domenica 16 gennaio 2011

il Fatto 16.1.11
Uomini e no
A Mirafiori vincono i Sì, ma i No sono troppi perché Marchionne possa gestire la Fiat come gli pare. Cos’ha a che fare l’Italia che lavora e che lotta con chi compra le ragazzine?
di Antonio Padellaro


   Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa”, scriveva Antonio Gramsci dopo lo sciopero del '21 che dopo un mese di lotte e sofferenza si concluse con la sconfitta del sindacato e il licenziamento di più di 3500 lavoratori. Ieri Liberazione ha riproposto un testo che novant'anni dopo conserva intatta la sua forza commovente. Perché in quegli antichi operai che “sapevano di resistere non solo per sé ma per tutta la classe operaia italiana”, abbiamo visto gli stessi operai “in carne e ossa” di oggi. Quelli del Sì e quelli del No, “immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità”. L’altra sera, le dirette televisive da Mirafiori ci mostravano i volti solcati di questi uomini e di queste donne in attesa di un risultato decisivo per le loro esistenze. Veniva da pensare alla solitudine dell’operaia Maria che ha raccontato a Luca Telese dei mille euro al mese e della catena di montaggio, 50 operazioni all’ora, che scappa se perdi il ritmo. Ha votato No “perché ai figli bisogna dire che si è stati a schiena dritta, non che si può strisciare come vermi”. Siamo contenti che come lei abbiano votato in così tanti, che sarà difficile per Marchionne e i laudatores in ghingheri fare finta che non esistano. Siamo contenti che abbiano vinto i Sì, perché è facile fare i barricadieri con il lavoro degli altri. Siamo contenti che l’Italia sia fatta di uomini e donne davanti a cui togliersi il cappello. E non solo di vermi che strisciano, di minorenni comprate e di dignità venduta.

l’Unità 16.1.11
Fiat, gli impiegati salvano Marchionne Il sì vince con il 54%
Alla catena di montaggio dove si fatica hanno prevalso i No all’accordo per Mirafiori. La Fiom ha avuto un seguito straordinario. Tra gli operai la differenza tra il Sì e il No è di soli nove voti
È la fatica il discrimine tra i no e i sì di Mirafiori. Finisce 54% a 46%, ma gli operai del montaggio hanno respinto l’accordo. I tanti sì estorti, i molti no da chi ha la tessera Fim o Uilm in tasca. I dati per reparto.
di Laura Matteucci


Ha vinto chi può reggere meglio degli altri l’impatto dell’accordo, chi non ne trarrà condizioni peggiori, o anzi spera di beneficiarne economicamente. Gli impiegati, certo, ma anche gli operai che fanno (molti volontariamente) il turno di notte, dalle 22 alle 6, con il 63% in più dello stipendio e ritmi meno stressanti. Pipistrelli, li chiamano a Mirafiori: 262 sì e 110 no. E ha vinto anche chi deve reggere per forza, chi ha deciso per un sì estorto dal peso di un mutuo pesante, dell’essere una madre single, dal pensarsi senza alternative. Un sì sofferto, e molto arrabbiato. Per l’altra quasi metà che ha votato no a decidere è stata la fatica: chi fa il lavoro più duro, chi è alla catena di montaggio o è comunque vincolato al ritmo delle macchine, chi col modello Marchionne si ritroverà con un lavoro ancora più denso e più intenso, l’accordo l’ha respinto. Al di là della tessera sindacale che ha in tasca. O che aveva, perchè nelle ultime settimane le tessere Fim, Uilm, Fismic rispedite al mittente sono state decine. Forse Marchionne, che ha parlato di «sì lungimirante» e di «svolta storica» avrebbe fatto meglio ad usare toni meno trionfalistici. A Mirafiori il referendum è passato di poche lunghezze: 2.735 sì, il 54%, contro 2.326 no, 46%. Tra i soli operai, lo scarto è stato di 9 voti. Per il verdetto c’è voluto uno scrutinio lungo qualcosa come 9 ore, fino alle 6 di ieri mattina, con in mezzo la sparizione e poi il ritrovamento di 58 schede, il dubbio di dover invalidare tutto, e il malore di un delegato Fiom. Una notte lunghissima, tanto che la Commissione elettorale non ce l’ha fisicamente fatta a mettere a verbale i voti, ma i conti ci sono comunque.
Hanno votato in 5120 su 5431 aventi diritto, oltre il 94%. Se si aggiunge a questo che le schede bianche o nulle sono state pochissime, solo 57, emerge il primo dato: i lavoratori erano tutti interessati e informati, sapevano di che cosa si stava disctendo. Del resto, alle Carrozzerie oltre il 52% dei dipendenti ha una tessera del sindacato, vediamo quale (a proposito di legge sulla rappresentanza): se si contano gli iscritti, la Fiom è il primo col 13%, seguono Fim col 12%, Uilm con l’11%, mentre la Fismic ha il 9% e l’Ugl il 4%. Nel voto delle Rsu, invece, le prime posizioni sono invertite: la Fim ha il 23%, la Fiom il 22,5%. Resta il fatto che le Carrozzerie non sono certo il punto di forza della Fiom Cgil (che a livello nazionale ha parecchi più iscritti di Fim e Uilm messi insieme), e che a bocciare l’accordo sono stati molti di più dei soli iscritti o simpatizzanti Fiom. Voto trasversale, di testa e di cuore. Una prima spiegazione la dà Giorgio Airaudo, responsabile auto delle tute blu Cgil: «Quando si è votato per Pomigliano si poteva ancora pensare si trattasse di una questione particolare, territoriale. Adesso si è capito che l’accordo riguarda tutti i lavoratori dell’auto, che ne colpisce la condizione stessa». A guardare poi dentro i reparti, la lettura è chiara. Nei 4 seggi del montaggio (in totale i seggi erano 10, su base alfabetica) i sì sono stati 1385, i no 1577: sono gli operai più penalizzati dall’accordo, quelli che assemblano le auto, per i quali spostare la mensa a fine turno o ridurre la pausa di 10 minuti conta davvero. Quelli che come unico strumento di autodifesa hanno (avevano) la possibilità di scioperare, e che magari sì, ogni tanto si prendono un giorno di malattia, non da furbi assenteisti però, ma perché devono recuperare prima di rompersi. Sono anche quelli per cui le conseguenze dell’intesa possono portare a turni di 10 ore. Questo vale anche per il reparto lastratura, altro lavoro duro, che costringe a stare per ore con le braccia alzate per mettere i sigillanti nelle pieghe dell’auto: 414 sì, 423 no. Chi sta in verniciatura (254 sì, 196 no) e chi fa il turno di notte (262 contro 110) soffre meno il problema pause e intensità del lavoro: «Sono reparti meno stressanti e più garantiti», spiega Airaudo. E poi, gli impiegati: 440 votanti, solo 20 no. Plebiscito scontato: circa 300 sono capi capisquadra, capireparto, ovviamente più vicini ai vertici, e una quarantina fa parte proprio della direzione del personale, 20 sono amministrativi e gli altri si occupano della messa a punto tecnologica. Facile ripensare al 1980: nessuna «rivincita», che avrebbero preso le parti dell’azienda era chiaro a tutti. «La domanda è si chiede Airaudo che senso ha governare una fabbrica dove il clima è esasperato. Ma noi non ce ne andremo, e stiamo pensando di attrezzarci fuori dai cancelli. Gli altri sindacati pagheranno un caro prezzo di consenso, e poi un anno è lungo (la cig che parte domani, ndr), possono succedere tante di quelle cose...».

l’Unità 16.1.11
L’analisi
L’orgoglio operaio che ha rifiutato i «ragionevoli» diktat
L’esito ha chiarito qualcosa di determinante: la salute in fabbrica, la diginità non sono diritti disponibili in una trattativa L’ad ora rifletta: per non trovarsi in futuro in mano ai Cobas
di Bruno Ugolini


Un voto incredibile, inatteso, quello di Mirafiori. La maggioranza degli operai, nei reparti essenziali, ha espresso un secco rifiuto. Sono i reparti dove si dovrà far vivere la sfida produttiva di Marchionne. I contestatori sono coloro che, a differenza di altri, dovranno sottostare alla metrica Giapponese in fatto di ritmi, pause, orari. Trattasi di quel WCM (World Class Manufacturing) che, come ha scritto Luigi Agostini, un ex segretario Cgil che ha studiato il sistema, trasforma l’operaio in un robot.
Non hanno ascoltato una campagna massiccia, suadente, lanciata non solo dalla Fiat ma dal governo, dalla Confindustria, da una gran folla di esponenti politici (anche del centrosinistra). Non hanno obbedito, non hanno detto si a un diktat che è apparso irragionevole, non maturato da chiare trattative unitarie. È stato un atto d’orgoglio, ma non solo.
È stata anche la consapevolezza che era offerto loro, in fondo, uno scambio tra la promessa di aumenti salariali (peraltro modesti), di un futuro produttivo (peraltro non ben precisato) e la difesa del proprio corpo, della propria salute. Perché per molti (soprattutto per quelli che lavorano ai reparti di montaggio e lastratura dove, appunto, si è affermato il No, quei grafici recepiti negli accordi (mai illustrati e contrattati, con la loro partecipazione), possono avere riflessi duri per l'integrità psicofisica. Bastava , per capirlo, leggere le testimonianze di qualcuno di loro, quando mostrava i polsi logorati, i tendini carpali sfasciati. C'era questo nel loro dignitoso rifiuto. C'era la voglia di tornare a essere non solo percettori di un giusto sala-
rio, ma anche protagonisti davvero di una sfida produttiva. Non robot, appunto, senz'anima e senza cervello da manovrare a piacimento. È l'eredità dei loro padri che ritorna. Bruno Trentin ha impiegato una vita nel sindacato per spiegare che la salute non si vende, che esistono diritti indisponibili e che il sindacato ha il dovere, innanzitutto, di studiare e contrattare organizzazione del lavoro e piani produttivi.
È il contrario del corporativismo sterile che si accontenta di qualche mancia in denaro. Ma ora sento già la replica c'è la globalizzazione, non siamo più nel 900. Tutti dovrebbero diventare come gli operai cinesi depredati dal diritto di avere un sindacato vero. Eppure ci deve essere un’alternativa a tutto ciò. Quelli di Mirafiori l’hanno invocata con quel voto fatto, certo, di tanti Sì complessivamente in maggioranza, ma con quel potente pacchetto di No decisivi. Marchionne dovrebbe rendersene conto e non chiudersi in una boria improduttiva. Per non avere domani una fabbrica abitata da nuovi mostri, magari in forma di Cobas.

l’Unità 16.1.11
Intervista a Susanna Camusso
La battaglia per diritti e lavoro ora ha più forza
di Rinaldo Gianola


Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha appena terminato il direttivo della Cgil. Bisogna parlare del voto di Mirafiori, della Fiat, della proposta sulla rappresentanza. Ma al leader della Cgil chiediamo subito un pensiero sui 5400 lavoratori di Mirafiori.
Camusso, cosa dice a quegli operai? «A nome mio e di tutta la Cgil voglio ringraziare tutti gli operai di Mirafiori, quelli del sì e quelli del no. In questi giorni mi ha molto colpito la grande vicinanza dei lavoratori e la richiesta che venisse difesa la loro dignità. Anche quando dicevano che avebbero votato sì perchè preoccupati del futuro, lo hanno fatto con coraggio, senza chinare la testa. Questa dignità, questa compostezza sono valori di cui dobbiamo essere fieri».
Cosa l’ha colpita del caso Mirafiori?
«Mi ha colpito negativamente l’ingiustizia che il mondo esterno ha caricato sui lavoratori di Torino, come se dal loro voto dipendessero il modello di sviluppo, l’orizzonte del lavoro, la strategia degli investimenti, le nuove relazioni industriali. E mentre si caricava sulle spalle degli operai questa responsabilità enorme, gli altri, dal governo alla politica, si sono divisi come tifoserie. Non avendo una straccio di idea su sviluppo, politica industriale, diritti, il paese ha preferito fregarsene le mani».
Quale insegnamento dobbiamo trarre dal voto di Torino? «Intanto spero che il voto faccia riflettere tutti: Fiat, Confindustria, governo... Sì, continuo a pensare che bisogna partire dal governo, perchè ha fatto il tifoso, ha assunto un atteggiamento fideista verso la Fiat. Basta che l’amministratore delegato dica una cosa perchè ne consegua la certezza che succederà... In realtà, e possiamo dirlo con più forza, Fabbrica Italia resta un mistero. Qual è la strategia? Dove sono i modelli? Gli unici volumi che crescono in Fiat sono quelli della cassa integrazione mentre altrove, qui vicino, aumentano i volumi di produzione».
Cosa si attende dal governo?
«Se fossimo in un paese normale con un governo normale mi aspetterei che, dopo il risultato di Mirafiori, fossero convocati impresa, sindacati, istituzioni per porre un problema: siete proprio sicuri che la soluzione per dare futuro alla Fiat, all’ industria, siano il comando, l’autoritarismo? In un paese normale con un governo normale, direi che nell caso Fiat c’è un vulnus della democrazia. Non solo si vuole cancellare l’organizzazione più rappresentativa, cioè la Fiom, ma si impedisce al 47,5%
dei lavoratori non iscritti ad alcun sindacato di esprimere un voto sulla rappresentanza in fabbrica. È una violazione dei diritti fondamentali». Come giudica il voto operaio?
«C’è un dato significativo, chiarissimo. Nei quattro seggi del montaggio e nei due della lastroferratura ha vinto il no e sono i reparti dove saranno applicati i punti più penalizzanti, come quelli delle prestazioni e degli orari, dell’accordo del 23 dicembre. Il tema non è che ci dobbiamo ricordare, come ha detto qualcuno, che la Fiom ha impiegati e operai metallurgici. Il problema è di riuscire a capire dove l’accordo cambia duramente le condizioni materiali dei lavoratori». Come andrete avanti adesso? La Fiat tornerà presto in Confindustria ha detto la presidente Marcegaglia...
«Mi pare una lettura un po minimalista dei problemi: non coglie che un sistema di relazioni tra associazioni di impresa e sindacati che aveva funzionato, oggi viene sabotato. Se questo meccanismo si rompe e oggettivamente si rompe dopo Pomigliano e Mirafiori, io mi pongo il problema di come riconsolidare la rappresentaza dei lavoratori come soggetto. Chi pensa di farci sparire dalle fabbriche ha un’idea autoritaria delle condizioni di lavoro e sogna regole separate. Spero che sia possibile rimettere insieme una convenzione generale perchè noi subiamo un vulnus democratico ma Confindustria non resterà al riparo, ne pagherà le conseguenze». La Cgil ha una proposta sulla rappresentanza, come finirà?
«Sento l’urgenza di definire un nuovo accordo sulla rappresentanza e la democrazia, mi auguro che il parlamento comprenda la necessità di agire partendo dal diritto universale al contratto per i lavoratori. Se ci sarà una nuova legge spero che alla Fiat di turno non sia consentito giocare sui diritti di rappresentanza».
Adesso c’è lo sciopero del 28 gennaio della Fiom. Cosa farà la Cgil? «Avevo già dato il mio pieno sostegno alla Fiom. Il direttivo Cgil ha deciso di impegnare tutta l’organizzazione per sostenere lo sciopero dei meccanici del 28 che è parte integrante delle azioni Cgil nella battaglia per la democrazia e il lavoro».
Il suo incontro con Maurizo Landini...
«Abbiamo parlato di Mirafiori, le nostre valutazioni sono concordi». Non è stata delusa dai giudizi della politica e in particolare della sinistra sul voto di Mirafiori?
«In molti, al governo e nei partiti, non si sono neanche posti il problema di capire cosa stava succedendo. Hanno preferito credere a Marchionne e scaricare la responsabilità sui lavoratori di Mirafiori perchè tutto questo sarebbe un’inevitabile conseguenza della globalizzazione. È sorprendente come anche all’opposizione ci siano novelli alfieri che fanno proposte su come dovrebbe cambiare il movimento sindacale, e in particolare la Cgil, ma non sono in grado di dire cosa devono fare loro».

Corriere della Sera 16.1.11
La soluzione Camusso, niente firma ma rientrare
di Enrico Marro


L’applauso del direttivo Cgil. Landini: confronto da riaprire. Durante: Fiom tuteli i tanti «no»
ROMA— Hanno perso il referendum di Mirafiori, ma ieri in corso Italia, sede della Cgil, sembrava quasi che l’avessero vinto. La giornata è cominciata con un incontro tra il segretario generale, Susanna Camusso, e il leader della Fiom, Maurizio Landini. Poi una rapida riunione della segreteria Cgil e infine quella del direttivo, il parlamentino della confederazione. «Il totale dei voti contrari a all’accordo firmato da tutti i sindacati ad eccezione della Fiom — ha sottolineato nella relazione Camusso — è stato pari a 2.307 no. Ma siccome la Fiom a Mirafiori ha circa 600 iscritti, l’area dei voti contrari è molto più vasta» . «È stato bocciato il modello autoritario delle fabbriche caserme» , ha quindi aggiunto, invitando il direttivo ad un applauso per il 46%di lavoratori che hanno votato no. Un ragionamento che, formalmente, non fa una piega. Camusso, infatti, fin dall’inizio si è spesa per il no, mentre Landini, ufficialmente, non si è espresso, non riconoscendo legittimità al referendum. Da questo punto di vista il segretario della Cgil può rivendicare come suo l’ottimo risultato del no. E anzi il suo rappresentante nella Fiom, Fausto Durante, può aggiungere che «se Landini e la maggioranza della Fiom avessero preso esplicitamente posizione per il no e si fossero impegnati, forse avremmo vinto» . Nella sostanza, però, le cose stanno diversamente. Il risultato ha rafforzato, almeno per il momento, la linea di Landini sintetizzata nello slogan: «La Fiom non firmerà mai» . Non a caso ieri nessuno ha parlato più di firma «tecnica» o «con riserva» o «per presa d’atto» , formule suggerite nei giorni scorsi alla Fiom per rientrare in partita in caso di sconfitta. Il fatto è che questo scenario, quello cioè della Cgil che "convince"la Fiom a firmare l’accordo con la Fiat, aveva tante più possibilità di riuscita quanto più ampia fosse stata la vittoria dei sì. Adesso, invece, Cgil e Fiom preferiscono accentuare gli elementi in comune piuttosto che quelli di divisione. Cioè il giudizio negativo sull’accordo di Mirafiori che ha accomunato tutto il sindacato rosso. E che verrà ribadito il 28 gennaio nello sciopero generale della Fiom che, ha ripetuto ieri Camusso, avrà il pieno sostegno della Cgil. Fino a quella data, e probabilmente oltre, sarà tregua tra Camusso e Landini, che ieri è tornato ad attaccare Marchionne: «Guadagna come 1.070 operai e paga le tasse in Svizzera» . Il segretario della Cgil sa che adesso sarebbe impossibile convincere Landini a cambiare idea su quale sia il modo migliore di rappresentare e tutelare i lavoratori che si riconoscono nella Fiom. Landini da un lato chiede alla Fiat di riaprire la trattativa, ma dall’altro punta sul conflitto: fuori da Mirafiori, nelle altre aziende metalmeccaniche e davanti alla magistratura del lavoro. Camusso lo lascerà fare, ma nel frattempo cercherà di riaprire il dialogo con Confindustria, Cisl e Uil sulle nuove regole per la «rappresentanza e la democrazia sindacale» , secondo la proposta che è stata approvata ieri dal direttivo. La leader della Cgil vorrebbe in sostanza estendere il modello del pubblico impiego al settore privato, facendo un accordo con le imprese e gli altri sindacati. È chiaro che se ci riuscisse, cioè se Camusso, Bonanni e Angeletti tornassero a stringersi la mano, non ci sarebbero più intese separate e scontri tipo quelli di Pomigliano e Mirafiori. Ma le prime reazioni segnalano che qualche timida apertura viene solo dal presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, interessata a evitare che l’effetto Marchionne provochi l’uscita (anche solo temporanea) di altre importanti aziende dall’associazione. I leader di Cisl e Uil non vogliono invece offrire una sponda alla Camusso se prima non ottengono la normalizzazione della Fiom. La partita che si è aperta ieri sarà quindi lunga (del resto a Mirafiori c’è ancora un anno di cassa integrazione prima che le nuove produzioni partano) e si giocherà su diversi fronti. Camusso resta convinta che la strada puramente conflittuale di Landini sia sbagliata. Durante spiega che «paradossalmente la forte affermazione del no dimostra che c’è ancora più bisogno di garantire la tutela dei lavoratori che non accettano l’accordo e quindi la Fiom deve rientrare in fabbrica» . Ma l’impressione è che, a questo punto, Camusso, da sola, non ce la possa fare.

il Fatto 16.1.11
Contro Fiat la metà degli operai
di Giorgio Meletti


Il voto dei lavoratori Fiat delle Carrozzerie di Mirafiori impone alcune riflessioni, fermo restando che il risultato è a favore del Sì all'accordo sulla futura organizzazione del lavoro. La prima considerazione da fare è che nessuno aveva previsto che la linea del No sostenuta dalla Fiom avrebbe raccolto tanto consenso. La seconda riguarda la quantità di operai che hanno votato no all'accordo, facendo una scelta considerata alla vigilia, da tutti gli osservatori e da quasi tutti gli stessi protagonisti della contesa, irrazionale e autolesionista. La terza, inevitabile, è a proposito di Sergio Marchionne e delle sue prossime mosse.
VOTO A SORPRESA. Solo dieci giorni prima dell'apertura delle urne i sindacati firmatari dell'accordo con Marchionne (Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic, Ugl), titolari del 70 per cento delle tessere sindacali delle Carrozzerie di Mirafiori, si dicevano certi di raggiungere con il Sì l'80 per cento dei consensi. Un ottimismo che ha contagiato tutte le forze politiche e forse la stessa Cgil. L'ultimatum di Marchionne (“se vince il No sbaracco tutto”) sembrava efficace. Tutto il ceto politico si è immaginato un ceto operaio realisticamente proteso alla difesa del posto di lavoro prima di tutto.
I risultati hanno sorpreso la stessa Fiom, che prima dell'apertura delle urne considerava un buon successo stare con il Sì sopra il 30 per cento. L'esito dello spoglio dice che i Sì sono stati 2.735, i No 2.325. Se si sottraggono i voti degli impiegati (421 Sì, 20 No), si scopre che tra gli operai i Sì (2.314) prevalgono sui No (2305) di soli 9 voti. Politicamente è un pareggio.
PERCHÉ TANTI NO? Un exit poll su 500 votanti realizzato dal sito Internet Termometro Politico fornisce indicazioni curiose. Tra gli iscritti della Fiom, uno su quattro avrebbe votato Sì. Tra gli iscritti alle quattro sigle del fronte del Sì, uno su tre avrebbe votato No, cioè senza stare a sentire il proprio sindacato. E tra i non iscritti al sindacato (considerati da tutti orientati al tacito consenso per la linea aziendale) il No avrebbe sfiorato il 60 per cento. Viene fuori un quadro frastagliato del voto. A chi ha rappresentato la sfida di Mirafiori come un confronto tra una maggioranza modernamente pragmatica e una minoranza rissosa e ideologizzata bisognerebbe ora ricordare come molti iscritti alla Fiom votino Lega Nord e Pdl. Sicuramente il No era una scelta che non dava grande prospettiva, e infatti quasi tutti coloro che hanno votato così hanno detto ai rilevatori di Termometro Politico di aver voluto dire No a un ricatto. Sicuramente la metà degli operai di Mirafiori non sono pragmatici come si credeva. Ma adesso dobbiamo definirli ideologizzati o più semplicemente esasperati fino all'eventuale autolesionismo? Questa è la discussione che nelle prossime settimane potrebbero utilmente condurre tutti quei politici e sindacalisti che di questo umore operaio non hanno avuto né un sentore né un sospetto.
MARCHIONNE MOSTRA poca tenuta in curva. Ha reagito al voto di Mirafiori con una nota di 900 parole e 5500 caratteri in cui mostra di non aver ancora preso le misure di questo popolo spaccato di Mirafiori. Plaude a chi ha votato Sì che è “lungimirante”, rappresenta “la voglia di fare” e di battersi “contro l'immobilismo”. Chi ha detto Sì ha “chiuso la porta agli estremismi, che non portano a nulla se non al caos”. Rimane un problema: il Rinascimento automobilistico di Marchionne partirà, tra un anno e mezzo almeno, con l'assemblaggio del nuovo Suv marchiato Jeep e Alfa Romeo affidato a una catena di montaggio in cui un addetto su due, grosso modo, avendo votato No è stato ieri salutato dallo stesso Marchionne come “legato al passato e restio al cambiamento”, preso dalla “rassegnazione del declino”, che per sua natura “parla soltanto o aspetta che le cose succedano”. Agli operai del No, alla metà degli operai di Mirafiori Carrozzerie, Marchionne chiede di mettere da parte “ideologie e preconcetti”. Come se fossero preda della propaganda estremista della Fiom. E invece sono preda di una sorda incazzatura che supera la stessa paura e che neppure gli uomini Fiom hanno colto in pieno. La rabbia post-ideologica e politicamente disorientata è il tema del declino imposto da Mirafiori, e non solo e Marchionne.

