tagliano i posti di lavoro interni, cioè, non si può fare campagna acquisti. Questa è solo la scintilla, il clima in redazione è teso da tempo, e la protesta per le collaborazioni si salda con i problemi sulla gestione dei prepensionamenti, che servono ad alleggerire i conti dell'azienda.
LO SCIOPERO rischia di essere un colpo pesante per Riotta, che sta cercando qualche sostegno tra i redattori, in difficoltà per il calo delle copie (oltre 50 mila in meno durante la sua gestione) e per i rapporti complessi con l'editore, la Confindustria. Emma Marcegaglia, presidente degli industriali, sarebbe pronta a sconfessare il passaggio al formato tabloid del giornale, progetto cardine della gestione Riotta. E questa decisione a molti sembra una sconfessione del direttore, tanto che già circolano voci sulla successione. Tra le ipotesi: Oscar Gianni-no   , molto vicino alla Marcegaglia, Roberto Napoletano (direttore del Messaggero), e Giulio Anselmi, oggi presidente dell'Ansa.

il Fatto 13.1.11
Nichi Bertinotti?
di Nanni Delbecchi


Per chi lavora Nichi Vendola? Se lo chiedeva Fabio Fazio sabato scorso a “Che tempo che fa” e già che c’era lo chiedeva, in versione più perplessa del solito, al governatore della Puglia in carne e ossa. L’occasione era la presentazione del libro “C’è un’Italia migliore”, ma Vendola non si risparmia e come al solito ha presentato tutto se stesso, con quello stile immaginifico che della contingenza dell’attualità vola sui massimi sistemi. Dal titolo del libro è scaturita un’intemerata contro il berlusconismo come categoria dello spirito; il referendum di Mirafiori lo ha spinto a interrogarsi sui sentieri selvaggi della globalizzazione; l’incerto futuro dell’opposizione è stata la premessa al rifiuto dei compromessi in favore della necessità “di mettere in campo un sogno”.
Che Vendola sappia fare il suo lavoro, che lo faccia in buona fede e sia un uomo capace di costruire “la politica come narrazione”, in grado di parlare al cuore dell’elettorato così come altri sanno parlare al portafogli, è innegabile. Ma questo non basta a sciogliere la domanda di partenza: cui prodest? A chi giova tutto questo   ammirevole lavoro? Mentre lo vedevo parlare, con Fazio che chiedeva e lui che narrava, a un certo punto, come il fantasma di Banco, si è materializzato il fantasma di Fausto Bertinotti; del Bertinotti televisivo, il vecchio leone passato alla storia dei talk-show per le sue tenute da gentleman country e per le sue sparate radicali – dai   turni di 35 ore di lavoro fino all’abolizione della proprietà privata –, finché Rifondazione Comunista non è uscita dal parlamento e il suo segretario si è ritirato in pensione. Certo, quello di Vendola è un massimalismo riveduto e corretto, al passo coi tempi, insieme più moderni e più arcaici, più depressi e più esasperati. Nichi non è Macbeth, ci vuol altro che il fantasma di Bertinotti per mettergli paura; ma sta di fatto che lo spettro bertinottiano, con la giacca di tweed al posto del lenzuolo d’ordinanza, incombeva imperterrito sul duetto di “Che tempo che fa”.
Una cosa è l’attore, un’altra il ruolo; in tv, è il secondo che fa il primo. Nella telecommedia della politica italiana, non vorremmo che il governatore della Puglia finisse per occupare il posto lasciato vacante da Bertinotti, insieme a certi tradizionali cavalli di battaglia della sinistra radicale. Come il migliorismo, ossia quest’idea che ci sia un’Italia migliore (ma minoritaria), che si contrappone a un’Italia peggiore (di maggioranza), nella pia speranza di convincere i peggiori a votare i migliori. O come l’astrattezza, unita a un eccesso di tensione visionaria; l’idea che Marchionne distribuisca le stock option agli operai è suggestiva, ma nel momento in cui c’è da difendere il diritto di sciopero forse difetta in realismo. 
Questo sembrava suggerire il fantasma in tweed; forse c’è qualcosa può aiutare Berlusconi più di Casini, e perfino più di Scilipoti: un nuovo alibi. Da sempre la borghesia italiana non cerca ideali, ma alibi. Qualcosa (o qualcuno) che la autorizzi a tapparsi il naso e le permetta di ripetersi; mano male che c’è Silvio a salvarci dal pericolo bolscevico.
Ci sbaglieremo, ma la sensazione era che la risposta alla domanda – per chi lavora Nichi Vendola?– stesse proprio qui.