Repubblica 16.1.11
Lo storico Marco Revelli: Marchionne non è un buon manager, ha diviso una comunità sofferente, ora dovrà cambiare strada
"Fabbrica spaccata, impossibile gestirla"
di Diego Longhin


Giudizio positivo sull´esito del voto: toglie all´ad ogni alibi ma gli impone di scoprire le carte se vuole governare Mirafiori

TORINO - «Ragionando realisticamente sarà impossibile gestire una fabbrica così spaccata. Anche perché non è la divisione tra una metà pienamente convinta e una metà contraria. Il sì è un sì trangugiato». Marco Revelli, storico e sociologo, è convinto che sarà molto difficile per Marchionne proseguire sulla strada che ha tracciato.
Come giudica il risultato?
«Il migliore possibile: toglie a Marchionne ogni alibi, gli impone di scoprire le carte e di cambiare registro se vuole veramente governare la fabbrica».
Ma l´ad del Lingotto vuole governarla con l´accordo firmato a Natale. Ci riuscirà?
«No, si produce di più con uomini liberi che imbrigliati. Si ottiene di più puntando sulla collaborazione, non sulla resa incondizionata. Si governa con il consenso, non con la gente che subisce. Se fossi in lui tirerei una bella riga. Questa è l´unica soluzione per uscirne, si è mosso troppo male».
Perché?
«Non è un buon manager. Ha diviso una comunità sofferente che ha di fronte a sé un anno e più di cassa a 800 euro al mese. Un signore molto ricco ha giocato con le loro vite e li ha divisi. Per realizzare una cosa irrealizzabile. Gli addetti di Mirafiori sono troppo vecchi, mantenere i ritmi previsti dall´accordo non è come viaggiare in jet da Torino a Detroit. È logorante. Sarebbe duro da realizzare anche per ventenni. In questo piano c´è più la prepotenza gratuita che la risposta ad esigenze reali».
I sindacati come escono da questa vicenda?
«Chi ha firmato male. L´impressione è che le organizzazioni rimarranno in fabbrica, ma non staranno più nella testa degli operai come loro tutori. Invece la Fiom, pur stando fuori, rimarrà nella loro testa come l´unico sindacato che tutela, anche in quelli che hanno votato sì. Fim, Uilm e Fismic sono diventati i guardiani: se qualcuno violerà le regole, le prime a rimetterci saranno loro. Saranno la longa manus dell´azienda».
La Fiom ha ragione a pensare a una battaglia legale?
«Sì, non si può far funzionare una fabbrica con la metà della fabbrica senza rappresentanza. Si può far funzionare una boita, un´officina come diciamo noi piemontesi, non un reparto con più di 5 mila persone. Nel modello tedesco, molto citato, la rappresentanza è sacra».
Chi ha perso?
«La politica, compreso chi ha responsabilità istituzionali, ha scaricato la scelta sugli operai. Come l´entomologo che guarda le formiche. Il rapporto tra Marchionne e i 5 mila delle Carrozzerie non è una cosa privata, riguarda la città e il Paese. La politica ha fatto harakiri».


l’Unità 16.1.11
Bersani: «Le minori a scuola e non a cena da vecchi ricconi»
«Il mondo si vergogna di noi», accusa il segretario del Pd Il leader di Sel: «Per il decoro dell’Italia il premier sia cacciato»
di A.C.


In questo momento ci vergogniamo davanti al mondo e se sopportiamo anche questo il mondo fa bene a vergognarsi di noi», attacca Pierluigi Bersani sul caso Ruby. Nessuna prudenza, nessuna circospezione. «Una minorenne dovrebbe andare a scuola, non a cena, per così dire, da vecchi ricconi, non dovrebbe girare con migliaia di euro in tasca, non dovrebbe essere buttata fuori dalla questura, un luogo delle istituzioni, per essere riconsegnata un’ora dopo a una prostituta, perché una minorenne è una minorenne, a prescindere dal fisico che ha in testa e va tutelata». Il leader Pd spiega che «per noi questa vicenda era già determinante qualche mese fa, se stiamo sul piano etico, civico, morale, a prescindere da quello giudiziario sul quale sta lavorando la magistratura». Ma «dire che Berlusconi deve andarsene non è sinonimo di elezioni anticipate, perché siamo in un regime che non lascia tutto in mano al presidente del Consiglio». In caso di ritorno alle urne, ribadisce, «noi non abbiamo paura ma non vogliamo cavare le castagne dal fuoco al premier. Deve essere la certificazione del suo definitivo fallimento». E poi, ha aggiunto, «se oggi chiedessi di tornare alle urne, Berlusconi farebbe immediatamente dire a Capezzone che voglio le elezioni anticipate perché ho problemi interni». «Si conferma la grande ricattabilità del presidente del Consiglio di una delle più grandi potenze del mondo, dovuta al suo modello di vita», rincara Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza Pd.
VENDOLA: È LA CADUTA DEGLI DEI
Ancora più duro il leader di Sel Nichi Vendola: «Un presidente del Consiglio indagato per prostituzione minorile è una vergogna planetaria». «Siamo alla caduta degli dei, sebbene la colonna sonora non sia Wagner, ma Apicella. Berlusconi dovrebbe essere cacciato perché ci vuole un atto di decoro in questo Paese. Siamo stanchi di sentir parlare delle vicende private di un premier cacciatore alla ricerca di docili prede». «Siamo davanti a reati che producono imbarazzo e vergogna per il nostro Paese davanti al mondo intero. E forse è Berlusconi, che aveva auspicato l’abbandono dell’Italia degli imprenditori se non avesse vinto l’arroganza padronale, è lui che dovrebbe fare i bagagli perché i danni che ha fatto al Paese sono giganteschi».
Dall’Idv tace per una volta Di Pietro, all’attacco ci pensa Luigi De Magistris: «L’unico fango che si può osservare è quello che Berlusconi getta sul paese, anche nel contesto internazionale, rappresentando gli italiani in modo indegno». «In qualsiasi democrazia normale, un presidente del Consiglio indagato per concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile sarebbe stato obbligato a dimettersi, tra il coro di “bye bye” generale dei cittadini». «Farebbe bene a riconoscere di essere un uomo malato, a dimettersi e a farsi processare», rincara la dose il capogruppo Idv al Senato Felice Belisario. Anche Casini non fa sconti: «Davanti ad accuse così infamanti è giusto che Berlusconi non veda l’ora di difendersi in tribunale. Questa è la strada, perchè ombre di questo tipo sul capo del governo non possono pesare».
Dal Pdl il coro di reazioni “a sostegno” è più flebile del solito. Il leit motiv è «inaccettabile gogna mediatica». Nel mirino del Pdl ci sono le opposizioni. «Rovistano come barboni nei secchi della spazzatura», attacca Osvaldo Napoli. Mentre Cicchitto si mostra deluso: «Persino gli eredi del Pci ora cavalcano il gossip...». Gasparri invece sembra preso in contropiede dall’azione dei pm: «Il procuratore di Milano disse che non c’era iniziativa giudiziaria nei confronti di Berlusconi e invece adesso assistiamo a un’azione ritorsiva dal sapore politico».

Corriere della Sera 16.1.11
«No a Vendola, si sgonfierà Con Casini già alle Comunali»
Letta: il Pd contribuisca ad approvare un buon federalismo
intervista di Aldo Cazzullo


Enrico Letta, Casini offre al governo la pacificazione e dice al Pd di scegliere tra lui e Vendola. Voi cosa rispondete? «Non ho interpretato l’intervista di Casini come una chiusura. L’alleanza tra moderati e progressisti è lo schema che frequento da tempo, ed è uscito rafforzato dalla direzione del Pd. Sperimentiamolo insieme, per battere i populisti. Siccome Berlusconi dice che non si va a elezioni anticipate, la prossima tappa saranno le Amministrative. Per molti motivi — le esperienze civiche, le difficoltà di un centrodestra senza candidati — le elezioni del sindaco di Torino, Bologna e Napoli sono l’occasione giusta per costruire l’alleanza, facendo prevalere il pragmatismo sull’ideologia. Come accadde per l’Ulivo vincente di Prodi, il cui embrione fu Martinazzoli sindaco di Brescia» . Quindi tra Vendola e Casini il Pd dovrebbe scegliere Casini? «Vendola è un fenomeno mediatico personale, non un soggetto politico radicato. Sul territorio, la sinistra radicale ha un peso molto ridotto, non determinante. Determinanti possono essere i moderati, ad esempio a Napoli» . Senza Di Pietro e Vendola, non temete di lasciare troppo spazio a sinistra? «Nelle Marche, dove c’è un vero centrosinistra con la sinistra radicale all’opposizione, Di Pietro è in maggioranza. Da altre parti potremmo avere l’appoggio, non decisivo, di Verdi e Sel. Bersani sta lavorando per un’alleanza larga delle opposizioni, e io lo sostengo; quando arriverà il momento delle elezioni nazionali, non ci faremo trovare impreparati. Sono convinto che il fenomeno mediatico Vendola si sgonfierà. Quando si va nelle cose concrete, Vendola in Parlamento non c’è, e alle Amministrative neppure» . A Milano ha il candidato sindaco. «Pisapia non è Vendola. Milano fa storia a sé. Compresi i nostri errori. Comunque, Vendola ai cancelli della Fiat dimostra la differenza irrisolvibile tra noi e la sinistra radicale» . Anche D’Alema e Bersani hanno avuto parole dure per Marchionne. «La posizione del Pd ha tenuto conto della complessità della situazione, dovuta a regole antiquate. Ora è importante che gli investimenti promessi arrivino davvero, che le parti sociali scrivano nuove regole e il Parlamento le renda legge. Il Pd ha auspicato la vittoria del sì, ma nel rispetto delle ragioni e del dramma di tutti gli operai. Nessuno di noi si è permesso di strumentalizzare una vicenda drammatica sulla pelle degli operai, recandosi ai cancelli per lucrare qualche voto sulla paura e la sofferenza. Un metodo che non ci appartiene» . In molti, però, hanno dato retta a Vendola e alla Fiom, votando no. «È stato Berlusconi ad azzoppare il fronte del sì. Con la sua sconsiderata minaccia di agevolare l’esodo della Fiat dall’Italia in caso di vittoria del no, stava per farlo vincere davvero» . Comunque il sì ha prevalso. Che cosa cambia in Italia? «Il risultato va preso per quel che è. Riguarda la Fiat. Diffido di chi ha fatto cambiare mestiere a Marchionne, investendolo del ruolo di premier. Marchionne non è il premier; è un manager. La Fiat è l’unica grande impresa privata italiana, da sola vale il 5%del Pil, ha fatto le sue scelte legate al mercato internazionale dell’auto. Ma il restante 95%di piccole e medie imprese non ha nulla a che vedere con la vertenza Fiat. Ha bisogno di una politica industriale e della riforma fiscale. Il referendum di Mirafiori non può sostituire una politica industriale che non c’è» . Il Partito democratico, di cui lei è vicesegretario, rischia la scissione? «Non credo, ma siamo di fronte a una sfida inedita. Nei precedenti 15 anni, i potenziali alleati non erano concorrenti. Alla sinistra e alla destra dell’Ulivo c’erano Bertinotti e Dini, che avevano storie, agende e linguaggi propri: aggiungevano voti, non ne toglievano. Oggi noi ci troviamo Vendola e Casini, che vengono dai due partiti e dalle due tradizioni politiche che il Pd intende fondere. Le voci che richiamano l’identità vengono sia da sinistra sia dai moderati. E i compagni di Ulisse devono tapparsi le orecchie per non sentirle» . Il terzo polo è una sirena irresistibile per i cattolici? «Il pericolo c’è. Come c’è il pericolo che l’altro versante ascolti le sirene della Fiom. Per questo il Pd è chiamato a un grande sforzo unitario, che eviti divisioni, spaccature, fughe. Dall’assemblea di Napoli del 28 e 29 gennaio uscirà la nostra proposta per la ripresa e per il futuro. Guardiamo alla logica del decennio che ci attende» . Quale decennio ci attende? «Gli Ottanta sono stati gli anni dell’euforia. I Novanta, del rigore. Gli anni 2000 sono stati quelli dell’incoscienza. Gli anni Dieci cominciano con un bivio: decadenza o risveglio. Nell’ultimo decennio, come documenta Abravanel, il reddito procapite degli italiani è diminuito, mentre quello di tutti gli altri saliva. Il primo responsabile dell’incoscienza collettiva è Berlusconi, con il suo sorriso a 32 denti qualunque cosa accadesse. Ora noi dobbiamo indirizzare il Paese verso il risveglio anziché verso il declino. Accogliendo l’appello di Napolitano: obiettivo giovani» . Faccia una proposta concreta. «Il contratto d’avvenire. Uno strumento che superi la precarietà e aiuti le imprese. Se assumi un under 35, per i primi tre anni tasse zero e contributi crescenti, con un incentivo alla stabilizzazione. Il dramma italiano è la differenza fra i trentenni del boom, che facevano figli, avevano più lavori e mantenevano i genitori, e i trentenni di oggi, che fanno pochi figli, non hanno lavoro e sono mantenuti dai genitori, magari con il Tfr. Ci stiamo vendendo l’argenteria. Dobbiamo dare lavoro ai giovani, a 20, 25 anni. A qualsiasi costo» . Lei si dice convinto che non ci saranno elezioni anticipate. Ma sul federalismo il Pd cosa farà? «Bisogna fare di tutto perché il federalismo sia approvato, e bene. Il federalismo è positivo, purché non sia considerato una bandiera per Bossi da sventolare in campagna elettorale e basta. Va fatto insieme, in modo che ognuno vi si riconosca. Non è vero che tutto si decide ora: servono quattro anni per l’attuazione, un eventuale nuovo governo potrebbe cambiare ogni cosa» . A quali condizioni votereste i decreti attuativi? «Cedolare secca sugli affitti, sia per i proprietari sia per gli inquilini, che scalino l’affitto dalle tasse. E la garanzia che non ci siano sorprese: prima si definiscono i fabbisogni, poi la perequazione. Prima stabiliamo quanto serve per pagare asili nidi e tac, poi si fissa il fondo di solidarietà per non lasciare le aree deboli senza servizi» . Che effetto le fanno le rivelazioni su Ruby? «Reato o non reato, un premier non può comportarsi così» . Il Pdl fa notare la concomitanza dei tempi: via lo scudo giudiziario, si apre un nuovo fronte. «A prescindere dall’intervento della magistratura, il comportamento del premier è censurabile. Ed è esattamente l’opposto di quanto ogni giorno si insegna in qualunque oratorio» . Casini potrebbe essere il vostro candidato? «Non mettiamo il carro davanti ai buoi. Prima si scrive il programma, poi si costruisce la coalizione, infine si sceglie il leader e noi naturalmente supporteremo il nostro segretario» . Con le primarie? «Come partito, noi sosteniamo le primarie anche per scegliere i parlamentari. Come coalizione, dobbiamo decidere con gli alleati» . Chi prende Casini prende anche Fini. Nessun imbarazzo? «Guardiamo al congresso milanese di Futuro e libertà con grande attenzione. Ci saremo. Cercheremo di ascoltare e capire, con una logica molto pragmatica. Non contano le ideologie ma i fatti: economia, Sud, Europa. Andare alle elezioni con tre poli come nel ’ 94 sarebbe irresponsabile. E non credo che il terzo polo avrebbe grande spazio» .

Repubblica 16.1.11
La classe operaia deve tornare in paradiso
di Eugenio Scalfari


ANZITUTTO l´aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I «sì» all´accordo sono stati il 54 per cento e i «no» il 46 per cento.
Al netto del voto impiegatizio i «sì» hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.
Questa è l´aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei «sì» ha votato di assai malavoglia e molti l´hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell´accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?
Sulla base di un referendum del 1995 infatti – ribadito nell´accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri – la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l´accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno «nominati» dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata «porcellum», porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.
La «porcheria» della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di «anime morte» reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.
Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti «gialli»?
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Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L´economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi «continenti»: Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l´intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.
Il caso Marchionne-Fiat ha messo l´economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l´ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall´economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l´elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall´Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c´è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell´involuzione economica in atto nell´Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l´economia classica definì il «risparmio forzato» e cioè l´accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.
Pensare quindi di livellare fin d´ora verso l´alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un´alternativa c´è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un´ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L´ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?
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Sì, l´ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che – a detta dello stesso Marchionne – il costo del lavoro dell´automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.
Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell´auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c´è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c´è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall´altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c´è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?
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Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d´una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l´altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell´innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l´imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell´imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l´attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.
Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull´evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una "governance" aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell´azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l´intera società nazionale e l´intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell´era berlusconiana.
Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l´avvenire del Paese.
Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell´opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.
I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell´articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli

Post scriptum. Un compito della massima importanza in tutta questa vicenda e nelle sue conseguenze vicine e lontane dovrebbe spettare a chi governa il Paese e "in primis" al presidente del Consiglio. Il quale invece, proprio in queste ore, è affaccendato in tutt´altre faccende: Ruby-Rubacuori e la Procura di Milano che l´ha convocato per il 21 gennaio chiedendo al Tribunale di poter procedere con il rito abbreviato perché gli indizi di prova dei quali già dispone sono tali e tanti da ritenere già chiusa la fase istruttoria salvo gli ultimi interrogatori mancanti.
Non entriamo qui nel merito dei fatti, sono già stati descritti ieri su queste pagine da Giuseppe D´Avanzo con una completezza che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti. Ma c´è un punto che merita riflessione e risposta al coro orchestrato dai sodali del premier sotto inchiesta. Costoro sostengono (e l´ha sostenuto ieri con un apposito comunicato lo stesso premier) che la Procura milanese è entrata a piedi uniti nella privatezza di persone perbene e questo sarebbe un inaccettabile sopruso che invalida l´ordine costituzionale e va severamente bloccato e punito.
La riflessione è la seguente: il reato, qualsiasi reato, riguarda l´intimità e la privatezza delle persone. Una persona ne uccide un´altra, oppure la rapina, oppure la deruba, oppure la truffa, oppure la stupra. Come avvengono questi atti? Nel buio, in una casa, in una strada deserta, nell´intimità dei rapporti. Quando il magistrato inquirente ha notizia di un reato e apre un´indagine su quell´ipotesi, deve agire inevitabilmente sulla privatezza delle persone, delle famiglie, dei luoghi sospetti. Le indagini giudiziarie riguardano quei luoghi e quelle persone, ovunque abbiano operato. È bene tenere a mente questo punto che il premier disconosce e i suoi turibolanti altrettanto. Se poi la persona sospettata riveste anche ruoli pubblici, ci sono ovviamente ricadute, ma l´istruttoria e il processo si svolgono nel contesto privato dove gli atti delittuosi sono stati commessi. Chi ritiene eversivi questi modi di procedere, ritiene in realtà eversiva la giustizia e il potere giudiziario nel suo complesso. Il che è gravissimo e, questo sì, eversivo.

l’Unità 16.1.11
Testamento biologico: serve responsabilità
di Ignazio Marino


Ancora poche settimane e la Camera tornerà a occuparsi di testamento biologico. Quanti sforzi sono stati compiuti per arrivare a una normativa in questa materia. Personalmente, ho sempre ricercato un confronto sobrio e attento al merito, attento alle posizioni di medici, infermieri e ascoltando anche i numerosi sondaggi d’opinione condotti con metodo scientifico. Gli italiani, laici e cattolici, sono in larga misura favorevoli a strumenti che facciano salva la loro libertà di decidere con le dichiarazioni anticipate di trattamento. Il Parlamento, purtroppo, ha assunto comportamenti opposti: abbiamo visto gran parte della classe politica dividersi e accapigliarsi con fervore ideologico, incurante dell’evidenza scientifica e del parere degli elettori.
Ora che la Camera si appresta a riesaminare il disegno di legge c’è il rischio di ritrovarci ancora una volta di fronte a un pessimo spettacolo. Mi aspetto che lo scontro tra schieramenti si riaccenda per ragioni esclusivamente ideologiche, che il tema del testamento biologico venga strumentalizzato dal Pdl, questa volta per dividere l’alleanza dell’Udc con Futuro e libertà e irrobustire la propria maggioranza logora ed esausta. Non è su questo tema che si può ingaggiare una battaglia parlamentare come si fosse allo stadio, contando vincitori e vinti. Evitiamo che il Parlamento si divida in buoni e cattivi, amici e nemici della vita, c’è ancora spazio per la responsabilità. Facendo uno sforzo di mediazione rispetto alle mie personali convinzioni, propongo una legge basata su due principi complementari: rispetto e libertà. Una legge che, sul punto più delicato, quello che riguarda la nutrizione e l’idratazione artificiale, sia scritto che queste terapie debbano essere sempre offerte e garantite a tutti coloro che non le rifiutino esplicitamente nelle dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testo coerente con l’articolo 32 della Costituzione.
In questo contesto la partecipazione e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica risulta cruciale, e proprio per questo il Dipartimento diritti del Partito Democratico, coordinato da Ettore Martinelli, ha organizzato per questa sera a Milano un happening teatrale in cui artisti e politici saliranno insieme sul palcoscenico ad illustrare le proprie idee e i propri sentimenti.
Facciamo sentire la nostra voce perché, se prevarrà l’orientamento del partito che ha vinto le elezioni, e che peraltro in questo momento è quanto mai fragile, saranno altri a scegliere per ognuno di noi, sulla base di un principio etico e incurante che il suo compito sarebbe un altro, delineare un quadro giuridico all’interno del quale sia tutelata la libertà di ognuno.