il Fatto 13.1.11
Ospedale dell’orrore a Bari, malasanità modello Vendola
Morti sospette a Neurochirurgia: la denuncia ai sindacati di tre medici
La Regione apre una inchiesta
di Pierluigi G. Cardone


Bari. Fino a qualche mese fa era uno dei fiori all’occhiello del Policlinico di Bari, ora rischia di diventare il reparto degli orrori. Non c’è pace per Neurochirurgia, l’anno scorso alla ribalta della cronaca per la burrascosa rimozione dell’ex direttore Pasquale Ciappetta (coinvolto nei benefit elargiti da Giampi Tarantini in cambio di favori) e da ieri al centro di un’indagine interna dell’assessorato alla Sanità della Regione Puglia (e della Procura di Bari) dopo un esposto presentato ai sindacati di categoria da due anestesisti del reparto stesso. Morti sospette, interventi inutili e reiterati, operazioni sbagliate e controproducenti: quello contenuto nella denuncia dei due medici di Neurochirurgia è un perfetto florilegio della malasanità. Tra i casi segnalati, ci sarebbe il decesso di una malata terminale sottoposta ad intervento nonostante le disastrose condizioni cliniche, la morte a causa di disturbi respiratori di una donna ricoverata per dorsalgia e poi divenuta   paraplegica in seguito ad un’operazione, l’intervento superfluo di un uomo affetto da meningioma ( e poi deceduto), le sei operazioni errate di rimozione di un cancro a cui è stato sottoposto un paziente e un’altra mezza dozzina di condotte quantomeno ambigue. Alla Commissione Rischio Clinico della Regione (per l’occasione “rinforzata” da componenti esterni) il compito di stabilire se le accuse dei due anestesisti siano vere o meno. Per ora, tuttavia, rimane l’ennesima bufera mediatica che   investe il settore della salute pubblica nella Regione Puglia. “La notizia era nell’aria - ha detto al Fatto Quotidiano l’assessore regionale alla Sanità Tommaso Fiore -. A dicembre avevo ricevuto alcune segnalazioni di casi sospetti, tanto che il 7 gennaio mi sono   visto con il direttore del Policlinico per avviare un’indagine interna”.
PRIMA DI IERI, quindi, il reparto era già sotto osservazione da parte di chi di dovere, che ha subito notato un’evidente riduzione del peso medio degli interventi per le patologie neurochirurgiche più importanti: “Secondo noi il dato dipendeva da un solo fattore - ha detto l’assessore- : Pasquale Ciappetta è un luminare nella cura e nella chirurgia dei tumori cerebrali e la sua sostituzione, peraltro   inevitabile, probabilmente ha comportato nella gente la mancanza di un punto di riferimento per patologie così delicate. Del resto, dopo la sostituzione non avevamo ricevuto nessun ricorso, né alcuna richiesta di risarcimento”. Almeno fino a metà dicembre, quando le segnalazioni hanno innalzato il livello del sospetto. Nel confermare l’avvio dell’attività inquirente, inoltre, Fiore ha rivelato “che la Commissione stamattina (ieri per chi legge, ndr) ha appurato che due dei casi segnalati nella denuncia   non sono riconducibili a nessuna condotta sbagliata da parte dei medici del reparto”. Sullo sfondo della presunta malasanità, tuttavia, si staglia uno spettro ancor più ingombrante: per molti, dietro l’esposto dei due anestesisti ci sarebbero le beghe interne nate nel reparto dopo la sostituzione di Pasquale Ciappetta con il professor Antonio   De Tommasi. E’ lo stesso assessore Fiore ad avvalorare la tesi: “Tra loro non corre buon sangue. La vicenda è complessa: prima di esser coinvolto nella vicenda Tarantini - che ne ha causato l’avvicendamento -, il direttore Ciappetta non aveva riconosciuto De Tommasi come suo sostituto: quest’ultimo, dopo le misure cautelari a carico del suo predecessore, ha fatto ricorso al Tar e ha vinto, il che significa che è diventato direttore per volere del giudice. I due, comunque, hanno entrambi un loro seguito all’interno di un reparto di fatto diviso in due”. Tutto questo, però, fino a qualche ora fa. La notizia dell’inchiesta, infatti, un effetto lo ha già avuto: ieri mattina tutti i medici del reparto hanno sottoscritto una lettera nella quale hanno smentito categoricamente le accuse contenute nell’esposto dei due anestesisti. Lo staff medico, quindi, si è ricompattato. Diverso, invece, il discorso per quanto riguarda la credibilità del reparto. “Penso e mi auguro che non ci sia molto di più di quello segnalato nell’esposto”: le parole di Fiore sembrerebbero già una mezza prognosi.

Un nuovo libro di Eva Cantarella
Corriere della Sera 13.1.11
Adulterio, una «colpa» solo al femminile
Estinto il reato, anche in Occidente resta la censura morale per la donna che tradisce
di Isabella Bossi Fedrigotti


Che senso ha ragionare sull’adulterio, oggi depenalizzato non solo giuridicamente ma anche moralmente? Se lo chiedono, in partenza, entrambi gli autori — Eva Cantarella e Paolo Ricca — del volume intitolato Non commettere adulterio (Il Mulino, pp. 160, € 12) della serie che l’editore ha dedicato ai dieci Comandamenti. E se per la docente di Istituzioni di diritto romano e di Diritto greco antico il senso sta soprattutto nella storia secolare della questione, che ci rivela in maniera lampante come le tracce di lontanissimi ieri siano ancora ben presenti e vive nella nostra attualità di oggi, per il professore emerito della facoltà valdese di teologia questo comandamento ha tuttora un valore profondo di tutela, più che della famiglia, della fedeltà: tutela del cuore, dunque, argine contro smarrimento e infelicità. Il libro non è composto da una discussione incrociata bensì da due saggi, due riflessioni separate che, pur senza sovrapporsi, si integrano e si completano come potrebbe farlo appunto una conversazione. Eva Cantarella consulta, infatti, i «suoi» testi, il diritto greco e romano in primo luogo nonché gli interventi sul tema «adulterio» degli autori classici, da Aristotele a Demostene, da Seneca a Giovenale, da Livio a Marziale. Paolo Ricca argomenta, invece, soprattutto sulle Scritture, Antico e Nuovo Testamento, facendo riecheggiare le voci dei profeti, degli evangelisti, dei padri della Chiesa fino a quella del catechismo di oggi. Inevitabilmente diverso è il percorso in quanto il primo è puramente laico mentre il secondo contempla soprattutto l’aspetto religioso della questione, in qualche modo cercando di ascoltare, se così si può dire, il parere di Dio. O meglio, il parere di Gesù Cristo, che all’adultera pubblicamente — e per gli astanti scandalosamente— perdonò i suoi peccati. L’analisi di Eva Cantarella— e lo annuncia fin da subito il titolo del suo intervento — procede lungo la traccia della totale e quasi immortale parzialità che ha caratterizzato il giudizio dell’adulterio, considerato nei secoli reato esclusivamente femminile. Reato gravissimo già nell’antica Grecia — dove agli uomini era concessa massima e impunita libertà sessuale— tanto che, per il marito assassino della moglie infedele e del suo amante, valevano una serie di attenuanti legate alle circostanze in cui venivano scoperti i due adulteri. I legislatori ateniesi non avrebbero osato immaginarlo, ma con queste norme gettarono le basi, seicento anni all’incirca prima di Cristo, della giurisprudenza riguardante il delitto d’onore, che sarebbe sopravvissuta a rivoluzioni e rivolgimenti di ogni tipo, e abolito infine— almeno in Italia— soltanto millenovecentottantuno anni dopo Cristo. Non molto diversamente si pronunciava la legge, al riguardo, nell’antica Roma dove, però, soprattutto in epoca imperiale, le regole furono, nella pratica, alquanto allentate, forse perché, se si dà retta a quel che scriveva l’acidissimo (e misogino) Giovenale, di mogli fedeli non se ne trovavano molte. E a poco o nulla valse, per indurre le matrone a vita più morigerata, la Lex Julia, promulgata da Augusto— famoso, peraltro, in tutto l’impero per la sua vorticosa vita sentimentale— che, se il marito non provvedeva a denunciare la moglie adultera, dava facoltà ad altri, anche perfetti estranei, di segnalare la fedifraga alle autorità. Ovvio, per altro, che la lex dovesse fallire: le corna pubbliche non piacevano a nessuno e scoperchiare una tresca in casa d’altri apriva le porte a pericolose vendette incrociate. Quel che contava, fin da quella notte dei tempi, era salvare l’onore della famiglia, del capofamiglia per la precisione, strettamente legato alla fedeltà sessuale della moglie. Nei secoli che seguirono, nonostante il Vangelo avesse riconosciuto pari dignità alle donne, liberandole dal loro destino di oggetto appartenente all’uomo, continuò comunque a prevalere l’antica mentalità secondo la quale andava punita l’adultera ma non l’adultero. Significativo in questo senso è quanto avvenne durante la rivoluzione francese: se nel 1793 il Comité de Législation dichiarò l’uguaglianza dei sessi, tre anni dopo si rimangiò l’affermazione, riconfermando che l’ordine naturale voleva comunque la supremazia del marito. E su questo punto l’analisi di Paolo Ricca s’incontra e coincide con quella di Eva Cantarella. Egli segnala, infatti, come l’antico terrore della femmina da parte del maschio ebraico, che nella Bibbia ripetutamente fiammeggia alto, si sia poi installato solidamente, tristemente, tradendo gli insegnamenti del Vangelo, anche nella cristianità: cattolica in particolare — fa notare l’autore, forse con lieve spirito riformato— che, per esempio, ancora esclude le donne dal sacerdozio. Terrore che malauguratamente sopravvive nell’Islam, in certo Islam per lo meno, osserva Ricca: prova ne è la morte per lapidazione che le adultere a tutt’oggi concretamente rischiano in vari Paesi musulmani. Terrore antico e probabilmente mai davvero estinto, che capita di sentire riaffiorare pure tra i niente affatto musulmani, tra i molti che si ostinano a voler ridurre le donne a oggetto, tra i non pochi che le vedono responsabili di tutti i mali del mondo, tra chi nei blog le insulta atrocemente, tra chi le picchia o qualche volta anche le fa fuori, magari «per troppo amore» .