l’Unità 16.1.11
4 domande a Hamadi Zribi, blogger
«Rivolta laica e popolare. Non si potrà più tornare indietro»


Lei segue gli eventi con il suo sito in italiano Tunisialibera, cosa ci dobbiamo aspettare ora nel suo Paese?
«Non ho la palla di cristallo ma so per certo che la Tunisia non intende tornare indietro, ha pagato un prezzo troppo alto. È una rivolta laica, popolare e dal basso che nessun sociologo poteva prevedere, ora che il popolo ha rotto le sue catene tutto ciò che verrà sarà positivo».
Potrebbe anche arrivare un uomo forte, un ex generale come Habib Ammar sponsorizzato magari dalla Cia, a rimettere ordine con pugno di ferro. «Le parole di Obama, il suo ringraziamento al popolo tunisino per quello che sta facendo, non credo che permettano questo scenario. Tornare ad un generale, ad una situazione di dittatura ancora peggiore dopo 23 anni di Ben Ali e del suo stato di polizia, dopo cento morti... Mi permetta di pensare che un mondo del genere non è possibile».
La polizia ha continuato a sparare sulla gente anche dopo il discorso pacificatorio di Ben Ali. Qual è il suo ruolo? «In Tunisia ci sono 160mila poliziotti più 20mila guardie presidenziali per circa 10 milioni di abitanti. In Francia gli agenti sono nell’ordine di 60mila per oltre 50 milioni di abitanti. Negli ultimi 23 anni la polizia è stata il braccio armato di un regime corrotto. Si sentivano forti, intoccabili perchè impuniti. La maggior parte delle uccisioni sono state opera dei cechini della Guardia nazionale di Ben Ali. Lui ne è responsabile».
Per fermare il bagno di sangue sarà necessaria una commissione di pacificazione, non crede? «Una nostra richiesta ferma è la creazione di una commissione internazionale d’inchiesta sotto l’egida dell’Onu sulle uccisioni di rango pari a quella del Libano. Poi ci dovrà essere un governo di transizione formato da persone di grande levatura e membri dell’opposizione. Penso a Chebbi, capo del partito progressista, all’esule Moncef Marzouki, al capo del partito socialdemocratico Mohamed Moadda e l’avvocata Radhia Hammadi». R.G.

l’Unità 16.1.11
Rivolta tunisina
Il mondo arabo aspetta l’effetto domino
Dal Cairo ad Algeri, da Amman a Tripoli c’è chi teme e chi auspica la rivoluzione dei gelsomini Gli analisti: una grande lezione per i regimi
di Umberto De Giovannamgeli


C'è chi parla di una «Danzica araba». Chi evoca una nuova «Primavera di libertà». C'è chi lo spera. E chi lo teme: l'effetto domino della rivolta tunisina. Da Algeri al Cairo, da Tripoli ad Amman, da Beirut a Rabat... Una dialettica che emerge dalle analisi che occupano le prime pagine dei più autorevoli quotidiani arabi e internazionali. «Ben Ali e il suo clan sono stati cacciati. La formidabile rivoluzione democratica del popolo tunisino ha spazzato via la sanguinaria dittatura di Ben Ali. I tunisini si sono liberati della paura, hanno affrontato a mani nude le forze della repressione».
Esordisce così un editoriale del giornale algerino El Watan, uno dei principali quotidiani del Paese maghrebino, noto per dare ampio spazio alle voci dell'opposizione nella regione. «Ben Ali è la storia di un potere assoluto in Tunisia da 23 anni. Ma è anche una storia che si può riscontrare in quasi tutti i Paesi arabi. I tunisini hanno appena dato una lezione a tutti coloro che pensano che non siamo pronti alla democrazia e che lo status quo è una necessità assoluta per impedire agli islamici di accedere al potere. Una visione semplicista e accomodante», prosegue ancora l'editoriale prima di porsi gli interrogativi d'obbligo: «Che accadrà in Algeria? Accentueranno la repressione o cambieranno direzione definitivamente
ascoltando la voce della ragione e facendo imboccare al Paese la via della democrazia e delle riforme politiche?». «Gli algerini si ribellano a intervalli regolari. E sarà sempre così se i dirigenti non prenderanno le misure di quello che, in profondità, agita la nostra società. La rivolta popolare dei tunisini è adesso diventata il nuovo faro del mondo arabo», conclude il giornale.
Da Algeri a Beirut. Il quotidiano libanese An Nahar ha pubblicato ieri un editoriale nel quale sostiene che «l'eco» di questa rivoluzione senza precedenti possa risuonare «in più di un Paese della regione». Secondo Bilal Saab, ricercatore all'Università del Maryland, «la politica in Medio Oriente spesso si evolve velocemente e questo per la porosità dei confini e la condivisione delle culture». In ogni caso, è difficile prevedere al momento gli effetti della protesta tunisina nel breve periodo». «Il messaggio è molto forte. Ma è difficile sapere se quello che è successo in Tunisia possa ripetersi da qualche altra parte, come in Algeria o in Egitto», dice Amr al-Chobaki dell'Istituto di studi politici e strategici al-Ahram del Cairo. La capacità di sopravvivenza dei regimi arabi autoritari non va sottostimata, aggiunge l'analista. La Tunisia è uno Stato che non ha mai lasciato «una porta aperta per la società civile o per l'opposizione», spiega Chobaki, mentre in Egitto, ad esempio, il regime ha lasciato piccole valvole di sfogo «per permettere al popolo di rallentare le tensioni e per evitare l'esplosione (di un conflitto, ndr) sociale». È «la prima rivolta popolare che ha portato alla rimozione di un presidente nel mondo arabo», spiega Amr Hamzawy del Carnegie Middle East Centre di Beirut. «Potrebbe essere fonte di ispirazione per il resto del mondo arabo», ha aggiunto, in quanto «alcuni ingredienti (all'origine della rivolta, ndr) in Tunisia sono rilevanti ovunque», dal Marocco all'Algeria, dall'Egitto alla Giordania. Tra questi, l'alto tasso di disoccupazione, l'uso violento della forza da parte della polizia e la violazione dei diritti umani. L'esempio tunisino ha dimostrato come tutto questo possa essere cambiato dal popolo. Non è necessaria un'invasione come in Iraq. È una grande lezione per i regimi autoritari nella regione», rimarca Hamzawy.
Considerazioni che vanno oltre il mondo arabo. «La rivolta in Tunisia ha elettrizzato la regione», scrive il New York Times, e «i più entusiasti sostengono che si tratta della Danzica araba», facendo un parallelo con la rivolta avviata nel 1980 da Solidarnosc nella città polacca, che portò poi al crollo del sistema sovietico nell'Europa Orientale. «Ciò appare prematuro osserva il NYT anche perché non sono ancora chiari i contorni del nuovo governo emerso in Tunisia e perché la Tunisia è alla periferia del mondo arabo». Tuttavia, prosegue il quotidiano, «la proteste in Tunisia sono viste come una rivolta popolare che va al di là della religione e dell'ideologia», che offre «un nuovo modello di dissenso in una regione dove l'opposizione è stata monopolizzata dagli estremisti islamici». Una riflessione che si ritrova anche sulle pagine di Le Monde, in particolare in una intervista alla politologa e militante della Lega tunisina per i diritti umani, Larbi Chouikha. I fatti dell'altro ieri dimostrano che "le rivoluzioni di velluto si possono fare in un Paese arabo" afferma la studiosa. "Noi non siamo un popolo che sprofonda nell'obbedienza, e ciò potrebbe avere un effetto domino nella regione». Anche il quotidiano britannico The Independent apre con un'analisi in cui si sottolinea che i problemi sociali che hanno spinto i tunisini a ribellarsi contro il regime di Ben Ali sono comuni ad altri paesi arabi. "Si tratta di una vera rivoluzione oppure i membri di un'altra elite prenderanno il posto di del presidente Ben Ali?» si chiede The Independent, osservando che si tratta di una "domanda cruciale per il resto del mondo arabo, dove altri regimi corrotti di polizia si trovano di fronte agli stessi problemi sociali, politici ed economici della Tunisia», e il «parallelo più immediato è l'Egitto, dove il regime sclerotico del presidente Hosni Mubarak è aggrappato al potere».

Repubblica 16.1.11
Un´onda d´urto per le folle può svegliare i paesi arabi
Un incidente non programmato può scatenare una rivolta e poi una rivoluzione
di Tahar Ben Jelloun


Il fatto che Ben Ali sia partito lasciando il Paese in una situazione di confusione e di panico sta a dimostrare fino a che punto l´uomo non meritasse di essere un capo di Stato. Giunto al potere con un golpe (approfittando della malattia di Bourghiba) nel 1987, ha governato la Tunisia con metodi autoritari. Eppure questo Stato di polizia, dove la tortura era all´ordine del giorno e ogni espressione dell´opposizione veniva repressa, ha beneficiato del sostegno della Francia e dell´Italia, che lo ritenevano il miglior garante contro l´integralismo religioso.
Ma al di là di questa constatazione, gli eventi degli ultimi giorni in Tunisia hanno una portata storica, non solo per i tunisini ma per tutto il mondo arabo. È un´onda d´urto che rischia di risvegliare le folle di Algeri, del Cairo, di Damasco e di molti altri Paesi con regimi autoritari e impopolari. Non dimentichiamo che in contemporanea con le manifestazioni in Tunisia, anche in Algeria la folla ha invaso le piazze. Certo, i due regimi sono assai diversi tra loro, non fosse altro che per le importanti risorse (gas e petrolio) di cui l´Algeria è ricca. Ma c´è una realtà che accomuna quei due popoli: sono stanchi, non ne possono più dei regimi al potere. Ecco dove conduce la dittatura. Presto o tardi la rivolta popolare esplode.
In Tunisia tutto è incominciato con le umiliazioni subite da un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, che si è immolato dandosi fuoco. A forza di vedersi disprezzato, sfruttato, derubato e umiliato, il popolo si ribella. Tanti giovani che hanno studiato e ottenuto un diploma o una laurea non trovano lavoro. La disoccupazione colpisce un terzo della popolazione attiva. E intanto Ben Ali e il suo parentado hanno Hanno fatto man bassa del Paese creando un partito unico, che serviva a fornire opportunità d´affari a diverse famiglie.
Sappiamo che in questa rivoluzione l´esercito ha avuto un ruolo positivo, rifiutando di reprimere i manifestanti: questo il motivo della destituzione del generale Amar. Gli islamisti, ai quali veniva negata la possibilità di esprimersi, non hanno approfittato della sollevazione per farsi vivi. L´esercito si è riversato nelle piazze dopo la fuga di Ben Ali e conta di poter giocare un ruolo in futuro.
L´esempio tunisino farà riflettere l´Algeria e l´Egitto. Entrambi i Paesi hanno regimi impopolari e condizioni di ingiustizia simili. La differenza sta nel fatto che in Algeria, fin dal 1962 il potere è nelle mani di un esercito che si arricchisce grazie ai proventi del gas e del petrolio; mentre l´Egitto è un Paese povero, sovrappopolato e minato dall´integralismo religioso. Qui è nato, nel 1930, il primo movimento islamista, quello dei Fratelli musulmani. Oggi migliaia di islamisti marciscono nelle carceri egiziane. Recentemente un avvocato, Ayman Nour, ha osato presentarsi alle elezioni presidenziali sfidando il presidente Mubarak. È stato prima estromesso dalla sua attività professionale, poi arrestato con l´accusa di aver falsificato la lista delle persone che avevano firmato per la sua candidatura e condannato a tre anni di carcere.
A volte è un incidente non programmato a scatenare una rivolta, e poi una rivoluzione. È quello che è accaduto in Tunisia, a Sidi Bouzid, pochi giorni prima di Capodanno. Nessuno pensava che da qui si sarebbe arrivati alla caduta del dittatore Ben Ali.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il Fatto 16.1.11
Una giunta all’ombra del Vaticano
Alemanno: “Più organica l’intesa” con la diocesi di Roma
di Marco Politi