Corriere della Sera 13.1.11
Croce: ecco l’Anticristo moderno
Così denunciava sul «Corriere» l’irrisione sprezzante degli ideali
di Cesare Segre


È naturale che il «Corriere della Sera» , finita la brutta parentesi fascista, nella quale a Benedetto Croce era impedita quasi qualunque attività pubblica, abbia voluto annoverare il filosofo tra i suoi collaboratori più illustri. Croce infatti rappresentava e teorizzava principi politici e civili analoghi a quelli fondativi del «Corriere» , sempre nel solco di una tradizione risorgimentale e di ideali liberali. L’ospitalità del «Corriere» a Croce intendeva certo simboleggiare il ritorno alla tradizione «legittima» abbandonata troppo a lungo. Ma anche dal punto di vista operativo, la collaborazione di Croce, che era, oltre che un grande filosofo e critico, pure un uomo politico, prometteva di muoversi con sicurezza tra le teorie e la pratica della vita associata. Idea felice, dunque, come lo è stata ora quella della Fondazione Corriere della Sera, di raccogliere in un elegante volumetto di 340 pagine tutti gli articoli pubblicati nel giornale da Croce (Benedetto Croce e il «Corriere della Sera» 1946-1952, a cura di Giuseppe Galasso, Fondazione Corriere della Sera), nonché la corrispondenza tra Croce e i direttori relativa a questa collaborazione, e infine le recensioni a opere di Croce apparse nel «Corriere» . La vivace introduzione di Galasso è dedicata in prevalenza a questioni relative ai rapporti collaboratore-giornale, talora complessi e perfino curiosi. Croce, nella sua Napoli, era abituato a mantenere, in ambito di copyright, abitudini poco formali, inadatte a un grande quotidiano nazionale: in sostanza, aveva dato un’autorizzazione previa ai giornali napoletani e ai loro direttori, per anticipare estratti da sue pubblicazioni su rivista, persino per distribuirseli senza avvertire. Gli amici direttori erano sempre a contatto con il filosofo, e correvano subito a pubblicare quanto possibile di suo, senza farsi problemi di priorità. I direttori del «Corriere» , soprattutto Emanuel e Missiroli, cercavano invece di evitare che articoli scritti per il «Corriere» uscissero precedentemente in altri quotidiani, violando il principio dell’esclusività. Una lotta che continua sino alla fine, quando Croce, cedendo alle richieste dei direttori, ottiene però di poter derogare, collaborando saltuariamente anche al «Giornale d’Italia» . Questo volume presenta una grande varietà di argomenti, tanto che potrebbe esser letto come un’antologia di Croce, le cui altissime qualità stilistiche sono ben note. Metterei in primo piano gli scritti di carattere memoriale, di grande importanza quando portano il lettore a quel periodo prefascista nel quale Croce fu senatore e ministro (governo Giolitti, 1920-1921). Di quanto si fece e si pensò in quegli anni travagliati, Croce è dunque informatissimo, e ci scopre particolari determinanti per la comprensione degli avvenimenti. Interessato più all’uomo che alle cariche, Croce è altrettanto acuto ritrattista di Giolitti, che ammirava, e di personaggi di secondo o terzo piano, come Vincenzo Galizzi. Non mancano in queste