Di fronte al disastro della sua politica, Gianni Alemanno ha pensato bene di farsi dare la benedizione del Vaticano. Ovvio che l’appuntamento del 14 gennaio degli amministratori di regione, provincia e città fosse programmato ben prima della crisi di giunta. Resta il fatto che per l’occasione il sindaco delle promesse fallite si è premurato ancora una volta di ammantarsi nel vessillo della più stretta osservanza chiesastica. È da tempo lo stile dei dirigenti del centrodestra dell’era berlusconiana. Come le signore che si danno un’aggiustatina con un colpo di cipria e una passata di rossetto, i falchetti del “partito dell’amore” nei momenti difficili vocalizzano l’aria di papa e cristianità.
BERLUSCONI, fresco di menzogna di Stato alla Questura di Milano, promette al cardinale Bertone: “Non sarò mai contro il Vaticano”. Sacconi, che plaude al macero del diritto dei dipendenti d’azienda di eleggersi i loro delegati, inneggia al valore della Vita (sempre quella astratta, mai quella concreta di chi lavora o di chi rifiuta l’accanimento dei trattamenti medici in fine di vita). Alemanno, portandogli la nuova giunta, reca in dono al Pontefice il “desiderio dell’amministrazione comunale di rendere più organica l’intesa e la proficua collaborazione, che si è instaurata con le varie articolazioni della diocesi di Roma”.
Per le istituzioni valorizzare le energie, che emergono dalla società civile, è un dovere.
E certo il mondo cattolico è vivace e generoso nel suscitare tante iniziative. Altra cosa è vagheggiare “intese organiche” tra Comune e una circoscrizione ecclesiastica come la Diocesi. È questo ossequio neoconcordatario che dà fastidio (l’anno scorso Alemanno regalò tredici ettari al Vaticano che di sicuro non ha bisogno di nuove proprietà, neanche a fini assistenziali) e sarebbe bene che il sindaco si ricordasse che Roma è una Capitale composita, fatta di credenti e diversamente credenti, di cattolici, cristiani di varie confessioni, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici e atei.
E soprattutto che ci sono centinaia di migliaia di cattolici, che su pillola, unioni di fatto, fecondazione artificiale, testamento biologico , partnership omosessuali, la pensano assai diversamente dalle gerarchie vaticane.
Anche fra chi lo ha votato ci sono cittadini che non accettano da parte del loro sindaco la ripetizione pedissequa del mantra “tutela della vita umana in ogni fase e della famiglia fondata sul matrimonio”.
TUTELARE la vita è un imperativo, ma migliaia di cittadine romane aspettano che nelle farmacie nessuno si permetta di sabotare la distribuzione della pillola del giorno dopo. Sostenere la famiglia è precisamente quello che l’attuale governo non fa. Ed è benvenuta ogni iniziativa a livello cittadino, provinciale e regionale. Ma questo non esime un’amministrazione cittadina europea dall’obbligo di aiutare anche le coppie di fatto, comprese quelle omosessuali .
Toccherà alla nuova giunta dimostrare di fare meglio della precedente, viste le condizioni disastrose in cui versa la città.
Non basta la foglia di fico di un esponente cattolico come Gianluigi De Palo, presidente delle Acli romane e del Forum delle famiglie del Lazio, o di un esperto dirigente della Banca d’Italia come Carmine Lamanda.
Roma ha bisogno di uscire dalla mentalità di clan, che ha segnato la prima giunta, ma soprattutto il Campidoglio è drammaticamente privo di una visione culturale per progettare l’Urbe del XXI secolo.
Per averla non basta andare in piazza San Pietro nemmeno ogni giorno.

il Fatto 16.1.11
La Bibbia sì, gli immigrati no
di Marina Boscaino


La notizia – a scarsa diffusione – mi è segnalata da un amico di una scuola di Vicenza, che chiederà di distribuire la Costituzione nella sua scuola. ‘Siamo convinti che la deriva laicista, spesso ancorata ai dettami del relativismo e del nichilismo non possa essere una risposta efficace in un mondo in continua evoluzione, pur nel doveroso riconoscimento del patrimonio di valori in cui si riconoscono le nostre Istituzioni, compreso ovviamente il mondo scolastico’. Prima di Natale l’assessore all’Istruzione del Veneto, Donazzan (Pdl), invia alle scuole primarie una lettera sull’iniziativa di donare la Bibbia a tutti gli alunni. ‘Oltre ad essere il testo religioso più diffuso al mondo, rappresenta per tutti noi un riferimento indispensabile per comprendere le nostre radici culturali e la nostra tradizione.
È il riconoscimento, senza pregiudizi ideologici che il nostro stesso vivere civile, il nostro diritto, la nostra morale, i nostri costumi sono intrisi di principi derivanti dal cristianesimo ed è il comprendere che il nostro patrimonio storico-artistico, la nostra letteratura, le nostre città sono ‘immerse’ nella cristianità”. Questo, stando in giunta con sostenitori di proposte senza dubbio ispirate al messaggio della cristianità. Ne ricordo alcune: impronte digitali ai bambini Rom; non più del 30% di migranti in classe; eufemistiche classi-ponte, ghetti per chi chiede alla scuola pubblica cittadinanza e inclusione e che invece l’ecumenica idea del mondo leghista vorrebbe isolare nella diversità; presidi-spia, da obbligare a denunce di bambini “irregolari” nel luogo la cui specificità è magnificamente delineata dall’art. 34 della Carta: “La scuola è aperta a tutti”. Sottovalutando distratti ipocrite alterazioni di concetti e principi, lasciamo arretrare la civiltà del nostro Paese.
La scuola pubblica, laica, pluralista non può ignorare pretestuose pressioni, improprie, violente – perché sferrate dal “potere”– e manipolatorie – perché abbinate a impudica incoerenza – verso due rassicuranti strumenti per mantenere le postazioni : pensiero unico e omologazione. Nel Paese del Bunga bunga, il Papa dice che l’educazione sessuale impartita nelle scuole è “contro la fede”, bocciando i sistemi che l’insegnano, mentre da noi il “fai da te” prospera persino in questo campo, quando gli adolescenti italiani hanno in media il primo rapporto sessuale a 14 anni. Nel Paese del Bunga bunga i seguaci del premier – difensori del suo operato pubblico e privato – diffondono la Bibbia, in cui Donazzan chiama a riconoscere “l’essenza della nostra identità”. Un’impronta repressiva, bigotta e falsamente valoriale bersaglia la scuola di provvedimenti e stigmatizzazioni che – oltre a lederne colpevolmente la laicità – causano schizofrenico sdoppiamento della realtà, scollamento in cui principi, parole, azioni non corrispondono più. Non stupiamoci quindi del disorientamento dei giovani. E stupiamoci davvero quando – in questo panorama desolante – riescono a recuperare risorse per maturare coscienza critica e partecipazione attiva.

l’Unità 16.1.11
«Cittadini, ribellarsi è giusto!»
In Francia è diventato un caso che sta varcando i confini nazionali. S’intitola «Indignatevi!» ed è un pamphlet che esorta alla mobilitazione contro gli orrori del nostro presente. L’autore è un ex partigiano di novantatrè anni
Incontro con Stéphane Hessel
di Luca Sebastiani


Contattarlo non è stato per niente facile. Incontri durante tutta la giornata, interviste, domande e troupe tivù da tutta Europa fin dentro al tinello di casa. La moglie a smistare telefonate, appuntamenti, richieste che in queste ore gli arrivano da ogni dove. A 93 anni Stéphane Hessel poteva godersi un meritato e giusto riposo, soprattutto dopo la vita convulsa, avventurosa e assolutamente encomiabile che ha condotto. Invece il suo ultimo «libretto», come ama chiamarlo con candida modestia, ha fatto un baccano infernale qui in Francia. Nessuno se lo aspettava, né lui, né tantomeno la piccola casa editrice di Montpellier, la Indigène Editions, che qualche mese fa ha avuto l’idea di pubblicare qualche pagina di questo pezzo della storia francese. Più che altro si trattava di un omaggio, di dare la parola con una trentina di paginette al resistente, all’eroe di guerra, all’uomo che aveva speso la vita al servizio dei diritti universali dell’uomo. Poi, appena uscito lo scorso ottobre, si è subito capito che il pamphlet di Hessel, Indignez vous!, per qualche arcano disegno del destino arrivava esattamente nel momento in cui i francesi si volevano sentir scossi, e forse meno soli in questa fase storica segnata dall’individualismo e dalla dittatura della contabilità finanziaria. In questi due mesi la domanda è stata tale che le librerie non facevano in tempo a rifornirsi che già vedevano i loro stock esaurirsi a tempi di record. Ad oggi si sono susseguite una decina di ristampe per un milione di copie tirate e oltre settecentomila vendute. Le case editrici si sono mosse dai quattro angoli del pianeta, e dalla Corea all’Italia, dagli Stati Uniti al Giappone hanno preso d’assalto il telefono della Indigène Editions. Oltralpe Indignatevi! è diventata la parola d’ordine: se ne discute nei caffè, ci si scalda sui giornali e nelle tivù, e anche il primo ministro François Fillon si è sentito in dovere, qualche giorno fa, di dire la sua nel corso della conferenza stampa di inizio anno per calmare gli animi di chi vuole mettere a profitto questa chiamata alla mobilitazione.
«Sinceramente non me lo aspettavo», ci dice Hessel quando la moglie trova anche per il cronista de l’Unità un po’ di tempo prima di cena per discutere di democrazia e partecipazione col sollecitatissimo autore del bestseller del momento. Che ci confessa che forse il successo dipende dal fatto che si tratta di un libro corto e semplice; che forse anche il prezzo «a buon mercato», soli tre euro di costo, ha contribuito; o forse, ma qui Hessel calca sulla voce, semplicemente si tratta di un «titolo provocatore che arriva in un momento in cui molta gente è insoddisfatta del modo in cui la società è governata». Se in Italia il berlusconismo è un narcotico della democrazia che trasforma in catalessi la partecipazione alla res pubblica, non è che in Francia il sarkozismo sia questo propulsore della storia, così come in ogni luogo dove la politica è prona agli interessi di parte, «spesso economici e finanziari». E, dice Hessel «la democrazia senza partecipazione non è più democrazia». Se un tempo l’indignazione era «il primo passo» verso la partecipazione, verso, insomma, l’impegno a cambiare lo stato di cose presente, come si diceva, oggi le ingiustizie macro e micro economiche, le angherie più volgari, lo sfruttamento, la corruzione, la sofferenza anche individuale, sembrano non più in grado accendere alcuna miccia. Ognuno nel proprio angolo a cercare di sbrigarsela, dimentichiamo che la realtà non è un dato immutabile, ma il prodotto dell’azione umana e, magari insieme agli altri, «possiamo provare a cambiarla», dice Hessel.
«Forse per noi era più facile indignarci, le cose erano più chiare», aggiunge, facendo riferimento alla Resistenza al nazifascismo. Lui stesso, «indignato» per l’occupazione raggiunse da Londra la Francia libera del Generale De Gaulle che «aveva saputo dire no e resistere». Per le sue attività durante la guerra venne anche catturato e deportato in vari campi di concentramento tedeschi, ma per una serie di fortunate vicende riuscì prima a salvare la pelle e poi a fuggire. Ciò gli consentì di partecipare da protagonista prima all’avventura del Consiglio nazionale di resistenza e poi addirittura alla commissione dell’Onu incaricata di stendere la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo.
E a quei valori Hessel fa ancora riferimento. «Quello che dico nel libro è che ci sono un certo numero di valori fondamentali in nome dei quali è necessario indignarsi, e sono i valori della dichiarazione dei diritti universali e quelli della resistenza, che sono valori collettivi forti minacciati» da un potere del danaro che non è mai stato così «grande, insolente ed egoista» come oggi. E ci racconta di come l’interesse generale guidava invece l’azione degli uomini usciti dalla guerra e di come li portò a creare uno Stato che ridistribuiva le ricchezze più equamente.
«In questo mondo ci sono cose insopportabili, e per vederle basta solo guardarle». L’indignazione dei giovani, e non solo, può accendersi di fronte al divario «sempre più intollerabile» tra ricchi e poveri, di fronte alle politiche d’espulsione dei rom e degli immigrati, di fronte alla distruzione del pianeta. Il catalogo è lungo, ma Hessel resta nonostante tutto un incredibile ottimista, un uomo dalla speranza di ferro convinto seguace di un idea semplice che gli viene da Jean-Paul Sartre e recita che bisogna impegnarsi in quanto individui responsabili, perché «la responsabilità non la si può rimettere né al potere né a dio».
Lui che poteva aspirare ad un’esistenza tranquilla, quasi da favola, essendo il figlio di Franz Hessel (traduttore, agiato intellettuale e protagonista nella realtà del triangolo amoroso trasposto sullo schermo da François Truffaut in Jules e Jim), acceso dall’indignazione e mosso dalla speranza, ha invece modellato la sua vita, prima nella resistenza e poi nella diplomazia di alto rango, nell’impegno e il servizio dei valori universali. E ancora oggi conserva l’ottimismo e la speranza tra i suoi orizzonti di condotta. «Le cose possono sempre migliorare, anche oggi, se c’è uno scatto collettivo dei cittadini, una mobilitazione attiva, coraggiosa e fiduciosa in se stessa».
E la speranza riporta i ricordi di Hessel all’amico Walter Benjamin, il filosofo tedesco che salutò a Parigi, nell’estate del ’40, prima di partire fiducioso verso la Resistenza. «Benjamin aveva una visione diversa della storia. Io ero un hegeliano, lui vedeva la catastrofe incombente e forse quella catastrofe lo ha raggiunto nell’hotel di Port Bou, dove braccato dai nazisti si è tolto la vita». Da Benjamin Hessel ha però imparato che la storia non è esente dal rischio di chiudersi drammaticamente, ma persiste in lui, anche alla fine della sua vita, la fiducia nelle capacità collettive dell’uomo. L’importante, chiude prima di congedarci, è «non restare inattivi, non restare indifferenti e non lasciarsi scoraggiare». Consigli di un giovane vecchio.

il Fatto 16.1.11
Il tradimento degli intellettuali
Tabucchi attacca i francesi e Le Monde taglia il suo intervento
L’articolo tagliato da Le Monde
Cesare Battisti e gli errori di Lévy
di Antonio Tabucchi


Pubblichiamo il testo di Tabucchi uscito nell’edizione pomeridiana di “le Monde” di sabato 15 gennaio. In caratteri evidenziati le frasi tagliate da “Le Monde”, nel cui consiglio di amministrazione siede da qualche tempo Bernard-Henry Lévy
di Antonio Tabucchi

Ora che il caso Battisti è diventato un caso internazionale (la Corte dell’Aia potrebbe proporsi per risolvere la questione fra Italia e Brasile) che mette in crisi i rapporti tra due paesi e le regole del Diritto vigenti in occidente, il gruppuscolo di opinionisti che ha sostenuto il terrorista fa festa. Perché è dalla Francia che l’imbroglio è partito e i pensatori mediatici locali vanno fieri del subbuglio provocato. Li ispira un superomismo middlebrow, un nietzschianismo deteriore e mal interpretato. Ma il caos che hanno in testa alimenta solo il caos esistente, l’attuale crisi della democrazia e una situazione internazionale sempre più tetra.
Cesare Battisti, santificato da alcuni intellettuali francesi, è stato condannato all’ergastolo in Italia per quattro omicidi due dei quali eseguiti personalmente con colpi di pistola alla nuca. Egli esordì come criminale comune rapinando per lucro personale negozi e supermercati fino al momento in cui, in prigione, pensò di mettere la sua esperienza al servizio di un gruppo terrorista (i PAC, Proletari Armati per il Comunismo). Evase dal carcere insieme al terrorista che lo aveva istruito e a un mafioso loro amico. A quel punto, le rapine presero un’altra natura: non erano più rapine a mano armata, si chiamavano “espropri proletari”. E se ci scappava il morto, pazienza.
Battisti fuggì in Francia clandestinamente approfittando della cosiddetta “legge Mitterrand” (Doctrine Mitterrand) che concede il diritto di asilo purché l’ospite non abbia commesso delitti di sangue. Dunque Battisti avrebbe dovuto essere subito arrestato e restituito all’Italia poiché di delitti di sangue ne aveva commessi ben quattro. Invece no, viene dichiarato “rifugiato politico”. La domanda fondamentale è: perché? La mia risposta coincide con quanto ha scritto il magistrato Bruno Tinti su Il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio 2011: “Si entra nel campo delle ipotesi, ma potremmo definirle ipotetiche certezze perché alternative non ce ne sono: Battisti collabora con i servizi segreti francesi a cui vende tutto quello che sa sul terrorismo internazionale. Lo ammetterà anche lui raccontando di essere stato aiutato dai servizi francesi nella sua fuga in Brasile”.
I processi in contumacia a Battisti si sono svolti con le massime garanzie, perché l’Istituto giudiziario italiano, a differenza di quello francese, prevede che il fuggiasco sia comunque assistito da avvocati, beneficio di cui Battisti ha ampiamente goduto. Sottolineo che nel caso di terrorismo contro lo Stato, in Italia il reo è giudicato da un tribunale ordinario che emette una sentenza con motivazioni. In Francia, al contrario, in casi come questi opera un tribunale speciale, al chiuso, ed emette sentenze senza motivazioni (è una delle ragioni per cui la Francia ha più volte subito censure da parte della Commissione europea dei Diritti umani).
Ma veniamo agli intellettuali. L’anziano “nouveau-philosophe” Bernard-Henry Lévy, che sul proprio blog ha messo l’immagine di Battisti accanto a quella di Sakineh, dovrebbe riflettere sull’irresponsabilità di cui si fa carico [prima che in qualche altro luogo (in Corsica, per esempio), nasca un blog analogo con l’immagine della donna iraniana da lapidare accanto a quella di un terrorista in galera. Purtroppo B. H. Lévy ha delle convinzioni che si basano soprattutto sulle proprie convinzioni, e] quando si lancia nella difesa di Battisti così esordisce: “Ignoro se Battisti abbia commesso o no i crimini che gli sono imputati” (Le Point, 19 febbraio 2009). [Degli omicidi, a Lévy, non importa niente: gli interessa quello che lui pensa di Battisti. Ma non è il solo.] Si tratta di una nuova dottrina dei nostri tempi: l’hanno già abbracciata Berlusconi in Italia, il ministro Hortefeux in Francia e, negli Stati Uniti, George Bush, quando Colin Powell anni fa all’Onu affermò che delle prove concrete degli osservatori dell’Onu sull’Iraq non gliene fregava assolutamente niente. Del resto la visione molto curiosa della Storia propria e altrui, B. H. Lévy l’aveva già espressa in una sua rubrica tirando in ballo le amnistie del governo francese: “È quello che abbiamo fatto noi francesi amnistiando sotto De Gaulle gli amici del Front de Libération Nationale (dell’Algeria), e poi, con Mitterrand, i crimini dell’OAS. E questo è il vero servizio che possiamo rendere oggi ai nostri amici transalpini: aiutarli a pensare, volere quest’amnistia; farli beneficiare della nostra piccola esperienza storica in queste faccende fortemente scottanti...” (Le Point, 8 luglio 2004). Ma chi è chi in questo forzato abbinamento? Il FLN sarebbe il terrorista e l’OAS la magistratura? Inoltre, sull’amnistia francese, il discorso sarebbe lungo perché è noto che ha favorito soprattutto l’OAS. [Comunque non abbiamo bisogno dei paternalistici consigli di B. H. Lévy: che li venda alle anime semplici.]
Questi intellettuali, nel riferirsi con arroganza alla magistratura italiana, ignorano il prezioso servizio che i magistrati hanno reso alla democrazia e alla Costituzione italiane. [Non sanno che se il terrorismo (rosso e nero) non ha avuto derive autoritarie è grazie alla nostra magistratura.] Non sanno che la magistratura ha fatto arrestare in questi anni centinaia di mafiosi, di camorristi, di politici corrotti di tutti i partiti. E non sanno che molti di questi magistrati hanno pagato con la vita. Ed evidentemente non sanno che Silvio Berlusconi, fin dal suo arrivo al potere, ha definito la magistratura “un cancro da estirpare”. E dal suo punto di vista è davvero un pericolo, perché la magistratura in Italia è indipendente, non obbedisce al ministro della Giustizia come in Francia.
Alla mancanza di informazione della scrittrice di polizieschi Fred Vargas (pseudonimo di Frédérique Audoin-Rouzeau), che è diventata la filosofa del diritto più preparata di Francia sul caso Battisti, aveva risposto come si deve il magistrato Armando Spataro su le Monde del 14 novembre 2004. Per informazione dei lettori francesi, Armando Spataro è un magistrato al quale si devono inchieste giudiziarie delicatissime e importantissime: mafia, corruzione di politici, servizi italiani “deviati”, illecite operazioni della CIA sul territorio italiano durante la presidenza Bush. [Auspico per questi argomenti una rapida traduzione del suo recente libro Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa (Laterza Editore): sarebbe utile in un paese in cui l’Italia sembra un pianeta lontano. ] Anche la signora Fred Vargas ha le sue “convinzioni”, e non spetta a me convincerla, lei che si è recata in Brasile per svolgere la propria opera di convinzione. Inseguendo il suo eroe e criticando le leggi sui collaboratori di giustizia del sistema italiano, ha però dimenticato la pentita Frédérique Germain, detta Blond-blond, che nel 1988 fece condannare i terroristi francesi di Action Directe, che non ha mai scontato la sua pena perché aveva collaborato con la giustizia. Le ricordo che il gruppo terrorista fu condannato all’ergastolo e lo Stato francese, che avrebbe potuto mostrare maggiore indulgenza, aveva praticamente buttato via la chiave. Nathalie Ménigon, emiplegica dal 1996 per due attacchi celebrali, ha atteso fino al 2008 nella prigione di Bapaume per ottenere la semi-libertà; e Georges Cipriani, impazzito in prigione e portato nel 2001 nel manicomio di Sarreguemines, ha avuto la semi-libertà solo nel 2010. La legge Kouchner sui prigionieri vecchi e malati li ha presi in considerazione in ritardo e ne ha beneficiato in priorità l’ex prefetto collaborazionista Papon.
Un altro intellettuale molto disinvolto su questa faccenda è Philippe Sollers. Ecco alcune sue affermazioni in un’intervista a un giornale italiano: “Poiché la Francia si è pronunciata sul diritto di asilo non ci deve essere estradizione, il diritto di asilo non consiste nel giudicare nel merito (…). In Italia c’è stato anche un terrorismo di Stato molto importante in quegli anni: è stata una vera guerra civile e sociale”. E conclude rivolgendosi al giornalista che lo intervista: “Per noi è solo una questione di diritto. Se lei fosse francese capirebbe facilmente” (Repubblica 5 marzo 2004). Possibile che Philippe Sollers, al quale sta tanto a cuore il Diritto, non si sia reso conto che in Francia esiste ancora una legge arcaica, censurata per l’ennesima volta dalla Commissione europea dei Diritti umani, come la Garde à vue (oltre 24 ore di detenzione in celle del commissariato senza diritto a un avvocato e con visita corporale a discrezione dei poliziotti)? Quanto alle sue altre affermazioni, devo smentirlo. Certo ci fu anche un terrorismo di Stato, ed è quello che ancora non conosciamo, ma non ci fu nessuna guerra civile. E le Brigate Rosse, che alcuni intellettuali francesi vedono come eroi romantici, erano assassini che sparavano alle spalle a magistrati, giornalisti, intellettuali e poliziotti. Ma trovo soprattutto offensivo che altri, che non hanno vissuto quello che hanno vissuto gli italiani, chiedano così superficialmente che l’Italia metta una pietra sopra la nostra storia tragica ancora non chiara. Ci potrà essere un perdono giuridico, ma prima la verità storica deve venire alla luce: gli italiani sanno ancora troppo poco. Scrivo questo articolo in Francia, paese che amo molto e dove spesso vivo. Ma amo la Francia perché conosco bene la sua lingua, la sua letteratura, la sua Storia. Ma questi intellettuali conoscono l’Italia? E l’italiano, lo conoscono? Non è una domanda oziosa. Per leggere le carte dei processi di un tribunale italiano bisogna sapere bene l’italiano.