pagine aneddoti divertenti, specie per i rapporti con il re e col principe di Piemonte, ignavi nei riguardi del dittatore, e sordi alle speranze dei migliori in iniziative per il suo licenziamento. Ebbe luogo a esempio un incontro clandestino con la principessa Maria José, che voleva il parere di Croce sulla situazione italiana; l’incontro, a Pompei, fu organizzato con tutte le cautele di un convegno amoroso. Belle anche le pagine su Mussolini, con il giudizio tombale: «Non è stato neppure un mysterium iniquitatis, ma soltanto un povero diavolo, portato su dalle condizioni dei tempi, propizie agli avventurieri» . Molti gli articoli di carattere letterario, come su L’ami des femmes di Dumas, o su Henri Becque e il teatro francese dell’Ottocento (anche con qualche ricordo sulle proprie esperienze teatrali); bellissimo il confronto tra due strofe di Goethe e di Carducci, o la riflessione sulla poesia della donna in De Sanctis. E a proposito di donne, colpisce lo sforzo di comprensione, evidente in due articoli, per una certa categoria femminile su cui si rischia di pronunciarsi troppo severamente, o troppo indulgentemente: alludo alla cortigiana e poetessa Veronica Franco e all’eroina della Dame aux Camélias di Dumas, Marguerite Gautier, diventata poi La Traviata di Verdi. Nel giudizio, non esplicitato, su Veronica, Croce fa entrare le difficoltà pratiche e la povertà, l’attenzione generosa a figli e nipoti, la venerazione per le virtù, la sincerità dei sentimenti amorosi, la serietà del pentimento. E quando si trova davanti a un’altra Veronica, la «ministra di voluttà» Marguerite Gautier, mostra di partecipare all’ammirazione del pubblico per questa donna straordinaria ed eroica, e semmai condanna L «atto chirurgico» con cui essa ritorna alla sua vita dissoluta per disgustare l’uomo che adora: si tratta, dice, di un’ «azione contraria al rispetto di se stessa» . Dunque la vera «dame aux camélias» è ancora superiore a come appare nelle romantiche versioni di Dumas e di Verdi. Croce filosofo si affaccia spesso in queste pagine, per esempio dibattendo sul concetto di progresso, o sull’esistenza di verità estranee alla nostra ragione, o sul contrasto tra le teorie di Marx e la pratica politica della Russia sovietica. Molto felici le pagine sull’Anticristo, interpretato, al di fuori dell’apocalittica giudaico-cristiana, come «disconoscimento, negazione, oltraggio, irrisione dei valori e degli ideali, dichiarati parole vuote, fandonie, o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati l’unica realtà che è la brama e cupidità personale indirizzata tutta al piacere e al comodo» . Questo gruppo di testi conservati nell’Archivio del «Corriere» si rivela un vero tesoro. E chissà quanti altri tesori potranno venire fuori nei futuri volumi della serie che con questo ha inizio.

Repubblica 13.1.11
Ratzinger e il purgatorio "Non è un luogo fisico ma sofferenza interiore"
Il Papa: così avviene la purificazione delle anime
di Orazio La Rocca


Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; e canterò di quel secondo regno dove l´umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno

CITTÀ DEL VATICANO - «Il Purgatorio? Non è un luogo fisico dove, dopo la morte, purificare l´anima tra fiamme, fuoco e tormenti. È, invece, uno spazio interiore, senza tempo e senza dimensioni, un momento di ricerca e di intima penitenza da cui partire per poter incontrare la misericordia di Dio». È la vita nell´aldilà secondo Joseph Ratzinger, il Papa teologo per antonomasia, che ieri - nell´udienza pubblica del mercoledì, in Vaticano - è tornato a toccare un tasto a lui caro, il Purgatorio nella dottrina cattolica, dando l´impressione di aver cancellato di colpo secoli di insegnamenti quasi sempre incentrati su immagini di sofferenze volute da un Dio "vendicativo" per "ripulire" le anime dai peccati.
In effetti, Ratzinger - pur senza cancellare nulla dal punto di vista dottrinale - qualche robusta picconata la dà ugualmente, parlando di santa Caterina da Genova, una mistica vissuta dal 1477 al 1510, che ebbe il coraggio di parlare del Purgatorio in termini del tutto nuovi ed originali rispetto alla cultura del suo tempo. Se i contemporanei di santa Caterina raffiguravano il Purgatorio facendo «ricorso - spiega Ratzinger - a immagini legate a uno spazio fisico», dove soffrire tra pene e tormenti prima del Paradiso, «in lei, il Purgatorio non è un elemento del paesaggio o un luogo nelle viscere della terra, è un fuoco interiore» da cui «iniziare a purificarsi» per andare verso l´Eternità. Per santa Caterina l´anima - conclude - «soffre per non aver risposto in modo corretto all´amore di Dio e l´amore stesso diventa fiamma e si purifica», ma senza ricorrere a luoghi fisici e temporali fatti di lamenti e castighi.
Concetti analoghi furono oggetto già 34 anni fa di un´altrettanto rivoluzionaria analisi teologica dello stesso Ratzinger quando in Germania, già apprezzato docente e vescovo, descrisse il Purgatorio con lo stesso stile di santa Caterina nel volume "Escatologia". Un´opera uscita nel 1977, che in seguito il futuro pontefice amerà definire «il mio libro più riuscito». «Il tempo che si trascorre nel Purgatorio - scriveva, tra l´altro, Ratzinger - si sottrae alle misure del tempo terreno: non è eterno, ma un passaggio. Tuttavia, è ingenuo volerlo qualificare secondo le misure del tempo derivate dalla fisica. La sua misura di tempo sta nella profondità degli abissi di questa esistenza... voler misurare un simile tempo di esistenza col metro di esistenza terrena significherebbe travisare la particolarità dello spirito umano...».
Anche papa Wojtyla nel 2003 descrisse - in un ciclo di catechesi pubbliche - Inferno, Purgatorio e Paradiso come «stati dell´anima legati alla comunione o meno con Dio» e non come «luoghi fisici secondo le nostre concezioni». Analisi fatte ulteriormente proprie, ora, dallo stesso Ratzinger nella sua veste di pontefice. Prima di ieri, Benedetto XVI aveva parlato di «aldilà, peccato e giudizio di Dio» anche nella sua enciclica ‘‘Spe salvi´´, pubblicata nel 2007, lo stesso anno in cui aveva ufficialmente dichiarato che il Limbo, il luogo dove secondo la tradizione risiederebbero le anime dei bambini morti senza battesimo, «non è mai esistito». Nel suo genere, un colpo di spugna non da poco.

Repubblica 13.1.11
Se cambia l’atlante della fede
di Giancarlo Zizola


Nell´atlante della fede cattolica l´Inferno è fonte di problemi ben più spinosi del Purgatorio. L´idea di un Dio terribile, giudice implacabile che danna ad un ergastolo eterno i peccatori impenitenti sembra così difficile da conciliare con l´idea di un Dio misericordioso da ripugnare sia a teologi cattolici come Urs von Balthasar (e prima di lui a un padre della Chiesa come Origene) sia a "laici" come Hans Jonas. In attesa che anche questo enigma sia decifrato per la comprensione contemporanea dei misteri della fede, Benedetto XVI avvia il processo di riformulazione del "regno di mezzo", il Purgatorio.
Aveva già rottamato il Limbo, a suo modo un altro paradigma della salvezza mai disperabile, specialmente per i bambini morti senza battesimo e i grandi saggi dell´umanità prima di Cristo. A maggior ragione il Purgatorio ha funzionato in versione catechistica come escatologia della mediazione possibile tra peccato e salvezza finale, una scialuppa di salvataggio cui aggrapparsi anche da vivi per non naufragare nell´abisso irrevocabile, per quanti errori si siano fatti.
Indubbiamente il Concilio di Trento, nel 1547, volendo arrivare a una definizione dogmatica del Purgatorio per opporsi a Lutero, preferì fulminare l´anatema su chi negava che il pentimento in vita potesse bastare a cancellare ogni debito di "pena temporale" da scontare nella vita futura "prima che gli siano aperte le porte del Regno dei Cieli". In questa declinazione identitaria, il Purgatorio non poteva che prestarsi, in mano a un clero padronale, anche ad usi che ne facevano piuttosto una macchina infernale di ricatti spirituali, oltre che degli abusi del sistema tariffario delle Indulgenze.
Tuttavia la pratica pastorale ne recupera in genere la dottrina in termini di misericordia, precisamente come spazio penitenziale dell´ultima chance nell´aldilà per risparmiare ai peccatori l´immediata e inappellabile condanna del Giudizio finale alle fiamme eterne. Chiunque in questa versione potrebbe candidarsi a sperare nel successo di una domanda di grazia. A nessuno va negata la possibilità di sperare di essere almeno rimandati a ottobre.
Questa volta Ratzinger non osa mandare in discarica anche il Purgatorio. Lo riformula, lo smaterializza. Pochi quanto lui sono in grado di percepire la delicatezza di questa operazione, specialmente se investe alcune delle categorie fondamentali dell´escatologia cristiana, anche se controverse come il Purgatorio, negato da hussiti, albigesi e valdesi nel Medioevo, poi dal protestantesimo. Il rischio possibile sarebbe di rendere fragili, sotto gli aut aut dell´integralismo escatologico, quelle fonti ultime delle speranze storiche cui si sono abbeverate le ricerche di redenzione in ogni tempo di credenti e meno credenti. Senza contare l´indebolimento possibile del senso della comunione tra i vivi e i defunti, con i primi stretti ai secondi da una solidarietà così intima da poterli aiutare "con preghiere e suffragi" a scontare la pena residua, come sosteneva il Concilio di Firenze nel 1444.
«La religiosità deve rigenerarsi e trovare così nuove forme espressive e di comprensione» ha ammesso papa Ratzinger nel recente libro-intervista. La domanda è se rappresentazioni tradizionali, «formule grandi e vere e che tuttavia non trovano posto nella nostra forma mentis», potranno venire riconcepite e introiettate dal complesso corpo cattolico. Per dare il via a questa operazione il papa si serve di un Trattato di Caterina da Genova, una mistica del Quattrocento. Egli avalla la transizione da una visione spaziale, penale e materiale del fuoco purgatoriale al "fuoco interiore" della visione immateriale raggiunta dalla santa. Il valore di questo intervento sta nel tentativo di trasferire dopo oltre cinque secoli il risultato teologico di una delle grandi ma minoritarie esperienze mistiche della storia in un approccio universale del popolo dei cristiani. Con ricadute possibili anche sul dialogo con i seguaci di Lutero.

Repubblica 13.1.11
Il nuovo desiderio di un figlio a tutti i costi
di Michela Marzano


Fino a poco tempo fa era scontato che esistesse per la donna una necessità biologica di avere bambini e di occuparsene
Nessuno può mettere in questione il desiderio altrui. In questo caso però c´è di mezzo una terza persona che non ha chiesto nulla
I casi di Elton John e Gianna Nannini fanno discutere sul mutamento che la famiglia tradizionale subisce grazie alle tecniche scientifiche e alla legislazione