Corriere della Sera 16.1.11
Mr. Hu va a Washington Prove di dialogo Usa-Cina
Dallo yuan ai diritti umani, il 2010 è stato disastroso
di Massimo Gaggi


«Non si può usare il bianco e il nero per descrivere le relazioni tra Usa e Cina. Non siamo amici né rivali. Sono successe cose buone e meno buone. Ma certamente oggi c’è un clima di diffidenza; sfiducia da tutti e due i lati» . Il «biglietto da visita» confezionato l’altra sera da Hillary Clinton in un discorso pubblico non è dei più incoraggianti: il presidente cinese Hu Jintao arriva martedì sera a Washington per la sua attesissima missione di Stato in un clima molto diverso da quello che si respirava solo due anni fa, quando un Barack Obama appena insediato alla Casa Bianca parlava apertamente della sua volontà di instaurare una relazione speciale con la nuova superpotenza cinese. Traducevano allora gli analisti: Pechino vuole armonia e crescita, Washington ha bisogno della sponda asiatica per ricostruire la sua economia. Saremo governati dal G2, un bonario direttorio informale nel quale i due giganti si concentreranno su ciò che li unisce e lasceranno ai margini i fattori di divisione, a cominciare dai conflitti locali. Ma le cose hanno preso una piega assai diversa: il 2010 è stato un anno di duro confronto tra i due Paesi «e adesso» nota Elizabeth Economy, direttrice degli Studi Asiatici del Council on Foreign Relation, il più importante centro studi di politica internazionale degli Usa, «sedersi attorno a un tavolo e definire un sentiero comune per raggiungere obiettivi di pace e di stabilità economica è divenuto più difficile» . Così la preparazione di un vertice di Washington che tutti definiscono cruciale è avvenuta in un clima estremamente franco e addirittura ruvido, senza le sottigliezze con le quali le diplomazie sono solite smussare gli angoli. Prima la visita del ministro della Difesa americano Bill Gates a Pechino coi cinesi che hanno rifiutato di riallacciare un canale di dialogo permanente tra i capi delle forze armate dei due Paesi e hanno fatto volare per la prima volta il loro nuovo caccia «invisibile» J-20 proprio mentre l’uomo del Pentagono incontrava i generali dell’esercito del popolo: una scelta dall’indubbio significato simbolico condita da un dettaglio curioso e inquietante: il presidente Hu, quando ha incontrato Gates, è parso all’oscuro del volo inaugurale. Semplice dissimulazione o manifestazione dell’arroganza di una casta militare che la leadership politica cinese fatica a tenere a bada? Un altro passaggio cruciale della lunga vigilia del vertice è stato un discorso nel quale il ministro del Tesoro Tim Geithner è tornato a battere sulla necessità di una più rapida rivalutazione dello yuan e di un’apertura della Cina alle imprese e alle tecnologie americane con toni che non si sentivano da tempo. Le fratture Infine la cruda analisi di Hillary Clinton che sembra preludere a una sortita altrettanto severa di Barack Obama. Il quale, oltre a parlare di Iran, di Corea del Nord, di yuan e di debito pubblico, metterà sul tavolo anche la questione dei diritti umani violati dal gigante asiatico. Mentre i suoi ministri preparavano l’appuntamento di Washington con missioni e dichiarazioni pubbliche, infatti, il presidente americano giovedì scorso ha voluto incontrare riservatamente per oltre un’ora cinque dissidenti cinesi la cui identità non è stata rivelata. A loro Obama ha chiesto soprattutto «in che modo l’esercizio arbitrario del potere incide sulla vita di tutti i giorni dei cittadini» . In passato Pechino ha reagito con molta durezza a questo tipo di «lezioni» impartite dall’America. Obama si prenderà il rischio di uno scontro che potrebbe far fallire la visita? Secondo alcuni Hu Jintao, che l’anno prossimo lascerà la presidenza e che, quindi, tiene molto al successo di una missione chiave per la costruzione della sua eredità politica, potrebbe accettare un compromesso: riavviare il dialogo bilaterale sui diritti umani che Pechino ha deciso unilateralmente di troncare un anno fa. Comunque che Obama intenda fare sul serio su questo terreno lo ha confermato ieri la stessa Hillary Clinton che pure, in passato, era apparsa interessata soprattutto alle relazioni economiche tra i due Paesi e timorosa di lanciare offensive velleitarie sui diritti. Cos’è accaduto per indurre gli Usa ad alzare tanto i toni? E dove porterà tutto questo? L’orribile 2010 Tra risorgente nazionalismo dei militari e della parte più conservatrice del gruppo dirigente cinese ed errori di calcolo della diplomazia di Pechino, l’anno appena concluso è stato disastroso per le relazioni tra i due Paesi. Le schermaglie sono iniziate a gennaio quando la Cina ha reagito rabbiosamente (chiudendo, tra l’altro, il dialogo a livello militare) all’incontro di Obama col Dalai Lama e alla concessione di aiuti militari Usa a Taiwan: due atti di routine largamente previsti. L’ «anno orribile» si è poi chiuso con la scelta cinese di lasciare in carcere Liu Xiaobo, il dissidente al quale è stato assegnato il Nobel per la Pace, e di impedire con la forza ad amici e parenti di assistere alla premiazione. In mezzo molti altri episodi, dai rifiuti ripetuti di cooperare con gli Usa ai vertici del G20 e del Fondo monetario sulle questioni del corretto funzionamento dei mercati valutari e del riequilibrio degli scambi commerciali, all’atteggiamento aggressivo assunto nelle dispute territoriali con gli altri Paesi asiatici, dal Giappone (lo scontro su alcune isole contese) al Vietnam. Col risultato di spingere questi Paesi, impauriti dall’espansionismo cinese, a chiedere agli Usa di alzare il profilo strategico della loro presenza sulla sponda asiatica del Pacifico. Democrazia e crisi economica Insomma, in un periodo di crisi e di fragilità finanziaria che rende l’America più dipendente del solito dagli investimenti della Cina, primo sottoscrittore del suo debito pubblico, i passi falsi di Pechino hanno dato la possibilità al governo Usa di spostare in una certa misura il confronto su un terreno a esso più favorevole: quello geopolitico e militare. Qui la Cina, anche se si sta dotando di nuovi missili balistici, sperimenta aerei «stealth» e sta per mettere in mare la sua prima portaerei, è ancora una potenza regionale non in grado di tenere testa agli Usa. Che, secondo il direttore dell'organizzazione umanitaria Human Rights Watch, Tom Malinowski, hanno deciso tornare a difendere con energia i principi di libertà e democrazia anche perché spaventati da una crisi economica che rischia di trasformare la Cina in un vero e proprio modello di sistema per molti Paesi emergenti o del Terzo mondo che fin qui avevano guardato soprattutto ai sistemi liberali anglosassoni. La crisi dell’Europa, che rischia di naufragare sommersa dai suoi debiti e alla quale proprio la Cina sta offrendo una scialuppa di salvataggio fatta di decine di miliardi di dollari di titoli del Tesoro di Grecia, Spagna e Portogallo acquistati dal governo di Pechino, accentua queste preoccupazioni.

Corriere della Sera 16.1.11
Così gli americani strappano a Fidel i medici cubani all’estero
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Cuba va fiera della sua Sanità ed esporta medici. Oltre 37 mila tra dottori e infermieri cubani lavorano in 77 Paesi, Italia compresa. Per il regime è la prova di un impegno al fianco dei deboli che produce anche vantaggi economici. Il Venezuela, ad esempio, paga con importanti forniture di petrolio. I nemici di Fidel, invece, la osservano con sospetto, quasi una quinta colonna castrista. E dal 2006 la «colonia» è diventata il bersaglio di una campagna per favorire la fuga dei medici negli Stati Uniti. Un’operazione organizzata con azioni di intelligence che — secondo il Wall Street Journal — ha spinto 1.574 cubani a fare il grande salto. Mente del piano— conosciuto come Cuban Medical Professional Parole (CMPP)— è un ex funzionario dell’Immigrazione Usa, Emilio González. Colonnello, con un passato nei servizi di spionaggio dell’Us Army, pluridecorato, appartiene ad una famiglia di esuli cubani scappati in Florida. Per González l’invio di medici all’estero non ha nulla di positivo: è «un traffico di esseri umani sponsorizzati da uno Stato» , sostiene. La pensano diversamente quelle popolazioni — come ad Haiti— che hanno beneficiato dell’assistenza sanitaria. Per dottori e infermieri andare all’estero non è solo un impegno di solidarietà (retribuita) ma anche un modo per migliorare le proprie condizioni economiche. Lo stipendio aumenta in modo sensibile— sale a circa 300 dollari— ma se ti va proprio bene puoi arrivare ai 1.000, una fortuna rispetto ai 50 dollari che avresti ricevuto in patria. Inoltre, una volta all’estero, il cubano arrotonda. In alcuni Paesi può acquistare prodotti e beni che rivende a Cuba. In Medio Oriente, poi, alcuni dottori eseguono aborti «segreti» : interventi che porterebbero nelle loro tasche somme considerevoli. Dunque, non è una sorpresa che ci sia una vera gara per essere inseriti nei programmi all’estero. Una volta in missione, i medici devono consegnare il loro passaporto all’ambasciata cubana che è responsabile dei movimenti e della sicurezza. Inoltre sono «invitati» a dotarsi di un cellulare in modo da essere sempre rintracciabili. Ed è ciò che ha fatto Felix Ramírez, un medico partito per il Gambia. Con una variante. Il cubano si è comprato un secondo telefonino che ha usato per organizzare la sua fuga. Ramírez, che oggi vive e lavora negli Usa, ha raccontato di essere partito per l’Africa con l’obiettivo di sfruttare il programma americano. E, con pazienza, ha preparato la sua fuga. Una volta a Bangui ha cercato in un Internet Café il numero di telefono dell’ambasciata statunitense. Poi ha stabilito un contatto con un diplomatico che gli ha dato appuntamento in un mercato popolare. Era il settembre del 2008. Nove mesi dopo Ramírez era a Miami. Una meta raggiunta per tappe, con l’aiuto degli americani e di un trafficante di uomini, che gli ha permesso di arrivare prima in Senegal, poi in Spagna e, infine, in Florida. Con lui altri 5 colleghi provenienti anch’essi dal Gambia. L’esperienza di Ramírez è stata imitata, dal 2006, da molti dottori allettati dall’offerta statunitense. In una lista ottenuta dal Wall Street Journal si precisa che la maggioranza dei transfughi — 824 — sono arrivati dal Venezuela. Una scelta con un prezzo personale da pagare. Tanti sono stati costretti ad abbandonare le loro famiglie a Cuba. Felix Ramírez non sa quando potrà vedere la moglie— nel frattempo licenziata— e il figlio nato poco dopo la sua partenza per l’Africa.