Avere dei figli sembra ormai un´ossessione. Come se il fatto di non averne fosse una menomazione. Una mancanza insopportabile. Bisogna averne almeno uno, come si ha un lavoro o una casa. Per realizzarsi ed essere veramente felici. Anche quando si ha tutto, o quasi. Come Elton John che, quando nasce Zachary, dice di essere "sopraffatto dalla gioia". O Gianna Nannini, che un mese prima della nascita di Penelope, le scrive una lettera su Vanity Fair: «Tu, il più grande amore della mia vita, arrivi dopo il dolore profondo e lo shock».
È come se ormai, ad un certo punto dell´esistenza, i figli facessero parte dell´equilibrio di ogni persona, del benessere individuale. «Ognuno ha il diritto di fare quello che vuole, quando vuole, e con chi vuole», dichiara la rockstar italiana per far tacere i dibattiti suscitati da questa sua gravidanza tardiva. D´altra parte, accanto ai casi delle star, ci sono tante storie di persone normali che sognano un figlio e, spesso, devono combattere con percorsi legislativi complicati e dolorosi. Ma che cosa significa, oggi, essere genitori? Bisogno? Desiderio? Diritto?
Fino a poco tempo fa, era "naturale" sposarsi, fondare una famiglia, avere dei figli. Era scontato, dunque accettato come dato biologico, che esistesse, per la donna, la necessità di diventare madre, di fare un bambino e di occuparsene. Per le famiglie più modeste, un figlio era una vera e propria risorsa economica. Due braccia in più per portare soldi in casa. Per le famiglie aristocratiche e borghesi, i figli assicuravano la trasmissione del patrimonio, la continuità della "stirpe". Tutto era "naturale". Tanto più che esisteva un legame indissolubile tra l´atto sessuale e l´atto procreativo: i bambini erano "il frutto della vita". A partire dagli anni Sessanta e Settanta, però, le cose sono progressivamente cambiate. Da un lato, per la prima volta nella storia, si poteva legittimamente "fare l´amore" senza "fare figli". Dall´altro lato, i progressi della scienza e della medicina hanno permesso di dissociare la procreazione dalla sessualità: grazie alle tecniche di fecondazione assistita, anche le coppie sterili e omosessuali possono oggi, almeno in teoria, avere dei figli.
La figura del genitore non è più monolitica. Ne esistono di tutti i tipi. Genitori single. Genitori biologici. Genitori adottivi. Genitori eterosessuali. Genitori omosessuali. Certo, da un punto di vista giuridico, non esiste alcuna omogeneità. E anche questo genera disparità e confusioni. In Italia, si ammette ancora solo la fecondazione omologa; in Francia, c´è anche quella eterologa, ma possono usufruirne soltanto le coppie eterosessuali; solo in Spagna, in Belgio, in Olanda e in Svezia è accettata l´omoparentalità. Ma per chi ne ha, oltre che il desiderio, anche i mezzi, tutto sembra ormai possibile. Perché non utilizzarli, allora? Tanto più che la sacralizzazione del "desiderio", e dunque anche del "desiderio di un figlio", corrisponde perfettamente ad un´epoca in cui la rivendicazione della propria libertà di scelta si traduce molto più spesso di quanto non si creda in una nuova forma di conformismo. Se tutti desiderano un figlio, perché io non posso? E, soprattutto: se non ci riesco, c´è qualcosa, in me, che non va?
Il desiderio appartiene alla sfera privata e nessuno può intervenire. Nel caso dei figli, però, il privato è anche necessariamente pubblico. O almeno sociale. Non solo perché il desiderio riguarda una terza persona, che ancora non esiste e che, in fondo, non ha chiesto nulla. Ma anche perché i figli, nel momento in cui nascono, non appartengono più solo ai genitori ma cominciano a far parte di una comunità più vasta. Certo, nessuno ha il diritto di giudicare i desideri degli altri. Non esistono dei "buoni desideri" e dei "cattivi desideri". Esattamente come non esistono delle persone che meritano o meno di diventare genitori. Il desiderio di avere un figlio è sempre complesso e ambivalente. Si può voler un figlio per colmare un vuoto, per avere un erede, per riparare qualcosa della propria storia familiare, per proiettarsi nel futuro, per lasciare una traccia in questo mondo… Esattamente come, nel passato, lo si poteva volere perché succedeva, per abitudine, per rispettare le tradizioni… In fondo poco importa. Se si vuole un figlio, è inutile cercare di capire le ragioni precise di questo desiderio. Non esiste un modello perfetto di genitore capace di garantire l´equilibrio e la serenità dei figli.
Quando sono piccoli, fragili e sprovvisti di tutto, i bambini hanno bisogno che qualcuno si occupi di loro. Poco importa se esiste o meno un legame biologico tra figli e genitori. Poco importa se i genitori sono eterosessuali o omosessuali. La funzione paterna o materna può essere assunta anche dagli zii, dai nonni, dai cugini. Anche l´età dei genitori, in fondo, è relativa. Ciò che conta è che i genitori si occupino dei figli avendo la consapevolezza che non si tratta solo di "oggetti", di qualcosa che hanno desiderato tanto e che, quando arriva, appartiene loro per sempre. Essere genitori significa permettere ai figli di crescere, di imparare ad "arrangiarsi da soli", di rendersi progressivamente indipendenti. Essere genitori, più che un diritto, è un dovere. Primo fra tutti, il dovere di "adattarsi" a queste creature che sono nate senza averlo chiesto e che devono poter avere la possibilità, crescendo, di prendere le distanze dal modello materno o paterno che hanno conosciuto. Per diventare adulti, autonomi e liberi anche loro di avere dei desideri da soddisfare.